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Issn: 2036-3109

LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINO DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA

21 In questo numero:

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La città condivisa






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Urbani LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINO DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA

21 Sentieri Urbani rivista quadrimestrale della Sezione Trentino dell'Istituto Nazionale di Urbanistica rivista scientifica riconosciuta dall'Anvur, l'Agenzia per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca anno VIII - numero 21 - dicembre 2016 registrazione presso il Tribunale di Trento n. 1376 del 10.12.2008 - Issn 2036-3109 numero monografico “La città condivisa” a cura di Camilla Perrone e Bruno Zanon comitato scientifico Andrea Brighenti, Federica Corrado, Giuseppe de Luca, Corrado Diamantini, Viviana Ferrario, Carlo Gasparrini, Raffaele Mauro, Ezio Micelli, Pierluigi Morello, Camilla Perrone, Paolo Pileri, Michelangelo Savino, Francesco Sbetti, Maurizio Tira, Andrea Torricelli, Silvia Viviani, Angioletta Voghera comitato@sentieri-urbani.eu direttore Alessandro Franceschini direttore@sentieri-urbani.eu redazione Elisa Coletti, Vincenzo Cribari, Pietro Degiampietro, Mario Gasperi, Davide Geneletti, Margherita Meneghetti, Francesco Palazzo, Daria Pizzini, Maurizio Tomazzoni, Giovanna Ulrici, Bruno Zanon redazione@sentieri-urbani.eu fotografia e sito web Luca Chistè - web@sentieri-urbani.eu hanno collaborato a questo numero Silvia Alba, Fabrizio Andreis, Luigi Bobbio, Ruggero Bonisolli, Claudio Calvaresi, Francesca Cognetti, Silvia Ferrin, Francesco Gabbi, Sophie Guillain, Lucia Lancerin, Rodolfo Lewanski, Alfredo Mela, Liliana Padovani, Chiara Pignaris, Maddalena Rossi, Laura Saija, Marianella Sclavi progetto grafico Progetto & Immagine s.r.l. - Trento concessionaria di pubblicità Publimedia snc via Filippo Serafini, 10 - 38122 Trento - Tel. 0461.238913 © Tutti i Diritti sono riservati

prezzo di copertina e abbonamenti Una copia € 10 - Abbonamento a 3 numeri € 25 Per abbonarsi a Sentieri Urbani: diffusione@sentieri-urbani.eu I testi e le proposte di pubblicazione che pervengono alla redazione sono presi in considerazione se coerenti con la struttura dei numeri e sono sottoposti al giudizio di lettori indipendenti.

contatti www.sentieri-urbani.eu - Tel. 328.0198754 editore Bi Quattro Editrice - via Filippo Serafini, 10 - 38122 Trento Istituto Nazionale di Urbanistica Sezione Trentino - Via Oss Mazzurana, 54 - 38122 Trento numeri arretrati consultabili su www.issuu.com/sentieri-urbani

06 Editoriale di Bruno Zanon 08 Un’intervista a John Forester a cura di Camilla Perrone 12 PRIMA PARTE: UNO SGUARDO TEORICO 14 Il «farsi» delle città. Oltre la comfort

39 Partecipazione come forma di

18 Partecipare le trasformazioni urbane in

44 Per un approccio sperimentale al

zone delle politiche pubbliche di Camilla Perrone

un'epoca di transizione di Alfredo Mela

22 Deliberare: una declinazione innovativa del verbo “partecipare” di Rodolfo Lewanski

28 La partecipazione imperfetta di Luigi Bobbio

32 Reset participation! di Claudio Calvaresi

apprendimento di Liliana Padovani

governo della società A partire dalla scuola di Marianella Sclavi

48 Il riuso dei vuoti nell'edilizia pubblica

come opportunità per lavorare sulle reti e sulle capacità degli attori di Francesca Cognetti

52 Ricerca-Azione: Il Patto di Fiume Simeto, tre anime e gli anticorpi di Laura Saija

36 Carta della partecipazione: strumento e bussola per una partecipazione di qualità di Chiara Pignaris e Lucia Lancerin

59 SECONDA PARTE: PERCORSI DI PARTECIPAZIONE 60 Il Dibattito pubblico sullo sviluppo e la riqualificazione del porto di Livorno: come, per chi, per cosa? di Sophie Guillain

63 Insieme per il Piano. Un percorso

partecipato per il futuro della Città Metropolitana di Firenze di Maddalena Rossi

66 TERZA PARTE: ESPERIENZE DI

PIANIFICAZIONE E PROGETTAZIONE PARTECIPATA IN TRENTINO

68 Comunità di Valle in Trentino. Un primo bilancio della partecipazione di Silvia Alba

74 Una sperimentazione per un progetto di territorio interattivo: il Laboratorio Urbanistico di Mori di Ruggero Bonisolli

80 Azioni culturali per l'inclusione sociale. L'esperienza di Noi Quartiere a Trento di Francesco Gabbi

92 La biblioteca dell'Urbanista A cura di Daria Pizzini

82 Esperienze recenti di partecipazione in Trentino di Silvia Alba, Fabrizio Andreis e Silvia Ferrin

85 Casi di partecipazione in Trentino schede a cura di: GruppoPalomar spazio e partecipazione


E D I T O R I A L E

Declinazioni della partecipazione Il governo del territorio e la gestione delle città stanno vivendo delle sfide di grande momento, a causa non solo degli effetti della crisi economica ma in ragione dei cambiamenti demografici, delle nuove scale delle relazioni territoriali, del protagonismo di una pluralità di attori sociali. Sono in atto, in particolare, dei cambiamenti profondi nei modi di abitare il territorio, di vivere lo spazio urbano, di organizzare le città. Emergono diffidenze e paure verso fenomeni inediti - in primo luogo i flussi migratori e la contiguità di culture differenti - che producono condizioni di disagio personale e innescano, non di rado, conflitti sociali. Le nuove presenze, i nuovi comportamenti e i nuovi bisogni non solo richiedono di ripensare le modalità della gestione della cosa pubblica ma ridefiniscono gli stessi diritti di cittadinanza. La democrazia è nata attorno al compito di governare la città intesa quale spazio di opportunità condiviso tra cittadini con diritti riconosciuti. E la città ha tratto la propria forza proprio dalla capacità di promuovere le singole persone e i diversi gruppi sociali, condividendo regole e valorizzando le soggettività. Ma oggi è sempre più difficile decidere quali siano le risposte - concrete - da dare alle domande di una multiforme società urbana, se non operano forme di coinvolgimento dei cittadini e di condivisione delle decisioni. I nodi da affrontare riguardano in primo luogo le numerose contese sull'uso dello spazio e la realizzazione delle attrezzature e infrastrutture, con le connesse discussioni sull'impiego delle risorse. In proposito sono numerose, ormai, le esperienze di partecipazione orientate alla gestione dei conflitti e alla ricerca del consenso su opere - grandi e piccole -. Il problema è però più ampio, riguardando non solo la difesa di interessi legittimi quanto la definizione dell'interesse collettivo - che non è più, da tempo, sovrapponibile ai compiti di una amministrazione pubblica -. La questione riguarda inoltre il ruolo attivo dei cittadini, che non può essere solo a supporto della pubblica amministrazione ma momento centrale della costruzione della città quale bene comune. La crisi della democrazia rappresentativa pone in modo nuovo i compiti del governo del territorio e della città. Si richiedono nuovi approcci e nuovi strumenti, sapendo capitalizzare i metodi e le pratiche sviluppati nel corso degli ultimi anni nell'ampio 6


alveo della “partecipazione”. In questo numero di Sentieri Urbani vengono ospitati i contributi di alcuni degli autori più autorevoli che si sono occupati, da un punto di vista teorico e applicativo, del senso della partecipazione. Oltre a riflessioni di carattere generale, vengono presentate delle esperienze che tracciano un quadro assai stimolante delle diverse declinazioni date ai processi e alle esperienze relativi al coinvolgimento dei cittadini, alla progettazione partecipata, alle pratiche deliberative, alla cittadinanza attiva. Non è un caso che tutto ruoti attorno a problemi di disegno e uso dello spazio collettivo, di governo della città, di gestione di servizi e di attrezzature, di pianificazione urbana e territoriale. Emerge, infatti, come i diritti di cittadinanza siano strettamente relazionati a quanto consente di dare concretezza alla qualità dell'abitare un luogo. E, per converso, come la qualità del governo dei luoghi sia strettamente connessa alla capacità di coinvolgere gli abitanti dando loro un ruolo attivo, alimentando idee e azioni riguardanti la gestione di quanto viene riconosciuto come espressione dell'interesse collettivo. Naturalmente sono numerose le questioni che emergono, ad iniziare da quando e su cosa si partecipa, da chi gestisce i processi, di quali siano le decisioni che richiedono il coinvolgimento dei cittadini, di chi debba definire l'agenda. Si tratta del ruolo delle istituzioni e della capacità di auto-organizzazione dei gruppi di cittadini, della esigenza di regole e della necessità di innovare il quadro normativo, del ruolo dell'informazione e della capacità collettiva di apprendere, della possibilità di esprimere preferenze e della esigenza di partecipare alla decisione, della gestione dei conflitti e della riallocazione delle risorse e dei poteri. Sono temi di ampio respiro, la cui trattazione richiede un solido quadro teorico e la capacità di ripercorrere le esperienze che hanno posto in modo nuovo i problemi, attivando in particolare processi di apprendimento che hanno consentito di condividere scelte e decisioni. Il numero si apre con un intervento di John Forester - sollecitato da alcune domande di Camilla Perrone - che pone in modo particolarmente stringente la questione del senso della

partecipazione, da declinare quale deliberazione. Tale aspetto emerge in diversi altri interventi, da quello introduttivo di Camilla Perrone (che ricorda come la produzione collettiva della città dovrebbe essere una “routine quotidiana”), a quelli di Rodolfo Lewanski (che sottolinea il ruolo della partecipazione deliberativa nella crisi della democrazia), Claudio Calvaresi (dalla partecipazione progettata alla “co-creazione”) e Laura Saija (che approfondisce tali temi sulla base di una esperienza in Sicilia). Le motivazioni, gli approcci e l'efficacia delle pratiche partecipative sono questioni affrontate in diversi contributi, in particolare quelli di Alfredo Mela (che tratteggia la maturazione di diversi “modelli” di partecipazione, tra programmi europei e crisi della rappresentanza politica) e di Luigi Bobbio (che sottolinea le complesse relazioni tra processi partecipativi, pratiche deliberative e democrazia mettendo a confronto la concezione “agonistica” con quella “dialogico-deliberativa”). La partecipazione come apprendimento è al centro dell'attenzione degli interventi di Marianella Sclavi e di Liliana Padovani. Francesca Cognetti affronta il tema dell'abitare in una città in trasformazione, mentre Chiara Pignaris e Lucia Lancerin tratteggiano senso e contenuti della Carta della Partecipazione proposta da diverse associazioni quale riferimento per le pratiche degli enti locali. Diversi contributi ruotano attorno ad esperienze e pratiche, di natura e di scala diverse. Si tratta di progetti di riqualificazione urbana (Sophie Guillain a Livorno), di pianificazione strategica (Maddalena Rossi, Firenze), di Pianificazione territoriale (Silvia Alba, Trento). Infine si propone una rassegna di casi di partecipazione in Trentino: un breve quadro delle esperienze (Silvia Alba, Fabrizio Andreis e Silvia Ferrin), la cultura come strumento di inclusione (Francesco Gabbi, Trento), laboratori di progettazione interattiva a Mori (Ruggero Bonisolli).

Bruno Zanon 7


L ’ I N T E R V I S T A

CITTÀ DEMOCRATICHE PRATICHE DELIBERATIVE NON PARTECIPAZIONE Un'intervista a John Forester a cura di Camilla Perrone

John F. Forester docente presso la Cornell University (USA), è un teorico della pianificazione, interessato soprattutto al tema della partecipazione in urbanistica. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Theory and Public Life (1987), Planning in the Face of Power (1989), The Deliberative Practitioner (1999) e "Dealing with Differences: Dramas of Mediating Public Disputes" (2009).

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“Nel mondo reale della pianificazione, il potere politico effettivo varia a seconda della situazione, del contesto, delle istituzioni, e in quanto relazione complessa, costruita, il potere è storico, limitato, e possiamo resistergli”

Il principale obiettivo di questo numero della rivista dedicato alla partecipazione nelle e per le pratiche di pianificazione, è quello di comprendere quali siano oggi gli strumenti, gli approcci, i metodi più utili a costruire un dialogo quotidiano tra istituzioni, cittadini, professionisti, settore privato. Questo, sia nei processi decisionali, che nella costruzione pratica della città intesa come impresa sociale collettiva. La questione principale è dunque la seguente: è possibile ricavare uno spazio nella sfera pubblica per immaginare un percorso di costruzione pragmatica della città (non solo di decisioni sulla città, ma produzione di fatti e materiali urbani), intrapreso anche attraverso azioni concrete di piano che si misurino con il conflitto, la complessità e la diversità (distintivi della nuova condizione urbana)? In questa prospettiva, una domanda che sembra emergere sottotraccia è la seguente: è ancora possibile contribuire a creare una società più giusta e democratica attraverso esperimenti deliberativi? Se fosse possibile, quali suggerimenti dovrebbero essere attuati in un processo interattivo di realizzazione della città intesa come un'impresa sociale? E ancora: sta davvero cambiando il modo in cui le persone definiscono collettivamente le sfere comuni di vita e di decisione (non cercando più esplicitamente una legittimazione istituzionale e politica alla decisione nelle arene partecipative e deliberative, ma agendo concretamente nella città)? L'emersione di questi domini orientati alla pratica, meno abitati dalle istituzioni, più definiti da soggettività “do-it yourself”, imprese comunitarie, e reti di cooperazione, rappresenta dunque una sfida per le pratiche di progettazione partecipata? Se la città si stanno auto-costruendo, grazie al contributo di nuovi creatori che progettano e realizzano il 9

loro spazio di vita sfidando il dominio di interazioni umane, come e attraverso quali processi i planners possono intraprendere o diventare attori di processi partecipativi? Quali forme o significati dunque la partecipazione assume nella società di oggi, sempre più articolata in diverse comunità (o minoranze nelle parole di Bernardo Secchi), sempre più mobili attraverso i territori? C'è un modo di progettare un dominio deliberativo di incontro tra momenti di pianificazione, pratiche di progettazione di spazi condivisi, scelte di interesse collettivo? Infine: la crisi della partecipazione potrebbe essere considerata come l'altra faccia della crisi della democrazia? Oppure stiamo solo passando attraverso un cambiamento che deve ancora essere riconosciuto, e che ha bisogno di nuovi strumenti di democrazia, anche deliberativa? E se è così quale potrebbe essere la strada migliore per affrontare questo cambiamento? Potrebbe forse essere quella di ripensare la complessità dei processi deliberativi mobilitando un'immaginazione ricostruttiva su modi efficaci di “fare pratiche”? Come è possibile dunque contribuire al “farsi” di una città più giusta e democratica? Quale ruolo può avere una politica democratica di pianificazione di fronte al potere? Consentitemi, in primo luogo, di rispondere a questa domanda in un modo che possa evitare alcune trappole intellettuali. In seguito, cercherò di affrontare più direttamente alcuni esempi di pratiche di pianificazione. È impraticabile una politica democratica al cospetto del potere? Questa è una vecchia domanda, riproposta ogni volta, che si porta spesso dietro una definizione caricaturale di “politica democratica” e di “potere”. Se pensiamo al “potere” in termini di egemonia totale e di controllo completo, allora trasformiamo la domanda in una trappola: se niente è possibile (assumendo che il pote-


“La partecipazione senza progettazione di un processo critico, può essere persino peggio del rumore, come dimostrano le tipiche audizioni pubbliche. Chiamare questi processi formali partecipazione è una sciocchezza, una strategia dello struzzo”

lità, ostacoli, vincoli…), allora niente è possibile, ovviamente, per definizione. Ci siamo ingannevolmente dati la risposta in anticipo. In questo modo restiamo intrappolati nel nostro stesso linguaggio: abbiamo ingannato noi stessi ponendoci una domanda metafisica intorno a qualcosa che è immutabile, e abbiamo in questo modo depoliticizzato le questioni cruciali del potere, rifiutandoci di considerarlo come un fenomeno politico, storico, mutevole. Nel mondo reale della pianificazione, il potere politico effettivo varia a seconda della situazione, del contesto, delle istituzioni, e in quanto relazione complessa, costruita, il potere è storico, limitato, e possiamo resistergli. Può essere apertamente sfidato, sovvertito, minato, contrastato, e così via. Se esistono delle chiavi per entrare nel castello della storia politica, del cambiamento politico, c'è sorprendentemente poco accordo nel mondo della pianificazione su quali siano queste chiavi, nonostante i movimenti sociali. Noi potremmo fare meglio tentando strategie di empowerment per il cambiamento più educative, invece di pensare che ogni singola strategia funzionerà magicamente come strumento di emancipazione. Suggerire questo con forza non significa sostenere un agnosticismo critico, ma assumere un atteggiamento di umiltà e di scetticismo e di apertura verso la sperimentazione e la costruzione di coalizioni. È troppo facile dire che i problemi di pianificazione sono solo “maligni”, e non semplicemente tecnici. È anche troppo facile prendere qualche concetto chiave come “la risposta” alla domanda “che cosa dobbiamo fare?” “Giustizia!” “Partecipazione!” “Negoziazione!” “Mediazione!”. Questi concetti non sono dei nonsense, ma sono astrazioni strappate dai contesti, e a meno che non li applichiamo, a meno che non ci chiediamo con attenzione che cosa essi possono significare (e non cosa significano) in un particolare ambiente politico, ci rimarranno le parole evocative, ma saremo molto lontano 10

dai fatti, lontani da una migliore comprensione di come ciascuno possa pianificare di fronte al potere, alla disuguaglianza, al cinismo, e altro ancora. Le strategie deliberative, per esempio, senza empowerment e sviluppo delle capacità, possono essere un nonsenso. La partecipazione senza ciò che possiamo chiamare progettazione di un processo critico, può essere persino peggio del rumore, come dimostrano le tipiche audizioni pubbliche basate sul principio tre-minuti-a-testa. Ma chiamare questi processi formali “Partecipazione” è una sciocchezza, una strategia dello struzzo, un modo di nascondere la testa nella sabbia ed evitare appunto le domande sulle quali una politica democratica insiste: quale tipo di responsabilità popolare [accountability] ogni strategia di cambiamento deve avere, in modo che noi possiamo riconoscere che non si tratta di un'altra fantasia tecnocratica o di un gioco da imbonitore? Consentitemi di usare degli esempi che è possibile verificare nei testi citati. Quando Ken Reardon ha coordinato il partenariato ACORN-Università dopo che l'uragano Katrina ha devastato il nono distretto di New Orleans, e gli esperti volevano trasformare a verde quei quartieri impedendo ai residenti afro-americani, prevalentemente poveri, di tornare nelle loro case, il suo istinto politico e la sua esperienza di ricerca-azione lo hanno portato a disegnare un processo che integrava responsabilità dei residenti, competenza urbanistica e potere di negoziazione politica (Reardon e Forester 2016). Quando Laura Saija e Giusy Pappalardo hanno lavorato con gli abitanti della Simeto River valley dopo che gli organizzatori avevano bloccato la proposta di un inceneritore ambientalmente dannoso, esse hanno intrecciato pianificazione ed esercizi di mappatura con gli sforzi locali e regionali per costruire capacità collettive e coalizioni per lo sviluppo delle comunità, la pro-


L ’ I N T E R V I S T A

“Le situazioni variano, allo stesso modo le strategie critiche e progressive devono cambiare. Non possiamo fare meglio che seguire la guida di Paulo Freire: rispettare gli altri abbastanza da ascoltarli molto oltre le parole che dicono”

tezione ambientale e la conservazione del patrimonio (Saija, De Leo e Forester, in corso di pubblicazione). Quando Joop Hofman argomentava che non c'è una seria partecipazione pubblica senza lutto, o quando Merceds Zandwijken ha creato, con modalità deliberative, diversi think tank di quartiere, composti sia da planner che da attivisti, inseguendo un obbiettivo di sviluppo della comunità, anche essi hanno avuto un occhio sulle disuguaglianze strutturali e un occhio sulla costruzione di coalizioni locali, sullo sviluppo di una leadership e sulla costruzione di capacità (Laws e Forester, 2015). Penso che le lezioni da seguire siano queste. Le situazioni variano, allo stesso modo le strategie critiche e progressive devono cambiare. Non possiamo fare meglio che seguire la guida di Paulo Freire: rispettare gli altri abbastanza da ascoltarli molto oltre le parole che dicono, scoprendo le possibilità emergenti, in modo da co-generare le domande e le strategie di sviluppo di comunità, pur riconoscendo le disuguglianze e gli ostacoli strutturali. Freire ha preso ispirazione da Marx e Gesù, Socrate e Buber, e nella sua pratica di costruzione del problema, nel pragmatismo della costruzione del problema, egli ha trasceso, integrato e valorizzato tutti quegli ispiratori. Senza dialogo, noi risolviamo i problemi sbagliati. Senza competenza tecnica, noi affrontiamo i problemi giusti con povertà di risultati. Senza la costruzione di un potere di negoziazione, noi possiamo scrivere un rapporto da esperti su un problema adatto, e non fare altro. Il lavoro di Reardon, Saija, Pappalardo, Hofman e Zandwijken, riecheggiando elementi della Pedagogia degli oppressi di Freire, legano anche insieme ciò che dovremmo chiamare la tripla elica dell'improvvisazione critica e sensibile al contesto, nella misura in cui essi integrano responsabilità, competenza tecnica e potere per il cambiamento. Questa è pratica deliberativa non a parole, ma per il cambiamento, 11

non per l'apprendimento riflessivo soltanto, ma per la costruzione di capacità deliberativa per il cambiamento sociale (De Leo e Forester, in corso di pubblicazione). La pratica deliberativa critica include qui ed estende sul terreno – in modalità relazionali politiche, sociali, etiche e ciò che è più importante, intersoggettive – una necessaria ma più soggettivistica “pratica riflessiva” (Schon 1983, cf. Forester 1999). I lettori critici possono sentirsi qui catturati dalla battuta di un teorico quando domandano «Bene, questi esempi possono funzionare in pratica, ma funzionano anche nella teoria?». Io penso che questa domanda implichi, e richieda, che noi miglioriamo le nostre teorie della pianificazione nello stesso modo in cui chiediamo di più alle possibili pratiche di piano.

Riferimenti bibliografici De Leo, D., Forester J. (2017), “Reimagining Planning's Shift from Reflective Practice to Deliberative Practice: A first exploration in the Italian context.” PlanningTheory and Practice, (in corso di pubblicazione). Forester, J. (1999), The Deliberative Practitioner. Cambridge: MIT Press. Freire, P. (1970), Pedagogy of the Oppressed, NewYork: Herder & Herder. Laws, D., Forester J. (2015), Conflict, Improvisation, Governance. New York: Routledge. Reardon, Kenneth and J. Forester. 2016. Rebuilding Community After Katrina, Philadelphia: Temple University Press. Saija, L, De Leo D., Forester J. (2017), “Learning from Practice: Environmental and Community Mapping as Participatory Action Research in Planning.” Interface symposium for Planning Theory and Practice (in corso di pubblicazione). Schön, Donald (1983), The Reflective Practitioner, NewYork: Basic Books.


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Foto Gruppo Palomar


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UNO SGUARDO TEORICO

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UNO SGUARDO TEORICO

Il “farsi” delle città Oltre la comfort zone delle politiche pubbliche di Camilla Perrone*

If we do not understand the fuller promise of participatory processes, we will be likely to shape the deliberative occasions of community meetings, workshop, retreats, mediated negotiations, and participatory research efforts in needlessly restrictive ways Forester (1999, p. 130)

*Camilla Perrone Professore Associato di Tecnica e Pianificazione Urbanistica presso l'Università degli Studi di Firenze, insegna Politiche urbane e territoriali e Urbanistica. Architetto di formazione e Dottore di Ricerca, è responsabile del Laboratory of Critical Planning and Design. Ha una vasta esperienza internazionale ed è attiva in diverse associazioni disciplinari (tra le quali: SIU, Società dei Territorialisti, AESOP). E' autrice di numerosi libri e articoli su riviste nazionali e internazionali.

Se è vero, come sostiene Paolo Jedlowski (2008), che a tenere insieme una società non sono soltanto le istituzioni, ma anche e forse prevalentemente, le routine quotidiane prevedibilmente e ostinatamente ripetute nella produzione continua del mondo, secondo regole tacite e tenaci, allora è proprio sulle routine (e sulle abitudini) che è necessario tornare a riflettere quando qualcosa non funziona o quando ci piacerebbe che funzionasse meglio. La partecipazione appartiene (forse) oggi a quell'insieme di routine che è importante ripensare. Essa andrebbe riportata nel terreno di ciò che non si può dare per scontato e sottratta alla deriva del “senso comune”, ovvero a quell'“insieme di conoscenze, di regole, di abitudini e di convinzioni che non hanno bisogno di essere interrogate” (Jedlowski , 2008, 19). Alcune pratiche contribuiscono a evidenziare grumi di innovazione nel campo delle politiche pubbliche, verificando concretamente l'utilità della partecipazione o esaltando alcune virtù della deliberazione (civica, di governo e cognitiva) (Pellizzoni, 2005); molte altre sono invece ormai diventate abitudini poco utili alla governance o alla pianificazione delle spazio. La ragione per cui tornare a riflettere sulle abitudini cognitive che maneggiamo con familiarità e comodità, nasce dall'urgenza di contribuire alla

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costruzione di città più giuste e democratiche, operando in quei domini emergenti, sempre meno occupati dalle istituzioni – e spesso ignorati dalle politiche pubbliche –, sempre più abitati da soggettività autonome, imprese comunitarie, e reti di cooperazione, il cui potenziale è tutto ancora da esplorare e far fiorire nella sfera pubblica. La partecipazione ha bisogno di trovare e ricostruire un territorio (una “trading zone”, come si spiegherà più avanti) che sia dominio condiviso tra istituzioni, nuove soggettività, impresa (sociale) e reti di cooperazione, alla luce di nuove condizioni al contorno, fortemente modificate dal carattere innovativo di una nuova, appena affiorante, generazione di politiche pubbliche e dai grandi cambiamenti della condizione urbana (Mela in questo numero). La società si sta profondamente trasformando in tutto il pianeta. Dal 2008 tale cambiamento è stato ancora più intenso in termini di effetti sull'ambiente politico ed economico. Una letteratura generosa suggerisce ed esplora le direzioni di tale cambiamento, mostrandone le implicazioni in molte direzioni (urbanizzazione, suburbanizzazione, processi de-urbanizzazione, urbanizzazione planetaria, una dimensione spaziale della povertà, il cambiamento economico, le espulsioni a causa della


brutalità e la complessità dell'economia globale e così via) (Soja, 2011; Brenner, 2014; Keil, 2013; Sassen, 2014, Roy, et al 2016; Secchi, 2013). Nuove forme di povertà che si intrecciano e coesistono con forme tradizionali di disagio sociale, si diffondono nelle grandi città e nelle regioni urbane secondo modalità che si distanziano da quelle conosciute; flussi migratori attraverso territori sempre più vasti e transcontinentali, fronteggiando resistenze crescenti, e scontrandosi con nuovi muri politici e sociali; barriere e confini riacquistano spessore e resistenza e ridisegnano lo spazio dell'abitare sollevando domande sulla 'natura' dei nuovi domini di coesistenza (fatti di vita concreta e luoghi), sul possibile e quanto mai necessario, contributo di un disegno di politiche cooperativo e collaborativo, sul ruolo emergente di novi attori (come nel caso delle imprese sociali). Le pratiche di vita assumono significati sempre più diversi da paese a paese, da cultura a cultura, a volte anche attraverso le culture: emergono nuovi conflitti di valori; sempre più variegati profili culturali si intrecciano alla ricerca di forme di convivenza pacifica; si praticano nuovi stili di vita in risposta alla crisi, alla riduzione delle risorse ambientali e al cambiamento dei processi di urbanizzazione che mettono in discussione ciò che comunamente si e inteso per città; tempi diversi di permanenza e radicamento nei luoghi di vita, e diverse modalità di migrazione, danno luogo a nuove esigenze; nuovi rapporti di forza fanno traballare i diritti fondamentali. Il diritto alla casa, al lavoro, alla democrazia e quindi a una città giusta, costituiscono traguardi sempre più complicati, che richiedono azioni coese e condivise (costruite attraverso legami profondi), di popolazione sempre più mobili e diversificate (che quindi condividono grandi bisogni, esigono gli stessi diritti, ma hanno progetti di vita enormemente diversificati). Si direbbe quasi un ossimoro senza soluzione, se posto in questi termini. Le città di per sé, stanno diventando sempre più estranee alle definizioni che le politiche pubbliche sembrano continuare a utilizzare per orientare la propria azione, e che fanno capo alle categorie tradizionali dell'idea di città XXI secolo, ovvero una città basata sulla divisione della metropoli in domini e stili di vita, urbani e suburbani, separati e fondamentalmente differenti l'uno dall'altro, (Martinotti, 1999; Soja, 2011; Amin, Thrift, 2002). È, di fatto, in corso una riformulazione della teoria dell'urbano che mette in

tensione le categorie della cityness (Soureli, Youn, 2009) e più in generale quelle tradizionalmente associate all'idea di città. Sono molteplici le connotazioni dell'urbano che ne emergono (l'urbano molteplice), rendendolo una nuova categoria epistemologica difficilmente riflettibile in una forma/categoria/descrizione che possa definirsi stabile (Brenner, Schmid, 2011). È facilmente intuibile come questa riformulazione possa avere forti implicazioni sul ruolo di nuove e molteplici cittadinanze che contribuiscono alla progettazione della sfera pubblica, eleggendola a dominio collettivo delle decisioni, delle pratiche (di pianificazione, di cooperazione e di rete), così come sull'impegno dei pianificatori nella formazione della città ( Donzelot, 2009). La natura e l'impatto di tali conseguenze è ancora da esplorare nel campo delle pratiche di pianificazione. Ci sono tuttavia, almeno alcune dinamiche di costruzione collaborativa della città che si manifestano proprio negli interstizi di quell'urbano molteplice e camaleontico che sta prendendo forma, accogliendo nuove modalità di produzione, di fatto, della città, che potrebbero essere considerate proprio un sintomo di queste implicazioni. Queste pratiche sollevano una questione in particolare, ovvero, se esperimenti deliberativi pragmatici possano ancora essere il modo giusto per gestire (sia da parte dei pianificatori che delle istituzioni) le controversie pubbliche in contesti diversi, o se invece debbano essere semplicemente considerate come un punto di svolta verso nuovi metodi di progettazione e costruzione della città. Se nel 'relazionamento' tra città e cittadini, cambiano i profili di entrambi e le traiettorie di questo duplice cambiamento non si intrecciano più negli stessi modi e negli stessi luoghi del passato, ma sembrano emergere con modalità e in luoghi diversi dall'atteso, le routine di una pratica come quella della partecipazione, devono forzatamente tornare a interrogarsi, ripartendo dall'osservazione di alcuni esperimenti che sono in questo testo riassunti dall'espressione “il farsi della città”. Un esempio viene dal campo dell'autoorganizzazione. La letteratura lo definisce ''do-ityourself (DIY) urbanism”, e riguarda prevalentemente interventi di miglioramento urbano, generati e gestiti dai residenti, a basso impegno economico, temporanei, talvolta denominati anche come “guerrilla urbanism” oppure “self-made urbanism” (Iveson, 2013; Talen, 2014)1, oppure

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ancora handmade urbanism (Rosa, Weiland, 2013) (ripreso nel contributo di Mela in questo numero). Viene quasi spontaneamente da chiedersi se queste pratiche urbane micro-spaziali (che riecheggiano le micro-politics di Amin, 2002), stiano guadagnando una nuova actorship concorrente a quella pubblica e privata (una forma di autorità basata sull'eguaglianza degli abitanti urbani), da esercitarsi in esperimenti deliberativi creativi per fare la città, o se tali pratiche stiano invece definendo spazi autonomi, auto-contenuti, talvolta illeciti, auto-organizzati, e contrapposti alla legittimità della sfera pubblica. La domanda che si precisa è se questi tipi di pratiche di appropriazione dello spazio urbano attraverso usi e forme alternative (in qualche misura espressione dell'idea di Lefebvre secondo cui la produzione di spazio è un processo inevitabilmente conteso), possano, o meno, dare vita (nelle parole di Iveson) a un nuovo tipo di città, quindi a un più ampio dominio politico della città, capace di connettere queste stesse pratiche con altri modi di produrre lo spazio. Una via d'uscita (ovvero la possibilità di acquisire legittimità e centralità nel dominio delle politiche pubbliche) per esperienze di questo tipo e di molte pratiche di auto-organizzazione e di innovazione bottom-up delle comunità locali, potrebbe essere rappresentato dalle nuove forme di impresa, ri-definite come "impresa sociale" che introducono un forte fattore di innovazione nella politica della città. Si tratta di azioni d'impresa, place-based, costruite intorno a iniziative dal basso, che svolgono e mantengono le funzioni e le infrastrutture organizzative dell'investimento sociale, e mettono la comunità al centro del loro modello di business. Si tratta spesso di coinvestimenti multi-attoriali, sul capitale sociale, ispirati dall'approccio cooperativo, che combinano l'urgenza di competere a livello globale con la rilevanza di sostenere e di ottenere benefici dalla coesione sociale locale (Calvaresi et al, 2015; Calvaresi in questo numero; Tricarico 2014 ; Sommerville, McElwee 2011). Mentre le città cambiano, cambiano anche di fatto le modalità del 'relazionamento' tra città e cittadini, tra luoghi e abitanti, tra chi fabbrica decisioni sulla città e chi fa la città in un processo di auto-produzione collettiva (vincente in molti casi, ma troppo disseminato, polinucleare, poco interconnesso, almeno al momento), tra dove vengono prese le decisioni e dove si partecipa facendo, al farsi della città. Quindi, di quale partecipazione è possibile oggi


parlare con riferimento alla città e alla pianificazione? Di partecipazione alla costruzione delle decisioni su cosa fare per e nelle città, oppure del “partecipare facendo” che sembra emergere, anche nella riflessione scientifica, come primo punto (nuova regola) di una rinnovata agenda della partecipazione? La risposta è aperta. Forse costruire un ennesimo bivio su una pratica, un concetto, una strategia dell'attenzione, non aiuterebbe a fare progressi in nessuna direzione. Potrebbe invece valer la pena di condividere una riflessione sul senso della partecipazione (alla luce dei grandi cambiamenti di oggi), chiudendo con un auspicio e una linea (una zona) di lavoro per le politiche pubbliche. Alcune delle sfide che emergono dalle pratiche richiamate sopra, il comune senso di insoddisfazione per i risultati di almeno quattro generazioni di pratiche e di approcci alla partecipazione

(che Claudio Calvaresi richiama in modo argomentato nel suo contributo in questo numero e che Alfredo Mela articola utlerirmente anche con riferimento al contesto europeo)2, suggeriscono l'urgenza di un reboot di teorie e pratiche di partecipazione. L'impatto delle pratiche di auto-produzione della città che mettono in tensione tanto il settore privato d'impresa (che intravede nell'innovazione dal basso un campo di investimento), quanto quello istituzionale delle politiche pubbliche (che arretra e barcolla con operazioni incerte e disconnesse), dà quasi l'impressione di un ritorno (forse invitabile) a una tradizione, molto italiana, della partecipazione, intesa come progetto sociale e politico, attraverso il contributo di chi fa (produce, crea, costruisce) la città. Sembrerebbe quasi di assistere a una fase di ri-politicizzazione della partecipazione per via concreta e materiale, in cui la partecipazione torna ad essere un apprendimento,

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un'esperienza di ricerca-azione, un percorso di capacitazione degli attori, un approccio sperimentale al governo della società, un via imperfetta alla costruzione delle decisioni (aspetti affrontati in questo numero rispettivamente da Padovani, Saija, Cognetti, Sclavi, Bobbio). Se da un lato, dagli anni '60, l'Italia fa i conti con l'esperienza americana dell'advocacy planning (Davidoff, 1965) che coniugava istanze sociali, policy making e pianificazione, per poi, dagli anni '70 fino agli anni '90, assorbire l'idea della partecipazione come apprendimento e praticare l'azione comunicativa sociale, entrambe di matrice nordamericana (Friedmann, 1973; 83; Forester, 1989); dall'altro quella stessa Italia, era attraversata da esperienze di tutt'altra matrice, esperienze nostrane di comunità e architettura partecipata, come il movimento di comunità di Adriano Olivetti (2013), la maieutica e il lavoro educativo di Danilo Dolci in Sicilia (da Trappeto a Partinico)


(Dolci, 1964), la pianificazione della libertà di Carlo Doglio (1985) e la sua divulgazione in Italia del pensiero regionalista e anarchico americano, l'architettura della partecipazione, praticata nel villaggio Matteotti di Terni da Giancarlo De Carlo (1973), l'analisi sociale e territoriale di Ludovico Quaroni nell'esperienza del quartiere della Martella a Matera. Una densa e ricca teoria di esperimenti in cui la partecipazione ha assunto modalità, ruoli, finalità anche molto diverse, ma tutte accomunate da un senso comune: quello di interpretare un progetto sociale e politico fatto di contaminazioni con il territorio, con la gente, con l'architettura, con le istituzioni e la politica. Le nuove pratiche, così come le ragioni dell'insoddisfazione, nonché, l'incertezza delle politiche pubbliche, sembrano essere oggi in cerca di una forma di dialogo (interazione e partecipazione) tra cittadini, istituzioni e impresa, in cui poter riconoscere proprio quello stesso tipo

di progetto sociale e politico che animava una prima stagione di senso della partecipazione in Italia. All'approccio olivettiano si riconosce ad esempio il merito (tra i molti progetti intrapresi), di aver aperto un varco al contributo sociale dell'impresa, all'incontro tra territorio, comunità e impresa stessa. Un'operazione che viene faticosamente, ma anche inevitabilmente intrapresa oggi, attraverso piattaforme di policy transfer progettate per coniugare innovazione dal basso (spesso invisibile), politiche pubbliche di fatto, istituzioni, e ricerca (in altre parole, università e città)3. La sfida delle politiche pubbliche e quindi della partecipazione come strumento delle politiche, in una città che si fa da sé, è forse oggi proprio quella di uscire dalla comfort zone di un terreno di lavoro consolidato in anni di pratiche, non sempre efficaci, e in cui i ruoli (e i campi di intervento o di protesta) di pubblico e privato, comunità e istitu-

zione, erano definiti da regole condivise, per entrare invece a gamba tesa in nuove trading zones (intese come strumento per organizzare piattaforme locali e sistemi di supporto per la partecipazione, la pianificazione, la produzione di conoscenza, il processo decisionale e la gestione dei conflitti locali) (Balducci, Mäntysalo, 2013), che consentano l'incontro tra linguaggi e culture diverse del fare città, ad esempio l'incontro tra innovazione dal basso, di cui sono portatori attori spesso senza voce, innovazione istituzionale, nuove forme di impresa sociale capaci di intercettare l'energia di chi semplicemente fa la città. Ovvero di chi non partecipa alla costruzione della decisione, ma agisce concretamente alla produzione, alla co-creazione del proprio spazio di vita, oltre le routine, attraverso nuovi metodi e con la consapevolezza di interpretare e compartecipe del cambiamento dei processi di urbanizzazione.

Note 1. In particolare Iveson definisce il DIY come segue: “in many cities around the world we are presently witnessing the growth of, and interest in, a range of micro-spatial urban practices that are reshaping urban spaces. These practices include actions such as: guerrilla and community gardening; housing and retail cooperatives; flash mobbing and other shock tactics; social economies and bartering schemes; 'empty spaces' movements to occupy abandoned buildings for a range of purposes; subcultural practices like graffiti/street art, skateboarding and parkour; and more” (Iveson 2013, 941). 2. La partecipazione come strumento di conflitto e lotta sociale degli anni '60 e '70, poi nel decennio successivo, da un lato la partecipazione come rivendicazione auto-centrata (domestica, incentrata sul disagio di pochi, indifferente alla sfera pubblica) espressa dalla sindrome NIMBY, dall'altro la partecipazione come tecnica sancita dall'emergere delle figure professionali del facilitatore e del mediatore; il ventennio successivo, salvo alcune “pratiche resistenti” di progettazione come “arte della progettazione interattiva” (Giusti in Paba, 2004) oppure di partecipazione come “comunità in corso” (Fareri, 2009), è invece all'insegna dell'istituzionalizzazione della partecipazione che diventa strumento del governo del territorio per poi perdersi nella deriva delle pratiche deliberative (raccolte nella famiglia delle pratiche di democrazia deliberativa) che di fatto hanno ulteriormente spinto in avanti il processo di spoliticizzazione della partecipazione (Fareri, 2009; Paba, 2004; Crosta 1998). 3. Proprio questo è ad esempio uno dei terreni di lavoro di urban@it (Centro nazionale di studi per le politiche urbane – www.urbanit.it) e in particolare del gruppo di lavoro “Università e Città” coordinato da Valeria Fedeli (Polimi), Camilla Perrone (Unifi), Vando Borghi (Unibo), Nicola Martinelli (Poliba), Patrizia Lombardi (Polito).

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UNO SGUARDO TEORICO

Partecipare le trasformazioni urbane in un'epoca di transizione di Alfredo Mela*

* Alfredo Mela Professore ordinario di Sociologia dell'ambiente e del territorio presso il Politecnico di Torino - Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio. E' membro dell'Associazione Italiana di Sociologia (AIS) ed è stato coordinatore nazionale della sezione “Territorio” (2013-2016). Si occupa di diversi campi di ricerca, tra i quali: “Principi e strumenti della partecipazione dei cittadini alla pianificazione e alla progettazione a scala urbana e locale”. E' autore di numerosi libri, articoli e testi adottati da diversi corsi universitari.

