TEMA n. 7

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TEMA numero 7

La quarta dimensione copertina: Anna Grimal


INDICE

Editoriale

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Paolo Cavinato

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Francesco Fonassi

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Gaia Fugazza

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Marzia Corinne Rossi

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EDITORIALE Lo spettatore sarà sempre coinvolto fisicamente e acusticamente, perché l’ascolto è ciò che conta e il suono è solo strumento di ricerca. Quanto tempo servirà per scavare a fondo nel suo mondo?

“Con la definizione di quarta dimensione in generale ci si riferisce ad una dimensione immediatamente successiva alle tre dimensioni dello spazio reale”. Così inizia la spiegazione su Wikipedia, ma forse a voi interessa di più sapere il perché nel settimo numero di TEMA magazine affrontiamo tale argomento, piuttosto che avere la conferma che, dopo la terza, vien la quarta.

Per un po’ di concretezza possiamo chiedere a Gaia Fugazza, ma non illudiamoci troppo, le sue opere sono fatte di movimento prima che di pittura e fotografia. Una ricerca stratificata, fisicità del pensiero, tentativi di controllo e insofferenza alle regole.

Ma permettetemi di fare un passo indietro e rinfrescarvi la memoria sul cammino percorso assieme: siamo partiti dalle nostre terre per viverle in quanto luoghi, poi abbiamo sondato il ‘noi’, l’essere umano come fusione di istinto e ragione. Siamo cresciuti assieme formando una società, ma non è guardando alla materia che si affondano radici solide. Così ecco che guardiamo all’oltre -al di là dell’uomo stesso e soprattutto verso il domani- ecco che ci immergiamo, per quanto possiamo, nella quarta dimensione. Quarta dimensione come tempo e spirito.

In fondo quali certezze possiamo mai avere? Marzia Corinne Rossi non ce ne lascia nessuna, i suoi pigmenti sono volubili e imprevedibili proprio come il tempo che passa, la nostra storia che cambia e l’assoluto che rimane inconoscibile se non si crede. Il nuovo numero di TEMA non è certo lieve, molti gli argomenti e gli spunti di riflessione, ma affrontati sempre con la curiosità e la semplicità che ci contraddistingue. Nell’augurarvi buona lettura vi ricordo di segnare in agenda che dal 18 al 22 ottobre si terrà ArtVerona. TEMA sarà presente con un suo spazio nella sezione Indipendents3.

Ad aprire le danze le geometrie e i labirinti di Paolo Cavinato. Caparbiamente insegue l’assoluto e lo cerca nelle possibilità umane di astrazione e riflessione, il lavoro artigianale si fa mantra in cui perdere ogni punto di riferimento. Francesco Fonassi, invece, sembrerebbe un uomo d’azione, ma è un inganno.

Sibilla Zandonini

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Windows - Corridoio - 2012 - Š The Flat, Massimo Carasi

PAOLO CAVINATO ( Mantova - 1975 )

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sulla rappresentazione dello spazio immaginativo, ed è uno spunto importante per riflettere che cosa può significare per noi uomini parlare di visione spaziale. Che cosa può significare per noi rappresentazione della realtà e realtà stessa. Quindi da qui i fondamenti per la ricostruzione prospettica, anamorfica, il rapporto tra bidimensione, tridimensione, movimento e annullamento della visione. Senz’altro l’opera rappresenta per me un tassello di un unico percorso. Quindi nel “fare” ci si accorge delle molteplicità, del ventaglio di possibilità. Ideando o realizzando un’opera non si sa mai esattamente dove si va a finire. L’opera

Annunciazione è l’opera che ti ha fatto vincere il terzo posto al Premio Fondazione Arnaldo Pomodoro del 2008, eppure mi sembra che quell’opera abbia un peso ben diverso, come fosse uno spartiacque nel tuo percorso lavorativo. Se come dici tu: la ricerca artistica è la stessa della vita, l’opera in questo percorso dove si posiziona? È strumento di ricerca o modo per fissare i piccoli risultati raggiunti?

Annunciazione - 2008

Se parliamo di spartiacque già CamerAptica (2006) significava un passaggio decisivo, un salto o un approfondimento nel mondo della visione. Così anche Annunciazione, realizzato due anni più tardi, prosegue lo studio

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Trasparenza e Teatrino tunnel - 2010 è costantemente messo alla prova, come gestisci il rapporto opera-spettatore e l’artista dove si colloca in questa relazione?

sembra essere a volte il processo stesso. E questo probabilmente è l’aspetto più eccitante, che avvicino alla ricerca scientifica. Ma qui non si hanno delle risposte definitive e certe ma solo altre domande, altri dubbi. Io, lavoro molto sulle suggestioni, sulle visioni, sulla relazione tra immaginazione e spazio reale.

Sì, credo sia un invito alla curiosità, ad esser sempre attenti alla consapevolezza del cercare e ricercare (e che l’apparenza inganna!). Negli “ambienti scomposti” realizzati negli ultimi anni, lo spazio si apre cercando un valico tra i frammenti sospesi. Mi interessa questa precarietà della visione. Come fosse un guardare o sbirciare attraverso un breve squarcio di tempo. È una volontà

Nella costruzione dei Teatrini ti diverti a creare mondi immaginari in cui lo spettatore può entrare solo da determinate finestre, in Annunciazione la visione dell’opera nella sua interezza è possibile solo da un determinato punto di vista indicato da un visore. Nelle opere più recenti l’utilizzo di materiali trasparenti rende la visione ambigua. Il tuo pubblico

a ritrovare un proprio sguardo, sceglierlo e deciderlo, al di fuori dei canoni precostituiti. Poi all’interno di questo squarcio avviene

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Teatrino sferico - 2010 qualcosa, un breve racconto o una visione simbolica. In CamerArtica vi era ricostruita la stanza dell’alchimista. In Annunciazione vi si trovava una scena quasi teatrale dell’Annunciazione in cui lo spettatore da una parte è Angelo annunciante, divino, dall’altra è semplice essere umano (la Vergine), quindi lo spettatore è parte integrante dell’opera. Diventa e partecipa all’opera. Senza lo sguardo della persona e quindi dell’essere umano l’opera non avrebbe senso. Ma questo è molto narrativo e simbolico... teatrale.

ludico e meraviglioso. Le ultime Windows (2012) sono disegni sospesi creati con fili trasparenti nello spazio. Sono puri eventi spaziali. Nella mostra milanese alla galleria The Flat, il mio tentativo è stato quello di far compenetrare lo spazio della galleria all’interno dell’opera e così pure lo spettatore: c’è chi osserva l’opera di fronte, dal punto di vista centrale, c’è pure chi attraversa lo spazio da dietro o attorno, ed inizia il gioco molto divertente e interessante perchè la realtà esterna si mescola proprio fisicamente nell’opera. Ma qui rispetto ai lavori prima citati (fatti tra il 2001 e il 2008), vi sono aspetti profondi legati alla psicologia e alla percezione dello spazio, alla ipnosi e

Mentre gli ultimi lavori si sono molto asciugati sia materialmente sia contenutisticamente o concettualmente. I teatrini erano libero gioco o sistema

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Windows - Behind the Curtains - 2012 - © The Flat, Massimo Carasi alla meditazione. Osservando da fermi il punto di vista centrale del disegno, per un tempo abbastanza lungo si ha la netta percezione di entrare nello spazio del disegno. Il grigio o bianco del fondo diventa vuota profondità e il disegno nero fatto su sottili fili tesi diviene tridimensionale, e tu, spettatore entri nell’opera, entri nella visione. Il luogo rappresentato è infatti un luogo di transito o di attesa. Si tratta di un’architettura matematica, in cui confluiscono simboli legati all’infinito o all’alchimia: sono visioni interiori oniriche? Non saprei, ma una volta realizzate mi metto dalla parte del pubblico e inizio un nuovo lavoro osservando. Perchè mentre si realizza un’opera di questo genere non

si sa mai esattamente dove si finirà. Sei dentro, troppo dentro, nella paura, o nella scioltezza, nella calma più dolce, in una sorta di concentarzione totale. Solo una volta “abbandonato” l’oggetto, inizio una fase nuova, diversa, di semplice osservatore riflessivo.

