TEMA magazine n. 2

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TEMA

n. 2 - giugno 2011

luogo/ihgoul Dacia Manto | Giovanni Ozzola Alice Pedroletti | Alia Scalvini



INDICE

Editoriale

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Dacia Manto

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Giovanni Ozzola

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Alice Pedroletti

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Alia Scalvini

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EDITORIALE Si potrebbe pensare che essere capo di se stessi semplifichi le cose, nulla di più sbagliato. L’unica cosa semplice è stato scegliere il secondo tema. Se nel primo numero parlavamo d’Italia perché non allargare un po’ il campo e considerare il luogo? D’altronde ognuno di noi ha, più o meno consciamente, un rapporto con una spazialità emotiva e fisica determinato da fattori sociali, corporali e psicologici.

ghi di dire la verità, tuttalpiù di metterla in discussione. Loro invece, quando accettano di partecipare, non hanno alternative se non difendere strenuamente le proprie verità. Si sono messi in gioco, ognuno con i propri mezzi, le poche o tante parole a disposizione, i racconti e le formule scientifiche, perché – e questo lo penso io – spiegare ciò che per noi è importante significa dargli importanza. A volte gli artisti, una volta consegnate le loro parole, mi chiedono di avvisarli se ho intenzione di apporre modifiche, e perché mai, rispondo io, mica posso cambiarvi i pensieri. Ho imparato che proprio attraverso le parole emergono lati bellissimi, umani, caratteriali che non potrei mai voler nascondere. Sono anzi elementi fondamentali per capire qualcosa del loro lavoro o magari travisare tutto.

Luogo/luoghi vuol essere un punto di partenza per guardare in direzioni diverse. Certamente un numero solo non può essere esaustivo, soprattutto se curato da una sola persona, così riconoscendo i miei limiti ho deciso per il “pochi (artisti) ma buoni”. Ho scelto loro (Dacia Manto, Giovanni Ozzola, Alice Pedroletti e Alia Scalvini) perché sono riusciti a incuriosirmi, a far nascere in me quella sete di saperne di più, voglia di far la fatica necessaria per capire cosa c’è dietro.

A voler trovare un filo rosso che unisce questi artisti penso alla leggerezza. Una leggerezza pesante, densa di significati e rimandi, un togliere, frutto di rinunce, che permette di arrivare al nocciolo. Individuare la sostanza vitale, togliere le decorazioni inutili e innamorarsi di ciò che esiste nei nostri luoghi. Vorrei spiegarvi cosa ho visto in ognuno di loro, ma più ci provo più mi sembra di descrivere dei pazzi e il mio capo non sarebbe per nulla contento.

Alcuni dopo il primo numero mi dissero, a ragione, che mancava un’introduzione, così volendo rimediare ho pensato a lungo a cosa scrivere, ma ho la sensazione che alla fine non aggiungerò niente di utile a quello che leggerete nelle prossime pagine. Ho giocato con le parole, con le interpretazioni, con i personaggi. Ho finto, insinuato, mi sono stupita. Non ho obbli-

Sibilla Zandonini

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Idrovora - 2010

DACIA MANTO ( Milano - 1973 )

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Rousseau sosteneva che la vera civiltà è quella realizzatasi nello stato di natura e, conseguentemente, il vero individuo civilizzato è il buon selvaggio: colui che è libero dai quattro padroni che indirizzano e limitano le coscienze odierne: legge, religione, denaro e proprietà. Nel suo Discorso sulle scienze e sulle arti rincara la dose affermando che arte e scienza hanno contribuito a corrompere i costumi in quanto ornamenti superflui che invitano gli individui ad apparire piuttosto che essere. Nella mia fantasia ti ho immaginata proprio come una buona selvaggia di Rousseau: una ricerca tesa al ritorno ad uno stato di natura, un puntare i piedi per essere un po’ di più. E’ affascinante l’immagine del buon selvaggio, e interessante l’idea che tu la riferisca a me. Concordo su diversi punti del pensiero di Rousseau, e in particolare su ciò che può limitare le coscienze, e la libertà. Tuttavia credo che il gesto creativo e individuale sia proprio un mezzo per tentare ancora di costruirsi una propria libertà. Dunque non condannerei l’arte e neppure la scienza, dalla quale pure ho attinto molto. L’arte potrebbe ancora essere uno spazio ai margini, un territorio ambiguo e sfuggente, proprio un ‘terzo paesaggio’ in cui crescere liberi e fuori dal controllo (è così’ che io personalmente rileggerei Clement). Quanto al puntare i piedi, si’, anche questo mi ritrae. La mia ricerca- e il mio stesso esistere- tende a intrecciare un legame

con lo stato di natura. Ma ho anche io le mie contraddizioni. A volte adoro gli ornamenti.

L’idea, ammetto, mi è balenata vedendo il progetto Walden, con quel rifugio delle piccole cose ispirato a Thoreau. Il filosofo dedicò oltre due anni della propria vita,

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Bower - frame video persona all’interno di un luogo chiuso e distante. La trascrizione dell’esperienza di un luogo, rispetto al vivere un’esperienza in un luogo, può essere più interessante?

dal 4 luglio 1845 al 6 settembre 1847, a cercare un rapporto intimo con la natura, e insieme a ritrovare se stesso, trasferendosi nel bosco attorno a lago di Walden, nel Massachutsetts. Quello che mi ha colpito è che tu abbia affrontato il tutto basandoti sullo scritto che Thoreau produsse in quella occasione piuttosto che sperimentare sulla tua pelle. Hai rivissuto il percorso personale di scoperta di un’altra

Certo che no. Si tratta di passaggi. Di cercare una relazione con ciò che e’ stato vissuto, scritto, da una persona particolare rapportandolo a proprie esperienze e

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al proprio sentire. Anche al proprio immaginario. Si tratta di una reinvenzione. Per quanto mi riguarda sento necessario immergermi nei luoghi per tentare un’intimità con essi. Esploro paesaggi e territori, se posso camminando. Cogliendo immagini, raccogliendo piccoli reperti. Thoreau ha fatto di questa immersione un progetto di vita per almeno due anni, e la sua è un’esperienza che ha ancora molto da raccontare.

E’ un osservatorio sperimentale e attento su tutto ciò che lo circonda, che ci circonda. Mi ci sono accostata, ho sovrapposto qualcosa di mio. Non è che una lettura parziale, soggettiva, ma è anche un modo per dare un’altra vita a quel testo, che considero prezioso.

I tuoi lavori sembrano sempre inseriti all’interno di un percorso, prima di tutto personale e poi tematico. All’interno di questa evoluzione, nel momento in cui la

Olympia - 2007

Lo scritto di Thoreau è un luogo.

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così come a vedute a volo d’uccello. Penso a una sorta di caleidoscopio, ai suoi elementi combinatori costanti che danno luogo a forme differenti. Il cambiamento è certo comune alla natura e all’uomo, quello che bisogna fare è porre attenzione; tentare di coglierne il ritmo nascosto. Dunque non si tratta di giudicare, e, per quanto inevitabile, in quanto precario e transitorio esso rappresenta uno stato di apertura. E’ la possibilità di spalancare margini ulteriori, di aprirsi a nuovi territori.

affronti, ti preoccupa più l’esperienza che stai vivendo o il passaggio di informazioni verso l’esterno? Il passaggio di informazioni è conseguente all’esperienza vissuta. Ogni lavoro nasce certo all’interno di un percorso, ma non di un progetto studiato a priori: è solo l’immersione nelle cose a creare corrispondenze, rimandi. C’è un punto in cui il cerchio sembra chiudersi, per poi riaprirsi. Le cose affiorano, salgono alle superfici, lasciano bolle che si aprono a contatto con l’atmosfera superiore.

Molti tuoi lavori partono dal disegno a grafite, è indubbia la tua capacità tecnica così come il lungo lavoro che precede queste carte. Dal disegno poi costruisci qualcosa di altro, video o tridimensionale, come se non ti accontentassi di saper fare un buon disegno, come se avessi la necessità di sporcarti le mani sempre e vedere dove puoi arrivare.

Il concetto di trasformazione è una costante nei tuoi lavori, ma non è il cambiamento estetico o quello rapido e determinato dall’esterno, nemmeno quello che presuppone un miglioramento, per me questi sono i modi in cui viene oggi viene accettata e condivisa la mutazione di uno stato. La trasformazione raccontata da te parte da dentro ed è lenta, inesorabile e quasi invisibile. Come in Morpho Eugenia, un video in cui disegni a grafite dalle geometrie naturali si susseguono in una continuità tale da sembrare uno stesso organismo che evolve. Il cambiamento è comune alla natura e all’uomo? Nel suo essere inevitabile non può essere giudicato?

