Meditazioni sul Vangelo di Matteo. Capitoli 26-28

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Divo Barsotti

Meditazioni sul Vangelo di Matteo Capitoli 26-28 a cura di p. Martino Massa



Divo Barsotti

Meditazioni sul Vangelo di Matteo Capitoli 26-28 a cura di p. Martino Massa

Società

Editrice Fiorentina


© 2022 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-672-0 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina a cura di Studio Grafico Norfini, Firenze L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte con i quali non sia stato possibile mettersi in contatto


Indice

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Prefazione

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Nota

Meditazioni sul Vangelo di Matteo 21

Passione, morte e resurrezione. Il complotto contro Gesù

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L’unzione di Betania e il tradimento di Giuda

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Preparativi del pasto pasquale e annuncio del tradimento di Giuda

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L’istituzione dell’eucaristia

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Predizione del rinnegamento di Pietro

61

Gesù al Getsemani

71

L’arresto di Gesù

79

Gesù davanti al sinedrio

91

Il rinnegamento di Pietro

97

Gesù davanti a Pilato

105

Dialogo tra Gesù e Pilato

109

Pilato e la folla

119

La corona di spine e la crocifissione


127

Gesù in croce deriso e oltraggiato – la morte di Gesù

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Le manifestazioni straordinarie dopo la morte di Gesù. La sepoltura e la custodia della tomba

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La resurrezione e l’apparizione alle donne

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Sopruso dei Giudei – apparizione in Galilea – missione universale

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Conclusione


Prefazione

«A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici…». Così scrive san Paolo nella prima lettera ai Corinzi ( 1Cor 15,35) compendiando nel mistero pasquale tutto il contenuto del kèrigma cristiano. E giustamente, perché il vangelo non è che questo annuncio: la Passione, la morte, la resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Tutto ciò che gli evangelisti narrano della vita di Gesù ha valore solo in quanto è anticipazione, annuncio profetico del suo mistero pasquale. E ciò è vero in particolare per Matteo che pur essendo meno vivace nel narrare e più didattico degli altri nel voler impostare il vangelo intorno ai grandi discorsi di Gesù, è quanto mai attento nel riportare con grande accuratezza i fatti relativi alla passione, alla crocifissione e alla resurrezione di Gesù, perché è la Pasqua il termine di tutto, evento storico e metastorico insieme: la Pasqua che è Pasqua di morte e Pasqua di resurrezione. Quante volte nella sua lunga predicazione p. Barsotti ripeteva che Pasqua di morte e Pasqua di risurrezione sono l’unico atto in cui precipita la vita dell’uomo e la vita dell’universo. Un esempio valga per tutti. Così egli scrive nel libro Il mistero cristiano nell’anno liturgico: «La morte di Cristo riempie tutto: tutto il tempo, tutto l’universo visibile perché tutto Egli assume. Gesù continua la sua agonia fino alla fine del mondo, diceva Pascal. No, non continua: ma nell’atto presente di quella morte, si compie la fine di tutto, i tempi hanno fine, tutto il mondo precipita nell’eternità. Il mistero, nella sua inscindibile Unità, è insieme l’Atto della morte e l’Atto della 7


resurrezione di Cristo, ma il mondo di oggi non vive, non può vivere che la sua morte. L’apostolo Paolo scrive con divina profondità: «Se uno è morto per tutti, tutti san morti» (2 Cor 5,14)»*. In quell’atto veramente per Barsotti la storia è finita perché non c’è altra meta se non in quel Cristo che con la sua morte di croce e la sua resurrezione ci ha salvati. Adoramus te Christe et benedicimus tibi quia per crucem tuam redemisti mundum siamo abituati a ripetere pregando con la Via crucis. Tutto in quell’atto si compie e non c’è altra salvezza se non in quell’atto. Abbiamo già detto che tutto ciò che precede è solo annuncio e profezia, persino la vita stessa di Cristo, la sua nascita, la sua predicazione, la sua attività taumaturgica appartengono ancora a un’economia profetica. Dio si è fatto uomo e perciò diciamo Verbum caro factum est – il Verbo si fece carne, ma in verità l’incarnazione si compie con il mistero pasquale perché è allora che davvero il Cristo assume l’umanità in tutto il suo dramma e il suo peccato. Ed è nell’atto della sua morte che tutto ciò che è profezia ha termine. Ancora una volta originalissimo don Barsotti si rivela nel suo commento. Proviamo a presentare alcune delle sue inusitate stimolanti riflessioni. Un primo tratto di singolarità che non può passare certo inosservato è l’ardita comparazione tra il Cristo e altre grandi figure religiose dell’umanità, quali Socrate e Buddha, soprattutto quest’ultimo. Ed è proprio in questo originale raffronto che con grande efficacia si mostra l’abisso che vi è tra il cristianesimo e le altre religioni. Familiare alla teologia e alla spiritualità di Barsotti è il tema del rapporto con le altre religioni, al punto da concepire la storia della salvezza come un unico disegno, un unico processo di rivelazione che si invera e si compie nel cristianesimo, in cui confluiscono e la rivelazione cosmica e quella profetica. Ma – chiediamoci – si può veramente parlare di salvezza nelle altre religioni, specie quelle *

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D. Barsotti, Il mistero cristiano nell’anno liturgico, Cinisello Balsamo, ed. San Paolo, 2004, p. 142.