Solitamente la prima cosa che salta all’occhio vedendo per la prima volta i tuoi lavori è la componente geometrica/ simmetrica e il rimando alla armonia, alla purezza è immediato. Forse è uno degli aspetti che prediligo del tuo lavoro, questa facciata che inganna i superficiali. Prendiamo ad esempio i paesaggi ricreati in Alchimie (2005), sgarrupati e abbandonati, scuri, contorti, ma riconoscibili, molto umani nel loro

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Gocce - 2011

Alchimie - 2005


Noi esseri umani, viviamo in un ambiente ormai totalmente artificiale, se ci pensi. Ormai nessuno lo percepisce più perchè quasi nessuno lo ha presente o può ricordare cosa significhi stare in un ambiente totalmente naturale. Noi viviamo constantemente in luoghi ricostruiti da noi stessi, dove la natura, quel poco che c’è, è fortemente ingabbiata e addomesticata. Questa forte e particolare discrepanza tra i due mondi, naturale e artificiale, che

abbandono. In confronto al corridoio costruito in Cella (2011) etereo e lineare è molto più inquietante ed evocativo nella sua pulizia formale. È un po’ come se tu fossi passato da un approccio di pancia ad uno di testa e i lati oscuri della razionalità umana sono molto più ambigui e subdoli delle reazioni istintive... Sono due discorsi distinti che trovano molti collegamenti. Nella ricerca fin qui percorsa si situano

vivo, è uno stimolo sempre presente da cui scaturiscono domande, idee, pensieri. Ci sono molte cose che non riesco a spiegarmi, così come la simmetria e la ripetizione. Mi affascinano. Esistono in natura? Ci sono dei casi? Sì, il cristallo, o il cavolfiore, poi esistono le forme frattali, che sono davvero forme di un’intelligenza superiore. Il nostro volto è simmetrico, o quasi. Idealmente simmetrico. C’è qualcosa che non so spiegarmi, cioè la ripetizione è matematica, la simmetria è geometria e matematica. Lo scopo è sottolineare questo aspetto affascinante che vi trovo. La simmetria così ripetuta porta ad uno stadio diverso, ad un livello che scardina il senso dell’oggetto. In phantasma alcuni oggetti banali, volendo, come la sedia o il tavolo, prismi, cuscini, ecc... visti in una chiave così asettica, astratta, lineare e ordinata ricreano una situazione di sospensione tale che una sedia, un tavolo o i prismi non sono più tali, bensì

le prime Wunderkammer (1999 - 2006), molto “umorali” o viscerali, proseguendo più recentemente con le installazioni o sculture giocate sulla forme speculari, come phantasma (2009) o reflections (2010), e gli ultimi ambienti decisamente più asettici, vedi Windows (2012). Sono sentieri tortuosi che si intrecciano e qui c’è già tanto materiale su cui discorrere. Inizio col parlare dei miei viaggi fatti in solitaria, sulle Alpi, in zone quasi totalmente sconosciute, dove l’ambiente è del tutto naturale, quindi duro, aspro, difficile. Qui riesco a trovarmi in pieno contatto con la natura, anzi con qualcosa che va al di là. Non esiste uomo se non in sporadiche eccezioni ed è come se mi trovassi in diretto contatto con l’universo, con qualcosa che va al di là dei tempi umani, perchè mi trovo immerso in un ambiente che non è mai stato intaccato dall’uomo.

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diventano qualcosa d’altro, forse qualcosa di disumano. Le costruzioni umane sono legate ad un tempo ristretto e soggette alla continua mutevolezza. Noi lasciamo “tracce”. Ciò che mi interessava negli ambienti umorali delle prime wunderkammer era una sorta di “digestione” in cui il tempo divora tutto. O tutto è scolpito dal tempo. Quindi erano lavori ben diversi da quelli attuali, erano più legati ad un discorso melancolico del soffio che accarezza le cose: le piogge che entrano dai soffitti delle case, i quaderni di chimica aperti sul pavimento fradicio e le assi di legno imbevute formando un acquitrino. I letti sfatti e lerci, radici penzolanti, fantasmi di ombre come segni neri di camini spenti da anni. Tutte immagini di luoghi visti, fotografati, disegnati e costruiti anni fa. Sono ricordi malinconici di cose sgretolate da una natura insistente. Le metropoli che vivo invece oggi, sono “l’inferno labirintico”: pulito chiaro, moderno, tecnologico, in cui l’uomo si è perso dentro alla prospettiva infinita, è lontano, è sfocato, non comunica, nel silenzio, nel nulla, vuoto. Così, Cella, Maze, Labhirinth, Soglia, sono sculture e installazioni che ricalcano queste esperienze del non-luogo. Ma Soglia (2008) è ancora di più. Accedi all’interno di un corridoio asettico, bianco, e ti specchi. Vedi su questa superfice specchiante verticale, la tua faccia, il

tuo volto, il tuo corpo. Lo specchio non è specchio ma un velo particolare. Insomma, sei li che ti specchi su questa patina e ad un tratto la luce cambia, la tua immagine svanisce e al di là della superficie si intravvede un corridoio, poi si vede benissimo lo stesso corridoio continuare, come un varco aperto sul nulla, sul vuoto. Insomma il tuo corpo scompare lasciando uno spazio vuoto. Un passaggio oltre.

C’è poi un filone del tuo lavoro in cui la ricerca di un assoluto trova davvero spazio nella geometria come possibilità di rappresentazione dell’infinito. In opere come Rosone bianco (2010) o Cosmo (2009) si mescolano significati simbolici -il triangolo è lo spirituale e il quadrato è la materia- con la pratica di riflessione buddista del Mandala, ai frattali matematici. D’altronde se per i pitagorici i numeri erano l’essenza delle cose, già per Platone numeri e forme geometriche, avendo natura molteplice, non potevano appartenere al mondo delle idee. Così dalle tue opere emerge sempre l’imperfezione umana di chi tenta e si impegna di tirare la linea dritta, ma qualche sbavatura, seppur impercettibile, c’è sempre. Il tuo essere artigiano è legato a doppio filo alla ricerca spirituale? È il gesto a contenere ciò che va oltre l’estetica? (Per spiegarmi meglio: se il rosone fosse tagliato al laser sarebbe solo una bella forma vuota di significato?)

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Rosone Bianco - 2010 - Š The Flat, Massimo Carasi


passare all’opera successiva. Cosmo (2010, disegno fatto con semplici fili in sospensione) doveva inizialmente assumere le sembianze di una “coperta cosmica”. E il fatto di riuscire a custodire in uno spazio così ristretto, un’idea, una rappresentazione e perchè no, una porzione di Cosmo, di infinito, mi dava grande entusiasmo. Anche qui la base deriva da una sorta di calcolo matematico, su base di architettura sacra islamica, che in relatà si ricongiunge all’architettura romana. Mi piace l’idea che in fondo, che i popoli o le culture si siano da sempre toccati, scambiati, dialogati, nelle differenze.

Reflections - 2010 - Galleria Civica di Modena

Realizzare oggetti così complessi ed essenziali, perfetti ma imprecisi, implica una concentarzione altissima e il tempo di ideazione e costruzione è un percorso di meditazione continua. Il “fatto a mano” o artigianale è, soprattutto per me, un metodo per focalizzare un’energia. Ci sono molte cose che non so spiegarmi, come il fascino per l’arabesco. È un vero labirinto. È un perdersi per poi ritrovarsi, quindi fa parte dell’esperire, il vivere una situazione nel pieno, dalla testa ai piedi (come diceva A. Artaud: “camminare dalla testa ai piedi”). Realizzare l’opera, è un’esperienza totalizzante. Poi contemplarla e rifletterla significa aggiungere e togliere, aggungere e quindi

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andare al di là, oltre. Il “quadro” è stato per me il pretesto per parlare di stratificazioni, specularità, spazio finito e infinito. Il “quadro”, un limite da scavalcare. Nella mia ricerca focalizzo lo spazio e tutto ciò che riguarda lo spazio. Non a caso quando mi si chiede di realizzare un’installazione o l’allestimento di una mostra per un determinato contesto, la prima cosa che faccio è proprio lo studio in pianta dello spazio, tenendo conto delle altezze, delle fonti luminose, ecc... per poi indagare direttamente lo spazio, viverlo, capirlo, anche per il discorso sonoro, ecc... Sono fortemente attratto dallo spazio.

Nel 2010 hai realizzato Reflections, un’opera commissionata per la mostra Lo Spazio del Sacro alla galleria Civica di Modena. Il lavoro, forse per le sue dimensioni o per l’installazione, ha un rimando forte alle tue origini come scenografo teatrale, un rimando che va ben al di là del saper progettare e costruire ambienti scenici. Vedo piuttosto il riferimento al teatro come messa in scena, come palcoscenico su cui riallestire la nostra vita per cercare in questo modo di comprenderla. Non è forse l’arte un’azione teatrale in quest’ottica?