Il modello “europeo” di partecipazione Per potere ragionare in modo efficace sul futuro della partecipazione nelle società postindustriali, occorre prima di tutto prendere atto della molteplicità di significati che il termine – di per sé apparentemente semplice ed intuitivo - può assumere nei vari contesti di discorso. L'accezione più generica intende la partecipazione semplicemente come presenza attiva dei cittadini in un contesto spaziale, nelle diverse occasioni che esso offre. Un territorio ad elevata intensità di partecipazione, in tal senso, sarà un contesto ricco di iniziative economiche, sociali e culturali, con una forte articolazione della società civile, un diffuso capitale sociale, una propensione dei cittadini ad interessarsi del futuro della propria comunità. Si potrebbe dire che la partecipazione, intesa in questo senso ampio, è la matrice generativa di ogni processo partecipativo di contenuto più specifico, ma è ancora indeterminata: essa può fare da sfondo a processi di diversa natura. Una accezione più delimitata è, per contro, quella che la partecipazione dei cittadini ha assunto nel discorso dominante di una lunga fase del dibattito sui temi della città e del territorio, iniziata all'incirca nella metà degli anni '90 ed in via di esaurimento quanto meno a partire dall'inizio della crisi economica attuale, ovvero dal 2007- 2008. In questo caso, per “partecipazione” si è inteso essenzial-

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mente il coinvolgimento di gruppi di cittadini, più o meno organizzati, in processi finalizzati a decisioni pubbliche a riguardo di piani, progetti urbani, politiche con ricadute su un ambito spaziale ben definito. E' questo un modello di partecipazione che – se ci si intende riferire soprattutto al caso italiano – ha avuto per alcuni anni un impatto innovativo, rappresentando l'irruzione sullo scenario nazionale di una cultura e, anche, di una strumentazione civica in gran parte inedita, a differenza di altri paesi del centro-nord Europa, dove si è innestato su tradizioni nazionali che già da tempo avevano sperimentato quell'approccio. In ogni caso, è necessario partire proprio da questo modello (che per brevità chiameremo “europeo”), per riconoscerne elementi di attualità ed inattualità, come pure i fattori di una sua possibile evoluzione futura, provando a tratteggiare uno scenario di percorsi partecipativi in maggiore sintonia con le condizioni che si sono venute a formare negli anni più recenti. Innanzitutto, può essere utile richiamare alcuni caratteri della situazione propria degli anni '90, vale a dire del contesto storico che ha contribuito a favorire l'affermazione del modello “europeo”. Un primo e fondamentale aspetto di tale situazione è la più stretta integrazione che si determina proprio in quel periodo per effetto degli accordi di Maastricht e l'avvio di politiche sulle città,


come in particolare l'iniziativa comunitaria Urban. La prima fase dell'iniziativa comunitaria URBAN (“URBAN 1”) si è sviluppata nel quinquennio 1994-1999, ha visto uno stanziamento di oltre 900 milioni di euro ed il coinvolgimento di 118 città dei paesi allora appartenenti all'Unione. La seconda fase (“URBAN 2”) è stata varata nel 2000 e ha riguardato il periodo 2000-2006, con progetti di riqualificazione in 70 città (Commissione Europea, 2003). In entrambe le fasi, un forte accento è stato posto sull'importanza del coinvolgimento attivo dei cittadini sui temi della rigenerazione delle aree interessate, con particolare enfasi sugli aspetti della natura integrata degli interventi e sull'obiettivo della coesione sociale. Nel caso italiano vale poi la pena di mettere in rilievo come questa iniziativa abbia preso l'avvio in un periodo caratterizzato sia da una complessiva fiducia nell'Europa e nelle sue politiche, viste come possibile mezzo per il rinnovamento delle politiche nazionali, sia da un nuovo protagonismo delle città, in un periodo che, per contro, vede il sistema partitico scosso dalle indagini giudiziarie e dal crollo delle formazioni che avevano caratterizzato i primi decenni della storia repubblicana. Occorre ricordare come – in numerosi casi di città italiane di diversa dimensione – questo protagonismo si sia anche espresso attraverso l'elezione alla carica di sindaco di figure provenienti dalla società civile, non più emerse attraverso una carriera politica in ambito partitico. Per alcune di tali figure il fatto di puntare sulla candidatura della propria città in progetti europei, come pure su iniziative autonome che stimolassero la partecipazione dei cittadini (dallo sviluppo di piani urbanistici attraverso consultazioni pubbliche, alla promozione di piani strategici), ha costituito anche un mezzo per rafforzare la propria legittimazione sociale, segnando una discontinuità rispetto agli indirizzi del periodo precedente. Si è trattato di una congiuntura di fattori di durata relativamente breve ma che, negli anni a cavallo tra i due secoli, ha dato un'impronta ad una significativa ondata di processi partecipativi. A distanza di dieci-dodici anni dallo scioglimento di quella congiuntura - anche se l'approccio alla partecipazione che si è consolidato in quegli anni continua ad essere presente in varie iniziative – è possibile vedere con maggiore chiarezza gli elementi positivi e negativi che contraddistinguono il modello in questione. Tra i punti di forza va segnalato senza dubbio la diffusione di un'idea

della partecipazione civica distinta (anche se non in contrasto) con quella che passa dall'attivismo direttamente legato alle strutture partitiche o ai momenti elettorali. In tal modo si è delineata una nuova forma di attivismo, ben distante dalle aspirazioni ad una professionalizzazione del proprio impegno politico e che, tuttavia, comporta l'assunzione di un ruolo in qualche misura decisionale, in occasione di scelte pubbliche. Un altro aspetto che va valutato complessivamente in modo positivo è l'introduzione di elementi di formalizzazione dei percorsi partecipativi, il che comporta anche la messa a punto e la condivisione di strumenti per la conduzione dei processi. Questo ha dato spazio alla crescita di competenze legate all'uso di tali strumenti che sono divenute tipiche dei facilitatori della partecipazione (per i quali in effetti si dà un'aspirazione alla professionalizzazione, ma di natura tecnica, anziché politica), ma che, al tempo stesso, si sono diffuse anche presso i cittadini più attivi in tali processi. Limiti e criticità del modello Tuttavia, anche alcuni limiti di tale modello sono emersi con evidenza. Tra questi, quello che, a parere di chi scrive, occorre mettere in risalto nasce soprattutto dal carattere top-down dei processi che questo approccio ha favorito. Ciò significa che – quanto meno in una molteplicità di casi – la proposta di partecipazione proviene dall'alto, vale a dire da un'amministrazione che ritiene utile includere in un percorso che porta ad una decisione su una politica, un piano o un progetto, gruppi di cittadini interessati ai suoi effetti. Si aggiunga che in molte circostanze l'amministrazione stessa sceglie di fare tale proposta in quanto la città si candida ad un bando europeo, o anche di scala nazionale o regionale, che richiede la stimolazione della partecipazione dei cittadini come attività essenziale per poter aspirare ad un finanziamento. Ciò non implica necessariamente che in tal caso il processo partecipativo assuma un carattere strumentale o di facciata, ma certamente contribuisce a fissare un quadro che ne limita le possibili dinamiche e gli impatti sociali. Si aggiunga ancora che il fatto che la partecipazione sia “contenuta”, anche da un punto di vista cronologico, entro i precisi termini dati dal cronoprogramma, tende a circoscriverne la portata e a farle assumere come punto focale il momento della decisione sui progetti o politiche da mettere in atto secondo le indicazioni contenute nel bando. La stessa pianificazione del percorso e l'uso di stru-

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menti supportati da competenze professionali – che si è valutata poco fa come un carattere positivo – non è priva di risvolti problematici. Ciò si verifica quando la strumentazione usata per facilitare il processo prende il sopravvento sui suoi contenuti e sulle sue ricadute sociali. In questi casi, il carattere top down della partecipazione viene ancor più esaltato: quello che maggiormente conta durante il percorso e in sede di rendicontazione è aver svolto a regola d'arte le attività programmate rispettando la tempistica; molto meno interessa valutare (ed in effetti raramente questo viene fatto) in che modo l'intero processo abbia contribuito a migliorare la qualità delle decisioni, quali effetti di empowerment (Ciaffi, Mela, 2011) abbia avuto sulla popolazione, quali trasformazioni sociali possa ulteriormente favorire. L'enfasi sulla strumentazione appare ancor più evidente nei processi più recenti la cui concezione è influenzata dalla retorica della smart city (Santangelo, Aru, Pollio, 2013): al di là delle definizioni complesse fornite dalla letteratura in proposito, spesso l'interpretazione pratica di questo concetto lo fa coincidere con lo sviluppo di tecnologie e dispositivi atti a risolvere specifici problemi della città. Trasposto nel campo della partecipazione, esso favorisce soprattutto l'uso di dispositivi on line nella progettazione dei processi; ancora una volta, si tratta di un'evoluzione potenzialmente positiva, che tuttavia in molti casi rischia di far convergere l'attenzione sulla strumentazione tecnologica ed organizzativa piuttosto che sulle valenze politiche e sociali del coinvolgimento dei cittadini. Da considerazioni di questo tipo - accanto ad altre di natura diversa, ad esempio centrate sulla possibile consonanza tra la diffusione di processi partecipativi e orientamenti neoliberisti delle policy urbane (Moini, 2012) – sono sorti già da tempo numerosi approcci critici alla partecipazione, che ne denunciano il fallimento o la accusano di aver prodotto una retorica pervasiva ma inefficace e, tuttavia, capace di svolgere un ruolo che taluni definiscono addirittura “tirannico” (Cooke, Kothari, 2001). Al di là, tuttavia, delle critiche esplicite – che hanno il merito di fare emergere le ambiguità o le conseguenze controintuitive dell'allargamento del processo decisionale – si è diffusa una forma di pensiero a riguardo della partecipazione che porta a considerarla come uno dei molti possibili stili di conduzione delle policy, che deve essere adottato solo dopo una valutazione attenta dei suoi costi e benefici. La domanda di fondo, dunque, è “ne vale la pena?” (Irvin, Stansbury, 2004); una domanda certamente sensata, dato che non sempre si


danno le condizioni per una buona riuscita dei processi, ma che in definitiva implica preliminarmente la considerazione del coinvolgimento dei cittadini come un optional. In questo non vi è nulla di inaccettabile in linea di principio: la delega politica conferita agli amministratori attraverso le procedure della democrazia rappresentativa è sufficiente a legittimarli ad assumere decisioni, anche senza ulteriori forme di coinvolgimento diretto. E' però anche vero che sta emergendo in modo vivace una domanda di controllo sulle scelte dei rappresentanti eletti e che, dunque, l'esigenza di trasparenza e di accountability delle procedure per la decisione e per l'implementazione di politiche si sta facendo sempre più pressante da parte dei cittadini più attivi (Institute of Development Studies, 2010), facendo da contraltare alla disillusione e al distacco dalla politica, che rappresenta una tendenza ormai dilagante in molti paesi. In ogni caso, il carattere opzionale dei processi partecipativi in forme aggiuntive rispetto ai meccanismi della democrazia rappresentativa può essere considerato accettabile solo se il punto di vista considerato è unicamente quello delle amministrazioni pubbliche. Se invece si tiene presente una prospettiva più larga, che tenga conto anche delle domande sociali, delle dinamiche e dei conflitti che si producono sul territorio, diventa più evidente che il problema non è solo quello del calcolo dei vantaggi e degli svantaggi della partecipazione. Verso nuove forme di partecipazione Si è prima accennato come – al di là di perduranti iniziative improntate dal modello “europeo” – l'avvio della crisi economica segni un evidente fattore di discontinuità sui temi qui affrontati. Anche se un'analisi soddisfacente richiederebbe un approfondimento non possibile in questa sede, vi sono alcuni punti che meritano di essere richiamati. Prima di tutto, occorre evidenziare come la drastica contrazione delle risorse pubbliche disponibili per le tipologie di piani e progetti urbani che più avevano sollecitato i processi partecipativi non solo abbia provocato un ridimensionamento di quegli interventi, ma comporti anche che, da parte di chi aveva considerato la partecipazione come una possibilità tra le altre, proprio questa appaia sovente come una voce di costo da eliminare anche nel caso di nuove iniziative. Del resto, in molti paesi (e tra questi certamente il nostro) la necessità di fronteggiare situa-

zioni critiche dà nuova esca a concezioni politiche che mettono al primo posto esigenze di governabilità e di rapidità nella decisioni, alle quali sembra dar risposta una nuova centralizzazione delle politiche ed un decisionismo che lascia poco spazio all'allargamento della consultazione. Di fronte a questi caratteri della situazione negli anni più recenti, che configurano una condizione meno favorevole allo sviluppo della partecipazione modellata secondo lo schema che abbiamo etichettato come “europeo”, i segnali che emergono da parte della cittadinanza sono complessi e non vanno in un'unica direzione. Da un lato, infatti, si manifestano sempre più evidenti segnali di scollamento della sfera politica – specie di quella di livello accentrato – dalle esigenze della vita quotidiana di gran parte dei cittadini, un fenomeno che si accompagna anche ad un crollo della fiducia nelle modalità tradizionali di fare politica. Dall'altro lato, però, sono visibili anche nuove forme di attivismo di gruppi di cittadini, che si radicano soprattutto nei contesti locali ma che, grazie alle tecnologie della comunicazione oggi disponibili, sono in grado di connettersi a rete per svolgere interscambi sulle reciproche esperienze e, in alcuni casi, anche per fare massa critica per operare pressioni a favore o, più spesso, contro determinate politiche. E' forse prematuro domandarsi se queste iniziative possano caratterizzare una vera e propria nuova fase dei processi partecipativi. Tuttavia, già da ora è possibile sottolineare alcuni loro aspetti che le differenziano in modo chiaro dalla fase precedente. Esse nascono principalmente da un'attivazione di gruppi di cittadini dal basso, che possono ricercare o meno l'interazione con le istituzioni e, comunque, possono cercarla a partire dalle proprie proposte. Le tematiche su cui operano sono spesso legate alla difesa e valorizzazione di beni comuni, sia che si tratti del contrasto a tentativi di privatizzazione, sia che si intenda ampliarne la fruizione, cercando sinergie con le amministrazioni locali. Per chi opera in quest'ultima direzione uno strumento di primaria importanza sono i regolamenti per l'amminis-trazione condivisa dei beni comuni che, a partire dall'esperienza pilota del comune di Bologna, si stanno diffondendo in molti municipi italiani: secondo i dati del sito di Labsus (http://www.labsus.org/i-regolamenti-perlamministrazione-condivisa-dei-beni-comuni/) a metà ottobre 2016 un documento di questa natura è stato già adottato da 99 amministrazioni locali, mentre altre 74 stanno per approvarlo.

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Le iniziative che si servono di tale strumento – o anche altre, che si esprimono in forme autonome e talora radicali, ma che hanno per obiettivo quello di una realizzazione di qualcosa di concreto hanno un carattere che occorre evidenziare: esse concepiscono la partecipazione non solo come una modalità di condivisione delle decisioni pubbliche, ma anche e soprattutto come una mobilitazione per renderle operanti. La democrazia partecipativa, dunque, in questi casi ingloba la dimensione dell'attivazione sociale per costruire direttamente qualcosa che non sarebbe sorto senza l'iniziativa diretta dei cittadini. Questo carattere emergente non può certo essere considerato come un elemento inedito, se si tiene conto di una tradizione che ha radici lontane nel contesto nazionale (Laino, 2012). Tuttavia, un aspetto innovativo può essere ritrovato nel fatto che questo tipo di mobilitazione – che in passato fioriva soprattutto su temi sociali - si esprime oggi anche sul terreno urbanistico, sia come contestazione di operazioni sul territorio, promosse da istituzioni o da privati, che appaiono contrarie all'interesse dei cittadini, sia come tentativo di produrre direttamente delle trasformazioni. In tal caso si tratta di forme di urbanistica autoprodotta, o di handmade urbanism (Rosa, Weiland, 2013), che cerca in misura maggiore o minore una risposta istituzionale; un'urbanistica spesso di natura minimale, che si concretizza ad esempio sotto forma di interventi di agopuntura urbana realizzata attraverso l'occupazione di spazi pubblici inutilizzati. Interventi che spesso danno vita a modificazioni temporanee e “leggere” di luoghi della città qualche volta in aperta polemica con i grandi interventi degli anni '90 o con i segni architettonici forti, tipici dei progetti delle archistar - ma che hanno valore soprattutto in quanto tentano di rispondere ad esigenze immediate della popolazione di un quartiere, o di un gruppo minoritario, ma al tempo stesso di evidenziare possibili usi alternativi della città o modi di vita diversi e sostenibili. Certamente, nulla garantisce che anche questa forma di partecipazione sia al riparo dal rischio della marginalità o da quello di una manipolazione da parte di istituzioni o delle stesse forze di mercato: l'iniziativa dal basso può essere favorita semplicemente per trovare sostituti a basso costo di trasformazioni più impegnative che le amministrazioni non sono più in grado di fare; così pure può capitare che pratiche handmade siano appropriate da mode culturali e fatte oggetto di usi strumentali. Nonostante ciò - e per quanto si tratti di iniziati-


ve che coinvolgono solo specifici gruppi di cittadini - esse hanno il pregio di uscire dalla logica della partecipazione come pratica principalmente legata alla realizzazione di progetti dotati di finanziamento pubblico o come (opzionale) accompagnamento sociale di una politica istituzionale. In questi casi, infatti, la partecipazione nasce e si sviluppa per ragioni proprie e, semmai, spetta alle amministrazioni trovare gli strumenti per mettere in rete pratiche spontanee tra loro eterogenee e per riconnetterle alla propria visione strategica. Essa, dunque, prefigura un rapporto tra enti pubblici e cittadini meno standardizzato e, per alcuni aspetti, meno prevedibile di quello del “modello europeo”; un rapporto che, in diversi contesti, può avere esiti eterogenei e persino opposti tra loro ma che, comunque, non si presta alle critiche che molti hanno rivolto a quel modello.

Riferimenti bibliografici Ciaffi D., Mela A. (2011), Urbanistica partecipata. Modelli ed esperienze, Carocci, Roma. Commissione Europea (2003), Il partenariato con le città. L'iniziativa comunitaria URBAN, http://ec.europa.eu/regional_policy/sources/docgener/ presenta/cities/cities_it.pdf Cooke B., Kothari U. (2001), Participation:The New Tyranny?, Zed Books, London-NewYork. Institute of Development Studies (2010), Review of Impact and Effectiveness ofTransparency and Accountability Initiatives: Synthesis Report, a cura di McGee R., Gaventa J., http://www.ids.ac.uk/files/dmfile/IETASynthesisReport McGeeGaventaFinal28Oct2010.pdf Irvin, R. A. & Stansbury, J. (2004). Citizen participation in decision making: Is it worth the effort? Public Administration Review, 64 (1), 55-65. Laino G. (2012), Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come attivazione sociale, F. Angeli, Milano. Moini G. (2012), Teoria critica della partecipazione. Un approccio sociologico, F. Angeli, Milano. Rosa M.L., Weiland U.E. (eds.) (2013), Handmade Urbanism. From Community Initiatives to Participatory Models, Jovis, Berlin. Santangelo M., Aru S., Pollio A., a cura di, (2013), Smart city. Ibridazioni, innovazioni e inerzie nelle città contemporanee, Carocci, Roma.

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UNO SGUARDO TEORICO

Deliberare: una declinazione innovativa del verbo 'partecipare' di Rodolfo Lewanski*

'Ma quanto alla prudenzia ed alla stabilità, dico, come un popolo è più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe. E non sanza cagione si assomiglia la voce d'un popolo a quella di Dio: … talché pare che per occulta virtù ei prevegga il suo male ed il suo bene.' (N. Machiavelli, Discorsi sopra la Prima Decade di Tito Livio) Partecipazione perché? La democrazia rappresentativa, vista in prospettiva storica, costituisce una straordinaria innovazione nei modi in cui le società umane si governano. Tuttavia oggi è chiaro come questa 'vecchia signora' con due secoli di storia alle spalle sia in affanno, un po' ovunque. Se le élites politiche portano certamente la loro parte di responsabilità

*Rodolfo Lewanski Docente presso il Dipartimento di Scienza Politica della Università di Bologna, insegna Democrazia Partecipativa e Analisi delle Politiche Pubbliche. Ha insegnato in altri atenei, fra i quali Barcellona e Sydney. E' stato responsabile dell'attuazione della l.r. 69/2007 della Toscana di promozione della partecipazione dal 2008 al 2013, con il ruolo di Autorità Regionale per la Partecipazione. Membro del comitato di redazione di riviste internazionali, è stato presidente dell'Associazione italiana per la partecipazione pubblica (www.aip2italia.org) fino al 2016. Si occupa in particolare di politiche ambientali, gestione dei conflitti ambientali, democrazia deliberativa, sviluppo sostenibile. Su tali temi ha pubblicato numerosi lavori.

dell'attuale crisi, a ben guardare vi sono fattori strutturali della società contemporanea che inceppano i meccanismi decisionali della “democrazia dei moderni” fondata sulla rappresentanza. In estrema sintesi, vorrei attirare l'attenzione in particolare su quattro di questi fattori (sintetizzate nella figura 1).

FIG. 1. Alcuni dei fattori alla radice della 'crisi decisionale' delle democrazie rappresentative contemporanee.

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1) I rapporti tra governanti e governati nelle democrazie occidentali versano da tempo in uno “stato di sofferenza”: i cittadini hanno perso la fiducia nelle capacità e nelle intenzioni di chi governa; non si sentono rappresentati adeguatamente, e le élites politiche sembrano avere perso il contatto con le società che governano (come confermano molti sondaggi, da Demos & Pi in Italia al World Values Survey). I cittadini avvertono come il potere stia migrando dalla sfera pubblica verso lidi sempre più distanti, nelle mani di oligarchie prive di legittimazione democratica; ci muoviamo sempre più verso il polo “post-democratico” (Crouch 2003) in cui sono ristrette élites ad assumere le decisioni rilevanti: burocrazie, tecnocrazie, organizzazioni intergovernative, lobbies, attori economicofinanziari – specie multinazionali –, media, aziende informatiche e criminalità organizzata, tutti soggetti che dispongono di risorse imponenti, materiali e ideologiche, spesso superiori agli Stati nazionali che a loro volta hanno ormai perduto la sovranità economica. Si prefigura uno scenario in cui si conserva solo il “guscio” esteriore della democrazia perdendone la “polpa”, la sostanza. 2) Le decisioni pubbliche vengono presentate come “tecniche”, basate sulle indicazioni di esperti; in realtà, ogni scelta implica la (re)distribuzione di costi e benefici a carico di individui e segmenti della società: le scelte non sono mai né neutrali, ma questo aspetto viene sottaciuto (finché l'esplosione di conflitti non dà loro espressione). 3) La società contemporanea, proprio in ragione del livello di sofisticazione raggiunto, si trova a compiere scelte su questioni che per la loro natura sono oggettivamente wicked, ovvero ostiche, persistenti e intricate (eticamente, tecnicamente, socialmente), per le quali non vi sono soluzioni definitive, ma solo risposte temporanee e imperfette: gli impieghi della tecnologia (OGM, biotecnologie, nanotecnologie), il degrado dei beni ambientali (cambiamento climatico, inquinamenti), le questioni valoriali (eutanasia, riproduzione assistita, unioni tra persone dello stesso sesso), la localizzazione di grandi opere infrastrutturali o produttive. Questioni come queste producono “faglie” nelle preferenze dell'opinione pubblica che spesso seguono linee di frattura diverse da quelle ideologiche o partitiche tradi-

zionali. 4) I processi di produzione delle politiche pubbliche sono contraddistinte, oltre che dall'aumento dell'incertezza e della conflittualità, da un'esplosione della complessità decisionale a causa della pluralità ed eterogeneità dei punti di vista rappresentati all'interno dei processi; le pluriappartenenze degli individui e la diversità di identità, culture, interessi e opinioni contraddistinguono la sfera pubblica e la vita politica delle società contemporanee. Sia il potenziale che la necessità dell'azione comunicativa, secondo J. Habermas, si sono ampliati nella società moderna proprio perché caratterizzata da un accentuato pluralismo sociale. Una modalità innovativa di declinare la partecipazione La sintetica esposizione che precede indica alcune delle ragioni per cui gli attuali meccanismi decisionali propri della democrazia rappresentativa non siano, almeno da soli, adeguati alle caratteristiche della società attuale. Le possibili risposte vanno in direzioni diametralmente opposte: da una parte la ricetta è un assetto post-democratico (ovvero “meno democrazia”). Se invece teniamo ai beni valoriali che i regimi democratici offrono ai propri membri, la risposta è all'opposto “più democrazia” (come sosteneva fra gli altri J. Dewey già un secolo fa). In altre parole si tratta “semplicemente” di prendere la democrazia sul serio restituendo al demos un po' del suo kratos, potere, coinvolgendo i cittadini nei processi attraverso cui si assumono le decisioni pubbliche. Tuttavia, la partecipazione secondo le modalità con cui viene generalmente declinata sia dalle istituzioni che dai movimenti sociali presenta gravi limiti che ne inficiano la credibilità e l'utilità nel contesto attuale. Il termine “partecipazione” attualmente è un termine usato con una varietà di significati e ampiamente abusato. Nella prassi corrente viene declinato dalle istituzioni sostanzialmente secondo due accezioni: - come consultazione o concertazione di segno “corporativo” fra diversi livelli di governo e soggetti organizzati e i gruppi di pressione (peraltro già dotati spesso di consistenti risorse economiche e politiche che consentono loro di perseguire i propri interessi particolari); - come mera informazione o tutt'al più consultazione di cittadini comuni, tipicamente a livello

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locale; queste forme di coinvolgimento sono impiegate in modo superficiale e top-down, non di rado per suffragare scelte sostanzialmente già prese. Per parte sua, anche la partecipazione “alternativa” sul modello assembleare, invocata e praticata dai movimenti sociali che si susseguono dagli anni '60, per quanto legittima come forma di mobilitazione, ha dimostrato di essere inefficace e impraticabile nel tempo come forma ordinaria di governo che coinvolga la generalità dei cittadini (di fatto a partecipare sono solo i “cittadini attivi” e i militanti); ed è lecito mettere in discussione anche la reale democraticità delle dinamiche assembleari. Nel corso dell'ultimo mezzo secolo è andata emergendo, sia nella teoria politica che nella prassi istituzionale e sociale, una modalità diversa e innovativa di coinvolgere in maniera rilevante e fisiologica (piuttosto che episodica) i cittadini nella cosa pubblica: la partecipazione deliberativa. Questa forma di partecipazione è il frutto della confluenza di una pluralità di riflessioni, pratiche e culture politiche diverse, in particolare quelle più propriamente di democrazia deliberativa del mondo anglosassone e del Nord Europa, e di “democrazia partecipativa” dell'America Latina; oggi la partecipazione deliberativa sta proliferando ed evolvendo rapidamente in molti paesi del mondo. L'idea della “deliberazione” non è affatto nuova, e anzi è connaturata all'idea stessa di democrazia, sia diretta (l'agora dell'antica polis greca) che rappresentativa (i parlamenti - dal francese parlement - sono assemblee che dovrebbero essere deputate per antonomasia alla deliberazione). La deliberazione è il “governo mediante la discussione” (Habermas 1996). Nell'accezione originaria (che la lingua inglese conserva a differenza dell'italiano) deliberare significa sì assumere una decisione nel merito di una questione, ma solo dopo averla discussa ed esaminata a fondo, “soppesando” attentamente i pro e i contra dei diversi possibili corsi d'azione, compresi i vincoli, le opportunità, i valori e gli interessi in competizione, gli eventuali scambi e sacrifici in gioco. La deliberazione è un processo di analisi delle questioni, di ponderazione delle opzioni e di assunzione di decisioni nel merito. L 'innesto' della deliberazione sulla partecipazione appare dunque uno sviluppo naturale, per così dire. La partecipazione deliberativa consiste in un processo sociale inclusivo che mette al centro il dialogo e la comunicazione fondato sullo scambio


autentico e reciproco di argomenti e ragioni, in condizioni procedurali eque fra partecipanti liberi e uguali, in un clima di rispetto e di ascolto attento dei diversi punti di vista; mira a una progressiva comprensione delle ragioni altrui, rivolto a produrre un'attenta riflessione con l'obbiettivo di pervenire a una decisione su una questione collettiva significativa in base alla {forza noncoercitiva dell'argomento migliore”. L'enfasi che la partecipazione deliberativa pone

sullo scambio di argomenti, si noti, attenua l'influenza degli interessi sulle decisioni pubbliche a vantaggio degli aspetti collettivi: le ragioni addotte dai partecipanti a giustificazione delle proprie posizioni debbono essere socialmente accettabili (quello che J. Elster chiama la “forza civilizzatrice dell'ipocrisia”). In sintesi, la partecipazione deliberativa si distingue da quella di impronta tradizionale sotto numerosi profili, di cui qui preme evidenziarne

tre: chi partecipa? Come? Qual è l'esito e l'influenza? Chi? I partecipanti Il '“chi partecipa” è un aspetto troppo spesso ignorato o dato per scontato nella partecipazione tradizionalmente intesa. Eppure si tratta di una “meta-decisione” di importanza capitale: chi partecipa influenza il processo, il suo esito nonché la sua legittimità.

FIG. 2. Tipologie di potenziali soggetti partecipanti e relative modalità di reclutamento.

Sotto questo profilo, una prima questione è se a partecipare debbano essere stakeholders, oppure singoli individui a titolo personale, oppure un mix. I processi partecipativi tradizionali spesso vedono il coinvolgimento di esponenti di gruppi d'interesse o di organizzazioni, comunemente indicati con il termine di stakeholders (ovvero “detentori delle poste” in gioco); questi soggetti tipicamente hanno già un'agenda definita e posizioni precostituite espressione dei loro interessi, che difficilmente possono modificarsi all'interno di processi partecipativi di segno deliberativo (mentre invece possono essere utilmente coinvolti in processi di scambio all'interno di processi di negoziazione). In secondo luogo, la partecipazione invece dei singoli cittadini pone un problema acuto di dimensioni. Il coinvolgimento dell'universo degli individui interessati in qualche grado a una scelta pubblica appare di fatto impraticabile e il principio di “inclusione” non può essere interpretato nel senso che tutti i cittadini vogliono o possono partecipare (le potenzialità della democrazia online sotto questo profilo sono ancora da esplorare e da dimostrare). Se non è possibile far partecipare tutti i membri di una comunità più o

meno ampia, quale criterio possiamo utilizzare per “selezionare” coloro che partecipano? I criteri di reclutamento possibili sono riconducibili in sostanza a tre tipologie (cfr. figura 2). 1) La selezione mirata che fa ricorso all'invito diretto a specifici individui (per esempio leaders di comunità) o gruppi (in particolare quelli che sono meno propensi a partecipare), o che hanno un interesse specifico nella questione trattata. 2) La “porta aperta” rappresenta l'opzione di default della partecipazione: processi e incontri vengono pubblicizzati e sono aperti a chiunque lo desideri. La tradizionale partecipazione assembleare segue questo criterio. Apparentemente si tratta anche dell'opzione più democratica, ma occorre chiedersi se lo sia veramente. Si consideri, fra gli altri aspetti, come alcune categorie di cittadini siano più propense a prendere parte alla vita pubblica di altri (ad es. gli uomini più delle donne, le persone di mezza età rispetto ai giovani, le persone più istruite). Più in particolare, è abbastanza evidente che adottando questa modalità partecipano due tipi di cittadini: · i militanti, i “soliti noti”, gli habitués della politica,

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i “cittadini attivi” interessati in generale alla cosa pubblica; · chi è (o si sente) direttamente toccato alla specifica questione. L'auto-selezione dei partecipanti è dunque molto marcata, a tutto scapito della loro diversità e della rappresentatività. La “porta aperta” premia l'intensità delle preferenze: partecipa chi è fortemente motivato e/o direttamente toccato dalla questione trattata, con preferenze pre-costituite, il che però impedisce una riflessione aperta. 3) Il campionamento casuale stratificato dei partecipanti consente di selezionare un minipubblico descrittivamente rappresentativo sotto il profilo socio-demografico (ad es. per età, genere, area di residenza ecc.) che “somiglia” all'intera popolazione; il campionamento è dunque il modo migliore, fra quelli disponibili, per assicurare la diversità di voci e la presenza di una varietà di prospettive. L'opinione espressa da un minipubblico deliberativo rivela la “volontà pubblica” che esprimerebbe l'insieme della popolazione interessata se avesse l'opportunità di dialogare con i propri concittadini e di disporre delle informazioni rilevanti. La tabella 1 offre una comparazione sintetica dei diversi approcci di 'reclutamento' dei partecipanti.


TAB. 1. Strategie di reclutamento a confronto: pro e contra

Criterio di reclutamento A invito

Tipologia partecipanti stakeholders

Motivazioni a partecipare - interesse sostantivo

Rappresentatività e diversità categorie e interessi

Auto-selezione/ ‘porta aperta’

cittadini attivi e/o interessati dal tema

- interesse sostantivo - senso civico - motivazioni ideali

basse

Selezione casuale/ minipubblico

cittadini comuni (a campione)

- senso civico - incentivi simbolici e materiali - interesse

elevate

Come? Un dialogo, informato e garantito La partecipazione deliberativa presuppone che le interazioni fra partecipanti avvengano in un clima dialogico, possano attingere alle informazioni e conoscenze utili e che vi siano adeguate garanzie di imparzialità nella conduzione dei processi. 1) Dialogo. La deliberazione, come accennato, consiste in interazioni dialogiche intersoggettive basate sullo scambio e la valutazione delle argomentazioni concorrenti dei partecipanti. Il tratto distintivo del dialogo rispetto ad altre forme di interazione è il fatto che gli individui adottano una postura di indagine e apprendimento esplorando i diversi punti di vista, ma anche gli assunti che stanno dietro alle opinioni. Il dialogo mira a una progressiva comprensione delle ragioni altrui (senza rinunciare aprioristicamente alle proprie), a uno spostamento verso valutazioni più bilanciate e ragionate, e in prospettiva alla trasformazione delle opinioni e delle preferenze. Il dialogo è il presupposto per l'individuazione di opzioni innovative e di possibili scelte condivise, “soppesandone”, come si è detto, le implicazioni, i relativi costi e benefici (non solo economici, ma anche sociali, ambientali e così via). Da questa breve descrizione è evidente come il dialogo si differenzi dalle modalità “usuali” della discussione sociale caratterizzate da dinamiche di contrapposizione polarizzata orientate semplicemente all'affermazione delle proprie ragioni (e all'auto-rassicurazione). Inoltre, i dialogo è comunicazione (verbale e non verbale) intesa non come mera trasmissione di contenuti, ma come processo di (co)costruzione di significati comuni e di relazioni capace di combinare l'aspetto cognitivo con quello culturale del “dare significato” a un mondo complesso. Perché questo possa avvenire, tutte le voci – in

particolare quelle tradizionalmente marginali – debbono potere sia esprimersi, sia essere realmente ascoltate. In assenza di un minimo di struttura non si ha un “dialogo pubblico decente”, e gli incontri “non fanno che riprodurre le gerarchie di genere, retorica e potere della vita quotidiana” (Ginsborg 2005). Perché possano instaurarsi le condizioni appropriate, i processi deliberativi si servono di appositi “metodi” che mirano a creare un setting, un contesto “altamente artefatto” (Fung 2003) che è “l'insieme delle condizioni organizzative e mentali che … orienta il comportamento delle persone” (Mannarini 2009).

spettive soggettive – e quindi la complessità e l'incertezza- che ruotano attorno alla questione in considerazione. Nei processi deliberativi vengono utilizzati diversi tipi di “canali” per fornire ai partecipanti questi elementi (materiale informativo, incontri con esperti, testimonianze di stakeholders); in ogni caso, le informazioni fornite debbono essere da una parte “digeribili” anche per i “non addetti” e il più possibile neutrali oppure bilanciati in modo da prospettare le diverse posizioni.

3) Garanzie di imparzialità Nell'attuale clima di sfiducia generalizzata nei con2) Alla ricerca di opinioni informate e condivise fronti della politica e delle amministrazioni, non Perché la partecipazione politica sia effettiva, i cit- stupisce che i cittadini nutrano quanto meno qualtadini debbono poter disporre delle informazioni e che sospetto nei confronti processi partecipativi conoscenze necessarie per poter esprimere il pro- temendo manipolazioni o strumentalizzazioni. prio consenso o dissenso in modo da potersi fare La partecipazione deliberativa offre diverse delle opinioni informate (in contrapposizione a quel- garanzie di imparzialità, di cui due in particolare le “grezze” rilevate nei sondaggi) nel merito della vanno ricordate qui. questione in considerazione. “La discussione è un Primo: il campionamento sceglie i partecipanti modo di combinare informazioni e ampliare la tramite un meccanismo fra i più imparziali che le gamma delle argomentazioni… arrivando a giudi- società umane siano state capaci di escogitare: il zi ponderati che riflettono un senso di giustizia, sorteggio. Ed è anche uno dei più egualitari (come basato su criteri non arbitrari” con un effetto posi- sapevano ateniesi, fiorentini e altri popoli): ogni tivo, nel tempo, sulle questioni trattate' (Rawls cittadino ha le stesse probabilità di essere selezio1971). nato. Sotto questo profilo la deliberazione svolge una Secondo: è prassi diffusa in questo tipo di processi funzione epistemica. L'informazione di per sé non istituire un comitato di supervisione e garanzia, è partecipazione, ma costituisce la – imprescindi- che può essere composto dalle forze politiche e bile – pre-condizione per un effettivo dialogo; sociali in gioco e/o da leaders della comunità, con l'evidenza empirica suggerisce come i processi il compito di vigilare contro possibili arbitri e 'pilodeliberativi siano effettivamente in grado di tamenti' e validare le scelte più importanti e sensiaumentare in misura significativa il livello di cono- bili (le modalità di reclutamento dei partecipanti, scenza e informazione dei partecipanti. la scelta degli eventuali esperti e testimoni, i mateVa evidenziato come non si tratti dunque solo di riali informativi distribuiti ai partecipanti, la logistiinformazioni “oggettive” o di dati tecnici; la parte- ca, ecc.). cipazione deliberativa, come accennato, mira a integrare nel processo di decisione le diverse pro-

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Gli esiti 1) Scelte condivise Se, come si è detto, valori, opinioni, prospettive, fatti e interessi non sono da considerare come “dati” una volta per tutte, questi possono essere interpretati, formarsi e anche trasformarsi nel corso delle interazioni dialogico-deliberative. Dialogo e incorporazione di nuove conoscenze mirano ad innescare processi in cui “gli individui sono indotti a riflettere sulle proprie posizioni” e, di conseguenza, in cui è possibile che avvengano cambiamenti nelle opinioni e nel modo di percepire le posizioni proprie e altrui. Se vi è una trasformazione delle opinioni, è possibile che i partecipanti possano pervenire a scelte condivise. L'intento di questi processi consiste infatti nell'individuare e adottare una decisione: i partecipanti “esercitano collettivamente il loro giudizio civico per arrivare a una decisione reciprocamente accettabile” (non necessariamente un consenso “totale”; talvolta da questi processi emerge solo una parziale condivisione o convergenza di punti di vista, oppure la scoperta di alcuni terreni comuni, o una maggiore comprensione delle ragioni profonde alla base delle diverse prospettive, ma anche la capacità di vedere le posizioni dello “altro” come altrettanto legittime delle proprie). 2) Influenza effettiva La partecipazione politica consiste in “qualsiasi comportamento … percepibile e visibile” che miri a esercitare influenza sui processi politici o sulla “allocazione vincolante di valori” (Verba e Nie 1972), ovvero sulle decisioni che si applicano alla collettività. Questa – classica -definizione consente di mettere a fuoco un aspetto fondamentale: la partecipazione mira a esercitare influenza su scelte pubbliche. Questa precisazione consente di distinguere la partecipazione politica da quella a carattere socia-

le. L'essere membro di un'associazione di volontariato rappresenta una forma di cooperazione sociale, ed è certamente partecipazione, ma non di natura politica. O ancora: molte amministrazioni pubbliche oggi chiamano “partecipazione” forme di azione diretta di gruppi di cittadini che curano beni collettivi, quali la manutenzione degli spazi verdi urbani. Il governo olandese è arrivato a teorizzare questo ruolo dei cittadini coniando il termine do-ocracy; in un'accezione similare vengono usati termini quali public work, cittadinanza attiva, collaborazione cittadini-amministrazioni, democrazia del fare. Le attività auto-organizzate “dal basso” sono certamente positive per la comunità: non solo forniscono un servizio o un bene che altrimenti sarebbe indisponibile, ma contribuiscono anche alla produzione di capitale sociale. Tuttavia queste forme di azione collettiva, in contrasto con la definizione proposta, non implicano un trasferimento di potere decisionale in capo ai cittadini. In realtà, si potrebbe notare, i cittadini con la loro attività suppliscono alla carenza di servizi finora forniti dal settore pubblico, che si vede costretto a ridurre i costi. La partecipazione deliberativa, in ultima istanza, mira a rafforzare la voce dei cittadini, ma anche la genuina disponibilità delle istituzioni a recepire questa “voce”; la partecipazione deliberativa implica gli esiti siano presi in seria considerazione dalle istituzioni. Detto altrimenti: implica il trasferimento/la restituzione di quote di potere dai

governanti ai cittadini sovrani. Le amministrazioni pubbliche, debbono cedere una parte del loro potere, almeno parzialmente e temporaneamente, accettando di svolgere il ruolo di promotori di processi di coinvolgimento piuttosto che di decisori nel merito. Per apprezzare meglio questo – fondamentaleaspetto è utile considerare la “scala della partecipazione” (in una versione semplificata rispetto a quella proposta da S. Arnstein nel 1969) di cui alla figura 3. 1) Informare: consiste nel fornire informazioni, auspicabilmente bilanciate e imparziali (la promessa è 'Vi teniamo informati'). 2) Consultare: mira a ottenere i commenti e le opinioni in merito a una questione (“Vi teniamo informati e vi ascoltiamo, e vi faremo sapere come i vostri commenti hanno influenzato la decisione”). 3) Coinvolgere: le opinioni e proposte sono prese in seria considerazione (ma senza un preciso impegno di adottarle). 4) Co-decisione: partecipanti e decisore sono partners su un piede di parità nell'assumere la decisione. 5) Empower: sono i partecipanti a prendere la decisione.

FIG. 3. La 'scala della partecipazione' e le relative promesse. Fonte: elaborazione propria da International Association of Public Participation (IAP2)

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I primi gradini della scala costituiscono forme meramente simboliche di coinvolgimento: i cittadini possono ascoltare e farsi sentire, ma senza alcun impegno credibile che saranno davvero ascoltati. Declinare ancora la partecipazione secondo queste forme piuttosto tradizionali e 'logorate' appare quanto meno poco utile ed efficace (sorvoliamo sull'aspetto democratico). Un qualche grado di reale empowerment implica invece che: 1) le questioni in discussione siano significative e di qualche rilevanza; 2) il processo eserciti un effettivo impatto; a tal fine deve essere pre-definita la “autorità” che la partecipazione è destinata a esercitare sugli esiti, con un impegno esplicito e preciso in tal senso da parte dei soggetti responsabili (cfr. le ll.rr. 69/07e 46/13 della Toscana secondo cui gli enti locali interessati al sostegno regionale debbono aderire preventivamente a un protocollo d'intesa con la Giunta regionale in cui si impegnano “a tener conto dei risultati” che emergono dai processi partecipativi o a motivarne pubblicamente le ragioni qualora non intendano darvi seguito). Questo aspetto è rilevante ai fini della motivazione a partecipare: gli individui sono disponibili a impegnarsi nella partecipazione solo se ritengono di poter influenzare effettivamente le decisioni e produrre cambiamento. Inoltre, partecipare è oneroso: costa attenzione, denaro, energie e, soprattutto, tempo sia alla collettività che ai partecipanti; se non è rilevante né influente, non produce un valore aggiunto per la società. “Voce con influenza è benefica, voce senza influenza non solo non è neutra, è deleteria” (Hibbings e Theiss-Morse 2008, 136).

FIG. n. 4. Parametri in base a cui valutare il valore aggiunto della partecipazione deliberativa come modalità decisionale.

Partecipazione e qualità delle decisioni A conclusione di questa riflessione, propongo qui di considerare il tema della partecipazione nella specifica prospettiva di una (fra le molte possibili) modalità decisionale, nel senso che riguarda il chi e il come vengono assunte scelte concernenti la sfera collettiva (tralasciando per il momento le considerazioni valoriali e “politicamente corrette” sulla desiderabilità o meno della democrazia). In questa specifica ottica, propongo dunque quattro parametri (riportati nella figura 4) che la partecipazione dovrebbe mirare a soddisfare se vuole essere una modalità di scelta che presenti un qualche “valore aggiunto” rispetto a quelle correnti. La tesi (suffragata da decine di casi reali²) che si vuole proporre qui è che la partecipazione deliberativa rappresenta un modo appropriato di effettuare scelte collettive, specificamente nella società contemporanea; vi sono buone probabilità che le decisioni che emergono dalla partecipazione deliberativa, oltre che più ragionevoli e informate, risultino più legittime, efficaci, stabili, consensuali, accountable e responsive, nonché più eque rispetto alle modalità decisionali attuali.

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Note Le considerazioni presenti in contributo sono maggiormente sviluppate nel volume La prossima democrazia. Dialogo, deliberazione, decisione, che può essere scaricato gratuitamente, previa registrazione, dal sito www.laprossimademcorazia.com. 2. Si veda ad esempio il processo di revision costituzionale irlandese; www.constitution.ie Riferimenti bibliografici Arnstein, S., 1969, A Ladder of Citizen Participation, in Journal of American Institute of Planners, 35, 4, luglio, pp. 216-24. Crouch, C., 2003, Postdemocrazia, Bari: Laterza. Elster, J., 1993, Argomentare e negoziare, Milano: Anabasi. Fung, A., 2003, Survey Article: recipes for Public Spheres: eight Institutional Design Choices andTheir Consequences, in The Journal of Political Philosophy, vol. 11, no. 3, pp. 338-367. Ginsborg, P., 2005, Il tempo di cambiare, Torino: Einaudi. Habermas, J., 1996, Between Facts and Norms: Contributions to a discourseTheory of Law and Democracy, Cambridge: Polity Press.; trad. it. Fatti e norme: contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano: Guerini. Hibbing, J. e Theiss-Morse, E., 2002, Stealth democracy. Americans' Beliefs about How Government Should Work, Cambridge: Cambridge University Press. Mannarini, T., 2009, La cittadinanza attiva. Psicologia sociale della partecipazione pubblica, Bologna: Il Mulino. Rawls, J., 1971, ATheory of Justice, Oxford: Oxford University Press. Verba, S. e Nie, J., 1972, Participation in America. Political democracy and social equality, NewYork: Harper & Row.


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UNO SGUARDO TEORICO

La partecipazione imperfetta di Luigi Bobbio*

La partecipazione sospetta Mentre scrivo (ottobre 2016) è in corso il «confronto pubblico» sul progetto di allargamento del passante autostradale di Bologna, che sto seguendo – sia pure a distanza – in quanto membro del comitato di esperti chiamato a garantire la correttezza del processo. I primi incontri che si sono svolti nei quartieri dislocati lungo i quindici chilometri del passante sembrano essere andati molto bene: buona partecipazione dei cittadini, compresa quella dei comitati contrari al progetto, in un clima teso ma aperto al confronto. E tuttavia non sono mancate osservazioni critiche, non del tutto ingiustificate, che si possono leggere nei primi «Quaderni degli attori» pubblicati sul sito del confronto pubblico. Il coordinamento dei comitati I tre tracciati proposti per il passante di Bologna.

* Luigi Bobbio È stato professore di analisi delle politiche pubbliche presso l'Università di Torino. Ha svolto attività di ricerca nei seguenti campi: politiche pubbliche, processi decisionali, governi locali e relazioni intergovernative, conflitti ambientali, democrazia deliberativa. Ha progettato e gestito processi partecipativi e deliberativi. Tra le sue pubblicazioni recenti: La qualità della deliberazione (Carocci 2013) e (con Franca Roncarolo) I media e le politiche (Il mulino 2015).

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per il «no al passante di mezzo» obietta che il dibattito pubblico dovrebbe avvenire in una fase iniziale quando tutte le alternative sono ancora disponibili e non, come invece avviene in questo caso, su un sola alternativa. È vero infatti che due tracciati alternativi che erano stati a lungo discussi in passato – il «passante nord» e il «passante sud» – appaiono ormai scartati a favore dell'ipotesi meno costosa del «passante di mezzo» ossia l'allargamento dell'attuale autostrada (e relativa tangenziale) con nuove corsie, e che il confronto pubblico è limitato a questa soluzione che gode dell'appoggio di tutte le istituzioni pubbliche, ma che non è particolarmente gradita a coloro che risiedono lungo il suo percorso. Ma allora, dicono i comitati, che senso ha far


discutere i residenti se essi dovranno comunque continuare convivere con il traffico sotto casa, visto che gli altri tracciati sono fuori gioco? Anche per Legambiente si tratta di un confronto «con esito sostanzialmente predeterminato perché l'obiettivo dichiarato e perseguito … è circoscritto alla possibilità per i partecipanti di indicare parziali e secondarie modifiche ad un unico progetto messo in campo. Non esiste sul tavolo una griglia di proposte, messe a confronto … con la situazione attuale (...) C'è quindi un difetto di democrazia nel metodo». Non c'è processo partecipativo per cui non venga sollevato, prima o poi, qualche sospetto sul suo carattere manipolatorio. È quello che sta succedendo, per esempio, anche a Termoli dove il dibattito pubblico, attualmente in corso su un insieme di interventi sul centro storico (fig. 2), è stato pesantemente attaccato come strumento di propaganda, con argomenti non dissimili da quelli espressi a Bologna, ossia perché si dovrà discutere su un progetto già predisposto rispetto al quale saranno possibili solo variazioni minime. Il succo di queste critiche è fondamentalmente sempre lo stesso: i processi partecipativi sono percorsi addomesticati, dove l'apertura è apparente dal momento che si sottopongono alla discussione decisioni già prese e dove le opinioni dei cittadini sono destinate ad avere un peso del tutto trascurabile.

Moini (2012) si è spinto ancora più in là sostenendo che le pratiche partecipative sono funzionali all'ordinamento neoliberale (o meglio alla sua componente «moderata» ) perché non solo non disturbano il manovratore, ma addirittura contribuiscono a legittimarlo. L'idea che la partecipazione «istituzionalizzata» (ecco un termine chiave di questa corrente di pensiero) abbia un volto demoniaco si riverbera anche sull'«ingegneria partecipativa» (Mazeaud e Nonjon 2016), ossia sulle metodologie o sui dispositivi che vengono considerati come modelli studiati per ingabbiare la partecipazione dei cittadini entro schemi precostituiti e per rintuzzare qualsiasi contestazione, e sui facilitatori che vengono dipinti come personaggi interessati soprattutto a vendere i loro prodotti e impegnati a proiettare la partecipazione verso un «orizzonte funebre» (Bonaccorsi e Nonjon 2012). Si sta insomma concludendo una curiosa parabola. Si era cominciato (per la verità non molto tempo fa) a sostenere che la partecipazione (vi ricordate il mitico bilancio partecipativo di Porto Alegre?) rappresentava la «speranza di un'altra democrazia» (Gret e Sintomer 2003) o «il nuovo spirito della democrazia» (Blondiaux 2008) e consentiva di «democratizzare la democrazia» (Santos 2002), e oggi una corrente di pensiero diffusa e sempre più influente scopre che tutto questo è stato inutile, che la partecipazione si è rivelata una trappola impolitica, poiché, come scrivono in modo apodittico due sociologi francesi, «l'ordine partecipativo riproduce sempre l'ordine politico e sociale esistente» (Aldrin et Hubé 2016, p. 25, corsivo mio). Il logo del dibattito pubblico di Termoli – 2016. Queste posizioni riflettono una disillusione, che forse dipende anche dalle aspettative eccessive che erano state riposte nelle pratiche partecipatiLa partecipazione demonizzata Questi argomenti vanno presi sul serio perché ve. «Democra-tizzare le democrazia» si è rivelato toccano un vero e proprio nervo scoperto dei pro- un percorso più ambiguo e meno luminoso di cessi partecipativi (e deliberativi), ossia il rischio quanto qualcuno aveva immaginato e ciò ha prodell'irrilevanza, che si accompagna al sospetto sul vocato, per reazione, il fronte del rifiuto. Nella loro uso strumentale da parte del potere. Tanto forma drastica che ha assunto («la partecipazione più che un numero crescente di studiosi ha ormai è sempre funzionale al potere») questa corrente di saltato il fosso e dichiara apertamente che la par- pensiero si basa su presupposti altamente discutitecipazione è un inganno. Luigi Pellizzoni (2013) bili. Suppone prima di tutto che i processi parteciha sostenuto che la fase espansiva delle pratiche pativi, in quanto comodi strumenti di manipoladi democrazia deliberativa è terminata e che zione, siano ormai una pratica abituale (come ormai ci troviamo in una fase di declino dal dimostrerebbero, per esempio, le esortazioni della momento che risulta sempre più evidente che Banca Mondiale), mentre ciascuno di noi sa quanquesti processi servono soprattutto a depoten- to sia difficile convincere un'amministrazione ad ziare la conflittualità sociale, a depoliticizzare le aprirsi al contributo dei propri cittadini. Se proviascelte e a mascherare il rafforzamento del potere mo a fare il conto dei processi partecipativi effettidietro una finta disponibilità al confronto. Giulio vamente realizzati, ci accorgiamo che l'effetto di

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legittimazione del potere dev'essere veramente molto debole, dato che i politici vi ricorrono così di rado. Inoltre se i teorici del rifiuto muovono talvolta da elementi empirici (i numerosi difetti dei processi partecipativi), le loro conclusioni derivano soprattutto dai loro presupposti teorici. Alla disillusione pratica si è accompagnato un cambio di rotta teorico: «la stella di Habermas – ha scritto non senza qualche compiacimento Luigi Pellizzoni –sembra perdere il suo fulgore mentre quella di Foucault brilla sempre di più» (2013, p. 105). Il riferimento che ha sostenuto e giustificato il rifiuto della partecipazione consiste in una qualche variante delle teorie antagonistiche, o agonistiche (Mouffe 1999, 2005), che mettono al centro il conflitto come unico possibile contropotere e quindi diffidano della partecipazione o della deliberazione come meccanismi che tendono ad imbrigliare lo scontro aperto trasformandolo in un confronto inoffensivo dagli effetti predeterminati. Ho sostenuto altrove (Bobbio e Melé 2015) le ragioni per cui ritengo poco convincente questo approccio: non tutti i conflitti sono indirizzati contro il potere costituito e non tutti meritano di essere tenuti aperti (alcuni, per esempio i conflitti contro gli immigrati o i rom – oggi diffusissimi –, andrebbero viceversa arginati, se possibile). I processi partecipativi non mirano necessariamente a evitare i conflitti, spesso si prefiggono di portare alla luce conflitti latenti (così per esempio in molti «dibattiti pubblici»: Bobbio 2010) e d'altra parte i conflitti possono arricchire i processi partecipativi come Francesca Polletta (2015) ha mostrato nel suo studio sul grande town meeting «Listening to the City» organizzato a New York sul tema della ricostruzione a Ground Zero. La contrapposizione romantica tra il «selvaggio» e l'«addomesticato» è meno netta di quello che pretendono i detrattori della partecipazione. La partecipazione incerta Nel complesso mi pare che l'equazione «partecipazione = sostegno al potere» sia poco convincente, almeno nella forma assoluta proposta dai pensatori agonisti. Ma ciò non toglie che essi prendano le mosse da problemi reali che i processi partecipativi manifestano continuamente. Se non possiamo dire che la partecipazione è sempre un inganno, ciò non significa che talvolta (spesso?) possa esserlo. Se la concezione agonistica è troppo semplice per dar conto dei fenomeni reali, non è detto che la concezione dialogico-deliberativa non lo sia altrettanto (Pomatto 2015).