asiatiche? O meglio, il termine salvezza nelle altre religioni ha lo stesso significato che ha nel cristianesimo? Non c’è dubbio che in tutte le religioni vi è un desiderio e una speranza di salvezza in senso lato, come se l’uomo volesse uscire da un mondo di male, che lo tiene prigioniero, l’anelito dell’uomo verso l’infinito, verso un bene che va oltre quest’orizzonte terreno ecc., ma se si vuol parlare esplicitamente di salvezza in senso cristiano il discorso si fa equivoco. Salvezza per le religioni asiatiche equivale a gnosi intesa come conoscenza che dissipa le tenebre dell’ignoranza, che dissolve il velo di maya di questo mondo illusorio che avvolge l’esistenza dell’uomo. Così nel Buddhismo il più alto grado di conoscenza fa di ogni discepolo un “buddha”, un illuminato che è ormai pronto al distacco da questa vita contrassegnata dall’impermanenza, dalla sofferenza e dall’illusione, all’estinzione di sé nel nirvana. E non importa qui tanto il rapporto, il legame del discepolo col maestro in quanto tale, dal momento che esso è finalizzato unicamente all’acquisizione di quella conoscenza necessaria alla liberazione; dopodiché il rapporto non ha più ragion d’essere. Il discepolo non deve più ricercare il maestro e il maestro deve respingere il discepolo: così accade per Buddha e il discepolo Ananda. Quello che importa è l’insegnamento, l’iniziazione, la dottrina, non vi è spazio per un rapporto personale perché manca la nozione di persona, la persona è attraversata e superata, non conta nulla. Tutto rimane impersonale, non c’è pathos, non c’è dramma. Quanto siamo abissalmente lontani dal cristianesimo! Si possono cercare analogie, e Barsotti le evidenzia, tra la morte di Gesù e la morte di Buddha – l’incontro di Buddha con una donna prima della morte analogamente a Gesù che incontra Maria di Betania, la solitudine deI Buddha nel giardino dei manghi e la veglia di Gesù nell’orto degli ulivi, l’ultimo pasto di Buddha con l’avvelenamento, e l’ultima cena di Gesù col tradimento di Giuda – ma quale infinita distanza vi è tra Buddha e Gesù. Lì, nel Buddhismo vediamo inoltre che l’esistenza come tale è concepita come male, di conseguenza l’unica salvezza è la 9


negazione assoluta di essa, l’estinzione di sé, l’annullamento dell’io quale radice di ogni male e dolore, ma ciò che colpisce di più è la conseguenza di tutto ciò, il fatto che sovrasta una pace che è un puro silenzio di morte, come se questo silenzio fosse già l’esperienza dell’inferno come vuoto, come nulla, dal momento che la cancellazione del dolore coincide con l’annientamento dell’uomo. In colui che ha raggiunto il risveglio non deve rimanere più alcuna traccia di umana pietà, si nega l’uomo nella sua interiorità più profonda, il suo spirito, la sua anima, le sue passioni, i suoi sentimenti ed emozioni, i suoi affetti più profondi, manca ogni indizio di pietà e di misericordia, non c’è amore non vi è spazio per la persona, non c’è spazio per lo struggimento del cuore, per i sentimenti di compassione, che anzi devono morire per sempre. Tutto ciò che è umano deve morire: è la legge di necessità ferrea che sancisce l’estinzione di tutto. Anche l’unica traccia di umana pietà – il pianto di Ananda per il suo maestro – deve scomparire. Inoltre ciò che contraddistingue l’epilogo della vicenda umana del Buddha e assurge a valore paradigmatico per ogni iniziato alla sua scuola è la dimensione individualistica della salvezza dove regna sovrano un egoismo assoluto per cui alla fine non vi è spazio alcuno per nessuno se non per se stesso una volta che il maestro ha compiuto la sua missione, egoismo radicale che tra l’altro mal si concilia con il fine che si vuole raggiungere, che è appunto la distruzione dell’io. Nel momento supremo Buddha vive infatti nella sua solitudine e pensa solo per sé. Anche qui Buddha non conosce l’amore. Forse si può parlare al massimo di benevolenza, ma quale amore vi può mai essere se la persona è negata e il rapporto non esiste più? Quale abisso col cristianesimo! In Gesù Cristo c’è tutto il fremito della sua umanità dentro la sua divinità, tutto il dramma della sofferenza umana fino alle soglie della disperazione Gesù assume su di sé proprio perché egli è venuto per salvare l’uomo caduto e perduto. Veramente Gesù è spogliato delle vesti, come ricordiamo nella via crucis perché veramente svuota se stesso come Dio, si spoglia di ogni prerogativa e attributo di10