Phantasma - 2010 - © The Flat, Massimo Carasi

In realtà, le mie origini di pittore! Perchè la mia ricerca nasce proprio dalla superficie del quadro e del come poterla scavalcare,

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d’oggetti realizzati dall’uomo imbrigliati nei concetti e significati che l’uomo ha loro impresso. Sono oggetti “figli” di un’identità, dei significati legati alla funzione, imprigionati nella funzione. C’è un qualcosa che può andare al di là di questo? L’oggetto ha una sua voce? Esiste una barriera tra la rappresentazione e la realtà. Ma dove inizia la rappresentazione e dove questa cede il passo alla realtà? L’uomo manipola materia realizzando oggetti, condividendo con loro la propria quotidianità, difendendosi da qualcosa che sta oltre. Da una parte sta l’uomo e il suo mondo costruito: la società, la realtà tangibile. Dall’altra invece sta l’universo e l’assoluto infinito, l’insondabile, l’ignoto. Quindi conosciuto e non conosciuto messi uno di fronte all’altro. Allora gli oggetti non sono quello che apparentemente sembrano voler essere, sono solo apparenze. Rappresentazioni… in realtà sono “aperture”… vie di fuga, direzioni …oppure barriere. Lo specchio riflette la realtà così com’è capovolta, ma non c’è specchio, è un’illusione. Ciò che si specchia è reale. Ciò che invece non si specchia cos’è? L’uomo non si specchia, è uno spettro estraneo, appunto, un phantasma che può passare da una regione all’altra, da una dimensione all’altra.

In questo intendo la scenografia come qualcosa di riduttivo, che riguada semplicemente la decorazione (non a caso in francese il termine solitamente usato è “le décor”). Reflections, allestito a Modena, aveva una componente particolare dell’azione in cui lo spettatore era costretto ad attraversare l’opera e quindi assumeva un ruolo chiave importante, come entrare e uscire dall’installazione (così come dalla tela del quadro), con una semplice passeggiata. Lo trovo piuttosto ironico. Questo sì, è decisamente teatrale.

Un tema ricorrente è quello della soglia, la famosa cortina tra il mondo del tangibile e quello dell’immateriale. In Phantasma (2010) emerge prepotente questa dicotomia: le forme che realizzi sono riconoscibili, o meglio, ricordano forme riconoscibili. C’è sempre l’elemento concreto (così come nei teatrini ci sono muri e stanze) che però vai a svuotare del significato. Cosa succede agli oggetti se togli la presenza umana? Anche qui, come nell’argomentazione precedente, il fruitore entra nell’opera divenendone parte integrante e interagente. In Phantasma, gli oggetti leggeri realizzati di carta, sembrerebbero fissi, marmorei e invece appartengono all’”Immateriale”. Come fissare l’Immateriale? Ho pensato agli oggetti, alla miriade

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Ricerca interna - 2012 - © The Flat, Massimo Carasi di alzare il velo che ci divide dal mondo ideale. Il dubbio dell’esistenza stessa dell’assoluto non è contemplato?

Nelle opere più recenti presentate nella mostra Behind the Curtains, a partire dal titolo, il tema della cortina diventa quasi ossessivo: ci sono finestre, rilievi, proiezioni come se tu stessi correndo in tondo cercando in ogni stanza una via d’uscita. Diventa inquietante gioco di specchi la simmetria tra Behind the Curtains e Windows – Behind the Curtains (2012), spazio impalpabile quello della serie Windows, claustrofobico lo sfondo nero della serie Ricerca interna e sospeso il tempo dentro i Rilievi. Il lavoro nel suo insieme traccia i confini della tua stanza di meditazione dove, evidentemente, la percezione si perde in balia del tentativo

Questa installazione diventa un oggetto scorporato da se stesso. Gli oggetti non sono oggetti, in quanto perdono la loro funzione. Quindi ne sono una rappresentazione? Nemmeno. Non sono nulla. Diventano elementi di una figura astratta, incomprensibile. Fatta e disegnata, costruita in base a proporzioni, geometrie, calcoli matematici, spazi pieni e vuoti.

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dato un’impronta volta alla eterogeneità ea spaziare su più fronti. L’incontro con Trevisi è stato da subito molto concreto e tutt’ora lavoriamo sulle particelle sonore come fossero particelle spaziali. Elementi eterei che vanno via via a comporre un’atmosfera spaziale, che sia l’interno di una stanza ricostruita (vedi Soglia, 2008) o un piccolo oggetto (Teatrini). Lavoriamo in tempi dilatati mettendo in discussione di volta in volta ogni idea pensata e messa

Una stanza che però perde il senso e la dimensione della stanza. Una stanza che non è più nulla e che non ha più senso.

Hai inaugurato da poco alla Mario Mazzoli Galerie di Berlino la nuova mostra di Spazio Visivo, il tuo progetto assieme al compositore Stefano Trevisi, in cui alle tue sculture si intreccia la sua ricerca musicale e sperimentazione sonora. Come diventa possibile tale fusione? L’ascolto diventa parte fondamentale dell’opera; come interagisci con l’elemento temporale?

sul tavolo. È un processo che mi ha da sempre molto stimolato, questo della messa in discussione con altre personalità artistiche. La fruizione dell’opera finale avviene poi nell’idea di immersione nell’opera ed il sonoro ha proprio questa funzione di amplificare cio che noi vediamo. SpazioVisivo è spazio aptico, quando lo sguardo si amplifica grazie all’uso degli altri sensi. Lo sguardo si dilata e diviene, suono, tatto olfatto, ecc...

Spazio Visivo nasce nel 2006 dalla necessità di creare una sorta di laboratorio il cui centro fondamentale è lo spazio inteso in tutte le sue accezioni. L’idea di partenza è poter coinvolgere tutti i linguaggi con grande libertà. Spazio tridimensionale e quadrimensionale, legato al tempo e al suo divenire. Probabilmente questo punto si lega alla mia breve esperienza video fatta anni prima (tra il 1998 e 2004) in cui l’immagine in movimento, grazie al tempo impresso, acquista una sorta di vita musicale. Avevo già fatto esperienze con altri artisti, soprattutto compositori, ma anche registi e light-designers prima di iniziare la collaborazione con Stefano Trevisi e sicuramente l’esperienza nello spazio teatrale come fucina creativa mi aveva

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Spazio Visivo (Paolo Cavinato/Stefano Trevisi) - Trip - 2012 - dittico - Š Galerie Mario Mazzoli - Berlino


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Everest FM 100.1 - 2011

FRANCESCO FONASSI ( Brescia - 1986 )

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Il silenzio viene sempre agitato. Se lo dici non esiste più, com’era l’indovinello. Vietarlo e renderci consapevoli di quanto non sentiamo allude a questa forma di venerazione a priori verso il non dire: ci hanno insegnato a vedere ma non ad ascoltare, quindi ci obbligano a sottostare alle voglie di questo invisibile e rispettabile vicino di casa che è il silenzio. C’entra la cultura, ma ancora di più il costume. In effetti dovremmo essere stanchi di imputare questa censura a terzi e credo sia utile smettere di porsi domande. È una questione di soglie di percezione, di limiti non visibili a cui

Zabranjena Tišina (Forbidden silence) - 2010

Forse era scritta nel tuo nome, Fonassi, questa ossessione per il suono e per la sua assenza. Nella biblioteca civica di Belgrado hai installato un cartello con scritto Zabranjena Tišina (Forbidden silence – Vietato fare silenzio – 2010), il cortocircuito che crea una frase del genere in un luogo deputato al silenzio rimanda doppiamente ad un contesto politico, chi-impone-cosa, e ad uno culturale. La produzione culturale non dovrebbe mai essere silenziata, eppure la situazione italiana dello stato dell’arte mi sembra tale. È stato imposto il silenzio o ricercato?

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Everest FM 100.1 - 2011 regressione. Propulsione, retroazione, mi vengono in mente le macchine a molla che più arretrano più - una volta lasciate agire - sono veloci. Pur avendo il termine una connotazione politica tutt’altro che condivisibile, credo che il senso vero di questa idea stia nella sua accezione meccanica. Ascoltare è reagire, restituire, quello che faccio e che chiedo, indistintamente.

siamo costretti, di colline rase al suolo e di perdita dell’orientamento.

In una intervista di qualche anno fa dicevi che hai iniziato ad interessarti all’arte viaggiando e visitando mostre, ascoltando concerti, incontrando persone. La fonte d’ispirazione è dunque la vita nel suo essere esperienza e questo si ripercuote nelle tue opere che sono sempre esperienze, talvolta fatue, altre volte ripetibili. Più che porre domande allo spettatore tu richiedi reazioni...

