sala&cucina n. 65 dicembre 2022 - Poste Italiane Spa - CN/BO - Edizioni Catering srl – Via Margotti, 8 – 40033 Casalecchio di Reno (BO) - contiene I.P. - costo copia euro 3,50
Dicembre 2022
Un Natale libero
Case Sottane: Grow, un germoglio nasce una comunità accudito ad Albiate rurale in Alta Val Taro
Roberto Casamenti e Alessandra Bazzocchi I migliori osti d’Italia
questa rivista è offerta da
LA REDAZIONE
Mario Benhur Tondini presidente Edizioni Catering srl
Imprenditore nel settore della distribuzione alimentare, gestisce con il fratello Oscar l’azienda di famiglia a Cavriana (MN), dove ha svolto anche l’incarico di sindaco. Le competenze maturate sul piano professionale e su quello amministrativo lo hanno portato alla convinzione che il principio della condivisione sia la miglior modalità di crescita. Molte sue iniziative, anche all’interno del gruppo Cateringross (che detiene la titolarità della casa editrice), di cui è consigliere d’amministrazione, vanno in questa direzione. A questo affianca una forte sensibilità per ogni azione che dia valore al suo territorio.
Luigi Franchi Direttore responsabile
Prima fotografo di cibo e territori, poi comunicatore, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico. e infine giornalista di enogastronomia. Tra le sue principali pubblicazioni, scritte e/o coordinate: La prima edizione della Guida al turismo del vino in Italia, per conto del Movimento Turismo del Vino, (1997), I parchi e il turismo enogastronomico (2004), Il marketing delle Strade del Vino edizioni Agra – Rai Eri (2005), Atlante Alimentare Piacentino, con Valentina Bernardelli (2007), “cuo chi, due anime in cucina”, con Alessandra Locatelli, GL.Editore (2009), Dalle Terre Traverse al Po, GL.Editore (2010), ideatore e coautore dei Maestri del lievito madre, Edizioni Catering (2014), coautore della guida online dedicata alla ristorazione Meglio Prenotare, Edizioni Catering, Le interviste (2018) editore Mediavalue. Co-direttore di Food & Book, festival nazionale di editoria enogastronomica
benhurtondini@salaecucina.it
luigifranchi@salaecucina.it
Marina Caccialanza
Simona Vitali
Redazione
Milanese, un passato come traduttrice, da diversi anni giornalista e redattrice per riviste del settore alimentare rivolte al mondo dell’artigianato e all’industria, in particolare nel campo della ristorazione, del dettaglio specializzato e della ricerca. Contribuisce alla realizzazione di importanti libri di comunicazione gastronomica in Italia e all’estero diretti ai professionisti e ai consumatori. Collabora con le redazioni di sala&cucina, Ecod e Trenta Editore.
marina.caccialanza@gmail.com
Giulia Zampieri Redazione
Ricorda con esattezza il profumo del primo pane preparato all’età di sette anni. Forse il suo primo traguardo e, soprattutto, l’inizio di una grande passione: per le cose semplici, per la genuinità, per gli alimenti che crescono e prendono forma. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche, la specializzazione in comunicazione enogastronomica, e un periodo di alternanza nelle cucine, ha chiara la missione: scrivere per comunicare. Come? Utilizzando gli strumenti di oggi e la curiosità di sempre. Gionalista pubblicista, collabora anche con la guida di Identità Golose.
giuliazampieri@salaecucina.it
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Redazione
Laureata in filosofia, ha lavorato nella comunicazione e organizzazione di grandi eventi a Parma. Ha ricevuto una prima inconsapevole educazione al gusto per il cibo grazie all’ indimenticato oste dell’Osteria di Felino (PR), il nonno materno Massimino. Con gli studi umanistici è poi arrivata una seconda, consapevole, educazione al gusto per l’utilizzo delle parole secondo il loro significato. Poi sono seguiti un corso di Alta Formazione alla scuola Holden e un master in Filosofia del cibo e del vino. Della ristorazione l’affascina il pensiero e la componente umana. Della formazione di settore segue movimenti ed evoluzioni.
s.vitali@salaecucina.it
Gabriele Adani Grafico
Modenese, appassionato di arte figurativa, fotografia e linguaggi di comunicazione visiva. Nel 1992 inizia il suo percorso professionale presso una casa editrice. Lavora poi in uno studio grafico e fonda una piccola agenzia di comunicazione in cui ricopre il ruolo di direttore creativo per 18 anni. Viaggiatore, utilizza i frequenti viaggi a Londra e nel Sud Est asiatico per arricchire il suo bagaglio culturale e placare la sua innata curiosità per le altre culture. Dal 2019 lavora in proprio, occupandosi di fotografia, grafica e consulenze nel campo della comunicazione.