Certo. Non si tratta di una sfida, ma di una necessità vitale. Un’urgenza. Il lavoro ha origine dal disegno ma poi il disegno non basta più , sento il desiderio di costruire uno spazio. Uscire dal giardino concluso del foglio. Il disegno apre a qualcosa. È esso stesso un territorio libero, ma proprio per questo tende a costruire nuove connessioni, nuovi rapporti, che escano dai suoi confini. Può tramutarsi in un videocioè nel movimento, nella durata, in una scrittura di luce e ombre- oppure tramu-

Si, il lavoro è un corpo che cresce, mutando forme, ramificandosi, dilatandosi, aprendo a visioni minime e ravvicinate

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Urania (Sybilla’s garden) - 2009

si chiedano da dove nasce e vogliano ricostruire la stessa storia che mi ha affascinato a suo tempo. Certo i valori formali, la ‘presenza’ dell’opera sono per me importanti. Non credo che basti l’idea, ne’ il pensiero. Non per me. Creare il proprio spazio, e dare un corpo al pensiero. Farne un mondo. Questo sì mi pare il tentativo con cui misurarsi. Chi si imbatte nel lavoro potrà poi decidere se restare a guardare sulla soglia oppu-

tarsi in scultura, divenire ingombro, corpo, paesaggio attraversabile. Sei una assidua lettrice e spesso proprio dai libri trai ispirazione per le tue opere, lo abbiamo visto con Walden, ma anche in Urania (Sibylla’s Garden) eden immaginario realizzato secondo la catalogazione di piante e insetti di Maria Sibylla Merian, naturalista del ‘700. Ovviamente chi vedrà l’opera come spettatore difficilmente avrà letto questi testi, come ti poni nei confronti dello spettatore? È più importante quello che si vede nell’opera così come è, e quindi limitata in quello che è il suo aspetto estetico e simbolico e in relazione alla sensibilità del pubblico, oppure per fare arte basta l’idea ed è quella che conta? Forse è importante che nasca almeno un interrogativo, una curiosità. Se difficilmente le persone che vedono l’opera conoscono il testo o gli elementi iconici cui il lavoro è legato- ma poi non è detto- può darsi che si pongano una domanda, che

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re entrare, inoltrarsi. Ci sono molti e diversi livelli di lettura, dalla più superficiale, che ricorre a schemi noti e riconduce tutto al già visto, già conosciuto, a letture più profonde che presuppongono, però, un tentativo di avvicinamento in cui impiegare tempo, dubbi, rimesse in discussione.

una tipologia di radice in grado di rigenerare in autonomia la pianta che nutre, un concetto che è stato trasposto sia in filosofia che in psicologia. Seppure la mia sia stata una ricerca molto superficiale a riguardo, ho trovato molto affascinante la valenza data da Jung: “La vita mi è sempre apparsa quale una pianta che viva sul proprio rizoma. La sua vera esistenza, l’invisibile, sta celata nel rizoma. La parte che si mostra sopra la terra vive un’unica estate, per poi imbozzacchire, effimera

On growth and form - 2009-2010

Nei tuoi testi ricorre spesso la parola rizoma. In parole povere il rizoma indica

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Rizocarpico - 2008

nascosta, ma anche una radice aerea, dunque scoperta. Può indicare certe strutture dei labirinti o del cervello. Come scrivi tu, la fioritura è effimera, precaria, ma il rizoma espande la sua struttura vivente senza sosta. Rizocarpico era un progetto cui tenevo molto, in questo caso l’immagine- un tappeto- era costruita di nodi e intrecci invisibili, il risultato era una geografia, che diveniva del tutto astratta. Eppure l’opera si materializzava infine come un panorama fisico, da toccare, attraversare.

apparizione. Se poniamo mente all’incessante crescere e decadere della vita e delle culture, non possiamo sfuggire a un’impressione di totale nullità. Pure, ho sempre avuto la sensazione che qualcosa viva e perduri al di sotto dell’eterno flusso. Ciò che vediamo è la fioritura, che è transeunte. Il rizoma rimane.” Un tuo progetto si chiama proprio Rizocarpico, come a voler cercare queste radici proprio in territori geografici, spesso lontani, che una volta rappresentati e scavati della loro specificità diventano iconici. Il concetto di rizoma è per me molto affascinante, esso indica certo una radice

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Inlandsis - 2009 accolgo e non ostacolo. In Inlandsis, che tu citi, esposto prima nel 2005 e poi mutato fino alla sua seconda realizzazione per la mostra ‘Green Platform’ alla Strozzina nel 2009, era certo questa corrispondenza- instabilità del mezzo, instabilità del rappresentato- ad interessarmi. Di nuovo una geografia, un disegno- quelli del continente antarticoma soggetti ad un continuo e reale mutamento. Che cosa accade se anche le mappe cominciano ad oscillare ? Questa era la domanda che mi ponevo. Inoltre, le geometrie ma anche i disegni matematici e perfetti- quali appunto le mappe- mi

Quando invece affronti la tematica del mutamento dei ghiacciai, studiando e riproducendo le mappe dell’Antartide evidenziandone la trasformazione stagionale sembra quasi che quello che conta sia la transitorietà sia del mezzo che del rappresentato. Spesso utilizzi materiali fragili, o geometrie poco stabili, per realizzare i tuoi lavori. Non ti preoccupa la loro sopravvivenza nella storia? In realtà molti miei lavori, così fragili all’apparenza, si rivelano poi molto più resistenti. Ma in effetti non è certo la loro sopravvivenza al tempo a preoccuparmi. Il tempo è di nuovo un agente di mutamento, che

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le città e gli uomini dal mio lavoro- ma poi mi ritrovo a precipitare in una dimensione altra, che chiede attenzione, continuamente mi fornisce segni, e li’, non posso fare a meno di guardare.

interessano proprio per la possibilità di sfaldarle, di farle diventare altro.

Vivi in città eppure non compaiono mai elementi artificiali nelle tue opere, il luogo cittadino non ti ispira o è una forma di difesa dalla violenza insita nelle strutture sociali? Per la verità vivo ai margini della città, anzi direi sulla soglia, sulla cesura tra due paesaggi differenti. Vivo in un luogo che appartiene alla città di Bologna ma apre a un territorio insolito, fatto di campi, boschi e colline sfuggiti- per ora- alla cementificazione di tutto. E’ un luogo urbano ma incredibilmente abitato dagli animali, oltre che naturalmente dalle specie vegetali. E’ un luogo che ho scoperto a poco a poco, come ce ne sono tanti forse- purtroppo sempre meno. Un vero luogo marginale, e molto prezioso per me. Certo sono affascinata dalle città- non ne vivo realmente lontana- ma cerco di coglierne solo le cose migliori. Avverto in effetti una violenza data dal rumore, dalla folla, dall’odore, dalle auto. E’ qualcosa cui siamo tutti molto abituati, e mi capita di ritrovare il mio vero spazio solo altrove. Quello è lo spazio di indagine dei miei lavori. Non c’è un’intenzione programmatica in questo, non escludo affatto a priori

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Anarchitecture - 2008-2010

Walden - 2009

Urania (Sybilla’s garden) - 2009


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Watching a door, where everything seems to be changed into light - 2011

GIOVANNI OZZOLA ( Firenze - 1982 )

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Andare oltre e’ importante ed avere la possibilità di poterlo fare implica una condizione. Leggere un’immagine, avere una visione, necessita di un sistema di codifica, una predisposizione sensibile o intellettuale. Per usare le tue parole fin dall’iconografia religiosa (che poi aveva molte funzioni essendo sempre finanziata da mecenati) la predisposizione alla lettura dell’opera partiva da una condizione anche fisica di disponibilità. Trovo una delle cose più affascinanti e commoventi e performative il passare del tempo aspettando che l’affresco di qualche maestro appaia, che l’occhio, lo spi-

Hai presente quella sensazione sgradevole per cui un concetto ti sembra chiarissimo ma non riesci ad esplicitarlo? Ecco, questa è la sensazione di fronte al foglio bianco nel dover scrivere le domande per la tua intervista. D’altronde è la tua stessa arte a giocare lo stesso scherzo: cattura lo sguardo e poi lascia interdetto. Le tue immagine sono così esemplificative rispetto il rappresentato che fin da subito si va oltre, ma in quell’oltre non siamo accompagnati. Il concetto di cortina nell’arte è sempre stato presente, a partire dall’iconografia religiosa la rappresentazione artistica è stata mezzo per sbirciare al di là del mondo terreno. Quanto di questo è parte della tua ricerca personale?