A Torre Everest (Vicenza) hai forse realizzato l’opera che meglio racconta questa tua esigenza: per tre sabati hai installato una cabina di trasmissione

Il concetto di reazione è assurdo. Sembra che implichi l’agire una passività, o una

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Sembra sempre esserci un’estetica ben precisa nell’installare le opere e nella scelta dei luoghi. Che ruolo ha nella creazione dell’opera la ricerca dell’immagine giusta? La distinzione tra spazio della visione

radio in strada. Da lì venivano mandati in onda gli interventi sonori e vocali di 50 esecutori, senza selezione nè limiti di provenienza. Per ascoltare le esecuzioni si doveva salire sulla cima dell’edificio. Il pubblico in questo caso si trova ad essere performer dell’azione artistica in maniera fisica, ma non necessaria, ciò che conta è prestare ascolto, dedicarci attenzione. Hai creato così un canale di comunicazione limitato nella durata e nel raggio, ma potente nella possibilità di espressione di un microcosmo sociale. L’utilizzo della radio permette un suono senza volto, un’emissione la cui origine passa in secondo piano, solo ciò che è trasmesso attraverso l’aria ha importanza. È questo il potere del suono sull’immagine?

e spazio dell’ascolto persiste nel mio lavoro. È uno scarto che probabilmente andrà colmandosi, lo posso misurare. Mi è sempre venuto naturale sganciare i due aspetti e dislocarli nel tempo. Sto lavorando proprio in questi mesi ad un progetto che affronta indirettamente questo problema: un tentativo di utilizzare gli strumenti che ho affinato diciamo separatamente, attivandoli simultaneamente. Non è un caso che il rapporto tra voce, luogo e tempo ne sia ancora una volta il motivo.

Everest fm 100.1 è stato un banco di prova per scorgere la forma reale di una comunità all’ascolto. Insieme agli abitanti dell’edificio, al pubblico e agli esecutori ho verificato il potenziale insito nella trasmissione radio, tracciato e superato i confini aerei del limite di cui parlavo prima. Il potere del suono vive nella sospensione, e in quel luogo sospeso si fa catalizzatore di relazioni. L’altezza e l’orizzonte, i corpi immobili e attenti, lo spazio isolato della cabina di trasmissione: l’immagine non viene soffocata, non esiste una gerarchia e questo significa che non prediligo l’uno o l’altro senso. Il non vedere una voce o la percussione di un timpano è un’immagine a sua volta.

Questo scarto tra ascolto e visione diventa evidente in Temporale (2011) dove lo spettatore si trova in una stanza vuota in cui viene diffuso il suono che tu produci in un’ambiente sottostante attraverso il trascinamento di quaranta microfoni sul pavimento. Solo in un secondo momento si può scendere e visualizzare l’azione. Ancora una volta lo spettatore ha un ruolo performante all’interno dell’opera, quasi il tuo fosse un tentativo di risvegliare le capacità umane sfruttando un gioco percettivo destabilizzante. La chiave di volta possiamo identificarla nel tempo come misura della distanza?

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32 rpm (falèna) - 2012

Temporale - 2011


Destabilizzare è proprio far perdere di vista quella distanza, in modo da poterla ricostituire, privatamente. La stanza non è vuota, vi siamo immersi, e lo spazio o meglio la nostra unità di misura per decifrarlo, si modella. In questo lavoro il perpetuarsi della mia azione mi pone nella stessa condizione di chi vi assiste, quella di sondare e ritrarre la superficie sulla quale mi muovo. L’installazione e la struttura del lavoro sono allo stesso tempo agente scultoreo e ambiente performativo, per me e per chi lo attraversa subendone o resistendo alla sua estensione, alla sua durata.

Range, Self portrait as a sonic sentry e Silent acoustic monuments (2009) sono ambientati nei ‘sound mirrors’, strutture in cemento progettate – e mai utilizzate – per ascoltare il suono degli aeroplani e rilevare gli attacchi nemici. L’innaturale silenzio del video porta a buon fine il tentativo di indagare con l’immagine ciò che appartiene all’udito. Il monumento che mostri è doppiamente silenzioso, non è mai stato utilizzato al suo scopo. Monumento deriva dal latino, significa ricordo, un controsenso evidente in questo caso: se anche il suono fosse stato registrato dal cemento noi non possiamo saperlo, ciò che ci ricorda è un suono mai udito, dunque inesistente?

Three Minus, for three gunshots - 2012 - performed at CoCA, Torun, PL

Esistono teorie riguardo alla memoria acustica dei luoghi, su come i suoni che si rifrangono sulle superfici vi rimangano impressi, come dici registrati. La storia che hanno imparato queste strutture di cemento ci si presenta agli occhi, nonostante l’obsolescenza di questa tecnologia, e si manifesta attraverso il forte rapporto tra il mancato ascolto e la permanenza della materia che chiamiamo monumento. Quello che mi interessava di tutta questa storia era il suo movimento, la sua estensione: trovavo molto poetica la funzione quasi sacra dell’appostamento come tramite tra cielo e terra e il segno che ne subiscono - a ottant’anni di distanza - la costa inglese e il suo orizzonte.

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Per quanto a volte componi più lavori attorno ad una sola suggestione non sembra di trovarsi di fronte a serie tematiche. Per esempio Ir (2010) e Ir, system (2010). Nel primo usi lo sparo, atto violento, per sondare lo spazio (ricerca e ascolto dunque); nel secondo invece lo sparo zittisce il pubblico. È un’opera fortemente sociale, uno sparo ha sempre a che fare con la responsabilità di un uomo all’interno della società. Critichi più le mancanze umane che il sistema in cui vengono compiute. Aerial II - 2012 - performed at CoCA, Torun, PL

Trovo che la difesa e l’attacco compiano a conti fatti lo stesso movimento, prevedano entrambi il sondare e l’interrompere. L’interruzione, in Ir, si manifesta attraverso il colpo di pistola in una chiesa, in una piazza e in un museo, calcandone i vuoti secondo un test per la registrazione e la misurazione delle risposte acustiche di uno spazio. Mentre in Ir, system la misurazione in tempo reale dei livelli audio - brusio di fondo del pubblico - fa partire il colpo in modo meccanico e innesca la sua reiterazione, come una fotocopia di fotocopie che man mano perde in definizione. Quando manca un responsabile il sistema in cui l’atto viene compiuto perde definizione allo stesso modo e credo che sia importante rimarcare la responsabilità come una questione collettiva e quasi mai individuale. Di sociale direi che rimane il grido - il gesto animale violento che manifesta la sua presenza in un luogo - e

quella sensazione sul confine tra controllo e autocontrollo, che il lavoro suggerisce. Quando sentiamo quel colpo, siamo di fatto all’interno del campo d’azione, nell’azione. La durata del colpo è il tempo in cui ci è dato cogliere lo spazio nella sua totalità, mentre la successiva sottrazione del gesto (l’impulso, per il corretto svolgersi del test, si sottrae alla registrazione) lo lascia respirare.

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ambiente naturale. ‘In effetti, il mondo non è tutto, la terra non è l’universo e la fine del mondo non è un’esperienza ma, più esattamente, ciò che gli anglosassoni chiamano un test.’ È divertente questa considerazione un po’ estrema di Paul Virilio, a proposito dell’evento visivo per eccellenza, ossia la conquista dell’orizzonte aereo che si perpetua, del disastro circolare che contraddice l’aspettata e ostentata catastrofe. Dal testo che Daniela Zangrando ha scritto su questo lavoro emerge la figura del ‘non c’è niente all’orizzonte’. Eppure qualcosa di prepotente cresce e attraversa lo spazio dove ci troviamo e una o più voci

Torna più volte l’interesse per il test, il mettere alla prova. Aerial (2012), dove una, due e quattro voci emulano le sonorità di un atterraggio aereo, è un lavoro in tre parti in cui metti alla prova la capacità umana di ascolto e la conseguente comprensione della realtà circostante. È un approccio scientifico il tuo (per avanzare bisogna mettere alla prova ciò che si sa)?

Aerial - 2012

Il punto è di quale realtà circostante parliamo e di che tipo l’approccio scientifico. Prendo in prestito i termini dallo studio del mondo animale. Si tratta di isolare un ‘campione’ e di analizzarlo in laboratorio oppure di osservarne i comportamenti all’interno del suo

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Ir, system - 2010 umane emulano e allo stesso tempo si nascondono dietro a questo roboante e meccanico accadimento. Il test richiama alla mente qualcosa di pericoloso, il prepararsi ad affrontare o a superare un ostacolo, di apprenderne il canto. L’approccio scientifico c’è, ma solo per quello che riguarda il vero accadimento a cui si assiste - anche e soprattutto quando non è nulla di eccezionale - per capire come funziona l’esperienza in quanto tale. La fatica è poi capire quando ci si trova o meno nel laboratorio. La perdita di ‘colore storico’, come la definisce Daniela, l’impersonalità della voce, in Aerial, è la

condizione attraverso cui mi oriento.