vino per rivestire la nostra povera e disperata umanità. Niente è estraneo a Gesù di ciò che è umano, tutti i sentimenti e le emozioni umane egli non le attraversa, non le percorre sorvolandole come di sfuggita, non le vive in maniera accidentale ma le conosce e le esperimenta fino in fondo, si vede questo già nella sua vita ma soprattutto si vede nella sua passione e nella sua morte. Toccante quanto scrive Barsotti. «Non così muore Gesù. È più umana ed è più divina la sua morte. Più umana, perché effettivamente l’esistenza non è un male assoluto dal quale dobbiamo liberarci. Dobbiamo liberarci dai mali dell’esistenza, non dall’esistenza come tale. E per questo, siccome l’esistenza rimane un bene, Gesù soffre una morte, vive un’agonia nel Gethsemani – e questa rottura gli fa paura e lo fa gemere. L’uomo rimane uomo. Ma come è più divino! Perché? Perché Egli vive in una purezza assoluta, cioè in un’assoluta libertà da ogni egoismo. Nostro Signore lega a Sé tutte quante le cose, per tutte quante Egli soffre; Egli vive la passione di tutti gli uomini, il peccato di tutti. Invece di affrancarsi come Buddha, nella sua morte Egli si lega, si lega a tutte le cose. Egli ha assunto una natura umana nel seno della Vergine; Egli assume tutto il peccato del mondo nella sua morte di croce. La morte non scioglie Gesù da questo mondo: lo lega a tutti noi nel modo più intimo, nel modo più profondo. Proprio perché libero da ogni egoismo Egli può comunicare tutto Sé stesso a ciascuno, può ricevere in Sé ciascuno di noi totalmente – cosa che Buddha non fa, cosa che non fa nemmeno Socrate, ma tanto meno Buddha. Buddha non riceve nemmeno i suoi discepoli, egli non li ama, in fondo. Nulla lo tocca, né il bene né il male, né l’amore né l’odio. E Gesù invece è toccato e raggiunto fin nelle più intime fibre dell’essere suo dall’odio del mondo e dall’amore degli uomini. Egli chiede l’amore: che cosa meravigliosa! Un Dio che chiede l’amore! Un Dio che chiede consolazione agli uomini: a Pietro, a Giacomo, a Giovanni. Più uomo e più Dio, Gesù!». Una seconda novità concerne un tema messo in grande risalto e che rende veramente unica la passione e la morte 11


di Gesù: il dramma di una lotta: non solo la salvezza portata da Gesù non è la pace che è annullamento di tutto, negazione di questo mondo apparente e impermanente, cancellazione di ogni persona e individualità, azzeramento di ogni differenza, assenza anzi morte di tutto ciò che è umano, ma l’esperienza della lotta fino all’ultimo sangue contro il male, contro l’impero delle tenebre, e non solo, perché il male non è un male metafisico e impersonale, la lotta infatti tra un mysterium salutis e un mysterium iniquitatis diviene in Gesù una lotta contro il principe di questo mondo, Satana. E veramente la redenzione è il riscatto che è costato il sangue di un Dio, un Dio che è divenuto l’uomo Gesù. Barsotti ben lo evidenzia in due questi termini: «Il mondo del male tutto si fa presente nella presenza dell’infinita misericordia di Dio che offre Sé stesso per la salvezza di tutti. Mai il male e il bene, mai il peccato e la santità si sono più uniti come in questo Atto: e naturalmente chi ha vinto non è stato che l’Amore, non è stato che Dio. Non la dissipazione dell’ignoranza poteva salvare, ma la lotta intrapresa da Cristo contro il Maligno – questa, poteva salvarci. Di fronte a una salvezza che per i Greci e per gli Indù si ottiene soltanto con la conoscenza che dissipa la nebbia dell’ignoranza e dell’illusione, la lotta di Gesù contro il principe delle tenebre, il male, non è illusione: il male è una realtà con la quale Dio stesso ha dovuto lottare, con la quale Dio stesso ha dovuto scontrarsi nella sua agonia, nella sua morte. Così si spiega come la morte di Gesù, anche per chi non crede, o non voglia o non sappia riconoscere in Gesù Cristo il Figlio di Dio, sia immensamente più grande della morte di un Socrate o di un Buddha Gautama, anche se la morte dell’uno e dell’altro, considerati fra i più grandi uomini che l’umanità abbia posseduto, ha un valore di esemplarità e di grandezza indiscutibile». A questo punto possiamo affermare che avendo dovuto Gesù combattere contro lo spirito del male ha dovuto subire e vincere tutte le tentazioni che Satana ha sferrato contro la sua umanità. 12


Così il discorso sul combattimento di Gesù ci porta quasi naturalmente al terzo elemento di novità di queste meditazioni di Barsotti: le analogie tra la passione e le tentazioni nel deserto. È ora che davvero le tentazioni si fanno presenti in tutta la loro violenza fisica e psicologica e Gesù le vince una volta per sempre. Gesù è sottratto sì al peccato, ma non si è sottratto a quella prova per la quale, come insegna la lettera agli Ebrei, «imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» ( Eb 5,8-9). Nella natura umana assunta egli non ha voluto sottrarsi alla violenza di quelle passioni e di quegli istinti che nel peccato d’origine hanno la loro radice per strappare l’uomo a se stesso, alla legge dell’egoismo e ordinarlo a Dio. Barsotti così spiega: «Le tre tentazioni si fanno presenti come pena. Gesù non vive il peccato in quanto lo commette, ma lo vive in quanto ne soffre tutta la pena. E alla tentazione della carne risponde ora la passione della sua carne; e alla tentazione dell’orgoglio risponde ora la passione della umiliazione, dell’avvilimento, dell’abiezione più fonda, dell’abbandono totale; e alla tentazione di volersi servire di Dio per difendere Sé, per affermare Sé, risponde ora questa assoluta impotenza, questo sentimento anche dell’abbandono divino». Altra novità riguarda la concezione del nostro rapporto con Cristo. Molto spesso anche le tante forme di devozioni popolare pur rappresentando un mezzo apprezzabile e validissimo per incrementare in noi l’amore per Cristo, per penetrare nella sua umanità, per aiutarci a crescere e vivere la nostra unione con Cristo, a sentire viva la sua presenza, a fare nostri i suoi sentimenti, possono anche tuttavia rivelarsi un’ostacolo al nostro cammino spirituale nella misura in cui ci si ferma a considerare la persona del Cristo come fosse il termine ultimo, come se tutto terminasse nella nostra identificazione con lui, mentre il termine della vita cristiana non è Cristo ma il Padre. Cristo è via oltre che essere verità e vita e rimane per sempre la via, la via che conduce al Padre. Egli è 13