grafica@salaecucina.it
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SOMMARIO LETTERA APERTA
Perché le persone mangiano fuoricasa? | Luigi Franchi 9 EDITORIALE Un Natale libero | Benhur Tondini 10 PARLIAMO CON Roberto Casamenti e Alessandra Bazzocchi | Luigi Franchi 15 VENDI CON SUCCESSO Il segreto del Natale è “far scartare” | Lorenzo Dornetti 17 OSPITALITÀ Quale ruolo avrà la tecnologia sugli spazi dell’hotel? | Martina Manescalchi 19 L’OLIO AL CENTRO Non basta dire qualità. Ci vogliono strumenti adeguati per servire l’olio evo | Luigi Caricato 21 DIGITAL TRANSFORMATION La rivoluzione del recruiting | Claudia Ferrero 22 FARE RISTORAZIONE Il tempo e il cibo | Giulia Zampieri 26 ACCOGLIENZA Case Sottane: nasce una comunità rurale in Alta Val Taro | Simona Vitali 30 IN SALA Giulia Battistini: la Trattoria Da Lucio è una piccola oasi felice | Luigi Franchi 34 FARE RISTORAZIONE C’e un tempo per ogni cosa | Simona Vitali 38 FARE RISTORAZIONE Grow, un germoglio accudito ad Albiate | Giulia Zampieri 44 FARE RISTORAZIONE La carta dei distillati della Locanda del Culatello | Luigi Franchi 50 EVENTI Miglior ricetta RicibiAMO | Guido Parri 51 PRODUZIONE Cresce il buono del gusto italiano | Guido Parri 52 FARE RISTORAZIONE Sotto il vulcano, tra storia e natura | Marina Caccialanza 56 FARE RISTORAZIONE Big Mamma, una rete che esalta la trattoria italiana in Europa | Luigi Franchi 58 PRODUZIONE La masculina da macchia del Golfo di Catania | Luigi Franchi 61 PERSONE Fiorella Belpoggi, una scienziata libera | Bruno Damini 64 PRODUZIONE Coati, il cotto si fa in tre | Marina Caccialanza 66 FARE RISTORAZIONE Il Mercato del Porto a Marina di Ragusa | Giulia Zampieri 68 PIZZERIE Città Vecchia, qualità e servizio | Marina Caccialanza 70 DISTRIBUZIONE Marchi Spa a Cosmofood | Giulia Zampieri 71 DISTRIBUZIONE Amelia3 a Expo Tecnocom | Giulia Zampieri 72 DISTRIBUZIONE La cena Apci Taste and Learn a Mozambano, con il contributo di F.lli Tondini | Guido Parri 73 DISTRIBUZIONE Buona la prima di Bergel+EXPO | Guido Parri 74 DISTRIBUZIONE C.I.F.O. e Agugiaro&Figna | Guido Parri 76 PRODUZIONE Confezioni Negri, l’eleganza della praticità | Marina Caccialanza 78 ABBINAMENTO Da Caino “animella glassata al peperone, topibambur, e aglio nero” abbinato al “A Carisio Bianco 2018” | Paolo Baracchino
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Dicembre 2022
sala&cucina n. 65 dicembre 2022 - Poste Italiane Spa - CN/BO - Edizioni Catering srl – Via Margotti, 8 – 40033 Casalecchio di Reno (BO) - contiene I.P. - costo copia euro 3,50
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Un Natale libero
Case Sottane: Grow, un germoglio nasce una comunità accudito ad Albiate rurale in Alta Val Taro
Roberto Casamenti e Alessandra Bazzocchi I migliori osti d’Italia
N° 65 dicembre 2022 EDITORE Edizioni Catering srl Via Margotti, 8 40033 Casalecchio di Reno (BO) Tel. 051 751087 – Fax 051 751011 info@salaecucina.it - www.salaecucina.it PRESIDENTE Benhur Mario Tondini benhurtondini@salaecucina.it DIRETTORE RESPONSABILE Luigi Franchi luigifranchi@salaecucina.it COLLABORATORI ESTERNI Paolo Baracchino, Luigi Caricato, Bruno Damini, Lorenzo Dornetti, Martina Manescalchi, Elena Monteverdi, Guido Parri FOTOGRAFIE Archivio sala&cucina, Paolo Gepri, Archivio Da Lucio, Archivio Grow Restaurant, Lido Vannucchi * L’editore è a disposizione per eventuali crediti fotografici di cui si ignora la fonte
RIVISTA PARTNER dell’Associazione PUBBLICITÀ Tel. 331 6872138 marketing@salaecucina.it www.salaecucina.it PROGETTO GRAFICO Gabriele Adani - www.gabrieleadani.it STAMPA EDIPRIMA s.r.l. – www.ediprimacataloghi.com TIRATURA E DISTRIBUZIONE – 28.900 copie Ristoranti, trattorie e pizzerie 20.700 – Bar, pub e birrerie 4.000 – Hotel 3.100 – Grossisti e distributori f&b 1.100 Costo copia mensile: 3,50 euro abbonamento annuo 30,00 euro Per abbonarsi: info@salaecucina.it