New York, 2012. Un'immagine del town meeting Listening to the City.

E qui torniamo alle critiche dei comitati bolognesi contro il processo deliberativo relativo al passante autostradale, che all'inizio di questo articolo ho definito «non del tutto ingiustificate». In realtà è difficile dire astrattamente in che misura una critica è giustificata o no: non si può stabilire una netta linea di demarcazione tra i processi buoni e quelli cattivi, tra quelli che permettono ai cittadini di incidere sulle decisioni e quelli istituiti per creare consenso attorno alle scelte di chi governa. Per esempio, il coordinamento dei comitati bolognesi, dopo aver denunciato il fatto che il confronto pubblico è limitato a una sola alternativa, ha fatto esplicito riferimento al dibattito pubblico sulla Gronda di Genova (Bobbio 2010, Pomatto 2011) che, essi scrivono, «è sicuramente esemplificativo di come andrebbe realizzato un vero dibattito pubblico». E infatti lì erano in discussione ben cinque alternative di tracciato, non una sola come a Bologna. I comitati bolognesi però non dicono che i loro omologhi di Genova considerarono del tutto ingannevole la presenza di cinque alternative di tracciato perché il vero problema per loro non era dove avrebbe dovuto passare la nuova autostrada, ma se le nuova autostrada fosse veramente

necessaria. Rivendicarono quindi la necessità di allargare la discussione sull'opportunità dell'opera e sulla possibilità di soluzioni (ferroviarie, viabilità ordinaria) alternative. Ma possiamo aggiungere che se il dibattito fosse stato incentrato su queste opzioni, qualcuno avrebbe potuto obiettare che non ha senso discutere delle soluzioni da dare al problema del traffico in quell'area (il ponente genovese), senza una riflessione più generale sulle prospettive strategiche dello sviluppo urbano e portuale della città. A quale livello di generalità dovrebbe collocarsi un processo partecipativo? Sarebbe meglio che vertesse sugli orizzonti strategici o su interventi puntuali? Sui piani o sui progetti? I governanti potrebbero avere interesse a restringere il campo in modo da confinare il confronto entro un unico quadro di riferimento, ma potrebbero anche non disdegnare argomenti molto generali che consentirebbero discorsi vaghi e impegni fumosi. Le variabili da prendere in considerazione per valutare se un processo partecipativo è vero o finto sono numerose. Per esempio: è ancora possibile modificare il progetto (o il piano)? E' possibile l'opzione zero? E' possibile ridefinire la natura del problema? C'è interesse per la questione da parte dei cittadini? Esistono questioni controverse? I partecipanti riescono ad accedere a tutte le informazioni rilevanti? Esiste una conduzione neutrale del processo? E' ammesso un contraddittorio tra esperti? Esistono meccanismi che offrono a ciascun partecipante l'effettiva possibilità di esprimersi? E, ovviamente, altre ancora.

anche dire: ambivalente. Oscilla tra la costruzione del consenso e la ridefinizione di problemi e di soluzioni. I detrattori agonisti o realisti della partecipazione vedono solo il primo polo; i suoi sostenitori ottimisti o idealisti tendono a vedere solo il secondo. In realtà i processi reali si muovono continuamente tra l'uno e l'altro. Un processo può aprirsi a possibilità diverse nel corso del suo svolgimento. Può rivelarsi del tutto prevedibile. Può riservare sorprese. In ogni esperienza sorge sempre qualche contesa tra chi vorrebbe normalizzarla cercando di rinserrare il discorso entro precisi binari e chi viceversa vorrebbe aprirla, magari anche strumentalmente. Il meta-dibattito, ossia il dibattito attorno al dibattito, alle sue procedure e alla sua organizzazione, accompagna quasi sempre l'andamento dei processi partecipativi: si discute sul merito delle questioni, ma si discute anche su come discutere. Per quanto la griglia metodologica sia rigidamente predefinita (e questo succede in molti casi), qualche smagliatura è sempre possibile. L'idea che i politici, i proponenti e i loro (presunti) alleati (facilitatori, professionisti della partecipazione) possano esercitare un controllo totale sul processo è poco fondata. Di solito si tende a pensare che alla base dei processi partecipativi ci sia una contrapposizione tra governanti e governati. Ma spesso il conflitto avviene tra gli stessi governati. Nel caso del passante di Bologna, per esempio, non ci sono solo i comitati dei residenti che vorrebbero aprire la discussione su altre alternative di tracciato per cercare di allontanare un parte del traffico dalle loro case, ma c'è anche un altro comitato che si batte La partecipazione imperfetta È impossibile che in un processo partecipativo la da anni, con vari argomenti, contro l'ipotesi del risposta a queste domande sia sempre positiva. La passante Nord (e quindi a favore del progetto partecipazione è sempre imperfetta. Potremmo attuale), con il pieno appoggio delle associazioni

Le cinque alternative di tracciato per la Gronda di Genova sottoposte al dibattito pubblico.

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degli agricoltori, che vogliono evitare un ulteriore consumo di suolo agricolo. Per riprendere la celebre distinzione di Mao Zedong (ripresa da Hirschman, 1994, in un saggio sul conflitti) non esistono solo i conflitti «tra il nemico e noi», come suppongono gli antagonisti; esistono anche i conflitti «in seno al popolo» (ossia conflitti in cui tutti hanno buone ragioni), com'è probabilmente quello tra il «passante Nord» e il «passante di mezzo» a Bologna, che vanno gestiti con appositi strumenti di tipo dialogico o negoziale. Tra le possibili sorprese c'è anche l'eventualità dell'apporto di singoli cittadini, in grado di offrire punti di vista inconsueti o comunque assenti dall'orizzonte cognitivo dei promotori, dei progettisti, dei politici o anche dei gruppi organizzati. Nel caso del dibattito pubblico sulla Gronda di Genova furono tre cittadini, indipendentemente l'uno dall'altro, a mettere a fuoco alcuni difetti del tracciato proposto in un'area (la sponda sinistra della valle Polcevera) di cui nessuno fino ad allora si era accorto, prima intervenendo nelle assemblee e poi formulando le loro controproposte nei Quaderni degli attori. Ci furono successivi incontri con i progettisti della società Autostrade e alla fine il tracciato fu effettivamente corretto, tenendo conto delle loro indicazioni (fig. 5). In questi giorni ho scoperto l'esistenza di un video in cui uno di questi tre cittadini, la signora Patrizia Palermo, autrice di un quaderno degli attori nel dibattito di Genova, ricorda – tre anni dopo – la cancellazione del viadotto previsto sopra via Piombelli come una conquista inaspettata, resa possibile dal dibattito pubblico. Anche nel caso del passante di Bologna si prospettano varianti sollecitate dalle osservazioni dei residenti: tra i quaderni degli attori c'è già la proposta di un singolo cittadino che formula specifiche soluzioni per la progettazione del passante presso il grande complesso residenziale Le Ginestre di via Rivani. Certo, per coloro che dalla partecipazione si aspettavano un cambiamento radicale dei rapporti di potere, le varianti del progetto di un'autostrada in via Piombelli a Genova o in via Rivani a Bologna, possono parere insignificanti (anche se sicuramente non lo sono per le persone direttamente coinvolte). Dovremmo però riflettere sul fatto che i processi partecipativi consentono di accendere i riflettori su temi negati o rimossi, di metterli a fuoco e di portarli all'attenzione pubblica. Se accettassimo il punto

di vista agonistico e rinunciassimo allo sviluppo dei processi partecipativi (perché inevitabilmente viziati) ritorneremmo semplicemente ai meccanismi classici della democrazia rappresentativa, sbarrando la strada a quelle possibili piccole (o forse anche meno piccole?) sorprese. L'imperfezione (o l'ambivalenza) può essere vista come una ricchez-

za, piuttosto che come un difetto. Se poi osserviamo i cittadini che discutono tra di loro con impegno, curiosità e attenzione in molti processi partecipativi (per esempio in quello rappresentato nella figura sotto), ci possiamo rendere conto che in realtà la stella di Habermas non è proprio del tutto spenta.

Dibattito pubblico sulla Gronda di Genova. A sinistra la variante proposta dal cittadino Riccardo Romeo. A destra la variante successivamente formulata da Autostrade per l'Italia nel tratto «Sinistra Polcevera». Fonte: Pomatto 2011, p. 103.

Riferimenti bibliografici Aldrin, Ph. e Hubé, N. (2016), «L'État participatif. Le participationnisme saisi par la pensée d'État», Gouvernement et action publique, n. 2, pp. 9-29. Blondiaux, L. (2008), Le nouvel esprit de la démocratie. Actualité de la démocratie participative, Paris, Seuil. Bobbio, L. (2010), «Il dibattito pubblico sulle grandi opere. Il caso dell'autostrada di Genova», Rivista italiana di politiche pubbliche, n. 1, pp. 119-146. Bobbio, L. e Melé, P. (2015), «Les relations paradoxales entre conflit et participation», Participations, n. 3, pp. 733. Bonaccorsi, J. e Nonjon, M. (2012), «La participation en kit: l'horizon funèbre de l'idéal participatif», Quaderni, n° 79, pp. 29-44. Gret, M. e Sintomer,Y. (2002), Porto Alegre. L'espoir d'une autre démocratie, Paris, La découverte. Hirschman, A. O. (1994), «I conflitti come pilastri della società democratica a economia di mercato», Stato e mercato, 41, pp. 133-152. Mazeaud, A. e Nonjon, M. (2016) «Vers un standard participatif mondial ? Enjeux, conditions et limites de la standardisation internationale de la participation publique», Participations, n. 1, pp. 121-151. Moini, G. (2012), Teoria critica della partecipazione. Un approccio sociologico, Milano, Franco Angeli.

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UNO SGUARDO TEORICO

Reset participation!

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di Claudio Calvaresi*

* Claudio Calvaresi Dottore di ricerca in Urbanistica, svolge attività di consulenza e insegna Analisi dei conflitti urbani al Politecnico di Milano. E' Senior consultant presso “Avanzi. Sostenibilità per Azioni”, attiva nel campo del design e del management per l'innovazione e lo sviluppo urbano sostenibile. Si occupa di approcci integrati alla rigenerazione urbana e allo sviluppo delle aree interne. Ha condotto processi di partecipazione e coinvolgimento dei cittadini su progetti, piani e politiche. Su tali temi ha all'attivo numerose pubblicazioni.

A maggio di quest'anno si è svolto ad Amsterdam il City Makers Summit, una iniziativa che ha raccolto la comunità degli attivisti delle politiche urbane. Il Summit affiancava l'incontro dei Ministri responsabili delle Politiche Urbane della UE, nel corso del quale è stato siglato il Patto di Amsterdam, l'Agenda urbana della Unione Europea. Chiudendo i lavori del Summit, la coordinatrice ha orgogliosamente ricordato che “il Patto riconosce il ruolo della “società civile nel co-creare soluzioni innovative alle sfide urbane”, sottolineando con entusiasmo che “co-creazione” ha sostituito il termine “partecipazione”. Le sue parole sono state accom-

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pagnate da un'ovazione. Un ciclo si è chiuso. Il contributo della società al disegno delle politiche pubbliche, che per un lungo periodo abbiamo chiamato “partecipazione”, si esprime oggi in forme assai diverse. Per argomentare questo passaggio di fase, ne seguirò le tracce, sviluppando un ragionamento articolato su tre punti: nel primo, rintraccerò il contributo degli autori che più di altri hanno orientato una riflessione alternativa rispetto al mainstream della “partecipazione progettata” (Fareri, 2009); al secondo punto, ricorderò alcuni fenomeni emergenti, che sostengono il passaggio verso un più


netto protagonismo della società civile, provando a nominare quali sono, a mio avviso, i nuovi protagonisti delle politiche urbane e gli approcci di policy che guidano la loro azione; infine, proverò a evidenziare gli esiti, in termini di innovazione dal basso, della fase che stiamo vivendo². 1. Grazie a Paolo Fareri (Fareri, 2009), abbiamo imparato che la partecipazione ha assunto diverse forme nell'arco degli ultimi quarant'anni in Italia. Fareri vi riconobbe quattro fasi: la prima, negli anni Settanta, caratterizzata dal “conflitto sociale”; la seconda, a partire dagli anni Ottanta, in cui emersero i movimenti egoistici affetti da sindrome Nimby; la terza, nel decennio successivo, nacque come modalità di progettazione e di governo da parte delle istituzioni. Sono gli anni in cui, nella planning theory, emergono i primi contributi che sostengono l'emergere di una “svolta argomentativa” nelle pratiche della pianificazione (Fischer, Forester, 1993) e vi leggono un cambio di paradigma, l'emergere di un modo “non euclideo” del planning (Friedmann, 1993). Al centro di quella vague che era, nel nostro paese, l'“urbanistica partecipata”, c'era la figura di un nuovo planner (Balducci, 1998). A vent'anni di distanza, penso che quella svolta abbia comportato una correzione di rotta alla dominanza del modello razionalcomprensivo, ma abbia mancato di marcare una rottura, aprendo una prospettiva nuova. Alla fase più recente, Fareri assegnò il termine di “comunità in corso”, per segnalare che la caratteristica essenziale della partecipazione era stavolta la ricostruzione di una comunità di attori mobilitati su problemi pubblici; che il termine “comunità” non poteva essere assunto come un dato, ma andava interpretato come una intenzionalità, un

lavoro in corso; che, in questo lavoro, il meccanismo della delega al sistema politico non era previsto; che le esperienze interessanti erano quelle che problematizzavano l'incrocio tra comunità di luogo e comunità di pratiche, esponendo la prima all'irruzione dei flussi e la seconda all'incontro con lo spazio³. Pierluigi Crosta ci ha avvertiti che l'istituzionalizzazione della partecipazione nei processi di piano e l'affidamento della sua gestione ai professionisti della partecipazione avrebbe prodotto «un effetto di spoliticizzazione dell'interazione di piano» (Crosta, 1998, p. 98). Più di recente, Giovanni Laino ci ha invitato a riflettere sulla differenza tra “democrazia deliberativa” e “democrazia associativa”, la seconda essendo quella «in cui le persone – spesso una minoranza – prendono più o meno direttamente l'iniziativa per realizzare alcune cose più che per partecipare alla discussione sul se e come fare qualcosa» (Laino, 2012, p. 43). A chi ha sempre guardato con una certa diffidenza alla partecipazione come maieutica delle volizioni degli attori, è stato di grande utilità l'insegnamento di Lindblom. Nei suoi argomenti a favore dell'interactive problem solving vi abbiamo visto una valida alternativa ai modelli corporate della pianificazione strategica, che usavano il coinvolgimento degli stakeholder a fini di un problem solving ancora sostanzialmente analitico (Calvaresi, Pasqui, 2004); nel suo richiamo alla “intelligenza della democrazia”, c'era lo spazio per modalità aperte di mobilitazione degli attori, sperimentate con grande anticipo in Italia, nell'esperienza del Piano strategico della regione urbana milanese “Città di città” (Balducci, Fedeli, Pasqui, 2011); nel modello incrementale, la forma di un planning agonistico, dove posizioni diverse si confrontano liberamente e nego-

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ziano, costruendo trading zone (Balducci, 2013); più di recente, nella prospettiva della self-guiding society (Lindblom, 1990), abbiamo scorto una opportunità praticabile per i tanti segnali di futuro che è possibile incontrare nelle città e nelle aree interne (Calvaresi, 2016). Oggi, volendo trovare l'innovazione, non ci sogneremmo di cercare nel campo della pianificazione: né gli urbanisti sono attori del cambiamento, né le loro pratiche sono rilevanti. Il city making non è, se non in rarissime occasioni, materia degli assessori all'urbanistica, mentre le amministrazioni centrali che avevano promosso vent'anni fa nuove forme di azione hanno smesso di produrre “prove di innovazione” e si occupano d'altro⁴. 2. La prospettiva di un maggiore protagonismo della società civile incrocia fenomeni e processi di grande impatto. Mi interessa sottolineare che tra l'una e gli altri si dà un rapporto di co-evoluzione: le nuove forme di produzione del valore privilegiano meccanismi di condivisione e di scambio tra pari, mettendo al lavoro l'intelligenza sociale (do you remember “general intellect”?); d'altro canto, i nuovi modi del protagonismo sociale incidono sulle divisioni classiche tra profit e no profit, tra impresa e produzione di valore sociale. Notavo, in un saggio recente scritto insieme ad alcuni colleghi, che la relazione tra fare impresa e politiche pubbliche è cambiata: occorre riconoscere che «anche le imprese con finalità di lucro si rivolgono alla comunità come attore rilevante del processo produttivo, nella dinamiche di open innovation e di coprogettazione di beni e servizi più vicini ai bisogni dei cittadini. La funzione di produzione non considera più solo l'utilità del consumatore ma l'utilità sociale, intesa come beneficio collettivo per una determinata comunità, che l'attività di impresa è in


grado di generare» (Calvaresi, Pacchi, Zanoni, 2015, p. 48). In modo piuttosto interessante, è attraverso la forma dell'impresa sociale che si sta cercando di dare risposte a questioni di grande impatto, su cui le politiche pubbliche faticano. Provo a nominarne alcune: migranti e rifugiati, nuovo welfare, casa, inclusione sociale e lavorativa. Affrontarle adeguatamente significa superare i limiti di politiche dall'alto che non sanno cogliere la loro natura non consueta, replicando risposte standard inefficaci. Viceversa, il carattere sperimentale, aperto, creativo delle innovazioni dal basso appare maggiormente adeguato al loro trattamento. Spesso, tali innovazioni assumono la forma dell'azione integrata: ridefiniscono un problema in modo da trasformarlo in risorsa per il trattamento di altri problemi. Lavorano per aggiustamenti e combinazioni: fanno corrispondere i pezzi che hanno a disposizione, li limano e li adattano per dare forma ad una ipotesi di intervento. Ricordano i processi di costruzione dei grandi edifici medievali citati da Tim Ingold, nei quali «stones are added to the building peacemeal, each shaped and, if necessary, reshaped so as to fit the space prepared for it by previous ones, and in turn preparing the spaces for those that follow» (Ingold, 2013, p. 54)⁵. Sono queste le opere dei city makers. Sono singoli, gruppi, associazioni che, in molte città del mondo, percepiscono l'importanza di seguire lo sviluppo di una iniziativa lungo l'intero processo decisionale, dal disegno all'implementazione. Non interessa loro essere ascoltati per fornire idee e suggerimenti ai decisori pubblici: preferiscono contribuire attivamente al miglioramento delle prestazioni delle politiche. Sono quelli che, di fronte al problema di come riusare un immobile pubblico dismesso, erogare servizi di cura e assistenza, fare inclusione sociale, garantire accoglienza a migranti e rifugiati, provare a invertire il declino e rilanciare lo sviluppo di aree interne in spopolamento o di quartieri difficili, pensano che il problema sia anche loro. Più precisamente: pensano che delegare il trattamento del problema al solo settore pubblico non sia augurabile, perché è limitato nelle risorse (tecniche, cognitive, strategiche, finanziarie) che riesce a mobilitare e tende a replicare una “teoria amministrativa dei bisogni” (Tosi, 1984) che impedisce l'innovazione. Sono consapevoli di avere conoscenze e competenze sufficienti per farsi carico di situazioni problematiche complicate. Lavorano creativamente sul problem setting; cercano partner, anche nel settore pubbli-

co; disegnano soluzioni relativamente sofisticate per il trattamento sostantivo del problema e per il disegno del sistema di governance. È in queste innovazioni che si può leggere l'espressione di quella “partecipazione materiale”, che Marres ha di recente definito come la modalità con cui «everyday material practices are framed, defined and equipped in order to render them available as sites and means of public involvement» (Marres, 2012, p. xi). Ciò che va sotto il nome di “economia della condivisione” può essere inteso come il segno dell'emergere di un nuovo mutualismo. È forse il tentativo di “rendere pubbliche le cose”, generare impatto sociale, istituire spazi della condivisione dove possono darsi azioni orientate (a volte intenzionalmente, spesso come risultato sottoprodotto) a ispessire il legame sociale. Le pratiche per favorire l'uso collettivo dei beni comuni ne sono un esempio. Le imprese sociali, l'evidenza organizzata. Uno studio recente promosso dalla Commissione Europea le riconosce nel momento in cui «groups of citizens assume responsibilities hitherto ignored or not adequately dealt with by the public bodies in charge. […]. The innovative feature of social enterprises is that citizens' mobilisation is structured in an entrepreneurial, organised and efficient manner» (Borzaga, Galera, 2016, p. 14). Nello specifico, in Italia, considerato il ruolo rilevante tradizionalmente assunto dal movimento cooperativo, assistiamo alla nascita di “cooperative di comunità”, intese come quelle forme organizzative che dalle comunità locali traggono i soci e le risorse da valorizzare e che, su quelle stesse comunità, reindirizzano gli utili. I casi di riferimento sono ancora limitati e circoscritti in gran parte alle aree interne. Tuttavia, appare un fenomeno in crescita, di cui le politiche di sviluppo territoriale iniziano a prestare attenzione (Aa., Vv., 2016). 3. Del rinnovato protagonismo sociale nelle città, si possono indicare diverse evidenze. Ne scelgo una, perché è quella su cui da un po' di tempo sto lavorando, che ho provato a definire community hub⁶. Si tratta di strutture di servizio, che possono fornire informazioni ed erogare servizi di welfare pubblico, ma non si limitano a questo: praticano l'inclusione sociale offrendo counselling per ragazzi, spazi per il doposcuola dei bambini, sale per favorire l'incontro e la colloquialità per comunità straniere. Hanno bisogno di mettere a reddito gli spazi per potersi mantenere e pagare l'offerta sociale, per cui ci puoi trovare l'artigiano e la postazione per il giovane

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creativo, la start-up e l'impresa sociale, il coworking e il fab-lab. Poi magari, insieme alla cooperative che fanno inserimento lavorativo, disegnano programmi per lo sviluppo dell'autoimprenditorialità dei giovani del quartiere. Sono spazi ibridi, non per una qualche poetica alla moda ma per necessità: devono costruire modelli di business che facciano tornare i conti e disegnare programmi funzionali che usino intensamente le infrastrutture di cui dispongono. Cambiano funzione e ospitano pratiche differenti, che si alternano nel corso della giornata o nei giorni della settimana: al mattino preparano colazioni, al pomeriggio vi si danno convegno le mamme straniere, alla sera ci si balla il tango. Lasciano spazi ai talenti culturali, ma non sono una sede espositive o un museo. Magari sono cascine, lo sono state o lo sono ancora parzialmente. Hanno praticato la temporaneità, ma solo perché tendono ad assumere una logica incrementale: il loro obiettivo è il consolidamento, non il beau geste dell'apripista che poi si dedica ad altro. Tendono ad essere ostinati. Sono un materiale interessante, perché si presentano come strumenti per orientare i processi di rigenerazione urbana, dei quali danno una interpretazione molto più colta di quella che riescono a fornire i recenti bandi del Governo sulle periferie. In primo luogo, sono appunto focalizzati sui processi, prima che sulle opere; se investono in interventi fisici o in beni strumentali, sanno bene a cosa gli servono. Può sembrare incredibile, visto dalla prospettiva della pubblica amministrazione, ma in genere intervento edilizio, funzioni ospitate e modello gestionale sono progettati insieme. Sono promossi e gestiti da associazioni, cooperative, imprese sociali: la forma giuridica muta a seconda della maturazione delle pratiche. Lavorano negli interstizi, in quelle parti non toccate o lasciate scoperte dalle politiche pubbliche. Si collocano al margine dei processi più istituzionali, pur non essendo affatto marginali (cioè condannati all'irrilevanza), perché così si può più facilmente cogliere e suscitare l'innovazione. Come sostiene Carlo Donolo, infatti, oggi nel nostro paese «i fattori di innovazione si ritirano sul margine e nelle pieghe» (Donolo, 2011, p. 132). Porsi al margine dà modo di sperimentare una diversa prospettiva; significa scegliere di affrontare un problema aggredendolo dai bordi; significa assumere uno sguardo liminale nella consapevolezza che è strategicamente fertile. Sono community hub perché della “comunità che


viene” danno una accezione del tutto processuale, secondo una tensione progettuale che cerca dispositivi di avvio. Alimentano potenzialità non esplorate, sostengono lo sviluppo di possibilità evolutive non intese. Sono la sorpresa che apre al cambiamento. Vale la pena seguirli con attenzione. Le tracce del city making che ho raccolto delineano, come ho cercato di argomentare, una nuova fase dei processi di partecipazione. Sono segnali di un futuro possibile. A me interessa osservarli e, per quanto possibile, sostenerli. «… Indipendenti, divergenti, queste migliaia di inclinazioni locali possono ovviamente non fondersi attraverso un riorientamento globale. Al contrario, basta che in un numero-soglia si dirigano insieme dalla stessa parte per trascinare altrove il comportamento globale» (Serres, 2016, p. 95-96).

Note 1. Nel titolo, si parva licet …, faccio il verso a una straordinaria esposizione curata di recente da Bruno Latour presso il Center for Art and Media di Karlsruhe, il cui titolo era “Reset Modernity!”. Nel catalogo, Latour scrive: «Let's pause for a while, follow a procedure and search for different sensors that could allow us to recalibrate our detectors, our instruments, to feel anew where we are, and where we might wish to go» (Latour, 2016). A me è venuto in mente che con la nozione di partecipazione dovremmo fare lo stesso, seguendo il suggerimento già formulato da Paolo Fareri nel suo saggio “Rallentare” (Fareri, 2009). 2. Presenterò di seguito ipotesi interpretative e di intervento su cui ho lavorato nel corso degli ultimi due anni. Nascono da un percorso di ricerca e azione, in corso presso AvanziSostenibilità per azioni, che ha intrecciato lavoro sul campo e “conversioni riflessive” con le pratiche in cui sono stato coinvolto. Avverto il lettore che si tratta di una prima sintesi di questo percorso: la sua struttura e lo stile con cui è scritto risentono del carattere ancora incerto delle ipotesi. 3. È proprio in questo senso che i city makers sono interessanti. La ragione sta nel fatto che sono una tipica comunità di pratiche, che riconosce però come carattere essenziale del proprio agire il radicamento locale. Essi mantengono con il proprio ambito di intervento una relazione costruttiva, perché sanno che i luoghi non si danno in natura (ammesso che comunità naturali di luogo siano mai esistite), ma si fanno. Del genius loci dunque, non sanno che farsene. Il luogo per loro è un campo di azione. 4. A dire la verità, quando tornano ad occuparsene sono patetiche: le pagine romane del Corriere della Sera del 16 luglio 2016 ospitano un'intervista a Federica Galloni, Direttore generale Arte e architettura contemporanee e periferie urbane del Mibact, la quale sostiene che, mentre gli assessori all'urbanistica fanno “city building”, la sua Direzione fa “city making” (https://goo.gl/7gcyYe). 5. In un centro della Puglia, c'è un consorzio di cooperative sociali che sta cercando di ridefinire il proprio modello di business, perché quello legato alla gestione di servizi sociali per conto delle Amministrazioni pubbliche si sta esaurendo. In provincia è arrivato un certo numero di rifugiati. Il consorzio è proprietario di un appartamento: l'idea è valorizzare questo asset immobiliare, trasformandolo in una struttura ricettiva gestita dai migranti: si sfrutta così la dinamica positiva della domanda turistica in Puglia, si ridefinisce il lavoro come strumento di inclusione e si indica al consorzio una nuova via. Di questa storia, che a me sembra paradigmatica, è protagonista Roberto Covolo, responsabile di Ex Fadda a San Vito dei Normanni, un innovatore sociale di visione e capacità. La racconta qui: https://goo.gl/UespZ5 6. Il paragrafo che segue è tratto dall'introduzione alla pubblicazione “I luoghi puri impazziscono?”, che è un primo tentativo di mappatura e interpretazione dei community hub in Italia. Si trova sul sito: http://www.communityhub.it/

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Riferimenti bibliografici Aa. Vv. (2016), Libro bianco. La cooperazione di comunità, Euricse, Trento (https://goo.gl/tv1q9Q) Balducci A. (1998), “Come cambiano i mestieri dell'urbanista in Italia”, Territorio, n. 7 Balducci A. (2013), “'Trading Zone': A Useful Concept for Some Planning Dilemmas”, in Balducci A., Mäntysalo R. (eds.), Urban Planning as a Trading Zone, Springer Verlag, Dordrecht, 2013 Balducci A., Fedeli V., Pasqui G. (2011), Strategic Planning for Contemporary Urban Regions, Ashgate, Farnham Borzaga C., Galera G. (2016), Social Enterprises and their eco-systems: developments in Europe, European Commission, Directorate-General for Employment, Social Affairs and Inclusion, Bruxelles (https://goo.gl/rH9J8H) Calvaresi C. (2016), “Innovazioni dal basso e imprese di comunità: i segnali di futuro delle aree interne”, AgriRegioniEuropa, n. 45 Calvaresi C., Pacchi C., Zanoni D. (2015), “Innovazione dal basso e imprese di comunità”, Impresa sociale, n. 5 Calvaresi C., Pasqui G. (2004), “A cosa servono (se servono) i piani strategici”, in Fedeli V., Gastaldi F., Pratiche strategiche di pianificazione, Franco Angeli, Milano Crosta P.L. (1998), Politiche, Franco Angeli, Milano Donolo C. (2011), Italia sperduta, Donzelli, Roma Fareri P. (2009), Rallentare, Franco Angeli, Milano Fischer F., Forester J. (1993), The Argumentative Turn in Policy Analysis and Planning, Duke University press, London Friedmann J. (1993), “Toward a non-Euclidian mode of planning”, Journal of the American Planning Association, vol. 59, n. 4. Ingold T. (2013), Making. Anthropology, Archeology, Art and Architecture, Routledge, London Laino G. (2012), Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo, Franco Angeli, Milano Latour B. (2016), Reset Modernity! The Field Book, ZKM publications, Karlsruhe Lindblom Ch. (1990), Inquiry and Change, Yale University Press, New Haven Marres N. (2012), Material Participation: Technology, the Environment and Everyday Publics, Palgrave Macmillan, London Serres M. (2016), Il mancino zoppo, Bollati Boringhieri, Torino (ed. or. 2015) Tosi A. (1984); “Piano e bisogni: due tradizioni di analisi”, Archivio di studi urbani e regionali, n. 21


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UNO SGUARDO TEORICO

Carta della partecipazione: strumento e bussola per una partecipazione di qualità di Chiara Pignaris e Lucia Lancerin*

* Chiara Pignaris Architetto, vicepresidente della commissione “Governance e diritti dei cittadini” dell'INU e referente della rete per la Carta della Partecipazione. Nel 2003 ha fondato “Cantieri Animati”, organizzazione operante nel campo dei processi partecipativi e della comunicazione territoriale. Ha condotto centinaia di percorsi di coinvolgimento per enti pubblici, agenzie di formazione e società di professionisti, sperimentando svariate metodologie dialogico-deliberative e tecniche di gestione dei conflitti. Lucia Lancerin Architetto, è titolare di Laboratorio Città, organizzazione che opera nei settori della Progettazione Partecipata della Rigenerazione Urbana e Paesaggistica. Docente nel corso di perfezionamento post-lauream dell' Università Iuav di Venezia "Azione locale partecipata e sviluppo urbano sostenibile" (2001/2007); dal 2011 è nel direttivo di Aip2-Italia. Con INU ha collaborato alla Biennale dello Spazio Pubblico e al gruppo di lavoro “Carta dello Spazio Pubblico”.

Secondo un'indagine condotta nel 2015 dall'Osservatorio eGovernment della School of Management del Politecnico di Milano, il 72% dei comuni con più di 10.000 abitanti che hanno risposto al questionario afferma di aver attivato o voler attivare processi partecipativi (nel 67% dei casi nella fase iniziale di concezione della politica pubblica). La maggior parte di questi percorsi sono stati però avviati senza una fase propedeutica di “progettazione del processo”: meno di un comune su due ha dichiarato di aver predefinito gli obiettivi, gli strumenti da utilizzare, i target, la durata e le regole di partecipazione. Per quando poi riguarda la valutazione dei risultati, quasi la metà ha ammesso di non aver dato riscontro al territorio circa l'esito del processo partecipativo messo in atto e sugli effetti che ha avuto per la politica oggetto dell'intervento (Vergani, 2016). Le iniziative promosse in vent'anni di attività della Commissione “Governance e diritti dei cittadini” del'INU1 al fine di promuovere, raccogliere e studiare le pratiche partecipative italiane, hanno fatto rilevare una generale immaturità degli Enti locali nel cogliere obiettivi e motivazioni sottostanti l'utilizzo del processo partecipativo, che emerge con maggior evidenza dal confronto con le esperienze estere approfondite in occasione dei diversi “viaggi di studio”2. Tuttavia negli ultimi anni, grazie all'attivazione in

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alcune regioni di leggi e regolamenti che rendono obbligatorio il coinvolgimento dei cittadini nel processo di elaborazione di piani e programmi, al sostegno di enti3, fondazioni e centri di ricerca, nonché all'attività di dipartimenti universitari, associazioni, gruppi di cittadini e movimenti, si è risvegliata in Italia una nuova attenzione al tema. Ma se da un lato appaiono compresi, e a volte persino sopravvalutati, i vantaggi derivanti dall'aumento della partecipazione e della collaborazione con il tessuto sociale del territorio, dall'altro lato raramente ci si interroga su come sia possibile strutturare le modalità e gli strumenti attraverso i quali si espleta e si consolida la relazione con il cittadino. Così, mentre aumenta la sfiducia dei cittadini nella politica e nelle istituzioni, mentre si alzano i toni del conflitto tra modi diversi di intendere lo sviluppo dei territori e la difesa dei beni comuni, mentre si moltiplicano le tecnologie per connettere le persone e i dati, si assiste sul versante dei processi partecipativi a una sorta di “analfabetismo di ritorno” che sempre più spesso riduce le pratiche a mere consultazioni episodiche, a goffi tentativi di costruzione del consenso, a sfoggi fini a se stessi di metodologie del secolo scorso copiate dal mondo anglosassone e spacciate come innovative. Utilizzare tecniche appropriate è importantissimo, così come aprire consultazioni e cercare il


Principio di Fiducia

consenso è un diritto/dovere fondamentale di ogni amministratore, ma prima di avviare qualunque processo di coinvolgimento bisognerebbe fermarsi a riflettere che la posta in gioco è la fiducia dei cittadini, e per evitare “incidenti di percorso” che potrebbero rivelarsi dei boomerang, è meglio perdere un po' di tempo per progettare bene il viaggio. “Il tema della Governance pertanto assume un significato ancor più rilevante che nel recente passato: saper trovare modalità di dialogo, ma e soprattutto di intervento e poi di gestione che sappiano far confluire esperienze e forze propulsive in maniera dialogica e non paralizzante, che aprano il confronto senza appiattire i diversi punti di vista, che superino preconcetti e possano recuperare reciproca fiducia tra cittadini ed istituzione, fiducia minata alla base e fortemente compromessa verso la politica, i pubblici dipendenti, la cosa pubblica” (Venti, 2016). L'idea di elaborare una Carta della Partecipazione è nata proprio dal desiderio di offrire, a tutti coloro che desiderano approfondire il tema, alcuni spunti di riflessione maturati dalle esperienze realizzate negli anni, spesso con fatica, da decine di esperti di enti pubblici, associazioni e società di consulenza4. Si tratta di un decalogo di “buoni principi”5, una sorta di check-list che può essere utilizzata anche come strumento di progettazione al fine di implementare la qualità dei processi partecipativi. L'idea di partecipazione introdotta dalla Carta accompagna l'intero ciclo di elaborazione e implementazione delle politiche pubbliche, compreso il momento della gestione e dell'attuazione, affinché i cittadini diventino parte attiva nella realizzazione dei progetti e nella presa in cura dei beni comuni. Mira a far comprendere la complessità delle dinamiche e dei ruoli, aiutando i decisori a riconoscere gli esiti dei processi partecipativi come parti integranti dei procedimenti di formazione delle scelte pubbliche, non solo come raccolta ex ante di alcuni requisiti funzionali o come

Principio di Intera

verifica di gradimento ex post di strategie decise altrove. Tra i dieci principi elaborati e codificati nella Carta affinché la partecipazione dei cittadini alle decisioni sia effettiva e di qualità e non rimanga una procedura astratta ed inefficace, partendo dalla necessità di definire in modo condiviso l'oggetto della partecipazione, vi sono il principio di informazione (le informazioni rilevanti devono essere messe a disposizione e devono essere rese comprensibili), quello di equità (tutte le opinioni, anche quelle minoritarie, devono essere ascoltate con attenzione), di armonia (si deve puntare a un accordo sul processo e sui suoi contenuti) e di valutazione (la partecipazione va valutata con metodologia adeguata, i risultati devono essere pubblici). I principi della carta aiutano a comprendere che la fiducia si costruisce rispettando le regole e gli impegni presi, ma anche chiarendo bene “qual è la posta in gioco” e utilizzando gli esiti del processo partecipativo, perché non c'è nulla di più frustrante della sensazione di aver perso il proprio tempo inutilmente. Alla base del documento c'è la convinzione che i saperi dei cittadini migliorano la qualità delle scelte pubbliche, soprattutto se non si riducono ad una sommatoria di opinioni personali o al conteggio di singole preferenze, ma interagiscono tra loro con metodologie ideate per produrre empowerment. La carta della partecipazione non intende essere uno dei soliti decaloghi che rimangono scolpiti nella pietra o il punto di arrivo di un'elaborazione teorica. Essa si propone piuttosto come uno strumento vivo e in evoluzione, aperto ai contributi che verranno dal concreto utilizzo e snodo di una rete che ne condivide gli obiettivi. Per questo le associazioni aderenti si sono impegnate ad incontrarsi ogni anno per scambiare le esperienze e costruire una rete nazionale di sostegno alla partecipazione di qualità. L'auspicio è che i processi partecipativi possano col tempo diventare prassi quotidiana sia nella PA sia

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in molte realtà associative che hanno ancora un approccio “dirigista” nei confronti della propria base. Ma affinché tali pratiche non restino isolate, attivate in via eccezionale in situazioni politiche e soggettive favorevoli (un amministratore attento, un tecnico interessato o un progettista esperto che si ritaglia la sua nicchia di mercato), occorre un sostanziale cambio di passo nei processi di formazione sia delle opere pubbliche che dei piani, che continuano a seguire logiche e percorsi tendenzialmente contrastanti, per tempi e modalità, con i metodi di partecipazione. La carta della partecipazione, assieme alla divulgazione, ha dato avvio ad una fase sperimentale di auto-valutazione6, per poter diventare strumento semplice ed immediato per misurare il grado di “impronta partecipativa” dei processi partecipativi di ogni natura e durata, mutuando l'idea di impronta ecologica7 applicata all'ambiente. Questo strumento può diventare supporto per capire la qualità della partecipazione che sta progettando, vivendo o ha già sperimentato. E ciascun attore coinvolto può utilizzarlo acquisendo consapevolezza e rendendo più facile l'interazione con la partecipazione stessa, sia per chiedere informazioni in modo più competente, sia per proporre possibili correttivi, qualsiasi sia il ruolo ricoperto: il proponente – committente sia pubblico (enti ed istituzioni), che privato (associazioni, cooperative e gruppi spontanei); il partecipante stakeholder più o meno coinvolto ed interessato; gli abitanti e i fruitori del territorio in cui si sta svolgendo la partecipazione. Anche lo stesso esperto di partecipazione può usare i 10 principi per una valutazione “semplificata” ex-ante, in itinere, ex-post, dei sui progetti o di quelli in cui è coinvolto per rendere evidenti i punti di debolezza e punti di forza dei percorsi partecipativi, mettere a fuoco possibili, e talvolta necessari, correttivi. Nelle esperienze di utilizzo della Carta come impronta partecipativa sono già emersi alcuni fat-


Principio di Valutazione

tori comuni. Ad esempio, la Cooperazione risulta fondamentale all'inizio (anzi in alcuni casi è proprio il motivo per cui si è attivato il percorso partecipativo), mentre alla fine la soluzione scelta può scatenare dinamiche di contrapposizione, quasi tra vincitori e perdenti (vedi anche il pr. Armonia). La Fiducia è indispensabile all'inizio ed in ogni fase della partecipazione e va mantenuta durante tutto il percorso anche attraverso la trasparenza e l'equità. Se manca la fiducia, il percorso si deve interrompere. L'Informazione è indispensabile, ma fare una buona informazione è molto difficile. Per rendere accessibili e comprensibili le diverse informazioni riuscendo a catturare l'interesse dei partecipanti, è necessario “tradurre” le informazioni in un linguaggio semplice e comprensibile a tutti, utilizzando mezzi diretti di confronto come le passeggiate e i supporti visivi. Grande attenzione è stata posta all'utilizzo dei media e del web ed è emerso che sono ancora indispensabili prodotti cartacei. Per creare fiducia tra i partecipanti è fondamentale un buon piano di comunicazione. L'Inclusione è spesso il vero motivo per cui si è attivato il percorso partecipativo ma spesso sono coinvolti solo alcuni stakeholder senza aprire le porte ad ogni cittadino interessato (o ad una selezione di questi), rendendo il percorso partecipativo un po' più distante e slegato dalla realtà. L'Efficacia è riconosciuto come requisito indispensabile, ma non sempre vi sono esiti concreti o non sono adeguatamente riconosciuti. L'Interazione costruttiva, attraverso il confronto e la condivisione, permette il passaggio dalla proposta/idea del singolo alla proposta/idea di comunità ed è l'essenza della partecipazione fatta di corpi che si incontrano, discutono e costruiscono insieme proposte superando il singolo per diventare costruzione creativa della collettività (talvolta difficile da raggiungere). L'Equità è legata alla fiducia ma anche alla professionalità dei facilitatori che non avendo interessi

diretti nelle soluzioni in gioco, sono in grado di valorizzare l'apporto di tutti i partecipanti. Per questo gli amministratori/decisori non possono assumere il ruolo di facilitatori. L'Armonia (o riconciliazione) è il principio più difficile da raggiungere ed è legata al grado di contrasto ed alla posta in gioco. Sui temi dell'ambiente, della salute e della proprietà privata, spesso vi sono chiusure e qualcuno non vuole più discutere perché pensa di avere già la soluzione giusta (la sua!), oppure non è disponibile a mettere in gioco i propri interessi (sindrome di NIMBY - Not In My BackYard non nel mio giardino). In questo caso serve rivedere il patto iniziale e chiarire se c'è fiducia nell'esito del percorso partecipativo. Rendere conto e motivare l'accoglienza o il diniego delle richieste emerse, è funzionale al bilancio degli esiti e spesso permette di costruire continuità nelle alleanze creatisi. In alcuni casi questo bilancio ha permesso di realizzare le proposte/azioni nate dal percorso partecipativo e, in alcuni casi, di far proseguire il percorso partecipativo stesso. La Valutazione, che dovrebbe essere già prevista fin dal progetto iniziale, non può essere più impegnativa dello stesso percorso partecipativo, serve ad aiutare a ri-orientare eventuali aggiustamenti necessari ed a rompere schemi troppo rigidi. Questo tempo dedicato ad una “valutazione passo passo”, anche molto semplificata, è molto ben speso per realizzare una partecipazione concreta e di qualità.

Note 1. La commissione, coordinata da Donatella Venti, è nata nel 1996 con la denominazione di Commissione “Urbanistica partecipata e comunicativa” e raccoglie una quarantina di esperti/e di diverse regioni. 2. Viaggi di studio negli Stati Uniti (2002), nel Regno Unito (2003), a Berlino (2005), in Finlandia (2009). 3. In particolare le Regioni Toscana ed Emilia Romagna, che hanno adottato apposite leggi a sostegno dei processi partecipativi: l.r. 46/2013 (Regione Toscana); l.r. 3/2010 (Emilia Romagna). 4. Per dare all'iniziativa una solida base culturale la Commissione “Diritti dei cittadini e Governance” dell'INU ha coinvolto le associazioni AIP2 (Associazione Italiana per la Partecipazione Pubblica) e IAF Italia (International Association of Facilitators) con un ruolo di “co-promotori”. Dopo una prima condivisione interna del documento curata da Chiara Pignaris e Lucia Lancerin, che ha visto i contributi di un centinaio di esperti delle tre associazioni, la bozza della Carta è stata inviata alle associazioni nazionali sensibili alle tematiche partecipative, ed ha raccolto l'adesione di Cittadinanza Attiva, Italia Nostra e Città Civili Onlus. 5. La Carta della Partecipazione ha tratto ispirazione anche dal Codice Etico dell'IAP2 http://www.iap2.org/?page=A4 “Il Codice Etico costituisce una serie di principi, che ci guida nella nostra pratica favorendo la integrità dei processi partecipativi pubblici. Ci riteniamo responsabili per il rispetto di tali principi e ci impegniamo a coinvolgere tutti i partecipanti a rispettare i medesimi principi.” 6. L'idea nata dal gruppo di Valutazione di Aip2, è stata sperimentata in numerosi incontri anche come strumento di confronto ed autovalutazione oltre che di divulgazione. Tra questi citiamo l'incontro-confronto tra volontari, operatori del terzo settore e amministratori organizzato dalla Scuola di Partecipazione del CSV di Treviso (novembre 2015) con il “laboratorio di progettazione partecipata” e l'incontro-confronto tra funzionari della pubblica amministrazione promosso dal Comune di Lavis (marzo 2016), con la Sezione trentina dell'INU, AIP2e il Gruppo Palomar (http://www.paesaggiotrentino.it/documenti/News/2016_ workshop_lavis.pdf 7.http://www.footprintnetwork.org/it/index.php/GFN/page /footprint_basics_overview/ L'Impronta Ecologica, nasce come unità di misura di prim'ordine della domanda di risorse naturali da parte dell'umanità e misura quanta superficie in termini di terra e acqua la popolazione umana necessita per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti.