il Figlio di Dio divenuto uomo e nella sua umanità rimane il mediatore tra noi e Dio Padre. Egli è venuto nel mondo proprio per questo, per rivelarci il volto del Padre perché possiamo dire Abbà, Padre. Gesù non cerca e non vuole nulla per sé, è sempre e unicamente rivolto verso il Padre. Potremmo dire parafrasando un po’ il prologo del vangelo di Giovanni che come il Verbo eterno è sempre rivolto verso il Padre così anche l’umanità di Gesù è rivolta verso il Padre, nulla volendo per sé e nulla facendo servire a sé stesso. E Gesù tutto assume nella sua umanità per presentarlo e portarlo al Padre. Ecco per esempio quanto scrive Barsotti a proposito dell’abbandono che vive Gesù sulla croce. «Egli ti assume; tu, indubbiamente, devi amare Gesù, ma questo amore non ha termine nel Cristo: ha termine in una tua identificazione con Lui perché poi, tu insieme a Lui, fatto una sola cosa con Lui, nell’amore, possa vivere nel seno del Padre, possa ordinarti totalmente al Padre, immergerti nella sua luce infinita, perderti in Lui eternamente. L’amore per Cristo, insomma, è sempre una via, non è il termine della vita cristiana. Di qui la relatività di ogni spiritualità cristiana che termini nell’amore per Nostro Signore Gesù. Nostro Signore è mediatore, nostro Signore è tuo fratello, nostro Signore è Colui che assumendoti come membro del suo Corpo, ti fa vivere questa relazione totale di amore per il Padre celeste. Non in Lui dunque deve terminare il nostro amore. Si vede bene che nella morte nulla Egli chiede per Sé, e nulla riceve per Sé, né dagli uomini né del cielo – gli uomini tutto gli rifiutano». Infine, un’altra bellissima originale riflessione riguarda le apparizioni Gesù risorto in rapporto con le manifestazioni angeliche. Non è infrequente nella predicazione di don Divo il tema del nostro rapporto con gli angeli, ma il soffermavisi qui nel contesto delle apparizioni del Risorto assume un significato speciale. Egli nota come la prima esperienza che le donne vivono non è direttamente quella dell’incontro con il Risorto ma quella della presenza degli angeli, ed è qualcosa che ci ricorda e ravviva la coscienza della bellezza e della 14


grandezza del nostro essere cristiani. Noi siamo testimoni del Risorto e a noi oggi come un tempo alle donne gli angeli rivolgono l’invito gioioso a vedere, ad andare ad annunciare che egli è davvero risorto e non è più nella tomba. Con la resurrezione del Signore noi siamo entrati nel mondo di Dio, nella nuova creazione. Il primo effetto è questa comunione con il mondo soprannaturale, la famigliarità con gli spiriti celesti. Il cerchio così si chiude. Noi celebriamo infatti il mistero del Natale con la presenza degli angeli che ci invitano a Betlem mentre essi cantano la gloria di Dio nell’alto dei cieli e la sua pace discesa sulla terra. Allo stesso modo, essi che sono i primi testimoni della resurrezione rivolgono a noi lo stesso invito il giorno di Pasqua: venite, vedete dove era deposto. Ecco quanto scrive don Divo: «Se siamo cristiani, che cosa siamo se non i testimoni della resurrezione di Gesù? Altrimenti non siamo nemmeno cristiani. Siamo cristiani nella misura che siamo testimoni di questa resurrezione. È chiaro. E dunque, la nostra esperienza è l’esperienza degli angeli, è l’esperienza della loro parola, del loro invito, del loro richiamo. “Venite e vedete”: anche noi siamo invitati a vedere che il sepolcro è vuoto, che il Cristo è risorto. Anche noi. Tutta qui è la nostra esperienza: un lasciare di notte – come nelle notti di san Giovanni della croce – la nostra casa, per andare da Lui; un incontrarci con gli angeli, un essere invitati da loro ad entrare là dove Gesù riposava, per poi, disposti da questo ministero angelico, da questa comunione di vita con loro, incontrarci nella strada, quando meno lo pensiamo, con Lui stesso che viene (Lc 24, 13 ss.)». Padre Martino Massa CFD

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Nota

Purtroppo nelle meditazioni di Barsotti quasi mai sono riportati per esteso i brani del Vangelo. Pertanto è difficile stabilire quale traduzione del Vangelo egli ha utilizzato. Sembra che egli si sia servito di diverse traduzioni scegliendo liberamente di volta in volta ora l’una ora l’altra. Tra queste solo una è facilmente individuabile: è quella che sicuramente Barsotti ha preso dall’edizione italiana del commento a Matteo di Josef Schmid, autore consultato e citato varie volte nelle sue meditazioni su Matteo. Dalle citazioni risulta che egli ha utilizzato la seguente edizione: J. Schmid, L’evangelo secondo Matteo, Brescia, Morcelliana, 1957. Sulle altre versioni da lui usate si possono fare solo congetture a motivo della lacunosità del testo. Dovendo comunque scegliere per questioni di uniformità una sola tra le tante traduzioni italiane esistenti abbiamo optato per l’ultima versione CEI che si trova nella Bibbia di Gerusalemme.