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LETTERA APERTA Luigi Franchi
direttore responsabile
Perché le persone mangiano fuoricasa? clicca e leggi l’articolo sul web
La risposta a questa domanda pochi anni fa era semplice: si mangiava fuoricasa per una ricorrenza, per una vacanza, per affari. Nella società attuale le motivazioni che si sono aggiunte sono molteplici: per evitare la noiosa occupazione dello sparecchiare e lavare piatti e stoviglie; per le case sempre più piccole e senza cucina; per non restare in due in una casa senza più niente da dirsi; per la compagnia; per conoscere la biodiversità italiana trasformata dagli chef; perché gli chef e i ristoranti sono di moda; per vivere un’esperienza! Quest’ultima è la motivazione più ricorrente ed è proprio su questo che mi voglio soffermare! Cosa significa vivere un’esperienza in un ristorante? È una domanda che mi faccio sempre più spesso quando devo scegliere dove andare, a maggior ragione conoscendo il variegato mondo della ristorazione. Consideriamo esperienza andare in un all you can eat o è meglio andare in una trattoria o in una pizzeria o in un ristorante etnico? Consideriamo un’esperienza cenare con un menu degustazione obbligatorio per tutto il tavolo che viene proposto sempre più spesso per far condividere la filosofia dello chef (o forse per ottimizzare al meglio i costi di gestione del locale) o è altrettanto un’esperienza scegliere due piatti dalla carta che soddisfino il nostro desiderio di assaggio? E, ancora, quando si sente dire che all’oste o alla trattoria perdoniamo il piccolo errore ma un ristorante stellato, dove paghiamo centinaia di euro, questo non è ammesso,
si sta facendo una riflessione corretta oppure no? Certo che no! In ogni locale ci può essere una serata no, le persone che vi lavorano hanno anch’esse un’anima, dei problemi, una vita! E questo incide sulle performance. Possono essere costrette a quel lavoro anche se lì si trovano male perché sottopagate, sfruttate, non considerate. Queste sono le cose che non si dicono mai di un ristorante, ma sono quelle che, almeno per noi, e crediamo per molti, fanno la differenza vera. In trattoria come un un ristorante stellato! Pensate quante domande sta generando una semplice scelta: quella di uscire a cena! Ci riflettevo poche sere fa mentre ero in un ristorante con prezzi stellari ma che non aveva nulla a che fare con l’alta ristorazione a cui stanno attaccando il carro molti ristoranti che non lo meritano. E qui viene fuori la prima delle risposte: vivere un’esperienza significa informarsi prima sul ristorante in cui si vuole andare, leggendo il menu pubblicato sul sito, con i costi ben descritti, con le foto ben definite dei piatti, degli ambienti. Da un sito si possono capire moltissime cose; ad esempio se quello chef è pronto per definirsi al pari di altri che fanno davvero alta cucina oppure no. Se utilizza ingredienti volgari, come direbbe Antonia Klugmann, che non hanno nessuna ricerca alle spalle oppure si impegna per dare il giusto valore alle materie prime. Se in quella struttura c’è rispetto per le persone che vi lavorano e per i fornitori. Si, dal sito si possono vedere tutte queste cose, perché la fotografia o i video parlano chiaro. Ma non c’è solo il sito per capire, ci sono le recensioni sui social, anche quelle si riescono a decifrare in maniera corretta, a maggior ragione se hanno tutte una risposta da parte del ristoratore. E poi c’è la visita, il momento in cui la scelta del locale è avvenuta. