Annuario Cai Morbegno 2014

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SOMMARIO

CAI

ANNUARIO 2014

Club Alpino Italiano Sezione di Morbegno

Via San Marco Tel. e fax 0342 613803 e-mail: info@caimorbegno.org www.caimorbegno.org

SETTE GIORNI IN YOSEMITE di Mario Spini

Redazione: Alessandro Caligari, Lodovico Mottarella

COTOPAXI di Riccardo Marchini

Hanno collaborato: Alessandro Caligari, Andrea De Finis, Claudio Degni, Riccardo Marchini, Giuseppe (Popi) Miotti, Lodovico Mottarella, Alba Rapella, Riccardo Scotti, Mario Spini, Matteo Spini.

INVERNO SULLA CORDAMOLLA di Alberto Benini

VISTI DAGLI ALTRI Fotografie: Alessandro Caligari: 70 D. Grossi: 57(sotto), 58 Riccardo Marchini: 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30-31, 32, 33, 80-81, 82, 83 Giuseppe Miotti: 51, 52, 53 Lodovico Mottarella: I,II,III copertina,1, 2, 3, 4, 5-6, 6-7, 8-9, 34-35, 38, 39, 41, 42-43, 45, 46, 47, 48, 49, 54-55, 56, 59 (sopra), 60, 61(sotto), 62-63, 68-69, 71, 74-75, 76, 77, 78-79, 88-89, 91, 93 Marco Poncetta: 72, 73 Riccardo Scotti: 57, 59(sotto), 61(sopra), 64-65, 66, 67 Mario Spini: 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19

di Andrea De Finis

LA GUIDA ALPINA SECONDO ME di Giuseppe "Popi" Miotti

VALANGHE di Riccardo Scotti

Progetto grafico e realizzazione: Mottarella Studio Grafico www.mottarella.com

ATTIVITĂ€

Stampa: Tipografia Bonazzi

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di Alessandro Caligari

E D I T O R I A L E 6 CAI MORBEGNO

Leggevo poco tempo fa, su una rivista di montagna, un articolo che segnalava come stia scomparendo “l’alpinista medio”, quella persona in grado di affrontare la montagna in completa autonomia, capace di arrampicare, seppure su difficoltà non particolarmente impegnative, che sa affrontare con cognizione di causa un ghiacciaio, che si sobbarca levatacce, dopo aver dormito in rifugio se non addirittura in bivacco e affronta traversate dalla lunghezza infinita. Sta scomparendo lasciando il posto al “gitante della domenica”, per il quale l’arrivo alla polenta del rifugio è già il massimo obiettivo, o allo sportivo super tecnico, alle prese con prestazioni complesse e soprattutto velocissime. Sono trasformazioni che hanno ragioni socio-culturali, specchio dei nostri tempi. Si ripropongono, anche in montagna, da un lato un allontanamento dai concetti del faticoso conseguimento di un obiettivo, e dall’altro modelli competitivi ed agonistici tipici della società contemporanea. Senza fare troppi moralismi, né affezionandoci a forme nostalgiche, dobbiamo tenere in conto i cambiamenti in atto, evitando però di abbandonare la tradizione storica del CAI volta ad un alpinismo come «forma attiva e pratica di conoscenza della crosta terrestre» (Massimo Mila). Già il termine “crosta terrestre” sgombera il terreno da ogni retorica, dalla logica delle “alte cime” e ci porta su un piano molto più pragmatico e concreto.


E’ il campo in cui preferiamo stare. Con queste premesse, ci troviamo ad affrontare i cambiamenti d’approccio alla montagna che la contemporaneità impone. Velocità, uso sempre più spinto e spregiudicato di mezzi a motore, infrastrutture poste a quote sempre maggiori, ci obbligano a prendere posizioni ferme a riguardo, non sempre facili e condivise. Alcuni articoli che trovate su questo annuario vanno in questa direzione. Per lo stesso motivo diamo spazio ad una riflessione di Popi Miotti sul ruolo della Guida Alpina, titolo che ha di recente abbandonato in polemica con un certo modo di vivere la montagna. Come sezione abbiamo passato un anno “tranquillo”: cessati gli impegni extra-ordinari del 50° del nostro sodalizio e dei 150 anni del CAI, siamo tornati ad una gestione più ordinaria. Per tradizione descriviamo qui quanto fatto nell’anno, inserendo però anche testi che vogliono rilanciare temi di discussione sulla fruizione della montagna, a cui si accennava poco sopra. Proponiamo un articolo inedito che descrive una pagina di alpinismo eroico, ma privo di retorica, dell’inverno del 1941. Per uscire dal nostro cortile e guardare oltre, troverete anche due finestre che si affacciano oltreoceano, nelle due Americhe. I più disattenti e frettolosi possono guardare le figure. CAI MORBEGNO 7


LA CONVENZIONE Lunedì 20 gennaio 2014, tra il Comune di Morbegno e il Cai di Morbegno e il Gruppo Edelweiss è stato sottoscritto un protocollo d’intesa con il quale questi enti dichiarano la comune attenzione alle tematiche poste in evidenza nella convenzione quadro della Convenzione delle Alpi in materia di conservazione, protezione e promozione dell’ambiente alpino, nelle zone di rispettiva pertinenza; in questo scritto si esprime la 8 CAI MORBEGNO

comune volontà di contribuire affinché questa attenzione sia condivisa con l’intera comunità e contestualmente è stata presenta domanda al Segretariato Permanente della Convenzione delle Alpi per stabilire un rapporto duraturo e sistematico che consenta ai firmatari di promuovere la diffusione delle conoscenze e dei principi che animano la Convenzione stessa, insieme alle strategie concrete da sviluppare per il miglior

mantenimento della vita nel territorio alpino. A coronamento e ad accoglimento di questa istanza martedì 4 febbraio il vice Segretario Generale, la slovena Simona Vrevc, è venuta a Morbegno per la firma dell’adesione di Morbegno alla Convenzione delle Alpi La Convenzione delle Alpi è un trattato internazionale sottoscritto dagli otto Stati alpini: Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Principato di


DELLE ALPI Monaco, Slovenia e Svizzera nonché dalla Comunità Europea con l’obiettivo di garantire una politica comune per l’Arco alpino, un territorio sensibile e complesso in cui i confini sono determinati da fattori naturali, economici e culturali che raramente coincidono con le frontiere degli Stati nazionali. Risulta dunque evidente l’importanza di un vero ed efficace coordinamento internazionale degli interventi. Basandosi

su queste considerazioni, il 7 settembre 1991 gli Stati alpini hanno sottoscritto la Convenzione delle Alpi, che per la prima volta riconosce l’unità territoriale alpina e la necessità di garantire sviluppo e politiche di tutela comuni. La Convenzione delle Alpi rispecchia la globale consapevolezza dell’importanza delle aree montane anche per la pianura, definisce le responsabilità nei confronti del mondo alpino e attira

l’attenzione sulle potenzialità e le sfide per lo sviluppo del patrimonio naturale, culturale e sociale. Il suo obiettivo consiste nel valorizzare il patrimonio comune delle Alpi e nel preservarlo per le future generazioni attraverso la cooperazione transnazionale tra i Paesi alpini, le amministrazioni territoriali e le autorità locali, coinvolgendo la comunità scientifica, il settore privato e la società civile. CAI MORBEGNO 9


LA CONVENZIONE DELLE ALPI Qui di seguito i primi tre articoli dell’accordo d’intesa sottoscritto anche dal CAI Morbegno, quale partner dell’accordo stesso. Tra essi l’art 2 prevede la nascita di un info-point permanente (4° in Italia) sulle attività della Convenzione e su temi concernenti le Alpi Art.1 Obiettivo Il Segretariato permanente della Convenzione delle Alpi e il Comune di Morbegno concordano di collaborare al fine di diffondere la conoscenza della Convenzione delle Alpi e promuoverne l’attuazione nel territorio del Comune di Morbegno e del relativo Mandamento, coinvolgendo la cittadinanza, i turisti, le associazioni, le amministrazioni, le istituzioni e gli enti, pubblici e privati, di volta in volta interessati. Art.2 Sportello Convenzione delle Alpi a) per realizzare gli obiettivi di cui all’art. 1 il Comune istituisce nell’ambito della Biblioteca Civica “E. Vanoni” uno Sportello Convenzione delle Alpi; orario e giorni di apertura dello sportello saranno individuati secondo le disponibilità della Biblioteca;

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b) per la formazione specifica del personale addetto allo sportello il Segretariato permanente della Convenzione delle Alpi organizzerà presso la propria sede di Bolzano due giornate formative ad hoc da tenersi con il personale interessato, individuato dal Comune di Morbegno prima dell’apertura ufficiale dello stesso; ulteriori momenti formativi a cadenza annuale, ove necessari, potranno essere concordati tra il Segretariato permanente e il Comune di Morbegno. Art. 3 Attività comuni a) a supporto della collaborazione descritta nel presente Memorandum Il Segretariato permanente della Convenzione delle Alpi e il Comune di Morbegno si impegnano ad organizzare, nei limiti delle risorse disponibili, un evento congiunto all’anno su un terna dl interesse specifico. In alternativa o in concomitanza, le parti possono prevedere l’organizzazione di incontri con le scuole o incontri divulgativi con la collaborazione delle altre istituzioni ed enti facenti riferimento al territorio del mandamento; b) nei limiti delle risorse disponibili, qualora richiesto, il Segretariato permanente della Convenzione delle Alpi sostiene le attività del Comune di Morbegno con il proprio personale in caso di corsi di formazione specifici o altre attività didattiche e seminariali organizzate.


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NOI E L'ELISKI Da diverso tempo la nostra sezione porta avanti delle battaglie che riguardano l'ambiente. Ci siamo occupati del problema delle strade in montagna, dei mezzi motorizzati che vi scorrazzano, della tutela dei borghi alpini, di strumenti urbanistici e di progetti pubblici insensati. A volte siamo stati ascoltati, a volte attaccati, spesso ci siamo sentiti come personaggi di Cervantes che combattono contro mulini a vento. Ma mentre Don Chisciotte scambiava per pericoli cose che in realtà non lo erano, siamo certi che nel nostro caso i danni siano effettivi. E' il caso dell'eliski, problema che già da diverso tempo abbiamo sollevato e che con fatica abbiamo cercato di portare all'attenzione di molti. Fatti recenti ci hanno dato una grossa mano. Un atto piuttosto clamoroso, come le dimissioni da guida alpina di Popi Miotti, in aperto contrasto con l'Associazione proprio su questa questione, ha fatto da gran cassa, ponendo sul tavolo e all'attenzione del grosso pubblico questo tema. Approfitto quindi di questa inattesa ribalta per ribadire la posizione della nostra sezione in merito. Mi pare difficile considerare l’attività dell’eliski compatibile con una corretta fruizione della montagna. Troppo aggressiva 12 CAI MORBEGNO

e troppo sleale per essere accettata. Aggressiva perché fatta con mezzi che poco si adattano all’ambiente. La montagna è silenzio, è lentezza, è fatta di dettagli da osservare e assaporare da vicino. L’eliski è l’esatto contrario, è rumore, è un’ascesa velocissima alla montagna, è un passaggio repentino che non permette di cogliere il particolare, l’essenza del contesto. Sleale perché è una scorciatoia grossolana alla montagna, che viene affrontata rimuovendone i freni di protezioni che la montagna stessa pone: normalmente il salire in alto è proporzionale alla capacità dell’alpinista; più ci si alza più occorre essere dotati di tecnica, occorre avere resistenza fisica e capacità di sopportazione delle condizioni avverse, bisogna conoscere l’ambiente che si percorrere o avere gli strumenti per decifrarlo, una serie quindi di requisiti che devono aumentare via via che si sale di quota. Questo è un filtro naturale che la montagna pone, una serie di vincoli che vanno a tutela dell’alpinista stesso e che rimuovere può diventare pericoloso. Chi pratica l’eliski aggira tutto questo meccanismo. Non sale pian piano, leggendo il terreno che ha intorno e memorizzandone morfologia e caratteristiche,

non sente la fatica che la quota impone, non percepisce il freddo che progressivamente aumenta: viene depositato in cima ad una montagna, come se fosse arrivato al termine di una salita con la seggiovia e si butta nel pendio senza sapere esattamente cosa lo aspetta. Questo non è alpinismo e non è rispetto né per la montagna né per chi invece ha scelto di viverla e frequentarla con un atteggiamento più sobrio e deferente. A scanso di equivoci chiarisco che il nostro non è un elogio della fatica o un richiamo alla “lotta con l’Alpe”, peraltro già morta e sepolta da un pezzo; semplicemente il togliere quest’aspetto di faticoso impegno dell’ascesa trasforma il tutto in una chiassosa baracconata. Proprio quello del rumore è un tema dirimente; il frastuono di un elicottero può letteralmente spaventare a morte la fauna selvatica. In preda al panico gli animali abbandonano i luoghi di svernamento in una fuga precipitosa, con un cruciale dispendio di energie, in un periodo già molto critico, per la loro sopravivenza, come quello invernale. Oltre ad essere un’attività non compatibile con la montagna, l’eliski non porta neppure un vantaggio economico significativo, se non alle pochissime persone che lo promuovono. Ha un irrilevante


indotto economico e per contro allontana altri tipi di frequentatori. Il fatto stesso che in molti posti sia una pratica proibita già costituisce un dato significativo, certificandone la dannosità, soprattutto ambientale. La nostra zona, penalizzata da normative poco incisive e poco chiare, da un’attività di controllo difficile, da un sistema sanzionatorio poco efficace, diventa quindi area di conquista anche di chi “a casa sua” non può praticare l’eliski . Emblematiche sono le segnalazioni su siti internet stranieri che dipingono la nostra zona come un’area deregolamentata, dove “puoi atterrare dove ti pare, a seconda delle condizioni del tempo o della neve” proponendo “uno dei migliori eliski della Alpi a prezzi abbordabili”. Nel frattempo continuano i raid anche nel Parco delle Orobie da parte di guide straniere, clienti stranieri ed elicotteristi anche locali: la scorsa stagione, complice un buon innevamento, in una settimana hanno sceso tutti i canaloni delle Orobie Valtellinesi (Redorta, Porola, Brunone, Val d'Ambria, Val Cervia, Val Malgina, Val Bondone, Pizzo Tre Signori) non lasciando nulla di intentato, in barba a tutti i divieti. Le varie pubblicità dell'eliski ed i

calendari apparsi sulla rete ci dicono che le premesse perché questo fenomeno si intensifichi ancora di più ci sono tutte. In questi siti, in cui viene abbandonata la prudenza di ipocrite dichiarazioni sullo scarso danno ambientale dell'eliski e sui suoi ipotetici ritorni economici a favore di entusiastiche promesse di sicuro divertimento, la montagna viene descritta come un luna-park alla portata di tutti. Non mi pare né bello né intelligente permettere questo tipo di cose. Ho ascoltato con attenzione le difese di chi è favorevole a questa attività, ma comunque mi paiono molto deboli. Spesso, in ossequio al vecchio adagio per cui la miglior difesa è l'attacco, viene dichiarato che anche gli scialpinisti producono danni. Vorrei quindi ribadire che la nostra non è una battaglia contro una categoria a favore di un'altra. Siamo contrari ad ogni attività che non affronti la montagna con rispetto. Di conseguenza condanniamo anche le attività scialpinistiche fatte in modo non adeguato, le uscite in luoghi e periodi pericolosi o in posti in cui l'accesso è precluso, a tutela della fauna. Detto questo mi pare che comunque le due discipline abbiano impatti del tutto diversi. Per questo cerchiamo

ancora una volta di richiamare le autorità affinchè facciano chiarezza sull'argomento, perché diano regole certe e sanzioni realmente deterrenti. Non chiediamo un giro di vite restrittivo, ma semplicemente l’applicazione rigorosa di regole che già ci sono. Nel Parco delle Orobie per esempio, la pratica dell’eliski è da tempo ILLEGALE, perché ritenuta eccessivamente impattante da un punto di vista ecologico, come pure nei Siti d’Importanza Comunitaria e nelle Zone di Protezione Speciale. Chiediamo che la Provincia e Parco delle Orobie si accordino con l'ENAC (ente nazionale aviazione civile) per interdire il volo almeno nelle zone tutelate; che nei siti dove l'eliski è già vietato ci siano delle sanzioni che realmente scoraggino la pratica e non siano invece viste semplicemente come un pedaggio d'ingresso; che ci sia un sistema di controllo efficace. Chiediamo che questi Enti, con un approccio preventivo, conferiscano con Guide Alpine ed elicotteristi (anche privati) per ribadire loro come l’eliski sia già proibito in molte zone e prospettando sanzioni dure. Tutto questo non a tutela del “campo da gioco degli alpinisti del CAI”, come qualcuno sostiene, ma per la conservazione dell’ambiente alpino. CAI MORBEGNO 13


YOSE di Mario Spini

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A distanza di un mese dal nostro rientro dagli Stati Uniti, guardo la foto che ci ritrae tutti e cinque sorridenti, in una posa inconsueta, in vetta al Fairview Dome, all’uscita della Regular Route . E’ stato il nostro settimo ed ultimo giorno in Yosemite. Tra le tante foto è questa a cui sono più legato, forse perché meglio ricorda gli stati d’animo che hanno reso indimenticabile questa vacanza. Certo alcune immagini che ritraggono momenti cruciali delle salite possono rappresentare in modo più immediato la bellezza mozzafiato della natura e il piacere dell’arrampicata. Penso all’immagine di Rita impegnata il primo giorno a salire, con timore reverenziale , la fessura di West Country su Stately Pleasure Dome, sullo sfondo delle scure e fredde acque

del Tenaya Lake. Oppure quella che ritrae Mirko mentre, con gesti lenti e precisi, tira la prima lunghezza di Snake Dike su Half Dome, lungo una placca liscia e sprotetta. Eppure nel sorriso soddisfatto dei compagni in vetta al Fairview Dome si può forse leggere di più. Quando scopriamo negli altri la nostra stessa passione, nel senso che le ragioni e la sensibilità che ci spingono sono le stesse , condividere le emozioni della montagna dà una soddisfazione ancora più grande. A volte quando ci si ritrova in sosta con il compagno, è sufficiente scambiarsi uno sguardo mentre ci si passa il materiale, per esprimere molto di più di quanto possa fare un elenco scontato di superlativi. Forse il motivo di tale soddisfazione è da ricercare nel senso di armonia