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Meditazioni sul Vangelo di Matteo Capitoli 26-28



Passione, morte e resurrezione. Il complotto contro Gesù

Mt 26, 1-5 Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso». 3Allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si chiamava Caifa, 4e tennero consiglio per catturare Gesù con un inganno e farlo morire. 5Dicevano però: «Non durante la festa, perché non avvenga una rivolta fra il popolo». 1

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Un confronto tra Gesù, Socrate e Buddha Si inizia la passione del Signore. La Buona Novella in fondo non è altro che l’annuncio di questa morte: i discorsi di Gesù la preparavano, ne dicevano gli effetti, ne suggerivano il contenuto, il mistero. E non solo la storia di Israele, ma la vita di Gesù non era che una lunga preparazione a questo Atto in cui doveva riassumersi tutta la vita del mondo e dal quale tutta la creazione avrebbe ricevuto la salvezza e la vita, gli uomini che erano caduti in peccato e anche gli angeli. Così si spiega come intorno alla passione di Gesù, intorno a Gesù morente si agiti il mondo. Il mondo del male tutto si fa presente nella presenza dell’infinita misericordia di Dio che offre Sé stesso per la salvezza di tutti. Mai il male e il bene, mai il peccato e la santità si sono più uniti come in questo Atto: e naturalmente chi ha vinto non è stato che l’Amore, non è stato che Dio. Non la dissipazione dell’ignoranza poteva salvare, ma la 21


lotta intrapresa da Cristo contro il Maligno – questa, poteva salvarci. Di fronte a una salvezza che per i Greci e per gli Indù si ottiene soltanto con la conoscenza che dissipa la nebbia dell’ignoranza e dell’illusione, la lotta di Gesù contro il principe delle tenebre, il male, non è illusione: il male è una realtà con la quale Dio stesso ha dovuto lottare, con la quale Dio stesso ha dovuto scontrarsi nella sua agonia, nella sua morte. Così si spiega come la morte di Gesù, anche per chi non crede, o non voglia o non sappia riconoscere in Gesù Cristo il Figlio di Dio, sia immensamente più grande della morte di un Socrate o di un Buddha Gautama, anche se la morte dell’uno e dell’altro, considerati fra i più grandi uomini che l’umanità abbia posseduto, ha un valore di esemplarità e di grandezza indiscutibile. In queste due morti rimane qualche cosa che noi non possiamo accettare: come un voluto misconoscimento di quelle che sono le ragioni ultime della vita, di quelli che sono i valori supremi. Questo soprattutto è vero per Buddha anche più che per Socrate. La morte di Buddha ha una grandezza che ci sgomenta, superiore certo a quella di Socrate, perché Socrate in fondo credeva, aspirava all’immortalità, la vedeva vicina; mentre Buddha non insegna che la sua totale estinzione, non accettata, ma voluta. Come questa estinzione totale si possa conciliare, per lui – che insegnava non la beatitudine, perché è al di là della beatitudine come del bene del male il suo insegnamento – con una salvezza, come si possa conciliare con una liberazione, non si comprende. Che cosa salva il nulla? Da che cosa ci libera? «Dal male dell’esistenza», ci può dire Buddha. Ma se l’esistenza è soltanto un male, allora il bene in che consiste? Buddha non l’ha saputo dire. Di qui il carattere equivoco di un insegnamento, che può essere anche sublime, ma equivoco tuttavia, come equivoca è la morte di quest’uomo grande. Qualche punto di somiglianza vi può essere fra l’uno e l’altro, fra la morte di Gesù e la morte di Buddha. Tanto in Gesù come in Buddha l’inizio della morte è l’incontro con 22