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rito e tutto ciò che ci compone si unisca e finalmente veda. Il mio lavoro, la mia ricerca parte da questa condizione: dal rendersi completamente materiale sensibile connettendo i propri sensi al pensiero dando vita ad un’unica visione. Nei miei lavori in assenza di luce la visione mi permette di avere percezione di me. Nei lavori di luce l’oltre è nella fusione con essa dando luogo alla perdita di individualità.

ria Continua, dall’interno verso l’esterno, dall’artificiale al naturale, il tuo percorso artistico è un continuo rincorrere situazioni. Quegli interni (Camera rossa, Camera Verde, così come Poltrona tutti del 2003) così iconici nel loro essere fuori dal tempo, così parte di noi, e con noi intendo gli italiani, nel loro immobilismo, nel semplice esserci richiamano ad una necessità nostra di staticità. Un elogio alle piccole cose o alla capacità umana di renderle grandi? Riconoscere è sensibilità e quando uso questa parola penso al biochimico ungherese Albert Szent Gyorgy che diceva “La ricerca scientifica consiste nel vedere

Superficiale - Under my skin - 2009

Partendo dalle fotografie di interni per arrivare ai temporali esposti alla Galle-

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della mia storia e la cosa più importante e che la nostalgia non e’ nel mezzo fotografico ma nello sguardo.

quello che tutti gli altri hanno visto, pensando quello che nessun altro ha pensato”. Avere l’abilità di riconoscere e rendersi conto del valore che “una piccola cosa“ ha per la propria mitologia e’ sicuramente un modo di conoscere il materiale di cui siamo costituiti e questo ci porta ad un grado di consapevolezza maggiore perché la storia è allo stesso tempo un peso e fondamenta.

Hai iniziato come fotografo, da qualche parte ho letto che quello che ti interessa è la pittura (e fin qui non fa una piega: fotografia significa scrittura di luce) in quanto espressione temporale di un gesto. Numerosi tuoi scatti raccontano proprio la temporalità di un evento: tramonti, albe, notte, giorno... È evidente che cioè che ti affascina è la mediazione tra uno stato e l’altro piuttosto che il proprio esserci, indaghi quel limbo tra essere luce ed essere buio, tra il vedere e il non vedere. L’ossessione per i confini, superarli, scoprirli, è insita nella natura umana, eppure oggi sembrerebbe che rotti i confini geografici, ci sia una necessità di ricostruire confini propri.

La serie continua con Camera gialla e Poltrona in un’altra camera, del 2007. Quell’aria un po’ fané, sicuramente ricercata, affascina perché siamo vittime di una società nostalgica? Basti pensare alle varie applicazioni per Iphone piuttosto che alla rinascita della lomographia per notare nell’utilizzo dell’immagine fotografica una regressione, almeno dal punto di vista visivo, ad un estetica più pacata, morbida. Sei stato un precursore di quella che oggi è una moda?

Mi rifaccio a due termini che sono importanti per la mia ricerca personale, Stimmung e propriocezione. Sono due termini che descrivono perfettamente ciò di cui parli: per definire i propri confini devi anche aver percezione di ciò che c’è fuori di te, è un gioco tra confini corporali e mentali. Fisicamente una percentuale di tutti i nostri sensi è continuamente occupata per farci rendere conto dove ci collochiamo nello spazio, quando poi anche il pensiero è connesso ai sensi siamo completamente parte di ciò che ci circonda ed è il momento in cui percepiamo in nostri confini e

Non saprei, ho iniziato molto presto ed effettivamente scattavo con una Lubitel ma in realtà desideravo una Pentax 6x7, non sono mai stato un poser, volevo acutanza e precisione, macchine professionali, grandi formati. Ma questo e’ il problema di andare a vivere da soli molto presto. Avevo 16 anni e mi mantenevo facendo molte cose diverse. A parte la mia storia, per parlare dei lavori che citi, devo dirti che gli ambienti non sono ricercati, ma luoghi

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Poltrona - 2003 salvarci perché si costruiscono sempre così tante teorie sopra le cose? L’arte va

ciò che ci sta attorno.

spiegata? Ho sempre desiderato avere una macchina fotografica negli occhi per fissare le inquadrature che mi colpiscono. Tu parli di Stimmung parola che letteralmente significa accordatura, intonazione, disposizione di spirito, atmosfera, stato d’animo, umore. Il trucco sta dunque nel trovare l’accordatura giusta tra la nostra visione e il mondo circostante? Se è davvero l’empatia a

Stimmung in realtà non è traducibile, è un termine della filosofia romantica, comunque possiamo parlare di empatia. L’empatia è un trucco salvifico? Non credo nei trucchi, ma credo nella consapevolezza, cercare di conoscere, porsi problemi e lasciarsi meravigliare da ciò che ancora non

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Early morning - Allestimento - 2008

parallelo della XIV Biennale Internazionale di Scultura di Carrara dello scorso anno, Niente da vedere tutto da vivere, la forza espressiva delle due opere che hai installato all’interno dell’Istituto del Marmo Pietro Tacca aumenta esponenzialmente all’interno del contesto; come fossero state lì da sempre e in quella occasione avessero deciso di mostrarsi. Come vivi la relazione con lo spazio espositivo?

conosciamo sono tutte buone abitudini. Costruire teorie è un modo per pensare e per spiegare, per colmare il vuoto che a volte si crea fra più individui, con altre persone questo vuoto non c’è, magicamente con alcune persone basta uno sguardo. L’arte, quando si prova a spiegarla, ha un valore d’analisi personale, ognuno di noi è un modo di essere il mondo e cosa c’è di più bello di poter vedere un altro punto di vista del mondo?

Lo spazio è per me fondamentale, anche quando installo immagini bidimensionali l’approccio è sempre quello dell’installazione. Il collocamento di un’opera non può in nessun caso prescindere dallo spazio in cui viene collocata. Tra spazio e opera si crea una relazione, una tensione di energie, i luoghi gli oggetti portano dentro di loro una sorta di nota e come un direttore di orchestra, l’artista,

Dai luoghi rappresentati, a quelli mentali, non si prescinde però da quelli fisici perché poi l’opera va mostrata. Mi piace molto l’approccio che hai verso l’allestimento, il modo in cui abbracci lo spettatore nel disporre i tuoi lavori e l’interazione che si crea tra di loro una volta che sono giustapposti. Per esempio per l’evento

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Early morning - 2008


crea una melodia. Fai riferimento ad una mostra che ho sentito molto per due ragioni. La prima è che dopo qualche tempo ritrovavo un amico e un curatore che stimo, parlo ovviamente di Lorenzo Bruni. L’altro motivo è la densità di pensiero e la carica di intenti che trovavo nella mostra e nei luoghi dove mi era stato chiesto di lavorare. I miei lavori partono da un immagine mentale e in quel caso il candore del marmo mi riportava sempre al lavoro che ho poi installato, Early morning, che è un’opera con una forte natura scultorea, anche in quel caso l’idea di aprire un varco nei laboratori dove si lavora il marmo mi sembrava assolutamente un segno positivo. Ritorna il guardar oltre…

Affascinato dalla reazione retinica alla luce durante i suoi mutamenti di intensità, hai vinto il Talent prize 2010 grazie a Superficiale – Under my skin video che racconta il passaggio del giorno attraverso la luce proiettata sul muro del tuo studio, eppure attirato anche dalle tenebre. A partire da Omnia munda mundis (tutto è puro per i puri) hai prodotto una serie di scatti in notturna di alberi, tronchi, fronde. Un’estetica quasi barocca a rappresentare la forza della natura che vince il buio, ancora una volta un qualcosa che emerge e si svela a noi, e al contempo una natura così materica, sensuale e sfacciata da sembrare umanizzata. L’uomo nel suo essere dicotomico è l’elemento centrale

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della tua ricerca?

Garage - sometimes you can see much more - 2009

Naufrage, Heron and hope - particolare - 2011

Naufrage, Heron and hope - 2011

Superficiale è un lavoro per me molto importante, infatti afferma in pieno il mio interesse sulla percezione. Il lavoro parte da un totale bianco diurno per passare a tutte le cromie fino al buio ovvero l’assenza di luce, tra i due estremi si dipanano tutte le frequenze del colore. Sono cinque ore di registrazione contratte in 2 minuti che permettono ai nostri occhi e al nostro cervello, che non hanno il tempo di riprogettare ciò che appare, di vedere per la prima volta la realtà: un tramonto. Afferma anche la mia totale distanza da una postproduzione fuorviante, il video come tutte le mie immagini non subiscono una forte post-produzione. Se questo lavoro raccoglie totalmente la mia ricerca devo anche dire che da qui partono, con il solito approccio, due manifestazioni diverse: quella diurna dove lo spettatore si rende indistinto nella luce, perdendo la propria individualità dissolvendosi nella materia, nella luce e poi quella notturna dove la visone diviene possibile solo per la capacità di raccogliere i sensi rendendosi un tutt’uno con noi stessi; solo in questa condizione di totale predisposizione verso ciò che ci circonda si può avere una visione. Dunque se nella luce c’è una smaterializzazione, nella notte c’è una presa di coscienza di noi stessi grazie a ciò che troviamo di fronte.