EMITE SETTE GIORNI IN

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che ci ha sempre accompagnato, qualunque cosa facessimo. Ad esempio quando arrampicavamo. A Mario Vannuccini il merito di averci guidato con passione, selezionando le salite, scegliendo i tempi, infondendo un sano spirito disincantato che ci ha messo in condizioni di apprezzare appieno un confronto misurato con la natura, in sintonia con quello stesso spirito che aveva animato i climber californiani degli anni 60/70 ed aveva alimentato le mie fantasie di adolescente. Ricordo la sua espressione, da cui traspariva una vena di soddisfazione, all’uscita di “Corrugation Corner” sulla parete di Lover’s Leap , nella regione del Lake Tahoe: “Sai quel climber californiano che ci precedeva sulla via? Mi ha fatto i complimenti, ha detto che ha apprezzato lo spirito con cui salivamo…”. La cosa mi colpì: sia 16 CAI MORBEGNO

perché condividevo il giudizio espresso dallo sconosciuto, sia perché avvertivo un senso di compiacimento nel veder rivelarsi un aspetto della personalità di Mario che ne rafforzava simpaticamente il profilo umano. Arrampicare a Yosemite ha significato, inoltre, doversi adeguare all’etica locale del “clean climbing” , dovendosi proteggere con nuts e friends lungo le fessure, attrezzando le soste, trovando solo raramente chiodi infissi, affrontando talvolta dei lunghi run-out sulle placche compatte in aderenza, in uno stile “by fair means”, che insegna a conoscere meglio se stessi e a commisurare l’impegno delle salite alle proprie capacità. Quando camminavamo a Toloumne Meadows per cogliere immagini ravvicinate di animali nella luce radente della sera, lungo sentieri privi di segnaletica , o vagando in

mezzo ai boschi all’ombra di alberi monumentali, oppure salendo lungo le rugose placche granitiche dei Dome che emergono dalla vegetazione della High Sierra con un profilo che ricorda il dorso incurvato di un mastodontico e placido dinosauro, anche allora si aveva l’impressione di essere in totale armonia con una natura incontaminata che si apriva intorno a noi con panorami di inusuale ampiezza. La stessa armonia che si avvertiva nel contatto con la natura, insieme alla spensieratezza con la quale trascorrevamo il nostro tempo in montagna condividendo belle soddisfazioni , ha finito per condizionare anche i rapporti con i compagni creando i presupposti perché si potessero sviluppare tra noi amicizia e stima reciproca, che trovavano modo di crescere di giorno


Nella pagina precedente: in vetta al Fairview Dome, sullo sfondo la cresta del Cathedral Peak Nella pagina a fronte: Cathedral Peak ed Eichorn’s Pinnacle dominano il paesaggio lungo la discesa verso i Cathedral Lakes Qui a fianco: quinto tiro di Regular Route al Fairview Dome. Via aperta nel 1958 da un giovanissimo Chuck Pratt Sotto: Daff Dome: primo tiro di West Crack, una classicissima via in fessura salita la prima volta da Frank Sacherer nel 1963.

in giorno alimentandosi , soprattutto la sera, attorno al fuoco, quando potevamo scambiarci le impressioni sulla giornata trascorsa , raccontando inoltre di noi, delle nostre avventure alpinistiche passate o, in generale, della nostra vita. Anche i numerosi disagi affrontati nelle normali attività proprie della vita in campeggio, accentuati sia dal clima rigido (dalla sera sino alle prime ore del mattino) oltre che dalla carenza di servizi disponibili, venivano sopportati comunque con serenità e condivisi quasi costituissero un modo per meglio integrarci con il fantastico contesto naturale in cui ci trovavamo e quindi in ultima analisi per meglio conoscerlo. Mi viene in mente a riguardo Julius Kugy, una figura mitica di esploratore delle alpi Giulie, appassionato alpinista di fine ottocento che disse: “non si può CAI MORBEGNO 17


conoscere una montagna se non si è mai dormito almeno una volta sulla sua terra”. Noi, sulla terra di Yosemite, nel freddo notturno di Toloumne Meadows , possiamo dire di aver spesso anche vegliato… Seppur spartano il grande campeggio di Toloumne Meadows, a 2.600 metri di quota, rappresenta comunque la soluzione logistica più vicina all’area omonima di arrampicata, frequentata dagli arrampicatori nei mesi centrali dell’estate, quando nella Yosemite Valley (il fondovalle alla base di El Capitan è a 1.200 metri) le temperature sono troppo elevate raggiungendo anche i 35 gradi. Le

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380 piazzole, per lo più su terreno polveroso, sono ben mimetizzate in un bosco di conifere, ciascuna dotata di un tavolo con panche, bracere per il fuoco e armadietti metallici antiorso in cui conservare, cibo, bevande e quant’altro possa attirare il temuto plantigrado (dentifricio, creme solari, ecc.) . Non c’è corrente elettrica ed i bagni sono privi di doccia ed acqua calda. In piena estate le temperature notturne scendono a pochi gradi sopra lo zero, mentre di giorno il clima è mite, ventilato e molto secco; la probabilità di pioggia è molto bassa. I servizi disponibili in loco sono un distributore di benzina, un negozio di

generi alimentari e di prima necessità, un negozio di articoli di arrampicata ed un Visitor Center presidiato da Ranger. Il centro abitato più vicino, Lee Vining, sotto il Tioga Pass, dista circa 30 Km. Cercando tra i ricordi i momenti più significativi , sono sopraffatto da una raffica di flash che affollano la mente e, come tasselli di un puzzle, vanno ricomposti ordinatamente per ricreare l’esperienza vissuta. Sopra ho attribuito a Rita un “timore reverenziale” nell’affrontare, il primo giorno, la fessura al secondo tiro di West Country. In effetti anch’io ero titubante nell’iniziare i primi


Pagina a fronte: Half Dome, foto di vetta con annuario.

movimenti in opposizione lungo la sottile fessura, non avendo ancora familiarità con la tenuta delle pedule sul liscio granito di Stately Pleasure Dome oltre al fatto che si trattava della nostra prima fessura a Yosemite! Sono impressioni che non si possono scordare. Anche la salita al Cathedral Peak è stata particolarmente gratificante . Dopo una splendida arrampicata su roccia molto lavorata, sulla aerea vetta assistiamo allo spettacolo offerto da alcuni ardimentosi sulla slakline prima di avventurarci in una lunga discesa verso i Cathedral Lakes, fuori dai sentieri, in mezzo al bosco,

scavalcando tronchi abbattuti al suolo, incontrando talvolta scoiattoli e cervi, nell’atmosfera limpida e fresca della sera, con il timore latente di veder magari emergere dalla vegetazione la massa bruna di un orso. Esserci attardati a fotografare le ombre lunghe dei pini, aggrappati con le radici alle lucenti sponde granitiche del lago, ci ha poi regalato la suggestione di un ritorno a Toloumne Meadows ben oltre il tramonto, nella semi oscurità, al termine di una lunga e memorabile giornata alla scoperta delle terre alte di Yosemite. Come dimenticare poi l’Half Dome, insieme a El Capitan montagna

Qui sopra: Half Dome: secondo tiro di Snike Dike. Ritenuta la più bella salita di 5.7 della Yosemite Valley (prima salita Jim Bridwell - 1965).

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simbolo di Yosemite? Partiamo di primo mattino imboccando il Mist Trail , uno dei sentieri più frequentati della Yosemite Valley, che lungo il Merced River conduce alle cascate Vernal e Nevada Fall. Alla base della Liberty Cap seguiamo delle tracce che dapprima costeggiano la sua parete ovest, per poi risalire la stretta gola sovrastata dalle lisce placche verticali del Mont Broderick su cui si stagliano, altissime, lunghe ombre di giganteschi abeti in un ambiente spettacolare e selvaggio. Nel cercare il passaggio in mezzo a grosse piante abbattute, ci imbattiamo casualmente nelle evidenti tracce lasciate dagli unghioni di un orso sulla corteccia di una grossa latifoglia… Con circospezione riprendiamo a salire e, nei pressi del Lost Lake , una bellissima radura acquitrinosa, ritroviamo il sentiero che sale dalla Little Yosemite Valley e da ultimo su terreno via via più roccioso 20 CAI MORBEGNO

raggiungiamo la base della parete sud-ovest del Half Dome dove due cordate di francesi sono già impegnate sulla Snake Dike. La via sale con otto splendidi tiri di corda, seguendo una incredibile vena chiara di ortoclasio che come una grossa spina dorsale sporge in rilievo percorrendo tutta la porzione basale più ripida della cupola di granito. Saliamo questa lunga scala naturale investiti a tratti da un forte vento fresco che accentua l’effetto di precarietà dell’arrampicata che, seppur di modesta difficoltà, è comunque poco protetta. Percorsi slegati gli ultimi duecentocinquanta metri più adagiati di parete, raggiungiamo la vetta affollata di escursionisti (tra loro una giapponese si sta facendo fotografare, in una posa un po’ kitsch, con i tacchi a spillo!?) dove ci lasciamo conquistare dalla vastità del panorama. Poco dopo le 16 iniziamo la discesa, dapprima

lungo la famosa via ferrata, a tratti intasata di gente che ancora sale nonostante l’ora, e poi con un percorso molto vario per terreno e scenari naturali, costeggiando talvolta abeti e sequoie dall’aspetto monumentale, sino a riprendere il sentiero percorso la mattina nei pressi della Nevada Fall. Giunti alla pozza denominata Emerald Pool non possiamo trattenerci e, al cospetto della parete ovest della Liberty Cap illuminata dagli ultimi raggi di sole, restituiamo vigore ai muscoli indolenziti con una breve nuotata nelle gelide acque del Merced River. Quando alla luce delle frontali raggiungiamo infine il fondovalle , al termine di un’escursione di circa 24 Km, nulla può più frapporsi tra noi e una gigantesca pizza allo Yosemite Village a coronamento di una grande giornata. Potermi abbandonare alla nostalgia del ricordo di quei giorni è quanto di più caro mi sia rimasto


Nella pagina a fronte: Stately Pleasure Dome, il sottile diedro al secondo tiro di West Country. A fianco: sull’orlo della parete nord-ovest dell’Half Dome; sullo sfondo si riconoscono il Mount Watkins e Clouds Rest Sotto: da Olmstead Point vista verso il Tenaya Lake, alle porte di Toloumne Meadows

di Yosemite. Ma forse il termine non è corretto, perché non si tratta in realtà di un sentimento malinconico; è più che altro un senso profondo ed appagato di soddisfazione, che nasce dalla consapevolezza di aver vissuto un’esperienza davvero unica, dove forse il desiderio covato sin da ragazzo, il piacere di arrampicare e camminare in questi luoghi in armonia con una natura di straordinaria bellezza, rappresentano l’aspirazione ultima a cui può portare la passione per la montagna. Trovare nei compagni di viaggio, conosciuti in tale occasione, un sincero affiatamento nato dalla condivisione di sensibilità e interessi, ha rappresentato un valore aggiunto che ha contribuito in misura determinante a rendere la vacanza indimenticabile anche sotto il profilo umano; a loro la nostra stima e gratitudine, mia e di Rita.

Yosemite National ParK: 26 agosto – 2 settembre 2014. Mario Vannuccini, Laura Olgiati, Mirko Codazzi, Rita Bertoli, Mario Spini.

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la gola di fuoco di Riccardo Marchini

“Vieni in Ecuador?”, mi dice all’incirca un anno fa un amico al rientro da un’escursione sci alpinistica. “Come no, a far cosa?”, rispondo io, stando al gioco di quella che mi pare una battuta. “Cotopaxi” è la sua risposta laconica e, nel tono, nient’affatto scherzosa. Questo nome, con il suo suono pieno, caldo ed esotico, dormiente in un cassetto della memoria, mi fa tornare indietro di molti anni, ai tempi della prima liceo quando dovevo prepararmi in geografia sull’America Latina. “Ecuador, piccolo stato stretto fra l’oceano Pacifico e la foresta amazzonica, attraversato da nord a sud dalla cordigliera delle Ande e tagliato, come suggerisce il nome, dalla linea dell’equatore”, ero pronto a snocciolare all’insegnante. E a 22 CAI MORBEGNO

continuare con “terra di vulcani che raggiunge la sua massima elevazione nel Chimborazo (6310 m) e nel Cotopaxi (5897 m). Prodotti tipici banane e cacao”. A quelle latitudini con banane e cacao si andava quasi sempre sul sicuro. Mi schermisco, giudicando la proposta al di sopra delle mie possibilità, però alla sera, a casa, faccio un giro in Internet per saperne un po’ di più. E imparo che il Cotopaxi è un vulcano, terzo al mondo per altitudine ancora attivo (l’ultima eruzione, leggera, è del 1940) e con i suoi 5897 m è la seconda cima dell’Ecuador dopo il Chimborazo che arriva a 6310 m. Non solo, per via dello schiacciamento del nostro pianeta ai suoi poli, essendo situato sulla pancia equatoriale, è la seconda vetta

più distante dal centro della Terra. E’ un cono perfetto che si erge per circa 3000 m dalla sierra, ricoperto da una spessa coltre di ghiaccio dai 5000 m in su. Le relazioni di quanti hanno potuto raggiungerne la cima in passato sono tutte molto positive, nonostante le condizioni meteo spesso sfavorevoli, e la via normale di salita, dal versante nord, è valutata PD che, nella scala alpinistica convenzionale, significa poco difficile. “Ma allora si può fare!”, mi dico. Tanto più che fra le varie testimonianze trovo quella di Walter Bonatti che, in un’intervista rilasciata a Silvia Metzeltin, magnifica il Cotopaxi come il vulcano più bello dell’Ecuador. E se lo dice Bonatti …!


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Sta di fatto che un tarlo comincia a lavorare dentro di me così che, alla successiva richiesta da parte degli amici del gruppo che nel frattempo si sta organizzando, rispondo che sarò anch’io della partita. Quale occasione migliore per festeggiare i miei settant’anni? Tre dei partecipanti all’avventura sono reduci da un precedente tentativo non andato a buon fine per motivi legati alla quota troppo alta. Ora vogliono riprovare, sicuri di non commettere più l’errore di cinque anni fa, quando vennero fermati da un acclimatamento sbagliato. Comincia la preparazione logistica. Per me è una novità assoluta, ma grazie ai compagni “veterani” mi rendo conto che non occorre un’attrezzatura particolare se non quella normale per un’ascensione su ghiacciaio e 24 CAI MORBEGNO

l’abbigliamento solito da alta montagna. “E’ un po’ come andare sul Bernina d’estate”, mi dicono. Il programma viene rifinito in dettaglio grazie anche all’aiuto di Michele, valtellinese residente in Ecuador, che ci consiglia e ci organizza tutti gli spostamenti sul territorio. E’ un piano corposo che, in 23 giorni di permanenza laggiù, prevede, oltre alla salita al Cotopaxi, anche, per chi se la sente, quella al Chimborazo, più alto e più ostico dal punto di vista tecnico. E prevede anche molto turismo, con una puntata nella foresta amazzonica. Siamo in otto il 1° novembre sul pulmino che alle quattro del mattino ci porta all’aeroporto di Linate: Walter, Flavio e Dario, i reduci, ai quali si sono aggiunti Pierangelo, Pietro, Stefano, Patrizia e il sottoscritto. Inizia l’avventura:

scali a Madrid e a Bogotà poi finalmente, dopo oltre 20 ore di viaggio, atterriamo all’aeroporto di Quito, la capitale dell’Ecuador. Lì troviamo Michele e un altro valtellinese, Mario che ci accompagnano al nostro primo alloggio in centro città. L’approccio con la realtà del paese avviene il mattino seguente. E’ il 2 novembre, giorno dei morti. In Ecuador è una festa grande, ricca di tradizioni, e la gente si riversa per le strade e nelle piazze della città vecchia dove sono allestiti spettacoli per grandi e bambini e dove diversi complessini si danno il cambio, alcuni con la loro musica tradizionale e altri con esecuzioni bandistiche. Gli abiti cittadini si mescolano a quelli coloratissimi dei campesinos arrivati per l’occasione dai villaggi.


A pag 21, la Yanasacha, che in lingua kichwa significa roccia nera, sbarra il passaggio a tre quarti della salita al Cotopaxi, costringendo le cordate ad un lungo aggiramento. Nella pagina a fronte, il patchwork dei coltivi ai 3700 m di Esperanza. In questa pagina, a fianco, la Laguna Cuicocha, nel nord del paese; sotto a sinistra, giorno di mercato a Guamote; a destra, fioritura di Chuquiraga, che ha sulle Ande lo stesso significato simbolico della stella alpina nelle Alpi.

Nelle numerose chiese le messe vengono celebrate con cadenza pressoché continua. Durante la nostra permanenza quaggiù ci troveremo in altre due occasioni a contatto con il volto vero dell’Ecuador: al mercato settimanale di Otavalo, il più grande e importante del paese, e a quello di Guamote che, pur di dimensioni inferiori, è più genuinamente popolare. Alla sera, con Michele e Vinicio, il responsabile di una compagnia di viaggi turistici, mettiamo giù la strategia dell’intero soggiorno. Avremo

a disposizione un pulmino con autista che ci farà da supporto per l’intero periodo di permanenza qui. Una bella comodità se si pensa che in 23 giorni dovremo spostarci e cambiare alloggio tredici volte. Il nostro autista, Jorge, ci sarà inoltre d’aiuto con la lingua. La differenza di fuso orario (siamo sei ore indietro rispetto all’Italia) comincia a farsi sentire, quindi tutti a dormire, perché domani si comincia davvero. L’acclimatamento è stato studiato a tavolino in Italia e avviene per gradi. Sono

previste prima una sgambata di una decina di chilometri e 700 m di dislivello attorno alla Laguna Cuicocha (3200 m), quindi una salita non lunga ai 4250 m del Fuya Fuya e infine una tirata di 1400 m di dislivello fino ai 4600 m del Volcan Imbabura. Il tempo in questi primi giorni è soggetto a cambiamenti repentini, ma a questa latitudine probabilmente è normale. Inizialmente bello, peggiora già da metà mattina, impedendoci di gustare appieno un paesaggio bellissimo. CAI MORBEGNO 25


Con delle buone sensazioni nelle gambe, ci sentiamo pronti per qualcosa di più impegnativo, il Volcan Cayambe (5790 m), ricoperto da una calotta ghiacciata, molto ripida nel suo tratto terminale. Per questa salita sono necessarie le guide. Dal novembre 2012, infatti, a causa di un incidente mortale sull’Illiniza, per decreto governativo a nessuno è permesso compiere ascensioni sulle montagne ghiacciate dell’Ecuador senza essere accompagnati da una guida accreditata. Qualcosa però non funziona. 26 CAI MORBEGNO

Con due camionetas ci arrampichiamo su per i 21 Km di una pista assolutamente impercorribile ad altri mezzi, che solo una fervida fantasia può pensare di definire strada. Il rifugio Cayambe (4700 m) è chiuso, perché in rifacimento, come chiuso, contrariamente alle aspettative, è il vicino bivacco e solo grazie al fortuito arrivo di una guida con due clienti riusciamo ad entrare dopo tre ore passate all’addiaccio. Fa freddo ed è nuvoloso, grandina anche un po’. In qualche maniera, al buio e al freddo riusciamo a mangiare qualcosa prima di

coricarci nei sacchi a pelo, ma dormire a questa quota e in queste condizioni non è cosa facile. Le nostre guide, Fernando e Sergio, arrivano al rifugio solo verso le ventidue. Alle 23.15 riusciamo a partire illuminati dalla luna piena che brilla in un cielo finalmente sereno, ma siamo già provati dalle vicissitudini della giornata. L’andatura, poi, con la quale le guide affrontano il ripido pendio sulla traccia sconnessa è decisamente troppo elevata per cui, dopo un’ora e mezza di cammino affannoso c’è chi dà segni di disagio, dovuto con tutta


probabilità alle conseguenze della cattiva digestione di una cena consumata frettolosamente al freddo. Così in prossimità dei 5000 m c’è il primo abbandono. In due, secondo la regola aurea del “mai nessuno solo”, scendono al bivacco accompagnati da Sergio che poi ritorna su con la velocità e l’agilità di un gatto. A quota 5300 m se ne arrendono altri due, mentre il resto del gruppo si spinge fino a 5550 m. Qui il capo guida Fernando decide di rientrare, adducendo la motivazione che è tardi e che per arrivare in cima ci vogliono ancora due

ore, troppe. Il sospetto è però che abbia fretta di andar via per successivi impegni con altri clienti al Cotopaxi. Infatti, appena ridiscesi al bivacco, se la squaglia in compagnia di Sergio. Pazienza! Come nella favola della volpe e l’uva, ci consoliamo dicendoci che tanto questa prima ascensione doveva servirci solo come prova. Certo, però, che un po’ brucia. Probabilmente ci eravamo fidati troppo delle buone prestazioni dei giorni precedenti. Ne faremo tesoro per i prossimi impegni. Abbandonando il bivacco

Nella pagina a fronte, in alto, il gruppo al completo sulla cima del Volcan Imbabura (4630 m); in basso, un magnifico esemplare di condor distende il suo volo ad ampie spirali sopra la valle. Qui sopra, il Volcan Cayambe (5790 m) ripreso dai pressi dell’omonimo rifugio. E’ la terza cima dell’Ecuador, su cui passa la linea dell’Equatore.