una donna. Gesù si incontra con Maria di Betania (Mt 26, 6) e viene da lei come consacrato per l’atto che Egli deve compiere come Sacerdote unico ed eterno nell’offerta che Egli farà di Sé stesso al Padre per la redenzione del mondo. Buddha Gautama si incontra pure con una donna: l’etèra Ambapali, che lo invita a mangiare nella sua casa e offre poi il suo magnifico giardino di manghi per lui e per i suoi monaci. Se vi è un inizio che sembra somigliante, ma che è invece infinitamente diverso, come diverso è il seguito! Nel bosco di manghi lo trova il suo discepolo preferito, Ananda, contento che il “Sublime” abbia vinto la morte; il mondo ha ancora bisogno della sua parola! Buddha non accetta le parole del discepolo: I discepoli hanno la sua dottrina, basta questo – lui deve morire, perché «tutto ciò che nasce deve morire». Egli allontana la tentazione. Anche Gesù fu tentato nel Gethsemani: altra analogia. Buddha lascia il giardino dei manghi e va a predicare la sua dottrina fino all’ultimo giorno. A Vaishali, Kunda gli offre ospitalità e Buddha accetta un piatto di funghi, che però son velenosi. Se ne accorge, ma non può rifiutare quello che gli viene offerto: ne mangia, ma fa seppellire sottoterra quanto ne resta perché solo “il Sublime”, lui stesso, ne può mangiare, nessun altro, è lui che deve morire. Nonostante i terribili effetti del veleno Buddha continua il suo pellegrinaggio: stanco si stende ai piedi di un albero; ha sete e chiede da bere, dà ad Ananda la sua ciotola da mendicante, poi beve, si alza e va al fiume, si bagna e beve ancora. Si accorge che un eremita vuol vederlo: è morente, ma deve insegnare ancora. Non ha rimproveri per Kunda che l’ha fatto morire, anzi gli è grato perché proprio per lui il Buddha va nella “totale estinzione”. Riprende invece Ananda che piange: «Non è giusto per te, Ananda, piangere: tutto quello che nasce deve morire. Perché piangere dal momento che io vado verso la totale estinzione che vuol dire la totale liberazione, che non rinascerò mai più?». Rinascere, vivere, è pena, è l’inferno, per Buddha. 23


Anche per l’Induismo è così, sembra. Queste dottrine, questi popoli, non sono mai giunti alla nozione della persona. Buddha dice queste ultime parole, prima di morire: «Monaci, vi esorto. Periscono tutte le cose: lottate senza tregua per liberarvi di tutti i legami con un mondo transeunte». Non esiste un mondo permanente per il Buddhismo. L’anima stessa, l’uomo stesso, è un fascio di sensazioni. Non c’è nulla di permanente nell’uomo, nemmeno durante la sua vita. E allora? Se è “male” l’esistenza, che cosa è “bene”? Può essere un male relativo; ma di fronte all’esistenza che è “male”, che cosa è “bene”? La totale estinzione: questa è la salvezza. La salvezza è dunque il nulla. Per l’Induismo il “nirwana” non è il nulla: è una identificazione col “tutto”, piuttosto. Ma non così per Buddha. Per Buddha anche gli dèi sono il male, perché “esistono”; essi stessi debbono imparare da Buddha a liberarsi da un’esistenza che è cosa che passa anche se per loro sarà più lunga la vita. La morte per il nulla. Che cos’è questo nulla è difficile dirlo! Ma lasciamo andare la dottrina di Buddha! La morte di Buddha nella perfetta calma, in una serenità luminosa, è di una grandezza reale. Egli sembra al di sopra della vita e della morte. Non conosce nessuno, non ha nessun legame – imperturbabile, incorruttibile, egli vive al di sopra, è intangibile al mondo. Non esistono più per lui né dèi né demoni, né uomini né cose; non esiste che questa calma imperturbabile, di cui non possiamo sapere il contenuto. È il possesso dello spirito, di uno spirito affrancato dai legami col mondo, di uno spirito umano che, di fatto, è immortale. Ma questa esperienza dello spirito umano rimasto nella sua solitudine senza comunione con nulla, con alcuno, non è dunque l’inferno? Non così muore Gesù. È più umana ed è più divina la sua morte. Più umana, perché effettivamente l’esistenza non è un male assoluto dal quale dobbiamo liberarci. Dobbiamo liberarci dai mali dell’esistenza, non dall’esistenza come tale. E per questo, siccome l’esistenza rimane un bene, Gesù soffre una morte, vive un’agonia nel Gethsemani – e questa rottura 24


gli fa paura e lo fa gemere. L’uomo rimane uomo. Ma come è più divino! Perché? Perché Egli vive in una purezza assoluta, cioè in un’assoluta libertà da ogni egoismo. Nostro Signore lega a Sé tutte quante le cose, per tutte quante Egli soffre; Egli vive la passione di tutti gli uomini, il peccato di tutti. Invece di affrancarsi come Buddha, nella sua morte Egli si lega, si lega a tutte le cose. Egli ha assunto una natura umana nel seno della Vergine; Egli assume tutto il peccato del mondo nella sua morte di croce. La morte non scioglie Gesù da questo mondo: lo lega a tutti noi nel modo più intimo, nel modo più profondo. Proprio perché libero da ogni egoismo Egli può comunicare tutto Sé stesso a ciascuno, può ricevere in Sé ciascuno di noi totalmente – cosa che Buddha non fa, cosa che non fa nemmeno Socrate, ma tanto meno Buddha. Buddha non riceve nemmeno i suoi discepoli, egli non li ama, in fondo. Nulla lo tocca, né il bene né il male, né l’amore né l’odio. E Gesù invece è toccato e raggiunto fin nelle più intime fibre dell’essere suo dall’odio del mondo e dall’amore degli uomini. Egli chiede l’amore: che cosa meravigliosa! Un Dio che chiede l’amore! Un Dio che chiede consolazione agli uomini: a Pietro, a Giacomo, a Giovanni. Più uomo e più Dio, Gesù! Nella purezza totale da ogni egoismo Egli vive la comunione più intima, più profonda con tutti, tanto che in Lui, nell’atto della sua morte, tutta la creazione veramente vien rinnovata. «Un fremito passa – dicono i testi canonici del Buddhismo – un fremito passa su tutto l’universo alla morte di Buddha». Ma non è nulla, questo fremito, in paragone di quello che avviene all’atto della morte del Cristo: non un fremito ma una redenzione, una rinnovazione dell’universo si compie, una nuova creazione di tutto, perché tutto in quell’istante è assunto da Dio e offerto al Padre. In quell’istante viene redento non un uomo – Buddha è lui solo che è redento nella sua morte, lui solo che è liberato e “compiuto” – non l’umanità soltanto di Gesù è salvata e redenta, ma tutti gli uomini di tutti quanti i secoli, di tutte le generazioni, di tutti i popoli della terra; tutta quanta la creazione è redenta, tutta nell’atto 25