Riferimenti bibliografici Vergani L (2016), Cittadinanza digitale. La partecipazione cambia il rapporto tra PA e Cittadini Politecnico di Milano per Forum PA: (28/04/2016). Venti D. (2016), Percorsi Partecipativi nella progettazione e nella pianificazione: strumenti, metodi, esperienze, Inu edizioni.

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UNO SGUARDO TEORICO

Partecipazione come forma di apprendimento di Liliana Padovani*

Considerazioni a partire da alcune esperienze di attivazione dal basso, di prove di interazione tra istituzioni pubbliche e cittadini, sui temi del verde urbano

*Liliana Padovani Architetto, ha perfezionato la sua formazione nel settore degli studi urbani e della pianificazione urbana negli Stati Uniti (Cambridge Mass.) e presso diversi istituti di ricerca italiani e stranieri. Ha insegnato Pianificazione territoriale all'Università degli Studi di Trento e Politiche urbane e territoriali all'Università Iuav di Venezia; sempre allo Iuav ha coordinato, 2001-2013, il Corso di Perfezionamento Post laurea “Azione locale partecipata”. Ha coordinato e partecipato a numerosi progetti di ricerca nel campo della riqualificazione e rigenerazione urbana, dell'azione locale integrata e delle politiche abitative. Attiva in associazioni e reti di ricerca internazionali (Enhr, Eura, Urbact) e membro del Comitato scientifico di riviste internazionali, ha all'attivo numerose pubblicazioni sui temi dell'abitare e della partecipazione.

Il verde urbano come terreno per esperienze di condivisione Vorrei provare a rileggere alcune esperienze di attivazione di soggetti diversi -non necessariamente istituzionali- nella promozione e gestione di aree verdi che sono state messe in atto nel periodo recente all'interno e ai margini di aree urbane. L'occasione per raccogliere informazioni su queste iniziative, in gran parte situate all'interno dell'area milanese e nel Nord-est, è stata la collaborazione ad una attività di ricerca sulle relazioni tra spazi verdi e salute¹. Si tratta quindi di ragionamenti basati su un riuso di esperienze raccolte per altri scopi. Esperienze che hanno però in comune alcuni caratteri interessanti ai fini del ragionamento che si vuole svolgere: - quello di essere più vicine al concetto del “fare insieme”, della “condivisione”, della “attivazione dal basso” che a quello di “percorso partecipativo strutturato” (Bianchetti, Savoldi, 2014); - di essere, proprio per il loro carattere occasionale, eterogenee quanto a finalità e profilo degli attivatori, coinvolgendo una molteplicità di forme di sapere, da quelle di carattere disciplinare a quelle connesse alla sperimentazione di pratiche innovative. Sono messi in gioco campi che fanno capo a settori di intervento diversi, del sociale, del benessere e della salute, della qualità

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della vita e dell'abitare, dell'urbanistica, del lavoro. Tra gli esempi più noti si possono citare alcune pratiche innovative messe in atto nel settore dei servizi sociali in connessione al riuso di exospedali psichiatrici, come nel caso del Paolo Pini Milano o dell'ex Ospedale psichiatrico di Trieste; oppure nel settore della agricoltura la produzione biologica e il suo intrecciarsi con espressioni socio-spaziali del cambiamento nei consumi alimentari e nella percezione del problema della sostenibilità ambientale; - di coinvolgere scale e forme diverse di espressione del verde urbano. Per esempio, con riferimento al verde di prossimità, si trovano, accanto ai più tradizionali piccoli giardini progettati e gestiti dalle amministrazioni locali o affidati in concessione a privati, iniziative come quelle degli orti urbani, dei giardini comunitari, della piantumazione di tratti di strada a cura di abitanti o associazioni, o dei vari mercati a km 0. Sono forme di riuso dal basso di frammenti di spazi liberi: i “retri” della nuova edificazione, aree destinate a verde e mai attrezzate, porzioni di superficie sottratte all'iniziativa edilizia in virtù del rispetto degli standard. Espressioni di questo nuovo tipo di istanze si trovano anche a scala comunale o sovra comunale. Un esempio interessante cui fare riferimento può essere quello del Parco agricolo sud Milano, che si propone di


coniugare in uno stesso ambito territoriale fun- città contemporanea. Tra questi: l'attenzione alla zioni di produzione agricola e di parco urbano o qualità dell'abitare riferita sia ai luoghi “urbani” nei percorsi che hanno portato alla realizzazione che a quelli “rurali” vicini alla città; un nuovo senso del Parco delle cave o del Bosco in città sempre del benessere nelle pratiche di vita quotidiana e a Milano. della salute espresso sia dai cittadini che da alcuSono iniziative frammentate, di nicchia, incerte ne istituzioni connesse al settore sanità; la rispoquanto al pieno sviluppo delle loro potenzialità, sta a nuovi bisogni di socialità; o anche la ricerca che però stanno contribuendo a cambiare, pro- di forme urbane di produzione agricola non più ducendo forme indirette di apprendimento e considerata come qualcosa di lontano e separato consapevolezza, alcuni dei paradigmi che hanno dalla vita della città. Questi nuovi orientamenti e a che fare con la concezione, la progettazione, la le pratiche che sono state messe in atto, hanno gestione e la fruizione delle aree verdi e del rap- indirettamente inciso anche sul modo di intendeporto tra verde, agricoltura e città, oggi. re destino e salvaguardia di queste aree mettendo in atto percorsi di una loro ri-significazione conProcessi di apprendimento creta (attraverso esperienze di carattere tempoProviamo a vedere più da vicino alcuni di questi raneo o definitivo) in funzione di specifiche funprocessi di apprendimento/mutamento: zioni e bisogni urbani. Un cambiamento radicale - sta cambiando il significato degli spazi aperti per le politiche urbane, un passaggio da “strate(o ancora non urbanizzati) nella città, con conse- gie per limitare la crescita urbana” a percorsi di guenze di rilievo tanto sui modi di fruizione che “significazione e valorizzazione sociale” degli sul loro destino e il modo di intendere la salva- spazi aperti nelle città³. Tema caro alla cosiddetta guardia di queste aree. Il verde urbano e le aree cittadinanza attiva che lo pone con forza alle agricole ai margini della città o in esse intercluse, amministrazioni locali; in un passato non lontano sono stati visti preva- - sta delineandosi e si sta sviluppando quello che lentemente come aree di riserva per le necessità si potrebbe definire come un nuovo concetto di degli inarrestabili quanto auspicati processi di agricoltura urbana che, attraverso la sperimencrescita edilizia: aree prive tanto di un loro valore tazione di modalità innovative di produzione agriautonomo quanto di una specifica negatività per cola e percorsi di riflessione sulle sue funzioni, conil carattere indefinito di “provvisorietà perma- tribuisce a mettere in tensione la tradizionale nente” che le aveva connotate. Questo assunto separazione tra città e campagna. La campagna è stato messo in discussione. In primo luogo per entra nella città (orti urbani, cascine) mentre la la maggiore attenzione prestata alla salvaguar- città con i suoi saperi esperti (alto livello di formadia dell'ambiente e delle aree non ancora urba- zione) entra nella campagna per esempio attranizzate, a fronte dell'accentuarsi dei fenomeni di verso le nuove forme di produzione biologica. inurbamento² e delle ricadute negative in termi- Tutela del territorio, sostegno economico attrani di salute e sostenibilità, se non si presta una verso un'auto-produzione di frutta e verdura, quaattenzione adeguata al ruolo degli spazi aperti lità della produzione (marchi di qualità nell'ambito all'interno dei sistemi urbani. di distretti o parchi), valorizzazione del paesaggio, Altre riflessioni sono state indotte dalla cosiddet- delle culture locali, ricerca di stili di vita, convivono ta bolla edilizia e dalla successiva crisi, che hanno in questo processo. Un'attività plurima di soggetti messo in cruda evidenza il lascito dei cantieri diversi (cittadini singoli, famiglie, associazioni, aperti e abbandonati, degli sprechi prodotti da imprese agricole, enti pubblici, associazioni di una speculazione finanziario-immobiliare che categoria) che operano a diverse scale non dialoga con il futuro delle città nelle quali (dall'ambito micro dell'orto urbano, a quello più interviene. Di qui la necessità di uno sguardo vasto delle zone di produzione o alle attività di nuovo per le aree compromesse dall'avvio (o commercio dei prodotti biologici o biodinamici/ dall'ipotesi di avvio) dei lavori e rimaste in stato consumo a KmO) e che ricercano forme di colladi abbandono. Un terzo ordine di riflessioni, più borazione e sistematizzazione spesso a partire da direttamente connesse ai ragionamenti qui pro- singole esperienze e progetti concreti; posti, è derivato proprio dall'attivarsi di una plu- Infine, incomincia a delinearsi una nuova ralità di iniziative che riconsiderano queste aree declinazione del concetto di verde come sisteper le valenze che offrono nei confronti dei nuovi ma complesso dove l'attenzione all'ambiente tipi di bisogni che si sono venuti delineando nella dialoga con nuovi modelli di fruizione “naturali-

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stica” dell'offerta di verde urbano e periurbano, ma anche con il progetto urbanistico e con la molteplicità delle iniziative in atto. Si tratta di una domanda ancora acerba e in fase di elaborazione che guarda alle diverse iniziative di produzione di aree verdi in un'ottica di sistema più largo che si preoccupa della salvaguardia dell'ambiente, del senso del verde nello sviluppo urbano, ma anche della sua funzionalità verso stili di vita più attenti alla sostenibilità economica, sociale e ambientale. Partecipazione come strumento di dialogo tra saperi Quello che si configura è un campo di potenzialità interessante, aperto al cambiamento, che richiede però un grosso sforzo di interpretazione, di comprensione e di scambio, tra una molteplicità di iniziative che attivano risorse, forme di sapere, capacità e interessi (a volte appartenenze ideologiche) spesso riferiti a contesti specifici e che possono o meno aprirsi a istanze di carattere più generale e alla costruzione di quadri di senso di respiro più ampio. Un mosaico di aree di apprendimento. E qui mi sembra entri in gioco il ruolo che può essere svolto dalla partecipazione dando spazio non tanto alle sue valenze come strumento di deliberazione quanto alle sue potenzialità come strumento di dialogo tra saperi diversi (istituzionali, esperti, del cittadino comune) e come strumento di apprendimento e capacitazione tra i vari soggetti coinvolti. Dando cioè spazio alla dimensione di carattere cognitivo dei percorsi partecipativi. Il che comporta di guardare al percorso partecipativo come: • strumento di maggiore “trasparenza” nelle relazioni tra i diversi attori (cittadini, esperti, istituzioni pubbliche, privati); • percorso di “mutuo apprendimento” (all'interno del settore pubblico, tra questo e i cittadini e tra le diverse forme di sapere), come creazione di campi dove voci e interessi diversi possono essere espressi e negoziati, dove il conflitto possa essere visto non come barriera, ma come problema trattabile in un contesto dove sia possibile produrre valore aggiunto in termini di conoscenza e di orientamento verso obiettivi comuni e condivisi; • come “leva” per attivare nuove risorse (conoscitive, economiche, di saper fare), consapevolezza e senso di responsabilità e quindi come


strumento di sostenibilità del progetto e dei risultati conseguiti dovuto al “farsi attori” dei soggetti coinvolti. Tutto ciò prendendo atto e riconoscendo: la limitatezza delle informazioni normalmente disponibili anche e soprattutto nella attuale “società della conoscenza”; l'ambiguità delle situazioni in cui ci si trova normalmente ad operare; i dubbi in merito alle relazioni causa-effetto dei processi in atto. “La complessità cognitiva può essere ridotta mediante un'azione congiunta che con la costruzione di argomentazioni e lo scambio e la discussione dei diversi punti di vista dia origine a nuove soluzioni ai problemi e nuove forme di azione collettiva o anche semplicemente produca, in una prospettiva minimalista, maggiore chiarezza sulla situazione” (Lanzara, 2005 p.54). Dall'interesse generale al bene comune Il secondo aspetto interessante del guardare alla partecipazione come forma di apprendimento è quello di aprire dei luoghi di scambio tra due diverse e tendenzialmente opposte concezioni di bene pubblico. Quella che lo vede come espressione di un concetto di interesse generale, che come tale non può che essere definito da una autorità pubblica

capace per sua natura e perché eletta democraticamente di porsi al di sopra delle parti e di attivare le forme di sapere pertinenti e disponibili al fine di perseguire l'interesse generale della collettività. E un'altra che, più fiduciosa nelle risorse a capacità di attivazione di una molteplicità di soggetti e nell'interazione tra saperi di diversa natura (da quelli maturati attraverso le pratiche di vita quotidiana o di lavoro a forme di sapere esperto liberamente messe a disposizione), è orientata verso un concetto di bene pubblico non come dato dall'alto, ma come esito da conseguire attraverso l'interazione: bene comune. Esiste una domanda di partecipazione e anche di beni pubblici non adeguatamente coperta dall'offerta standard di politiche pubbliche, …. di forme più complesse di coproduzione di beni a più alto contenuto relazionale e cognitivo, rispetto ai quali isolatamente sarebbero incapaci sia lo stato sia il mercato …. .. è possibile avere beni pubblici da pratiche sociali (Donolo, 2005) . Su questi due ultimi punti, partecipazione come apprendimento e tensione tra una concettualizzazione del verde come bene di interesse generale o come bene comune⁴, vorrei proporre alcune considerazioni indotte da una specifica esperienza condotta nel quadro più generale del contesto di ricer-

ca citato: un'esperienza che sarebbe improprio definire partecipativa, e che si può meglio connotare come un percorso di “prove di dialogo” tra cittadini, attori locali e istituzioni in merito a un progetto di costruzione di un grande parco urbano, il Parco Adige sud di Verona⁵. Un'iniziativa che si era proposta di fare incontrare e dialogare due tipi di iniziative che fanno capo a quadri di riferimento, sistemi di valori, tradizioni disciplinari, diversi e lontani tra di loro. Da un lato, un “percorso istituzionale” di definizione e adozione di un grande Parco urbano. Un processo complesso e articolato nel tempo (è in corso da più di venti anni), che è passato attraverso la predisposizione di strumenti di piano diversi, è cambiato nei contenuti e ad oggi non è interamente concluso, manca ancora la disciplina normativa degli interventi (Tabella 1). Dall'altro una “pluralità di iniziative” che fanno capo ad attori diversi non istituzionali, ma anche istituzionali, in vario modo interessati al parco, che di fatto con la loro azione contribuiscono a dare senso e contenuti a questa visone di un gran parco per la città (Tabella 2). Una sfida difficile che si propone di fare dialogare una politica pubblica importante per la città con una varietà di iniziative dal basso che, pur nella loro parzialità, settorialità, distanza dal disegno istituzionale delle politiche urbane, producono effetti

La visione del parco dell’Adige

Tabella 1 Il percorso che porta alla adozione del parco Adige sud

Adige nord - 315 ha (32ha proprietà comunale)

- incarico Piano Ambientale dell'Adige, 1992 - prima idea di progetto/visione verde metropolitano, Documento di Programma del Piano Strategico di Verona 2020” 2002-3,“Parco dell'Adige” quale "area naturale protetta di interesse locale“ Consiglio Comunale 2005 - incarico aggiornamento Piano ambientale del Parco dell'Adige 2007 (ripreso 2009) - le componenti del parco: il parco delle mura, parco nord e parco sud (immagine) - PAT adottato 2006, approvato 2007. definiti gli ambiti del Parco dell'Adige (Adige nord, Adige sud e parco urbano delle mura) e i vincoli in attesa della disciplina operativa degli interventi (Piano ambientale)

Adige sud - 535 ha (60ha proprietà comunale)

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Tabella 2 Una fitta rete di attori/iniziative presenti nel ParcoIstituzioni pubbliche Istituzioni pubbliche - Comune Verona Settore Ambiente - Comune Verona Settore Pianificazione - LSS 20 Verona - Circoscrizioni VII

Azioni - Gestione area Giarol: percorsi e piantumazioni, bosco, area umida. Fattoria didattica - Pat - Percorso salute anziani - orti comunali

Altri attori - Fattoria didattica - Orti comunali San Pancrazio - Agricoltori, P.S.Pancrazio - Fai - Villa Buri (M Salomon) - orti collettivi Lazzareto - Verona Reloaded - Associazioni San Pancrazio - Associazione i Forti, Associazione Ipogrifo.

-

sociali, imprenditoriali, di interpretazione del senso del verde urbano, di interesse per la collettività o quantomeno per alcune sue componenti (Bobbio, 2016). La sfida non sta solo nel fare sì che le istituzioni competenti siano in grado di intercettare e implementare queste esperienze, ma nel costruire forme di mutuo apprendimento, che incidano sulle pratiche di tutti gli attori coinvolti, incrementando le risorse complessive di capacità, di conoscenza, di sapere fare insieme. Un percorso di ibridazione che tocca anche il concetto di bene pubblico.

Didattica, presidio, biologico 70 orti, comitato di gestione frutteti, vivai, agricoltura biodinamica Recupero Lazzareto, associazioni e cooperative sociali famiglie che gestiscono orti riuso area margini iniziative, feste, per fare conoscere il parco organizazone eventi teatrali, musicali

- una prima fase ricognitiva, che ha portato alla costruzione della rete di attori istituzionali e non coinvolti nell'area. Un processo incrementale (contatti, interviste agli attori sul modello ricerca azione, focus group), teso a mettere a fuoco e costruire collegialmente il quadro delle iniziative, dei modi di fruizione dell'area, delle percezioni del parco e delle sue prospettive, delle forme di collaborazione fra gli attori, o dei motivi di conflitto (26 interviste, marzo-maggio 2013) - un incontro seminariale con gli attori intervistati per ragionare e confrontarsi sui risultati emersi Una esperienza “anomala” nella prima fase, e ridiscutere collegialmente Qualche breve precisazione su alcune peculiarità quelli che, nella rielaborazione delle interviste, si dell'iniziativa che hanno agevolato il percorso ma sono delineati come punti di forza, criticità e lo hanno anche reso più fragile: si è trattato di opportunità/risorse dell'area. (Tavola rotonda una committenza anomala, senza un vero e pro20 giugno 2013, sede dell'Ulss 20 di Verona). prio committente e un mandato specifico. Una - la realizzazione di un evento di carattere laborichiesta nata all'interno di una ricerca universitaratoriale, durante il quale, a partire da una mapria, sulla spinta di un concreto interesse della patura delle potenzialità progettuali predispoULSS 20 e in particolare del direttore della Diresta dal gruppo di lavoro alla luce delle indagini e zione Prevenzione per un coinvolgimento dei delle consultazioni fatte, fosse possibile, proprio cittadini nella gestione della salute. Quindi la comattraverso la partecipazione dei diversi attori mittenza e il campo di applicazione hanno dovu(istituzioni, associazioni e cittadini), produrre un to essere costruiti interattivamente nella realizzaquadro di proposte di intervento a breve termizione del percorso. Questo ha creato un clima di ne che permettesse la sperimentazione conmaggiore apertura e disponibilità/interesse a parcreta di modi d'uso del parco (Laboratorio “Pentecipare, ma anche problemi di continuità alla sare il Parco che verrà”, ottobre 2013). fine dell'esperienza. Il percorso di interazione è stato strutturato in tre Che indicazioni trarre da questa esperienza? momenti⁶: Una prima piacevole sorpresa è stata quella di riu-

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scire a fare dialogare attorno ad un tavolo sul problema del parco, una serie di soggetti abituati a vedere la questione sotto un'ottica specialistica, con una tradizione di distacco, se non di conflitto reciproco, e questo sia all'interno delle istituzioni pubbliche che tra loro e i diversi attori locali. Un'operazione apparentemente elementare, ma che all'inizio del percorso pochi ritenevano potesse avere un esito positivo. Invece, sia durante il lavoro preparatorio che nel corso dell'incontro si sono prodotte delle effettive condizioni di apertura reciproca e di cambiamento di ottica che traspaiono dalle assunzioni e indicazioni di impegno formulate a conclusione della tavola rotonda. Emergono disponibilità ad un ri-orientamento rispetto ad alcune importanti assunzioni sulla natura e i caratteri del parco. Ad esempio, in merito alla percezione dei confini del parco e delle sue funzioni. E' venuta maturando la convinzione delle potenzialità positive di un parco a molte facce (parco pubblico urbano, zone naturalistiche vincolate, parco agricolo, parco che intercetta interessanti tracce storicoculturali). Ed è stato posto il problema di come fare convivere queste diverse dimensioni. Un primo incontro-confronto tra una politica pubblica urbana e una pluralità di pratiche locali. Cosa interessante su questo aspetto e credo non solo per gli organizzatori dell'iniziativa, ma per tutti i partecipanti, è stata la percezione della trasformazione, con il contributo delle conoscenze delle iniziative portate all'interno del parco dai vari attori, di uno strumento di piano “percettivamente piatto”


come la carta dei vincoli e delle destinazioni del Parco Adige Sud, in una mappa multidimensionale, un sistema ricco di valori, di contributi culturali, di possibilità di fruizione e di scambio. Un secondo elemento di positività limitata è derivato dal fatto che si sia consolidato, all'interno del gruppo degli attori, l'interesse per il fare insieme nel tempo breve delle iniziative concrete, anche in attesa della istituzionalizzazione del parco. Si è aperto un certo interesse per un lavoro inedito rispetto al percorso istituzionale di costruzione di un parco pubblico, che si avvicina al concetto del bricolage (Concilio 2010), di ragionare su una serie di iniziative per il parco, già pronte, per farle lavorare congiuntamente in un'ottica di azione locale integrata, con attenzione agli effetti di uso del prodotto e alla loro capacità di rispondere alle istanze espresse dai cittadini e dalle loro associazioni. Questo però in una prospettiva attenta alla visione finale del parco e che si preoccupa di consolidare questa visione. Interesse che si è tradotto nella scelta di mettere in atto l'evento di carattere laboratoriale “Pensare il parco che verrà”. Per le istituzioni l'accettazione di un percorso di “apprendimento incrementale”⁷. Un terzo aspetto positivo, in assenza, come si è detto, di una committenza specifica, è stato il fatto che la Circoscrizione avesse chiesto di presentare i risultati del lavoro in sede di consiglio esprimendo il proprio interesse e desiderio che l'iniziativa potesse continuare. Certo, sono tracce labili che risalgono a due anni fa quando sono state chiuse ricerca ed esperienza e sarebbe interessante tornare sul terreno e valutare cosa ne è rimasto in termini di apprendimento.

era stata fortemente sostenuta dai partecipanti alla tavola rotonda di cercare di mettere in atto delle iniziative anche piccole, ma in grado di rispondere ad alcune delle esigenze che erano state espresse e di fare questo riorientando in modo virtuoso e concordato alcune degli interventi già programmati, non è riuscita a tradursi in iniziative concrete. Ci vuole tempo, forse; maggiore impegno e leadership locale, sicuramente.

Note 1. Il lavoro di raccolta di informazioni sui casi di studio e la promozione di un percorso di interazione tra istituzioni e attori locali nel processo di costruzione di un grande parco urbano a Verona, sono stati condotti da Liliana Padovani e Nico Cattapan nell'ambito di una convenzione tra Azienda ULSS 20 e Università Iuav di Venezia che si è tradotta nella pubblicazione: Vittadini M.R., Bolla D., Barp A. (a cura di) (2015) Spazi verdi da vivere. Il verde fa bene alla salute, Il Prato, Saonara , pp. 284. 2. Ad oggi più della metà della popolazione mondiale vive in sistemi urbani, rispetto al 29% del 1950 e le stime danno questa tendenza in forte crescita approssimandosi al 70% nel 2050. 3. Ho ripreso questi termini, che mi sembrano efficaci, da Martin Broz, “Presentazione stato di avanzamento elaborato finale”, Dottorato in Pianificazione Territoriale e Politiche Pubbliche del Territorio Università iuav di Venezia, 2014. 4. Su questo aspetto mi sono sembrate pertinenti le argomentazioni avanzate da Donzelot, Epstein (2006). 5. Il Parco Adige Sud, che è una componente del Parco Adige, è un'area vasta (circa 540 ha), di cui circa 90ha di proprietà pubblica mentre le altre aree sono private e in gran parte destinate ad attività agricole. Si tratta di un'area verde prossima al centro di Verona e quindi facilmente fruibile, connotata da valori paesistico ambientali, con ambiti di valore naturalistico e interessanti tracce della storia della città: Lazzaretto, Forte Santa Caterina, Villa Buri e il suo parco, le Corti. 6. Per un approfondimento si rimanda al rapporto “Sviluppo di un'esperienza di progettazione partecipata per il Parco Adige Sud di Verona” a cura di Nico Cattapan e Liliana Padovani, 2013. Riferimenti bibliografici Bianchetti C. (a cura di) Territori della condivisione. Una nuova città, Macerata, Quodlibet. Bobbio L. (2016) “Beni comuni. Partecipazione dal basso: l'altra metà dell'opera” http://www.casadellacultura.it/viaborgogna3/viaborgo gna3-n3-sostenibilita-inserto.pdf. Concilio G. (2010) “Bricolaging knowledge and practices in spatial strategy making” in Maria Cerreta, Grazia Concilio, Valeria Monno (a cura di), Making Strategies in Spatial Planning. Knowledge and Values, Urban and Lanscape Perspectives vol 9, Springer http://www.springer.com/series/7906. Donolo C. (2005) “Dalle politiche pubbliche alle pratiche sociali nella produzione di beni pubblici?” Stato e mercato, n.73, pp. 33-65. Donzelot J., Epstein R. (2006) “Démocratie et participation: l'exemple de la rénovation Urbaine” Esprit, Luglio. Lanzara G.F.(2005) “La deliberazione come indagine pubblica”, in L. Pellizzoni ( a cura di) La deliberazione pubblica, Roma, Meltemi. Savoldi P. (2014) “Partecipazione e condivisione: una connessione incerta”, in C. Bianchetti (a cura di) Territori della condivisione. Una nuova città, Macerata, Quodlibet. Vittadini M.R., Bolla D., Barp A. (a cura di) (2015) Spazi verdi da vivere. Il verde fa bene alla salute, Saonara, Il Prato.

Elementi di grande difficoltà sono invece emersi nell'esperienza laboratoriale, certamente breve e che forse avrebbe dovuto essere costruita dedicando ad essa lo stesso impegno in termini di tempo e di costruzione di forme congiunte di sapere messo in gioco nella fase di costituzione della rete degli attori e del dibattito sulla visione condivisa del parco. Nel corso del laboratorio partecipato non si è riusciti a trattare le molteplici forme di resistenza da parte dei partecipanti ad uscire dai ruoli più consolidati. Gli esperti hanno incontrato difficoltà a mettere a disposizione il loro sapere, i rappresentanti delle associazioni a mantenere il ruolo di attore e non di chi chiede all'ente pubblico di intervenire. Le istituzioni pubbliche hanno frapposto veli di opacità. L'idea che

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UNO SGUARDO TEORICO

Per un approccio sperimentale al governo della società A partire dalla scuola di Marianella Sclavi*

*Marianella Sclavi Di formazione sociologa, si occupa di “Arte di Ascoltare e Gestione Creativa dei Conflitti”. Ha vissuto a New York dal 1984 al 1992, dove ha scritto due libri: “A una spanna da terra”, e “La Signora va nel Bronx”, nei quali ha sperimentato e proposto una narrazione etnografica guidata da “una metodologia umoristica”. Ha insegnato Etnografia Urbana al Politecnico di Milano dal 1993 al 2008. Ha operato come consulente in diversi processi partecipativi e situazioni conflittuali ed è presidente di Ascolto Attivo srl, da lei fondata. Collabora dal 2005 con il Consensus Building Institute del MIT e dal 2010 con il Master su Conflict Resolution and Governance dell'Università di Amsterdam. Fra i numerosi altri suoi libri: "Arte di Ascoltare e Mondi Possibili” (2000/2003), "Avventure Urbane. Progettare la città con gli abitanti" (Sclavi et al., 2002/2014) e "Ciao mamma, vado in Cina!", graphic novel di antropologia a fumetti (2009). In uscita con Ipoc Press la ripubblicazione di "Confronto Creativo", di cui è co-autrice con Lawrence Susskind , del MIT (prima edizione ET AL, 2011).

La democratizzazione della democrazia: la rivoluzione più difficile. L'interesse per la democrazia sperimentale e l'impostazione di questo articolo nascono da una catena di coincidenze che sono parte integrante del ragionamento. Le elenco per titoli e punti, premesse dello sviluppo successivo. Inizio: nello scrivere un libro sugli “ingredienti delle scuole felici”, con la mia co-autrice Gabriella Giornelli abbiamo “scoperto” che il sistema scolastico finlandese sembra funzionare esattamente come noi avremmo voluto. Niente bocciature, ampliamento del tempo dedicato al gioco e ai rapporti col territorio circostante, niente compiti a casa, flessibilità degli orari di lezione e specialmente- perseguimento della disciplina non attraverso la vetusta formula del bastone e della carota, ma attraverso la mediazione creativa dei conflitti, ovvero praticando e insegnando la sistematica trasformazione del disagio e dei conflitti in occasioni di apprendimento. Ciliegina sulla torta: invece che caos e indolenza, una tale scuola produce livelli di apprendimento fra i più elevati del mondo, secondo gli standard internazionali (PISA). Da quel momento in poi, ogni volta che mi arriva una notizia dalla e sulla Finlandia, mi si accende una lucetta nella mente, un avviso che forse c'è qualcosa di importante da conoscere e monitorare.

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Secondo step. Sui social network appare la notizia che il governo finlandese ha deciso di “sperimentare su scala nazionale” l'UBI (Universal basic income, il reddito di base garantito) per un periodo di due anni, una decisione che è il risultato di decenni di “sperimentazione della sperimentazione” in una pluralità di campi, dalla riforma del sistema scolastico a quella dei trasporti, dalla diffusione delle energie alternative al sistema della governance a livello locale. Gli esiti sono stati giudicati talmente positivi che nel 2015 il primo ministro ha varato un super esperimento affidato al Dipartimento di Design della Università Aalto e a due think tanks: Demos Helsinski e Avanto Helsinski, avente come obiettivo quello di trasformare questo approccio in un protocollo abbastanza semplice da poter essere integrato nelle normali procedure decisionali e di implementazione a tutti i livelli. Il modello proposto consiste in tre fasi strettamente intrecciate: la comprensione del problema, la implementazione di un esperimento e la identificazione e valutazione degli impatti. Di nuovo: lampadina accesa. In questo caso le due parole che creano il corto circuito sono “implementazione” ed “esperimento”. L'idea che la implementazione di una politica , la realizzazione di una idea progettuale possa (e in molti casi debba) essere intesa come “sperimentazione”, cioè come momento


di verifica e messa a punto della idea stessa, è la risposta. Il superamento della separazione fra momento decisionale e momento esecutivo è ormai nelle cose, non mi viene in mente nessun intervento politico importante nel quale abbia ancora senso. L'intero processo di diagnosi attualmente inteso come individuazione della miglior soluzione che andrà poi implementata, va ripensato e sostituito con il compito di individuare la “miglior idea (o progetto, o design) da mettere alla prova”. Questo approccio trasforma la implementazione da momento “esecutivo” a un momento cruciale del percorso decisionale, in quanto le informazioni che emergono da tale processo sono fondamentali per aggiustamenti, correzioni di rotta, riformulazioni radicali della diagnosi di partenza. Il processo decisionale è così costretto ad abbandonare il terreno della speculazione, delle alternative astratte, per incorporare al proprio interno i criteri e principi di una buona implementazione e viceversa, quest'ultima diventa responsabile di un continuo flusso di decisioni con valenza politica. Tutti i soggetti implicati diventano “comunità indagante”. Non è forse questo uno dei segreti del successo della riforma scolastica finlandese ? Terzo step. Rileggo in questa luce una serie di esperienze e ricerche. A cominciare dalle storie relative al ripensamento radicale del welfare nei Paesi Bassi (Laws e Forester, 2016) i cui promotori sono dirigenti e operatori diventati “professionisti riflessivi” in quanto il loro lavoro ha iniziato a incorporare le tre regole distintive della Azione Ricerca (AR): una realtà sociale non può esser compresa senza la descrizione di come è vista dalle persone che la vivono; la narrazione etnografica, che richiede una specifica capacità di ascoltare e osservare, è complemento indispensabile alle rilevazioni quantitative; le ipotesi sulla realtà sociale si verificano provando a cambiarla. A ben vedere, tutte le esperienze di progettazione partecipata arrivate in porto con successo, ovunque e non solo nei Paesi Bassi, sono riuscite a innestare questo capovolgimento (Sclavi e Susskind, 2011). E allora mi viene in mente (scrivo in agosto del 2016 all'indomani del terremoto nel Centro Italia) la ricostruzione in Friuli, nella quale la scelta vincente è stata di rifiutare di partire da una legge ad hoc o da un piano, per mettere il cantiere al centro, una pluralità di cantieri diretti dai gruppi di vicinato con l'assistenza dei loro architetti di fiducia. Per contrasto mi vengo-

no in mente tutte le esperienze di progettazione partecipata che ho praticato/ diretto personalmente il cui esito è stato bloccato e/o stravolto da una macchina burocratica che opera in senso opposto. Quarto step. Mentre mi trovo immersa in questi pensieri e meditazioni, mi capita sotto gli occhi sempre via social web - un durissimo attacco a un intervento che ha tutti i crismi della sperimentazione, varato nelle scuole locali dalla Provincia di Trento. La cosa mi interessa molto perché la rivista che pubblica l'articolo è prestigiosa e il progetto è ambizioso: si tratta del primo tentativo in Italia di introdurre ufficialmente il Metodo Montessori anche nella scuola pubblica. Quando abitavo a New York mi è capitato di parlare con eminenti pedagogisti fra i quali Howard Gardner (col quale ho collaborato) e il compianto Jerome Bruner i quali, sapendo che sono italiana, immediatamente mi facevano domande sulla diffusione dei Metodi Reggio Children e Montessori nel nostro Paese. Non sono mai riuscita a spiegare come mai la nostra scuola pubblica non dia più spazio a queste esperienze che destano l'ammirazione internazionale. Forse questa formidabile levata di scudi in occasione di un approccio sperimentale nel Trentino mi fornisce la possibilità di trovare finalmente una spiegazione. Quinto e ultimo step prima di cominciare. Scriveva Max Planck che “ Il trionfo di una nuova verità scientifica non avviene convincendo gli avversari e mettendoli in grado di vedere la luce; ma piuttosto grazie al fatto che prima o poi questi avversari muoiono e si fa avanti una nuova generazione che ha maggiore familiarità con la nuova visione” Non mi interessa qui disquisire se anche per l'affermarsi di un nuovo paradigma scientifico a volte un solo ricambio generazionale non sia stato sufficiente. Quello che mi pare certo è che le prime dimostrazioni relative alla possibilità di instaurare una nuova versione della democrazia, più inclusiva, trasparente ed efficace, risalgono ai primi decenni del secondo dopoguerra (Sclavi 2011) e hanno attraversato finora ben tre o quattro ricambi generazionali e anche se ci sono segni locali di balzi in avanti, non è affatto chiaro se si arriverà mai in porto e nel caso quante altre generazioni saranno necessarie. Il fatto è che l'emergere di una “nuova verità democratica” è il frutto di un apprendimento sociale che riguarda non solo il senso comune, ma anche le scienze sociali, e anche il sapere

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incorporato nelle istituzioni. E quindi da un lato è dimostrabile che nei Paesi che hanno fatto più passi in avanti è in opera un corto circuito di collaborazione fra esponenti della pubblica amministrazione, centri di ricerca scientifica e comitati di cittadini impegnati in questo tipo di cambiamento, dall'altro riuscire a creare contesti di mutuo apprendimento all'interno di ognuno di questi campi e specialmente fra di loro è una impresa molto ardua. Max Plank ha assolutamente ragione sul fatto che le premesse date per scontate in un certo ambiente sociale non si cambiano convincendo gli interlocutori, ma anche il ricambio generazionale funziona unicamente se ad esso corrisponde un ricambio nei modi di pensare e di agire. Nel prossimo paragrafo mi propongo di illustrare questo: come si esprimono le reazioni di rigetto e cosa è necessario attivare per passare dal pensiero speculativo al sapere concreto e, su queste basi, al dialogo. Perché senza pensiero concreto non c'è dialogo e senza dialogo non c'è sperimentazione sociale e men che meno democrazia sperimentale. Introduzione sperimentale del Metodo Montessori nelle scuole della provincia di Trento. Riassumerò qui di seguito le informazioni che ho raccolto in due scenari: lo “scenario della guerra” e quello della “gestione creativa dei conflitti”. Situazione di partenza. Nel 2015 la Provincia di Trento, in risposta ad una precisa e massiccia richiesta di genitori e cittadini, ha deciso di costituire un Gruppo di Lavoro allo scopo di pianificare le azioni necessarie all'attivazione nell'anno scolastico 2016/ 2017 di sezioni e classi a indirizzo montessoriano nelle scuole dell'infanzia e primarie della Provincia. Quando si è saputo che a Trento, Rovereto e Pergine partiranno dei Poli Sperimentali di questo tipo, altri genitori da altre località hanno promosso incontri e raccolte di firme per chiedere di estendere anche ai loro figli questa possibilità. All'origine di tutto questo c'è l'attività de “il Melograno”, una associazione di mamme per le mamme nata a Verona nel 1981, che si è poi diffusa in tutte le principali città italiane approdando a Trento nel 2008 dove, accanto alle normali attività di sostegno ai futuri e neo genitori, ha allargato i propri interessi anche ai primi anni di scuola, trovando nel Metodo Montessori una grande affinità con la propria impostazione generale. Dal 2013 in poi, in accordo con l'Opera Nazionale Montessori (ONM), ha organizzato una quan-


tità di incontri e conferenze di illustrazione del Metodo, con video, testimonianze, contributi di pedagogisti e studiosi di neuroscienze ed epistemologia. L'interesse e partecipazione del pubblico sono stati superiori ad ogni aspettativa e non solo i genitori si sono mobilitati, ma decine di insegnanti della scuola materna ed elementare hanno chiesto di poter seguire i corsi di specializzazione di 500 o più ore previsti dal Ministero. La Provincia, che nel Trentino ne ha facoltà, e che è nota (caso unico in Italia) per la promozione della Azione Ricerca in vari campi della amministrazione, si è detta d'accordo. Ai corsi, il cui inizio è in programma per l'ottobre del 2016, sono iscritte al momento 160 insegnanti. In questa ricostruzione chiamerò gli attori principali come segue: La Provincia, Il Melograno (che rappresenta localmente la ONM), Il Montanaro, La Federazione, i genitori e insegnanti MM (favorevoli al Metodo Montessori). Scenario di guerra. La prima notizia di queste vicende l'ho ricavata da un articolo intitolato “Montessori prèt-aporter”, scritto da un autore che (indagando via web) ho scoperto essere un maestro elementare in una scuola parentale (cioè gestita e finanziata da un gruppo di genitori) in un paesino a 1500 metri di altitudine, nelle valli del Trentino. Altrove, “Il Montanaro” (così ho deciso di chiamarlo) ha descritto questa sua esperienza che vede gli abitanti del paese impegnati a condividere a turno con i bambini le loro conoscenze dei monti e dei loro mestieri e che nasce come reazione di contestazione alla abolizione delle pluriclassi, decisione che l'autore giudica “da mentecatti”, in quanto costringe i bambini montanari a fare decine di chilometri per raggiungere un plesso scolastico giudicato “regolare”. Nell'articolo, che ha risvegliato la mia attenzione, la denuncia della decisione della Provincia di sperimentare il Metodo Montessori nella scuola pubblica è totale, espresso in toni definitivi e beffardi. La motivazione principale è che la Provincia non ha alcuna intenzione, né potere, né capacità di mettere in discussione l'impianto della scuola pubblica italiana, basato sui voti (“totem idolatrato in mistico trasporto”), sulla organizzazione per “gabbie” del tempo scolastico e delle materie, ecc., ovvero su criteri che fanno a pugni con l'impostazione Montessoriana, basata sulla creazione di contesti in cui ogni singolo bambino può accedere autonomamente, con tempi suoi e in

assoluta libertà ai materiali e alle attività predisposte dall'insegnante. Quindi questa sperimentazione non può che essere l'ennesima presa in giro, una operazione “squisitamente ed unicamente politica.” Tutto ciò che la Provincia farà sarà di sganciare “qualche soldino” in supporto a queste esperienze, “Ma il marchio di cui stiamo parlando è alta sartoria non può essere svilito nel prèt-a-porter.” L'altra importante fonte di critica viene dalla Federazione Provinciale scuole Materne di Trento, che dedica l'intero numero di gennaio 2016 della sua rivista trimestrale “Altri Spazi, Abitare l'educazione” allo scopo preciso, come dichiarato nell'editoriale, di “esplicitare e giustificare le ragioni per cui diciamo no all'apertura di sezioni a indirizzo montessoriano all'interno delle scuole dell'infanzia.” La motivazione però è esattamente opposta a quella del Montanaro: grazie all'impegno decennale della Federazione per la affermazione di un approccio socio-costruttivista, tutti gli aspetti più positivi del Metodo Montessori sono già presenti nella scuola pubblica e si è andati molto più avanti. Quindi la sperimentazione può solo essere espressione di un “purismo” (l'imposizione dell'autentico metodo originale) del tutto fuori tempo e fuori luogo. I principali difetti di un approccio Montessori “puro” (non arricchito dai successivi apporti del costruttivismo) sono: una pedagogia centrata sul singolo bambino, che dà poco spazio all'apprendimento fra pari e ai lavori di gruppo (anche delle insegnanti) e il fatto che i materiali inventati da Maria Montessori per stimolare l'iniziativa e il pensiero dei bambini sono stati surclassati da ben altri più stimolanti e in continua evoluzione. Nonostante queste non marginali divergenze, Montanaro e Federazione la pensano esattamente allo stesso modo quando ci si trova a parlare di genitori e insegnanti, di sapere comune e sapere esperto, di pedagogia e democrazia. Entrambi denunciano calorosamente la crescente pretesa dei comuni cittadini, sulla scorta delle informazioni ricavabili da Internet, di avere voce in capitolo su temi e argomenti che non sono in grado di padroneggiare e che non sono di loro competenza. Ecco come si esprimono al riguardo, addirittura facendo ricorso alle stesse similitudini. Su genitori-insegnanti, sapere comune-sapere specialistico: Federazione (articolo di fondo): succede sempre più spesso che “il comune cittadino immagini di poter dettare la ricetta per la cura della sua malat-

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tia al medico, indichi la strada per arrivare a una sentenza favorevole all'avvocato, ritenga legittimo pretendere da parte della scuola l'applicazione del metodo a lui più congeniale per l'educazione del figlio”. Montanaro: “Vi immaginate un qualsiasi settore professionale che fa scegliere agli utenti o ai clienti l'essenza stessa della propria competenza? Pensate a un chirurgo che entra in corsia il giorno degli interventi e si rivolge ai degenti che deve operare: “Allora ragazzi, come procediamo oggi? Volete un lavoretto mini-invasivo con assistenza robotica o andiamo col vecchio bisturi?” I pazienti salterebbero dalle finestre. Se accade nella scuola, invece, nessuno si meraviglia.” Su pedagogia- democrazia: Montanaro: “Troppi genitori non si rendono conto che queste sono cose da professionisti, che la democrazia qui non può nulla, che un metodo non si vota, e abboccano, si sentono coinvolti nelle scelte dalle istituzioni” (sottolineatura mia). Federazione: “Ma così non funziona, non può funzionare. In ambito educativo, quindi, prestare attenzione ai singoli bambini, confrontarsi con le loro famiglie, chiedere e accogliere suggerimenti in merito a strategie che possono rispondere meglio a particolari necessità non significa accettare qualsiasi richiesta. Non significa sposare metodi educativi solo per rispondere alle aspettative o all'insistenza di alcune (anche molte) famiglie” (sottolineatura mia). Su tutti questi temi la possibilità di dialogo (inteso come ascolto attivo e moltiplicazione delle opzioni) non è contemplata. O voto a maggioranza (fatto coincidere con “democrazia”) o parere insindacabile degli esperti. L''intero discorso procede sui binari dell'“io ho ragione, tu hai torto”, “amico, nemico” “giusto sbagliato”, “o con noi o contro di noi”. Dare spazio a posizioni divergenti è la debacle, la rinuncia ad esercitare la propria “responsabilità istituzionale e scientifica”. Se si vuole cambiare scenario, bisogna resistere alla tentazione di entrare nel merito di questi argomenti così impostati e dedicare invece l'attenzione a re-impostare tutti i rapporti su basi diverse. Ma, come si fa, da dove si parte ? Intanto aggiungendo alcune informazioni di base. Il Gruppo di Lavoro costituito dalla Provincia è formato da portavoce di: Il Melograno, ONM, Dirigenti delle scuole dell'infanzia ed elementari disponibili per la sperimentazione, una associazione di genitori favorevoli a MM e la Federazione


delle scuole materne trentine. Uno dei requisiti delle scuole individuate per la sperimentazione è la disponibilità di spazi rispondenti alle esigenze di organizzazione e movimento tipici delle scuole Montessori. Le insegnanti hanno tutte seguito nel 2015/2016 i corsi ministeriali di specializzazione, che erano a pagamento. Non c'è stata nessuna agevolazione economica da parte della Provincia. Nel Gruppo di Lavoro è stato chiarito fin dall'inizio che la proposta montessoriana sarà “aggiuntiva” e non sostitutiva di classi e approcci già esistenti. Scenario di gestione costruttiva dei conflitti. Uno scenario diverso si muove sui binari della Azione Ricerca e di una epistemologia dei mondi possibili. Uno degli indicatori di tale passaggio è che, invece di discutere in astratto di “scuola pubblica”, “metodo Montessori”, “approccio socio-costruttivo”, che sono tutti concetti monotetici, per cui si assume che ogni situazione reale che rientra dentro uno di questi insiemi, debba avere necessariamente certe caratteristiche che la connotano come tale, si discute in termini di una modalità di classificazione chiamata politetica, che procede per “somiglianze di famiglia” e osservazioni analogico -associative. Due dei più importanti pensatori che hanno elaborato questa distinzione (fra l'altro negli stessi anni e in modo totalmente indipendente l'uno dall'altro ) sono Vygotskji e Wittgenstein. E' di quest'ultimo l'affermazione: “Non è vero che una eccezione conferma la regola, una eccezione è l'emergere di una possibilità in precedenza esclusa, negata”. Di conseguenza, in questo scenario l'attenzione si concentra su particolari casi concreti che confutano gli stereotipi dominanti, per esempio una scuola Montessori di Roma (che conosco personalmente) che non ha nessuno dei caratteri “puristi” temuti dalla Federazione, anzi, è impegnata a impostare la collaborazione fra le insegnanti e fra insegnanti e genitori in termini di ascolto attivo e gestione creativa dei conflitti e fa uso di materiali sempre nuovi accanto a quelli classici. Se mi trovassi a svolgere il ruolo di mediatrice inviterei tutte le parti (tutte, non solo la Federazione) a prendere in considerazione questo caso, ad andare a visitarlo di persona, e a spostare la discussione da “non è possibile”, “non è nelle nostre competenze”, “verrà osteggiato”, ecc., a: “questo caso risponde o no a dei valori educativi che condividiamo, com'è che qui questo è possibile”?