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con le camionetas venute a prenderci a metà mattina, scavalchiamo di nuovo la linea dell’equatore, il “medio mundo” come dicono da queste parti, ed è qui che vediamo roteare nel cielo sette condor. E’ un avvistamento molto raro, pare, in considerazione dell’esiguità del numero di questi rapaci che in Ecuador arrivano al massimo a una sessantina di esemplari. Tutto sommato, la giornata non è completamente persa. Dopo un sabato trascorso fra i colori e la confusione del bellissimo mercato di Otavalo, partiamo alla volta del Parque nacional Cotopaxi. E’ la ragione principale per la quale abbiamo attraversato l’Atlantico. Il tempo continua ad alternare momenti di sereno, contraddistinti da un clima gradevole, ad altri decisamente pessimi. Come al solito, verso la fine della mattinata il cielo si copre e lungo la strada che sale al rifugio Tambopaxi siamo investiti da una grandinata. E’ breve, ma lascia sul terreno una coltre bianca. La nostra montagna non si degna proprio di mostrarsi. Arriviamo nel primo pomeriggio al rifugio dove, essendo domenica, troviamo un sacco di gente salita quassù per pranzare. Incredibile questo rifugio. E’ costituito da quattro strutture distinte, tutte con il tetto in paglia, ben inserite nel paesaggio: il rifugio vero e proprio, una dependence cosiddetta Vip per ospitare gruppi famigliari, una casetta per gli accompagnatori del centro ippico annesso al parco e una lavanderia. Gli interni, volutamente rustici, ma razionali, non fanno che confermare l’impressione di un 28 CAI MORBEGNO

ambiente ben organizzato e accogliente. Per di più il cibo è ottimo, come, del resto, dappertutto qui in Ecuador. Carne, pesce, contorni sono sempre di qualità e cucinati molto bene. La colazione, poi, è particolarmente ricca e curata. Anche nei rifugi a 4000 m! Non vogliamo commettere errori questa volta, perciò concordiamo con le guide di posticipare l’ascensione di un giorno. Avremo così il tempo di effettuare una ricognizione e di assuefarci meglio alla quota. Lunedì ci facciamo portare dal nostro fido Jorge al parcheggio dove termina la carrozzabile e da lì saliamo al rifugio Rivas, edificato a 4864 m e in fase di ristrutturazione. Quando la prossima primavera la struttura (e che struttura!) sarà pronta, chi affronterà il Cotopaxi potrà risparmiare circa 200 m di dislivello. Non pochi di notte e a queste altitudini. Proseguiamo poi fino all’inizio del ghiacciaio a circa 5000 m per avere un’idea del pendio che dovremo affrontare l’indomani. Il tempo è, manco a dirlo, uggioso e nel pomeriggio ci allieta al rifugio con una robusta e prolungata pioggia. Nei pochi momenti in cui la nebbia si alza un po’, ci accorgiamo con preoccupazione che la neve è caduta fino a 4000 m. Domani sarà tutta nostra. Martedì 11 novembre. E’ il Giorno. Impegniamo la mattinata con una passeggiata senza meta sulla vasta area vulcanica che si estende alla base del Cotopaxi: ondulazioni di coriacei cespugli erbosi fanno da sponde ai letti delle antiche colate laviche che a tratti si presentano a mo’ di


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canyon dalle pareti scoscese. Cavalli bradi sono visibili ovunque. Il meteo continua a fare i capricci, sembra gratificarci con un po’ di sole, ma subito ci ripensa. Il morale non è certo alto. Il rifugio Rivas, che consentirebbe di spezzare l’ascesa con qualche ora di riposo, non è agibile, così che si è costretti a sobbarcarci tutti d’un fiato 1300 m di dislivello. La via normale di salita, quella che abbiamo studiato e ristudiato in Internet, è interdetta al transito, perché interessata lo scorso anno dall’apertura di alcuni grossi crepacci, causa oltretutto di un incidente mortale. E’ stata sostituita da una variante di pari difficoltà 30 CAI MORBEGNO

tecniche, ma più dispendiosa dal punto di vista fisico. E poi il tempo: i gruppi partiti ieri sera sono tutti rientrati, respinti dalla neve, dal vento forte e dal freddo. Comunque ci prepariamo. Nel pomeriggio procediamo al controllo meticoloso dell’attrezzatura e dell’abbigliamento quindi, alle 17.30, ceniamo; a base di pasta, come fanno i ciclisti prima di una tappa. Ci restano un paio d’ore di riposo. Nonostante il silenzio, capisco che nessuno di noi sta dormendo, chiuso nei propri pensieri rivolti a ciò che lo aspetta. Alle 21.00, già imbragati, partiamo dal rifugio. Ci vuole circa un’ora per raggiungere

il parcheggio da dove inizia l’itinerario di salita. Qui incontriamo le nostre guide: Fernando, già con noi al Cayambe, e Josè, un ragazzone poco più che ventenne molto estroverso. Il nostro autista Jorge, poveraccio, trascorrerà la notte sul pulmino, nell’eventualità che qualcuno di noi debba rientrare anzitempo. Alle 22.30, quando ci incamminiamo, siamo i primi. La nebbia è fittissima, ma per fortuna non c’è vento e non fa neppure molto freddo, -2°C. Risaliamo lentamente la serie di tornanti disegnati sui minuti detriti vulcanici alla luce dei frontalini che non riescono a bucare il muro di nebbia, passiamo accanto alla sagoma scura del rifugio Rivas


e raggiungiamo il margine del ghiacciaio. Le formazioni sono già decise: davanti Walter e Flavio con Fernando, in mezzo Pierangelo e Dario in una cordata autonoma, in coda Patrizia ed io con Josè. Pietro e Stefano, più veloci, sono liberi di precederci secondo il loro passo. Comincia la lunga marcia notturna che ci fa capire subito perché la nuova via sia stata battezzata “Rompe corazones”, nome che non ha certo bisogno di traduzione e spiegazione. Per circa tre ore ci dobbiamo confrontare con pendii che in alcuni punti arrivano a 40°. Nel frattempo siamo usciti dal banco di nubi, salutati da un magnifico cielo stellato. Finalmente!

Intuisco che superiamo alcuni crepacci di cui, però, fatico a definire gli esatti contorni. Josè si dimostra una guida molto brava. Si adegua subito alla nostra andatura e ci fa tirare il fiato quando capisce che ne abbiamo bisogno. A più riprese fa anche sentire la sua presenza rassicurante: “Muy bien Patricia? Muy bien Ricardo?”. La salita procede senza intoppi. Ancora un muro spacca-cuori poi la pendenza si fa meno opprimente. Alle nostre spalle scorgiamo le luci dei frontalini dei gruppi che sopraggiungono. Comincia ad albeggiare. Con un lungo traverso a destra aggiriamo la Yanasacha, che nell’idioma kichwa significa roccia nera.

Nelle due pagine precedenti, il Tambopaxi, rifugio “con vista” sul Cotopaxi e alcuni scorci della via normale di salita al grande vulcano, la “Rompe corazones”, nel punto in cui attraversa una delicata zona crepacciata. Nella pagina a fronte, l’ultimo ripido pendio, reso più faticoso dalla neve caduta il giorno prima; Sopra, cima del Cotopaxi, la comprensibile esultanza per essere riusciti nell’impresa.

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Ci addentriamo, tagliandola orizzontalmente, in una grande e scoscesa area seraccata al termine della quale ci attende lo strappo finale. Mancano ancora 200 m e la neve caduta ieri è sempre più profonda. La quota si fa sentire, il fiato diventa via via più corto e il cuore comincia a picchiare, le soste sono più ravvicinate. Ma sarebbe un vero peccato fermarsi proprio adesso, quindi coraggio e … su! Sono le 6.24 di mercoledì 12 novembre quando mettiamo piede sul pianetto sommitale illuminato dal primo sole. Ce l’abbiamo fatta, siamo in cima! Flavio si abbandona ad una specie di danza tribale accompagnata da esclamazioni di giubilo, è commosso. Patrizia guadagna un po’ di quota sollevata in aria da Pietro e da Stefano. Gli altri, più controllati, non nascondono la loro soddisfazione con vigorose strette di mano ed energiche pacche sulle spalle. Non ci accorgiamo neppure che il sensore termometrico sistemato sul mio zaino registra un gelido -10°C. L’enorme cratere è sotto di noi, bellissimo con la sua ciambella di ghiaccio che gli fa da corona, “gigantesco - per dirla con Walter Bonatti - tuttavia così proporzionato all’intera montagna da non sembrare neppure tanto grandioso come invece è in realtà”. Un intenso odore di zolfo e la presenza di alcune fumarole all’interno della voragine stanno a testimoniare l’attività latente di questo colosso. Abbiamo appena il tempo di scattare qualche fotografia, perché dopo alcuni minuti la grande buca scompare nella nebbia. 32 CAI MORBEGNO

Nell’andirivieni dei gruppi che arrivano e che partono cogliamo alcune frasi in italiano. Provengono da una cordata appena sopraggiunta. Sono siciliani, uno di loro è guida dell’Etna, e stanno percorrendo la “Via dei vulcani”. Li incontreremo di nuovo alla Laguna Quilotoa. E’ solo in discesa, con la luce, che possiamo renderci conto

della morfologia del ghiacciaio. I crepacci che siamo costretti a superare, calandoci anche al loro interno, non c’è che dire, incutono una certa soggezione. Alle 10.00 siamo fuori dal ghiaccio e ci liberiamo di corda, imbrago e ramponi. E anche di tutti gli indumenti che possiamo, visto che la temperatura di una giornata splendida si è alzata


insopportabilmente. Ma è solo per poco. Così ad occhio oggi hanno salito il Cotopaxi una cinquantina di persone. Se, come riportano le guide turistiche, la percentuale di successo è del 50%, ciò significa che da qualche parte ci sono 50 persone che hanno dovuto rinunciare. In effetti la buona riuscita di

un’ascensione come questa dipende dall’intrecciarsi di una serie di parametri, alcuni dipendenti dall’uomo, altri dalle circostanze: la preparazione fisica, la sopportazione dell’alta quota, le condizioni meteorologiche, le condizioni del ghiacciaio. Se anche uno solo di questi ha un valore negativo, le possibilità di successo sono

La vasta area vulcanica che circonda il Cotopaxi per oltre 20 Km. E’ una landa disabitata, il “pàramo", con la vegetazione ridotta alle specie più resistenti all’alta quota. Siamo all’interno di un parco nazionale. Nelle due pagine seguenti, a sinistra, l’impressionante cratere del Cotopaxi, contornato da una caratteristica ciambella di ghiaccio; a destra, il Chimborazo (6310 m), la montagna più alta dell’Ecuador, il cui pàramo è abitato solo dalle eleganti vigogne. Sulla sua dorsale è intuibile la via normale di salita.

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fortemente compromesse. Noi siamo stati, sì fortunati, ma anche bravi nell’arrivare pronti all’appuntamento. Abbiamo ancora un bersaglio grosso, il Chimborazo, ma prima vogliamo dedicare una giornata alla Laguna Quilotoa, simbolo dell’Ecuador al pari del Cotopaxi. E’ un bel lago dalle acque verdastre adagiato sul fondo di un cratere vulcanico dalle forme regolari. Ne compiamo il periplo percorrendo una dozzina di chilometri su e giù per il suo orlo frastagliato. Per affrontare il Chimborazo stabiliamo il campo base al lodge Estrella del Chimborazo, a 4000 m di quota, alla base del versante sud ovest 34 CAI MORBEGNO

del vulcano. Il rifugio è stupefacente ancor più del Tambopaxi, perché, oltre ad essere una struttura ricettiva elegante, comoda e funzionale, è anche un museo, tappezzato com’è di cimeli alpinistici e andinistici di ogni epoca. Ne è proprietario e gestore Marco Cruz, guida con esperienze in tutto il mondo, sicuramente la più famosa dell’Ecuador. L’ambiente del Chimborazo, cuore di un parco nazionale, è il pàramo, vale a dire un territorio molto esteso che si caratterizza per assenza di popolazione e per una vegetazione ridotta a poche specie attrezzate per sopportare le altissime quote. In queste lande sono di casa

solo le esili e simpatiche vigogne. Come da programma, il Chimborazo (6310 m) è rivolto a quanti di noi hanno ancora la voglia di cimentarsi con un 6000. Walter ed io, i due “véci” della compagnia, abbiamo già deciso, senza rimpianti, di rimanere a terra, Pierangelo e Flavio ci tengono compagnia, ma solo dopo una non semplice lotta con se stessi. Partono perciò in quattro: Patrizia, Dario, Pietro e Stefano. La procedura è la stessa del Cotopaxi. Il povero Jorge li accompagna alle 22.00 fin dove può salire col pulmino e li aspetta fino al loro ritorno. Il terminal è il piccolo Rifugio Carrel, chiuso, dal quale si può


accedere al rifugio Whymper (5000 m), in ristrutturazione (anche lui!), e all’attacco della via normale che si sviluppa sul versante ovest della montagna, prima su misto, poi interamente su neve e ghiaccio. Le guide sono il solito Fernando, con il quale si è ormai creato un rapporto di complicità, e Alberto. Il vento e il freddo sono proibitivi così che Patrizia e Dario decidono di ripiegare accompagnati da Fernando, mentre Pietro e Stefano, già più in alto, scelgono di proseguire con Alberto fino alla vetta che raggiungono alle 7.30. E’ il 16 novembre. Bravi, bravi, bravi! Il Chimborazo conclude la parte alpinistica (o

andinistica?) della nostra avventura in Ecuador. Riposto l’equipaggiamento da montagna nei sacconi, i giorni che ci rimangono prima di tornare alle montagne di casa li trascorriamo da turisti. In questa veste andiamo, tra l’altro, a trovare Michele a Esperanza, comunità sperduta sui monti della regione del Chimborazo, a 3700 m di quota. Michele, o Michelito come viene chiamato con affettuosa riconoscenza, sta tentando di organizzare i campesinos di questa landa al confine fra terra e cielo aiutandoli ad impiantare alcune attività economiche che li possano far uscire dalla loro drammatica arretratezza. Nella condizione di ospiti

di riguardo, visti i rapporti di amicizia con Michele, condividiamo con loro alcuni momenti di vita quotidiana e i pasti, distribuendoci a gruppetti presso varie famiglie. L’esperienza, confesso, è inaspettata e davvero forte, tale, ne sono sicuro, da consentirci, una volta tornati alle abitudini della quotidianità, di riconsiderare alcuni parametri della nostra esistenza. Un altro risultato che rende la trasferta da noi vissuta in Ecuador un momento di crescita assolutamente positivo.

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IN INVERNO SULLA

CORDAMOLLA COI FRATELLI GRANDORI di Alberto Benini

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Il 7 gennaio del 1941, nelle sue pagine dedicate allo sport il “Corriere della sera” registrava in un trafiletto di una cinquantina di righe “l’eccezionale impresa alpinistica invernale sul Monte Disgrazia (m. 3.675 [sic]) compiuta nei giorni scorsi dalla cordata dei goliardi milanesi Ferdinando e Giuseppe

Grandori”. Si trattava, come si apprende continuando nella lettura, della prima ascensione invernale della via aperta lungo la cresta nord-nordest del Disgrazia da Ignazio Dell’Andrino con il suo cliente milanese, l’avvocato Braccio De Ferrari, nell’agosto del 1914 e nota come “corda molla”. Un’impresa che - come scrivono Miotti e Comi nel loro Monte Disgrazia, picco glorioso. 150 anni di storia (2012)- segna forse anche nel gruppo del

Disgrazia l’inizio di una nuova era alpinistica poiché fondamentalmente la cresta si eleva di poco dall’alto bacino del Ghiacciaio del Ventina e nelle sue vicinanze erano già passati molti alpinisti. Quindi il suo percorso, se vogliamo, aveva pochi contenuti esplorativi, tipici della mitica epoca dei pionieri; viceversa appare più legato al desiderio di aggiungere il tocco dell’uomo nell’estetica perfezione di una cresta nevosa che, come una scimitarra, penetra nelle rocce appena sotto la cima”.