Nel tuo portfolio hai inserito anche un testo scritto sempre da Daniela Zangrando per accompagnare un progetto mai andato in porto. Come mai tenere uno scritto relativo a qualcosa che il pubblico non vedrà? Un modo per enfatizzare la supremazia dell’idea sulle parole? Per un artista oggi ha ancora senso preoccuparsi del tempo inteso come storia? Cosa resterà delle tue opere nel futuro e cosa di ciò che rimarrà avrà valore?

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Self-portrait as a sonic sentry - 2009 La geografia di un’opera d’arte, è a questo che si riferisce il testo in questione. Era scritto per un progetto che avevo intenzione di realizzare in Messico, presso un’istituzione locale. La fase preliminare del lavoro consisteva in una ricerca secondo coordinate satellitari, corrispondenze, storie di storia messicana, rilievi geologici, misure di suoni di parole e i loro significati. Esisteva quindi una griglia di rappresentazione, un catalogo, come un modello che posto su una carta topografica potesse svelare qualcosa. Era necessaria per me, una volta in Messico, come bussola per riferirmi a qualcosa che ancora non conoscevo. In realtà poi un progetto c’era, ma non è questo il punto, o non era quello il punto, la sua località. Sempre Virilio parla di un’arte ‘intemporanea’, la cui prospettiva non è più temporale storica - ma atemporale e geografica, in mancanza di una prospettiva di tempo, di una prospettiva storica. Per lui questa arte intemporanea, non senza remore, è

qualcosa di impermanente. Mi interessa molto questa geografia - che non è solo data da un luogo specifico - nel modo in cui si costruisce un’idea e da come questa si possa depositare nei singoli elementi che la costituiscono. Nel modo in cui le cose cadono.

Il suono è centrale in tutta la tua produzione, ma non si tratta di musica. Cosa cerchi dentro al suono, oltre ad esso? La musica è un punto di arrivo o di partenza? Mentre scrivo sto guardando i secondi che mancano, 19764038582, al termine di ‘Organ2/ASLSP’, versione di ‘As slow as possible’ di John Cage che si sta svolgendo dal 5 settembre 2001 nella chiesa di St. Burchardi, a Halberstadt in Germania. È una composizione che, al termine di questa versione, sarà durata 639 anni, in relazione al termine della costruzione del primo organo moderno,

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Untitled (potential) - 2010

nella suddetta cattedrale che avvenne nel 1361 ad opera del protestante Nicolaus Faber. Mentre i secondi scorrono, ascoltando la triade che si protrarrà ancora per quasi un anno, si perde importanza per qualsiasi punto di arrivo o di partenza. Non ci interessa nel momento in cui siamo presenti. Ecco la misura come corpo del tempo, una perdita che occupa spazio di tempo. La verità è che avrei sempre voluto essere un musicista.

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Sans Ciel - 2012

GAIA( Milano FUGAZZA - 1985 )

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irregolari. L’ambigità nella distinzione delle due parole è legata alle qualità fisiche delle stesse e alla posizione geografica dello spettatore nello spazio espositivo oltre che alla sua propensione all’identificazione di uno o dell’altro significato. Una sorta di Lovecraft vs. Borges.

Il tuo percorso artistico parte dalla pittura, ma ti piace sperimentare. Hai girato il mondo ed esposto spesso in realtà indipendenti, ma la tua arte non è schierata. Sai giocare con le ambiguità, le tue opere sono spesso inafferrabili. Fai partire il tuo portfolio da Empty-empathy (2007), è stato un lavoro che ha segnato una svolta nella tua ricerca? Nell’opera un gioco di registrazioni trasmesse simultaneamente induce lo spettatore a non poter afferrare a pieno il messaggio: empty o empathy? Vuoto o empatia? Questo tuo mettere sempre lo spettatore in una situazione non chiara, senza punti fermi, è determinata dalla tua volontà o rappresenta l’inevitabilità nell’arte di non avere risposte?

Utilizzi molta fotografia, ma il tuo sguardo fotografico non è quello di chi vuole rappresentare qualcosa che già esiste, è come se attraverso la fotografia tu dessi corpo alla distanza (Untitled – Cavo, 2010) oppure diventa terza dimensione su superficie piana (Sarrasine, 2009). La fotografia è materia come può essere la tempera per il pittore?

Nell’opera Empthy-empathy la parola è utilizzata a diversi livelli, come puro suono, come significato e come provenienza geografica. Infatti le parole “empty” e “empathy” sono pronunciate in modo distinto e ad un volume in cui è possibile sentirle bene. I due suoni sono riprodotti contemporaneamente e a intervalli

In dei lavori come LAX o Sarrasine il momento dello scatto è funzionale a un’idea di stampa successiva che è molto

Empty Empathy - 2007

azzardata e manuale. Ci sono dei motivi esterni ad una certa immagine per cui si ritorna a guardarla. In La Jetee Chris Marker, fa notare come le immagini che

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Sarrasine - 2009

Modernist house with swimming pool and hills - 2009 poi diventeranno ricordi importanti sono momenti indistinguibili dagli altri quando avvengono. Il motivo per cui diventano immagini marcanti è probabilmente una relazione esterna ad esse, una distanza. Sarrasine ha un precendente in un altro lavoro Modernist house with swimming pool and hills nel quale avevo realizzato il disegno di un luogo estraneo, l’immagine vaga di una casa in stile modernista, con in primo piano una piscina e sullo sfondo un paesaggio di colline urbane. Avevo realizzato dei fotomontaggi composti dai materiali principali che costituivano l’immagine. Il processo mi aveva ricordato l’inizio di Sarrassine, un

racconto di Balzac, in cui nelle prime righe, il protagonista riflette sulla sua posizione: “Mi trovo in una situazione molto conveniente, sono fra una finestra da cui vedo un bosco di notte, e una tenda pesante che mi lascia percepire i suoni della festa alle mie spalle, ma mi impedisce di essere visto”. Nei fotomontaggi Modernist House... e Sarrasine c’è una esatta costruzione dello spazio in rapporto all’osservatore, le superfici sono concepite per riempire delle aree geometriche organizzate a priori, un’idea che poi si ritrova nei miei lavori pittorici più recenti come Angoli esterni.

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vedute della mostra “Quando si parte� - 2010 - Assab One, Milano


sulle dimensioni, sui dati che il mio corpo sostiene. Che poi, è un corpo del tutto simile a quello dello spettatore che percepirà l’opera.

L’approccio poi è sempre molto fisico e l’atto è sempre manifesto: in Flat Land (2010) emerge lo sforzo fatto per nuotare e fotografare assieme, poi hai sviluppato a mano le immagini. Coinvolgi sempre testa e corpo assieme, in che momento subentra, se c’è, l’interesse al lato estetico/visivo? È un processo unitario quello che porta alla creazione di un’opera?

Flat Land e Viadotto sono le opere che hai portato all’interno di una mostra collettiva che hai curato presso Assab One di Milano. “Quando si parte” è un progetto curatoriale in senso classico, nel titolo giochi con l’accezione di quando, inteso sia come tempo che come motivo, possibilità. E torna ancora questo “muoversi”, quasi un’ossessione intorno all’idea di viaggio, di moto perpetuo. Quando hai capito che volevi occuparti anche di lavori altrui? La curatela ti permette anche una fuga dal tuo lavoro?