di questa morte. Tutta Egli la porta con Sé, tutta l’assume, tutta la stringe al suo cuore, tutta la lega a Sé stesso per farsi solidale con tutto. Invece di sciogliersi, si lega: ecco l’amore. Di qui il carattere totalmente diverso della morte di Gesù dalla morte di Buddha e anche di Socrate. Questi uomini, quanto più sono grandi tanto più si separano, tanto più si liberano da ogni legame con gli altri uomini; quanto più sono grandi tanto più si distaccano, sono solitari. Gesù dice invece: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19). Egli vuole che gli uomini lo ricordino, chiede di esser presente nel cuore di coloro che Egli ama. Buddha deve totalmente estinguersi. «Che cosa vi importa di me?» –non capisce nemmeno le lacrime. Un unico punto di pathos vi è in tutti i libri canonici del Buddhismo, che sono settecentocinquanta: il pianto di Ananda, a cui però non risponde una parola di comprensione, di commiserazione. A Buddha non importa che gli altri pensino a lui: quel che conta è la sua dottrina. «Solo quando il Sublime, avendo tolto dalla mente tutte le rappresentazioni, essendo liberato da ogni sensazione, ha raggiunto il raccoglimento dell’anima senza rappresentazioni, solo allora, Ananda, il corpo del Sublime si sente bene. Perciò, Ananda, siate luce a voi stessi, siate rifugio a voi stessi senza altro rifugio». No! Il mio rifugio è Cristo! Io non posso salvarmi da me, io non voglio salvarmi da me. «La dottrina sia luce, la dottrina sia rifugio senza altro rifugio» – non vi è dottrina nel cristianesimo e nemmeno nell’ebraismo: tutto è una storia. Chi conta son le persone: sono Mosè ed Abramo, Elia, Isaia e Geremia – è Gesù. Le dottrine contano soltanto perché ci fanno penetrare in loro, avvicinare a loro, far nostra la loro esperienza, il loro stesso mistero. Nel cristianesimo quel che conta è Cristo, non la dottrina. E si può anche dire che tutto quello che dice il Vangelo come dottrina si ritrova nel Talmud, si ritrova nei libri nemmeno canonici nell’ebraismo. Non c’è una frase di Nostro Signore che non si ritrovi più o meno nei testi dell’ebraismo contemporaneo del Cristo. Quello che non si trova nell’ebraismo è 26


Gesù, il mistero di una incarnazione divina. Lui non si trova, ed è Lui che il cristiano vuole, a Lui il cristiano si attacca, è in Lui, non nella sua dottrina, che il cristiano si rifugia, è a Lui che il cristiano chiede salvezza. Che cos’è la dottrina? Che me ne faccio se non è la traduzione concettuale di un rapporto di amore, di una esperienza di vita? Ma ora dobbiamo commentare brevemente il passo evangelico. Noi dobbiamo considerare questi versetti precisamente come introduzione alla passione di Gesù. Già questi versetti ci dicono come in tutt’altra atmosfera si svolge la morte di Gesù: un’atmosfera di odio. In Buddha, tutto calma, tutto serenità e pace. Anche la morte di vari santi cristiani può assomigliare alla morte di Buddha: intorno a Francesco che muore tutto è pace e serenità; Perugia ed Assisi si contendono il corpo del santo – a Buddha i discepoli domandano che fare del suo corpo, come sistemarlo, e lui dice come deve esser trattato: come un figlio di re. Anche per Francesco tanta devozione – non c’è odio intorno a lui. Ma la passione di Gesù si inizia ed è determinata dall’odio degli uomini. Ma non è questo che interessa. La morte negli evangelisti è considerata come un mistero, anzi come un atto cultuale. Ecco perché all’inizio stesso della passione si parla di sacerdoti di Israele. Anche nella vita di Buddha i sacerdoti brahamani sono contro l’insegnamento di lui, ma tuttavia non hanno mai scatenato contro Buddha quelle violente tempeste che l’odio dei sacerdoti giudaici invece ha scatenato contro Gesù. Anche in san Giovanni, in san Matteo, in tutti gli evangelisti sembra si voglia sottolineare il fatto che la passione di Gesù ha inizio nella casa del Sommo Sacerdote Caifa. San Giovanni sottolinea la profezia della morte di Gesù: «È necessario che uno muoia per il popolo», dice Caifa (Gv 18, 14) e nella sua casa si complotta sulla morte che deve avvenire. Lo stesso in san Matteo. Perché? La morte di Gesù non è un fatto naturale come in Buddha: Gesù muore perché ucciso, immolato, in un giorno di festa, nel giorno della Pasqua dei Giudei, come l’agnello – e lo sottolineerà il Quarto Vangelo 27