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Nel numero del 1 febbraio dello stesso anno, “Lo scarpone” pubblicava la relazione dell’ascensione, stesa da Giuseppe Grandori, che proponiamo nel seguito, ma l’occasione (suscitata dall’interessamento dell’amico Giovanni Sicola) ci spinge ad un breve excursus sui protagonisti dell’impresa, due fratelli di origine trentina, ma ormai milanesi a tutti gli effetti, i cui destini, nel breve seguito comuni a tratti, si divideranno dopo la II Guerra Mondiale in modo drammatico. Partiamo dunque dalla fine, da quell’estate del 1945, quando, a guerra appena conclusa, è tutto un affannarsi lungo le Alpi: ragazzi che per anni hanno faticato ad uscire dalle montagne di casa, godono ora finalmente di una libertà di movimento fino ad allora impensabile. Proprio per questo quell’estate è ricca tanto di grandi ripetizioni di vie aperte prima dello scoppio del conflitto e rimaste lì, semi-abbandonate per cinque lunghissimi anni, tanto di tragedie. Una di questa ha per protagonista proprio Nando Grandori, (classe 1920) partito per la Civetta con Carlo Valli, forte scalatore comasco e presidente della sezione lariana. I due sono freschi secondi ripetitori (dopo il lecchese Ercole Esposito, anche lui vittima di quell’estate) della via Burggasser al Pizzo Trubinasca (20-21 luglio). Con questo allenamento, la grande via di Solleder sulla “parete delle pareti” la nord del Civetta (la prima via di sesto grado) appare un obiettivo ambizioso, ma raggiungibile. E invece, resterà impossibile accertarne le ragioni, i due precipitano 38 CAI MORBEGNO

quando hanno già alle spalle un tratto di circa 700 metri di via. Il complesso recupero dei corpi, arrestatisi lungo la parete, impegna una cordata di Scoiattoli, il grande Attilio Tissi e molti altri soccorritori. Nando, che si era laureato giovanissimo in agraria e che si dedicava alla professione quel tanto che bastava per finanziare la propria attività alpinistica, riposa da allora nel cimitero di Primolo. Suo fratello Giuseppe (classe 1921, universalmente noto come Pippo) si laurea l’anno successivo in Ingegneria idraulica e intraprende in seguito una brillante

carriera accademica che lo porterà, dopo il regolare cursus honorum, tutto svolto all’interno del Politecnico di Milano, alla cattedra di Scienza delle Costruzioni, ottenuta nel 1961 e tenuta fino al 1996. La Val Malenco, uno dei terreni di elezione dell’alpinismo milanese facente capo da un lato alla Sezione Universitaria Club Alpino Italiano, dall’altro alla scuola “Parravicini” , che lo ha visto appassionato arrampicatore, sovente in compagnia del fratello, continua a giocare un rilevante ruolo nella sua vita, perché proprio lì nel 1950 incontra Elisa Gaugenti, in seguito


Nella pagina a fronte: ritratto di Nando Sopra: Pippo Grandori sullo spigolo ESE al Pizzo Rachele, durante la prima ascensione. Ripetendo questa via nel 1992 con la guida Elia Negrini, Pippo ha celebrato i suoi settant’anni. Sopra e a fianco: due immagini “ufficiali” di Pippo Grandori. Nelle pagine seguenti: la “cordamolla” vista dal passo di Mello e dal Bivacco Oggioni.

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docente di varie discipline fra Statale e Politecnico (Analisi Meccanica razionale e Statica fino al 2000) anche lei appassionata di montagna, con la quale si sposa nel 1952. I due continuano a frequentare la valle, compiendo molte gite ed ascensioni, frequentazione che Elisa continua ancor oggi, dopo la morte di Pippo avvenuta nel 2011. Anche se non ha più raggiunto i livelli del periodo 1940-’42 l’attività di Giuseppe prosegue sia nel gruppo del Bernina, 40 CAI MORBEGNO

largamente esplorato, sia in Dolomiti: al Campanil Basso, alle Torri del Vajolet, alle Cime di Lavaredo, oltre che, naturalmente, nelle Grigne. Un sodalizio, quello fra moglie e marito che, andando ben oltre la vita familiare e la montagna, li ha spinti a lavorare insieme con la qualità scientifica ad entrambi universalmente riconosciuta e con profonda onestà intellettuale, nel campo dell’ingegneria sismica e della previsione dei terremoti. Una

carriera a due, conclusa con un saggio coraggiosamente contro corrente dedicato al caso dell’Aquila Ma torniamo a Nando. Nel riassumerne il profilo Pino Gallotti sul bollettino della SUCAI scrisse: “La ‘corda molla’ ci ricorderà la sua prima invernale, compiuta col fratello. La nord dell’orientale ci svelerà un altro suo ardito percorso. E ancora nel Disgrazia più ad occidente il costone ‘degli inglesi’ una delle sue prima notevoli affermazioni


ci parlerà di lui. E poi dovunque, sulla Kennedy, sul Cassandra, sul Rachele, sulla Vazzeda, sulla Cima di Rosso su tutte le vette del Gruppo ci sentiremo accanto la sua forte e aperta personalità”. Tracce di un’attività cospicua, soprattutto per quegli anni dove i movimenti erano limitati e difficili. Vediamo di seguire queste tracce, a partire dalla salita del vergine versante est del Monte Braccia con Nini Franzoni, Galli e Perotti il 29

giugno 1941 per continuare con la prima invernale della via Silvestri-Albareda (1905) alla parete ovest-nord-ovest del Pizzo Cassandra col medesimo Perotti, il 2 gennaio 1942, cui fa seguito il 19 luglio dello stesso anno l’apertura di una via nuova sulla parete estnord-est del Pizzo Rachele con Costanza Catenacci e Catoretti. L’anno seguente Nando torna al Pizzo Rachele col fratello e Perotti per vincerne lo spigolo est-sud-est il 25 agosto 1943. Il richiamo dell’inverno lo

porta il 9 gennaio sulla Cima del Duca per la prima invernale alla montagna condotta lungo la via normale (cresta nordest) con Giacomo Schenatti e i fratello Odello. La sua ultima nuovavia è quella tracciata sulla parete nord della Vetta Orientale del Disgrazia col solito Perotti, il 30 luglio del 1944. “Di grande soddisfazione per i due fratelli era stata -come ci scrive la professoressa Guagenti- il 14 luglio 1942, CAI MORBEGNO 41


la prima ripetizione della via diretta alla parete sud dello Scerscen con traversata Scerscen-Bernina (la prima si ascrive a Cesare Folatti nel 1928). Ancora dagli appunti di Nando: “Partiamo alle 4 con la lanterna… Rocce antipatiche, solide, ma con appigli mal disposti e molti detriti… In tre ore abbiamo superato 500 metri di parete… un primo salto di 30 metri lo supero portandomi sullo spigolo, con esposizione fortissima (al di sotto, salto verticale di 500 metri). Abbiamo perso circa 1 ora per superare questi 10 metri. Per la cengia e poi per facili rocce la vetta . Ore 12.30. Dall’attacco ore 5.30…. All’una ripartiamo per la traversata. Ambiente superbo, di altissima montagna… Alle 18 siamo alla Capanna Marco e Rosa. Ci fermiamo a mangiare. Alle 21 siamo di ritorno alla Marinelli. Folatti ci fa i complimenti.” La circostanziata relazione ci fa senz’altro ritenere che vada pertanto modificato il cappello introduttivo a pagina 228 della guida “Bernina” di Canetta e Miotti (CAI-TCI, 1996) che attribuisce la prima ripetizione della via a Elia Negrini con Enrico Tessera, il 14 agosto 1991. A Ferdinando Grandori e alla sua compagna nell’ascensione invernale alla Cima del Duca, Carla Odello, perita a sua volta in un tentativo invernale (in sua compagnia) alla Cima di Vazzeda nel 1944, è dedicato il bivacco OdelloGrandori al Passo di Mello, appartenete al Gruppo Centrale dell’Accademico, posto in loco nel 1948. Mentre il compagno di Grandori nel tragico tentativo alla Solleder, Carlo 42 CAI MORBEGNO

Valli, venne ricordato dal CAI Como mediante la costruzione del bivacco che porta il suo nome in Val Arnasca, istallato nel 1946 e rifatto nel 1998. NOTA. Il testo che segue si basa sul dattiloscritto con correzioni/integrazioni manoscritte, favoritici dalla prof. Elisa Guagenti e presenta lievissime difformità rispetto a quello apparso su “Lo scarpone”. Ringraziamo la professoressa Guagenti e Lorenzo Renato della Biblioteca “Gabba” del CAI Milano per le preziose informazioni e ricerche. UNA “PRIMA” INVERNALE Fare una prima è una cosa che sempre impressiona ed attira l’appassionato alpinista. Non è infatti l’ascensione sicura, di difficoltà definita e catalogata, e per la quale quindi si parte solo se sicuri di poterla compiere felicemente; ma è la lotta contro un nemico sconosciuto, che potrà essere vinto, ma potrà anche sdegnosamente respingere l’assalto del piccolo, presuntuosissimo scalatore, distruggendolo, annientandolo. Questo pensiero dominava la mia mente durante le lunghe ore notturne di salita sul Ghiacciaio di Val Ventina, mentre mi avvicinavo al Disgrazia, da qualche anno centro per me di irresistibile attrazione. D’estate l’ascensione non era eccessivamente difficile (io e mio fratello l’avevamo già fatta); ma ora? E qui mi veniva a mente tutta la strada da percorrere: lo spigolo di neve sarà ora praticabile? L’attacco delle rocce sarà sufficientemente sgombro dalla neve? Ci sarà molto vetrato? Faremo in tempo a ridiscendere in “zona di

sicurezza” prima che ci prenda il buio? Questi e altri punti interrogativi vagavano per la mia mente e accrescevano in me il desiderio di giungere presto là dove ogni dubbio sarebbe stato sciolto, favorevolmente o no. E intanto si saliva, con passo ritmico e lento, alla tremolante luce delle lanterne, nel silenzio incredibile della notte in montagna, nel gelo inesorabile della notte invernale. Che ore sono? Le 4 del mattino. Ancora cinque ore di salita al buio. Ben presto gli sci lasciano il posto ai ramponi, e su, senza fermarsi, per non perdere tempo, perché il freddo non intorpidisca le membra. Le cinque, le sei; la stanchezza comincia a farsi sentire, il freddo si fa più intenso. Le 8; finalmente, dietro le nostre spalle, il grigiore dell’alba; finalmente il luogo dove, prima dell’ultima parte dell’ascensione (quella più difficile), ci riposeremo un poco. Manca qualche minuto allo spuntare del sole; ci sediamo su di un sasso che sgomberiamo dalla neve, e guardiamo; guardiamo incapaci di fare commenti, riuscendo solo ad esclamare ogni tanto, quasi a turno: “Meraviglioso! Fantastico!”. È uno di quei momenti che ripagano di ogni fatica, di qualsiasi sacrificio. Nel fondovalle la penombra si attarda ancora, come una nebbia ostinata che si opponga alla forza del sole; ma risalendo con lo sguardo gli immacolati pendii, contemplando l’immenso anfiteatro purissimamente bianco, che si stende dinanzi a noi, delimitato dalle ultime creste nevose, lontanissime, ma di incredibile nitidezza, ci si sente straordinariamente lontani, non


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solo materialmente, da tutto ciò che si trova giù in basso, e là si agita, gira, suscitando un frastuono che non ci può raggiungere. Il sole, sorto d’improvviso davanti a noi, strappandoci per un attimo dalla muta contemplazione, ci fa quasi gridare per la meraviglia e per la gioia, un’immensa gioia che ci invade il cuore e ci rende il respiro affannoso. Lo spettacoloso scenario, prima circonfuso di una infinita mestizia, ora si illumina della luce più radiosa; le cime si indorano, sembrano risvegliarsi alla vita, dopo la tetra, fredda notte. E quasi crediamo di sentire un po’ di tepore giungerci dal sole. È un’illusione: il freddo è più intenso che mai, e il calore che sentiamo invadere il nostro corpo è dovuto soltanto all’emozione, alla purissima gioia che ci rende felici e assopisce completamente i nostri sensi, allontanando ogni sensazione dolorosa, la stanchezza, il freddo. Questa è la natura, a contatto della quale proviamo le più 44 CAI MORBEGNO

incontaminate felicità, nella quale soltanto ci liberiamo del fastidioso bagaglio dei piccoli dolori, delle meschine passioni della vita quotidiana. Questa è la palestra dove tutti dovrebbero esercitare il proprio spirito, questa è la maestra delle virtù più belle. Essa solamente ci mette sulla via per diventare migliori. Ma il tempo passa e noi non ne abbiamo da buttare via: bisogna sbrigarsi. Si ricomincia a salire, più lenti, più cauti, sull’esile e ripida cresta di neve, la cosiddetta “corda molla”, che ci porta alle soprastanti rocce terminali che ogni tanto interroghiamo con lo sguardo. Ce la faremo? Ogni tanto diamo anche uno sguardo al pauroso scivolo della parete Nord, di ghiaccio nero, che termina con un salto di quasi 200 metri. Avanti, uno per volta sull’ertissimo scivolo di neve. Finalmente le rocce: la vetta non si vede ma, lo sappiamo bene è a non più di 150 metri. Mio fratello sale, lentamente con grande prudenza; i ramponi stridono sulla roccia, il respiro è un po’

affannoso. Il punto è brutto: mio fratello pianta un chiodo per farmi salire in assicurazione. E ora tocca a me; con qualche fatica riesco a portarmi sulle rocce e a raggiungere mio fratello. E poi su ancora, con le mani, che gelano e non vogliono fare il loro dovere, su senza soste, ché la montagna è dura e il tempo vola. Un passaggio particolarmente rischioso richiede un appiglio artificiale, e un chiodo si presta a questo servizio; io dovrò toglierlo nel passare, ma non importa: sono ben assicurato dall’alto. Mezzogiorno è passato da un pezzo e ancora siamo lontani dalla meta. Ma ormai siamo sicuri del fatto nostro; le difficoltà dovrebbero diminuire. Mio fratello, instancabile, si soffia sulle mani e via; lo vedo sparire dietro uno spuntone; ogni tanto mi giunge la sua voce, calma: “attenzione!” lo dice per abitudine.. A un certo momento cambia tono: “Ci siamo. Mancano pochi metri!” Infatti poco dopo lo raggiungo e vedo, a non più di venti metri, la vetta. Un’ultima crestina di


neve ci separa da essa: due lunghezze di corda e ci sediamo, stanchi e felici, ad ammirare il meraviglioso panorama, in una giornata come raramente è dato vederne. Il contorno delle montagne è limpido, netto, tagliente, contro un cielo quasi estivo; sulla pianura, a perdita d’occhio, il mare di nuvole. Calcoliamo il tempo occorrente per la discesa; questa ci preoccupa un po’, ma è pur necessario riposarsi se non vogliamo “volare” nel discendere le rocce. Sono le 14.30. Ripartiremo alle 15. Colla maggior velocità possibile, compatibilmente con la necessaria prudenza, iniziamo la discesa. Quando ancora le cime più alte sono sfiorate dal sole che tramonta, e già il buio sale a noi dalla valle, giungiamo alla base della cresta nevosa: le difficoltà sono finite: solo una lunga camminata sul ghiacciaio ci separa dal rifugio; prima o poi ci arriveremo. Ma la stanchezza cui avevamo finora reagito con successo, rallenta la nostra marcia sulla neve dove a tratti si affonda fino al ginocchio, e

rende estenuante quella strada che avevamo percorso in salita con relativa facilità. Ed ecco che, quando poco più di un’ora ci separa dal rifugio l’ultima candela si esaurisce e rimaniamo al buio, poco prima di attraversare l’ultima seraccata del ghiacciaio. Tre ore impiegammo per trovare il passaggio; tre ore di tentativi e di delusioni, tre ore di freddo terribile, con la prospettiva di dover aspettare il giorno fermi, con un venticello che scendeva dal Disgrazia e che penetrava nelle ossa. E io mi ripromettevo, una volta arrivati al rifugio, di starmene a lungo vicino alla stufa, al caldo, a pensare ai disagi passati per godere più intensamente il conquistato benessere. Come Dio volle, alle 4 e mezza del mattino, arrivammo al rifugio. Il nostro arrivo non fu certo trionfale: non eravamo esultanti per la vittoria, ma cascavamo dalla stanchezza e dal sonno: avevamo camminato per 28 ore quasi senza fermarci, senza mangiare e senza bere (tutti i nostri viveri solidi e liquidi

erano stati resi immangiabili dal gelo). Mi ricordo solo che mi svegliai all’una del pomeriggio, con un bel sole che entrava nella cameretta ove dormivamo io e mio fratello. Egli si era già alzato e mi chiamava per andare a tavola. Quella sera eravamo seduti vicino alla stufa, al caldo, a chiacchierare col custode del rifugio: “Livio, per la traversata Roseg-Scerscen-Bernina, basta un giorno o è necessario un bivacco?” Così è la montagna: la sera prima avevo giurato che non ne avrei più parlato per qualche mese ed ora … Giuseppe Grandori gennaio 1941

Qui sopra: il Monte Disgrazia con il bacino di accumulo del ghiacciaio del Ventina; più a destra la Punta Kennedy, il canalone della Vergine e il Pizzo Ventina. In secondo piano la Cima di Rosso e il Vazzeda. Nella pagina precedente: arrivo in vetta al Disgrazia dalla “cordamolla”.

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VISTI DAGLI ALTRI di Andrea De Finis

Quando mi è stato chiesto di scrivere un articolo per l’annuario del 2014, mi sono trovato spiazzato: meteorologicamente l’estate non ha concesso grandi evasioni, lavoro e schiena hanno completato l’opera sul finire dell’anno. Insomma Musa fuori servizio! E se è vero che il tema suggerito “qualcosa sulla Montagna” lasciava ampi spazi di manovra, ad una settimana dalla data di consegna il foglio era ancora immacolato e io mentivo spudoratamente “bozza pronta, lasciami qualche giorno per affinarla” ai solleciti che fioccavano. Poi un’idea. Tra viaggi e frequentazioni personali, mi sono capitati episodi che, rimandando in certo qual modo a Montagna e/o Valtellina, mi hanno fatto ora sorridere, ora stupire, ora riflettere. Di seguito una piccola cernita. 46 CAI MORBEGNO

Vivete sulle montagne?

Primo anno di università. Sto descrivendo ad un’amica sudamericana, trasferitasi a Milano per un anno di studi fuori sede, da dove vengo e dove vivo. Le sue pupille cominciano a dilatarsi ed esterrefatta mi chiede: “Ma voi vivete sulle montagne?”. Quella preposizione “sulle” mi ha illuminato. Si stima che la popolazione che risiede in zone montuose non superi il 9% di quella globale. Facciamo parte di quella minoranza, élite per i più snob, che per rilassarsi, divertirsi, difendersi, può sfruttare oppure deve tenere in conto una dimensione in più, la z, che si sviluppa in altezza. Altro protagonista, stesso soggetto. Mi fa visita un amico finlandese. La Finlandia non è propriamente terra di vette e l’amico, eccezion fatta per

una paio di capitali europee, è ad uno dei suoi primi viaggi oltreconfine. Raggiungiamo la baita col buio e proseguiamo la serata integrando abitudini alcoliche scandinave e alpine, finché barcollando ci imbrandiamo. Ci svegliamo l’indomani mattina dominando da 900 metri di altezza i Piani Selvetta e spazzolando con lo sguardo l’arco di Orobie compreso tra Campo Tartano e Val Cervia. La vista di cui godiamo, per me scontata come un pezzo di formaggio a fine pasto, lascia il finnico letteralmente imbalsamato. Da allora il piacere della “vista” è diventato anche consapevole.