E - visto che qui tutti ci dichiariamo costruttivisti (anzi socio-costruttivisti), non dovrebbe essere difficile, nel cercare le risposte, evitare quelle che Gregory Bateson ha chiamato “le spiegazioni soporifere”, del tipo: “Ah ma qui c'è una persona con una eccezionale capacità di leadership” (o “una direttrice che ha due palle così”), “qui i genitori rispettano la competenza delle insegnanti”, ” “è in atto una convergenza di fattori unica e rara” ecc. Per accentrare invece l'attenzione su specifiche e concrete situazioni di conflitto, e chiederci “cosa fanno di diverso le persone in questo contesto rispetto alle reazioni abituali in situazioni simili in quest'altro contesto”? Per rispondere a queste domande bisogna essere dei buoni osservatori, perché spesso le cose più importanti stanno nei particolari giudicati normalmente marginali e irritanti in quanto escono dall'arco delle aspettative date per scontate. Una democrazia sperimentale, a livello di governo del territorio e delle istituzioni, si radica su questa svolta nei modi di pensare, di osservare, di decidere. Pensiero analogico, somiglianze di famiglia, ascolto attivo, moltiplicazione delle opzioni, co-progettazione creativa. Ma l'aspetto più interessante di tutti, in questo caso, è che le esperienze concrete, particolari, specialmente quelle del Montanaro e della Scuola pluriclasse e parentale “Peio Viva” in cui insegna, corrispondono quasi perfettamente al modello Finlandese. Nel leggerne la descrizione¹, mi sembrava di trovarmi di fronte a quelle analisi stile “modelli di cultura” di Ruth Benedict e di Margaret Mead in cui si dimostra che uno stesso comportamento in un contesto culturale è osteggiato e nell'altro considerato eccellente. E' chiaro che, anche a partire dalla scuola di Peio, si potrebbe e dovrebbe adottare lo stesso atteggiamento sperimentale al quale ho qui accennato per la scuola Montessori di Roma. Un paio di articoli della rivista della Federazione, quelli che danno voce a un gruppo di insegnanti sulle difficoltà di acquisire uno stile di insegnamento meno cattedratico e sull'importanza di scambiarsi esperienze fra colleghe, mi fanno ritenere che anche da quel lato il passaggio dal monotetico alle somiglianze di famiglia non sia precluso. A questo punto, una almeno parziale spiegazione sul perché in Italia siamo capaci di così tanta creatività in singole situazioni laboratoriali, ma non siamo in grado di trasferire queste doti a livello politico, mi sembra di averla raggiunta. Il motivo è che le stesse persone che nella situazione concre-

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ta sono così creative, quando discutono di politica incominciano a sfornare spiegazioni soporifere e a pensare in termini di classificazioni monotetiche astratte, si fanno travolgere da modi di ragionare che sono profezie che si auto-adempiono. Sono affezionati a modi di scagliarsi contro “il potere” che contribuiscono a costituire in quel modo odioso che denunciano.

Note 1. www.scuolapeioviva.it Riferimenti bibliografici AAVV: Design for Government: Human-centric governance through experiments (Translation of the Final Report's Proposed Model for organising Experimentation, Chapter 3 of the original Finnish language report -on line). Cecchin G, P. Barbetta, D. Tofanetti, 2006, “Who was von Foester, anyway?”, in Kybernetes, Vol. 34 Iss: 3/4, pp.330 342. Delpero A., 2016b, Alta scuola, altra scuola, “Gli asini” n. 33-34, maggio-agosto. Delpero A., 2016a, Montessori pret a porter , Gli Asini n. 32 marzo-aprile. Federazione provinciale scuole materne di Trento ( a cura di ), Altri Spazi. Abitare l'Educazione, rivista on line. Laws D e J. Forester, 2016, Conflict, Improvisation and Governance. Street level practices in Urban Democracy, Routledge. Ruffato M. et all., 2016, Apprendere dalla esperienza con l'infanzia, Trento, edizioni Erikson. Scandurra D., 2016, “Montessori in Trentino, perché no?” , in La Voce delTrentino.it quotidiano on line, 14 aprile 2016. Sclavi M., 2011, “La trasformazione dei conflitti. Disciplina accademica sui generis e sapere della vita quotidiana”, in Riflessioni Sistemiche n. 4, maggio 2011. Sciavi M. e G. Giornelli, 2011, La scuola e l'arte di ascoltare. Gli ingredienti delle scuole felici, Milano, Feltrinelli. Sclavi M. e Susskind L., 2011, Confronto Creativo. Dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati. Edizioni Et al.


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UNO SGUARDO TEORICO

Il riuso dei vuoti nell'edilizia pubblica come opportunità per lavorare sulle reti e sulle capacità degli attori di Francesca Cognetti*

* Francesca Cognetti de Martiis E' esperta di Politiche Urbane e Professore Associato di Tecnica e Pianificazione Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. Conduce attività di ricerca sui temi dell'abitare e della città contemporanea, con particolare riferimento all'edilizia pubblica, sull'università come attore nelle politiche urbane, sulle diverse forme di partecipazione sociale. Si occupa, anche con esperienze di ricerca azione, di progettazione partecipata e pratiche informali di produzione della città. Membro di “Tracce urbane”, network multidisciplinare di ricercatori attivo sulle pratiche della città contemporanea.

Se per lungo tempo l'urbanistica, anche quella che ha utilizzato strumenti partecipativi, si è occupata della crescita delle città, e -attraverso l'incremento di spazi, di dotazioni e di infrastrutture sociali- del suo sviluppo, oggi le interpretazioni e le politiche urbane sempre più si rivolgono ai temi della decrescita, e termini come declino, abbandono, crisi, depressione, scarto sono diventati parte delle narrazioni territoriali che rimandano a un insieme di dinamiche economiche, demografiche e sociali degenerative che si producono nello spazio. Una varietà di fenomeni, processi e cambiamenti legati allo svuotamento e alla contrazione, indagati da molte ricerche internazionali negli ultimi anni sotto il termine “Shrinking” che, pur nella sua polisemicità, ha costituito un nuovo framework per gli studi urbani, alimentando un ampio dibattito relativo al ciclo di vita degli spazi e alle condizioni attuali di crescita delle città1 I fenomeni che oggi possiamo osservare, in una fase ormai matura della contrazione sono i più diversi; la questione assume una sua particolare declinazione nei quartieri di edilizia pubblica in Italia, dove il vuoto diviene ingrediente sempre più presente nell'immaginario pubblico, nelle pratiche di vita quotidiana degli abitanti, negli usi informali dei quartieri come nelle forme pubbliche di risposta al degrado. Nonostante il fenomeno non sia nuovo2, sembra

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che abbia assunto negli ultimi anni una sua pervasività, anche in contesti ordinari e poco problematici dove questa presenza ha tradizionalmente avuto il ruolo di importante presidio locale ed elemento di vitalità interna ai quartieri. Questi spazi – che possono essere chiamati “spazi EX” perché legati ad un passato che chiede di essere rinnovato: la ex sede del comitato locale, l'ex cinema o teatro, la ex casa di quartiere, la ex panetteria - sono quei locali che nel tempo hanno perso la destinazione che originariamente li connotava, ad esempio quella commerciale, artigianale o ricreativa, concludendo un ciclo di vita senza per ora iniziarne uno nuovo. Nella maggior parte dei casi si tratta di spazi localizzati ai piedi di edifici (negozi, laboratori, depositi, uffici, etc.), per i quali l'inutilizzo è sopraggiunto in fasi differenti e in virtù di molteplici ragioni. A volte ci si trova anche in presenza di grandi superfici con un carattere di eccezionalità per i quartieri: contenitori dismessi il cui processo di abbandono si assurge a simbolo di un degrado più diffuso. Lo stesso svuotamento caratterizza gli spazi di servizio al condominio: moltissimi locali che erano dedicati al custode e alle attività di porteria sono oggi chiusi con conseguenti squilibri sulle dinamiche di convivenza di condominio (solo nel patrimonio pubblico a Milano se ne contano almeno 250 unità); ad essere chiusi sono anche spazi inter-


ni ai cortili come sale riunioni, piccoli depositi, spazi per gruppi di abitanti. Infine, ulteriore sintomo delle dinamiche dello shrinking nei quartieri Erp, è la presenza di vuoti abitativi, in cui quindi il fenomeno di chiusura è riferito ai molti appartamenti che, pur essendo all'interno del patrimonio pubblico, rimangono sfitti per ragioni procedurali. Gli appartamenti vuoti si trovano intrappolati in diverse procedure che ne impediscono la riassegnazione: alloggi sottostandard, appartamenti fuori norma o in condizioni di inabilità, case in ristrutturazione con cantieri interrotti da anni: fenomeni che generano una “sospensione amministrativa” che di fatto produce un fortissimo spreco di patrimonio pubblico (nella sola città di Milano si parla di 10.000 case pubbliche in queste condizioni).

strategica all'interno del patrimonio abitativo pub- pubblico per la creazione di un diverso valore urbablico. no e collettivo, d'altra parte sembra utile ritornare alle caratteristiche della domanda potenziale Quale riuso? Spazi calamita, spazi ponte, spazi ovvero ai soggetti che potrebbero essere interessati, per diverse ragioni, alla rifunzionalizzazione, a nicchia Seppur spesso non considerati, questi vuoti sem- nuovi usi e significati degli spazi, ad azioni di rinnovo brano costituire un'importante risorsa per i quartieri dei quartieri a partire dai vuoti. in diverse accezioni e ruoli: in termini di apertura e La sfida è quella di lavorare su meccanismi nuovi sia attrazione di nuove popolazioni, configurandosi di individuazione, affidamento e progettazione quindi come “spazi calamita” per persone esterne degli spazi, ma anche di attivazione e di partecipaai quartieri che vi trovano nuovi motivi per frequen- zione di soggetti e persone. tarli; come “spazi ponte”, occasione di incontro e Da una parte, quindi, individuare meccanismi scambio tra abitanti locali e persone estranee ai gestionali, economici e funzionali- per la messa in contesti ma che esprimono la volontà e il desiderio luce delle opportunità di crescita di un bene anche di costruire dei legami; come “spazi nicchia” che attraverso programmi che si sviluppino nel tempo possono contribuire alla costruzione di spazi pro- con diversi gradi di intensità e cogenza. tetti e dedicati a particolari popolazioni fragili e a Dall'altra sostenere progettualità nuove (come queluna socialità interna ai quartieri. Attraverso questa le di realtà sociali e culturali, giovani imprese e start articolazione di funzioni, vesti e inclinazioni, questi up, innovatori urbani), intercettando allo stesso Una moltitudine di manufatti inutilizzati, formata ambiti possono ambire a divenire motori di una tempo la domanda di riqualificazione più locale che da luoghi attualmente sospesi, che fanno anche riqualificazione diffusa che, grazie a una eterogene- spesso rischia di essere quella più debole e ineparte del patrimonio pubblico e quindi in qualche ità di situazioni, azioni, popolazioni si può irradiare spressa in particolare in contesti di sofferenza come alcuni dell'edilizia pubblica (da parte ad esempio di misura più di altri costituiscono interessanti ele- all'interno dei contesti in cui si inseriscono. menti di ripensamento del ruolo delle politiche e Questa prospettiva permette di rileggere i vuoti abitanti, giovani donne di origine straniera, realtà di rilancio di un ruolo attivo degli abitanti. Luoghi come ambiti meno resistenti di altri in cui speri- associative e cooperative, persone con disabilità su cui si dispiegano anche molte e diverse proget- mentare percorsi di accesso e gestione del patri- mentale), ma anche possibili interessi da parte di tualità: sogni e immaginari collettivi legati a un monio per accogliere attività e soggetti diversi; attori di mercato attenti alla questioni sociali. futuro possibile e progetti “dal basso” che nasco- spazi opportunità -“vuoti a rendere”- per riaccen- Si tratta di avviare processi complessi che richiedono nei quartieri anche a fronte di un progressivo dere delle luci in alcuni quartieri, per dare risposte no a tutti i potenziali attori coinvolti nuove intelligenze, competenze e sensibilità: all'operatore pubritrarsi della funzione pubblica (ad es. il caso della agli abitanti, per offrire possibilità alla città. biblioteca ed emeroteca autogestita Cubo Libro a Le rilevanti difficoltà incontrate dalle amministra- blico una nuova attenzione verso la costituzione di Tor Bella Monaca a Roma oppure il progetto per il zioni nella valorizzazione dei beni di proprietà - ele- ambiti e strumenti di progettazione multilivello e mercato Lorenteggio a Milano che unisce com- vato numero di aste deserte, di immobili invenduti, multiattoriali; ai progettisti una idea di progetto mercio di prossimità, cultura e responsabilità di progetti in stallo o in fase di negoziazione - richie- aperta e inclusiva in cui lo spazio diviene supporto sociale all'interno di uno spazio divenuto nuovo de una revisione radicale delle politiche di sviluppo per una impresa collettiva che si sviluppa nel tempo; ad abitanti e forze locali un ruolo attivo e propospazio pubblico e luogo di scambio), laboratori di di questo patrimonio pubblico abbandonato. ricerca aperti dall'università dove ricostruire cono- D'altra parte, questi oggetti si prestano più di altri a sitivo al di là delle storiche inerzie e contrapposizioscenza condivisa e nuove modalità di azione (è il delle sperimentazioni parziali che potrebbero ni; agli attori urbani sensibilità e attenzione verso caso ad esempio del progetto Mapping San Siro a introdurre interessanti elementi di scarto rispetto contesti difficili che potrebbero divenire importanti Milano), ma anche importanti innovazioni in ter- alla gestione ordinaria dell'edilizia pubblica, aiutan- opportunità da cogliere. La sfida che questi luoghi mini di sperimentazioni istituzionali che mettono do a costruire un nuovo scenario legato a procedu- in abbandono pongono è importante, tanto più se in relazione i vuoti con le parti vive della città, in re, regole, forme di scambio e di governance più riuscirà a divenire occasione di innovazione per una ampia rete di attori e di costituzione di una nuova un'ottica di riuso e di valorizzazione sociale degli aderenti alle condizioni attuali. spazi (è il caso ad esempio delle attività condotte Quello che ci si immagina, quindi, è che da questi alleanza urbana. dall'Ufficio Spazi Metropolitani del Comune diTori- spazi si irradino non solo nuove funzioni e attori per Gli strumenti della partecipazione, a partire dallo no, o del progetto dei Laboratori Urbani promos- i quartieri, ma anche spunti per una diversa proget- spazio, dovranno quindi mettere in campo altre so dalla Regione Puglia all'interno del programma tualità legata alla qualità della vita quotidiana nei dimensioni del progetto, in una articolazione complessa, mettendo fortemente in relazione la quartieri di edilizia pubblica. Bollenti Spiriti).3 dimensione materiale dell'intervento (e quindi Ma al di là di singole e interessanti sperimentazioanche la trasformazione dello spazio) con una ni, il tema dei vuoti nell'edilizia pubblica è poco Quale partecipazione a partire dallo spazio? presente nelle agende politiche delle città, nono- Per promuovere la trasformazione dei vuoti, se da dimensione immateriale relativa al cambiamento stante il potenziale che esprime, in particolare in una parte appare necessario semplificare il com- delle pratiche, delle e degli assetti organizzativi. una prospettiva di valorizzazione di una risorsa plesso apparato di norme che grava sul patrimonio I piani di lavoro – quello materiale e quello immate-

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riale- avranno la necessità di essere ibridati nel corso del tempo in forma inedita; la stessa dimensione spaziale del riuso, si costruirà in una visione processuale, e a ciò che attiene alle interrelazioni e agli immaginari. Questo perché la formazione di senso attraverso lo spazio coinvolge le pratiche da parte di soggetti di natura formale e informale, i rapporti di potere localizzati, i fattori di rifiuto e convivenza legati a uno specifico contesto. Come aprire quindi alla possibilità di trasformare dei quartieri marginali facendo del vuoto e dell'abbandono una risorsa per i luoghi, in quanto potenziale espressione per la trasformazione? E' proprio lo spazio che può divenire una leva della stessa partecipazione. Mi sembra di poter individuare tre significati possibili in questo senso. Questi luoghi sono gli spazi della segregazione per via della loro collocazione e del loro stato di abbandono, ma al contempo offrono una possibilità per aprire i recinti. Su di essi spesso pesa un immaginario negativo relativo alla perifericità delle situazioni e alla concentrazione di popolazioni deboli. D'altra parte, questi stessi spazi, hanno la possibilità, attraverso la partecipazione, di fare della propria condizione un punto importante di ripensamento e di rilancio: lo spazio in questi contesti diviene un generatore di cambiamento, un punto di partenza per costruire un nesso tra varie dinamiche (conflitti, percezioni, concentrazioni, divisioni, convivenza, poteri). Lo spazio rappresenta un passaggio: da luoghi marginali a luoghi al centro di dinamiche di cambiamento, che diventano essi stessi il simbolo del cambiamento. Il riuso dello spazio può anche lavorare su una infrastruttura sociale del quotidiano (Cognetti, 2013): si rimette in questa direzione l'accento sulla possibilità di ritrovare e ricomporre oggi un senso nuovo di spazialità locale e istituzione territoriale, che costruisce possibilità di convivenza e si rafforza a partire dalla coesistenza quotidiana. In una nuova visione di welfare e di servizio, si introduce l'idea che lo stesso spazio (ad esempio un mercato, un asilo dismesso, dei servizi collettivi abbandonati, una parte di una struttura scolastica in disuso) possa rappresentare un luogo della convivenza e del benessere, con una rinnovata dotazione materiale di servizi − più ampia rispetto alla sola offerta tradizionale − per la collettività. Se - come una vasta letteratura suggerisce - le forme significative di interazione fra gruppi differenti vanno ricercate nei “micro-publics of everyday social contact and encounter” (Amin 2002), questi spazi pos-

sono essere dei luoghi in cui perseguire una concreta idea di integrazione, equità e convivenza, occupandosi di quell'insieme di caratteri in grado di garantire maggiore benessere collettivo. Il terzo nodo è quello delle responsabilità collettive e pone l'accento sull'idea che spazi di questo tipo possano diventare luoghi del desiderio, verso l'aspirazione alla costruzione di spazi di uguaglianza e di giustizia. In nome di impegno ed etica civile, le partecipazione può lavorare alla possibilità di intendere il riuso come la generazione di luoghi di sperimentazione di una città “più giusta” perché legata alla accoglienza e allo scambio. Piattaforme di progetto e capacità degli attori Per concludere, possiamo dire che lavorare ai temi del riuso attraverso processi partecipativi significa occuparsi dei potenziali soggetti da coinvolgere, in una prospettiva di radicamento locale, di inclusività e di sostegno alle capacità dei soggetti più deboli. In questa prospettiva è centrale per il progetto non solo il ruolo degli abitanti, ma anche quello dei soggetti: organizzazioni intermedie come associazioni, cooperative, imprese creative, comitati di abitanti che diventano i primi interlocutori e il tramite verso una partecipazione più diffusa. Questi soggetti non sempre collaborano e si riconoscono in una rete, tanto meno in un progetto collettivo. Spesso le politiche partecipative entrando inizialmente in relazione con contesti difficili danno per acquisita la capacità degli attori locali alla collaborazione e allo scambio trasversale; ad una conoscenza più approfondita ci si accorge di una dimensione conflittuale latente, di dinamiche competitive, di posizioni antitetiche e difficilmente concilianti. Un lavoro di attivazione e alimentazione della rete si può rivelare uno strumento capace di trattare il tema del conflitto e della frammentazione tra soggetti territoriali, costruendo uno spazio di confronto sul progetto di riuso. Lavorare a un progetto comune quindi vuole dire occuparsi della qualità di queste relazioni, eventualmente rafforzandone la coesione interna. Vuol dire anche, non solo lavorare alle connessioni orizzontali, ma anche a quelle verticali attraverso la cura degli scambi con i più diversi livelli istituzionali che per mancanza di prassi, distanza di linguaggi e visioni, “vuoti” nelle agende politiche rischiano di rimanere muti e distanti. Può voler dire infine lavorare alla apertura della rete ad altri soggetti, esterni ed inediti: in territori in cui la mancanza di attenzione, ma anche di voci e competenze molteplici divengono fattori di ulteriore

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deperimento sociale, questa può essere una mossa per abbattere l'isolamento dei quartieri e metterli in comunicazione con il tessuto sociale e le attività del settore urbano e della città, permettendo sia di ricollacare istanze locali in un quadro cittadino, sia di generare un movimento di avvicinamento e di eventuale ingresso di nuovi attori all'interno della rete locale. In questa idea di centralità ai nuovi corpi sociali intermedi di natura formale e informale all'interno di contesti di edilizia pubblica, attraverso il rafforzamento di un “soggetto collettivo” via “azione locale”, la partecipazione viene intesa come costruzione di un soggetto nuovo – ma radicato localmente – via progettazione e interazione sociale (Cognetti, 2012). La formazione di questo soggetto avviene infatti non tanto su processi di natura deliberativa (spesso al centro di molti processi partecipativi), ma attraverso l'azione e il confronto sulle possibilità di cambiamento. La partecipazione sociale in questa prospettiva ha una duplice natura relativa al fatto che possa attivare processi di cittadinanza attiva, interrogando i processi di costruzione di pubblico come prove di democrazia (Crosta, 2003, 2007): se da una parte lavora, come abbiamo detto, alla qualità stessa della rete in termini relazionali, di capacità di collaborazione, di apertura all'esterno, dall'altra lavora sulle competenze delle reti locali, attraverso un lavoro di trasferimento di conoscenza e rafforzamento di capacità. Un passaggio fondamentale nel tempo risulta quindi il passaggio di competenze e di ruoli a questa rete di soggetti, che dovrebbero diventare i futuri promotori delle politiche di riqualificazione sul proprio territorio a partire dall'esperienza del riuso. Questo obiettivo è molto ambizioso, perché è legato alla possibilità che nel corso del progetto, non solo si aprano spazi di partecipazione e coprogettazione, ma anche di costruzione e rafforzamento di network, come di generazione di nuove leadership collettive all'interno dei contesti. Il posizionamento del progetto rispetto al tema delle competenze e dei lasciti è chiaro: si tratta di costruire ambiti entro i quali le persone abbiano la possibilità di vivere percorsi di emancipazione, lavorando alla cura di beni comuni. Ciò implica assumere come obiettivo quello di “abilitare le comunità” o, per usare la terminologia introdotta da Sen, di aumentare la capability (Sen, 2000)4. Sono relativamente pochi gli studiosi e i practiotioners, in Italia ma non solo, che usano la prospettiva delle capaci-


Foto Francesca Cognetti

tà come riferimento principale nel campo della riqualificazione urbana; programmi cioè in grado di promuovere opportunità di espansione delle libertà individuali e collettive attraverso lo spazio (Khosla e Samuels, 2005). Attraverso questa idea di partecipazione, legata al riuso come opportunità per lavorare sulle reti e sulle capacità degli attori, i territori sono interpretati non più solo come periferie, ma come laboratori di sperimentazione di nuovi immaginari per la periferia: il futuro, attraverso questa declinazione diviene un “fatto culturale” (Appadurai, 2014) contrappone all' ”etica della probabilità” quella della “possibilità”. La prima “porta il rischio in spazi di emergenza e di sofferenza”, mentre la seconda “può offrire una base più estesa per il miglioramento della qualità della vita e accogliere una pluralità di visioni della nuova vita”.

Note Il termine Shrinking Cities emerge negli anni '90 dal panorama post-socialista delle città dell'Est Europa, caso emblematico e anticipatore, aperte le frontiere, di abbandono di molti territori sia urbani che rurali. Descrizioni accurate delle dinamiche e un conseguente discorso disciplianre vennero sviluppati nella ricerca The Shrinking Cities, promossa e finanziata da German Federal Cultural Foundation. Tra le principali ricerche ricordiamo: le prime all'inizio degli anni 2000 avviate a partire dall'osservazione delle dinamiche delle città dell'est Europa e degli Stati Uniti “The Shrinking Cities Project of the German Federal Cultural Foundation” (Oswalt, 2006) e “The Shrinking Cities International Research Network” fondato nel 2004 da Berkley University; fino alle più recenti “Shrink Smart research consortium” fondato da European Union's 7th Framework Programme Socioeconomic Sciences and Humanities (www.shrinksmart.eu), e l'iniziativa “2009–13 EU COST Action on Cities Re-growing Smaller “(www.shrinkingcities.org).Per una ricostruzione dello sviluppo delle ricerche sullo shrinking in campo internazionale si può fare riferimento a: Audirac I., Arroyo A.J. (2010); Haase A., et. al. (2014). Sono noti in Italia i casi eclatanti di quartieri come Corviale e Tor Bella Monaca a Roma, come Le Vele a Napoli, in cui spazi per i servizi e per la collettività non sono stati mai utilizzati e assegnati per gli usi progettati rimanendo vuoti, oppure adibiti ad altri usi spesso non autorizzati. I casi qui appena accennati meriterebbero un diverso approfondimento perché attraverso sperimentazioni di natura sociale e istituzionale stanno promuovendo importanti innovazioni nel campo del riuso nell'edilizia pubblica. Per un approfondimento rimando ai seguenti siti: mercatolorenteggio.it; mappingsansiro.polimi.it; cubolibro.it. Nell'approccio delle capacitazioni, il vantaggio individuale è valutato in base alla “capacità che ciascuno ha di fare le cose alle quali assegna un valore” (Sen, 2000), configurando occasioni in grado di sostenere un percorso di crescita comune attraverso la formazione di nuovi ambiti collaborativi. La teoria dell'approccio delle capacità, elaborata da Amartya Sen e successivamente sviluppata oltre che dallo stesso Sen, da Martha Nussbaum (2010), è stata definita una «etica delle capacità» (Crocker, 1992) per la costruzione di una città attenta alle differenze.

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Riferimenti bibliografici Amin A. (2002). Ethnicity and the multicultural city: living with diversity. Environment and Planning A, 34: 959-80. Appadurai A. (2014), Il futuro come fatto culturale, Raffaello Cortina, Milano. Cognetti (2012), “Praticare l'interazione in una prospettiva progettuale”, in Cancellieri A., Scandurra G. (a cura di), Tracce urbane. Alla ricerca della città, Franco Angeli, Milano Cognetti F. (2014), Il ruolo dello spazio nelle dinamiche di segregazione scolastica. Quale giustizia spaziale?, Mondi Migranti. Rivista di studi e ricerche sulle migrazioni internazionali, n. 1: 102- 120. Crocker D. (1992). Functioning and Capability: The Foundations of Sen's and Nussbaum's Development Ethic. PoliticalTheory, 20, pp. 584-612. Crosta P.L. (2003),“A proposito di approccio strategico. La partecipazione come tecnica di pianificazione o come politica di cittadinanza attiva?“, in Moccia FD, De Leo D., I nuovi soggetti della pianificazione, Franco Angeli, Milano. Crosta Pl. (2007), “Interrogare i processi di costruzione di pubblico come prove di democrazia, in Pellizzoni L. (a cura di), Democrazia locale. Apprendere dall'esperienza, Igis, Trieste. Haase A., Rink D., Grossmann K., Bernt M., Mykhnenko V. (2014), “Conceptualizing urban shrinkage”, Environment and Planning, vol. 46, pp. 1519 – 1534 Khosla, R. and Samuel, J. (2005) Removing Unfreedoms. Citizens as Agents of Change in Urban Development. ITDG Publishing, London Martinez-Fernandez C, Wu C-T, Schatz L K, Taira N, VargasHernández J G, 2012c, “The shrinking mining city: urban dynamics and contested territory”, International Journal of Urban and Regional Research 36 245–260 Nussbaum. M.C. (2000), Women and Human Development: The Capabilities Approach, Cambridge University Press, Cambridge. Sen A. (2000), Lo sviluppo è libertà. Perché non c'è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano.


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UNO SGUARDO TEORICO

Ricerca-Azione: Il Patto di Fiume Simeto, tre anime e gli anticorpi di Laura Saija*

* Laura Saija Ingegnere e Dottore di Ricerca in Pianificazione urbana e Territoriale, insegna all'Università di Catania e all'Università di Memphis (USA). Sulla base di un background che integra competenze di pianificazione, di geografia e scienze sociali, si occupa di teoria e pratica degli approcci ecologici alla pianificazione e al progetto, sviluppando metodi di azione-ricerca. Attiva in associazioni e reti di ricerca internazionali, ha pubblicato libri e articoli su riviste internazionali.

Il Patto di Fiume Simeto La Convenzione Quadro del Patto di Fiume Simeto, più comunemente chiamata Patto di Fiume Simeto è un documento programmatico adottato ufficialmente il 18 maggio del 2015 da 10 municipalità della Valle del Simeto, nella Sicilia orientale (fig. 1), per promuovere un modello di sviluppo improntato sui valori della sostenibilità ambientale e della solidarietà sociale. Fin qui nulla di speciale: la possibilità che diversi enti pubblici prendano volontariamente una serie di impegni reciproci spinti dalla logica del mutuo vantaggio e della necessità di collaborare per affrontare problemi di scala territoriale non è certo una idea nuova. Non è nuova neanche l'idea che nei territori intersecati da una asta fluviale, quest'ultima possa rappresentare il fil-rouge, l'elemento connettore, sia per la comprensione dei problemi che per la costruzione di strategie innovative di sviluppo economico, ambientale e socio-culturale del territorio (si vedano le numerose e sempre crescenti esperienze dei Contratti di Fiume, Bastiani 2011). Eppure, avvicinando lo sguardo, il Patto di Fiume Simeto presenta alcuni elementi di novità per ciò che riguarda il tema della partecipazione in relazione alle discipline di pianificazione e progetto del territorio. Questo articolo ripercorre brevemente le tappe principali della genesi del Patto

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(par. 1 e 2) e i suoi contenuti (par. 3) per poi proporre una riflessione sulla sua rilevanza disciplinare più ampia (par. 4). Pratiche di ricerca-azione, per passare dalla protesta al progetto Sono passati ben 14 anni da quando gli abitanti delle città simetine hanno appreso dai media del progetto di costruzione di un megatermovalorizzatore di rifiuti solidi urbani, in prossimità del fiume Simeto. La conseguenza immediata è stata una significativa mobilitazione contro un progetto che non presentava solo grosse carenze tecniche ma anche una problematica connessione con interessi illeciti locali. Partita dall'iniziativa di pochi, la battaglia simetina antiinceneritore ha in pochi mesi assunto i caratteri di una vera e propria mobilitazione popolare ampia con caratteri molto diversi da altre campagne di protesta associate a progetti simili. Da interviste condotte con i leader e dai documenti prodotti durante gli anni più accesi della campagna, emerge chiaramente come, fin da subito, l'inceneritore sia stato considerato non come un problema isolato da respingere localmente (logica NIMBY) ma piuttosto come sintomo di problemi ben più profondi e ampi. L'inceneritore, infatti, non era solo l'ennesima scelta compiuta nel nome di un modello di sviluppo “sbagliato”


(crescita economica e demografica attraverso che disciplinari che – pur al variare di obiettivi, tecazioni di massimo sfruttamento delle risorse e il niche utilizzate, soggetti promotori e coinvolti – massimo dominio sui processi eco-sistemici puntano alla individuazione e/o generazione di un naturali, in particolare quelle fluviale). L'evidenza piano (termine da intendersi in senso ampio, giudiziaria di connessione dell'affare inceneritore ovviamente) a partire dal contributo di idee e/o con una ditta “in odore di mafia” – questa fattivo dei vari soggetti i cui interessi sono in quall'espressione usata dalla Corte dei Conti in un che modo toccati da tale piano. documento del 2005 – non ha certo stupito gli Per gli obiettivi di questo scritto, è possibile riperabitanti di un territorio che, negli anni '80, i gior- correre in modo sintetico tali attività suddividennali soprannominavano “il triangolo della morte” dole in due grandi categorie che hanno caratte(per l'alta densità territoriale di omicidi di stampo rizzato due fasi di lavoro molto diverse tra loro: la mafioso). Al Simeto, la mobilitazione contro un prima, fortemente influenzata dal carattere “attisingolo progetto è stata terreno fertile su cui col- vista” della coalizione simetina, ha visto tivare un progetto di cambiamento politico e l'implementazione di pratiche extra-istituzionali a socio-culturale più profondo e radicale, che ha carattere sperimentale, le quali hanno permesso poi assunto la forma del Patto di Fiume Simeto. la messa a fuoco delle modalità con cui, in una seconda fase, procedere alla istituzionalizzazione Nel processo di formazione del Patto, un ruolo della partecipazione nell'ambito del nuovo mecchiave ha giocato la formazione, nel 2008, di una canismo di governance territoriale che costituisce partnership tra la coalizione simetina e alcuni la spina dorsale del Patto di Fiume Simeto. ricercatori dell'Università di Catania (tra cui chi scrive) ispirata da un approccio chiamato ricer- Fase I: dal conflitto alla volontà di collaborare ca-azione (in inglese action-research). La ricerca- con le istituzioni azione si basa sull'idea che, soprattutto nelle La comunità del Simeto, o meglio la parte della discipline tecniche o applicate, la conoscenza su comunità locale che si è mobilitata contro come affrontare i problemi più rilevanti possa l'inceneritore agli inizi degli anni 2000 e che si è essere generata solo mentre si cerca di affron- poi trasformata in una coalizione per lo sviluppo tarli¹. Spesso, questa viene condotta da partner- sostenibile della Valle, ha cominciato a interessarship di lungo periodo tra ricercatori universitari e si di partecipazione a partire da una prospettiva soggetti esterni (organizzazioni, comunità, enti, fortemente politico-valoriale. Nell'ambito di un reti, coalizioni, etc.) caratterizzate da un rappor- sistema socio-decisionale percepito come deviato to di alta reciprocità: identificati gli obiettivi e i (basti far riferimento all'elevato consenso sociale valori in comune, i partner condividono scelte e e politico a favore degli stessi leader che sono poi responsabilità di ricerca ma anche iniziative con- stati coinvolti nelle inchieste giudiziarie), crete. Un aspetto cruciale della ricerca-azione è l'interesse verso le pratiche partecipative è matul'implementazione ciclica di azioni che sono il più rato lentamente, attraverso un percorso di studio possibile, allo stesso tempo, sia conoscitive che che ne ha fatto emergere il potenziale trasformatrasformative della realtà, nonché associate a tivo ampio sia sotto il profilo politico che sociale. una continua e simultanea autovalutazione degli Alla notizia della probabile revoca dell'appalto esiti. L'autovalutazione conduce alla continua inceneritore, nel 2008, la partnership simetina era modifica delle attività in corso, e necessita quindi infatti alla ricerca di una iniziativa che permettesdi cornici temporali che vanno ben oltre quelle se di convogliare (e, possibilmente, potenziare) dei progetti di ricerca tradizionali. l'ampio consenso sociale raccolto durante la mobiNel caso del Simeto, la partnership tra litazione in un processo di definizione e implel'Università di Catania e la coalizione simetina mentazione di un progetto di futuro basato sui opera per promuovere lo sviluppo sostenibile e valori della sostenibilità ambientale (generare una solidale della Valle del Simeto da quasi dieci anni. ”nuova alleanza“ tra l'uomo e il fiume) e della soliIn questo lungo arco di tempo, sono state imple- darietà sociale (rigenerare le relazioni uomomentate e modificate nel corso dell'azione sva- uomo, uomo-società e uomo-altre forme di vita). riate attività conoscitivo/trasformative. Molte di Tale progetto doveva essere il più condiviso possiqueste hanno assunto alcuni dei caratteri formali bile, non solo dalla cerchia dei soggetti già adedella pianificazione partecipata, se con questo renti alla campagna anti-inceneritore ma da una termine indichiamo un'ampia famiglia di prati- schiera più ampia di simetini, a tal punto da gene-

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rare un significativo impatto politico anche sulla classe dirigente. In altre parole, la coalizione voleva produrre un “documento” che avesse la forza di generare sia un cambiamento culturale sia un impatto concreto sul sistema decisionale (le due cose viste come intrinsecamente connesse l'una all'altra). Le prime attività di ricerca della partnership sono state quindi dedicate allo studio di svariate esperienze di pianificazione partecipata italiane con specifiche finalità di salvaguardia e valorizzazione ambientale (ecomusei in Piemonte, Statuti dei luoghi in Toscana e Accordi di Paesaggio), suscitando l'interesse verso tecniche conoscitive e progettuali di natura partecipata e collaborativa – in particolare le tecniche di mappatura “partecipata” o “di comunità” – che permettono di creare sinergia tra conoscenze e progettualità esperte e nonesperte. Molte delle esperienze studiate sollevavano, però, frustrazione, poiché tutti i casi di successo presentavano una forte leadership istituzionale, ossia proprio ciò che veniva percepito come problematico al Simeto. Per questo, l'attenzione si è poi spostata verso esperienze di pianificazione di carattere marcatamente extra-istituzionale ma con abilità di impattare i sistemi decisionali. In particolare, hanno destato interesse l'esperienza di pianificazione dal Basso della Valle del Belice, negli anni '60, e le esperienze nord-americane di empowerment planning (Reardon 1994, 2003) che combinano tecniche di Action Research con quelle di Direct Action Organizing (Rathke 2011). Lo studio di pratiche altrui, per quanto così diverse fra loro, aveva fatto emergere un tratto comune: molto del loro carattere trasformativo era legato al fatto che la rappresentazione geografica dei luoghi e delle future trasformazioni poteva essere costruita con il coinvolgimeoto di più soggetti possibile, permettendo di: Diffondere nuovi valori e un nuovo senso di identità simetina tra gli abitanti della Valle. Questo obiettivo stava fortemente a cuore alle associazioni culturali e/o ambientaliste impegnate nella difesa e valorizzazione del patrimonio storico- architettonico e archeologico e/o naturalistico della Valle. Potenziare il peso politico della coalizione, in particolare attraverso la generazione di un documento programmatico il cui valore tecnico combinato all'alto consenso sociale lo rendesse capace di impattare il sistema decisionale locale e, perché no, futuri corsi elettorali. Questo obiettivo stava fortemente a


cuore ai membri della coalizione con interessi (e spesso passate esperienze) di natura politico-elettorale. Identificare uno o due progetti prioritari di trasformazione che fossero abbastanza sentiti a livello locale, da poter essere portati avanti “dal basso”, anche senza il pieno supporto delle istituzioni, dimostrando la concreta realizzabilità di modelli abitativi, sociali e produttivi sostenibili e solidali. Questo obiettivo stava particolarmente a cuore ai membri della coalizione ispirati da valori di natura “comunitaria” convinti della capacità di “contagio” di pratiche territoriali virtuose più che di discorsi politici astratti.

modo da soddisfare la molteplicità di obiettivi. Una sezione del report, per esempio, che comprende anche una collezione di storie e leggende della valle, dialoga con i tratti materiali e immateriali dell'identità simetina e usa un linguaggio semplice e diretto per porsi in antitesi con i tradizionali modelli di sviluppo che guardano al sistema territoriale fluviale come risorsa da sfruttare. Altre sezioni utilizzano, invece, una struttura linguistica e un lessico più vicini ai documenti di pianificazione tradizionali per descrivere le idee condivise su come promuovere lo sviluppo sostenibile della Valle. Tra queste, vengono anche identificate azioni prioritarie che possono essere intraprese dai differenti attori locali (pubblici, privati e non-profit) in diversi settori. Il report è anche il Con una piena consapevolezza di essere una primo documento dove compare ufficialmente la molteplicità di anime e obiettivi, attraverso spe- parola Patto, per indicare la necessità di istituire cifiche attività di progettazione metodologica un sistema di governance innovativo basato su collaborativa guidate dai ricercatori, è stata una collaborazione volontaria tra i vari livelli istitumessa a punto una iniziativa denominata Map- zionali e organizzazioni di comunità ispirato ai patura di Comunità del Simeto (Saija 2011). principi di trasparenza e partecipazione. L'iniziativa è durata quasi sei mesi toccando quat- Alla pubblicazione del report è seguita una lunga tro diversi territori comunali in più di 10 località e complessa fase di transizione, durante la quale sia urbane che rurali, coinvolgendo 500 mappan- le varie anime della coalizione, pur mantenendo ti, tra cui i rappresentanti di 22 associazioni o un significativo livello di collaborazione e sinergia, gruppi organizzati, e i rappresentanti istituzionali hanno utilizzato i risultati materiali e immateriali di 3 enti locali. della mappatura per dar luogo a molte iniziative Il primo evento della mappatura, in particolare, diverse. Alcuni si sono impegnati per ulteriori inifu concepito come una open house dove i parte- ziative di Mappatura di comunità, volte ad ampliacipanti erano messi nelle condizioni di condivide- re i dati raccolti e, soprattutto, il coinvolgimento re la propria conoscenza e desideri di futuro per di sempre più comunità cittadine della Valle. Altri la valle, attraverso attività di mental mapping, si sono, invece, impegnati nella implementazione interviste aperte e l'interazione con altri parteci- di due progetti individuati come prioritari nel panti davanti a una grande mappa murale di Report della mappatura del 2010 di riappropria10mx3m. Nel proseguimento del processo, que- zione comunitaria di due spazi oggetti di controste modalità di lavoro sono state affiancate da versie ambientali (Raciti 2016, Saija 2016). altre attività (presentazioni pubbliche dei risultati Tutte queste attività sono state per anni costanintermedi, sessioni dedicate allo racconto di sto- temente affiancate da pressioni di varia natura rie e leggende della valle, attività di mappatura sulla classe dirigente simetina per la costituzione dedicate alla risorsa idrica, costruzione di un sito di un Patto per il Fiume Simeto. Nei comuni più per la mappatura on-line; reclutamento di map- importanti, la coalizione si è schierata apertamenpanti con il porta-a-porta, interviste in profondi- te nelle campagne elettorali a favore di candidati tà e focus group con esperti locali, etc.). L'evento a supporto del Patto, dando un diretto contributo finale, concepito come un workshop pubblico al sostanziale cambiamento di sensibilità politica per la finalizzazione partecipata degli esiti con il nei confronti di una ipotesi di governance territocoinvolgimento di esperti e rappresentanti isti- riale innovativa. A questo sono seguite alcune tuzionali, ha prodotto un documento ufficiale sperimentazioni progettuali partecipate in cui la consegnato poi ai rappresentanti della Regione, partnership ha formalmente incluso il Comune di delle Provincie e dei Comuni simetini. Paternò (Saija 2014) nonchè la firma, il 26/4/ 2012, Il report conteneva una mappa di comunità e di un “Protocollo di intesa finalizzato ad avviare il varie sezioni caratterizzate, ovviamente, da una Patto per il fiume Simeto”, promosso significativa diversità di linguaggi e contenuti, in dall'Università di Catania e indirizzato a vari sog-

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getti pubblici, privati e non-profit. Il Protocollo, concepito come documento aperto che ha continuato a ricevere adesioni e sottoscrizioni nel corso degli anni, ha rappresentato il primo documento ufficiale in cui gli amministratori si sono assunti l'impegno di dare vita al Patto di Fiume Simeto, sancendo il passaggio da una partnership università-comunità – la quale, pur partendo da una posizione fortemente antagonista nei confronti degli enti locali ha finito per maturare la volontà di stabilire una collaborazione con tali enti – e una partnership università-comunità-istituzioni. Fase II: l'Istituzionalizzazione della partecipazione Dalla firma del Protocollo alla nascita ufficiale del Patto di Fiume sono trascorsi tre lunghi anni di lavoro. Nonostante la ricchezza dei dati raccolti durante la mappatura, moltissimi erano gli elementi che nel 2012 erano ancora poco chiari. Anche le cose che sembrava fossero chiare dovevano essere rivalutate nell'ambito del nuovo assetto della partnership: il coinvolgimento delle istituzioni, in particolare la definizione di un nuovo modello di governance, poneva, infatti, problemi di legittimità decisionale (rappresentatività) che una iniziativa “dal basso” come la Mappatura non aveva posto. Per quanto ampia ed entusiasta fosse stata la partecipazione alla Mappatura di comunità e alle successive iniziative, essa non era certo pienamente rappresentativa della popolazione simetina e neanche della grande varietà di associazioni e gruppi operanti nel terzo settore. Per questo motivo, i soggetti sottoscrittori del Protocollo si sono fatti promotori ufficiali di un processo di Pianificazione partecipata per la redazione del Patto di Fiume Simeto (autunno 2013) che, pur ripercorrendo a grandi linee i temi e progetti già emersi con la Mappatura del 2010, ha permesso un coinvolgimento sociale più ampio nonché una piena integrazione del punto di vista istituzionale² nella definizione delle priorità. Sotto il profilo metodologico, tale processo è stato pensato come una serie di eventi pubblici formalmente organizzati e pubblicizzati dagli enti locali, denominati assemblee di comunità e concepite per includere il più alto numero di partecipanti possibile. Ciascuna assemblea doveva servire a sottoporre a feedback pubblici i materiali prodotti da gruppi di lavoro tematici che lavoravano tra un evento e l'altro. Le due corsie di attività erano pensate come connesse ma caratterizzate da intensità diverse, poiché dedicate a soggetti aventi inte-


ressi e disponibilità differenti. Il processo ha dato luogo a un documento denominato Valori, progetti e priorità condivisi nella Valle Del Simeto, organizzato in tutto e per tutto secondo la struttura canonica di un piano strategico di sviluppo. In questo documento viene sancita una idea che era già presente nel Report della Mappatura del 2010, ossia la necessità di dar vita a una forma di governance innovativa per l'attuazione del Patto che possa in qualche modo risanare i difficili rapporti tra istituzioni e società. Nel report, tale idea era partita da forti critiche della comunità alle prassi amministrative, tra cui: - la frammentazione delle responsabilità istituzionali e la mancanza di collaborazione tra enti e livelli diversi; - la diffusa percezione della mancanza di trasparenza delle scelte istituzionali (i forum pubblici in cui le scelte dovrebbero essere in teoria discusse e formalizzate, in primis i consigli comunali, sono percepiti per lo più come dei “teatri” in cui vengono recitati copioni già scritti a valle di “conversazioni a porte chiuse”). Il processo di pianificazione del 2013 ha permesso di rivedere queste critiche in una prospettiva più ampia che tenesse conto del punto di vista degli amministratori e dei tecnici comunali, i quali hanno segnalato soprattutto: - la tendenza di molti cittadini e anche organizzazioni a chiedere ai propri amministratori “favori personali” più che politiche e progetti per il bene pubblico e di alta qualità tecnica; - l'estrema esiguità delle risorse (non solo finanziarie ma soprattutto umane e culturali) a disposizione degli amministrativi e dei tecnici per gestire anche le sole attività ordinarie, figuriamoci per collaborare con altri enti e/o progettare ed eventualmente avviare significative innovazioni politicoamministrative e socio-culturali. La struttura definitiva di governance del Patto, che appare solo abbozzata nel documento del 2013, è stata poi discussa e definita nei dettagli, per un altro anno e mezzo, da un gruppo di lavoro composto da due sindaci rappresentanti della componente istituzionale, ricercatori dell'Università di Catania e un rappresentante di una delle due associazioni storiche della coalizione simetina, con il supporto di un legale ammini-

strativista. Prendendo come base di partenza la struttura del Patto di Fiume Panaro (Pizziolo e Micarelli 2011), il gruppo ha prodotto un documento cardine chiamato Convenzione Quadro Patto di Fiume Simeto (d'ora in poi Convenzione), che fa riferimento a una serie di allegati, tra cui i due report del 2010 e del 2013. La Convenzione fissa i principi e gli obiettivi generali nonché le modalità di una forma di collaborazione³ tra enti locali (Comuni), Università di Catania e la parte attiva della comunità, al fine di perseguire obiettivi specifici e attuare progetti che sono definiti in dei documenti (gli allegati) concepiti come dinamici e costantemente aggiornabili attraverso processi di natura partecipata e collaborativa. Questo meccanismo è idealmente costituito da “tre anime” diverse ed egualmente importanti, che riflettono la composizione della partnership università-comunità-istituzioni che ha condotto alla nascita dello stesso Patto. Una prima anima è quella a cui è stata idealmente consegnata l'eredità della coalizione simetina da cui è partito tutto: una nuova organizzazione no-profit denominata Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto, concepita come organizzazione ombrello di tutte le organizzazioni ed eventualmente singoli individui interessati a sottoscrivere il Patto e impegnarsi nella sua implementazione. In una iniziale versione della Convenzione, il Presidio era stato pensato come vero e proprio organo del Patto, ma poi la comunità ha scelto di istituirlo come soggetto autonomo, la cui esistenza formale non venga scalfita da un eventuale fallimento dei tre anni di sperimentazione previsti nella Convenzione. Per questo motivo, nella versione finale della Convenzione, il Presidio compare come soggetto sottoscrittore del Patto al pari di enti locali e Università. Esso è stato pensato come l'anima creativa del Patto, il “luogo” dove continuare ad alimentare il dibattito pubblico e il processo di progettazione partecipata e/o coproduzione comunitaria che ha caratterizzato la prima fase. La seconda anima è data dal Laboratorio del Patto di Fiume Simeto, con funzioni di ufficio-segreteria e supporto tecnico, capace di integrare, al suo interno, le funzioni di: gestione di processi di progettazione partecipata e/o co-produzione, in coordinamento con il Presidio; gestione tecnica delle attività informative, di diffusione, di coinvolgimento e partecipative per l'aggiornamento e l'attuazione del Patto; individuazione, valutazione e scelta strategica di varie opportunità di finanzia-

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mento (EU, Fondazioni, etc.). Tale integrazione avviene attraverso la stretta collaborazione tra: - ricercatori, studenti ed esperti dell'Università di Catania (la direzione del Laboratorio è, in particolare, pensata per un ricercatore universitario esperto di sviluppo locale); - tecnici dei singoli uffici tecnici comunali, secondo una logica simile a un ufficio tecnico consortile; essendo il Patto una collaborazione tra enti, ciascun ente rimane infatti legalmente responsabile della gestione amministrativa dell'attuazione di singoli progetti nel singolo territorio comunale. La realizzazione di progetti territoriali complessi quindi necessitava di un luogo in cui anche i tecnici dei diversi comuni potessero dialogare e collaborare; - stagisti, tesisti, studenti, ecc. interessati a svolgere attività educative tecniche e di tirocinio a servizio del Patto (questa possibilità è stata ispirata dall'effettivo contributo che è stato dato, negli anni, al Patto da tanti “studenti”, tirocinanti, tesisti e stagisti di varie discipline e provenienti da varie parti d'Italia e del mondo). Il Laboratorio è quindi l'anima “tecnica” del Patto, che raccoglie l'eredità delle attività condotte dai ricercatori universitari ma immaginando che sia necessario aumentare il livello di collaborazione e integrazione tra le pratiche tecniche di natura collaborativa e partecipata con quelle tradizionali che si svolgono all'interno degli uffici tecnici comunali. Il Laboratorio è anche l'unico organo per il quale è previsto uno stanziamento di risorse specifiche (ogni comune è impegnato a versare una quota di 40 cent/abitante all'anno per tre anni). Questi fondi sono pensati per finanziare non solo una struttura fisica attrezzata ma anche per istituire borse di studio e ricerca dedicate. La terza anima del patto è quella politicoamministrativa, che prende forma all'interno di quello che è considerato l'organo principale del Patto, ossia l'Assemblea del Patto di Fiume Simeto. L'Assemblea è formata dai legali rappresentanti degli Enti Locali sottoscrittori (Sindaci o loro delegati), da 2 rappresentanti della comunità eletti nell'ambito del Presidio, e da un rappresentante dell'Università degli Studi di Catania (nominato direttamente dal Rettore). La convenzione prevede anche l'istituzione di una Commissione del Patto di Fiume Simeto, organo formato da un numero ristretto di membri dell'Assemblea (2 sindaci, 1 rappresentante del Presidio e il rappresen-


tante dell'Università) con funzioni esecutive e di raccordo funzionale tra gli altri soggetti del Patto. L'Assemblea e la Commissione sono l'anima “decisionale” ed “esecutiva” del Patto. La loro composizione è stata l'oggetto di riflessione più rilevate durante il periodo di gestazione della Convenzione. Il ragionare sul concreto funzionamento di un organo così pensato a cui attribuire la responsabilità di definire le priorità d'azione, ha infatti dato avvio a un lungo percorso riflessivo su quanto meccanismi di democrazia diretta siano davvero in grado di rimpiazzare del tutto quelli rappresentativi che si sono faticosamente consolidati nel corso dei secoli. Nelle ipotesi di governance presenti nel Protocollo di intesa del 2012 e nel Report del 2013, ispirati da un ideale di democrazia diretta e dall'esempio di altri contratti di fiume italiani, l'Assemblea era stata pensata come il tavolo attorno a cui fossero seduti, per “decidere insieme”, i rappresentanti di tutti i soggetti, pubblici e privati, sottoscrittori del Patto. Seguendo questa strada si sarebbe determinata una sostanziale maggioranza da parte di organizzazioni e gruppi di comunità rispetto alla componente istituzionale. Nel caso del Simeto i soggetti pubblici davvero interessati a sottoscrivere il Patto erano per lo più i comuni. Altri soggetti pubblici coinvolti avevano mostrato grande interesse ma presentavano un significativo livello di difficoltà nel prendere impegni precisi. A ciò si aggiunge che, nonostante gli sforzi di inclusività e apertura delle organizzazioni simetine promotrici del Patto, vi era tra gli attivisti una diffusa consapevolezza di quanto la coalizione pro-patto non potesse in alcun modo auto-definirsi come “la comunità del Simeto”, essendoci ancora tanta parte di popolazione ignara di cosa fosse il Patto e sostanzialmente estranea ai suoi valori. In che modo, dunque, è giusto concedere a una parte della comunità il diritto di incidere più di altre sui processi decisionali in materia di sviluppo economico, miglioramento dei servizi pubblici, gestione delle risorse naturali, etc.? Contro chi affermava che questo diritto potesse derivare dal significativo impegno profuso per molti anni a vantaggio del bene comune, la comunità ha concordato come l'impegno – di natura spontanea e volontaria – in molti casi sia il sintomo di maggiore tempo libero o anche semplicemente di maggiori consapevolezze e/o inclinazioni personali. Esso non poteva dunque dare adito a uno status di “cittadinanza di serie A” nel processo di

attuazione del Patto, il quale, al contrario, doveva servire a potenziare (qualitativamente e quantitativamente) il più possibile i livelli di consapevolezza e impegno comunitario per lo sviluppo sostenibile e solidale della Valle del Simeto. Questa riflessione ha condotto alla scelta di garantire una significativa maggioranza di sindaci – ossia dei rappresentanti politici democraticamente eletti – sia nell'Assemblea che nella Commissione, affidando al Presidio il ruolo di tavolo di sperimentazione di pratiche di democrazia diretta. Nella struttura del Patto, l'avere ufficializzato un tavolo decisionale a cui siedono due rappresentanti del Presidio e uno dell'Università ha assunto un significato diverso da quello “partecipativo”; un significato che è strettamente connesso al dibattito molto siciliano sulla natura distorta della Democrazia locale e sulla necessità di aumentarne i livelli di trasparenza e autonomia da poteri occulti: per la prima volta i sindaci si siedono al tavolo delle decisioni insieme ai rappresentanti dell'attivismo ambientalista e anti-mafia e al mondo della cultura e della ricerca scientifica, accettando quindi di rendere loro conto – in pubblico (la Convenzione impone che le riunioni dell'Assemblea siano pubbliche) – della qualità etica e tecnica delle loro scelte. Dopo il lungo periodo di gestazione e numerose revisioni, la “Convenzione” (con relativi allegati⁴) è stata ufficialmente sottoscritta presso gli uffici del rettorato dell'Università degli Studi di Catania il 18/5/2015 dai sindaci di 10 comuni simetini (cfr. nota 2), dal Rettore dell'Università degli Studi di Catania e dal Presidente del Presidio Partecipativo del Patto di Fiume Simeto (già costituitosi come associazione no-profit con centinaia di soci fondatori, inclusa una dozzina di associazioni di tutti i dieci comuni della Valle, il 27/2/2015). Problemi di attuazione e riflessioni sulle trappole della post-politica Ad oggi, i due organi decisionali sono stati istituiti e si incontrano regolarmente affrontando tutte le difficoltà di una struttura di governance completamente nuova che coinvolge soggetti con livelli di consapevolezza molto diversi. Parallelamente al processo di sottoscrizione del Patto, proprio grazie al metodo partecipativo e collaborativo seguito in tutti questi anni, il territorio simetino si è autocandidato ed è stato selezionato come area sperimentale di rilevanza nazionale nell'ambito della Strategia nazionale Aree interne (Saija, 2015). Si tratta di un importante

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risultato grazie al quale il Patto (in particolare tre dei dieci comuni aventi caratteristiche di maggiore isolamento e declino) è coinvolto in un percorso di co-progettazione con la Regione siciliana e il Comitato Tecnico interministeriale per le Aree Interne che dovrebbe portare alla definizione e attuazione di strategie di sviluppo locale e miglioramento dei principali servizi pubblici. Essere stati inclusi, proprio grazie all'innovatività del metodo partecipativo, nella Strategia Aree Interne ha dato un fondamentale contributo al processo di formalizzazione del Patto, costituendo una incoraggiante conferma per i sostenitori più attivi e sorprendendo positivamente molti scettici curiosi. L'allargamento del consenso, soprattutto da parte della componente amministrativa (in particolare, due A.C. di comuni '“nterni” come Troina e Regalbuto hanno dichiarato interesse nei confronti del Patto a valle della procedura di selezione nell'ambito della Strategia Nazionale Aree Interne) è stato accolto molto positivamente dalla comunità ma ha determinato un inglobamento di soggetti che fanno ancora oggi molta fatica a cogliere la novità e, soprattutto, la natura collaborativa e partecipativa del Patto. A questo si aggiunge il comportamento ambiguo di alcuni amministratori che, pur essendo stati coinvolti fin dall'inizio, stanno cogliendo questa occasione per ripiegarsi su quelli che la comunità definisce i ”vecchi metodi amministrativi siciliani'” Il Patto sta, insomma, vivendo le prime fasi di vita con estrema difficoltà. È opinione di chi scrive che molte di tali difficoltà fossero ampiamente prevedibili e sarebbero state affrontate meglio qualora il Patto fosse stato istituito in tutte le sue componenti e non privo di una delle sue tre gambe, il Laboratorio. Gli amministratori simetini hanno giustificato con le difficoltà di bilancio la mancanza di stanziamento delle risorse previste dalla convenzione per il Laboratorio. L'Università, che per molti anni ha dedicato risorse autonome alla partnership con il Simeto, ha ritenuto di non poter e voler più fornire al Patto il livello di supporto “gratuito” fornito in passato⁵. Ciò ha portato a un estremo sovraccarico di responsabilità sulle spalle del Presidio. Nonostante le difficoltà, vi è ancora un forte impegno da parte di molti affinché il Patto possa cominciare a operare davvero, e finché non sarà istituita la terza gamba è davvero prematuro operare valutazioni sulla qualità e l'efficacia della struttura di governance prevista dalla Convenzione. Ciò che invece è possibile fare, in questa sede,


è sottolineare alcuni elementi di novità sul tema della partecipazione in rapporto alle pratiche di pianificazione e progettazione urbana e territoriale che derivano dall'esperienza simetina. Diversi studiosi hanno affrontato il tentativo di creare una tipologia dei possibili approcci partecipativi, tenendo conto delle profonde differenze che possono esistere tra soggetti promotori e gruppi sociali coinvolti, obiettivi e tecniche d'interazione, etc. Negli anni '60, il tema della partecipazione fu introdotto sotto una spinta di natura politico-valoriale – con un focus sulla possibilità/necessità di alterare le dinamiche di potere costituite a vantaggio dei soggetti più svantaggiati. Con il tempo, e soprattutto con il diffondersi, negli anni '90, di politiche di finanziamento di sperimentazioni partecipative, la prospettiva politica si è andata affievolendo a favore una prospettiva prevalentemente tecnica, con un focus sulle modalità e sulle procedure con cui sia davvero possibile (fattibile in pratica) costruire un piano o un progetto a partire da una crescente molteplicità di contributi. L'entusiasmo disciplinare verso le “innovazioni partecipative” si è affievolito nel tempo, insieme ai fondi disponibili per finanziarle, contemporaneamente all'affermarsi di quello che in letteratura viene definito come un uso post-politico delle pratiche partecipative (MacLeod, 2011; Swyngedouw, 2010): discorsi retorici associati ed eventi “partecipati” vengono spesso usati da élite locali ispirate ai valori “neoliberisti” (declino questo termine secondo l'accezione originaria proposta da Harvey, 2007) alla ricerca del consenso politico attraverso una parvenza di allargamento del sistema democratico (Paddison, 2009), negando però l'esistenza di un conflitto di interessi fra gruppi e classi sociali e paventando la possibilità di implementare politiche a vantaggio della comunità, descritta come entità uniforme e armoniosa. In questa prospettiva, le pratiche partecipative vengono usate per costruire una facciata di armonia comunitaria, esito di un definitivo superamento delle “vecchie dicotomie politiche” del Novecento, la quale finisce per fare da cornice a grosse operazioni immobiliari di stampo neoliberista e di progressiva privatizzazione dello stato sociale pubblico. Gli studiosi detrattori della partecipazione accusano gli addetti ai lavori di supportare, in modo più o meno volontario e/o consapevole, questo trend, anche solo attraverso un atteggiamento intellettualmente “ingenuo” che ignora le dinamiche di potere reale nascoste dietro una

proposta istituzionale di implementare pratiche partecipative (cfr. Yftachel 2006 tra i tanti). Tali critiche fanno da eco a molte storie di addetti ai lavori che soffrono dei caratteri di opacità, contraddittorietà o anche solo eccessiva transitorietà dell'agire politico-istituzionale. In questa prospettiva, la storia del Simeto contiene alcuni spunti su come sia possibile sperimentare la partecipazione evitando le trappole della post-politica. Durante tutta la fase II di istituzionalizzazione della partecipazione e, soprattutto, in questa fase di iniziale e “parziale” attuazione del Patto, il processo non stenta a subire le pressioni ed esibire alcuni sintomi della post-politica. Soprattutto a valle della selezione ad area sperimentale di rilevanza nazionale nell'ambito della Strategia Nazionale Aree Interne, molti soggetti pubblici e di comunità – anche molto lontani sotto il profilo valoriale dal contenuto della Convenzione e sicuramente non partecipi della fase I – si sono avvicinati al “carro del vincitore”. Alcune delle locuzioni generaliste e populiste segnalate da Swyngedouw (2010) hanno certo fatto parte del repertorio di dichiarazioni mediatiche di alcuni sindaci meno consapevoli e/o impegnati. In alcuni casi, tali dichiarazioni sono perfino state accompagnate dalla presentazione alcuni progetti per l'attuazione del Patto mai discussi dall'Assemblea e di dubbia coerenza con gli obiettivi della Convenzione. A fronte di tali manifestazioni, però, il Presidio e alcune delle singole associazioni che sono socie del Presidio, mostrano una discreta capacità di contrasto dei sintomi e della retorica di stampo post-politico, sia attraverso i canali mediatici che nell'ambito dei confronti diretti in sede di Assemblea di Patto. Accanto a questo vi sono concreti segni di innovazione delle prassi amministrative in alcuni comuni simetini e di una reale vicinanza ai valori e principi del Patto da parte di alcuni amministratori e tecnici che stanno di fatto supportando nell'ambito del singolo territorio comunale il Presidio o singole associazioni promotrici di azioni di attuazione del Patto. Tra queste vi sono, ad esempio, il progetto di riappropriazione comunitaria, rivitalizzazione e ri-funzionalizzazione della storica Stazione San Marco di Paternò da parte del collettivo-associazione SUDs (inserito in un progetto di ri-funzionalizzazione dell'intera tratta ferroviaria dismessa Motta-Regalbuto) o l'istituzione del Bio-distretto della Valle del Simeto, in collaborazione con l'AIAB. La struttura a tre “gambe” del Patto, sebbene

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attuata per soli due terzi, si è nutrita di molti input che sono derivati direttamente dalla prima fase, durante la quale la “partecipazione” al Simeto è stata sperimentata in un'ottica extra-istituzionale, di empowerment della comunità secondo le logiche tipiche del community organizing: partecipazione come strategia di aggregazione e “capacitazione” di un numero sempre più alto di individui consapevoli del proprio status di oppressione. I rischi che ha il Patto di essere ingenuo nei confronti delle dinamiche di potere sono fino a ora stati attenuati dal fatto che la difficoltà ma anche la necessità di impattare dal basso tali dinamiche sono state, fin dalla campagna anti-inceneritore, il motore primario del lavoro della partnership università-comunità (Hall 2005, Saija 2016). In altre parole, è come se durante la fase I, il processo simetino abbia sviluppato delle qualità genetiche che hanno permesso di affrontare la fase II della istituzionalizzazione con maggiori anticorpi rispetto alle inevitabili trappole della post-politica. La questione che rimane aperta è per quanto ancora questi anticorpi rimarranno attivi ed efficaci. Soprattutto ci si chiede se tali anticorpi permetteranno al Patto di costituirsi nella sua interezza, al fine di offrire davvero spazi di sperimentazione per la valutazione dell'efficacia di questa specifica forma di istituzionalizzazione della partecipazione.


Foto di Emanuele Feltri

Note 1. Tra i tanti testi introduttivi disponibili sull'argomento, si rimanda a Greenwood & Levin (1998) per una trattazione generale e a Saija (2016) per una introduzione alla ricercaazione in specifica relazione alle discipline di pianificazione e progetto urbano e territoriale. 2. A questo punto della storia, ben otto municipalità simetine (Adrano, Belpasso, Biancavilla, Centuripe, Motta S. Anastasia, Paternò, Regalbuto e Santa Maria di Licodia), avevano mostrato interesse per il progetto di Patto di Fiume e hanno sponsorizzato il processo. A queste otto si aggiungeranno nel processo di finalizzazione del Patto le due municipalità dell'ennese di Regalbuto e Troina. 3. L'ipotesi di avviare una collaborazione tra enti che mantengono la propria autonomia è stata, in questa fase, preferita a quella della istituzione di un ente autonomo, come lo sono state le controverse agenzie di sviluppo territoriale istituite negli anni '90. L'istituzione di un ente autonomo avrebbe permesso una maggiore autonomia ma è stata considerata prematura: la convenzione ha validità tre anni e costituisce solo un primo passo sperimentale che potrebbe permettere un matrimonio tra enti più 'consapevole' in futuro. 4. Insieme ai due documenti progettuali prodotti nel 2010 e nel 2013 (All. A e B), tra gli allegati figurano ufficialmente lo statuto del Presidio (All II), un testo di convenzione tra Università e Patto di Fiume che definisce nel dettaglio le modalità di coinvolgimento dell'istituzione universitaria (All. III), e un testo che sancisce la procedura amministrativa con cui ogni singolo comune possa procedere alla sottoscrizione del Patto (All. III). Tutti i documenti sono consultabili nella sezione download del sito http://pattosimeto2013.wixsite.com/pattodelsimeto/home 5. Sul tema del finanziamento delle pratiche di ricerca-azione nell'ambito di partnership complesse, e sulla necessità di alternare gratuità e forme di consulenza, si veda Saija (in corso di stampa).

Riferimenti bibliografici Bastiani M., a cura di (2011), Contratti di fiume. Pianificazione strategia e partecipata dei bacini idrografici, Flaccovio, Palermo, pp. 323-342. Greenwood D. J., Levin M. (1998), Introduction to Action Research: Social Research for Social Change. Sage Publications, Inc, NewYork. Hall B. L. (2005), “In from the Cold? Reflections on Participatory Research from 1970-2005”, Convergence, 38 (1), pp. 5-24. Harvey D. (2007), Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, Oxford. MacLeod, G. (2011), “Urban Politics Reconsidered: Growth. Machine to Post-democratic City?”, Urban Studies, 48 (12), 2629-2660. Paddison R. (2009), “Some retlections on the limitations to public participation in the post-political city”, L'Espace Politique, 8 (2), pp. 2-14. Pizziolo G., Micarelli R. (2011), Il contratto di fiume/paesaggio del medio Panaro, in Bastiani M., a cura di (2011), Contratti di fiume. Pianificazione strategia e partecipata dei bacini idrografici, Flaccovio, Palermo, pp. 323-342. Raciti A. (2016). Building Collective Knowledge Through Design: The Making of the Contrada Nicolò Riparian Garden Along the Simeto River (Sicily, Italy). Landscape Research, 41(1), 45-63. Rathke W. (2011), Community organizing e sviluppo locale, in Saija L., a cura di, Comunità e progetto nella valle del Simeto. La mappa partecipata come pratica per lo sviluppo locale, Didasko Edizioni, Adarno (CT), pp. 14-18. Reardon K. M. (1994), Community Development in LowIncome Minority Neighborhoods: A Case for Empowerment Planning , Proceedings from 36th Association of Collegial Schools of Planning Annual Conference. Reardon K. M. (2003), Ceola's Vision, Our Blessing: The

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Foto Francesca Cognetti

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PERCORSI DI PARTECIPAZIONE

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PERCORSI DI PARTECIPAZIONE

Il Dibattito pubblico sullo sviluppo e la riqualificazione del porto di Livorno: come, per chi, per cosa? di Sophie Guillain*

* Sophie Guillain Ha studiato presso l'istituto Science Po di Parigi ed ha una laurea in Pianificazione del territorio. Consulente senior presso Res publica, società con sede a Parigi, attiva nel campo della concertazione e della partecipazione pubblica. Ha una vasta esperienza, maturata in diversi paesi, di pratiche partecipative, di concertazione di progetti urbani e territoriali, di sviluppo sostenibile, di formazione. Responsabile del “Dibattito in Porto” a Livorno.

La procedura del Dibattito Pubblico in Toscana L'istituzione, da parte della legge regionale toscana 46/2013, del Dibattito Pubblico sulle decisioni importanti per un territorio, cambia il modo consueto di intervenire, mettendo a confronto i promotori delle grandi operazioni - che sono spesso isolati nel loro approccio tecnicista - con i territori e le comunità - che spesso contestano oppure non sono a conoscenza dei progetti -. Secondo il capitolo II della legge, il Dibattito Pubblico è «un percorso d'informazione, discussione e confronto pubblico che si sviluppa riguardo a opere, progetti o interventi che assumono una particolare rilevanza per la comunità regionale, in materia ambientale, territoriale, paesaggistica, sociale, culturale ed economica». Ai cittadini e stakeholder coinvolti viene offerta una informazione adeguata che li metta nelle condizioni di poter partecipare al dibattito “a ragion veduta”. E' prevista pertanto l'organizzazione di momenti e spazi di incontro, approfondimento e discussione tra una grande varietà di attori sugli aspetti più rilevanti del progetto in esame. Sono numerosi gli aspetti di interesse sollevati dalla pratica del Dibattito: porre le basi per un vero dialogo - che inizia dall'informazione paritaria e dall'equità di trattamento delle parti interessate (anche le più riluttanti al progetto) -, prevenendo così il blocco dei progetti strutturali per lo

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sviluppo territoriale; consentire a un gran numero di attori di avere uno scambio reciproco, assicurando un dibattito leale, inquadrato da una autorità indipendente (l'autorità per la partecipazione) e da un garante del buon svolgimento del processo (il responsabile del Dibattito Pubblico); spiegare il contenuto di progetti complessi e individuare gli adattamenti e le compensazioni necessari per una buona integrazione delle opere previste nello specifico ambiente naturale, economico e sociale. Se, al termine di un Dibattito Pubblico, il progetto si rivela inappropriato, si possono prendere in considerazione i bisogni espressi e le conoscenze fornite da un numero elevato di stakeholders per migliorare la proposta al fine di un buon inserimento nel territorio delle azioni previste. L'esperienza del Dibattito Pubblico a Livorno A Livorno cosa è successo? Quali sono gli insegnamenti che possono essere tratti e i contributi offerti dal Dibattito Pubblico per la comunità e il progetto? La procedura che si è svolta a Livorno ha affrontato in realtà due progetti complessi: la creazione della Piattaforma Europa, ovvero l'espansione a mare dell'area portuale, che ne raddoppierà l'estensione, e la ristrutturazione dell'area della Stazione Marittima, che rappresenta uno snodo fondamentale tra il porto cro-


E' stato davvero utile il Dibattito Pubblico? Gli obiettivi principali del DP sono l'informazione e la partecipazione da un lato e la considerazione delle osservazioni emerse, da parte del soggetto promotore, dall'altro. In breve, i punti emergenti sono i seguenti.

ciere e traghetti e il centro storico della città di Livorno.

Il logo del “Dibattito in Porto”

Localizzazione dei progetti in discussione

Come si è svolto il Dibattito Pubblico? Il dossier, predisposto dall'Autorità portuale di Livorno, proponente i due progetti, ha fornito le informazioni essenziali ai partecipanti. Il dossier è stato controllato dalla Responsabile del Dibattito Pubblico e dall'Autorità toscana per la partecipazione al fine di verificarne la veridicità e la facilità di comprensione¹. Tra il 12 aprile e il 14 giugno 2016

- Il coinvolgimento di una grande varietà di attori Se nel caso di Livorno la quantità dei partecipanti poteva essere più alta, la varietà dei soggetti è stata ampia e la qualità del loro coinvolgimento elevata. Hanno partecipato, infatti, cittadini e rappresentanti della società civile locale, regionale e nazionale. Sono stati presenti il mondo economico, quello della ricerca, nonché gli enti pubblici del territorio locale e di quello più ampio, così come le società pubbliche. - L'informazione, l'interazione e un ambiente fav revole all'ascolto e allo sviluppo della fiducia tra gli stakeholder Nel corso del Dibattito tutti si sono espressi apertamente, in un clima di fiducia e ascolto reciproco, creando senza dubbio un precedente importante per il territorio. I metodi utilizzati hanno permesso al pubblico di capire bene i progetti e di esprimersi il pubblico ha partecipato, on line e tramite diver- in libertà e hanno consentito all'Autorità portuale se modalità di dialogo, a una serie di riunione pub- e al Comune di prestare ascolto senza subire bliche, laboratori tematici, visite del porto, atteggiamenti aggressivi. L'Autorità portuale ha workshop con gli stakeholders e punti d'ascolto avuto occasione di rispondere in modo chiaro in itineranti in città. In tali occasioni, il pubblico e i merito alle obiezioni ai progetti, sia durante gli soggetti istituzionali coinvolti (Autorità portuale, incontri pubblici sia online attraverso le FAQ. Alla Regione, Comune, Provincia) sono stati veramen- fine del percorso, i partecipanti hanno dichiarato te in dialogo. che le loro conoscenze erano aumentate.

Fig. 3 La time line del processo con i diversi luoghi e occasioni di dialogo

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In proposito è stato inviato a tutti i soggetti coinvolti nel dibattito un questionario ex post. Una domanda specifica in merito all'adeguatezza delle informazioni e all'efficacia del DP, ha visto il 73% degli intervistati affermare che il DP ha fatto capire meglio i progetti. Una domanda chiedeva se fossero cresciute le conoscenze in riferimento a vari temi affrontati nel dibattito. Nella maggior parte dei casi i partecipanti hanno dichiarato che le loro conoscenze sono aumentate. Per quanto concerne le opinioni sui progetti e rispetto al ruolo dei singoli enti portatori di interesse nel dibattito, i risultati dimostrano che i partecipanti hanno cambiato opinione in positivo rispetto ai progetti e ai proponenti, mentre appare residuale la quota di persone che hanno cambiato opinione in negativo. - L'accoglienza e la considerazione delle raccomandazioni provenienti dal Dibattito Fin dall'inizio si è cercato di assicurare sia un ascolto appropriato delle opinioni e delle propo-

ste da parte dell'Autorità portuale sia la disponibidute permanenti degli investimenti lità di quest'ultima a non sottrarsi al confronto e pubblici nei confronti della vasta area all'analisi delle controversie. L'identificazione chiad'influenza; ra delle priorità dei partecipanti emersa nella deli-il monitoraggio e la gestione della quaberazione e nella sintesi fatte dalla Responsabile lità degli spazi naturali marini e terrestri; mostra la varietà dei punti di vista - anche con- l'attuazione di disposizioni particolari riguardantraddittori - sui due progetti. In occasione della ti gli argomenti sollevati dal Dibattito Pubblico consegna della Relazione finale, nel mese di luglio nel capitolato di gara per Piattaforma Europa, 2016, l'Autorità portuale ha affermato di voler al fine di sostenere la collaborazione dei proprendere in considerazione molte delle raccoponenti con la comunità locale in merito alle mandazioni migliorative espresse dal pubblico sfide individuate; durante il processo. - delle clausole da inserire relativamente alla Tra i contributi principali del Dibattito Pubblico responsabilità sociale e ambientale dei propoemergono le proposte sui temi seguenti: nenti; - una pianificazione e una governance che favo-il proseguimento di una informazione contiriscano una migliore integrazione tra porto, nua degli abitanti e degli attori, nonché di un città e area vasta; coinvolgimento da parte dei decisori (Autorità - il monitoraggio e la gestione della qualità portuale, Regione, Comune). degli spazi naturali marini e terrestri; Un buon indicatore di riuscita del Dibattito sarà - la creazione di un osservatorio dei progetti, costituito quindi dagli esiti prodotti nel corso del degli impatti e della distribuzione delle rica- tempo dalle raccomandazioni emerse.

Punto d'ascolto itinerante in città

Laboratorio tematico al Terminal Crociere

Uno dei due workshop con gli stakeholder

Incontro di chiusura Note 1. Il dossier, la relazione finale del DP e gli elementi di valutazione sono disponibili sul sito: www.dibattitoinporto.it

Visite in porto

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PERCORSI DI PARTECIPAZIONE

Insieme per il Piano. Un percorso partecipato per il futuro della Città Metropolitana di Firenze di Maddalena Rossi*

* Maddalena Rossi Dottore di Ricerca in Pianificazione, Progettazione della Città e del Territorio e Assegnista di ricerca presso il DIDA Dipartimento di Architettura - dell'Università degli Studi di Firenze, occupandosi degli spazi residuali dell'urbanizzazione contemporanea. Ha frequentato il Master in Progettazione dei processi Partecipativi promosso dalla Regione Toscana. Ha svolto periodi di formazione e ricerca in Algeria e nel Sahara Occidentale, sviluppando percorsi partecipativi per microprogetti di sviluppo locale. In Italia opera nella promozione della partecipazione nei territori caratterizzati da uno sviluppo economico ritardato e da abbandono. Collabora con Avventura Urbana dal 2008.

“Insieme per il Piano. Partecipa alle scelte per il futuro della Città Metropolitana di Firenze” è il percorso partecipativo promosso dalla Città Metropolitana di Firenze contestualmente al processo di elaborazione del suo primo Piano Strategico Metropolitano. Il nuovo Ente prevede nell''art. 9 del proprio Statuto l'utilizzo di forme di partecipazione continua e duratura nel tempo, quali strumenti di pratica ordinaria di governo del territorio e di governance, volte a ridurre le distanze tra amministratori e cittadini. Inoltre le pratiche partecipative sono una prassi diffusa tra gli Enti locali che compongono il territorio metropolitano, anche in virtù del dispositivo legislativo regionale, ormai operativo da quasi un decennio. Il processo è stato innegabilmente aiutato da questo paesaggio pregresso, articolato e plurale di esperienze di pianificazione interattiva. Gli attori coinvolti, manifestando consuetudine al coinvolgimento attivo nelle scelte del loro contesto di vita, si sono dimostrati a proprio agio all'interno del processo, proiettandosi in un lavoro intenso e costruttivo, pur non esitando a domandare risposte concrete in termini di risultati. Contemporaneamente, però, il fatto che la Città Metropolitana sia un Ente di nuova costituzione ha fatto sì che questo processo abbia costituito la prima vera occasione di partecipazione e interazione tra i diversi attori del territorio metropolitano nella

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loro totalità e pluralità, andando così a collocarsi in una dimensione di forte sperimentazione e innovazione. L'ascolto e l'attivazione delle diverse componenti del tessuto economico e sociale della Città Metropolitana è stato finalizzato alla costruzione delle basi, in termini di diagnostica condivisa e identificazione di linee e azioni di sviluppo, del processo di pianificazione strategica in corso. In ragione della sua natura innovativa, il processo ha adottato, lungo tutto il corso delle attività, un approccio adattivo basato sul continuo adeguamento degli strumenti metodologici alle condizioni che di volta in volta si sono verificate nel contesto, assumendo un'articolazione complessa. Il Processo partecipativo è stato aperto con alcuni incontri pubblici di presentazione, che si sono svolti in 7 diverse aree del territorio metropolitano. Il loro scopo, oltre a quello di dare un forte valore simbolico e comunicativo all'avvio del percorso, è stato quello di presentarlo, descrivendone la struttura, in un “viaggio itinerante” tra i 42 comuni che costituiscono la Città Metropolitana, in maniera tale da poter conoscere da vicino quelli che sarebbero stati i protagonisti del Piano e, al contempo, ricevere dagli stessi alcune prime riflessioni in merito. A seguire è stata condotta un'intensa attività di ascolto del territorio,


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finalizzata all'attivazione dei cittadini e delle comunità degli stakeholders interessati e alla produzione, con essi, di una diagnostica condivisa in termini di problemi e opportunità del territorio metropolitano. Sono state condotte, così, 152 interviste in profondità ai diversi portatori di interesse ed è stato messo online un questionario aperto a tutta la cittadinanza, volto ad intercettare le priorità espresse dal territorio, a cui hanno risposto circa 1000 abitanti. Da questa prima fase di ascolto sono emerse alcune prime linee strategiche per cluster tematici, su cui sono stati costruiti, nella fase successiva del processo partecipativo, 12 focus groups finalizzati all'elaborazione di alcuni primi indirizzi progettuali da suggerire per il Piano Strategico. I materiali prodotti dai focus gropus sono stati quindi sistematizzati in una giornata di chiusura della Fase progettuale del processo, dove si è cercato di costruire una coerenza, e laddove possibile una sintesi, degli ambiti progettuali in essi elaborati. A chiusura del processo è stato pubblicato un sondaggio online, nel quale è stato richiesto alla cittadinanza di dare un ordine di priorità ai progetti elaborati nel processo. Complessivamente hanno partecipato alle attività, seppur con diversi ruoli e intensità di collaborazione, circa 1600 soggetti. In termini di risultati il processo ha prodotto alcune sintetiche vision, da suggerire al Piano, per uno scenario di sviluppo strategico in un'ottica di medio–lungo periodo del territorio metropolitano. In base ad esse la Città Metropolitana fiorentina deve candidarsi a divenire luogo di una accessibilità universale in termini di infrastrutture e servizi al cittadino, deve sancire un patto strategico e virtuoso tra la sua componente urbana e quella rurale/ambientale e, infine, deve configurarsi come culla di una produzione di qualità e aperta all'innovazione. Queste tre grandi vision sono state poi declinate in una pluralità di proposte puntuali e operative. Il processo, inoltre, ha aperto una forte aspettativa nella capacità del nuovo Ente metropolitano di assumere un nuovo ruolo nella governance dei processi di sviluppo del proprio territorio di competenza, riconfigurandosi quale ente funzionale a condurre politiche integrate e aperte al territorio e a catalizzare risorse e progetti da affrontare in chiave di risultato, operatività e azione concreta, attraverso l'assunzione di un orientamento alle politiche come processi che coinvolgono un networking attivo tra diversi livelli istituzionali e

soggetti di varia natura. Un nuovo e sperimentale ruolo gestionale, progettuale e decisionale complesso deve, secondo l'unanimità degli attori intervenuti, caratterizzare la Città Metropolitana fiorentina, per l'attuazione del quale è necessario individuare terreni stabili di confronto e di sperimentazione, superando i modelli classici di rappresentanza, garantendo un dialogo costruttivo e permanente a presidio delle relazioni, da sviluppare sia nei reticoli funzionali di scala regionale e globale, sia alla scala locale con i portatori di interessi e con i soggetti della cittadinanza attiva. A tal riguardo il processo partecipativo si è configurato come il primo banco di prova di alcune embrionali sperimentazioni, iniziando a costruire, nel suo divenire, alcune prime “coalizioni di sviluppo multiattoriali” funzionali a perseguire, sia in sede istituzionale che in autonomia, la realizzazione dei progetti suggeriti al Piano Strategico. E questo è stato, indubbiamente, il più tangibile dei risultati da esso raggiunti.

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Foto Gruppo Palomar


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ESPERIENZE DI PIANIFICAZIONE E PROGETTAZIONE PARTECIPATA IN TRENTINO

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ESPERIENZE DI PIANIFICAZIONE E PROGETTAZIONE PARTECIPATA IN TRENTINO

Comunità di Valle in Trentino Un primo bilancio della partecipazione di Silvia Alba*

I Tavoli di confronto e consultazione nel processo di pianificazione delle Comunità di Valle in Trentino

“La partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un optional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli e sulla trasparenza”, Silvano Bassetti, in Atlas – Rivista quadrimestrale dell'INU Alto Adige, n.22, dicembre 2001.

*Silvia Alba Architetto, componente del GruppoPalomar,spazio e partecipazione. Su incarico della Comunità di Valle Alta Valsugana e Bersntol ha contotto il processo di consultazione degli amministratori e degli stakeholder del territorio nell'ambito della fase preliminare del percorso di elaborazione del Piano territoriale di Comunità.

2008, la legge provinciale n.1⁴ (modificata nel 2015 dalla legge 15), che ha assegnato alle Comunità il compito di elaborare dei Piani territoriali di comunità, introdusse una procedura che prevedeva un “Tavolo di confronto e consultazione”. Il tavolo doveva essere composto dai “soggetti pubblici e associazioni portatrici di interessi a carattere economico, sociale, culturale e ambientale La Provincia autonoma di Trento, che ha compe- rilevanti per l'ambito della comunità”⁵. La finalità tenza primaria in materia di governo del territo- era di contribuire alla definizione dei contenuti rio, fin dagli anni '60 ha impiegato la pianificazio- strategici del Documento preliminare al succesne territoriale – a scala provinciale e intercomu- sivo processo di pianificazione. nale – quale strumento per lo sviluppo locale. A I Tavoli di confronto e consultazione si sono svoltale fine erano stati istituiti i Comprensori, quali ti tra il 2012 e il 2015 e hanno coinvolto, in periodi enti di raccordo dei piccoli comuni montani, inca- diversi, alcune centinaia di portatori di interesse ricati di gestire servizi e di elaborare dei Piani com- nei campi economico, sociale e culturale delle 15 prensoriali. Tale compito, abrogato nel 1991, è Comunità di valle della Provincia in un percorso stato riassegnato ai nuovi enti territoriali – deno- di pianificazione di area vasta definito da una minati Comunità (ma spesso definiti “Comunità comune cornice normativa e finalizzato al ragdi valle”) – istituiti con la legge provinciale n° giungimento dello stesso obiettivo. Lo scopo dei 3/2006¹. Si tratta di enti intermedi tra la Provincia tavoli era quindi di permettere ai territori “di indie i Comuni, finalizzati a sostenere “un disegno viduare, all'interno delle indicazioni del PUP, quei importante di decentramento e responsabilizzazio- temi che per loro erano essenziali e per trovare alle ne dei territori oltre che di risparmio nelle spese di problematiche la soluzione condivisa più efficace e gestione ed erogazione dei servizi”². Tra le compe- adatta alla realtà territoriale. Si tratta di una funtenze in capo ai nuovi enti, il governo del territo- zione che realizza una visione politica dello sviluprio è forse la novità più rilevante, tanto da “legare po del territorio. Bisogna essere capaci di affrontastrettamente il processo di pianificazione alla rifor- re e risolvere i conflitti senza richiamare la responma istituzionale delle Comunità di Valle”³. Nel sabilità provinciale, ma risolvendo le questioni a

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livello di ambito di valle”⁶. L'articolo si propone di tracciare un bilancio dell'esperienza dei Tavoli cercando, da un lato, di individuare i tratti comuni e le principali differenze, dall'altro di ricostruire le ricadute che questi processi hanno avuto non solo sull'elaborazione dei piani, ma anche sui soggetti che vi hanno preso parte. A tale scopo sono state effettuate 16 interviste in profondità ad amministratori, tecnici, consulenti e facilitatori delle comunità, individuati tra coloro che si sono resi disponibili oppure che è stato possibile raggiungere, considerando il tempo intercorso dalla conclusione dei processi. Il tratto caratterizzante l'esperienza: la costruzione del consenso Se si osserva il modo in cui sono stati sviluppati i Tavoli, emerge come le indicazioni del legislatore provinciale⁷ abbiano dato luogo a processi riconducibili, secondo la rivisitazione di Rodolfo Lewansky⁸ della scala della partecipazione proposta da Sherry Arnstein, a forme di coinvolgimento nelle quali il decisore si impegna a tenere in considerazione i risultati del Tavolo con la facoltà di servirsene senza dover giustificare ai partecipanti le motivazioni delle proprie scelte, anche nel caso in cui si discostino dalle indicazioni emerse dalla consultazione stessa. Tenendo come riferimento, quindi, una configurazione iniziale che vede da un lato il decisore pubblico e dall'altro gli stakeholder, la forma di coinvolgimento espressa dai Tavoli mostra una redistribuzione del potere riconducibile al modello di relazioni tra gli attori e le risorse (politiche, gestionali, economiche e progettuali) di tipo consensuale, piuttosto che al modello di tipo partecipativo⁹. Un primo tratto evidente di questa impostazione si riconosce nell'approccio esclusivo in cui sono stati invitati al Tavolo solo attori portatori di interessi costituiti, in grado di esprimere una rappresentanza (stakeholder). Dalle interviste emerge come quasi sempre la scelta del numero di partecipanti da convocare sia dipesa dalla scarsa conoscenza di possibili alternative nelle procedure di gestione delle interazioni tra i partecipanti: “La Giunta ha messo il limite di 25 partecipanti perché riteneva che con più persone le discussioni fossero dispersive e poco costruttive (intervistato 12)”, oppure dalla riproposizione di procedure già ampiamente utilizzate dalle amministrazioni pubbliche, quali le con-

ferenze dei servizi. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi le Comunità hanno optato per un numero di soggetti - variabile dai 15 ai 30 - scelti tra i detentori di risorse chiave del territorio. Nei rari casi in cui la scelta degli stakeholder è stata conseguente all'individuazione degli interessi in gioco e dei relativi portatori, il numero dei partecipanti è stato maggiore. Un altro aspetto riconducibile al modello consensuale ha riguardato la costruzione dell'agenda dei contenuti in discussione nei Tavoli, che venivano estrapolati dal Documento preliminare redatto dai progettisti incaricati (tecnici interni o consulenti esterni alla Comunità), rispetto ai quali i partecipanti erano chiamati ad esprimersi. Le relazioni dominanti sono state del tipo tecnici – stakeholder – tecnici, dove “i tecnici, detentori del sapere esperto, formulano le proposte, i partecipanti ne discutono e poi i tecnici rielaborano i contenuti finali in base a quanto emerso, mantenendo la facoltà di controllo sull'intero processo”¹⁰. Per sapere esperto, in questo caso, si intende quello urbanistico, anche se bisogna tener conto che gli stakeholder erano portatori di interessi consolidati e competenze specifiche anche di tipo professionale e che, quindi, si possono definire “non esperti” solo a fronte di una evidente semplificazione. Salvo poche eccezioni, il modello consensuale di organizzazione e gestione dei Tavoli è evidente nel carattere fortemente burocratico riscontrabile nella gestione dei lavori: le terminologie utilizzate si richiamavano a consolidate procedure amministrative, le sedute regolate dal numero legale dei partecipanti e dalla necessità di giustificare le assenze, la restituzione dei risultati nella forma della verbalizzazione con necessità di approvazione dei risultati di ogni incontro all'inizio della seduta successiva. Questa elevata attenzione ad una gestione procedurale, piuttosto che processuale dei lavori, è confermata dal fatto che in un solo caso il Tavolo è stato progettato come un processo strutturato riconducibile ad una o più metodologie partecipative consolidate, e che solo in qualche caso le discussioni sono state affiancate da momenti di interazione strutturata attraverso il ricorso a supporti grafici e con l'organizzazione di sotto gruppi di lavoro. Generalmente emerge come lo svolgimento dei lavori nei tavoli avvenisse senza alcuna consapevolezza del ruolo giocato - in funzione della qualità della discussione - dalla costruzione di un setting adeguato, dalla potenzialità del ricorso a tecniche di interazione strutturate adatte agli obiettivi da raggiungere e dagli