Mi interessa l’idea che ogni luogo e ogni momento dettano un’azione specifica. Mi domando che grado di attenzione o comprensione del corpo e dell’ambiente, necessitiamo per identificarla. Il primo lavoro che presentai a Brera nel corso di Alberto Garutti era un video in cui camminavo lungo un marciapiede. L’audio era composto da un flusso di discussione mentale molto banale. Poi inciampavo leggermente e tutto si zittiva. Il dover recuperare l’equilibrio richiedeva il raggiungimento di uno stato di coscienza sul mio corpo e sull’ambiente totale, e nel video si percepisce il mio sforzo di tornare presente. Qualche tempo dopo aver girato il video, ho scoperto delle cadute molto più belle della mia, realizzate da Bas Jan Ader negli anni ‘70, un artista

Le miei prime esperienze di esposizione hanno corrisposto a delle esperienze di curatela. Prima ancora di finire il triennio di Brera, sono stata in residenza per tre mesi a La Générale en Manufacture a Parigi e successivamente sono entrata a fare parte del collettivo di artisti che la gestivano. La Générale era organizzata in un modo completamente a-gerachico e orizzontale. Ognuno di noi era resposabile per una certa proporzione di spazio e allo stesso tempo dell’insieme. In quella situazione il modo che mi è apparso più naturale per operare era quello di organizzare io stessa le mostre che avei voluto vedere. Nel caso di “Quando si Parte”, gli stimoli sono arrivati dal mio lavoro che in quel

che scomparve in mare mentre cercava di attraversare l’Atlantico su una piccola barca a vela. La fisicità, e con essa la manualità necessaria per produrre i lavori, sono due componenti essenziali del mio lavoro: attraverso di esse mi informo sui tempi,

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La Générale en Manufacture. Come è nata questa mostra? È forse l’unico caso in cui ti occupi, seppur lateralmente, di un argomento come quello economico che oggi è diventato centrale anche nell’arte. Che rapporto hai col mercato (o meglio col fatto che arte e denaro sono sempre legati)?

momento orbitava intorno ai temi della distanza e delle origini delle forme nel paesaggio. Nel 2009/10 ho seguito un master di ricerca in geografia all’Ecole d’Haute Etude en Science Sociales. Volevo cercare di estendere la ricerca sul paesaggio al di fuori del campo della storia dell’arte per definire una sorta di storia dell’immaginario e dello spazio geografico in senso molto più esteso. Un progetto folle. Infatti dopo otto mesi di ricerca in archivi, biblioteche etc. decisi che non avrei scritto una tesi, ma fatto una mostra che includesse anche le opere di altri artisti. Questa tematica era nell’air du temps, come testimonia la Biennale di Berlino del 2010. Con “Quando si parte” avevo cercato pero’ di allontanare l’idea di una discendenza diretta di un artista dal contesto geo-politico del suo paese di origine, per concentrarmi sulla questione del “fare distanza”, sulla nostalgia e sulle forme della lontanza. Cito di nuovo Chris Marker, che apre il suo libro “Commentaires”, con «La distanza fra i paesi ripara in un certo modo alla troppo grande vicinanza dei tempi», a sua volta una citazione di Racine dalla seconda introduzione di Bejazet.

Nell’inverno del 2009, La Générale aveva accumultato bollette elettriche per qualche migliaio di euro. In una riunione in cui discutevamo del problema e immaginavamo delle possibilità per rimborsarle, le richieste si erano inizialmente rivolte ai “musicisti” perché organizzassero un concerto così da fare qualche profitto con la vendita di biglietti e bevande. Un’idea assurda perchè a La Générale eravamo all’ 80% artisti “visivi”. Ora non mi ricordo più di chi fosse stata l’idea de La Vente, probabimente di Olivier Nourrisson (l’artista che ha perfomato nella veste di battittore, io facevo il notaio). Fu una vendita all’asta, ma soprattutto fu una performance. Dal punto di vista economico è stato un esperimento interessante, perchè alcuni degli artisti volevano che le opere fossero un dono, altri volevano la metà del profitto, altri solo recuperare i costi di produzione. Io ero dell’opinione che ognuno dovesse gestire l’economia delle sue opere come preferiva e avevo comunicato a tutti che fossero loro a riferire a me in segreto cosa preferivano. L’idea è piaciuta a quasi

Sempre parlando della tua esperienza di curatela, e in questo senso prima definivo classica la mostra a Assab One, La Vente è qualcosa di assolutamente fuori dagli schemi: un’asta per finanziare

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Bruneau. Molte persone che lavorano nell’arte sono molto spaventate dall’idea di un’economia della stessa. Penso che come in tutti i sistemi esitono forme di speculazione molto dannose ma non credo che questo debba far pensare che non ci possano essere delle strutture artistiche valide ed economicamente indipendenti. Non sto dicendo che abbraccio lo status quo, per anni ho vissuto in condizioni economiche precarie, sfruttavo i buchi del sistema: occupando spazi abbandonati, recuperando tutto, barattando...Però penso che ci voglia molta conoscenza,

La Vente - 2009 - La Générale en Manufacture, Sèvres

tutti, ma alcuni mi hanno scritto delle mail molto preoccupate e aggressive, perché lo vedevano come un tradimento all’idea di una donazione disinteressata.Io volevo solo evitare di fare una vendita di opere minori. Speravo che ci fossero delle opere di ogni tipo, anche del tipo che richiede uno sforzo importante di produzione. A La Vente vendemmo 105 opere in un pomeriggio, i prezzi restarono molto bassi, ma il debito fu pagato e il pubblico, che era composto principalmente da artisti poveri, potè collezionare dei bei lavori. Io comprai un vinile inciso da Erik Minkkinen che era stato dipinto ad olio da Bejamin

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fantasia e capacità di comprensione per modificare il sistema dall’interno e l’idea di economia zero è spesso lenta e legata a forme di parassitismo e staticità. Sinceramente, mi interessa poco che l’attività generi dei profitti: io voglio veder nascere delle azioni che producano intelligenza e bellezza e spesso, ma non sempre, questo necessita delle spese.

In Lax (2008-2011) torna il discorso temporale, si tratta di fotografie notturne di aerei che atterrano all’areoporto di Los Angeles, nella pellicola si è impressa un’immagine quasi invisibile forse. Il tempo dell’attesa è inciso nella pellicola e gli ingrandimenti sortiscono un effetto meraviglia che ci riporta bambini. Come hai gestito il rapporto tra tempo e casualità degli accadimenti, in questo caso degli atterraggi?

LAX - 2008/2011

Questo lavoro esiste in due formati: un provino a contatto realizzato esponendo la totalità della pellicola e degli ingrandimenti di porzioni di cinque negativi conitigui di questa che è poi il limite massimo nella lunghezza del negativo che posso ingrandire manualmente inserendo una pellicola 24x36mm in un ingranditore per negativi in grande formato (60x90mm e più). Il rapporto fra il tempo e la casualità degli atterraggi dipendeva dal movimento del mio corpo. LAX è un lavoro in cui i limiti fisici miei e della pellicola dettano

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Three Times Inn - 2011 la dimensione spaziale. Il tempo degli atterraggi è una condensazione della distanza fra l’attesa e l’istante in cui succede qualcosa che è presente solo se si riesce a piegarsi alla sua velocità.

gioco degli specchi che ruotano e degli intonaci riflessi è disorientante e i rimandi possibili tanti: la terra tonda che gira su se stessa, l’eterno ritorno della storia... Non molto tempo fa mio marito mi ha intrattenuta in una lunga conversazione inquisitoria, in cui cercava di dimostrarmi che io non credo che l’organizzazione del tempo o meglio, che non credo la scansione stessa del tempo sia un progresso dell’uomo. In effetti ho dovuto dargli ragione. Fra le “interviste impossibili”, ce n’è una divertentissima scritta da Giorgio Manganelli, in cui Carmelo Bene impersona Nostradamus

Outside star (2011) è stata realizzata per “Turno 14/22”, esposizione curata dal collettivo Alterarti, svoltasi nel tempo di una giornata lavorativa canonica. Il tuo lavoro si inserisce perfettamente tra le mura della Cascina in cui era ospitata la mostra: cinque specchi tondi sospesi al soffitto sul cui retro hai incollato l’intonaco rimosso dalle pareti della casa. Ancora una volta l’instabilità fa da padrona, il

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Outside star - 2011 - Cascina Cuccagna, Milano


e, nei primi lunghi minuti di intervista, intervistatore e intervistato cercano di sintonizzarsi sullo stesso tempo. Out-side Star contrappone tre diverse forme temporali: il tempo sempre contemporaneo alla superficie degli specchi, quello fisso, sezionato dagli intonaci strappati da dei muri già vecchi, e una proposta ideale ma possibile di allineamento temporale e spaziale. Le incisioni corrose nell’argento degli specchi, descrivono infatti il percorso dei riflessi nella posizione in cui tutti e cinque gli specchi sono contemporaneamente rivolti verso l’interno. Cioè il momento in cui in ciascuno di essi sono riflessi gli altri, una situazione che esiste, ma che è talmente improbabile, visto il moto continuo di questi, da sembrare utopica.

non necessariamente negato, o criticato, ma considerato come parte stessa del soggetto dell’opera. In Angoli Esterni e Angoli Interni, il dispositivo espositivo su cui i dipinti vengono appesi era all’origine dell’opera, lo ha seguito la disposizione spaziale delle aree da dipingere (le tavolette di legno) e per finire è venuto il soggetto dipinto. Questi lavori sono nati a New York e sono stati influenzati da un’architettura urbana rigidamente definita da strutture verticali e angoli retti.