Scorciatoie

Sempre di Suomi si tratta. Da Helsinki mi viene a trovare una coppia di finlandesi, anzi una tipica coppia di


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finlandesi: lui riflessivo, discreto, silenzioso, lei una radio che sfora costantemente i decibel consentiti. Propongo e organizzo una passeggiata alla capanna Ponti, in maniera tale da non farmi mancare la consueta gita e permettere ai miei ospiti un’immersione in un ambiente a loro non consueto; non da ultimo nutro la speranza che un’andatura sostenuta costringa la lei della coppia a dedicare lo scarso ossigeno alla marcia e non alla voce. Sulla via del ritorno la radio in auto è spenta perché impossibile ascoltarla. Dal nulla lui, zitto praticamente dalla partenza, sentenzia: “Andrea, è come se oggi avessi percorso 1.500 km, percorrendo la Finlandia da Helsinki al nord della Lapponia: prato, bosco, taiga, tundra e poi un po’ di neve in qualche centinaio di metri di dislivello”. Affinando il concetto della dimensione in più: la scala sulla z è molto più fitta di quella nelle direzioni in piano.

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Sacro Macello

Ho 16 anni e mi trovo in Catalogna con la squadra di calcio del Morbegno per un torneo. In un negozio attacco bottone con il gestore che parla un ottimo italiano; dopo presentazioni e convenevoli menziono la Valtellina e lui se ne esce con un “Certo che anche voi con il Sacro Macello ne avete fatti fuori di Cristiani”, e poi aggiunge “e non paghi avete infierito battezzando le zone fino ad allora abitate dai riformati come Costiera dei ciechi (Cech) verso il Signore”. La mia prima lezione di storia valtellinese mi è stata impartita in Spagna da un commerciante di articoli sportivi! Storia che, per inciso, presenta inaspettate e curiose ripercussioni fino ai giorni nostri: Urlich Grillo, proprietario della squadra di calcio Shalke04, tra i più stimati industriali di Germania, nonché attuale presidente della Federazione industriale tedesca, l’analogo della nostra Confindustria, discende da tale Cristoforo Grillo, scampato al macello e scappato al nord, e

la cui prole ha fondato una dei maggiori colossi siderurgici europei. Chissà come sarebbe la Valle se fossimo tutti un po’ più protestanti … e qui salto ad altro per non incorrere in scomuniche.

Tutto è relativo

Frequento l’Algeria dal 2007, prima risiedendovi e ora visitandola con regolare frequenza. Quando passo nella zona di Tizi Ouzou, in Cabilia, lo sguardo è sempre rivolto verso l’alto e tra dicembre e febbraio la neve è spesso abbondante e i pendii sembrano disegnati per salirvi con le pelli e scendervi con gli sci. Il pensiero però rimane tale: la presenza tra quei monti di barbés (barbuti) locali, più interessati alle gole degli infedeli che alle curve sulla neve, rappresenta un ottimo deterrente. Infine, mio malgrado, son lì per altro. Coerentemente con i costumi locali, gli appuntamenti di lavoro non sempre seguono decorsi “svizzeri”ed é anzi buona norma organizzarsi a


lunghe attese e mettere in preventivo frequenti posticipi e non rari annullamenti: inshalla insomma! In una di queste occasioni condivido l’interminabile anticamera con due locali che conversano tra loro in quel misto di arabo, francese, berbero e contaminazioni varie di cui a stento capto qualche parola. Improvvisamente scoppiano a ridere e paiono incapaci di smettere. Incuriosito li lascio decantare e poi domando in francese il perché di tanta ilarità; di rimando mi chiedono la mia nazionalità e solo alla mia risposta uno finalmente replica” Ah no, tu no allora! Voi siete mediterranei” e aggiunge “si rideva sul fatto che in Europa ci sia gente che spontaneamente fatica per arrampicarsi sulle montagne e prender freddo sui ghiacciai, ils sont des fous (sono dei folli)!”e giù ancora a ridere, questa volta in mia compagnia. In alto: dall’Alpe Scermendone, vista sulle Orobie fino al Monte Spluga. Sopra: in arrampicata sul Torrione Porro. A pa. 67: salendo al Rifugio Ponti.

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LA ME GUIDA ALPINA

SECONDO

Dall’indagine GUIDE ALPINE A CONFRONTO Cinque domande a Giuseppe “Popi” Miotti di Renato Frigerio Pubblicato su Uomini e Sport n.9 - 2012 Rivista aziendale di Sport Specialist

Giuseppe Miott

ze i - Via Gavaz

ni 1 –

E-m 23100 Sondrio

twebnet.it ail: pomio@fas

Tel. +39 (0)34

2200366

Sondrio 07/01

/2015

Bianchi liane Cesare Cesa ide Alpine Ita Spett. G.A. Nazionale Gu gio lle Co Presidente

Una attività, quella da lei intrapresa, dettata da pura passione, o come valida soluzione professionale? La sua cioè è stata una scelta dove a giocare è stato un irresistibile amore per la montagna, per cui starsene lontano, anche se solo saltuariamente, avrebbe comportato di soffrirne la mancanza? Oppure diventare guida alpina costituiva per lei l’opportunità, comunque degna di approvazione, di immettersi in una carriera vantaggiosa, ancorché piacevole? Ad essere sinceri la mia scelta è stata dettata soprattutto da un innato spirito anarchico e da un’insofferenza fisiologica verso il lavoro dipendente. 50 CAI MORBEGNO

Ogge tto: co

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olo di Gu egna de l tit

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Maestro d'

Alpinismo

di i ufficiali (ve lle posizion , te alieno da e fa traboccare il vaso en alm tot vedono ccia ch mo. tro d'Alpinis ' come la go enti che mi es po nim Ma un ve e av a ro recenti e conside di Guida Alpin alla luce di l'eliski) e ch I il mio titolo , denza verso nare all'AGA professionale accondiscen e di conseg stra figura ion cis de a mi data alla no . ne ina vie alp gi comunico la og ida e rarmi Gu ostazione ch zzo nel dichia rano dall'imp vo in imbara che mi sepa a vissuta a nfesso, mi tro co lo Le distanze , lte una montagn vo inismo e di tali che a sono ormai ideale di alp to sta è e lo ch re ad un tito nici. e ai peso rinuncia n i mezzi tec convenienze Per me è un prima che co r troppo alle co an e or nza badare se e 360°, col cu es pr o nn decisioni va i. nti in cui le uno di quell sono mome Sport" n. 9 e questo sia Tuttavia ci ch e "Uomini e go ten Ri mi. sta. sul magazin lis ta giu nta a vis ell me er qu nti int se sioni (vedi darsi che sia te, ma può e in più occa modo di dir lle mie vedu da uto lto av indi ecco mo già qu stesso e Come ho presa diverge cidere per me la direzione libertà di de Nov. 2012), la vo er ris ma mi are per altri, etto di giudic Non mi perm il mio passo.

Caro Sig. Pr

esidente,

Cordialmente

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lmente da Firmato digita otti Giuseppe Mi pe Miotti, ep ND: cn=Gius o, ou, fastwebn email=pomio@ et.it, c=IT .07 Data: 2015.01 0' 13:07:55 +01'0


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In seconda battuta la professione mi avrebbe permesso di integrare ad hoc quello che in realtà mi sarebbe piaciuto essere e che poi sono diventato: un comunicatore della montagna a 360°. A conti fatti, quindi, non ho scelto la professione principalmente per portare in giro clienti; diciamo che l’ho ritenuta un necessario compendio per quella figura che volevo essere. Posto in questi termini, le risulta ora che questo lavoro sia sufficientemente ripagante in fatto economico, o necessiti di essere supportato, e fino a che punto, da ulteriori entrate ed eventualmente attraverso quali impieghi? Quanto a lungo inoltre una guida alpina può rimanere su questa faticosa breccia? Mah! Ci sono molte guide che riescono a vivere della sola professione, specie se hanno la fortuna di abitare in località ad alta vocazione turistica e trovano uno o due clienti bravi e facoltosi. Tuttavia più passa il tempo e meno sei rispondente alle alte prestazioni, a volte, alla fine, basti appena per te stesso. Se parliamo solo di portare in montagna la gente, di sicuro la professione ha momenti faticosi e richiede una presenza psico-fisica che, se non sei un incosciente, può essere alla lunga logorante. Non è che puoi rimanere molto al vertice, anche se ci sono esempi bellissimi come l’engadinese Paul Nigg che a più di 80 anni fa ancora i suoi giretti, ma ormai è diventato un’icona ricercata e poi in Svizzera la professione di guida gode di ben maggiore considerazione sociale. Quindi, in generale, direi che in Italia 52 CAI MORBEGNO

più la guida invecchia e più per lei diventa difficile ottenere sufficienti soddisfazioni economiche con il lavoro puro di accompagnatore. Avendo ben chiara fin da subito questa condizione, ho cercato di estendere la mia professionalità pur rimanendo fedelmente ancorato alla pura attività fra montagne. Per questo ho studiato molto e ho investito in formazione personale. La mia idea era e resta quella di valorizzare i territori montani sotto ogni possibile profilo per far prendere coscienza del loro inestimabile valore culturale e ambientale. Per realizzare questo progetto, fare la guida pura è forse l’attività meno efficace. Scrivendo, fotografando, divulgando, proponendo, creando, consigliando, denunciando apertamente scempi e attentati al paesaggio, ottengo secondo me un risultato molto più valido e coinvolgente. Ecco dunque che con quello che faccio mi trovo ad avere migliaia di clienti virtuali e pochissimi clienti veri. Preservare e valorizzare il territorio vuol dire preservare e valorizzare assieme al resto anche la professione della guida. Come ho già detto ai miei colleghi, sotto questo profilo siamo veramente carenti, ci limitiamo a salire e a scendere, ma, se c’è da prendere apertamente una posizione, il nostro coraggio si rintana fra le vette. Forse dovremmo smettere di pensare a salvaguardare egoisticamente la professione tacendo per convenienza, o supposta tale, su argomenti di scottante attualità come ad esempio quello ambientale nei suoi vari aspetti. Bisogna essere più attivi e presenti per

non subire a posteriori scelte fatte da altri sul territorio che è la fonte principale del nostro lavoro. Esistono, o potrebbe lei stesso proporne la costituzione, forme proficue che riescono ad incrementare il ricorso all’impiego della guida alpina da parte degli appassionati di montagna che desiderano raggiungere cime che non sono alla loro portata indipendente? Quali sono le montagne di più forte richiamo e di maggior interesse? Per tutto ciò che ho detto io penso che la nostra presenza nelle scuole sia determinante, noi siamo il “genius loci” della montagna. Purtroppo viviamo da anni in uno stato di non dichiarata concorrenza con il Club Alpino che ci sottrae molte opportunità. Personalmente proverei a stabilire un “new deal” col CAI, ma le resistenze sono fortissime da entrambe le parti. Del resto come stupirsene quando si legge che l’Accademico ha nuovamente bocciato l’accesso al sodalizio da parte delle guide e che le guide (l’AGAI) si scordano di avere avuto come collega uno dei più grandi alpinisti di tutti I tempi, Walter Bonatti. Sono due cose solo apparentemente diverse: entrambe dimostrano una carenza culturale e una ristrettezza di vedute impressionanti. In tutto ciò il Club Alpino ha inoltre un’altra grave responsabilità perché non aiutare le professioni di montagna genera in ultima analisi un danno alla montagna stessa che si trova priva proprio di coloro che la potrebbero difendere e gestire al meglio. Scusate, sono andato fuori


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tema. Le montagne di più forte richiamo e di maggior interesse? Tutte le montagne hanno molto da dire, spetta a noi mettere in luce le loro caratteristiche. La storia delle montagne non è fatta solo di vie e di alpinisti, anzi, può essere più affascinante il Cornizzolo del K2. Però qui entriamo in un terreno scivoloso, dove dovrei parlare di accettazione dei propri limiti, di alpinismo della rinuncia, di volontaria limitazione all’uso della tecnologia, di… filosofia. In base alla sua esperienza, potrebbe tracciare i diversi profili dei suoi clienti, classificandoli cioè nel riferimento alle motivazioni che li spingono ad affrontare salite che sono lontane dalle loro autonome possibilità: si tratta cioè di fatue ambizioni, di una dimostrazione di autostima, o di autentica passione per poter gustare le emozioni e i brividi di 54 CAI MORBEGNO

arrivare su cime che si erano a lungo sognate? E quali sono i rapporti che si stabiliscono con i diversi tipi di clienti? Su questo aspetto ho poche esperienza. Ho avuto clienti che volevano fare cime importanti come il Badile o il Bernina per dire di esserci stati, Ho avuto clienti che volevano fare salite difficili per lo stesso motivo, ma ci sono stati anche clienti che, consci dei loro limiti, eppure amanti della natura alpina, volevano provare a spingersi ove arrivavano solo in sogno. Questi ultimi sono quelli che ho apprezzato e apprezzo di più e che ricordo con maggiore intensità. Sempre per le scelte di cui sopra ho orientato molto la mia attività verso l’insegnamento mediante corsi di roccia, di alpinismo e di arrampicata sulle cascate di ghiaccio. Ho avuto anche dei clienti con i quali si è instaurato un vero rapporto di amicizia e proprio da loro ho avuto alcuni degli input più importanti

che mi hanno spinto sempre più verso la ricerca di una completezza che non fosse solo tecnica. Quindi sempre più mi sono allontanato dall’ambiente delle guide sebbene mi senta strettamente legato a questa professione e orgoglioso del mio titolo. Da anni vedo profilarsi una silente involuzione della nostra figura, sempre più imprigionata in tecnicismo esasperato condito da sigle, certificati, omologazioni e balle varie. Se ci si accontenta di fare i manovali va bene, ma il valore della nostra figura, compresa quella degli accompagnatori, ci consente di aspirare a qualcosa di più... L’impressione è che stiamo ossessivamente continuando a guardare solo in una direzione, ma che siamo già da tempo stati superati dall’altro lato. La nostra credibilità non va oltre il mero aspetto tecnico; ripetendomi, credo sia giunto il momento che la nostra professione entri nella storia


delle Alpi non solo come distante (anche se “mitica”) icona di un modo di vivere la montagna, ma anche come testa pensante, coscienza attiva e proponente o all’occorrenza antagonista. In altre parole come membro costruttivo del futuro delle Alpi. Facciamoci conoscere non solo per i nostri programmi e le nostre abilità: cose da dire ne abbiamo eccome. Si tratta di un percorso lungo che andrebbe gestito a livello nazionale e che sicuramente richiederebbe di investire diversamente denaro e finanziamenti. Ad esempio manca un nostra presenza periodica sotto forma, che so io, di un annuario o una rivista nazionale che dia voce alla professione nei suoi vari aspetti e magari sia accessibile anche al grande pubblico. Non scordiamoci che buona parte dell’alpinismo di punta ieri come oggi è stato prodotto proprio dalle guide alpine; Dibona, Piaz, Comici, Bonatti erano dei nostri L’ultima domanda riassume forse insieme il senso delle precedenti e delle relative risposte: se un colpo di spugna riuscisse ad azzerare gli anni e far tornare da capo, si sentirebbe ancora di affrontare il lungo e impegnativo percorso richiesto per conseguire il brevetto di guida alpina, e rimettersi poi a cimentarsi in questa attività come scelta di vita? Diventare guida non è impegnativo anche se sicuramente è diventato molto oneroso sul piano finanziario, il difficile è rimanerlo e soprattutto farlo senza “tradire” la professione con attività che

hanno ben poco a che fare con il suo spirito originario. D’altra parte mi rendo conto che se si deve sbarcare il lunario e lo si può fare utilizzando qualcuna delle nostre conoscenze tecniche anche fuori dall’ambito della montagna. Solo in minima parte posso considerarmi una guida nell’accezione comune del termine e forse la professionalità che mi sono costruito negli anni è difficilmente replicabile e trasmissibile, ma credo che in parte ciò sia dovuto anche al fatto che la figura della guida alpina è pressoché ignorata e la si conosce solo per quello che ci giunge da una certa letteratura. Si fatica a far comprendere la nostra grande valenza e i primi a peccare di difetto nella comunicazione siamo noi. L’attuale

situazione non favorisce il fiorire della professione e occorrono flessibilità e fantasia per ritagliarsi spazi economicamente validi. Anche questo continuare a ricercare e a ricrearsi fa parte della libertà che ci siamo scelti.

Qui sopra: due generazioni di Guide Alpine, Giuseppe Miotti con Ignazio Dell’Andrino. A fronte: 2011, Miotti durante l’apertura della Via del 149° al Monte Disgrazia. A pagina 42: una recente immagine di Giuseppe Miotti. A pagina 43: anni ‘80, durante un’esplorazione sulle rocce di San Gregorio alla Sirta A pagina 45: “Popi” Miotti in apertura sul Pèsgunfi nel 1985.

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VALA I diversi approcci ad un problema complesso di Riccardo Scotti

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NGHE La complessità della neve

La valutazione della stabilità della neve è di una complessità che potrebbe scoraggiare chiunque voglia sbatterci il naso alla ricerca di una procedura standard valida in ogni situazione. Parliamo di strati su strati di neve con caratteristiche diverse l’uno dall’altro che variano, spesso in modo sostanziale, in base a quota, esposizione, localizzazione. Lungo un itinerario si possono incontrare condizioni estremamente differenti spostandosi di qualche metro. Si può essere quasi totalmente al sicuro

muovendosi su una cresta mentre basterebbe spostarsi nell’avvallamento a pochi metri di distanza per staccare una valanga con facilità. Inoltre la neve è in grado di modificarsi anche nel giro di poche ore, aumentando o abbassando il rischio valanghe e rendendo tutto ancora più complesso. Purtroppo per “imparare” ad evitare le valanghe non esiste una procedura specifica che ci dia delle certezze e, cosa ancora più problematica, l’esperienza la si accumula con estrema lentezza. Nella maggior parte dei casi il pendio nevoso non ci fornisce

alcun avvertimento della sua pericolosità fino al distacco della valanga. Se ci fossero dei segnali premonitori chiari ognuno nel giro di poco tempo si creerebbe un solido bagaglio di esperienza utile ad evitare il distacco di valanghe. Invece chissà quante volte abbiamo tracciato un pendio e siamo arrivati ad un passo (meglio sarebbe dire un chilo) dallo staccare un lastrone senza accorgerci di nulla e ci siamo goduti una splendida sciata in tutta serenità.