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dell’opera che vuoi creare? Una fotografia di quella barca avrebbe significato qualcosa di diverso?

Ritorna l’idea di Stimmung, essere in empatia con ciò che ci circonda ci dà percezione di noi stessi. Una percentuale di ogni senso lavora costantemente per darci percezione di noi stessi nell’ambiente, ciò si chiama propriocezione.

Anche se i lavori fotografici sono quelli più conosciuti da sempre uso ciò che sento necessario per un’opera, in questo caso non avevo bisogno di rappresentare una barca ma avevo bisogno di un relitto che avesse davvero vissuto quella condizione, ti ricordi il discorso delle note...

Con Almost three hundred lightning - turner mood hai iniziato un utilizzo di elementi più materici, il marmo su cui proietti il video, che continua nella tua ultima mostra Naufragio in cui presenti una scultura: una barca al cui interno si trova la scritta in neon no matter how far long you have gone you can always turn around, tratta da una canzone di Gil Scott Heron. È un nuovo percorso intrapreso verso il tridimensionale o semplicemente usi ciò che ritieni necessario a seconda

La tua produzione non è affannata, come se la passione per il tempo investisse anche il tuo processo creativo. Per far nascere un’idea ci vuole molto tempo, poi viene consumata con la rapidità di uno sguardo da parte dello spettatore. Che rapporto hai con il pubblico dell’arte? Ti

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Leuve nuit septembre - 2010 preoccupa il commento “lo potevo fare anch’io”, eterno appiglio dei detrattori dell’arte moderna? Nel mio caso la produzione di un lavoro è un processo talmente personale e ha così tanto a che fare con la mia storia da non riuscire ad essere toccato da questo commento. Adoro poter parlare dei miei lavori con tante persone su più e differenti livelli, sono autodidatta e come tale capisco che ognuno ha la sua storia e mi affascina poter avere letture del mio lavoro a volte anche inaspettate.

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H5 (get behind you)

L5 (protected by)

ALICE PEDROLETTI ( Milano - 1978 )

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Ho sempre voluto fare l’artista, mio nonno lo era. Sono cresciuta amando la musica, la fotografia e la pittura. Da bambina passavo le ore a disegnare e adoravo i musei. Al liceo la materia in cui andavo meglio era Arte. Mentre le mie compagne disegnavano Topolino e Paperino, io copiavo Michelangelo, facevo piani prospettici delle costruzioni del Bernini, tesine sul’Arte Sacra. Dipingevo le scenografie per il gruppo di Teatro, facevo le foto alle manifestazioni, ai concerti, progettavo graffiti giganti con i nomi degli amici. Peccato che studiassi lingue.

Conduci una doppia vita: fotografa commerciale ed artista. Nel tuo sito internet giochi con la parola alike (somigliante, in inglese) e notalike ad indicare le due situazioni. Credo che un buon fotografo racconti sempre una storia, anche quando si tratta di servizi per riviste o aziende. Qual è per te la differenza nei due approcci? È tutta arte o solo una parte? Potrei citarti per risposta il titolo di un libro a cui sono molto affezionata, scritto da un mio caro amico (Mauro Garofalo): “In pArte Morgan”. Gioco di parole molto efficace per chi come me vive quella che tu chiami doppia vita. In realtà non so dirti se è una doppia vita o solo una perenne ricerca del mio essere Alice.

I wish it was mine

Una volta finito il liceo ho iniziato subito a lavorare come fotografa e assistente, concentrandomi quindi su un aspetto più

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commerciale di quello che amavo fare. Del resto dovevo lavorare, non potevo più di tanto aspettare l’ispirazione. Così ho portato avanti i miei sogni e i miei progetti artistici più in sordina, sperimentando tantissimo, esponendo comunque, ma in circuiti davvero underground. Pian piano qualche soddisfazione, qualche luogo più importante (l’Accademia delle Belle Arti di Torino, le Scuderie Aldobrandini a Frascati, il Castelo di Rivara). Più sentivo il bisogno di fare arte, più mi rendevo conto che avrei dovuto incrementare il lavoro commerciale: desideravo viaggiare, vedere altri musei, altri posti, conoscere artisti di altri paesi. Dopo un lungo percorso nella musica, come fotografa, sono approdata alla pubblicità che

mi da la possibilità di avere molto tempo libero e come artista i mezzi per sperimentare. Un paradosso in fondo, se guardi che tipo di lavori faccio. In molti storcono il naso, soprattutto in Italia.

I wish it was mine

Per questo gioco da sempre con alike e notalike. Un po’ un essere e non essere che è volutamente riferito all’apparire (somigliare) e al non piacere. Trovo penalizzante definire una persona attraverso una sola direzione. Perché averne una doppia è sbagliato? Imparare a lavorare è fondamentale, che sia Arte o Commerciale. L’importante e poi arrivare ad una scelta,

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I wish it was mine dedicarsi a quella. Io parto da me stessa e dalla mia sensibilità, che c’è in entrambi i casi, come anche la serietà con cui mi approccio. Cambia l’interesse. Con un cliente ci sono delle regole spesso a discapito della libertà, ma in fondo non credo che nell’Arte sia poi tutto così libero, anzi. Ci sono regole di mercato molto precise che spesso castrano gli artisti. Ci sono artisti che fanno di queste stesse regole la loro forza. Può piacere o non piacere, ma è un dato di fatto. Il lavoro finisce nel momento in cui lo consegno; i miei progetti, le installazioni,

i lavori legati al percorso da artista vivono sempre, sono la parte di me più intima. La rappresentazione di ciò che sono, non di ciò che imparo ad essere.

Una cosa che salta subito all’occhio è la quasi totale mancanza di soggetti umani nelle tue opere e le poche volte che compaiono persone non sono al centro della fotografia, non sono loro il “senso”, ma piuttosto sono strumenti al tuo servizio. Eppure non si potrebbero mai definire i tuoi lavori come paesaggi o come rappresentazioni del mondo naturale.

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Sono umana. Quello che faccio è umano: sono obbligata a guardarmi dentro. Mi annoia fissare uno specchio, preferisco una grande finestra rivolta a qualcosa di immenso, che possibilmente non abbia spiegazione se non quella che posso darle attraverso un percorso che abbraccia conoscenza, memoria, emozioni, tempo. Una sofferenza esistenziale che si allevia cercando un senso in ciò che mi circonda, cercando un equilibrio o una speranza nello spazio che occupo.

realizzate durante la tua residenza al VSC. Innanzitutto mi sembra che quest’esperienza negli Stati Uniti ti abbia segnata molto, come se l’unica reazione allo spaesamento fosse la creazione. In questa serie fotografica racconti di ricordi legati all’infanzia, il nostro essere stati bambini viene filtrato da esperienze altrui, quasi fosse un lavoro di accumulo che permette a tutti di ritrovarsi dentro questi paesaggi sconosciuti. La solitudine dei soggetti, la desolazione dei luoghi porta lo spettatore a perdersi nell’immagine. Ritrovarti sola lontano da casa (in tutte le accezioni del termine) ha determinato questa sensibilità ai ricordi, alle origini?

Per questo i soggetti umani mi piace viverli. In un modo quasi analitico mi piace studiarli, anche se per ora non è una ricerca legata all’immagine. Mi serve sentire fisicamente le situazioni e le persone, mi piace giocare con la parola, mi piace parlare (forse troppo), mi piace insegnare, mi piace osservare e usare quello che vedo per relazionarmi ai luoghi in cui viviamo come esseri umani. Una mappa di esperienze mie e di altri che, come racconti, cerco nei posti in cui viaggio o capito per caso. Le mie comparse sono solo un elemento perfettamente in simbiosi con il resto, sono esperienze che mi porto dentro. Non ne sento la necessità, mi basta la loro presenza-assenza.