Sans Ciel (2009) e Angolo Esterno, Angolo Interno (2012) sono opere in qualche modo legate: in entrambe effettui un tentativo di controllo della visione. Nella prima escludi il cielo dalla tua vista in una maniera forzata e reiterata, nelle seconde invece dipingi porzioni di cielo su tavolette di legno, installate poi come fossero pareti di una casa immaginaria. Che significato dai al vedere? E allo spazio?

In Three Times Inn (2011) il gesto pittorico è solo apparentemente istintivo. La necessità di rendere installativa anche la pittura nasce dalla necessità di superare il limite della cornice?

Le 18 tele che compogno Sans Ciel, sono immagini ispirate ad una valle disabitata di alta montagna, in cui la mancanza dell’impronta umana rende più difficile la comprensione della distanza. L’immagine mentale con cui riconosciamo l’insieme di oggetti, forme e colori in cui ci è dato uno spazio corrisponde ad una successione di dettagli ognuno dei quali è simile a uno scatto realizzato con un obiettivo 50 mm. Passando da un dettaglio all’altro, lo sguardo deve rimettere a

Le cornici sono spesso rettangolari, forse questo deriva dalla forma dei muri e delle finestre. Poi vengono i fogli pretagliati, anche quelli rettangolari, le pellicole e gli schermi. Tutti supporti e media che ci hanno abituato a organizzare le nostre immagini in queste forme standard. Nei miei ultimi dipinti il fattore del supporto viene sistematicamente problematizzato,

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fuoco, modificare le proporzioni per fare esperienza del paesaggio da un punto di vista diversamente vicino. In questi mesi mi è capitato di vedere, in una mostra alla Royal Accademy, i fotomontaggi di David Hockney degli anni ‘70 e lì ho riscontrato un’indagine simile nei risultati. La volontaria esclusione dei frammenti di cielo è funzionale al fatto di non bloccare l’occhio nel posizionamento di un alto e di un basso e di un primo piano e sfondo. Il ritratto d’insieme a cui aspiravo non era quello di un paesaggio, ma quello del movimento dello sguardo su di esso. Continuando il discorso cominciato nelle domanda precendente, anche in Sans Ciel, il supporto è esasperato. Le immagini di base erano centinaia di scatti fotografici digitali, organizzati e selezionati al computer in un ritmo successivo molto veloce, quasi un montaggio video. Il formato delle tele corrisponde proporzionalmente a quello delle fotografie rettangolari. I dipinti sono stati però realizzati tutti contemporaneamente: procedendo per colori simili e scivolando sulle diagonali interne dei dipinti fuori dai margini del telaio.

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Angolo Esterno - 2012


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Untitled 24 (black column) - 2012 - Š David Dale Gallery & Studios - foto Max Slaven

MARZIA CORINNE ROSSI ( Milano - 1984 )

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La non titolabilità è relativa la natura dei lavori. Non c’è la volontà specifica di inaridire i

Ogni opera è la somma di azioni seriali che svolgo nel mio studio o all’interno degli spazi espositivi, i numeri possono diventare codici traduttori di una gestualità reiterata che però non è mai la stessa. Lo spettatore ha ruolo attivo nel momento in cui osserva, si manifesta. Ciò accade quando registra la propria fisicità sulla superficie dell’opera, calpestandola, alterandola, diventando

meccanismi interpretativi, è piuttosto una pratica d’adattamento alle esigenze che la ricerca impone.

parte di quelle particolari contingenze esterne che ne influenzano la struttura; quando interpone una timorosa distanza

Untitled 23 (column) - detail - 2012

I tuoi lavori non hanno mai titoli, solo la numerazione crescente distingue i vari Untitled. Rarissime le interviste o i testi critici, qualsiasi informazione che vada oltre a ciò che si vede dell’opera è superflua? Lo spettatore diventa un elemento attivo per permettere la finalizzazione dell’opera?

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di opere in carne e ossa. Esistono residui, incrostazioni che testimoniano la precedente presenza di lavori, quasi facessero già parte di una dimensione passata. È il fine di una ricerca che non insegue formalizzazioni definite, ma opere di durata limitata sensibili al mutamento, in cui l’esaurimento di quella “magia” generatrice è intrinseco alla propria origine. Sono interessata alla ricerca di forme che vivono una condizione umana, suscettibili ad una fine. La fine, però, può trasformarsi anche in un inizio e allora il processo si ripeterebbe in senso contrario. Potrei aggiungere: “Qualcosa comincia per finire […] La fine è lì, invisibile e presente, ed è essa che dà a queste poche parole l’enfasi e il valore d’un inizio […]” ¹

tra sé e l’opera nel rispetto dell’instabilità che la caratterizza. Questo recinto invisibile può restare inviolato nel momento in cui lo spettatore osserva l’opera dall’esterno come fosse, figurativamente, uno scenario; può essere valicato nel momento in cui egli partecipa entrando a far parte del paesaggio dell’opera. Trovo interessante questa differenza d’approccio in relazione al comportamento di chi osserva. Per esperire l’opera vera e propria, però, è necessario essere presenti in quel raro momento di rallentamento, quando essa comincia a respirare sulle superfici dello spazio espositivo. Qui e ora, finché vive autonomamente.

La maggior parte delle tue opere è site specific e sparisce una volta finita la mostra/evento. Ne rimangono le fotografie, l’opera continua a vivere in esse? Oppure sono solo testimonianza?

Osservando la natura così effimera dei tuoi lavori non posso non chiedermi cosa succede nel caso in cui vengano acquistati da un collezionista. Dai istruzioni precise per cui l’acquirente può riallestirla a piacimento, come faceva Sol LeWitt?

Le fotografie testimoniano l’esistenza di “strutture fantasma” che scompaiono alla fine di ogni mostra. Esse non si trasformano in opera, restano traccia documentativa di ciò che accade all’interno dello spazio in un determinato frammento temporale, estrapolato e restituito in forma digitale. Anche lo studio in cui lavoro è privo

Si tratta di lavori che vivono in e per il luogo in cui nascono e si esauriscono. 1. Jean Paul Sartre, La nausée, a cura di Bruno Fonzi, Giulio Einaudi Editore, Torino 1974, p. 57-60

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la ricezione di quel particolare momento in cui l’opera rallenta, rivelandosi. Questa “incontrollabile mutevolezza” deriva da un meccanismo di ricerca potenzialmente infinito che si traduce verosimilmente in un inseguimento. Vado ricercando quel “punto d’oro”² , quella rara sfocatura per trattenerla il più a lungo possibile anche se questo non sempre accade: alcune opere restano inconcluse, come l’eco di un’attesa mai sedata che riprende ossessivamente dinnanzi alla crudezza delle superfici. L’immediatezza di questo processo esclude le briglie progettuali. Lontana da possibili ripensamenti e rielaborazioni senza fine, apro un confronto diretto con la materia esplosa che, come le ceneri di un vulcano, si distende sulla “crosta” dello spazio espositivo.

Lo spazio influisce sulla loro connotazione formale, tuttavia la libertà delle dimensioni quasi mai definite ne asseconda l’adattamento mutando in base al luogo ospitante. È materia volatile, è vero, ma la “pelle granulare” d’ogni opera si rivela composta di “gesti” irripetibili. Ogni lavoro è un concentrato di azioni che godono di un’empatia creatrice nell’attimo in cui prendono vita. Le superfici sono ricchi disegni che svelano l’impronta di un’autorialità, nonostante quest’ultima sia spinta ad un progressivo allontanamento poiché l’opera una volta data in pasto allo spazio vive autonomamente della propria forza. Si tratta di creare le condizioni perfette perchè scatti quella scintilla. Un processo che difficilmente può essere riprodotto secondo indicazioni specifiche. Anche per questo motivo escluderei la possibilità di un allestimento secondo istruzioni.

Parli di lasciar spazio all’azione nel processo di formazione dell’opera, ma in quell’azione ci sei tu nella tua interezza oppure cerchi la purezza del gesto cancellandoti?

Il tempo è il vero custode del tuo lavoro che non resterà mai tale, plasmandosi in relazione a ciò che vi accade attorno. È forse questa mutevolezza incontrollabile che ricerchi?