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Minimizzare il rischio

Quindi? Che fare? Adottare un approccio fatalista sulla base della famosa quanto mal interpretata massima per cui “la valanga non sa che tu sei esperto”, quindi tanto vale andare senza cognizione di causa? Direi di no, ci sono molti semplici concetti ed accorgimenti che, una volta assimilati e messi in pratica, permettono di abbassare il rischio di incorrere in una valanga. Non è questo lo spazio per trattarli in modo sistematico, per quello occorre impegnarsi nello studio dei lavori dell’AINEVA, dei tanti manuali sull’argomento o affidarsi agli insegnamento dei corsi con Guide Alpine, CAI e AINEVA. Voglio però fare luce su alcuni aspetti un po’ particolari. Il lavoro preparatorio a casa è estremamente importante. 58 CAI MORBEGNO

Scegliere accuratamente l’itinerario dopo essersi informati il più possibile sia sul web che chiedendo senza timore a chi è più esperto, leggere attentamente il bollettino valanghe giorno dopo giorno, controllare i report delle gite delle giornate precedenti, studiare l’itinerario nel dettaglio principalmente alla ricerca di punti “critici” da affrontare. Gran parte del rischio lo si abbassa seguendo passo passo l’evoluzione nivometeorologica nei giorni precedenti la gita grazie all’osservazione diretta o al web, che ci permette tenere la situazioni sotto controllo senza avere le montagne sott’occhio tutti i giorni. La tecnica del “parto poi valuto sul posto” è pericolosa perché implica grandi competenze nella scelta della traccia e nella conduzione di una gita, due aspetti che

necessitano conoscenze ed esperienza di altissimo livello. Al contempo non bisogna incorrere nell’errore di spegnere il cervello una volta che ci si trova sul pendio studiato a tavolino. Durante la gita è fondamentale assimilare tutti i segnali che ci fornisce la montagna, analizzarli in continuazione e prendere decisioni che siano il più possibile razionali.

I vantaggi ed i limiti dell’approccio empirico Un approccio che credo possa aiutare soprattutto i principianti è quello “empirico”, ovvero basato sulla conoscenza degli eventi valanghivi su un determinato itinerario. Molti di noi percorrono spesso itinerari più o meno classici dove la conoscenza delle valanghe avvenute negli ultimi anni,


Distacchi alla Cima della Rosetta: a fianco lastrone spontaneo staccatosi a seguito della violenta perturbazione del 25-26.12.2013; sotto a sinistra il catastrofico distacco provocato che ha causato il decesso di uno scialpinista il 9.2.2009 (foto D. Grossi); sotto a destra doppio lastrone staccato dal passaggio di scialpinisti il 13.1.2008 senza conseguenze. Nella pagina a fronte: grande lastrone staccatosi dai pendii del Munt de Sura (2 dicembre 2012). Nelle pagine precedenti: il crollo della cornice ha provocato un distacco dalla cresta del Munt de Sura.

nel mondo scialpinistico locale, è ormai di pubblico dominio. Risalire un pendio sapendo dove in passato si sono staccate valanghe e le condizioni che hanno causato questi distacchi è importante, soprattutto per chi non ha ancora raggiunto elevate competenze in ambito nivologico. Scegliere una gita o la traccia in base a queste conoscenze aiuta ma non ci toglie da ogni impiccio visto che proprio gli ultimi anni ci hanno dimostrato come, in determinate situazioni, si

possano staccare valanghe anche in pendii da sempre considerati “sicuri anche con rischio 4 o 5”. Un esempio noto a tutti lo troviamo sulla popolare pala sommitale della Cima della Rosetta. Nonostante una frequentazione assidua, dal 1987 al 2008 non si è staccata alcuna valanga significativa tanto che ormai la meta veniva considerata "esente” da pericoli. I lastroni del 2008 e quello catastrofico del 2009, pur conseguenza di condizioni nivologiche molto particolari, hanno fatto cambiare idea

ed alzare le antenne a molti, tanto che negli ultimi anni la discesa diretta “in ogni condizione” è diventata molto meno frequente e spesso si termina la gita prima del tratto interessato in passato da valanghe. Nonostante il database degli incidenti degli ultimi 30 anni esista, queste conoscenze vengono tramandate via web o con il passaparola, sarebbe comunque di grande interesse per tutti la sua pubblicazione online. Nell’attesa, occorre avere un grande spirito di osservazione, CAI MORBEGNO 59


memorizzare la localizzazione dei distacchi che avvengono in montagna ed informarsi presso i più esperti.

Il fattore umano

Nel 2009 Anselmo Cagnati e Igor Chiambretti hanno pubblicato un articolo su NEVE e VALANGHE dove si analizza in modo scientifico e molto dettagliato il “fattore umano” nella valutazione del rischio. L’articolo ha destato parecchio clamore nel mondo scialpinistico perché, forse per la prima volta, invece che sulla meccanica della neve, è stata posta l’attenzione sui processi decisionali che spesso spingono ad una errata valutazione del rischio valanghe (le cosiddette trappole euristiche, vedi anche 60 CAI MORBEGNO

Kristensen et al. (2013)). Nel momento in cui ci troviamo di fronte ad un pendio di incerta stabilità, volendo riassumere i fattori che influenzano la nostra decisione di procedere o meno, oltre alle considerazioni tecniche nivologiche a cui prima accennavo, un ruolo determinate è giocato dalla nostra personalità e dal nostro stato emotivo, nonché dalle spesso complesse interazioni relazionali all'interno del gruppo. Fra i fattori che spesso inducono ad una sottovalutazione del reale rischio i più frequenti sono: la presenza di altre tracce ed altri gruppi (più c'è gente in giro più siamo tranquilli) Solo il 50% degli incidenti

da valanga avviene su neve vergine, questo significa che la presenza di gente sull’itinerario o di tracce vecchie, è soltanto una falsa sicurezza. Inoltre la presenza di gruppi numerosi tende a caricare maggiormente il pendio aumentando le possibilità di distacco. L'euforia per la bella polvere e il desiderio di essere i primi a “firmarla” La voglia di raggiungere per primi la meta per anticipare gli altri e scendere per primi un pendio vergine viene chiamata sindrome del Lupo. Spesso la foga della discesa in neve vergine ci spinge a non considerare tutte le attenzioni e le precauzioni che siano a pochi minuti prima, in fase di salita, erano state


correttamente messe in atto. Non a caso la maggioranza degli incidenti avviene in fase di discesa. La determinazione a raggiungere la meta Più ci si avvicina alla meta più si diventa determinati nel conquistarla ed a volte gli ultimi metri, spesso quelli più pericolosi, possono portare a sottovalutare il rischio. Più frequentemente ai giorni nostri si tende a muoversi in intervalli di tempo limitati, pochi giorni di ferie, sfruttare anche i più brevi intervalli di bel tempo contribuisce ad alzare la nostra voglia di “forzare la mano” in situazioni dove, con più tempo, si sarebbero prese decisioni meglio ponderate. La disponibilità di attrezzatura

di sicurezza Quest’ultimo punto è molto importante visto che spesso viene sottovalutata la necessità di un frequente addestramento nell’uso del classico trittico (ARTVA, pala e sonda). I nuovi dispositivi Air Bag, seppur molto più semplici da utilizzare, permettono di abbassare la fatalità in caso di travolgimento in valanga dal 22 % all’11 % (Haegeli et al., 2014), aiutano molto ma non portano quindi il rischio a zero. Proprio per questo è indispensabile controllare le “pulsioni” ad una maggior esposizione al rischio dovuta alla relativa sicurezza data da questo 11 % in più di possibilità di salvezza.

In alto: grosso distacco sopra il lago di Pescegallo lungo l’itinerario che conduce “ai Ferèri” (Ponteranica) Sopra: piccolo lastrone staccatosi spontaneamente in una zona insospettabile fra l'Alpe Tagliato e l'Alpe Piazza (26.12.2013). Nella pagine a fronte: valanghe provocate con cariche esplosive a Pescegallo dopo l'evento del febbraio 2009.

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Accettiamo il rischio

In una società dove la sicurezza va “garantita”, l‘ambiente innevato rappresenta un piccolo buco nero delle certezze. Mi oppongo all’idea, molto in voga negli ultimi anni, che la sicurezza in montagna vada garantita dalle istituzioni, vedi la “chiusura” delle montagne, sopra un determinato grado di pericolo, da parte dei sindaci. Nell’ambiente innevato nessuno può garantire nulla, è quindi bene che ognuno si prenda le proprie responsabilità e ne sia consapevole, visto che l’unico modo per azzerare il rischio è girarsi dall’altra parte al suono 62 CAI MORBEGNO

della sveglia. Ognuno di noi ha un livello di rischio accettato (più o meno consapevolmente) differente. Io probabilmente tendo ad “espormi” molto meno di tanti amici ed un po’ di più di molti altri. Chi alza l’asticella perché lo fa? In genere per godersi sciate più belle, pendii ripidi in neve fresca vergine, ma ne vale la pena? Non so, non do giudizi ma difendo il libero arbitrio, se uno ne è consapevole, ma non sopporto che qualcuno voglia deciderlo per me. La grande sfida sta nel fare in modo che diminuisca drasticamente il numero di escursionisti (in senso lato) che si muove

inconsapevole del rischio al quale si espone. Come? No, non con le valanghe! ma aiutando a diventare prima consapevoli e poi “esperti”. Come ci insegnano Chiambretti e Cagnati, si diventa esperti non soltanto andando spesso in montagna ma: “essendo fortemente motivati ad apprendere e migliorarsi continuamente. Il livello di abilità ed esperienza acquisito è direttamente correlato con il quantitativo di pratica deliberatamente effettuata. Si diventa esperti adottando le corrette strategie decisionali al fine di migliorare l’apprendimento da ogni


A fianco: esteso lastrone scattatosi spontaneamente in un ripido canale lungo la parete nord-est del Monte Olano Sotto: piccoli lastroni staccati dal passaggio di scialpinisti fra il Piz Campagnung e la quota 3001. In basso:diffusi distacchi a debole coesione presso i Fèreri lungo l’itinerario che conduce al Ponteranica.

esperienza; simulando eventi e scenari da cui poter trarre esperienza e sviluppare e mantenere elevate capacità di comunicazione e confronto idee/esperienze con altri esperti”. Bibliografia Molti interessanti articoli sono disponibili gratuitamente in pdf sul sito dell’AINEVA http://www.aineva.it/pubblica/rivista08.html Cagnati, A., and Chiambretti, I., 2009, Rischio valanghe – fattore umano e trappole euristiche: Neve e Valanghe, n. 66 – aprile 2009, p. 4-13. Haegeli, P., M. Falk, E. Procter, B. Zweifel, F. Jarry, S. Logan, K. Kronholm, M.Biskupic, H. Brugger, 2014, The effectiveness of avalanche airbags. Resuscitation. 85(9), 1197-1203. Kristensen, K., Genswein, M., Munter, W., 2013, Percezione del rischio in area valanghiva: Neve e Valanghe, n. 78 – aprile 2013, p. 4-11.

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CAIMORBEGNOATTIVITÀ

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IL MIO CORSO DI SCIALPINISMO di Claudio Degni

Da sempre la montagna mi affascina anche se ho potuto frequentarla ad intermittenza per impegni vari e per aver praticato altri sport e, solo all’alba dei 30 anni, ho capito fermamente che gironzolare per le montagne e fare lunghe passeggiate era un valido metodo per rilassarsi, immergersi nella natura e staccare dallo stress quotidiano. Il passo successivo per poter continuare a frequentare le cime anche in inverno è stato quasi automatico. Iniziare a praticare lo SciAlpinismo. Come avvicinarsi alla nuova attività? Cominci a chiedere in giro, chiedi ad amici e conoscenti che già praticano e il consiglio che molti spendono e che oggi anche io spenderei è quello di frequentare il corso base del CAI. Visito il sito del CAI di Morbegno e leggo che le iscrizioni sono aperte e quindi immediatamente (avendo letto che era prevista una soglia massima di iscritti) mi affretto, prendo i contatti e mi iscrivo. La prima lezione in programma era prevista per il Venerdi’ 14 Gennaio 2014 con la presentazione dei materiali.

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Finalmente arriva la prima lezione che è stata anche l’occasione per vedere e conoscere i miei nuovi compagni ovvero gli altri partecipanti al corso. Sicuramente ognuno di noi era li con proprie motivazioni. Io con le mie e ricordo che quella sera due dubbi mi assillavano: sarò in grado di stare al loro passo? Passerò la selezione al corso? Capii già il giorno delle selezioni (tenute a Pescegallo) che il dubbio sul “ passo” era stupido perché nessuno era li per gareggiare ma al contrario, tutti erano li per godersi la giornata, il panorama, chiacchierare e scambiare opinioni sulle condizioni del manto nevoso e su altri argomenti riguardanti sempre le gite e la montagna. Ho sentito quel giorno degli aggregati parlare di polvere. Io feci finta di non sentire … piu’ avanti capii di che tipo di polvere si trattasse. La selezione fu un vero successo in quanto tutti gli aspiranti sci-alpinisti superarono brillantemente il test di ammissione essendo tutti stati promossi dagli istruttori. Il corso entrò nel vivo e le lezioni teoriche al venerdì’ sera cominciarono a susseguirsi


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mentre, creando non poche tensioni tra i corsisti, la prima uscita tardò ad arrivare in quanto le condizioni meteo continuavano ad essere avverse. Finalmente arrivò il battesimo del fuoco. Il 24 gennaio si andò in Valgerola ai piedi del monte Olano. Giornata spettacolare all’insegna del bel tempo, del vento, delle prove ARTVA e della neve, che a scendere era dura come il cemento e il pensiero di togliere gli sci ed abbandonare tutto più volte mi sfiorò. ARTVA, pala e sonda sono le vere protagoniste del corso di scialpinismo insieme alle lezioni tenute per insegnarci a come approcciarsi all’attività, anzi disciplina, nella maniera più sicura. In che modo poi

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affrontare situazioni di emergenza e per renderci consapevoli che comunque, un grado di rischiosità seppur in alcuni casi particolari, deve essere accettato. La sicurezza, le norme e i comportamenti vengono prima di tutto. Ammetto che dopo qualche lezione del venerdi’ sera il pensiero di mollare la nuova disciplina balenava nella mia mente ma, al momento di rimettere gli sci ai piedi, ogni dubbio passava perché la voglia di andare e imparare alla fine aveva la meglio. L’uscita al Piz-Lagrev poi, mi permise di imparare perfettamente il significato Sci-alpinistico di polvere. Questa, rimane l’uscita che ricordo con maggior piacere soprattutto per le


condizioni nivo-metereologiche. Il manto nevoso era spettacolare. La montagna quel giorno era un incanto. Il nostro corso poi, si concluse con la 2 giorni in Svizzera dove abbiamo affrontato il Piz Cunfin e il Piz Motal e abbiamo pernottato presso il Rifugio Saoseo dove i corsisti hanno in pieno disatteso i consigli sull’alimentazione dettati dal Dott. Scotti mangiando e bevendo a più non posso. Ma come impedirlo. Anche il cibo ed il buon vino sono come la montagna: arte e cultura insieme. “Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi”. Così sottolineava anni fa Walter Bonatti.

Ecco, io penso che la montagna sia come un viaggio: immerso nel silenzio, nella solitudine dello sforzo, nella bellezza di ciò che guardi, nella pazienza del passo. Andare in montagna, anzi “salire con la montagna” significa tutto questo. E accorgersi , da lassù, che il mondo e noi stessi, siamo poca cosa dinnanzi alla bellezza della natura. E scoprire poi, che ciò che conta non è mai la meta, ma il viaggio.

Le uscite con gli sci 25 gennaio Selezione su pista a Pescegallo 26 gennaio Motta di Olano 09 febbraio Alpe Piazza 16 febbraio Muntischè (Engadina) 23 febbraio Piz Lagrev 09 marzo Monte Ponteranica 29-30 marzo Rifugio Saoseo - Piz Cunfin

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GIRO D’ESTATE CAIMORBEGNO

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Dopo l’esito positivo della manifestazione delle 50 cime, in cui circa 250 persone hanno raggiunto contemporaneamente la vetta di 50 montagne per festeggiare il mezzo secolo delal Sezione di Morbegno del CAI, abbiamo voluto proporre qualcosa che potesse almeno in parte recuperare lo spirito di quella giornata e che potesse diventare un appuntamento fisso annuale, una sorta di festeggiamento del “compleanno del CAI Morbegno”. Anzitutto abbiamo voluto mantenere la stessa data, approssimativamente il fine settimana di metà luglio. L’idea è quella di scegliere un’area in cui proporre

un’escursione facile, per famiglie con bambini, un’altra escursione più lunga ed impegnativa ed un itinerario alpinistico, per poi convergere tutti in un unico posto. In questo modo si dà la possibilità a tutti di partecipare, ciascuno in linea con le proprie capacità e di condividere poi però con tutti la soddisfazione di una giornata, più o meno faticosa ed impegnativa, trascorsa tutti assieme in montagna. Quest’anno l’area scelta era quella del bacino del Ventina. La gita “familiare” era prevista su un itinerario che partiva da Chiareggio, raggiungeva l’Alpe Sentieri, quindi l’Alpe Zocca per poi scendere verso il rifugio Gerli Porro, appunto in Val Ventina. L’itinerario escursionistico più impegnativo


offriva la classica traversata San Giuseppe-Chiareggio, passando per il Lagazzuolo, la bocchetta del Cane, Il lago Pirola, il torrione Porro per convergere poi alla Gerli Porro. L’itinerario alpinistico invece proponeva l’ascensione al Pizzo Cassandra anche in questo caso con arrivo al rifugio. La data scelta era la domenica 13 luglio. Le bizze metereologiche della scorsa estate ci hanno costretto a spostare la data fino al 7 settembre, quando ci ha accolti una bellissima giornata di fine estate. Questa le descrizioni della giornata, fatta da tre persone che hanno percorso ciascuno uno dei tre itinerari.