Le cose che mi chiedi hanno una risposta che in realtà è una fetta intera di vita. La residenza negli Stati Uniti è stata un’esperienza difficile e per questo incredibilmente produttiva. Ho passato un mese tra le valli e le montagne del Vermont con 50 artisti di 20 stati diversi, unica europea, unica fotografa. Avevo fatto domanda perché sentivo che dovevo partire, andarmene. Erano anni in cui tutto mi crollava addosso e non riuscivo nemmeno più a lasciarmi cadere, a stare così male da potermi rialzare rinata. Mi serviva qualcosa per crescere, per capire, mi serviva sapere chi stavo diventando, dove stavo andando. Dovevo dare spazio all’arte ma avevo paura. Visto da fuori è un mondo (o ambiente) che può spaventare moltissimo. Quando è arrivata la lettera che mi co-

Il senso è quel tutto in cui ci sono anche loro. Mi viene da pensare alla serie d’immagini raccolte sotto “I wish it was mine”

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municava la borsa di studio, ho messo in gioco tutto: rapporti, relazioni, lavoro, famiglia, Alice. I wish it was mine è iniziato durante quel mese ed è continuato per i due successivi, in cui ho preso 16 aerei e ho girato da Chicago a San Francisco, da Los Angeles a New York. Ospite in case di amici artisti, anzi, di artisti che sono poi diventati amici. Credo che il non avere casa, non avere radici con quei luoghi, non parlare la mia lingua, il poter essere ciò che volevo, mi abbia permesso di agire e basta. Sono tornata in Italia con cinque progetti finiti,

diversi da iniziare e con le idee molto più chiare. La leggerezza delle immagini che vedi è la pesantezza di cui mi sono liberata.

Una delle poche cose che si ricorda sempre della filosofia studiata alle superiori è il mito della caverna di Platone: la caverna è il mondo sensibile, quello in cui viviamo, e gli oggetti al suo interno non sono altro che copie imperfette di quello che è chiamato mondo delle idee, il fondamento del tutto. Nell’arte contemporanea , come nella vita reale, alcune persone pen-

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LH 6 (2 means 2, not 1) Nel progetto metro in parte parlo di questo: di una somiglianza non casuale tra quello che l’uomo inventa e costruisce, e le forme che la natura riesce ad assumere. Diverso è il modo, il mezzo, l’intento. Diversi sono i materiali, le finalità, ma l’eredità che abbiamo dentro di noi è qualcosa che va al di la della nostra quotidianità, della nostra comprensione, della nostra formazione.

sano al mondo delle idee e altre al mondo sensibile. Ma se Platone avesse visto la tua serie “LH =love/hate” credo sarebbe seriamente andato in confusione. Ti sei accostata ad un qualcosa di così ampio e labilmente definibile con un approccio chimico e sei finita dentro immagini leggere e poetiche, che racchiudono una parte del tutto. Forse non siamo andati molto oltre Platone, l’opera dell’uomo è sempre parte del mondo sensibile ed è proprio questa sua finitezza a renderla così importante?

Non è solo istinto, è qualcosa che deriva dal legame con la Terra, con il Cosmo, è qualcosa di inconscio, di primordiale.

Io credo che l’uomo generi sempre qualcosa che esiste già, o che è esistito.

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Le paure che ci condizionano e in parte ci guidano sono le stesse per ogni essere umano, indipendentemente da razza e religione, periodo storico, ruolo o classe sociale. Forse è per questo che non amo i dogmi in genere, li vedo come dei paliativi. Ed è per questo che ho preso un qualcosa di chimico e ho cercando di renderlo poetico ed umano attraverso la fotografia (che è a sua volta un mezzo fisico/chimico).

all’odio: l’alterazione chimica”. Non scelgo posti o città o luoghi, ci capito assolutamente per caso e per caso (o meglio istinto) colgo nel paesaggio, negli oggetti, nei dettagli di quei luoghi i miei fattori d’amore e d’odio, che indico con la sigla LH. Trovare corrispondenze visive tra scienza e poesia del vivere è difficile, ancora di più da quando il mio involontario è diventato consapevole. Da quando ho trovato la spiegazione che cercavo: la chimica.

Tu parli di Platone, dici che sarebbe confuso. Invece, magari, guardare le cose da punti di vista più semplici a volte aiuta, non confonde. E’ difficilissimo, significa accettare gli altri, ma non mi dispiace l’idea di cercare per sempre tanti altri punti di vista oltre al mio, che è limitatissimo in confronto alla grandezza delle cose su cui mi interrogo. In questo lavoro prendo le cose che ogni individuo conosce: l’amore e l’odio e le analizzo. Semplice la scelta artistica quindi, l’approccio all’argomento. “L’amore, se analizzato oggettivamente, è qualcosa di chimico diverso da donna a uomo, da individuo ad individuo , riconducibile spesso all’idea di sesso o affetto. Nelle immagini provo a raccontare , attraverso forme e momenti casuali, le minime o massime differenze tra due punti di vista di un processo che , se sviluppato in 2 direzioni, da origine all’amore ma anche

“LH è la sigla dell’ormone luteinizzante che regola nel maschio la produzione di testosterone e spermatogenesi mentre nella femmina regola, insieme alla prolattina, l’ovulazione ed altri processi ad essa collegati.” LH= love/hate si è trasformato in “Analisi visiva del concetto di odio e amore espresso con sigle chimiche e parole semplici”. Sono partita da alcuni dittici in cui le immagini erano in contrasto l’una con l’altra attraverso un oggetto, un punto di vista, una forma. Il centro dell’attenzione può essere un gesto che i miei soggetti compiono, in modo involontario. Sono ripresi di spalle o di profilo, sono inconsapevoli. Come inconsapevoli sono gli oggetti che trovo e che abbino: un materasso e delle

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I wish it was mine piante, delle lampadine, un cartello pubblicitario, un corvo. In fondo anche le persone quando si incontrano e poi si amano sono inconsapevoli di cosa faranno l’una per l’altra e spesso a vederle non si direbbe mai di quanto odio o amore siano capaci. A volte è solo chimica, a volte è un’ombra di quel mondo sensibile di cui parla Platone. Parlare di amore e di odio senza mostrarli davvero per come ti aspetteresti è accettare quello che trovi fuori dalla caverna. Ma ci vuole tempo per accettare quel che vedi. Almeno per me.

Metrica espositiva è uno dei tuoi lavori che più mi hanno colpita. Mi piace la resa quasi astratta delle immagini, quel loro essere senza luogo. Una bellezza nella semplicità e nella geometria. Come hai scelto le porzioni da fotografare? Lo definisci un lavoro sul tempo e sullo spazio, ma è più importante il momento che catturi o quello che perdi? I riflessi che vedi sono piccoli mondi, piccole dimensioni all’interno di un percorso quotidiano. Avevo iniziato questa ricerca anni fa a San Francisco, poi l’avevo messa da parte, non la capivo e non riuscivo a decifrare cosa vedevo.

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Ho ripreso a fotografare i riflessi sempre a San Francisco poco dopo la residenza di due estati fa. Camminavo ogni giorno per la stessa strada a orari diversi, ogni tanto apparivano bagliori fortissimi e dopo pochi minuti cambiavano forma, svanivano. Dovevo averli in qualche modo. Guardandoli mi dimenticavo la strada e mi dimenticavo cosa stavo facendo. Allora ho iniziato a inseguirli: stesso orario il giorno dopo e se non era uguale a quello che avevo visto, ritornavo il giorno dopo ancora, poco prima o poco dopo.

Il tempo non è solo il quando io vedo e fotografo, è il ricordo di un gesto e quindi di un pensiero che ne è conseguenza diretta. Il discorso estetico che può celare un lavoro come Metrica espositiva è lo stesso dietro al ritratto di un personaggio famoso? È semplicemente questione di studio, di prospettiva e di armonia socialmente appresa o c’è qualcosa di nascosto? Viviamo nella società dell’immagine, che tipo di influenza ha un’attitudine sociale di tale peso sulla ricerca estetica nell’arte?

Li chiamo mondi o dimensioni usando il sorriso perché ovviamente è metaforico. Ogni giorno camminiamo senza nemmeno accorgerci di quello che viviamo, senza alzare lo sguardo. Le mie luci a terra sono dei promemoria. Non puoi non cercare la fonte di una cosa così bella e quindi alzi la testa, ti ricordi del resto, trovi quel senso di cui parlavamo, magari per poco, anche solo per un attimo.