Una volta innescato il processo, la posizione d’autrice tende a distanziarsi. Il corpo è un’estensione, uno strumento attraverso cui ogni lavoro si costituisce ed

Sì. L’opera reagisce ad uno stimolo iniziale che si manifesta ancora prima dello sviluppo di un pensiero definito. È un impulso che si concretizza attraverso

2. Jean Paul Sartre, La nausée, a cura di Bruno Fonzi, Giulio Einaudi Editore, Torino 1974, p. 57

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utilità e diventano pura forma e colore, il perfetto equilibrio tra le parti permette di avere o meno un’opera con una sua forza espressiva. Sono opere molto rischiose. Com’è nata questa necessità di andare oltre la materia?

ogni gesto si rende possibile, tuttavia l’ultima parola resta sempre all’opera. Preferisco pensare al mio ruolo come ponte, un medium che asseconda una reazione suggerita dallo spazio e dai materiali.

I lavori del 2010 sono stati precursori, anticipando alcuni degli aspetti che si sono manifestati in seguito, in cui prevale l’uso quasi esclusivo del pigmento. La residenza Triangle France, è stata un’ottima opportunità per approfondire quest’aspetto della ricerca. Penso alle opere da Untitled 9 a Untitled 16.

Untitled 1 - 2010

La tua ricerca è diventata via via più radicale focalizzandosi sull’utilizzo dei pigmenti colorati. Inizialmente l’approccio era diverso: in Untitled 1 e Untitled 2, per esempio, utilizzi il pavimento come fosse una tela, posizionando oggetti e pigmento come pennellate di un quadro astratto. Gli oggetti (spesso frammenti di un qualcosa riconoscibile) sono estrusi dalla loro

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Untitled 8 - 2010 Marsiglia si è rivelata lo spazio perfetto in cui far esplodere queste tensioni. E’ una città che cela il suo fascino nelle contraddizioni, dove tutto è immerso in una quiete artificiale pronta a essere interrotta in ogni istante. In quell’atmosfera densa, quasi pulviscolare, i cromatismi vividi contrastano il suolo della città che, con la sua putrescente differenziazione, incastona merde di cane, sabbia, detriti, pezzi di oggetti in disuso e residui di gessetti colorati. È come stare in un museo che ancora vive, a cielo aperto. Tutti questi aspetti hanno ispirato il mutamento, provocando l’evoluzione della

materia oggettuale in materia cromatica. Per quanto astraessi gli oggetti sul pavimento, essi trattenevano ancora troppe informazioni per poter esistere in qualità di elementi pittorici senza cadere nel meccanismo del ready-made. Mancava ancora un passaggio. Allora è stato come rompere quei gusci incoraggiandoli a tradursi in polvere, in colore. Quegli oggetti sono ancora presenti nei lavori attuali, cambia soltanto la loro sostanza. Si disperdono nello spazio ma sono ancora i frammenti di un’unica composizione.

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Untitled 15 (Giotto’s explosion) - 2011 - © l’artista in co-produzione con Triangle France Tutto nasce nelle stesse circostanze di quel dripping casuale di potenza inaspettata. Mi appresto a ricreare le condizioni affinché ciò non avvenga una volta sola, ma ripetutamente. L’opera infatti non è soltanto la combinazione dei materiali che la impreziosiscono ma è, ancora prima, quell’apparato che si manifesta in segreto prima di trasformarsi in qualcosa di visibile. L’azione quindi sfiora entrambi gli aspetti: è forza generatrice e allo stesso tempo parte fondante del “risultato” formale.

Fino ad Untitled 8 prediligi questa unione tra fisicità degli oggetti e pigmento, poi inizi ad utilizzarlo in purezza, il pavimento è sempre la tela e il colore puro è strisciato sulla superficie con movimenti circolari, quasi violenti. La componente del gesto è la traccia fondamentale della presenza dell’artista, come Pollock con la pittura, fai si che l’azione prenda il sopravvento sul risultato? Credo che il punto sia proprio questo. Quando comincio a lavorare nello spazio non mi appresto ad attendere alcun risultato. Ciò che si vede non è altro che il sedimento di quell’attimo circoscritto dalle materie che danno corpo a questa tensione.

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Untitled 20 - 2012 - MARS Milan Artist Run Space

Untitled 11 (green) - 2011 - CARS Cusio Artist Residency Space con Marta Pierobon


In residenza a CARS hai realizzato un lavoro assieme a Marta Pierobon in cui la sua scultura amorfa è colorata dai tuoi pigmenti. Il tema su cui verteva la residenza era il viaggio, quando avete capito di voler lavorare assieme? Il confronto con gli altri è il vero viaggio?

Preponderante il blu, sempre presente, e poi gli ori e le sfumature metalliche, la scelta della palette colori come avviene? Escludo qualsiasi simbologia ed empatia nella scelta dei colori. Sono interessata ad approfondire l’aspetto “tridimensionale” della pittura intesa come

L’esperienza di CARS è stata interessante. Io e Marta ci siamo incontrate per la prima volta durante quest’occasione. Dopo dieci giorni vissuti insieme ad Omegna, collezionando gli stimoli derivati da questa parentesi temporale, siamo state invitate a riflettere sul tema del viaggio, inteso come occasione di scambio per la creazione di terreni comuni. Nonostante i differenti approcci stilistici, è nata un’incredibile affinità e abbiamo collaborato per realizzare un’opera a quattro mani, Untitled 11 (green). Ci siamo servite del meccanismo di compenetrazione delle nostre pratiche artistiche fondendole in una sola opera, attraverso un doppio processo di sintesi gestuale che ha intrecciato due forze: generatrice e distruttrice. È stata una proficua collaborazione ma anche un’occasione di riflessione.

massa che infine astraggo nelle opere riprodotte nello spazio espositivo. Non sono guidata da una specifica carica espressiva, sono piuttosto interessata a violare le emozioni che trapelano dagli accostamenti cromatici, “astraendo nell’astrarre”. Escludendo la serie Untitled (Giotto’s explosion), in cui impiego i toni dominanti negli affreschi del pittore fiorentino per formare un collegamento specifico, nelle altre opere mi servo indistintamente di ogni colore, spesso mescolato a gesso e polvere, purché produca vibrazione ottica suggerendo volumi. Il pigmento agisce pittoricamente come un velo di chiaroscuro disteso sulle superfici crude dello spazio costruendo volumetrie artificiali, creando illusioni di profondità prodotte da concentrazioni puntiformi, ammassi e compressioni. Si serve della pittura per accarezzare volumetrie quasi scultoree, diventa sostanza viva, primitiva. La scelta di lavorare in policromia, però, non è a senso unico. Come in Untitled 9, non scarterei la possibilità di compiere futuri studi acromatici.

Lo scambio è senza dubbio fondamentale per un’auspicata evoluzione. Può avvenire attraverso il dialogo muto con un luogo, un oggetto, un libro, una pellicola cinematografica, o attraverso il confronto tra persone, incontri,

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Il “visibile” di quest’elaborazione non si limita più al suolo ma persegue la verticalità che in Untitled 20 era ancora incerta, mentre ora esplode con forza sul fusto dei pilastri di ferro. Credo si tratti dell’“essere davvero presenti” dinnanzi alla crudezza di queste superfici. È un dialogo che inizia con un mormorio amplificato dalle “voci” contrastanti delle polveri, dei detriti, dei panneggi di plastica. Ogni spazio è carico di un’energia implicita. È una festa resa possibile ogni volta in cui l’artista si presta a rivelarne le potenzialità.

esperienze. Tutto contribuisce ad espandere il mondo interiore dell’artista e dell’opera. È come ricreare le condizioni di un potlatch silenzioso.

A partire da Untitled 20, realizzato per Mars, in cui pigmenti di tutti i colori mescolati a calcinacci costruiscono il perimetro della stanza liberandola dalla sua dimensione reale, ritorni a mescolare pigmento e superficie. Una sperimentazione che porta ad aggrapparsi ai piani quasi a voler far emergere un’altra dimensione. Alla David Dale Gallery & Studios a Glasgow hai portato in vita le due colonne al centro delle spazio della galleria, Untitled 23 (column) e Untiled 24 (black column) sono il bene e il male eretti nella loro bellezza. Immobili e distanti si possono solo ammirare, è pura contrapposizione. Come lo scultore fa emergere dal marmo la forma, tu dalle superficie sgretolate del ferro fai emergere una forza implicita. È lo spazio a dirti cosa nasconde? Più che un’operazione simbolica tra il bene e il male, definirei Untitled 24 (black column) e Untitled 23 (column) due concretizzazioni dello stesso impulso generatore. La superficie orizzontale del pavimento è un ammasso di cromatismi, una stratificazione quasi cosmetica, i cui punti d’inizio e di fine, portati all’estrema compenetrazione, si confondono.

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Untitled 23 (column) - 2012 - Š David Dale Gallery & Studios - foto Max Slaven



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