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L’ANELLO DELL’ALPE SENTIERI di Alessandro Caligari

A me è toccata la gita familiare. Ero fortemente indeciso tra i tre itinerari proposti, ma ero più propenso all’ascesa al Cassandra, nonostante la levataccia. Poi mio figlio Francesco (6 anni) mi ha fatto sapere che aveva deciso che entro poco tempo avrebbe scalato il Disgrazia, e che pertanto doveva allenarsi: ergo sarebbe venuto anche lui in montagna. Con un proposito così risoluto, che andava a solleticare l’orgoglio paterno, non potevo che accondiscendere alla proposta, e così, messa in auto tutta 72 CAI MORBEGNO

la famiglia, siamo partiti per la Valmalenco. Lasciata Chiareggio ci siamo spostati verso Forbicina, dove si poteva assistere ad una bella vista della Nord del Disgrazia. Pensavo che la visione della paretona potesse scoraggiare gli intenti di Francesco, che invece sembrava ancora più entusiasta e risoluto nel suo proposito. Così, attraversato il torrente, abbiamo imboccato il ripido sentierino che saliva all’Alpe Sentieri. Non incontriamo nessuno e già questo è un pregio: andare verso la Porro, rifugio molto frequentato, passando da un tracciato in cui non si vede anima viva, a dispetto della bellezza dell’intinerario, è sicuramente un fatto positivo. Si sale sullo spalto


di escavazione glaciale che caratterizza l’imbocco della Val Ventina, sul versante sinistro idrografico. Chiacchierando per distrarre i bambini dalla fatica della ripida salita, comunque in un bel bosco di larici, arriviamo all’Alpe Sentieri, quieta radura con vista sull’intorno. Le belle baite crollate o pericolanti ci dicono che il tempo in cui queste zone erano degli alpeggi molto frequentati sono ormai passati. Salendo ancora di quota arriviamo all’Alpe Zocca, quasi a 2300 metri, interessante zona di piani torbosi con vedute che vanno dal passo del Muretto al Pizzo Cassandra, tra alberi ormai radi e cumuli di rocce appartenenti a qualche paleofrana. A questo punto abbiamo toccato il punto più alto dell’itinerario e

quindi cominciamo a scendere. Un sentiero a tornantini ci fa perdere rapidamente quota e tra i rami degli alberi incominciamo ad intravedere il rifugio Ventina e quindi il Gerli Porro. Arrivando da un itinerario così piacevolmente solitario, l’approccio con l’affollata piana tra i due rifugi è piuttosto brusco. Come previsto, dei tre gruppi siamo i primi ad arrivare, così cerchiamo un posto un po’ appartato ed addentiamo i nostri panini, aspettando le altre due compagnie. Mangiando, guardo alternativamente verso il torrione Porro, al cui lato scende il sentiero che proviene da San Giuseppe, e verso il ghiacciaio del Ventina. Il primo ad arrivare è il gruppo dell’altro

itinerario escursionistico, a cui, insofferente verso la folla “riminese” della piana, ero andato incontro salendo verso il passo. Questo il loro racconto.

LA TRAVERSATA SAN GIUSEPPE CHIAREGGIO di Alba Rapella

Domenica 13 luglio 2014: Giro d’estate –prevedeva il programma annuale. Ma quest’anno le condizioni metereologiche del 2014 hanno costretto sovente a cancellare o rivedere i programmi. Finalmente il 7 settembre 2014: una calda e luminosa domenica, a lungo attesa, CAI MORBEGNO 73


nella consapevolezza che l’estate non goduta, stava terminando, ha fatto gustare ogni istante dell’escursione. Il gruppo numeroso – una ventina –,lasciate le auto dopo San Giuseppe, si è subito affiatato al ritmo cadenzato del passo di Domenico, lungo il sentiero scivoloso, nella pineta ancora inzuppata dalla recente pioggia, dai colori e profumi particolarmente intensi. La breve sosta al Lagazzuolo ha permesso di riprendere fiato e di dare spazio alla voglia di raccontare e raccontarsi: le diverse esperienza estive, l’inizio dell’anno scolastico, le proposte per il nuovo anno di attività, le collaborazioni con le altre associazioni … La ripida salita alla Bocchetta 74 CAI MORBEGNO

del Cane ha aperto la vista sulle cime, dal Disgrazie allo Scalino, completamente libere dalle nuvole, il cielo terso, non un filo d’aria. Poi qualcuno ha seguito il desiderio di raggiungere la cima del Torrione Porro, altri hanno preferito godersi alcuni momenti d’ozio al sole. Di nuovo insieme, a balzi, aiutandosi sui grandi sassi lungo la discesa e il ritrovarsi al Rifugio Porro con i piccoli che avevano affrontato il percorso famigliare e il numeroso gruppo del CAI di Sondrio che, la mattina, aveva ricordato i caduti in montagna.Davvero una domenica perfetta, attesa e goduta sotto ogni aspetto. Unico neo: il non aver potuto

accogliere i giovani, trionfanti, di ritorno dalla cima Cassandra, un po’ in ritardo rispetto ai tempi previsti.

IL PIZZO CASSANDRA di Matteo Spini

Il giro d’estate del CAI di Morbegno, rimandato più volte per via del maltempo, si è finalmente svolto il 7 settembre. Quale migliore occasione per ritrovarci ancora per una camminata, per chiudere in bellezza l’estate? Pronti e via. Ed eccoci a preparare di nuovo lo zaino, abbandonato ormai da due settimane e a


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controllare nuovamente tutte le attrezzature necessarie per la nuova avventura: il Pizzo Cassandra.Interessati dalla proposta del CAI di Morbegno, in 4 (Matteo, Emanuele, Alberto, Francesco), nel tardo pomeriggio di sabato 6 settembre siamo saliti a Lanzada per trascorrere la notte. Domenica, all’alba, belli freschi, riposati e pieni d’entusiasmo ci siamo diretti a Chiareggio dove ci attendevano Marco e Barbara. Insieme verso le 7:00, siamo partiti. Il primo tratto è decisamente tranquillo e risale i freschi boschi della Valmalenco fino ai rifugi Gerli-Porro e Ventina (1975 m). Ci si addentra poi nell’ampia piana in cui si snoda il sentiero glaciologico - che consente di avere un’immediata impressione del progressivo ritiro dei ghiacciai 76 CAI MORBEGNO

- fino a raggiungere la fronte del Ghiacciaio del Ventina. Indossati i ramponi e l’imbrago, ci siamo divisi in 2 cordate da 3 persone. Davanti a noi il ghiacciaio appariva maestoso. Risalito un primo tratto di ghiaccio vivo fino a circa 2600 m, abbiamo superato la linea di equilibrio, quest’anno eccezionalmente molto bassa, mettendo finalmente piede sulla neve. Il Passo di Cassandra (a circa 3000 metri) sembrava ingannevolmente vicino ma ben presto ci siamo resi conto della sua lontananza. Nonostante questo, determinati nel raggiungere la vetta, abbiamo proseguito il cammino sul ghiacciaio, unendoci ad altri due alpinisti partiti prima di noi dal rifugio Porro. Il sole progressivamente ci ha raggiunti, riscaldando un poco la salita. Alle nostre spalle

ecco comparire il Gruppo del Bernina, con i suoi ghiacciai. Inconfondibile, più a nordovest, il Pizzo delle Tre Mogge, con la caratteristica vetta di roccia chiara. Superati alcuni tratti abbastanza ripidi e crepacciati, la difficoltà maggiore è consistita nel superamento della crepaccia terminale. Assicuratici con le piccozze, con un salto adrenalinico siamo finalmente giunti al Passo di Cassandra (3097 m, circa 4 ore dalla macchina). Nonostante il panorama fosse parzialmente offuscato dalla nebbia, soprattutto nella direzione della Valle Airale (nella quale, molto più in basso, si trova il rifugio Bosio), la soddisfazione e la gioia d’esser arrivati sono state impagabili. Ma non eravamo ancora giunti alla cima! Solo


in 5 abbiamo deciso di proseguire la camminata per raggiungere l’agognata vetta del pizzo Cassandra (3226 mt). Questo ultimo tratto, percorso dapprima con un traverso su ghiacciaio e poi su cresta di misto, è stato il più impegnativo: è in questi casi che ci si rende conto di quanto bisogna essere attenti e preparati in quello che si sta affrontando. Nello stesso tempo però si possono scoprire alcune tra le bellezze più grandi della natura. Così, dopo aver calpestato sassi, rocce, ghiaccio, neve, poi ancora rocce, abbiamo messo piede sulla vetta, dominata a ovest dall’imponente massiccio del Disgrazia. Immancabile foto di vetta e poi rapida discesa verso la merenda a Chiareggio! Purtroppo il rientro, a causa della lunghezza del percorso,

ha richiesto parecchio tempo: abbiamo raggiunto le macchine solo verso le 5 del pomeriggio… Non restava altro che berci una birra ghiacciata per festeggiare la riuscita dell’escursione e, infine, tornare a casa per un meritato riposo per le gambe ormai stanche. Ringraziamo gli amici del CAI per averci dato la possibilità di vivere questa bella avventura: senza la guida esperta di Marco non sarebbe stata la stessa cosa! Auguriamo a tutti di poter vivere esperienze simili, a contatto con la natura e la montagna, perché sempre più persone possano sperimentare direttamente quanto sia unico, prezioso e meraviglioso questo mondo che “non ci è stato lasciato in eredità dai nostri padri, ma ci è stato dato in prestito dai nostri figli”. CAI MORBEGNO 77


ESCURSIONE IN

VAL DEL DROGO di Alessandro Caligari

Domenica 8 giugno abbiamo effettuato un’escursione in Val del Drogo, recupero dell’uscita prevista per 15 giorni prima ma rimandata per l’eccessivo innevamento. Partiti presto, ma non prestissimo, da Morbegno abbiamo iniziato a camminare alla centrale di San Bernardo, sopra San Giacomo Filippo, in Val Chiavenna, circa a 1000 metri d’altezza. Gli impianti idroelettrici saranno una costante, seppur spesso invisibile, dell’escursione: si parte appunto dalla centrale di San Bernardo, capace di produrre annualmente circa 63 milioni di KWh, per poi scaricare l’acqua a Mese attraverso una galleria, il condotto d’acqua che la rifornisce, dopo un salto di mille metri, fino ad arrivare al bacino d’accumulo del Truzzo, che con il suo sbarramento artificiale, realizzato nel 1928, innalza la capacità del preesistente laghetto naturale ad una capienza di 20 milioni di metri cubi d’acqua. Inizia perciò da qui la nostra escursione in Val del Drogo. Questo toponimo indica un alveo di torrente profondamente incassato fra le rocce ed è un sinonimo di “orrido”, rimandando ai tratti stretti ed incassati che la valle ha in certe zone. In realtà il posto da cui partiamo noi è 78 CAI MORBEGNO


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piuttosto ampio e solare. Le case per le residenze estive, complice la bella giornata, si stanno aprendo una ad una, per prepararsi alla bella stagione. Lasciato l’abitato, in località Caurga troviamo un bivio; qui prendiamo la direzione per la diga del Truzzo ed il Rifugio Carlo Emilio, con una salita che ci impegnerà per circa due ore. Il percorso è piacevole, con una pendenza costante che porta verso i contrafforti rocciosi del bacino idrografico sbarrato 80 CAI MORBEGNO

dalla diga artificiale del Truzzo. Usciti dal bosco, attorno ai 1800 metri, il sentiero acquista via via un aspetto sempre più marcato di percorso selciato. Gli ultimi tratti sono un bellissimo incastro di sassi, un mosaico in granito che addomestica un percorso altrimenti accidentato, stendendo tra massi e rocce un nastro di pietra che ci consente di portarci verso l’Alpe Cornera e di lì agli imponenti edifici di servizio

del bacino artificiale, con una piazzola per l’elicottero che sembra un campo da calcio. Qui scambiamo due chiacchiere con i guardiani della diga, che ci raccontano i sacrifici ma anche le soddisfazione di una vita ad alta quota, in un isolamento che può essere a volte deprimente ed altre magnifico. Salutati i custodi, che ci ricordano un film di Olmi visto di recente in sede, prendiamo una scalinata che ci porta in cima allo sbarramento


artificiale, costruito con la pietra del posto. Qui ci aspetta un’ampia vista sulla Val Chiavenna e la Bregaglia, che arriva fino al Badile e al Cengalo. Dirigendoci verso il rifugio Carlo Emilio ecco che il panorama cambia. Il lago, quasi ai minimi, ed il suo bacino stanno effettuando la muta, abbandonando il nevoso aspetto invernale per prepararsi ad ospitare erba e fiori alpini. Il sentiero verso il rifugio, a tratti abbastanza

ripido, è quasi tutto innevato e lo percorriamo con qualche cautela. Arriviamo quindi al piccolo rifugio, privo di gestione, (se ne possono ritirare le chiavi presso i guardiani della diga), posto sulla riva del Lago Nero, un piccolo bacino artificiale chiuso da muretti in cemento, che però possiamo solo intuire, perché interamente innevato. Ci fermiamo a mangiare, tormentati da un gruppo di pecore invadenti. Comincia

a fare caldo, tanto da dover mettere la bibita nella neve per renderla bevibile. Di questo passo il manto bianco non ci impiegherà molto a lasciar posto all’erba. Sembrano i prodromi di un’estate calda ed asciutta. Terminato il pranzo ci apprestiamo a ripercorrere al contrario la strada di salita, felicemente convinti di aver effettuato la prima di una serie di escursioni in una lunga stagione estiva, che in realtà non si farà mai vedere. CAI MORBEGNO 81


SCUOLA DI ALPINISMO Dobbiamo purtroppo iniziare registrando un grave lutto. Nicola Martelli, accompagnatore nazionale e anima della Scuola Bombardieri, ci ha lasciati il 30 giugno in un incidente di montagna. Ci mancheranno molto la sua lunga esperienza nell’Alpinismo Giovanile, la sua presenza critica e costruttiva e la sua bonomia. 82 CAI MORBEGNO

Anche quest’anno l’attività della Scuola di Alpinismo Giovanile della provincia di Sondrio, Luigi Bombardieri, ha seguito due filoni: uno interno, con un progetto rivolto ai ragazzi iscritti al CAI, l’altro di collaborazione con le scuole. Relativamente al programma interno, anziché proporre, come in passato, due corsi distinti, uno primaverile e uno estivo, si


GIOVANILE BOMBARDIERI è scelto di approntare un piano di escursioni distribuite lungo l’intero anno, ciascuna con uno specifico contenuto tematico. Si è iniziato in marzo con un giro sulla panoramica Colmen di Dazio per terminare in settembre con l’interessante uscita storico geologica lungo l’anello dei massi erratici a monte di Torno, sulla dorsale lariana. In mezzo otto gite,

alcune delle quali in località inedite. Siamo andati all’Alpe Torrenzuolo in Val Tartano e a San Bernardo in Val di Rhon, siamo saliti alla Cima Vignone sui monti di Berbenno e al Torrione Porro in Valmalenco. Due giornate, poi, le abbiamo dedicate al gioco-arrampicata in Valmasino e in Val Poschiavina.

A luglio e ad agosto le trasferte di due giorni: una al Pizzo dei Tre Signori in Valgerola, con pernottamento al rifugio Trona, a contatto con il mondo pastorale dove si produce il tipico formaggio Bitto, l’altra sui luoghi della Grande Guerra, ai manufatti militari della Forcola e dello Stelvio, dove abbiamo fatto tappa presso l’albergo Quarto Pirovano. CAI MORBEGNO 83


In entrambe le occasioni i protagonisti sono stati i coprizaino, le mantelline e gli ombrellini, ma i ragazzi hanno dimostrato di saper affrontare con determinazione e allegria le avversità del tempo. Ai più grandi è stato proposto il trekking sull’impegnativo Sentiero Roma. L’obbiettivo era conoscere una valle importante dal punto di vista geologico ed alpinistico, oltre a familiarizzare con l’alta quota e la progressione su terreno con tratti attrezzati. Questi i numeri: 20 giovani e 10 accompagnatori coinvolti, 6 giornate di impegno, 9 valli attraversate, 8 passi valicati, 4 rifugi dove si è pernottato, 3800 m di dislivello superati, 50 Km percorsi. A causa del brutto tempo è mancata la tradizionale salita ad una cima (era previsto il pizzo Porcellizzo), ma grazie all’esuberanza positiva dei ragazzi, l’esperienza è stata più che soddisfacente. 84 CAI MORBEGNO

La novità del 2014 è consistita nella proposta di 3 uscite invernali basate sulla formula “sci + pelli”; non un corso vero e proprio, ma un assaggio di attività invernale. Con la collaborazione degli istruttori della Scuola di Sci Alpinismo provinciale i ragazzi hanno imparato a districarsi con le pelli di foca e con la neve non battuta lungo i pendii dell’Alpe Tagliata-Piazza sui monti di Cosio, del Doss Tachèr in Valtartano e del passo di Ponteranica in Valgerola. Importanti ed apprezzate le collaborazioni dell’AG Bombardieri con le scuole. Con le Medie di Ponte in Valtellina innanzitutto, che ci hanno richiesto la disponibilità a partecipare alla realizzazione della loro settimana di laboratori extra curriculari e l’assistenza in un’uscita didattica sul tratto Dervio–Colico del Sentiero del Viandante. Ma anche con due classi del

Liceo Agrario, accompagnate in due visite glaciologiche al ghiacciaio del Ventina, e con il Liceo Scientifico che ci ha richiesto una serie di interventi, in aula e all’aperto, sul tema dell’orienteering. Tra l’altro, abbiamo tenuto a battesimo la prima classe del Liceo Scientifico Sportivo, nel corso di uno stage di tre giorni al rifugio Gerli-Porro. Complessivamente le giornate impegnate sono state una quarantina, nelle quali sono stati coinvolti tutti i 24 Accompagnatori della Scuola Bombardieri che hanno garantito l’assistenza a circa 200 ragazzi. Valutazione favorevole, allora? Con qualche ombra in considerazione di una lieve flessione delle iscrizioni all’attività interna, sulla quale bisognerà fare alcune riflessioni, pensiamo di sì, il bilancio è sicuramente positivo e tale da esserci di sprone per il futuro.


Nelle pagine precedenti: discesa dal Passo del Cameraccio verso la bocchetta Roma. Sopra: lungo il sentiero della Forcola di Rims. A fianco: al rifugio Gianetti in partenza verso il rifugio Bonacossa. Sotto: dalla bocchetta del Varrone verso la bocchetta di Trona.