– come l’agnello immolato nella festa degli azzimi il cui sangue doveva salvare il popolo ebraico dall’angelo sterminatore; così muore Gesù. La sua morte dunque è un mistero sacro, è un atto sacrificale. È giusto, dunque, che fin dall’inizio sia il Sacerdote a compiere l’atto, a introdurci in questo mistero, in questo dramma. Gesù da Sé stesso si offrirà alla morte – «Oblatus est quia ipse voluit» (Is 53, 7) ma sono i sacerdoti giudaici che gli danno la morte. E Gesù proprio nella sua passione noterà che Egli legittimamente è Sacerdote. Egli stesso, a chi gli rimprovera di aver risposto male al sacerdote, non nega di essere, Lui, Sommo Sacerdote e che al Sommo Sacerdote si debba rispetto. Nella morte di Gesù i sacerdoti hanno un loro compito preciso, un compito fondamentale: quello di dargli la morte. Egli stesso si offre alla morte come Sommo Sacerdote, ma è legittimo anche il sacerdozio giudaico ed è il sacerdozio giudaico che lo immola. Atto sacrificale, mistero sacro. Le profezie della passione non sono come in Buddha il riconoscimento di una necessità che dobbiamo accettare serenamente: nella profezia di Gesù è già il fremito e lo sgomento di un uomo che si vede deriso, schiaffeggiato e crocifisso. Fremito e sgomento: questo mi sembra di poter rilevare dall’insistenza che ha Gesù nell’annunciare proprio quegli elementi di avvilimento, di mortificazione, di tormento che accompagneranno la sua morte. Egli non annuncia soltanto la sua morte, annuncia la crocifissione perché gli fa spavento, annuncia di essere sputacchiato e deriso perché sente già fin da ora come costerà tutto questo a Lui, uomo che ama. «Allora i principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo si adunarono nell’atrio del principe dei sacerdoti che si chiamava Caifa». Tutti si riuniscono, ma è Caifa che determina tutto. La passione di Gesù si inizia con le sue parole, si inizia col suo proposito, colla sua volontà. In Giovanni è detto: «È necessario che uno muoia per il popolo»; qua in san Matteo: «deliberarono sul modo di catturare Gesù con l’inganno per 28


farlo morire». Deliberarono: chi poteva deliberare se non tutti insieme al Sommo Pontefice, se non il Sommo Pontefice con tutti? Praticamente è lui che guida la discussione, è la sua volontà che dà un valore alla deliberazione di tutto il Sinedrio di far morire Gesù. Fin dall’inizio, dunque, è la morte che conta. Si imbastirà un processo, ma soltanto per gettare della polvere negli occhi; già si sa fin dall’inizio che cosa si deve compiere, che cosa si deve realizzare: la sua crocifissione, la sua immolazione. Non conta che Egli sia riconosciuto colpevole, non conta che Egli sia fatto tacere; quel che conta è che Egli muoia. «È bene che uno muoia per il popolo». Fin dall’inizio sempre la morte veduta e voluta. «Ma dicevano: non in giorno di festa perché non avvenga tumulto nel popolo». Si poteva temere infatti dei Galilei, che nei giorni di festa erano tutti a Gerusalemme. Si pensa che a Gerusalemme ci fossero in quei giorni due milioni e mezzo di persone, o almeno, se non proprio in un giorno, si avvicendassero nei sette giorni della solennità. Due milioni e mezzo di persone in una piccola città! Il fatto che Gesù muoia durante questa solennità dà un carattere di pubblicità a questa morte, carattere che né la morte di Francesco, né la morte di Socrate chiuso nel carcere, né la morte di Buddha all’aperto insieme ai discepoli ma lontano dalla folla, hanno avuto. Gesù è in mezzo a una folla distratta, a una moltitudine incomposta, furente, più o meno inconsapevole di quello che avviene, ma tuttavia in mezzo a una moltitudine immensa. «Non in giorno di festa perché non avvenga tumulto nel popolo». Invece sarà proprio in un giorno di festa che Gesù morrà. Dio in qualche modo farà tacere tutti coloro che lo amano, farà soltanto parlare invece coloro che lo odiano. Si scarica su Gesù non l’amore dei discepoli ma l’odio degli scribi, dei farisei, dei sommi sacerdoti, dei sadducei, lo scherno di Erode, l’incuranza di Pilato – si scarica su di Lui tutto il male del mondo. Egli sembra frenare, chiudere, tutte le porte alla pietà per Sé. Di fatto, quando poche donne, sulla via del 29


Calvario, hanno qualche parola di commiserazione per Lui, Egli le fa tacere. Egli che ha avuto pietà per tutti, ora, nella sua morte, non riceve lenimento. Gesù può salvare veramente tutto il mondo perché tutto Egli lo porta sopra di Sé; di tutto il peso Egli si grava di un odio feroce, di una ingratitudine, di un tradimento, di un abbandono… e rimane un uomo che soffre, ma che nella sua sofferenza non si chiude, come coloro che soffrono, in Sé stesso, per commiserarsi, per difendersi contro questo odio. Si offre senza difesa a tutto questo male perché Egli ama; e ama fino all’ultimo istante, e ama con tutto Sé stesso, e si fa vulnerabile di fronte a ciascuno. Tutti possono ferirlo, perché da nessuno Egli si separa; tutti possono colpirlo, perché nelle mani di tutti Egli si mette, perché tutti Egli veramente ama fino all’estremo.

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