Provo a fare un riassunto di quello che penso. Una foto può essere semplicemente bella. Lo può essere per mille motivi: per una tecnica impeccabile, per dei colori incredibilmente armonici, per una costruzione prospettica sorprendente, per un formato mai visto, un montaggio curato. Ma una foto può essere bella anche per quello che c’è dentro: un soggetto incre-

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dibile, che racconti una storia incredibile, che riassuma in una sola immagine la forza di tante immagini tutte incredibili, diventando così la più incredibile. Poi ci sono fotografie che sono belle per questi motivi e per un altro ancora: quello che sta dietro, il concetto. Non è da sottovalutare quello che c’è dietro ad un’immagine. Spesso la gente guarda e basta, se vogliamo è la condanna della fotografia, la sua caratteristica principale: è piatta, è su un foglio, appesa ad un muro. Non ha dimensione, la cornice ne ha. Una fotografia con dietro un concetto è qualcosa di raro, come è raro incontrare persone ed artisti che sappiano il significato della parola concetto. Il concetto non è visivo, è astratto, quindi non ha a che fare con l’estetica in teoria. Eppure si può provare a darne un’immagine attraverso l’arte. Secondo me la fotografia può stare a metà tra la forza di un concetto (quindi assenza di estetica, ma forza di un pensiero) e la

bellezza che normalmente è chiamata a creare. Una fotografia può essere bella per quello che dice e può essere incredibilmente unico il modo in cui lo fa. L’estetica in quel momento assume canoni diversi. Verrà vista bella perché parlerà di qualcosa di importante, la sua realizzazione diventerà solo un elemento. È in quel momento che per me la fotografia diventa arte. Quando uso la parola “bella” (che è come una gomma da masticare quando ti annoi, una parola comoda e da tutti comprensibile) per definire qualcosa che so benissimo non essere nei canoni della bellezza è divertente come esperimento, confonde le persone. Mi sa che non ti ho risposto però.

Metrica espositiva - 2008-2010

Metro più che un progetto sembra essere un metodo. Ogni metro, fisico, è composto da dieci fotografie orizzontali dalle

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Metro - Installazione - 2010

passare dei mesi, mi dimentico cosa ho fotografato. Quando riprendo in mano le foto, le guardo, le scelgo e inizio il montaggio. La scelta è in base al rapporto estetico e narrativo della singola foto con tutte le altre. È come scrivere. Uso l’approccio cinematografico perché il video è l’antitesi del mio lavoro. Ne contesto l’aspetto passivo quindi creo una relazione attiva senza la quale il progetto stesso non vivrebbe. Invito al movimento fisico, do la possibilità allo spettatore di scegliere la sua storia e di darne una sua versione.

dimensioni standard, mentre il numero dei metri dipende dal sotto-progetto a cui applichi l’unità. Come è nata quest’idea di utilizzare un linguaggio universale adattabile a diverse situazioni di analisi? Quell’avvicendarsi di immagini come fossero still di un video, ma che perderebbero tutto il potere comunicativo fossero un video, sono come un gioco linguistico, parole senza congiunzioni. Cosa ti piace del rapporto col pubblico? Do per scontato che ti piaccia il rapporto col pubblico perché un progetto come metro è impostato proprio come interrogasse lo spettatore. Metro è un progetto che porto avanti da dieci anni. Si è evoluto, è cresciuto, è diventato pensiero. E’ un metodo nella composizione finale ma anche nella fase di realizzazione. Scatto le immagini muovendomi in porzioni di territorio a volte piccole , a volte grandi, con dedizione cerco i miei soggetti. Poi di solito faccio

Ho scelto il metro perché è universale. Anche dove non è usato è riconosciuto. Se ti chiedessi quanto è un metro, ti basterebbe aprire le braccia. E’ un gesto semplice: un passo ampio è circa un metro.

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Il rapporto con gli altri mi piace, ogni volta che mi rivolgo alla gente quello che provo mi sorprende, in positivo e negativo mi smuove. La fotografia, l’arte, non potrebbe esistere senza un confronto. In questi ultimi due anni ho spostato il rapporto indiretto che ho attraverso la fotografia verso due esperimenti performativi: ho usato un grosso cappio che stringeva, legandole, circa 150 persone durante un concerto rock alla Fondazione Pomodoro e ho abitato per cinque ore in uno sgabuzzino di poco più di un metro quadro durante una mostra in un appartamento a Milano. Nel primo il confronto è stato fisico e ha assunto il significato di controllo diretto: le persone non guardavano un’immagine, guardavano me perdendo in parte la capacità di reazione o assecondando la mia azione.

Hai presente la domanda che ti fanno da bambina? “Quanto bene mi vuoi?” la risposta è un gesto. Io metto in relazione, anzi sostituisco proprio, l’individuo al metro. Siamo spinti a sentirci uguali, ma non lo siamo, eppure chiunque potenzialmente può interagire con un altro individuo anzi, ne ha bisogno per esistere. Se non ci fossero gli altri io non esisterei. Quindi più persone = più metri. Ad ogni capitolo corrisponde un numero di persone pari al numero di metri. Il progetto finale è un’installazione di un chilometro, Kilometro: una porzione di collettività, una rete di coscienze che abbraccia un pensiero comune declinato nelle varianti che ogni individuo può darne. Alla fine di tutto ogni metro non importa più in che sequenza viene presentato, quello che conta è che comunque vive grazie all’insieme di cui fa parte.

Nel secondo esperimento il controllo fisico era il risultato di una profonda concentrazione e agiva solo su di me. Questa totale alienazione dal mondo esterno generava negli spettatori reazioni di ogni genere, li spingeva ad aspettare un mio movimento provando ad indovinare cosa avrei fatto. Il controllo era indiretto ma comunque fortissimo. Si torna al discorso di prima: “I soggetti umani mi piace viverli, mi piace studiarli”. Il lato scientifico di me direbbe che sono

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Metro - Cemetery work - 2009

ciare al lato più pericoloso di noi, quello che non ci fa fermare davanti a nulla. L’uomo si è evoluto perdendo la capacità di simbiosi con l’Ambiente che lo circonda. Ground Work parla di antropizzazione, che in sè non è per nulla una cosa negativa, ma la situazione generale credo sia drammatica. Parlo di distruggere per costruire, ormai da anni solo una pratica per far girare soldi o peggio una cattivissima educazione di generazioni di architetti e politici, imprenditori e società edili. Credo che un artista debba in qualche modo denunciare qualcosa. Un’idea, una situazione, uno stato d’animo.

cavie, e in fondo è vero. Ma le chiamerò ancora una volta comparse. Anche io lo sono.

Cemetery work, Forest work e Sand work sono i primi tre capitoli del progetto Metro. Seppure ambientati in luoghi molto diversi sono pervasi da un certo senso di perdita, un riflessione sul passaggio tra vita e morte, su ciò che resta dopo, anche nel senso di scarti, di ferite inflitte e metodi di guarigione. Nell’ultimo capito Ground work ti alzi in volo a guardare tutto dall’alto, come a liberarti dal percorso fatto fin li e ti ritrovi ad osservare come la presenza umana abbia fagocitato tutto. Un finale di partita un po’ negativo? Se vuoi leggerla così ti direi: “Si”. Sembro

Io sono interessata alla memoria, al tempo, ai luoghi. Oggi parlo di ieri, domani di oggi. L’uomo costruisce e lascia delle tracce, ma non solo “per terra”, in una

pessimista? Parto dall’idea che siamo come virus su un organismo gigante. Incapaci di rinun-

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porzione visibile o contenibile. Lo fa su larga scala, lo fa ovunque. Ogni tanto non ci rendiamo conto di quanti siamo. Se guardi qualche foto di Ground Work lo capisci subito di cosa parlo: di formiche con case, macchine, uffici, supermercati. Formiche soggette al condizionamento dei soldi, del potere, della bellezza. Potresti dirmi che generalizzo. Ovvio che no, ma finché il numero di formiche sarà impari, il mondo apparirà per come lo mostro nei capitoli di metro. Mi ripeterò, ma manca una coscienza collettiva che abbracci tutti, senza distinzione di ceto, ruolo, razza, religione.

La presenza dell’uomo nell’ambiente e il rapporto tra le due entità è un tema che è sempre presente nella tua ricerca, ne emerge un’umanità appunto un po’ fagocitante, prepotente. Così un lavoro come “Città domotica” sembra riabilitare l’uomo, come a dire: poverino è così piccino che si fa male da solo. Racconti in maniera scarna Santa Giulia, la cittadella ai confini di Milano che ancor prima di nascere è stata sepolta da scandali. La nostra ricerca della felicità si perde nella nebbia che solitaria abita quei luoghi? Le tue domande sono impegnative, per fortuna. Milano per me è viva, ma non perché abitata. Amo vedere le città come organismi in cui noi umani ci muoviamo. Non semplici strutture urbane, ma luoghi che nel tempo hanno assunto il ruolo di soggetto, diventando vivi. Mi relaziono a loro così, credo sia una forma di rispetto, magari solo senso civico.

Metro - Ground work - 2010

Non so se ci arriveremo mai. Non credo. Comunque sarò già morta da un pezzo.