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interventi di facilitazione¹¹. “Le riunioni avvenivano attorno ad un tavolo, eravamo circa 25 persone. Si iniziava con la lettura del verbale dell'incontro precedente, si inserivano le eventuali integrazioni e si approvava. Poi si presentava il materiale all'ordine del giorno (anche con slides e video, ecc.), si iniziava la discussione: tutti a turno dicevano la loro, si decideva se c'erano altri materiali o informazioni da raccogliere e poi si tiravano le fila. Le eventuali divergenze venivano raccolte dal facilitatore, ma grossi problemi non ci sono stati. La sintesi veniva fatta dall'assessore che prendeva la parola finale” (intervistato 03). “il tavolo è stato dispersivo, non siamo stati capaci di ridurre i tempi perché per paura di concludere si continuava a correggere e rivedere” (intervistato 01). “Abbiamo organizzato tavoli per tematiche omogenee, non un tavolo unico con soggetti diversi. Ci sono stati incontri ad hoc per appianare i contrasti e spiegare il punto di vista della politica, oppure ci sono stati incontri separati con portatori di interesse particolari. Comunque le fila dei lavori le tenevamo il progettista, l'assessore e io” (intervistato 08). “Ci riunivamo ogni 15 giorni e non c'era un piano degli incontri, perché avrebbe potuto pregiudicare la qualità della discussione. Ogni incontro aveva un tema che veniva presentato e poi approfondito durante la riunione. Per ogni tematica la comunità aveva dei punti fermi. Tra un incontro e l'altro a chi partecipava veniva chiesto di scrivere il proprio intervento e spedirlo, poi veniva letto la volta successiva, approvato, e messo agli atti (intervistato 06). La chiave di lettura delle differenze: gli interventi di facilitazione Una possibile chiave di lettura che mette a fuoco le differenze tra le esperienze è quella di guardare se durante lo svolgimento dei Tavoli si sono svolti interventi di facilitazione e come tali attività sono state condotte. Per il Trentino, quella del facilitatore è una figura professionale nuova tra quelle presenti nei processi di pianificazione. Del resto, non è da molto che nel nostro Paese la figura professionale del facilitatore come “consulente di processo”¹² ha cominciato ad oltrepassare gli ambiti


delle organizzazioni (profit, pubbliche e non profit) e del sociale (sanità, scuola ed educazione), per trovare spazio anche presso le amministrazioni pubbliche come “manager di processi decisionali complessi”¹³ nell'ambito delle scelte di governo del territorio che prevedono strumenti di coinvolgimento, quali ad esempio, minipubblici, forum, tavoli multi-attore, gruppi tematici. Anche se i Tavoli non si possono considerare delle arene di partecipazione pubblica, sono stati comunque dei contesti strutturati appositamente per permettere l'interazione dialogica di più soggetti su temi complessi. In tali contesti, la discussione non avviene in modo naturale, ma necessita dell'assistenza di figure terze, non interessate ai contenuti o alle ragioni delle parti in causa, ma solo alla qualità del processo di interazione¹⁴. In ben 10 casi, le Comunità hanno fatto ricorso al facilitatore messo a disposizione dal Servizio urbanistica e tutela del paesaggio della Provincia, che aveva provveduto a formare alcuni dipendenti e soggetti esterni la possibilità di venire formati come “facilitatori” seguendo un corso organizzato nel 2009 dalla Scuola per il Governo del Territorio e del Paesaggio (step). Il corso si proponeva di formare una specifica figura che fosse in grado di fornire “l'esperienza e la capacità amministrativa necessaria e per affrontare le competenze di pianificazione” attraverso lo sviluppo di competenze quali: la divulgazione dei contenuti del Piano Urbanistico provinciale, l'ideazione e l'attuazione di politiche urbanistiche e amministrative, lo sviluppo di sinergie economiche tra gli ambiti territoriali, il sostegno alla comprensione delle dinamiche locali da parte degli organismi di pianificazione a livello provinciale e, infine, la capacità di mediare gli interessi degli stakeholder e la gestione degli eventuali conflitti. I racconti degli intervistati descrivono i facilitatori provinciali impiegati nella raccolta e organizzazione dei dati a supporto dei tecnici interni o dei consulenti esterni, nella collaborazione con gli uffici e gli assessori per l'organizzazione degli incontri, la verbalizzazione e divulgazione ai partecipanti dei risultati. In nessun caso il facilitatore provinciale ha assunto la responsabilità professionale di disegnare e guidare il percorso del Tavolo di confronto e consultazione: L'assessore non me lo ha permesso, ma se fosse stato per me il tavolo l'avrei organizzato in

modo meno istituzionale, nel senso che avrei redigere il Documento preliminare o i tecnici applicato tecniche di partecipazione. Avrei strut- interni alle Comunità) oppure dai rappresentati turato un processo in cui io potevo fare il facilita- politici della comunità: tore, mentre mi sono trovata a fare il moderatoLa comunità non ha ritenuto utile ricorrere al re. Le mie competenze di gestione dei gruppi le facilitatore fornito dalla Provincia, perché io mi ho acquisite dalla mia formazione universitaria; sono occupato di urbanistica per più di vent'anni nel corso della STEP non ci hanno introdotto i ed ero sufficientemente esperto in pianificazione, contenuti e la prassi della partecipazione, ma ci poi anni fa avevo partecipato alle riunioni del hanno dato un inquadramento sugli aspetti norprocesso di Agenda 21. Inoltre ho sempre avuto mativi e urbanistici. Con questa formazione non la collaborazione del progettista del piano [docueravamo pronti ad affrontare l'innovazione che mento preliminare] nell'organizzare il lavoro dei sarebbe stata necessaria (intervistato 08). tavoli (intervistato 04). Per un certo periodo abbiamo utilizzato il facilitatore fornito dalla Provincia, ma era competente Per quella fase delTavolo ho seguito io [presidensolo per la parte di raccolta e elaborazione dei te della comunità] i lavori di facilitazione, che ho dati, non era formato e non aveva esperienza per una competenza sociologica di gestione dei grupgestire interazione del tavolo di confronto e conpi (intervistato 07). sultazione (intervistato 07). La regia del processo è stata dell'ufficio tecnico Il facilitatore della Provincia veniva in comando che ha individuato i temi da sottoporre al tavolo. due volte alla settimana: era presente alle riunioLe riunioni le introduceva il presidente, l'esperto ni del tavolo e approfondiva tematiche urbanistiesponeva il tema e poi il dibattito si svolgeva “nache raccogliendo e organizzando i dati. (intervituralmente” (intervistato 05). stato 12) Le riunioni avvenivano in sala giunta dove c'è un Non possono passare due anni per fare un docutavolo abbastanza grande e spesso c'erano delle mento strategico, Il facilitatore fornito dalla Propresentazioni power point per illustrazione del vincia non ci ha aiutato per la parte del coinvolgitema. Gli architetti incaricati di redigere il Documento e abbiamo dovuto arrangiarci senza avere mento preliminare conducevano la discussione, esperienza. Col senno di poi, penso che se avessiche avveniva liberamente (intervistato 13). mo chiamato un facilitatore per organizzare il processo, magari guardando ad altre esperienLe divergenze di opinioni non si risolvono con ze fuori Provincia, saremmo riusciti a concenl'appello alla competenza o all'opinione trare i tempi (intervistato 01). dell'assessore, così non funziona. Il tavolo serve, ma va organizzato in modo diverso. Ad esempio, L'assenza di un preciso inquadramento del loro il Piano stralcio del commercio l'abbiamo dovuto ruolo tra le professionalità operanti nel processo fare in un mese. Abbiamo preso i dati dal docudi pianificazione ha reso difficoltoso per i facilitamento del Tavolo e da altre ricerche già fatte, poi tori provinciali esprimere le proprie competenze. con la metodologia dell'Open Space Technology La mancanza di una specifica formazione ed espein quattor incontri abbiamo messo in piedi il rienza maturata sulle tecniche e metodologie di Piano del commercio (intervistato 09). facilitazione da un lato, e la scarsa dimestichezza delle amministrazioni pubbliche con pratiche par- Nello svolgimento di questi Tavoli non è stata svoltecipative, dall'altro, hanno limitato il contributo ta attività di facilitazione propriamente detta poidi questi professionisti ad interventi di supporto ché la discussione non era organizzata e gestita degli aspetti tecnico/urbanistici senza riuscire ad da “una persona neutrale rispetto ai contenuti e incidere in modo determinante sulla qualità del priva di autorità decisionale”¹⁵; in questi casi, infatti, processo di interazione. il progettista del Documento preliminare oppure il Nei casi in cui le Comunità non hanno fatto ricor- presidente interagivano direttamente con i parteso al facilitatore provinciale, il processo del Tavolo cipanti in merito ai contenuti, in alcuni casi affianè stato gestito da professionalità tecni- cati anche da esperti che presentavano approfonco/urbanistiche (i professionisti esterni chiamati a dimenti su tematiche specifiche senza la presenza

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di un contraddittorio. Partendo dal presupposto che il ruolo degli esperti (intendendo in questo caso anche i progettisti e i tecnici urbanisti) non è asettico, e che il rapporto tra esperti e non esperti non è mai “riconducibile a un semplice scambio di informazioni o conoscenze offerte dagli uni e recepite dagli altri”¹⁶, è ipotizzabile che le relazioni tra sapere esperto e “profano” svolte in questi termini possano aver determinato un flusso di informazioni unidirezionale teso a fornire legittimazione ai contenuti del Documento preliminare, soprattutto nei casi in cui l'”autorità” era rappresentata da un progettista affermato o da un assessore carismatico e, inoltre, che tali dinamiche possano aver inibito i partecipanti, impedendo o rendendo meno proficue l'esplorazione di ulteriori punti di vista e di soluzioni alternative durante la discussione. Per completare l'illustrazione del diverso approccio seguito in merito alla facilitazione dei percorsi di consultazione nelle Comunità, faccio un breve accenno all'esperienza del Tavolo della Comunità Alta Valsugana e Bersntol di cui ho seguito la progettazione e la facilitazione, seguendo una precisa metodologia¹⁷ finalizzata a generare il confronto e l'elaborazione di visioni strategiche di sviluppo locale. Questa esperienza si distingue dalla altre per la pianificazione preliminare di ogni fase dei lavori, sia nei tempi che nelle modalità di svolgimento di ciascuna riunione entro un progetto unitario noto in partenza e per l'introduzione di due fasi informative rivolte alla cittadinanza: una preliminare di presentazione, e l'altra conclusiva di restituzione, svolte in ogni ambito territoriale della Comunità per limitare il più possibile l'approccio esclusivo e per far conoscere agli abitanti il senso e le finalità della pianificazione in corso. Lo svolgimento di attività di facilitazione è riconoscibile nell'attenzione data al setting entro cui è avvenuta l'interazione, studiato per garantire il benessere dei partecipanti e costruire un clima di fiducia. Le sedi delle riunioni cambiavano ad ogni riunione in modo tale che ogni Amministrazione comunale della Comunità ha ospitato almeno un incontro del Tavolo. I lavori si sono articolati secondo una scansione sequenziale di attività da svolgere in piccoli gruppi autogestiti e di attività plenarie rigidamente facilitate, e durante lo svolgimento delle discussioni era previsto il supporto di post-it, cartelloni, schede su cui mantenere tracciato lo sviluppo e

l'andamento dei ragionamenti. Infine, la restituzione dei risultati di ogni incontro non avveniva in forma di verbale sintetico, ma come raccolta ordinata dei materiali prodotti durante le sedute del tavolo. Il progettista del Documento preliminare, i tecnici dell'ufficio di piano e l'assessore competente erano presenti a tutte le sedute come osservatori esterni alle dinamiche della discussione. Le ricadute sul processo di pianificazione: l'influenza degli esiti del lavoro nei Tavoli Quando, nel 2014, è stata modificata la legge istitutiva delle Comunità e, poco dopo con la legge 15 del 2015 è stata rivista la procedura di elaborazione dei piani territoriali, tutte le Comunità di valle avevano già iniziato il processo di pianificazione, predisponendo il Documento preliminare strategico e attivando il Tavolo di confronto e consultazione. La modifica del quadro normativo si è innestata in una situazione che aveva già dimostrato delle fragilità: come è già stato scritto, il processo di pianificazione territoriale delle Comunità ha risentito, da un lato, della mancanza di “un'impostazione politica forte”¹⁸ e “di una leadership politica locale”¹⁹ e, dall'altro, della difficoltà di dotare le strutture tecniche interne di adeguate competenze tecniche e culturali necessarie ad un processo di pianificazione con una forte valenza strategica di connessione tra l'azione urbanistica e lo sviluppo locale²⁰. In merito a questi aspetti è interessante aggiungere alcune considerazioni degli intervistati: “Le Comunità, non avendo entrate dirette di finanziamento, dipendono dalla Provincia, la quale al momento non sembra dare certezza di copertura. In questo contesto di incertezza nessuno inizia un percorso di pianificazione. Dopo la riforma del 2014, le Comunità appartengono di fatto alle amministrazioni comunali e non più ai cittadini, e operano come una sorta di consorzio per l'erogazione di servizi. Così si è persa l'intuizione della dimensione strategica che le Comunità di valle garantivano in quanto organi politici in grado di fare scelte politiche” (intervistato 11). “Uno dei limiti fondamentali di questo processo di pianificazione strategica dei PTC è stata la mancanza di quel clima di condivisione dei comuni necessario a portare avanti un lavoro di pianificazione di comunità. Così, mentre i cittadi-

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ni/stakeholder sono stati capaci di pensare con un'impostazione sovra locale, le istituzioni sono tornate indietro, ma si sa, i cittadini sono più avanti dei politici che li rappresentano” (intervistato 08). “Il piano territoriale è stato approvato perché c'era la volontà forte dell'assessore sostenuto dalla Giunta e adesso in un certo senso ci troviamo a pagare lo scotto di essere i primi ad aver portato il piano in adozione; nel frattempo sono cambiate l'amministrazione e la normativa provinciale e si è fermato il lavoro dell'ufficio di piano della Comunità” (intervistato 15). Adesso l'ufficio di piano non c'è più, io lavoro come consulente tecnico ma non più sulla pianificazione PTC. Non mi hanno lasciato continuare la pianificazione di comunità. C'era una struttura urbanistica, ma è stata smantellata (intervistato 06). “Nell'ufficio tecnico rimango solo io, ma non mi occupo di pianificazione, non ne avrei neanche le competenze perché sono geometra e mi sono sempre occupato di edilizia agevolata” (intervistato 10). A causa delle profonde differenze di maturazione del processo di pianificazione territoriale nelle Comunità, dove solo la Comunità Alta Valsugana e Bersntol è riuscita ad approvare in prima adozione il Piano territoriale di comunità entro lo scadere della legislatura e prima che entrasse in vigore la nuova legge di governo del territorio nell'agosto del 2015, è difficile ragionare in termini generali sull'influenza dei risultati dei Tavoli nell'elaborazione dei contenuti strategici in vista dell'elaborazione dei PTC; si procederà, quindi, mettendo in rilievo solo alcuni elementi. Dai racconti dei protagonisti di questa esperienza di consultazione, emerge una sostanziale soddisfazione per l'approccio che ha permesso di introdurre risorse locali di carattere, conoscitivo e politico, nel processo: Sicuramente, fosse dipeso da me, avrei continuato a lavorare con il Tavolo di consultazione per fare una pianificazione concertata anche per il prosieguo dell'elaborazione del Piano territoriale di comunità. Non basta più interfacciarsi solo con i sindaci che poi sono sempre più stressati e meno propositivi o con i segretari comunali che


ammoniscono contro ogni innovazione. Lo stru- che” e che la comunicazione tra questi attori mento era corretto, la consultazione è la strada avviene “in senso verticale tra soggetti appartenengiusta (Intervistato 6). ti ad uno stesso settore sia dell'amministrazione pubblica sia della realtà associativa e cooperatiI risultati del Tavolo sono stati il punto di par- va”²³. In questa prospettiva, il Tavolo di confronto tenza per elaborare il Piano: la strategia di siste- e consultazione nella maggior parte delle Comuma della pianificazione è stata possibile grazie ai nità è stato apprezzato come uno strumento innoragionamenti del Tavolo che hanno messo in vativo di governance in grado di favorire nuovi evidenza i nodi dai quali si è partiti per elaborare legami orizzontali tra soggetti rappresentanti un ragionamento integrato (Intervistato 15). diversi interessi locali pubblici e privati. Qualche perplessità comincia a delinearsi quando si considerano le ricadute reali degli esiti del Tavolo. Come già ricordato, l'incertezza sul futuro della pianificazione di Comunità da un lato, e l'ampia discrezionalità lasciata al decisore riguardo al recepimento dei risultati, dall'altro, hanno dato luogo ad un quadro molto eterogeneo.

Gli stakeholder hanno fatto molta fatica a capire il senso del Tavolo: la maggior parte si aspettava di venire e fare la classica lista della spesa: facciamo questo e quello. Pochi hanno capito che si trattava di un documento strategico di carattere generale che doveva disegnare degli scenari di sviluppo e che esprimesse un'identità territoriale (Intervistato 02).

Anche se non abbiamo approvato il Piano territoriale, in molte nostre delibere di Giunta e di Consiglio abbiamo richiamato espressamente gli argomenti contenuti nel Documento Preliminare, oppure obiettivi discussi e concordati durante il processo di consultazione del Tavolo di confronto e consultazione (Intervistato 2).

Il Tavolo è stato anche in grado di stimolare le dimensioni riflessiva e comunicativa del ruolo del tecnico pianificatore:

Se dovessi tenere conto dei risultati emersi dal Tavolo, il parere sull'intervento proposto sarebbe contrario. Noi siamo in scadenza e non decideremo, ma sono convinto che pochi politici seguirebbero le indicazioni del Tavolo, perché ci sono forti spinte a ripetere i modelli di sviluppo del passato. Il Tavolo non ha forza perché è una forma nuova e non si sa se avrà futuro, se questa esperienza di partecipazione potesse radicarsi e diventare prassi anche la politica potrebbe cambiare in meglio (Intervistato 7). Oltre ai risultati tangibili, però, ogni processo di coinvolgimento, porta con sé un altro aspetto importante da considerare: la crescita del capitale sociale²¹ o, in senso più generale, l'empowerment²² che il processo è stato in grado stimolare nel contesto in cui si è svolto. Senza la pretesa di esaurire l'argomento, è noto che in Trentino la configurazione delle relazioni degli attori territoriali permette agli stakeholder di incidere e contribuire alla formazione delle scelte di politica pubblica grazie ad una condizione di “politicizzazione delle reti della società civile organizzata e della socializzazione delle logiche politi-

Lo strumento del Tavolo è stato innovativo per l'ambito urbanistico e comportava una certa sperimentazione. La parte sociale è più abituata a lavorare in modo interattivo con i diversi soggetti del territorio. Con l'urbanistica questo aspetto è più difficile da realizzare. Ad esempio, chiedere ai professionisti abituati a lavorare da soli o con un'impostazione tecnica di confrontarsi su tematiche e con competenze diverse non è stato facile (Intervistato 03).

Il lavoro è stato fatto, ma la politica non indica la strada. Che cosa ne sarà del lavoro? La riforma istituzionale ha messo tutto in discussione: non si capisce che valore la politica darà alle indicazioni strategiche emerse dal territorio (intervistato 08). Conclusioni Quanto fin qui esposto conferma che il primo passo per l'introduzione di un approccio inclusivo nella pianificazione urbanistica in Trentino è stato fatto: si è trattato di un processo che, se da un lato non ha smentito “lo scarso appeal di tecniche e metodologie partecipative e l'implementazione poco convinta […] di programmi orientati alla promozione di percorsi di progettazione partecipata delle politiche pubbliche”²⁴ , dall'altro ha rivelato come la maggior parte dei soggetti coinvolti abbia auspicato di poter continuare a lavorare con questo approccio riconoscendo ai risultati ottenuti una valenza generale che va oltre le finalità pianificatorie. La partecipazione fatta in modo continuativo permette agli abitanti di un territorio di recuperare e produrre nuova conoscenza diffusa dei luoghi, perché per partecipare le persone devono essere informate in modo puntuale e continuativo (intervistato 09).

Le modifiche introdotte alla legge provinciale n. 3 del 2006 e la nuova legge urbanistica, che nell'articolo 19 prevede l'obbligo da parte degli Un aspetto non secondario, soprattutto in rife- enti preposti al governo del territorio del ricorso al rimento alla crescita del capitale sociale, è “metodo della partecipazione”, vanno in questa quello della percezione da parte degli stake- direzione e meritano attenzione, in quanto a holder dell'influenza del loro coinvolgimento nostro avvisto presentano almeno due aspetti nel processo pianificatorio, poiché il senso di che possono dare luogo a delle fragilità sul lungo frustrazione provocato nei partecipanti dal periodo. mancato riscontro del loro impegno può ali- Le esperienze maturate in altre realtà italiane, mentare atteggiamenti di delegittimazione Regione Toscana e Emilia Romagna in testa, delle scelte e, in generale, di discredito hanno dimostrato che normare le procedure partecipative necessita “in modo ancora più esteso dell'ente Comunità. rispetto ad altri fenomeni normativi… di una Ho riscontrato che, se stimolate, le persone costante e penetrante osmosi con la società civile”²⁵ rispondono. Un dubbio che serpeggiava tra i da realizzarsi attraverso una lunga fase sperimenpartecipanti era sull'efficacia di questi incontri: si tale in cui le pratiche partecipative sono state chiedevano se qualcuno avrebbe ascoltato quan- incentivate, applicate, verificate e corrette, e alla to loro proponevano e discutevano e se le loro quale segue la stesura di leggi regionali o regolaidee avrebbero potuto contribuire al cambia- menti comunali. Solleva, quindi, qualche perplessità il fatto che la significativa esperienza dei Tavoli mento (Intervistato 05).

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non sia stata soggetta ad alcun processo di valutazione complessiva al fine di individuare elementi utili all'“iter di consolidamento normativo”²⁶ dei processi partecipativi provinciali. Questa mancanza può comportare la scarsa aderenza degli istituti di partecipazione al contesto trentino e diventare un problema per il fatto che tali istituti democratici devono più di altri “modellarsi in modo davvero plastico alla realtà sociale...poichè l'obiettivo perseguito è una presenza impegnata della società civile continua e non occasionale”²⁷. Un altro nodo problematico emerso riguarda il tema della qualità della partecipazione. Come i tavoli hanno dimostrato, esiste un'elevata eterogeneità nel modo in cui i territori hanno messo in atto il coinvolgimento, che non ha garantito un livello di qualità della partecipazione omogeneo su tutto il territorio. Come altre norme regionali, anche la norma trentina prevede la costituzione di un'Autorità per la partecipazione locale a garanzia e promozione della partecipazione nelle Comunità, composta da soggetti“ di provata competenza in materia di processi decisionali pubblici”²⁸ . Tuttavia, poiché i processi partecipativi non sono equiparabili tout court ai processi decisionali pubblici, è opportuno, a nostro avviso, che tali competenze vengano affiancate da persone con una maturata esperienza nelle metodologie e pratiche partecipative, come viene previsto ad esempio nella legge della regione Toscana²⁹.L'esperienza maturata in altre realtà italiane conferma, infatti, che per svolgere al meglio i propri compiti l'Autorità deve lavorare con un approccio tutt'altro che notarile, poiché deve saper mettere in pratica i meccanismi adeguati in grado di creare per ogni percorso partecipativo le condizioni migliori entro cui dare forma al principio di cornice offerto dalla normativa³⁰. L'esperienza dei Tavoli di confronto e consultazione, se analizzata e valutata in profondità, può fornire degli elementi utili per cominciare a maturare una specifica esperienza trentina nei processi partecipativi, e non solo nell'ambito dell'urbanistica. Analizzare come, partendo da un'unica cornice normativa, ogni territorio abbia implementato la propria idea di coinvolgimento, può servire per tarare delle norme adatte al contesto sociale locale, ma in grado al contempo di garantire la qualità della partecipazione e di determinare “forme di autonomo consolidamento amministrativo delle procedure… attraverso la

stabilizzazione l'affinamento e la condivisione delle esperienze”³¹. Si ringraziano le persone intervistate in qualità di attori coinvolti nei Tavoli di confronto e consultazione delle Comunità di Valle: Stefania Anselmi, Sara Benedetti, Gianfranco Bettega, Anita Briani, Giuliano Guadagnini, Marcello Lubian, Mara Nemela, Claudio Nibali, Renzo Nicolini , Massimo Pasqualini, Nadia Rampin, Michael Rech, Tiziana Rizzi, Emanuela Siviero, Luca Sommadossi, Gianfranco Zolin.

Note 1. L.P. N. 3 del 2006, “Norme in materia di governo dell'autonomia del Trentino”. 2. M. Gilmozzi, assessore all'urbanistica della P.A.T nella XIV legislatura, intervista effettuata a Trento il 30/06/2015. 3. M. Gilmozzi, ibidem. 4. L.P. N. 1 del 2008, “Pianificazione urbanistica e governo del territorio”. 5. Allegato parte integrante della delib. Della Giunta provinciale n°2715 del 13/11/2009. 6. M. Gilmozzi, ibidem. 7. Delibera della Giunta provinciale n°2715/2009. 8. Lewansky, 2016, p. 109. 9. Ecosfera, 201, p. 11. 10. Bobbio, 2007, p. 184. 11. Ravazzi, 2013, p. 172 12. De Sario, 2005. 13. Sclavi, Susskind, 2011, p. 108 14. Bobbio, 2007, p.177. 15. Ravazzi, 2013, p. 154. 16. Bobbio, 2013, p. 377. 17. L'European Awareness Scenario Workshop (EASW) è una metodologia promossa dalla Commissione Europea per facilitare la partecipazione sociale e l'approccio dal basso facilitando il confronto dei portatori di interesse per ideare visioni di futuro della propria comunità e per proporre strategie di sviluppo sostenibile. 18. Degiampietro, Franceschini, 2015. 19. Zanon, 2015. 20. Zanon, 2015. 21. Bobbio, 2007, p.175. 22. Lewansky, 2016, p. 111. 23. Gelli, 2008, p. 9. 24. Gelli, 2008, p. 5. 25. Ciancaglini, 2010, p. 183. 26. Ciancaglini, 2010, p. 190. 27. Ciancaglini, 2010, p. 184. 28. Legge Provinciale n. 12 del 2014, Modificazioni della legge provinciale 16/06/2006, art. 27. 29. Legge Regionale Toscana n 46 del 2013, “Diritto pubblico regionale e promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali, art 3. 30. Floridia, 2010, p. 104. 31. Ciancaglini, 2010, p. 188.

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Riferimenti bibliografici Bobbio, L. 2005, Quando la deliberazione ha bisogno di aiuto, in L. Pellizzoni (a cura di) La deliberazione pubblica, Roma, Meltemi. Bobbio, L. 2013, Conclusione: i dilemmi della partecipazione, in L.Bobbio (a cura di) La qualità della deliberazione, Roma, Carocci. Bobbio, L., 2007, Amministrare con i cittadini, Roma, Rubettino. Ciancaglini, M., 2010, Dall'incentivazione al consolidamento, in U. Allegretti, (a cura di) Democrazia partecipativa, Firenze University Press. De Sario, P., 2005, Introduzione, in: P. De Sario, Professione facilitatore, Milano, Franco Angeli. Degiampietro, P. A. Franceschini, A., 2015, Un primo bilancio della pianificazione territoriale in Trentino, A, Trimestrale di informazione dell'APPC della Provincia di Trento, 3/2015, pp. 14-19. Ecosfera, 2001, Le ragioni della partecipazione nei processi di trasformazione urbana Comune di Roma –Uspel, Roma. Floridia, A., 2010, Idee e modelli di partecipazione, in U. Allegretti, (a cura di) Democrazia partecipativa, Firenze University Press. Gelli, F., 2008, Luci e ombre sulla qualità della democrazia in Trentino,, Report conclusivo della ricerca su “La qualità della democrazia di base in Trentino”, promossa dalla Presidenza della P.A.T. 2007/08. https://www.unigiessen.de/fbz/fb03/institute/ifp/pifo/dateien/rapporto_G elli_def. Lewansky, R., 2016, La prossima democrazia, dialogo deliberazione decisione, Rodolfo Lewanski editore. http://www.laprossimademocrazia.com. Ravazzi, S., 2013, Facilitare la deliberazione: il ruolo dei professionisti, in L. Bobbio (a cura di) La qualità della deliberazione, Roma, Carocci. Sclavi, M., Susskind, L., 2011, Il confronto creativo, Milano, Et al. edizioni. Zanon, B. 2015, Pianificare il Trentino: le prospettive dei PTC, A.Trimestrale di informazione dell'APPC della Provincia diTrento, 3/2015, pp. 22-25.


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ESPERIENZE DI PIANIFICAZIONE E PROGETTAZIONE PARTECIPATA IN TRENTINO

Una sperimentazione per un progetto di territorio interattivo: il Laboratorio Urbanistico di Mori di Ruggero Bonisolli*

* Ruggero Bonisolli Architetto pianificatore. Presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani (DAStU) del Politecnico di Milano ha svolto consulenze per pianificazioni alla scala comunale e intermedia con approccio interattivo. Ha partecipato a programmi di ricerca locali, nazionali ed europei. Attualmente è co-responsabile del programma UE EDULINK II “From University to Territory” in Repubblica Dominicana. Coresponsabile, con Giorgio Ferraresi, di OSTEMI (Osservatorio Territorialista Milanese) della Società dei Territorialisti/e Italiana (SdT).

Il Laboratorio Urbanistico di Mori (Trento), era stato presentato dall'attuale amministrazione comunale nel programma elettorale. Il Laboratorio ha come mandato quello di attivare iniziative interattive con due principali obiettivi contenuti nella definizione di una specifica delega relativa a: “sviluppo e semplificazione della pianificazione urbanistica attraverso strumenti di partecipazione”. Risulta chiaro che, assunta nella sua forma letterale, la delega citata accosta due questioni estremamente rilevanti, forse anche superiori alle forze che una amministrazione può oggettivamente mettere in campo. Programmare lo sviluppo urbanistico con strumenti partecipativi è già una affermazione molto impegnativa. Connetterla alla possibilità di affrontare, nel concreto, il tema della semplificazione, risulta ancora più impegnativo. E' comunque un obiettivo di consigliatura e si tratta quindi di attenderne gli sviluppi per poter misurare l'effettiva portata del programma incorporato nella delega. Al momento si può esprime una valutazione sulla prima azione intrapresa, oggetto di questo contributo. L'esperienza si è svolta tra il gennaio e il luglio 2016. Si tratta di un progetto sperimentale denominato Progetto di Territorio-Laboratori Interattivi Tecnici (PT-LAIT). Costituisce una delle forme possibili per dare vita a processi interattivi con l'obiettivo di raccogliere idee e contributi per le

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politiche pubbliche di governo del territorio. L'esperienza si discosta dalle consolidate procedure “partecipative”, di discussione sociale. Nel caso esaminato i soggetti chiamati ad interagire con l'amministrazione sono tecnici progettisti ai quali vengono affidati mandati di progetto su quattro aree ritenute, dal soggetto promotore, strategiche per la qualificazione del territorio comunale. Il processo attiva quattro Gruppi Tematici, organizzati come ambienti di lavoro aperti senza tutoraggio esterno e senza la presenza della rappresentanza politica, se non in momenti controllati e limitati. Nei fatti, un modello riconducibile a Open Space Technology (OST), regolato semplicemente da un documento “guida” nel quale vengono identificati obiettivi, tempi, risultati attesi, impegni reciproci tra amministrazione e partecipanti. L'amministrazione determina, come primo atto formale, l'istituzione del Laboratorio e la sua attività con la predisposizione del percorso sperimentale dei Gruppi Tematici. Le linee guida, approvate dalla Giunta e dai partecipanti, costituisce il patto di reciproco affidamento. Il programma di lavoro, discusso e concordato con i partecipanti, prevede due fasi operative. La prima dedicata all'assestamento interno ai gruppi, alla formazione di un quadro analitico e alla definizione delle prime ipotesi progettuali. La


seconda dedicata alla conclusione dei lavori e alla predisposizione di tavole e relazioni per la presentazione pubblica. Tra le due fasi è previsto un incontro tra tutti i gruppi e l'amministrazione per un confronto intermedio in modo da circoscrivere l'interferenza nella definizione delle opzioni progettuali. A consuntivo si può affermare che lo schema, semplice e facilmente tracciabile, è stato sostanzialmente rispettato nei tempi, nell'intreccio tra fasi autonome e momenti di scambio tra gruppi e amministrazione, nei risultati ottenuti, anche per l'attività di coordinamento e monitoraggio affidato al Laboratorio. Gli esiti del processo possono essere valutati secondo almeno quattro indicatori. Il primo corrisponde alla strategia complessiva dell'amministrazione nei confronti dell'attivazione di pratiche interattive sul tema del governo del territorio. Il secondo attiene alla tattica utilizzata dal soggetto promotore nel controllare il ciclo che va dall'attivazione del processo fino alla sua conclusione, almeno fino alla fase attuale.

Il terzo è legato al carattere formativo dell'esperienza, intesa come capacità del modello adottato di fornire strumenti e prassi operative a progettisti e amministrazione. Il quarto riguarda gli sviluppi che esperienza ed esiti hanno reso più evidenti. Si tratta in questo caso di segnalare ipotesi di lavoro plausibili rimando in attesa di verificare le azioni concrete che verranno messe in campo nell'arco temporale della consigliatura. Dimensione strategica Nel lungo periodo sembra emergere l'intenzione da parte dell'amministrazione comunale di attivare un insieme di iniziative interattive sul tema del governo del territorio. A questa dichiarazione d'intenti si accosta il fatto che recentemente è stato approvato, dopo un lungo travaglio, lo strumento di pianificazione comunale. Questi due elementi, temporalmente ravvicinati, evidenziano una sostanziale insoddisfazione da parte dell'amministrazione per gli strumenti attuativi e operativi che il P.R.G. mette a disposizione nel dare soluzioni concrete, almeno rispetto ad alcuni nodi territoriali rilevanti. L'amministrazione va alla

1 - Area Mori Est. E' una vasta zona di cava inerti dismessa. L'ambito rappresenta la lente di collegamento tra lo spalto dell'insediamento principale e la depressione della valle dell'Adige. Il ripristino ambientale da parte del concessionario non è stato realizzato e quindi rimane in capo all'amministrazione comunale trovare una soluzione.

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ricerca di idee, ipotesi, architetture di parternariato pubblico/privato, che dilatino l'orizzonte delle alternative possibili e delle fattibilità. Tutto ciò attraverso una interazione estesa, esterna e libera, oltre il recinto delle rappresentanze politiche. La presenza nell'organigramma dell'amministrazione di una specifica delega sembra alludere alla possibilità di attuare, se non in forma ordinaria, almeno in forma consuetudinaria, la dilatazione dello spazio pubblico interagente. In questa prima fase, applicata ad alcune aree. In futuro, forse, rivolta al trattamento di tematiche trasversali come ambiente, mobilità, servizi, ecc., ovvero ai temi della gestione burocratica in un'ottica di semplificazione. Come pure una ulteriore prospettiva potrebbe essere quella di allargare la platea interagente coinvolgendo settori più ampi della comunità insediata. Queste prospettive non sono attualmente valutabili, nel concreto, e solo la transizione dalla fase sperimentale ad una fase più strutturata potrà dare risposte a queste che, per ora, possono essere considerate solo esiti possibili.


Dimensione tattica Il Laboratorio e i Gruppi Tematici si muovono su un terreno molto scivoloso e l'attuazione della strategia sopra descritta necessita di una particolare attenzione rispetto ai passi da compiere. Si segnalano almeno due problematicità che si sono evidenziate in questo primo processo. La prima è la relazione tra il dispositivo normativo e regolamentare che l'amministrazione deve rispettare e il carattere intrinsecamente informale di un ambiente interattivo come quello attivato. Su questo aspetto sono stati predisposti tutti gli atti di Giunta necessari per accreditare, nella forma, il Laboratorio come soggetto delegato alla predisposizione dei passi conseguenti. Il Laboratorio ha quindi gestito l'avvio, lo svolgimento e la chiusura delle attività in modo da rendere l'intero processo tracciabile, trasparente e rendicontabile. La gestione formalmente controllata dell'ambi-ente interattivo è una precondizione per rafforzare il dialogo con

l'ambiente normato dell'am-ministrazione pubblica. La seconda è legata al mondo professionale, che ha sollevato dubbi sulla legittimità della chiamata rivolta a professionisti iscritti agli Ordini Professionali. Le normative sulle prestazioni professionali tendono a proteggere le attività progettuali, in particolare nei confronti di committenze pubbliche. Su questo aspetto gioca un ruolo fondamentale l'accordo trovato tra amministrazione e professionisti sulla base delle linee guida dove, al fine di limitare fraintendimenti, viene richiesta l'espressione di progettualità definite a livello meta-progettuale in modo da mantenere le attività dei gruppi in un ambito extra normativo, propedeutico alla definizione di progetti nella forma prevista dalle norme. In questo quadro i gruppi sono stati instituiti in due incontri pubblici dove, con modalità interattive, senza dare soluzioni chiuse, si determinano candidature volontarie sulle aree di progetto;

2 - Ex Cantina Sociale. Il comparto, interno al corpo urbano, è affacciato sulla ex strada statale. L'arteria ha ora un ruolo e una funzionalità urbani a causa della recente apertura di una circonvallazione esterna che ha deviato gran parte del flusso viabilistico diretto nell'Alto Garda. L'area, ora dismessa, ha un'elevata rilevanza per la sua localizzazione oltre che un alto valore simbolico nell'immaginario locale.

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calendario dei lavori; individuazione di un portavoce per ogni gruppo con funzioni di coordinamento e controllo dell'auto organizzazione interna; tempi e modi di interazione con l'amministrazione; esiti attesi; modalità di restituzione pubblica. L'approccio è, in generale, improntato ad una grande prudenza e concretezza. Trattandosi di una attività sperimentale basata sulla autocandidatura volontaria dei partecipanti non è possibile pre-determinarne il numero e, conseguentemente, le aree di progetto da mettere in gioco. Inoltre l'adeguatezza di tempi complessivi e ritmo del processo, pur concordati, potranno essere valutati solo ex post. Infine, il livello di dettaglio e la forma di restituzione dei lavori, pur indicati nelle linee guida, dipendono molto dalle sensibilità dei partecipanti e dalle personali interpretazioni che ne verranno date. Il quadro incerto viene gestito con verbalizzazioni puntuali, monitoraggio delle attività per controlla-


re i tempi complessivi, verifica delle richieste espresse dai partecipanti, forma che dovranno avere gli esiti. Monitoraggio operato dai componenti del Laboratorio mantenendo il carattere libero e auto organizzativo dei gruppi. La valutazione consuntiva è che tempi, modi e obiettivi sono stati sostanzialmente rispettati. Qualche perplessità può essere sollevata rispetto alla definizione meta-progettuale degli esiti dove dovrebbero essere rappresentati principalmente obiettivi e azioni. Nei fatti gli elaborati assumono forma e contenuti molto vicini al concorso di idee con alcune tracce, significative, rispetto ai contenuti argomentativi sopra citati. Carattere formativo I gruppi si organizzano nella forma di Open Space Technology e al loro interno la relazione tra i partecipanti, libera da condizionamenti e interferenze, determina un modello di apprendimento tipico del learning by doing con il poten-

ziamento degli aspetti di cooperative learning. In questo senso, sul fronte dei partecipanti si determina un sostanziale apprezzamento e una auto valutazione più che positiva. Inoltre il riconoscimento di Crediti Formativi da parte dell'Ordine degli APPC di Trento costituisce un elemento molto interessante consolidando la possibilità di replicare il modello adottato. Si segnala anche un aspetto formativo sul fronte del soggetto promotore. La necessità di procedere con atti che consentano la tracciabilità e la rendicontabilità delle attività gioca, su questo secondo fronte, come stimolo per recuperare il significato, oltre la forma, delle attività di dimostrazione e argomentazione degli atti formali nei confronti di soggetti esterni all'amministrazione. In questo senso sarà importante verificare come l'amministrazione, assunti gli esiti progettuali, agirà attivando azioni concrete di governo come ad esempio bandire concorsi progettuali, predisporre varianti alla pianificazione, indirizzare risor-

3 - Ex Cinema Vittoria. Comparto nell'ambito di centro storico relativo ad una sala cinematografica ora dismessa. E' in relazione diretta con il torrente Cameras e con una area i cui destini sono incerti, essendo posta tra centro storico, l'ex strada statale e delle recenti espansioni insediative.

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se operative e finanziarie. Sviluppi possibili Il generale apprezzamento per l'esito di questa prima fase consente di ipotizzare possibili e interessanti sviluppi. Istituire in forma consuetudinaria dei workshop progettuali rende necessaria una programmazione pluriennale rispetto a temi/luoghi da sottoporre ai progettisti affinando ulteriormente i metodi per la loro selezione. Alcuni degli esiti dei gruppi mettono in evidenza l'assenza di una relazione con l'apparato municipale. Sarebbe auspicabile attivare tale relazione nel momento in cui si vanno a toccare aspetti strettamente normativi che attengono alla perequazione e alla compensazione, recentemente introdotti nel quadro provinciale. La sperimentazione ha creato aspettative rispetto al destino delle proposte presentate. La credibilità di questa forma interattiva si giocherà molto sulle iniziative che l'amministrazione metterà in campo


nel prossimo futuro, individuando forme di attuazione almeno per alcune delle progettualità presentate dai gruppi. Una particolare attenzione viene rivolta agli Ordini professionali per trovare forme di accordo più strutturate e cooperanti nell'ottica di estendere, nel tempo e in altri contesti, l'esperienza condotta. Per ultimo si segnala la possibilità di dilatare ulteriormente alla società insediata la pratica interattiva in modo da raccogliere ulteriori elementi qualitativi per lo sviluppo delle progettualità.

COMUNE DI MORILABORATORIO URBANISTICO/GRUPPI TEMATICI ORGANIGRAMMA FASE SPERIMENTALE 2016

FASE SPERIMENTALE 2016

AC

FASE ANALITICA INTERPRETATIVA

META-PROGETTO BOZZA

A/I

B

A/I

B

A/I

B

A/I

A/I

LABORATORIO URBANISTICO/ORG ANIZZATI VO

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FASE ISTIT. GIUNTA AC

FASE ISTIT. C.VALLE PAT

AC LAB GRUPPI

AC

FASE INTERATTIVA CON STAKEHOLDERS ?

I materiali completi della sperimentazioni di Mori, oltre che gli esiti di altri percorsi, sono depositati sul sito WEB di OSTEMI (Osservatorio territorialista milanese) http://produrreterritorio/wordpress.com.

4 - Loppio. Si tratta di un piccolo insediamento, con rilevanti presenze di edifici storici, porta di ingresso alla Val di Gresta e contermine all'omonimo lago dal quale defluisce il torrente Cameras. La frazione è attraversata dalla strada statale 240, che presenta un carico viabilistico importante per i flussi ordinari e turistici diretti nell'Alto Garda.

PRESENTAZIONE PROGETTO ?

Conclusioni In conclusione si vuole qui riportare l'attenzione su una questione specifica. Uno degli obiettivi dell'approccio interattivo al progetto potrebbe essere quello di depotenziare le relazioni gerarchiche cristallizzate nelle prassi decisionali e gestionali attinenti al governo del territorio. Per fare questo si suggerisce, come ipotesi, quella di abbandonare le definizioni topologiche consolidate come “dal basso”, “verticale”, “orizzontale”. Topologie, queste ultime, che accreditano un posizionamento gerarchizzato delle soggettività in gioco secondo le quali, ad esempio, lo stato è più in alto rispetto al cittadino. Le competenze cognitive chiamate a raccolta nei processi interattivi sono, di fatto, paritarie. Specifiche e differenziate per ogni soggetto ma comunque di pari dignità e valore. In questa prospettiva sembra più adeguato incorporare nel progetto un approccio, che potremmo chiamare interazionista, sottolineando l'aspetto della comunicazione intersogettiva tra pari. Un rapporto dialogico posizionato in uno spazio extra normativo dove hanno valore gli accordi e i patti di reciproco affidamento tra i soggetti. Solo in un momento successivo si potrà transitare in un ambito normato dove si renderà necessario il rispetto delle forme previste dall'apparato normativo e regolamentare vigenti.


Alcune letture di riferimento Jürgen Habermas 1986, Teoria dell'agire comunicativo, Il Mulino, Bologna. Herbert Blumer 2008, Interazionismo simbolico, Il Mulino, Bologna. Camilla Perrone 2010, DiverCity. Conoscenza, pianificazione città delle differenze, Franco Angeli, Milano. Alberto Magnaghi (a cura di) 2007, Scenari strategici, visioni identitarie per il progetto di territorio, Alinea, Firenze. Giorgio Ferraresi (a cura di) 2014, Il progetto di territorio, oltre la città diffusa verso la Bioregione, Maggioli, Milano. I partecipanti Alla sperimentazione hanno partecipato, oltre ai referenti dell'amministrazione, 11 donne e 22 uomini: 15 architetti, 10 ingegneri, 5 geometri, 1 sociologo, 1 Perito, 1 geologo. Per provenienza geografica, 16 sono di Mori, 8 di Rovereto, 4 di comuni del basso Trentino, 4 di Trento, 1 di Pergine. Referenti dell'amministrazione Stefano Barozzi, Sindaco; Nicola Mazzucchi, Assessore all'Urbanistica-Vicesindaco; Paolo Battocchi, consigliere; Lucia Silli, cons. delegata. Organizzazione del Laboratorio Urbanistico Arch. Alessia Buratti, ing. Claudio Lorenzi, arch. Francesca Odorizzi, geom. Lorenzo Prezzi, arch. Alessio Trentini Gruppo Centro Storico Arch. Sandro Aita, arch. Patrizia Albanese, arch. Graziano Baroni, geom. Paolo Bertolini, arch. Nicola Bianchi, ing. Marco Maraner, ing. Alessandra Scandola, arch. Alessandra Zanoni. Gruppo Piano D'azione Loppio Ing. Stefano Battocchi, ing. Lorenzo Canali, p.ind. Loris Cimonetti, geol. Gabriele Modena, arch. Federico Tomasoni, geom. Nunzio Zampedri.

2017

PROD

PROD

PROD

PROD

PRESENTAZ. FINALE GIUNTA AC

FASE RAPPRESENTAZIONE CON UNITN

FASE PRODUZIONE METAPROGETTO

Gruppo Piano D'azione Mori Est Arch. Gianluca Dossi, ing. Paolo Faustini, ing. Mirko Gazzini, ing Alessandro Lanaro, ing. Luigi Passamani, geom. Ursula Vivori, Geom. Debora Zenatti. Gruppo Ex Cantina Sociale Studente Davide Bassetti, ing. Matteo Bianchi, arch. Cinzia Bona, arch. Luca Eccheli, arch. Camilla Gazzini, arch. Giovanna Massari, arch. Daniela Salvetti.

PRESENTAZIONE FINALE PUBBLICA

ALTRO TEMA

ALTRO TEMA AC LAB GRUPPI

AC LAB GRUPPI

ALTRO TEMA

ALTRO TEMA

5 - Schema del processo

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ESPERIENZE DI PIANIFICAZIONE E PROGETTAZIONE PARTECIPATA IN TRENTINO

Azioni culturali per l'inclusione sociale. L'esperienza di Noi Quartiere a Trento di Francesco Gabbi*

* Francesco Gabbi Laureato in Sociologia all'Università di Trento e PhD in Politiche del Territorio allo IUAV di Venezia. Ha trascorso lunghi periodi di ricerca a Berlino dove ha studiato alcuni processi di riqualificazione territoriale in quartieri socialmente degradati. Ha avuto numerose esperienze come consulente nell'ambito dello sviluppo territoriale ed è stato titolare del corso "Sociologia Generale e del Territorio" al corso di Laurea triennale "Progettazione e pianificazione in ambienti complessi" allo IUAV di Venezia. Si occupa ora di politiche di sviluppo territoriale e politiche abitative con la società Community Building Solutions CBS Srl.

Fare cultura con il quartiere Tra il 2005 e il 2010 a Trento nascono e si consolidano alcune iniziative locali che provano ad utilizzare strumenti di tipo culturale per animare dei quartieri che nell'immaginario cittadino presentano qualche criticità. È il caso de Il fiume che non c'è nel quartiere di San Martino, poi di Animadante in Piazza Dante e successivamente ancora di Animagnete nel quartiere del Magnete, a Trento Nord. Questi progetti iniziano ad avere una massa critica piuttosto interessante per una piccola realtà come Trento, che sembra adeguarsi con qualche anno di ritardo ad un mainstream delle politiche di sviluppo urbano, che ormai ovunque vede cultura e creatività come motori di riqualificazione. Uno strumento, quello culturale, spesso utilizzato in modo acritico e trattato al pari di una panacea in grado di superare ogni ostacolo e difficoltà che riguarda le nostre città. Il caso di Noi Quartiere è però interessante in quanto gli attori dietro a questi progetti erano cooperative sociali, soggetti che utilizzavano lo strumento culturale in modo deliberatamente strumentale, non dunque come fine, bensì come mezzo per promuovere l'inclusione sociale e la coesione territoriale. Il successo di queste iniziative non passa inosservato e attorno al 2011 il consorzio di riferimento

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per le cooperative sociali trentine, Con.Solida, mette in rete alcuni dei protagonisti delle precedenti progettualità (il Servizio attività sociali del Comune di Trento – in particolare i Poli Sociali Oltrefersina-Mattarello e Gardolo-Meano – le cooperative sociali Kaleidoscopio, Progetto 92, Delfino, Arianna e l'associazione culturale Il Funambolo) e partecipa al bando "Comunità attiva, sostenibile, si-cura" sull'Area “Valorizzazione, vivibilità e fruibilità degli spazi pubblici” della Provincia Autonoma di Trento con il progetto “Noi Quartiere”. “Noi Quartiere”, nella sua prima edizione, si rivolge a due quartieri rispettivamente all'estremo nord della città di Trento, Spini di Gardolo, e a sud, Madonna Bianca/Villazzano 3 e mira ad attivare percorsi di partecipazione attiva e comunitaria della popolazione utilizzando lo strumento culturale per fare prevenzione sociale, prevenire le condizioni di insicurezza dei cittadini e promuovere sviluppo di comunità. Si tratta di un progetto che fin da subito vuole lavorare in modo fortemente partecipato e che cerca di sintetizzare in tre step successivi quanto sperimentato nei progetti precedenti, creando una struttura potenzialmente replicabile ed esportabili in vari contesti: 1. ascoltare il quartiere;


2. 3.

co-progettare con il quartiere; co-produrre un evento culturale.