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ROUTE ESTIVA al MONTE ROSA

Come di consuetudine, noi ragazzi degli scout di Morbegno anche la scorsa estate abbiamo vissuto la route, un’esperienza di più giorni di cammino in cui la strada e la fatica condivise diventano occasioni per poter crescere insieme. Ebbene, la route di quest’anno ci ha lasciati a dir poco senza fiato: abbiamo scelto il Monte Rosa e le sue straordinarie cime innevate. Ci siamo preparati compiendo alcune escursioni tra le “nostre” montagne durante i mesi di giugno e luglio: abbiamo imparato a conoscere meglio noi stessi e il nostro potenziale, a ragionare sull’equipaggiamento necessario e su quello superfluo, a testare l’attrezzatura che ci è stata prestata da amici o parenti (piccozza, casco, ramponi, corda, imbrago, …). Siamo partiti da Gressoney (AO) nel pomeriggio del 5 agosto, zaini e tende in spalla (da 18 kg) … e soprattutto tanta adrenalina in corpo! Abbiamo dato inizio a questa nuova sfida incamminandoci verso l’ambita meta: il rifugio Margherita. Nel giro di 10 giorni avremmo conquistato la vetta del Monte Rosa, risalendo la Valle del Lys, per poi discendere per la 86 CAI MORBEGNO

Valsesia. Il percorso è stato suddiviso in più giorni, in modo da guadagnare gradualmente la quota ed assaporare maggiormente le bellezze che la natura ci ha riservato. Trascorsa la prima notte all’Alpe Netscho, poco sopra Gressoney (quota 1840 m s.l.m.), ci siamo portati nei pressi del Lago Bleu (quota 2690 m s.l.m.), dove abbiamo piacevolmente bivaccato, sempre nelle nostre tende. Lo scenario che ci si prospettava d’innanzi era stupefacente: il lago tra le rocce, radi ciuffi d’erba, rocce e più in su le nevi e il ghiaccio che ci attendevano. Il giorno seguente, infatti, ci siamo spostati, non senza fatica, fino al rifugio Gnifetti (quota 3647 m s.l.m.). Qui ci hanno raggiunto due Guide Alpine che ci hanno fatto anche un rapido “corso accelerato” sull’utilizzo dell’attrezzatura necessaria per l’escursione del giorno dopo. Dopo ormai tre giorni, ecco finalmente il giorno più ambito: quello della salita verso la punta Gnifetti e quindi verso il rifugio Margherita. Levata alle 4:00, colazione, attrezzatura indosso, ed eccoci pronti a partire (come recita una famosa canzone

scout), pronti alla “resa dei conti”. D’altronde eravamo così elettrizzati all’idea di dover raggiungere una così alta quota (i 4556 m s.l.m. del rifugio Margherita) che sarebbe stato impossibile fermarci. Formate tre cordate, siamo partiti sincronizzati e attenti a non calpestare la corda (impossibile…). È stata un’esperienza


particolarmente significativa, anche come comunità: quale occasione migliore per imparare a raggiungere un traguardo tutti insieme, passo dopo passo, camminando al ritmo di chi fa più fatica ed aiutandosi a vicenda? Dopo circa 4 ore, con qualche sosta, raggiungiamo la meta. L’itinerario è completamente su

ghiacciaio, tecnicamente non difficile (F+). Occhi increduli e pieni di stupore osservavano il baratro celato dalle nuvole che sembravano voler ricamare una coperta: un panorama formidabile, capace di lasciare chiunque senza fiato. Fatta una breve pausa nel rifugio per riscaldarci e mangiare qualcosa, abbiamo ripreso il cammino per CAI MORBEGNO 87


scendere a quota 2800 m s.l.m. circa, passando di nuovo dal rif. Gnifetti, e spostandoci successivamente verso il passo di Olen, dove abbiamo trovato un rifugio di fortuna. Abbiamo riposato le nostre gambe con una cena calda e una lunga dormita. Da qui poi siamo ripartiti alla volta della Valsesia, che ci avrebbe ospitato per i giorni successivi. Ormai però ci attendevano camminate più brevi o (per lo meno) non così lunghe, di taglio meno alpinistico e più escursionistico. Lo stesso ambiente era completamente diverso: la neve e le 88 CAI MORBEGNO

rocce hanno progressivamente lasciato il posto ai verdi pascoli. Dopo aver sostato di giorno in giorno in posti differenti, a volte in tenda e a volte in rifugio, ci siamo imbattuti in un posto molto particolare, che consigliamo ad ogni amante della montagna che ricerchi un’occasione per “ricaricare le pile” e vivere nell’armonia con la natura o più semplicemente un po’ di pace: l’Alpe Sattal. Qui ci siamo fermati per ben due giorni. Il paesaggio ricordava tanto un quadro dipinto. È un posto molto curato con una veduta al confine tra una chimera e la realtà.

Tutto questo si deve particolarmente ad una sola persona, Giuseppe, che per noi è stato in certi momenti un vero e proprio “maestro di vita”. Lui, da solo, ha costruito un rifugio, in cui vive e ospita persone, con spirito di condivisione e convivialità, ma anche, se qualcuno lo desidera, con modalità Bed & Breakfast. È stata un’esperienza di cui non si riesce a dare un’idea a parole: per comprenderne appieno la bellezza, la tranquillità e la quiete bisogna necessariamente viverla. Giunti ormai al termine della nostra bellissima Route, a malincuore


abbiamo dovuto salutare i monti sui quali avevamo viaggiato in quei 10 giorni, non con la sola speranza, bensì con la certezza di tornarci nuovamente. Zaini pesantissimi, ore di cammino e di fatica ci hanno permesso in cambio di ritrovarci immersi nella natura, nella pace, nella serenità: ne valeva la pena! Montare la tenda al cospetto di montagne maestose, silenziose e inspiegabilmente attraenti, cucinare con i fornellini e magari prendersi anche un po’ di freddo guardando tutti insieme le stelle, prima di

addormentarci, pronti per una nuova avventura: queste sono le immagini che ci porteremo sempre nel ricordo di questa route. Perché anche questo fa parte del nostro essere scout, un modo di fare magari ai più un po’ incomprensibile, ma che ci ha consentito di vivere questa esperienza in prima persona, a stretto contatto con la natura, il sole, la pioggia, il freddo, la neve, non solo gustando ogni passo in avanti come una nuova conquista, ma anche apprezzando i gesti ed il sostegno dei compagni di strada. CAI MORBEGNO 89


I Monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi. (Johann Wolfgang von Goethe)

SILENZI & MOTOCICLETTE di Alessandro Caligari

Dicembre. Mattina. La poca neve caduta si è ormai ritirata molto in alto, così decido di fare una corsa in quota, in Valgerola. Dopo circa un’ora arrivo in una conca erbosa, circondata da larici. L’unico rumore è quello dei lunghi cristalli di ghiaccio creati dall’umidità di risalita che si rompono sotto i miei piedi. Mi fermo, si ferma anche il vento. Ora il silenzio è assoluto, pneumatico. Resto bloccato per alcuni minuti, lunghissimi. Tutto è immobile in un equilibrio perfetto. All’improvviso la magia si rompe con il crescendo di un motore a scoppio che si avvicina. Sul dosso erboso che ho davanti, stagliati contro il cielo, spuntano uno dopo l’altro prima i caschi e poi le sagome di tre motociclisti, giovanissimi, coloratissimi. Mi passano un po’ distante, probabilmente alla larga, con le loro moto rigorosamente senza targa, e spariscono alle mie spalle. Mi prende un forte senso di fastidio, con la 90 CAI MORBEGNO

certezza che quella mattina non incontrerò alcun animale selvatico e che per un bel pezzo correrò sulle tracce delle moto. A me piace molto andare in montagna da solo. Non è una questione di misantropia. Andare in alto con amici, condividere il divertimento per una discesa in neve fresca o

l’adrenalina di un’arrampicata impegnativa è molto appagante. Ma andare in montagna è molto più di una semplice attività fisica. Per quel che mi riguarda, è il posto dove vado a riflettere, a fare programmi, ma anche dove vado a rilassarmi, a lasciar correre la mente in una sorta di flusso di coscienza che


spazia dai massimi sistemi alle cose più frivole. Per questo a volte salgo da solo, e tale vorrei restare. Certo, la montagna è di tutti e tutti hanno diritto di goderne. A me però piace molto una vecchia massima, secondo cui la mia libertà cessa dove inizia quella dell’altro, e questo aforisma, ovviamente dovrebbe valere in

entrambe le direzioni; quindi vorrei che tutti percorressero la montagna portando il minor disturbo possibile all’altro. Per questo vedo molto problematica la convivenza con i mezzi meccanici, siano essi auto, moto, motoslitte, quad, elicotteri ecc. Certamente fa eccezione tutto ciò che riguarda le

attività lavorative, per cui questi mezzi possono essere indispensabili. Il problema è la circolazione indiscriminata di mezzi non autorizzati su sentieri e sulle montagna in genere. Questi mezzi fanno rumore, quindi spaventano gli animali e disturbano chi cerca quiete ed isolamento in montagna. Hanno un’incidenza CAI MORBEGNO 91


negativa molto pesante sui sentieri, rovinandoli e spesso vanificando i lavori di manutenzione. In più inquinano. La normativa vigente in merito non aiuta molto ad impedire questi danni. Anzitutto va detto che manca una legge nazionale, e che ciascuna regione ha legiferato in maniera autonoma. Alcune aree, con una maggior coscienza ambientale e più sensibili alle problematiche legate al turismo come le province autonome di Trento e Bolzano o come la Val d’Aosta, hanno imposto un divieto assoluto alla percorrenza di sentieri e mulattiere a mezzi motorizzati, smentendo chi dice che l’uso della moto può diventare una risorsa turistica: di fatto lo può essere, ma a scapito di altri settori del turismo quantitativamente ben più importanti. In Lombardia la situazione è più complessa. Forse molti avranno avuto eco della battaglia fatta dalle sezioni del CAI della Lombardia nella scorsa primavera, per evitare che nel nostro territorio fosse varata una norma che consentisse, in particolari circostanze, la circolazione dei mezzi motorizzati su sentieri, boschi e pascoli. Una legge che rivela la schizofrenia di una Regione che da un lato emana provvedimenti volti alla salvaguardia del patrimonio ambientale e dall’altra decreti che ne causano il consumo. Dopo vari tentennamenti nel luglio scorso la legge è stata approvata e quindi la nostra battaglia persa. Va precisato comunque che, a dispetto di quanto gira soprattutto negli entusiasti ambienti motociclistici, in Lombardia 92 CAI MORBEGNO

E’ TUTTORA VIETATO andare sui sentieri ed in montagna in genere con qualsiasi mezzo motorizzato. La novità sta nel fatto che la norma consente ai Sindaci di autorizzare di volta in volta manifestazioni sportive che prevedono l’uso, anche massiccio, di mezzi motorizzati. Dobbiamo quindi sperare nella coscienza ambientalista dei nostri amministratori. Va però detto che la stragrande maggioranza dei motociclisti va in montagna in modo irregolare, senza cioè essere inseriti in una manifestazione autorizzata, che è comunque l’unica via ammessa da questa

sciagurata legge, e senza targa, per impedirne un’immediata identificazione. Andrebbero perciò esercitati maggiori controlli, o quanto meno, visto che il territorio è vasto è le forze in campo poche, prevedere delle sanzioni molto pesanti, come ad esempio il sequestro della moto come avviene in alcune regioni. Sarebbe però miglior cosa cercare di evitare uno scontro tra fazioni, ed invece intavolare una discussione e cercare una soluzione salomonica. E’ innegabile che allo stato delle cose le moto facciano rumore, inquinino e rovinino i sentieri;


conosco un tizio che esalta l’aggressività della propria moto evidenziando come ogni volta che apre il gas vede volar via i ciottoli delle mulattiere. Io non ho competenze nel settore motoristico, ma ugualmente mi chiedo: perché non si porta avanti lo sviluppo delle moto elettriche? In questo modo almeno i primi due punti, cioè il problema del rumore e dell’inquinamento, potrebbero essere risolti. So che diverse case produttrici si stanno muovendo in questa direzione. Tra i pregi, oltre a quelli appena elencati, anche il fatto che una moto elettrica

ha un’accelerazione superiore a quella con motore a scoppio e quindi è molto reattiva. Per contro, ha un’autonomia minore, comunque attorno alle due ore, e non dispone di freno motore. Penso però che, se sollecitate da una domanda di mercato significativa, le case produttrici potrebbero accelerare lo sviluppo di questi studi e risolvere il problema. Per quanto riguarda il deterioramento dei sentieri, una proposta arriva proprio dal mondo dei motociclisti: istituire per la categoria una sorta di tassa di circolazione su sentieri che vada a realizzare

un fondo per la manutenzione dei tracciati montani. Non so quanto queste proposte siano fattibili ed efficaci, però le ho derivate da tentativi di dialogo tra escursionisti e motociclisti, e questo mi pare già un buon inizio. Sicuramente anche tra molti motociclisti alberga un senso di rispetto della montagna, probabilmente in contraddizione con la passione, comprensibile, per l’andare in moto. La strada credo possa essere quella di punire chi non rispetta le regole ma al contempo di dialogare con chi cerca di dare una soluzione al problema. CAI MORBEGNO 93


VOLTE

94 CAI MORBEGNO

Diversi anni fa, sull’annuario 2003, abbiamo pubblicato un articolo dal titolo “il club 4.000”. A chi non avesse letto quel testo (e agli smemorati) faccio presente che a questo club possono accedere solo persone che hanno salito almeno 30 vette dell’arco alpino che superano appunto i 4.000 metri di quota. Scopo dei membri di questa associazione è quello di salire tutte le 82 cime dell’arco alpino selezionate da una commissione qualificata; queste vette, scelte tra una rosa di 129, dovevano rispondere a precisi requisiti di carattere topografico, morfologico ed alpinistico. In poche parole: i più bei “4.000” delle Alpi. Sempre in quell’articolo si diceva che il morbegnese Giovanni Rovedatti, già dal 1995, era riuscito ad entrare in questo prestigioso club, e che anno dopo anno continuava ad aggiungere tacche alla sua rincorsa all’ottantaduesima cima. Alla data d’uscita dell’annuario Giovanni era arrivato a quota 63, e da quella pagine gli rivolgevamo un augurio per il completamento del programma. L’augurio è andato a buon fine: la scorsa estate Giovanni ha finalmente terminato la sua impresa, iniziata 27 anni prima col Pizzo Bernina e conclusa con la Piramide Vincent, nel gruppo del monte Rosa. In questa fatica Giovanni si è legato in cordata con alpinisti diversi: molti di questi sono stati amici del CAI di Morbegno, ma molte cordate sono state costruite attraverso il “club 4.000”. Tra gli italiani è il 19° a raggiungere questo traguardo impegnativo, e il 29° al mondo. Un obbiettivo prestigioso che premia la sua costanza e determinazione. E ora che l’elenco è tutto spuntato? Giovanni saprà trovare nuovi obbiettivi. Intanto noi gli facciamo i complimenti.


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NOTIZIE DALLA SEZIONE I NUMERI DEL C.A.I. MORBEGNO Alla data del 31.12.2014 gli iscritti sono 539 così suddivisi: 334 ordinari, 133 famigliari e 39 giovani. Ricordiamo che le iscrizioni si effettuano in sede e presso gli sportelli del Credito Valtellinese di Via Ambrosetti. CONSIGLIO DIRETTIVO Presidente Alessandro Caligari Vice Presidente Marco Poncetta Segretario Davide Bonzi Consiglieri Vincenzo Bavo Enrico Bertoli Rita Bertoli Angelo De Donati Domenico Del Barba Alda Mafezzini Carlo Mazzoleni Tarcisio Pezzini DELEGATI Alessandro Caligari Domenico Del Barba ISTRUTTORI DI ALPINISMO E DI SCI ALPINISMO Bertoli Enrico (ISA) Gadola Giulio (ISA) Riva Marco (ISA) Scotti Franco (ISA) De Donati Cesare (INSA) ISTRUTTORI SEZIONALI DI ALPINISMO E DI SCI ALPINISMO Danilo Acquistapace 96 CAI MORBEGNO

Andrea De Finis Mirco Gusmeroli Luca Gusmeroli Moreno Libera Riccardo Scotti Mario Spini ACCOMPAGNATORI SEZIONALI DI ALPINISMO GIOVANILE (ASAG) Rita Bertoli Riccardo Marchini Angelo Moiola Claudia Ponzoni ACCOMPAGNATORI DI ESCURSIONISMO Davide Bonzi (AE) Alessandro Caligari (AE) I CORSI Corso di ginnastica presciistica Come oramai è tradizione da diversi anni, da ottobre 2013 a marzo 2014, presso la palestra di via Prati Grassi si sono svolte le lezioni del corso di ginnastica, tenuto dalla proff Adele Cusini, in preparazione della stagione invernale. Corso base di sci-alpinismo Si è svolto da gennaio a marzo, articolato in 7 lezioni teoriche presso la sede CAI e 6 esercitazioni pratiche in montagna. Il corso ha visto Giulio Gadola direttoree Marco Riva vicedirettore. I diplomati: Alberto Annoni, Tina Margherita Arrigoni Oscar Borzi,

Claudio Degni, Manuele Milivinti, Manuel Nonini, Viviana Quadrio, Giulia Sormani, Emanuele Codazzi. Le Uscite: Alpe Piazza, Monte Ponteranica, Monte Olano, Muntische (La Punt) Piz lagrev Motal e Piz Cunfin viviana Corso di arrampicata uscite pratiche • Sasso del Drago e Sasso Bianco • Albigna • Piani di Bobbio • Denti della Vecchia (valgerola) • Placche di Bette • Finale Ligure I diplomati: Giovan Battista Buzzetti Marco Dolzadelli Antonio Primerano Giovanni Triaca Fabio Del Molino Enea Premerlani Franco Camero Gianluigi Passerini Claudia Brambati Alessandra Tagliabue SCI DI FONDO Uscita di quattro giorni a Varena (Val di Fiemme) LE GITE Gite sezionali • 4 uscite scialpinistiche e ciaspole (PizMuragl, Piz Griatschouls, Legnone, Pisana) • Uscita notturna scialpinistica e ciaspole a Pescegallo


• Escursione Val Del Drogo • Compleanno CAI: Cima Cassandra (Alpinismo) Alpe Sentieri (gita familiare) Lagazzuolo (escursionismo) • SentieroPaniga: Monte Rotondo e Monte Stavello Gruppo 2008 Uscite tutti i mercoledì, (meteo permettendo) In Valgerola, Valtartano, Valle Spluga, Valmalenco, Valmasino, Valle dello Spöl, Monti lariani occidentali ed orientali, Triangolo lariano per un totale di 45 uscite. I MARTEDÌ DEL CAI • film documentario “Garef, le ultime pietre della Val di Pai”

con Luca Ruffoni • film “The North face” di Philipp Stolzl • BMFF World Tour Italy • Flora vascolare delle terre alte delle alpi Orobie con “Enzo Bona” • La grande stagione dell’alpinismo lecchese con Alberto Benini • 7 giorni in Yosemite Racconto fotografico di una vacanza in California di Mario Spini XXVI RALLYNO DELLA ROSETTA Si è svolto il 2 marzo. 31 coppie iscritte. Vincitori regolarità i

giovanissimi: Brocchi Emanuele - Vaninetti Elia Salita: Mazzoni Andrea - Torri Maurizio Discesa: Del Barba Pietro Orlandi Mauro I RITROVI CONVIVIALI • 13 giugno, cena d’estate, momento conviviale informale nei giardini del palazzo Malacrida MUSICA IN GIARDINO • Viaggiando senza bagaglio negli anni Trenta Con Marta Caracci pianoforte, Mariella Gusmeroli clarinetto, Stefano Sergeant violino

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