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Santa Giulia è un esempio perfetto di molte cose: è uno dei più grandi non luoghi abitati d’Europa, è un esempio di fallimento per tutta una società, la nostra, è una discarica di rifiuti chimici ed è un cimitero di speranze. Non voglio sembrare eccessivamente pesante, ma questa è la condizione oggi. L’uomo non è poverino e non è piccino, l’uomo è ingenuo e crudele. E’ disposto a vendere le cose più care per avere in cambio potere e soldi, dall’altra parte ancora non crede possibile che esistano suoi simili disposti a fare queste cose.

italia poi queste cose sono talmente radicate nella cultura e nel sociale che sarà difficile estirparle. Quindi in realtà in quella nebbia, per me, si perdono molte più cose: integrazione, identità, ideali, lavoro, soldi, politica. Direi che resta ben poco da cercare.

Dalla periferia milanese alla Louisiana, vorrei concludere in maniera positiva. “Scala di soglia” per me è un inno alla vita, alla leggerezza che deriva dal dare il giusto peso alle cose. Mi viene in mente mio padre che bonariamente mi dice che guardare le cose da un altro punto di vista serve sempre, qual è la tua scala di soglia?

La nebbia nelle mie foto è reale. Avvolge i palazzi, i negozi e i campi chiusi da anni in attesa di sapere quando apriranno o se saranno davvero destinati al verde. La nebbia delle mie immagini rende omaggio all’ingenuità dei sogni delle persone che hanno creduto. Perché l’errore non è loro, e l’ingenuità porta in se la bellezza dell’imperfezione umana. La nebbia copre con il suo silenzio gli scandali, trasforma la città in un fantasma, come quelli delle fiabe con i cavalieri. Fantasmi buoni che vagano in eterno senza pace. Santa Giulia è senza pace. La città domotica ha fallito l’integrazione con il territorio antropizzato, ha tradito il principio base, anzi gli uomini l’hanno tradita e l’hanno fatta fallire nel suo intento. Non siamo capaci di vivere in armonia. In

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Presumo dalla domanda che i miei lavori ti appaiano tutti negativi. In effetti può sembrare, anche se io non li sento negativi, piuttosto estremamente lucidi e contemporanei alla condizione umana, che non è proprio delle migliori oggi. Scala di soglia (portatile) nasce in realtà da un altro lavoro: Katrina backyard memories. Reportage nei luoghi dell’uragano Katrina a distanza di cinque anni. Quindi l’inno alla vita che tu vedi, nasce da una catastrofe senza precedenti e da una rinascita incredibile degli stessi luoghi e delle persone che ancora li abitano. Da quella esperienza deriva la scala portatile e il concetto che ogni mia sicurezza,

ogni mia conquista, ogni mio sapere è con me ovunque. Ogni volta che sento il bisogno di cambiare condizione, affrontare qualcosa di nuovo, superare un limite posso appoggiare in terra la mia scala e salirci sopra. È un luogo portatile ed è pesante, ovviamente, perché è intensa la strada che ho percorso e le esperienze che ho vissuto.

Città domotica - 2011

Quando a settembre mi hanno invitata al Premio Artivisive San Fedele, avevo già iniziato a ragionare su questo lavoro, ma mi mancava qualcosa. Il tema ispirato al verso di Dante “E quindi uscimmo a riveder le stelle (dove sono?)”, mi è sembrato perfetto. Costruita la scala in legno (un materiale non eterno e allo

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stesso tempo con significati profondamente connessi all’uomo), ho identificato dei luoghi e ho iniziato a scattare. La scelta finale è stata per le immagini più istintive, quelle che mentre scattavo sentivo più reali. Il risultato è un manuale visivo sull’uso della propria scala di soglia (portatile), dove la soglia è ovunque davanti a te nel momento in cui sali i tre gradini per uscire a cercare qualcosa di nuovo o a tornare a cercare qualcosa di sicuro. Mi chiedi cosa sia per me questa scala. È tutto questo e sono io in relazione agli altri. Perché posso sempre contare su di me e sul famoso accumulo di esperienze e punti di vista che ossessivamente colleziono, ma se non ho un pubblico, degli spettatori, qualche amico o una famiglia con cui cercare e trovare un riscontro o uno scontro, io non esisto. La realtà che osservo dall’alto della mia scala esiste perché la vedo, ma senza condivisione rimane un bel pensiero personale, una bella foto in un cassetto o una scaletta in giardino in questo caso. La domanda vera è perché mai le persone dovrebbero avere voglia di condividere con me quello in cui credo, ma in questo caso mi tengo la risposta e ti giro la domanda.

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Scala di soglia (portatile) - 2011


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Crossing the Field - 2009

ALIA SCALVINI ( Castiglione delle Stiviere - 1980 )

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intervistarti, di cosa parla?

1. [212a ] Sembra poi che sia una questione grave e difficile comprendere il concetto di luogo, non solo perché esso presenta l’apparenza della materia e della forma, ma anche perché lo spostamento della cosa trasportata ha luogo nell’interno dello stesso contenente, che resta in riposo; appare infatti che il luogo possa essere un intervallo intermedio diverso dalle grandezze che si muovono. Vi contribuisce in qualche modo anche l’aria, che sembra essere incorporea; appare infatti che il luogo sia costituito non soltanto dai limiti del vaso, ma anche dall’intermedio fra questi limiti, come se fosse un vuoto. D’altronde, come il vaso è un luogo trasportabile, così anche il luogo è un vaso immobile; perciò quando ciò che è all’interno si muove e muta di posto in un contenente a sua volta in movimento, ad esempio una nave in un fiume, si serve di questo contenente come di un vaso, piuttosto che come di un luogo; il luogo, invece, vuol essere immobile; perciò il fiume tutto intero è piuttosto un luogo, poiché tutto intero è immobile. 2. Sicché il luogo è il limite immobile primo del contenente. Phys., 212a 5-15 - Aristotele, Fisica

Riscattare lo spazio e il gesto dalle possibili definizioni come quella di luogo o simbolo, dalla storicizzazione e regolazione geografica è ciò a cui tende il lavoro. Non tanto il luogo o uno spazio determinato, ma Lo Spazio percettivo, fluido, che sfugge alla metrica è ciò che mi interessa. Interpreto il “limite” descritto nella citazione aristotelica come un organo di divisione e circoscrizione e quindi di definizione, diversamente alla base del mio lavoro penso ci sia una percezione del “confine” come zona d’interferenza continua e mobile che si espande fino a costituire lo spazio stesso. Spazio in cui l’esistente è susseguirsi di coincidenze vettoriali e esserci è necessariamente essere di mezzo.

Marc Augé distingueva i luoghi come spazi relazionali identitari storici, mentre i non luoghi sono spazi di transito non identitari, cioè non ci si riconosce come parte degli stessi. Lui si riferiva a luoghi come le stazioni, gli aeroporti, costruiti con una finalità specifica per cui al suo interno un individuo può agire senza relazionarsi con gli altri, ma solo con il luogo in sé. Oggi con internet siamo arrivati ad uno stadio superiore di questa estraneità, ma allo stesso tempo sono nate forme diverse di socialità legate a luoghi virtuali e anche nuovi luoghi di memorie. Generalizzando potremmo dire che grazie alla rete l’uomo può scegliere di diventare immortale o,

Mi piace partire da qui, forse perché è una definizione assolutamente naïve scevra di tutte le costruzioni che si sono sovrapposte nel tempo. Luogo è una di quelle parole che nella lingua italiana vogliono dire troppe cose e quindi alla fine, volendo analizzare il termine in se stesso, si rischia di non dire nulla. Partendo dal dato di fatto che il tuo lavoro dice qualcosa, altrimenti non mi sarebbe interessato

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con reazione opposta, può sentire il bisogno di tornare a spazi ridotti, a luoghi autentici. Come ti posizioni all’interno di un ragionamento del genere?

Secondo te il luogo oggi ha limiti? Sentirsi parte di un luogo, geografico e culturale, è una risorsa per l’uomo o un modo per difendersi dagli altri luoghi?

Non esistono spazi di transito ed altri che non lo siano, il transito è una condizione costante e necessaria che prescinde dal movimento. Scelgo il corpo. Mi posiziono nel corpo, sia esso cemento, luce, il pixel di un’im-

Il senso di appartenenza a un luogo credo sia positivo e rassicurante, ma prevede memoria, e la memoria mi interessa molto di più dal punto di vista del suo superamento o della sua sospensione che della sua ripetizione. Ciò mi porta a ridurre il più possibile la narrazione cercando la visione come epifania, slegata temporalmente dalla meccanica causa-effetto. Per quanto riguarda l’idea di doversi “difendere da altri luoghi” mi chiedo se

Sezione conica - 2010

magine in continua deflagrazione. Necessito di spazio riabitabile dall’immaginario e dal corpo, che sia tale spazio materiale o immateriale non mi importa. Non lavoro per definire lo spazio ma per produrlo.