Riattivare il senso di comunità Il progetto considerava il concetto di sicurezzaurbana come un prodotto direttamente proporzionale alla presenza di relazioni di qualità tra le persone in un dato territorio. Da qui ne derivava che per intaccare o ridurre il senso di insicurezza, fosse necessario agire sulle relazioni e riattivare un senso di comunità che sembrava essere perduto. In questo senso gli obiettivi specifici del progetto erano: · coinvolgere tutta la cittadinanza, in particolare i soggetti più fragili ed a rischio, in particolare gli anziani, nell'identificazione degli spazi pubblici degradati e/o poco utilizzati in cui operare, nella progettazione e nella realizzazione degli interventi socio culturali di valorizzazione e animazione degli stessi; · riqualificare, attraverso tali proposte socio culturali aperte a tutta la città, gli spazi pubblici identificati presenti nel quartiere; · riattivare un senso di comunità nei quartieri attraverso il fare insieme teso al consolidamento di legami forti e duraturi. Il risultato atteso era dunque che attraverso la valorizzazione ed animazione degli spazi pubblici individuati dai cittadini con proposte socio culturali da loro stessi progettate e realizzate, si potesse contribuire a ricreare un tessuto comunitario caratterizzato da legami forti, condizione propedeutica per contenere ed arginare fenomeni di abbandono o degrado sociale. Le attività Nel corso del progetto sono state realizzate le seguenti attività: 1. Azione di ascolto e coinvolgimento rivolta ai cittadini: attraverso interviste individuali, questionari ed incontri sul territorio sono stati ascoltati i cittadini del quartiere per capire la loro percezione della qualità della vita e raccogliere idee e proposte, ma soprattutto la disponibilità a fare ed immaginare assieme le attività del progetto; 2. Costituzione e attivazione di un tavolo di progettazione partecipata di proposte socio-culturali: sono stati organizzati 4

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incontri con i cittadini per discutere le percezioni ed i bisogni emersi nella fase di ascolto e per decidere assieme alle organizzazioni locali. Realizzazione delle proposte socio culturali di valorizzazione e animazione del quartiere grazie al contributo dei cittadini e al gruppo di lavoro che si è costituito. Si è giunti così alla realizzazione di una serie di eventi e attività culturali e costituito un Fondo di partecipazione per gli eventi e le attività che i cittadini e i componenti del tavolo progetteranno il prossimo anno.

Il progetto “Noi Quartiere”, che ha avuto una durata di 18 mesi, dal febbraio 2012 all'agosto 2013, è stato seguito dal progetto “Noi Quartiere: ci siamo”, durato nel corso del 2014 e finanziato sempre dalla Provincia Autonoma di Trento sull'area di azione “Cultura ed educazione alla legalità. Tutela dei diritti e prevenzione della vittimizzazione”. Con “Noi Quartiere: ci siamo” il progetto si amplia, includendo un'altra zona di Trento, oltre alle due già toccate da “Noi Quartiere”: il quartiere di San Pio X e nello specifico la zona dei cosiddetti “Casoni”: un insieme di 605 appartamenti costruiti negli anni '20 come edilizia residenziale pubblica. Le ricadute di “Noi Quartiere” e “Noi Quartiere: ci siamo” Madonna Bianca /Villazzano 3 - Attivazione stabile di gruppi di abitanti. Il Tavolo Torri ha gemmato ed attivato un gruppo di abitanti che si riunisce in modo ricorrente senza la necessità di coordinamento da parte di soggetti esterni, svolge attività di doposcuola e nel 2016 si è costituito come associazione per arrivare a gestire in modo volontario la biblioteca pubblica zonale; - produzione di nuovi luoghi di identità: il progetto ha contribuito in modo sostanziale a rendere la Casa del Sole un luogo di incontro stabile per gli abitanti. Questo risultato è stato positivo sia per gli abitanti che per la struttura di cura stessa. Spini di Gardolo - Formazione di nuovi gruppi di interesse: A Spini di Gardolo sono stati impiegati due operatori in pianta stabile con l'obiettivo di cucire e creare nuove identità. Complessivamente si è assistito alla formazione di almeno 4 gruppi stabili di abitanti

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(es. gruppo preghiera) che dispongono in misura variabile di una certa autonomia organizzativa e identitaria. - Formazione di una nuova centralità urbana: il progetto ha avallato il processo più o meno spontaneo di produzione di una nuova centralità urbana del quartiere di Spini, caratterizzando la nascita di una nuova piazza che attualmente gli abitanti riconoscono come tale, ma che è ancora senza un nome. - Dialogo tra associazioni: grazie al progetto Noi Quartiere Ci siamo è stato possibile non solo colmare le distanze tra la cooperativa e l'associazione storica di abitanti degli "Amizi del Pont dei Vodi" vincendo la diffidenza di questi ultimi, ma anche fare in modo che le associazioni del luogo unissero i loro sforzi in iniziative comuni trovando così delle sinergie. Noi Quartiere da un punto di vista organizzativo ha quindi contribuito al coordinamento del terzo settore locale in modo determinante. Conclusioni I risultati raggiunti si dimostrano maggiormente efficaci nel lungo periodo se riescono a cambiare la percezione degli abitanti rispetto al contesto in cui vivono. Per fare questo appare indispensabile che vi sia collaborazione fattiva e prolungata della popolazione residente alla realizzazione del progetto. Le linee di lavoro comuni ai tre quartieri su cui proseguire paiono le seguenti: · irrobustire l'organizzazione dei gruppi di abitanti attivati promuovendo la progettazione di interventi mirati e utili al quartiere; · consolidare la formazione di nuovi luoghi di identità: come testimonia il caso di Spini e in parte quello delle Torri, Noi Quartiere mostra che i cambiamenti prodotti sono maggiormente efficaci se riescono radicarsi nello spazio; · per realizzare i due obiettivi di cui sopra occorre attivare una qualche forma di coordinamento dei vari gruppi di abitanti attivati grazie a Noi Quartiere all'interno di un progetto comune che sappia valorizzare la loro esistenza e la legittimi anche in opportune sedi istituzionali, come i vari tavoli di lavoro istituiti dai Poli Sociali o presso la Circoscrizione.


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ESPERIENZE DI PIANIFICAZIONE E PROGETTAZIONE PARTECIPATA IN TRENTINO

Esperienze recenti di partecipazione in Trentino di Silvia Alba, Fabrizio Andreis e Silvia Ferrin*

Una analisi degli esiti secondo i principi della Carta della Partecipazione

* Fabrizio Andreis e Silvia Ferrin Architetti, formano con Silvia Alba il GruppoPalomar spazio e partecipazione, che dal 2000 si occupa di progettazione partecipata e facilitazione di percorsi inclusivi in ambito urbano e territoriale. Il gruppo ha elaborato progetti partecipati riguardanti spazi verdi pubblici e cortili scolastici, ha gestito processi sui temi della sostenibilità, del riuso di spazi urbani, della mobilità dolce e della sicurezza.

Un seminario sulle esperienze di partecipazione inTrentino Nello scorso mese di marzo si è svolto a Lavis, in Provincia di Trento, un incontro pubblico¹ dedicato alla presentazione della Carta della Partecipazione, il documento sviluppato e sottoscritto da alcune fra le più note organizzazioni che si occupano di partecipazione pubblica dei cittadini, in particolare INU, Aip2, Iaf, Italia Nostra, Cittadinanzattiva e Città civili Onlus². Lo scopo dell'incontro era di fornire un contributo alla cultura della partecipazione dei cittadini alle decisioni, contribuendo a sviluppare linguaggi e valori condivisi. La Carta, in breve, definisce 10 principi basilari necessari ad assicurare che la partecipazione dei cittadini alle decisioni sia effettiva e di qualità e non rimanga una procedura astratta ed inefficace. Si tratta, in primis, del principio dell'informazione, in quanto il coinvolgimento della comunità non è possibile se non sono messe a disposizione, in maniera immediata e trasparente, le informazioni pertinenti. Poi il principio di inclusione, che segnala l'importanza di aprire il processo decisionale oltre gli stakeholder tradizionalmente consultati. Seguono: il principio di efficacia, che pone la necessità di coinvolgere i cittadini su temi centrali e non su questioni laterali e irrilevanti; quello di equità, che comporta la

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valorizzazione di tutte le opinioni; quello di armonia, che attiene all'utilizzo di attività e strategie mirate alla ricomposizione, piuttosto che alla polarizzazione. Semplice ma sostanziale è il principio del render conto, che impone che in ogni fase siano resi pubblici i risultati, comprendendo le argomentazioni e le motivazioni che hanno portato all'accoglimento o al non accoglimento delle proposte emerse. Infine, il principio di valutazione, che include tutti gli altri: per essere credibile, il processo va valutato anche assieme ai partecipanti, e i risultati devono essere pubblici e comprensibili. La Carta si propone inoltre come uno strumento opensource, cioè vivo e in movimento, aperto ai contributi che emergeranno dal suo concreto utilizzo sul territorio, diventando snodo della rete degli attori che ne condividono gli obiettivi. La Carta della Partecipazione come strumento di analisi delle esperienze locali L'incontro di Lavis - organizzato da INU Trentino in collaborazione con il Comune di Lavis, AIP2 e gruppo Palomar spazio e partecipazione - si prefiggeva di raggiungere alcuni obiettivi adottando tecniche e modalità partecipative: • presentare la Carta in Trentino, nel Comune che l'aveva formalmente adottata con


una delibera del Consiglo Comunale; • sperimentarne il suo utilizzo come strumento operativo in grado di leggere, analizzare e confrontare alcune esperienze di partecipazione pubblica del territorio. Entro questo contesto, si sviluppa di seguito l'ultimo punto, cercando di guardare più da vicino le esperienze presentate a Lavis. In breve, sono esperienze molto diverse fra loro per committenza, tipologia, obiettivi e scala di intervento, complessità, modalità di attivazione, di finanziamento e di gestione del processo, ma anche per le diverse interpretazioni della partecipazione. Le esperienze, brevemente descritte nelle schede, spaziano nei campi della pianificazione, della progettazione urbana e territoriale, dell'animazione locale e dello sviluppo sostenibile più in generale, toccando gran parte della provincia, dal capoluogo alle vallate montane. Si tratta di una selezione parziale di quanto sta succedendo sul territorio ma sicuramente significativa, che consente di tracciare un primo quadro dello stato della partecipazione fino ad ora fatta in Trentino e di comprendere quanto queste esperienze riflettano i principi della Carta della Partecipazione. Le esperienze selezionate sono le seguenti: • Futura Trento - Comune di Trento; • Farcentro: Nuovi spazi pubblici per Scancio Comune di Segonzano; • Noi quartiere – ConSolida; • Parco fluviale della Sarca; • Parcobaleno: Parco pubblico delle Braile Comune di Arco; • Partecipa alla sicurezza. La comunità si-cura. Comunità della Val di Non; • Progetto Vallelaghi: la fusione dei Comuni di Vezzano, Terlago e Padergnone; • Tavolo di confronto e consultazione PTC Alta Valsugana e Bersntol. I risultati dell'autovalutazione Il seminario si è sviluppato con dei tavoli di discussione nei quali i protagonisti delle esperienze e i convenuti hanno riletto gli otto processi attraverso i principi della Carta. Sono emersi alcuni spunti di autovalutazione su come viene praticata partecipazione in Trentino. In breve, questi sono i principali risultati emersi³:

Cooperazione, Fiducia, Informazione. tori della partecipazione, che in Trentino sono Sono i 3 principi che più ricorrono nella descriprevalentemente le istituzioni pubbliche (cozione delle esperienze presentate e costituiscomuni, comunità di valle, provincia), a coinvolno le premesse per un processo partecipativo gere direttamente i cittadini. di qualità. Al tempo stesso sono le condizioni necessarie per condividere scelte, idee, tempo Interazione costruttiva Tutte o quasi le esperienze presentate hanno ed energie. In molti casi è proprio la cooperarispettato questo principio, che è un'altra conzione la molla che fa scattare il percorso partedizione importante della partecipazione. I soncipativo, mentre la fiducia ne rappresenta la daggi, le indagini, i “like” sono una sommatospina dorsale, valore quest'ultimo che però ria di individualità e opinioni personali. La pardeve essere mantenuto alto in ogni fase del tecipazione è altro, e produce risultati che processo anche attraverso trasparenza ed equisono maggiori della somma delle parti che tà. L'informazione deve essere efficace e acceshanno concorso a realizzarli, perché prevede sibile a tutti, in quanto fattore considerato crula compresenza dei partecipanti in un luogo ciale all'interno del processo partecipativo ma fisico, la loro interazione e il raggiungimento non sempre scontato. Sicuramente di un risultato tangibile. E' questa l'essenza l'informazione è funzionale alla creazione e al della partecipazione: persone che si incontramantenimento della fiducia fra gli attori e nel no, discutono e progettano insieme soluzioni processo stesso. La partecipazione sembra che, superando il singolo interesse, diventano quindi godere in Trentino di buone basi per costruzione creativa della collettività. radicarsi come approccio per la convivenza democratica, ma bisogna tuttavia essere consapevoli che tale capitale sociale accumulato è Efficacia e Valutazione La parte dolente arriva quando si prova a capialtamente volatile e può degradarsi facilmente re se le esperienze presentate hanno avuto un se non viene adeguatamente rivalutato. La riscontro nelle scelte intraprese dal decisore pratica diffusa della partecipazione può essere pubblico e se i processi partecipativi sono stati uno dei modi per mantenere tale capitale, ma di qualità. In generale, vale la regola del surfivanno rispettate alcune condizioni. sta: “una volta persa, quell'onda non ritorna uguale”; vale a dire che se le persone coinvolte Render conto non vedono rispettato il proprio impegno, E' un'altra condizione essenziale che deve essenon parteciperanno più in seguito. Non si tratre presente in un processo partecipativo e che ta di assumere acriticamente i risultati dei prorende tale approccio diverso dalle normali prascessi partecipativi nelle decisioni pubbliche. Il si delle politiche pubbliche. Nelle esperienze punto è che il decisore deve impegnarsi a tenepresentate è stato confermato che garantire la re conto di quanto emerso dalla partecipaziotracciabilità dei processi e dei passaggi attrane e a rendere conto ai partecipanti e alle verso i quali prendono forma le scelte di politica comunità di come ha preso forma la decisiopubblica, i progetti e i piani, permette di ne. Perché questo si verifichi è necessario che apprezzare il valore aggiunto della partecipail decisore pubblico sia consapevole della zione. potenza dello strumento partecipativo, che Inclusione può portare lontano se usato bene, ma può In Trentino emerge che nei processi parteciessere, al contempo, controproducente se pativi vengono coinvolti prevalentemente usato senza una corretta valutazione comdegli stakeholders di tipo istituzionale, vale a plessiva del processo. E questa deve avere dire dei rappresentanti di enti pubblici e di luogo ex ante, in itinere ed ex post, al fine di organismi privati. Si tratta di una scelta che comprendere da dove si parte, dove si vuole spesso si rivela una rischiosa semplificazione, arrivare e come si arriva. che rischia di rendere i processi partecipativi simili ai normali procedimenti di negoziazione o concertazione che avvengono in occasione di ogni scelta di politica pubblica. Si avverte una sorta di ritrosia da parte degli enti promo-

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Conclusioni Dalla panoramica delle esperienze presentate non è possibile, delineare un quadro esaustivo dello stato della partecipazione in Trentino, ma è possibile avanzare alcune considerazioni di carattere generale. Si parte ovviamente dalle persone, dalla loro attenzione e reazioni nei confronti delle proposte partecipative. In tutte le esperienze, la risposta è stata più che positiva: la partecipazione ha avuto un ruolo, definendo il Trentino un territorio in cui il rapporto di fiducia tra cittadini ed istituzioni e i legami culturali tra abitanti e luoghi sono ancora positivi. Le diverse scale delle esperienze presentate dimostrano la vivacità e la voglia di sperimentare nuovi strumenti di governo, tanto da parte di enti maggiori e sovraordinati quanto da parte di piccole realtà comunali. Un grande assente risulta essere il settore privato, che in Trentino sembra non aver ancora colto le opportunità offerte dall'approccio partecipativo nella gestione delle dinamiche interne dell'azienda e delle relazioni tra azienda e territorio. Sicuramente la varietà degli approcci e dei metodi può essere considerata una ricchezza, però si deve anche considerare che per il Trentino l'applicazione di metodologie partecipative alla formazione di scelte e politiche pubbliche è ancora considerata un novità, mentre altrove è da decenni una realtà consolidata che ha prodotto e produce letteratura e casistiche. È quindi necessario cominciare a considerare l'opportunità di agire su due ambiti molto importanti: da un lato, sviluppare all'interno delle istituzioni la “cultura della partecipazione”, facendo conoscere i diversi approcci e le metodologie partecipative agli apparati amministrativi degli enti e, dall'altro, ragionare sulla creazione di un “osservatorio della partecipazione” in grado di monitorare, raccogliere e valutare le esperienze realmente prodotte dal territorio quale strumento di riferimento e promozione della partecipazione.

Seminario di Lavis - marzo 2016 -I gruppi al lavoro

Momenti di confronto nei tavoli di lavoro

Note 1. “La Carta della Partecipazione. Esperienze trentine in workshop”, Lavis (Trento), 10 marzo 2016. 2. http://www.inu.it/la-carta-della-partecipazione. 3. Il Report del workshop di Lavis può essere scaricato dal sito: http://aip2italia.org/la-cartadella-partecipazione-esperienze-trentine-inworkshop.

La riunione plenaria di conclusione Foto Gruppo Palomar

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Foto Gruppo Palomar

Casi di partecipazione in Trentino schede a cura di: GruppoPalomar spazio e partecipazione

1. Parcobaleno: parco pubblico delle Braile Localizzazione In prossimità dell'ospedale. Comune di Arco di Trento

2. Fiducia 3. Informazione 4. Inclusione 5. Efficacia 6. Interazione costruttiva 7. Equità 8. Armonia (o riconciliazione) 9. Render conto 10. Valutazione

Fase/i di intervento Concluso Descrizione del caso di studio - Committente: Amministrazione comunale di Arco. - Consulente: gruppo Palomar spazio e partecipazione . - Che cos'è: Realizzazione di un nuovo parco pubblico urbano alternativo a quelli esistenti, partecipato con i cittadini, accessibile e aperto a tutti, flessibile, modificabile, interpretabile nel tempo, sostenibile dal punto di vista ambientale e finanziario, riconoscibile per diventare un luogo di riferimento per le diverse categorie della cittadinanza che hanno contribuito e contribuiranno alla sua creazione. Il parco misura circa 2500 mq. - Fasi del processo: 1. progettazione partecipata: 2010-11 che ha coinvolto i bambini e i ragazzi delle scuole primarie e secondarie della città di Arco; 2. progettazione preliminare, definitiva, esecutiva: 2011-2013; 3. appalto e realizzazione: 2014 -2015; 4. inaugurazione primo stralcio: giugno 2015. - Contenuti: 1. unità paesaggistiche: il bosco, la radura, il prato, il dosso, la collina, l'orto urbano; 2. unità tematico-funzionali: i luoghi dell'incontro e dell'azione, la fascia urbana; 3. sistema delle relazioni: l'ospedale, l' asilo nido, l'olivaia storica, il centro città. - Costo: circa 700.00 Euro

Cosa ci insegna questo Caso di Studio: Per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, in un momento di difficoltà finanziaria come quello attuale, si sono rivelati particolarmente efficaci i seguenti elementi: - il Tavolo di lavoro permanente era composto dagli assessorati interessati, dagli uffici tecnici e amministrativi e dal gruppo consulente. Il tavolo ha seguito il processo in maniera costante, monitorandone le varie fasi e individuando le strategie e gli strumenti più idonei al contesto. Ne è scaturito un progetto diverso da quello classico: strutturato per stralci, pensato per accogliere le indicazioni che usciranno dalle future fasi di coinvolgimento dei cittadini ricercando sempre elementi che arricchiscano il progetto di valore sociale e di valori in generale per sviluppare spirito di appartenenza al luogo e alla comunità; - la progettazione partecipata che ha coinvolto i bambini e i giovani come cittadini di oggi a pieno diritto e quindi come portatori di specifiche competenze nell'uso degli spazi e dei tempi ha fornito agli adulti, amministratori politici e tecnici progettisti, visioni progettuali in grado di includere le esigenze di tutti: bambini, adulti, famiglie, anziani, diversamente abili, animali, ….

Il Caso di Studio tocca i seguenti articoli della Carta della Partecipazione: 1. Cooperazione

Autori della scheda: gruppo Palomar spazio e partecipazione, consulente Bianca Maria Simoncelli, dirigente Comune di Arco

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2. FuturaTrento Localizzazione Comune di Trento

coinvolgeranno i giovani in maniera diretta nell'opera di riqualifacazione di alcuni spazi pubblici della città. Il progetto, risultato vincitore del bando Meetyoungcities: social innovation e partecipazione per i giovani dei comuni italiani, si svolge tra giugno 2015 e giugno 2016 ed è co-finanziato dall'Agenzia Nazionale Giovani.

Fase/i di intervento In corso Descrizione del caso di studio “FuturaTrento. Bene comune. I giovani si prendono cura di spazi urbani Il bello ci salverà” coinvolge giovani e non nella progettazione e rigenerazione degli spazi urbani della città di Trento.

FuturaTrento OFFRE: - uno spazio (online e offline) di promozione, condivisione e coprogettazione di idee collegate alla gestione dei Beni Comuni; - un canale privilegiato di comunicazione con l'Amministrazione comunale e con l'intera comunità; - uno strumento adatto alla creazione di reti virtuose di cittadini, capaci di mettere in comune competenze, interessi, risorse e materiali; - continua possibilità di confronto su idee innovative per la smart city; - opportunità di partecipazione e protagonismo ai giovani e alle giovani dai 16 ai 35 anni; - a tutta la cittadinanza un processo di sperimentazione per la gestione condivisa dei Beni Comuni, dentro un rinnovato principio di sussidiarietà.

L'obiettivo è di sviluppare un'economia condivisa e fare di Trento una Smart City, città intelligente, nella quale il capitale umano, sociale, ambientale e l'innovazione si incontrino per migliorarla. L'Amministrazione Comunale è capofila del progetto finanziato dall'Agenzia Nazionale Giovani all'interno del bando MeetYoungCities. Ha raccolto attorno all'idea di una piattaforma web per la gestione condivisa dei Beni Comuni una serie di partner attivi sul territorio comunale: Impact Hub, Fondazione Bruno Kessler-FBK, MUSE, UISP, Cooperativa Sociale Arianna, Tavolo delle Associazioni Universitarie di Trento-TAUT, Associazione Giovani della Cassa Rurale di Trento, Associazione Orienta e Liceo Scienze umane ed economico sociale A. Rosmini. L'Amministrazione assume il ruolo di regia del progetto, garantendone l'apertura, l'operatività e la trasparenza. La sfida che il Comune di Trento raccoglie è quella di rendere la città più smart, più collaborativa, più capace di rendere ogni cittadino protagonista del suo miglioramento. I giovani sono stimolati a mettersi in gioco per acquisire consapevolezza delle proprie potenzialità, valorizzando le proprie competenze e mettendole a disposizione dell'intera collettività. Saranno i giovani a reimmaginare il contesto urbano, riappropriandosi degli spazi urbani e ridefinendone gli usi. Saranno co-responsabili nell'attuazione di misure di sostenibilità ambientale e nella presa in carico di alcuni spazi urbani, attraverso forme espressive giovanili legate all'arte e allo sport. Una fitta programmazione di eventi – caffè dibattito, video-interviste, salotti sociali - stimoleranno una riflessione partecipata sui giovani e gli spazi della città. Workshop, contest, giochi urbani e installazioni

FuturaTrento ha bisogno: - delle idee dei cittadini e della loro collaborazione; - del dialogo tra i cittadini; - del dialogo tra cittadini e Amministrazione; - dell'attivazione delle comunità; - di punti di vista diversi, di capacità relazionali; - di curiosità, attenzione, costanza, passione; - di chiunque si senta attratto dal progetto e abbia voglia di farne parte.

Foto Federico Zappini

5. Il Caso di Studio tocca i seguenti articoli della Carta della Partecipazione: 1. Cooperazione 2. Fiducia 3. Informazione 4. Inclusione 5. Efficacia 6. Interazione costruttiva 7. Equità 8. Armonia (o riconciliazione) 9. Render conto 10. Valutazione 6. Cosa ci insegna questo Caso di Studio: In estrema sintesi gli insegnamenti che riceviamo da questa esperienza sono principalmente tre: - la partecipazione reale può essere solo (in Trentino, in maniera particolare) nel momento in cui le Amministrazioni sono disposte a perdere un po' di controllo rispetto ai processi e dall'altro lato i cittadini si assumono con convinzione il compito di essere protagonisti della rigenerazione dei beni comuni urbani; - la tecnologia da sola non produce partecipazione. Una piattaforma senza reali relazioni di comunità rimane muta; - il tema della partecipazione e della sussidiarietà non va confuso con il volontariato. Autore della scheda: Federico Zappini, Animatore di comunità per Impact Hub Trentino

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3. Farcentro: nuovi spazi pubblici per Scancio Localizzazione Comune di Segonzano, Frazione di Scancio

Il Caso di Studio tocca i seguenti articoli della Carta della Partecipazione: 1. Cooperazione 2. Fiducia 3. Informazione 4. Inclusione 5. Efficacia 6. Interazione costruttiva 7. Equità 8. Armonia (o riconciliazione) 9. Render conto 10. Valutazione

Fase/i di intervento In corso Descrizione del caso di studio - Committente: Amministrazione comunale di Segonzano; - Consulenza: gruppopalomar spazio e partecipazione; - Che cos'è: Scancio è il nucleo baricentrico rispetto al sistema di borghi che compone il Comune di Segonzano; al centro dei Scancio c'è il comparto delle scuole, del Municipio con un consistente insieme di spazi pubblici sotto- o mal-utilizzati. Il progetto Farcentro punta alla riqualificazione partecipata di questi spazi introducendo una nuova idea di centro: accessibile a tutti, dotato di spazi di relazione, di svago e di relax, con cortili scolastici ben disegnati e a misura di bambino, con percorsi ciclo pedonali piacevoli, con un sistema di parcheggi di attestamento e con un arredo urbano unitario e riconoscibile. - Fasi del processo: 1. fase di ascolto con la cittadinanza: 2010-11, che ha coinvolto i bambini, i ragazzi, gli adulti, le associazioni e i gruppi attivi del paese; 2. progettazione preliminare, ricerca del finanziamento, acquisizione di alcune aree funzionali al progetto: 2011-2014; 3. progettazione definitiva ed esecutiva: 2014-16; 4. appalto: in corso; - Costo: 1.160.000,00 Euro.

Cosa ci insegna questo Caso di Studio: La partecipazione si è rivelata uno strumento efficace nella definizione condivisa dello spazio pubblico. Il percorso partecipato è stato strutturato per far emergere l'insieme dei valori e delle caratteristiche che devono avere i luoghi centrali del paese per essere percepiti come tali dalla comunità intera. Difficoltà nel conciliare i tempi della partecipazione con la rigidità della normativa in materia di lavori pubblici. Autori della scheda gruppo Palomar spazio e partecipazione, consulente; Cristina Ferrai e Giorgio Mattevi, ex amministratori Comune di Segonzano.

4. Progetto Vallelaghi: la fusione dei Comuni Localizzazione Comune di Vallelaghi

Il Caso di Studio tocca i seguenti articoli della Carta della Partecipazione:

Fase/i di intervento In corso

1. Cooperazione 2. Fiducia 3. Informazione 4. Inclusione 5. Efficacia 6. Interazione costruttiva 7. Equità 8. Armonia (o riconciliazione) 9. Render conto 10. Valutazione

Descrizione del caso di studio I Comuni di Vezzano, Terlago e Padergnone hanno avviato un processo di fusione che ha portato alla nascita, dal 1 gennaio 2016, del Comune Vallelaghi. Questo processo ha previsto alcune fasi di coinvolgimento della popolazione per spiegare i motivi e i vantaggi della fusione e anche per sondare il parere dei cittadini. Questa fase non è stata seguita direttamente dall'autore della scheda, ma indirettamente, in quanto presidente della Comunità di Valle. Infatti, 5 Comuni su 6 della Comunità sono andati a fusione; anche Calavino e Lasino si sono fusi in Madruzzo. Sul fronte della partecipazione e del coinvolgimento si sarebbe potuto fare molto di più, ma rimane ancora molto spazio perché la fusione inizia con un referendum ma continua con una graduale costruzione di un'identità' comune. E' un processo lungo che non può prescindere da un reale ed efficace percorso di coinvolgimento e di nuovo protagonismo dei cittadini nell'amministrazione. E' quello che si intende fare con il “Progetto Vallelaghi”.

Cosa ci insegna questo Caso di Studio: Il processo di fusione è un percorso lungo. La partecipazione e il protagonismo dei cittadini sono fondamentali per costruire insieme un modo di sentire e di vedere il contesto territoriale. Promuovere partecipazione significa cedere potere, non solo informare. Autore della scheda Luca Sommadossi, Presidente della Comunità di Valle fino a luglio 2015.

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5. Noi Quartiere: Ci Siamo Localizzazione Tre quartieri di Trento: Spini di Gramolo, San Pio X e Madonna Bianca/Villazzano 3

Il Caso di Studio tocca i seguenti articoli della Carta della Partecipazione: 1. Cooperazione 2. Fiducia 3. Informazione 4. Inclusione 5. Efficacia 6. Interazione costruttiva 7. Equità 8. Armonia (o riconciliazione) 9. Render conto 10. Valutazione

Fase/i di intervento Concluso Descrizione del caso di studio Il progetto “Noi Quartiere: ci siamo” è la continuazione del progetto “Noi Quartiere” realizzato nel corso del 2012 e terminato il 30 agosto 2013, sempre nell'ambito del Bando “Comunità attiva, sostenibile, sicura”. A differenza del primo (presentato sull'Area “ Valorizzazione, vivibilità e fruibilità degli spazi pubblici”), la nuova proposta rientra nell'Area di Azione “Cultura ed educazione della legalità. Tutela dei diritti e prevenzione della vittimizzazione”. In particolare, la tipologia d'intervento riguarda l'attivazione di percorsi e attività di educazione alla convivenza e alla partecipazione civica attraverso, anche e soprattutto, la predisposizione di “spazi” di incontro e del fare assieme. Sinteticamente, il progetto avrà luogo in tre quartieri di Trento (Spini di Gardolo, San Giuseppe e San Pio X, Madonna Bianca e Villazzzano 3) e prevede quattro macro fasi: 1. Fase di ascolto: predisposizione di punti di comunità per incontrare i cittadini, rilevare gli interessi degli stessi in riferimento ai temi della sicurezza, vivibilità e interessi/disponibilità personali, restituire pubblicamente quanto è emerso; 2. Fase del fare: realizzazione di 15 laboratori di incontro inerenti gli interessi rilevati dai cittadini; 3. Fase della co-progettazione: tramite la metodologia “world caffè”, coinvolgere i cittadini che hanno partecipato ai laboratori del fare nella progettazione di tre attività socio-culturali nell'ambito dei tre tavoli di co-progettazione che vedranno la presenza delle organizzazioni formali ed informali dei rispettivi quartieri; 4, Fase della realizzazione: animazione della comunità attraverso le tre attività socio culturali co-progettate.

Cosa ci insegna questo Caso di Studio: Il maggior insegnamento che ci restituisce il progetto “Noi Quartiere: ci siamo” è che nel momento in cui si aprono gli spazi alla progettazione degli individui e dunque per certi versi si incentiva l'auto organizzazione degli stessi, i risultati sono spesso sorprendenti. Spesso è infatti la presenza delle istituzioni ad impedire la partecipazione. Nel momento in cui le istituzioni fanno un passo indietro, lo spazio lasciato libero viene colmato dai cittadini che riescono ad auto-organizzarsi. Autore della scheda Francesco Gabbi, coordinatore del progetto per conto di Con.Solida.

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6. Partecipa alla sicurezza - La Comunità si-cura Localizzazione Comunità della Valle della Valle di Non

Il Caso di Studio tocca i seguenti articoli della Carta della Partecipazione:

Fase/i di intervento Concluso

1. Cooperazione 2. Fiducia 3. Informazione 4. Inclusione 5. Efficacia 6. Interazione costruttiva 7. Equità 8. Armonia (o riconciliazione) 9. Render conto 10. Valutazione

Descrizione del caso di studio Coinvolgimento degli abitanti dei 38 Comuni della Val di Non per definire strategie condivise sul tema della sicurezza e della vivibilità. Committente: Comunità della Valle di Non, 2012-14. L'iniziativa “Partecipa alla sicurezza la Comunità si-cura” è stata promossa dalla Comunità della Val di Non e si inserisce nel sistema integrato di sicurezza della Provincia Autonoma di Trento (legge n. 8 del 2005) che prevede politiche sociali di sviluppo e di prevenzione finalizzate all'incremento della sicurezza dei cittadini. Le attività sono iniziate con il coinvolgimento delle forze dell'ordine, dei vigili del fuoco volontari e della protezione civile, delle commissioni assembleari della Comunità. La partecipazione è stata allargata in seguito ai cittadini e alle associazioni locali per approfondire le questioni emerse nelle consultazioni preliminari. Una volta individuati i vari aspetti in cui si declina il tema della sicurezza, il lavoro è continuato con un incontro per ciascuno dei 6 ambiti in cui è suddivisa la valle, al quale sono stati invitati i residenti. In questi incontri sono stati approfonditi i temi proposti nel forum iniziale. Per concludere e ordinare il materiale prodotto fino a quel momento, è stato organizzato un forum pubblico conclusivo dal quale sono emerse strategie e azioni che la Comunità di Valle può mettere in atto direttamente o in collaborazione con i comuni, gli enti e le istituzioni preposti, per migliorare le condizioni di sicurezza, la qualità della vita e la convivenza all'interno della Comunità di Valle della Val di Non.

Cosa ci insegna questo Caso di Studio: E' stato affrontato un tema importante come quello della sicurezza attraverso una metodologia nuova o perlomeno non molto diffusa dentro l'amministrazione pubblica trentina, come la partecipazione. Il concetto di sicurezza si è dimostrato una chiave di accesso a una serie di mondi che coinvolgono in prima persona i cittadini e le comunità locali. La partecipazione dei cittadini si è rivelata una sorta di necessità per riuscire a portare all'interno dell'amministrazione pubblica una metodologia di lavoro nuova capace di affrontare la complessità dal punto di vista delle persone, dei cittadini in situazioni di montagna, in particolare la Valle di Non, che ha un territorio vasto fatto di 38 comuni, 100 frazioni, con una popolazione complessiva di 38000 abitanti.

Foto Gruppo Palomar

Autore della scheda gruppo Palomar spazio e partecipazione, consulente; Rolando Valentini ex assessore della Comunità della Valle di Non.

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7. Tavolo di confronto e consultazione durante la fase preliminare dell'elaborazione del piano territoriale di comunità: Comunità di Valle Alta Valsugana Bersntol Localizzazione Comunità di Valle Alta Valsugana e Bersntol

pubblici della Comunità. In questa fase anche chi non riceve l'invito può chiedere di essere ammesso al tavolo. I termini per presentare la domanda saranno pubblicati nel sito della Comunità. Il Tavolo ha tempo fino al giugno del 2012 per elaborare un documento di sintesi di quando è stato discusso nei diversi incontri previsti che varranno comunicati agli interessati. 5. gli incontri di presentazione dei documenti elaborati. Una volta che l'assemblea della comunità ha preso visione del Documento preliminare definitivo e della Sintesi del Tavolo di confronto e consultazione, in ogni ambito viene organizzato un incontro per far conoscere anche a chi non ha direttamente partecipato i risultati del lavoro di questa prima fase di elaborazione del Piano territoriale di Comunità. Conclusione novembre 2012

Fase/i di intervento Concluso Descrizione del caso di studio La legge urbanistica n°1 del 2008 (oggi sostituita dalla n° 15/2015) prevedeva l'elaborazione da parte delle Comunità di Valle (realtà amministrative in cui è suddivisa la Provincia che raggruppano i comuni per aree geograficamente omogenee) un livello di pianificazione intermedio tra il Piano Urbanistico Provinciale (PUP) e i PRG dei comuni. Nell'allegato alla delibera n° 2715 della Giunta Provinciale, viene indicato il percorso per arrivare ad elaborare il Piano territoriale di Comunità: per prima cosa bisogna predisporre un Documento preliminare, vale a dire una sorta di programma di lavoro in cui si fa l'inquadramento urbanistico da cui si parte per elaborare il Piano territoriale di Comunità. Contemporaneamente a questo Documento preliminare, si deve attivare un Tavolo di confronto e consultazione, al quale partecipano i soggetti pubblici e i soggetti privati portatori di interessi (associazioni di carattere economico, sociale, culturale e ambientale) allo scopo di elaborare un Documento di sintesi del Tavolo, ragionando non tanto in merito alle questioni tecnico-urbanistiche, quanto e soprattutto cercando di mettere a fuoco, partendo dagli argomenti trattati nel Documento preliminare, verso quale orizzonte comune la Comunità vuole incamminarsi e con quale strategia. Questi due documenti, il Documento preliminare e il Documento di sintesi del Tavolo di confronto e consultazione, saranno poi discussi nella Conferenza per la stipulazione dell'Accordo quadro di programma che è il passo decisivo che anticipa la redazione del vero a proprio Piano territoriale della comunità. Il percorso del Tavolo di confronto e consultazione si è articolato secondo queste tappe:

Il Caso di Studio tocca i seguenti articoli della Carta della Partecipazione: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

Cooperazione Fiducia Informazione Inclusione Efficacia Interazione costruttiva Equità Armonia (o riconciliazione) Render conto Valutazione

Cosa ci insegna questo Caso di Studio: La comunità Alta Valsugana e Bersntol è stata l'unica tra tutte le Comunità della Provincia ad approvare il Piano territoriale di Comunità entro il termine del mandato (maggio 2015). Tale risultato è stato possibile anche grazie alla qualità del percorso di coinvolgimento svolto durante la fase preliminare. Per prima cosa, la fase partecipativa è stata importantissima e il successivo processo di pianificazione ha voluto tenerne conto. Inoltre, Il processo partecipato è stato fondamentale perché il Piano Territoriale di Comunità non è un piano regolatore, ma un piano strategico di sviluppo socio - economico e quindi deve fare interagire i portatori di interesse, permettendo di lavorare in gruppo e di far emergere le visioni delle persone che vivono il territorio. Il lavoro di gruppo per molti è stata una novità e sono emerse ritrosia e diffidenza, difficoltà da parte dei rappresentanti a confrontarsi all'interno delle proprie organizzazioni e a coinvolgere i propri soci o colleghi in un percorso condiviso. Alla fine circa 70 persone hanno sempre preso parte agli incontri. Questa impostazione collegiale ha interessato non solo i partecipanti al tavolo, ma anche il gruppo di lavoro tecnico-politico che ha sempre condiviso le scelte e partecipato agli incontri. Si può affermare che quanto è stato appreso dalle persone che hanno partecipato è che la partecipazione è anche un processo di educazione della comunità, che permette a tutti i cittadini, anche a coloro che non prendono parte direttamente ai processi, di essere coinvolti attraverso la partecipazione dei loro rappresentanti di categoria o delle associazioni.

1. gli incontri con tutte le amministrazioni locali. Il gruppo dei tecnici, insieme all'Assessore all'urbanistica e al servizio urbanistica della Comunità va in tutti i 18 comuni della Comunità per incontrare le amministrazioni per farsi raccontare quello che i dati e le carte non riescono a dire. Abbiamo cioè chiesto ai sindaci e agli assessori: che cosa vi aspettate dalla Comunità e che cosa potete fare voi per la Comunità; 2. gli incontri pubblici in tutti gli ambiti territoriali della Comunità. Per poter chiedere al maggior numero di persone “che cosa vi aspettate dalla Comunità e che cosa potete fare voi per la Comunità” sono previsti degli incontri, uno per ambito (Altopiano di Pinè, Pergine, Valle dei Mòcheni, Vigolana,e Zona laghi) aperti al pubblico in cui l'assessore e i tecnici avranno modo di spiegare come verrà portato avanti il lavoro in questa prima fase di elaborazione del Piano territoriale di Comunità. 3. la bozza di del documento preliminare. Nella primavera del 2012 viene consegnata la prima bozza del Documento preliminare che diventa la base dei ragionamenti che si tengono nel Tavolo di confronto e di consultazione; 4. l'istituzione delTavolo di confronto e di consultazione. Sempre nella primavera del 2012 viene istituito il Tavolo di confronto e di consultazione attraverso degli inviti che arriveranno alle associazioni di carattere economico, sociale, culturale e ambientale, e ai soggetti

Autore della scheda Anita Briani, ex Assessore all'Urbanistica della Comunità Alta Valsugana e Bernstol.

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8. Il Parco fluviale della Sarca Localizzazione L'intera asta del fiume Sarca

della Sarca si estende per 75 km, coinvolge 3 Comunità di Valle, 36 Comuni, 1 Bim, la Provincia Autonoma diTrento e quindi direi che veramente è stato premiato lo sforzo di portare, attraverso questa dimensione partecipativa, ad una risalita del fiume che ha coinvolto via via tutte le istituzioni. Oggi come si sviluppa? Perché l'ho definito a grappolo? Perché ovviamente da un masterplan che ha una dimensione di piano poi l'azione va a tradursi in situazioni e progetti che sono calati ad una scala territoriale molto più locale. Ogni volta che si va ad attivare una particolare progettualità, un intervento sul fiume piuttosto che su un'area protetta o una riqualificazione di qualcos'altro si attiva immediatamente un micro processo partecipativo di coinvolgimento con la comunità interessata. Questo è sicuramente faticoso ma, per noi, è la strada più interessante e proficua. In questi anni su questo processo sono stati investiti in progetti realizzati al 100% più di 2.000.000 di euro. Direi quindi che una progettualità piccola è stata l'occasione per portare sul territorio grandi occasioni. Due cose vanno infine sottolineate: 1. gli architetti e gli ingegneri hanno sempre lavorato dentro al processo per una questione importantissima, perché è la competenza tecnica che va a interagire con la competenza non tecnica, con la competenza di chi abita e io li ringrazio perché apprezzo lo sforzo che hanno fatto perché non è cosi diffusa neanche fra i tecnici questa capacità di stare dentro queste dinamiche, dentro questi contesti; 2. sono nati su questa esperienza due laboratori partecipativi territoriali permanenti, uno sulla parte bassa e uno su quella alta del fiume. Dal 2013 è attivo come strumento per continuare a gestire questo parco fluviale un gruppo misto, uno degli organi di gestione, costituito dai referenti dei laboratori partecipativi, degli amministratori, dei servizi provinciali, delle Api e lavoriamo insieme per definire, decidere, sviluppare, ragionare su tutte le progettualità. Anche questa è una grossa sfida perché mette insieme e chiama a lavorare insieme competenze molto diverse”.

Fase/i di intervento In corso Descrizione del caso di studio estratto dall'intervento di Micaela Deriu, coordinatrice del progetto, al workshop di Lavis: “ … l'esperienza nasce nel settembre 2009 e la definirei “a grappolo d'uva”. Parte con un nocciolo di un processo partecipativo che si svolge fra il settembre 2009 e il febbraio 2010 attivato da quattro Comuni, Arco, Riva del Garda, NagoTorbole e Dro per elaborare un progetto di parco fluviale nel loro tratto di fiume... Questo progetto parte senza un'idea molto precisa ma con l'intento di farlo in maniera partecipata. I primi mesi di lavoro sono molto intensi, si parte con un piccolo corso di formazione rivolto a volontari di associazioni, funzionari della pubblica amministrazione e cittadini per formare dei facilitatori locali che lavorassero insieme a noi, che facessero da antenne sul territorio e che poi ci hanno seguito in maniera molto attiva e professionale... per tutto il tempo del processo. Processo che scardina le iniziali idee o aspettative dei Comuni che avevano in testa, forse, l'idea di un piccolo parco. Invece il processo, come spesso accade, ha un'esplosione quasi di utopia ed è dentro quel processo che si inizia a parlare di un parco fluviale che vada dal Garda al Parco dell'Adamello Brenta, quindi dalle sorgenti alle foci. In quei mesi vengono messe in campo tantissime attività con tanti strumenti di partecipazione, ricordo a memoria le interviste strutturate, focus group, workshop di progettazione, tavoli tematici, mostre atelier, interviste collettive, veramente tanti anche perché i temi che sono in gioco sono molto complessi e si intrecciano fortemente con piani urbanistici e piani settoriali come i piani di tutela delle acque e i piani della sicurezza.Temi molto complicati che hanno bisogno di una fortissima traduzione dei loro contenuti per renderli accessibili a tutti e questo è stato uno degli elementi che ha contrassegnato il processo fin dall'inizio. Il risultato è quello di avere dopo pochi mesi un masterplan di parco fluviale che non guarda solamente ai quattro Comuni ma che allarga il suo sguardo ai Comuni della Valle dei Laghi e della valle limitrofa che non era presente in prima battuta. Masterplan che definisce indirizzi, linee di azione, progettualità materiali e immateriali, quindi progetti di diversa natura. Nella selezione di quelle che erano le priorità di lungo periodo espresse dai partecipanti, anche a manifestare la scarsa fiducia nelle amministrazioni ad aggregarsi in un progetto condiviso, vi era quella di poter allargare questo progetto, questa progettualità, da diventare tanti più dei quattro comuni iniziali. Oggi, nel 2016, direi un tempo anche molto veloce, il Parco

Il Caso di Studio tocca i seguenti articoli della Carta della Partecipazione: 1. Cooperazione 2. Fiducia 3. Informazione 4. Inclusione 5. Efficacia 6. Interazione costruttiva 7. Equità 8. Armonia (o riconciliazione) 9. Render conto 10. Valutazione

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LIBRI

La biblioteca dell’Urbanista

a cura di Daria Pizzini

Gregorio Arena, Christian Iaione L'età della condivisione. La collaborazione tra cittadini e amministrazione per i beni comuni

Daniela Ciaffi, Alfredo Mela Urbanistica partecipata. Modelli ed esperienze

Massimo Morisi, Camilla Perrone Giochi di potere. Partecipazione, piani e politiche territoriali

2015, Carocci Editore €22

2011, Carocci Editore €16

2013, UTET Università €21

“Il mondo funziona grazie a codici condivisi: il linguaggio, gli ordinamenti giuridici, la musica, la matematica, i linguaggi di programmazione... Ogni gruppo sociale si fonda su regole condivise, persino quando compete, nello sport e negli affari.” A partire da questo concetto il volume offre le necessarie nozioni e gli strumenti utili per affrontare il tema della condivisione. Dal crowdfunding alle social street ai regolamenti dei beni comuni, come cambiano le città e il nostro modo di viverle. Come il tema della condivisione segna il passaggio dal government alla governance collaborativa e quali sono i rischi e le difficoltà. Il testo chiude con due preziose appendici:la prima riguarda il regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani; la seconda invece ne contiene le linee guida per la redazione.

Il libro illustra i metodi, gli strumenti e le buone pratiche per il coinvolgimento della collettività nelle trasformazioni della città. Dopo un excursus sulle forme istituzionalizzate di urbanistica partecipata e sulle posizioni più o meno favorevoli generate nel tempo, gli autori illustrano le attività da porre alla base del percorso di partecipazione, quali ad esempio azioni di comunicazione, animazione e attività di consultazione. Esistono infatti dei modelli a cui fare riferimento, per i quali il volume riporta metodi e aspettative. In modo pragmatico gli autori illustrano anche alcuni fallimenti dei percorsi partecipati a dimostrazione del fatto che le peculiarità dei luoghi e dei relativi tessuti sociali danno spesso origine a esiti diversificati. Il testo conclude con un bilancio dei tempi e dei costi delle politiche partecipative di trasformazione dei luoghi.

In Toscana si sta tentando di ancorare il governo del territorio alla partecipazione dei cittadini e delle popolazioni interessate. È un legame critico, consapevole della crisi della rappresentanza politica ma alla ricerca di una sua nuova credibilità mediante un coinvolgimento attivo dei destinatari delle politiche pubbliche già a partire dalla loro costruzione. La partecipazione dei cittadini riguarda un intreccio complesso di temi che alimentano un insieme di giochi di potere tra coloro che disegnano le politiche, coloro che ad esse danno vita e forma politica e legale, e quanti con i loro comportamenti «finali» dovrebbero decretarne il successo o almeno l'efficacia. Ne deriva la costante ricerca di nuovi equilibri tra una pluralità di attori e specifiche posizioni di potere da cui dipende la qualità delle scelte pubbliche. In questa chiave, si cerca di capire se l'esperienza toscana in questa materia costituisca o meno qualcosa di nuovo, eventualmente trasferibile al futuro della democrazia italiana.

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