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Tracciando un cerchio - Drawing a circle - 2011 P.M. - 1 of 24 - 2011

“ci sono superfici a cui in senso metaforico si può aderire..“ “il piano torto è una leva che moltiplica all’infinito queste superfici...” “... un’anomalia proiettata sul piano diventa interessante dal punto di vista di che cosa è reale e cosa non lo è..” “..e se reale è l’ombra..” “..solitamente ci dimentichiamo che le costellazioni sono tridimensionali..“ “..immagino un suo percorso, che rispecchia la sua geometria...può camminare..scrivere“ “..volare“ “..ma alla fine potrebbe non importarci..chissà dove andiamo.“

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questi “luoghi aggressivi” non siano solo proiezioni utili alla gestione politica. Spesso un territorio è circoscritto in modo artificiale, talvolta divide la continuità culturale, talvolta la coniuga, ma difficilmente ha un senso che non sia in primis utilitaristico, economico e politico. Come Franco Farinelli (2006) ci ricorda “Paesaggio è un termine d’origine estetica, territorio invece di natura politica. Questo viene non da terra ma da terrore, come nel Codice Giustiniano si spiega”.

Dividi il tuo lavoro in quattro progetti, mi sembra opportuno affrontarlo dunque mantenendo questa suddivisione. Il progetto numero Uno affronta lo spazio come entità finita, misurata e quindi comodamente rappresentata secondo codici predefiniti. La tua ricerca, ambiziosa, è di togliere la rappresentazione e vedere che cosa succede, come con il gioco in cui sfili i mattoncini di legno che formano la torre e non devi farla cadere. Causi un dubbio che già in partenza non ha risposte. Come è nato l’interesse per una tematica così eterea? Qual è il punto di incontro tra leggi matematiche e fisiche, la vita reale e l’opera così come la vediamo?

Hai vissuto e lavorato a Berlino, che luogo è?

Tre persone parlano tra loro tentando di capire cosa sia un oggetto e a cosa serva. Il testo estratto da questa audio registrazione accompagna la serie di immagini Seno di un angolo, Tracciando un cerchio e Riflette 98 kg x 4m/s facenti tutti parte del progetto 1. L’esercizio di definizione logica di una forma, della sua funzione e del suo rapporto spaziale tramite la parola traccia un circuito aperto, accelera, disegna cerchi che si allargano fino a perdere completamente aderenza al tema. Ti racconto ciò per dirti che un’opera mi soddisfa quando pone una domanda a cui si può rispondere in infiniti modi e in nessun modo, allora inizio a sentirla reale. Per me l’opera stessa è proiezione che sfugge al senso della misura, al codice predefinito, è forma che sfugge alla sua verifica, oggetto della natura irriducibile a quantità.

Ci ho vissuto qualche anno, mi interessava respirare l’aria di una città costruita sulla distruzione, Berlino è una città intessuta di voragini, un buon posto dove potersi permettere di perdere tutto senza nostalgia, guadagnando spazio, uno spazio immenso. Poi ho scelto di vivere tra il continente europeo e un’isola, in una dimensione che mi permette di approfondire la percezione della distanza, la dilatazione immaginaria, un confine che diviene lo spazio stesso. Questo induce in me di volta in volta la sensazione che non esista più l’isola o la terra ferma, solo la fascia di mare, superficie riflettente e buia profondità, il resto è altrove.

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Al centro, vuoto - At the center, vacuum - 2011

più serrato e denso un’opera ,per soddisfarmi, dovrebbe includere una tensione erotica. La superficie della tenda di Crossing the field è come la superficie di un occhio fisso sul quale si riflette il paesaggio in movimento. Dunque entrare dentro un occhio per vedere cosa? Quello spazio brulicante e indefinito che sta dietro il naso, tra le orbite forse, uno spazio suggerito, immaginato e tanto più vasto e potente perché privo di limiti rappresentabili.

Se poi percepiamo lo spazio come eventuale, la sua rappresentazione diviene paradossale, producendo effetti interessanti.

Il progetto Due parla di confini. Quello che mi affascina del tuo lavoro è il confine tra ciò che puoi capire e ciò che è celato. Nel momento in cui guardo Crossing the field sono soggetta a diversi stimoli tutti determinati da limiti imposti: c’è una parte audio dipendente dall’amplificazione delle pareti della stanza, c’è un elemento video ridotto al tessuto della tenda, c’è una tenda in cui non posso entrare. Come se quello che lasci vedere allo spettatore sia sempre solo una parte del tutto.

Il progetto Tre è legato a installazioni site specific. Vi riconduci tre opere molto differenti: Al centro, vuoto realizzato sopra ad uno scavo archeologico romano, quindi in un luogo in cui in realtà il

Senza dubbio mi interessa la relazione tra ciò che sfugge e ciò che si mostra. Così come il vuoto abita anche il tessuto

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Al centro, vuoto - At the center, vacuum - 2011 nezia inseguendo il canto dei leoni marini o realizzi una discoteca di techno tibetana su uno scavo romano. Credo di aver percepito questi luoghi e la loro storia come una stratificazione costruita nel tentativo di autodefinirci o di difenderci dall’entropia e di aver giocato con la territorialità del suono innescando un’attenzione a livello percettivo proprio tramite la sovrapposizione e la sostituzione. Ora parlando di questi interventi mi viene in mente l’ambiguità di termini come purezza, appartenenza, origine e radici. Ma in conclusione posso dirti semplicemente che hanno una forte carica affettiva

pubblico non può accedere; Walk across invece è un video in cui la componente umana è preponderante ed estraniante; infine Habitat in cui il luogo è immobile e il tempo scorre. Come ti poni nel momento in cui devi posizionare un’opera? Mi spiego: il problema dell’allestire in un luogo l’opera e il ragionamento a monte dell’opera stessa sono un tutt’uno? Ho toccato luoghi prepotentemente storicizzati attraverso performance attuate per la sola telecamera, che diventano poi video autonomi o installazioni temporanee. Sono intuizioni realizzate senza mediazione concettuale, mi affido ad un’urgenza e agisco direttamente. Allora accade che io mi nasconda in un monumento all’olocausto e suoni un richiamo per merli, che faccia passeggiare una ragazza per Ve-

e ironica, rispondono all’impulso vitale, non abbiamo bisogno di commemorazioni, sensi di colpa e giustificazioni, ma di spazio da vivere.

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bile” nel tempo particolare dell’atto contemplativo che è passaggio, rapimento, epifania, lungi dall’essere anacronistico, alta forma di interazione. Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda, penso che come in una sorta di Cut Up la nostra storia dell’arte, come ogni storia, nasce da grandi esclusioni, intuizioni ed associazioni. Ciò che maggiormente mi appartiene è ciò che proprio non riesco ad escludere per via

Il progetto Quattro è ancora in corso e indica una riflessione sul rapporto tra luoghi architettonici reali e la loro rappresentazione, o meglio sul passaggio tra fittizio e reale nel momento in cui viene abitato. La tematica dei primi due video parte da elementi fondanti del linguaggio universale artistico: porta e finestra. Sono i luoghi in cui vedi oltre, simbolo di superamento e di ricerca. Qual è il tuo rapporto con l’arte come luogo storico? Come influenza il tuo percorso personale l’essere comunque parte di un insieme più grande?

del filo che accomuna questi punti nella mia sensibilità individuale: le porte regali di P. Florensky, il fondo d’oro e la riza delle icone russe, quadrato nero su sfondo bianco, Kiswa la copertura della Kaaba, l’arte islamica, l’arte cinetica e l’utilizzo della luce, vivente Roman Signer. Ad influire realmente nella crescita del lavoro ci sono poi le persone che insegnano senza porsi da insegnanti, incontri rari che ti aiutano a mantenere il lato

La corrente - 2008

Mi interessa la relazione, la geometria, più che il simbolismo. I lavori a cui ti riferisci sono i più datati del mio portfolio, rendono visibili elementi non visibili come le correnti di vento, tracciando geometrie architettoniche ed emotive. Penso contengano interrogativi sulla natura e la fragilità del tempo di una visita, l’incontro stesso tra il visitatore e l’opera. L’opera in quanto domanda aperta, “abita-

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Migrazione - Migration - 2008 selvaggio, a continuare a lavorare in modo autentico, libero dal desiderio di approvazione, abbandonando i temi per un livello d’azione altro.

“Tutto è scomparso. La superficie piana è nata, e vivrà come tutte le forme vive della natura senza scimmiottarne alcuna. Il quadrato è già, come un infante regale vivo, mentre voi, ancora pesci nella rete dell’orizzonte. Tutto è presente, poichè nel futuro i meli non fioriranno.” Cut-up da testi di Kazmir Malevich

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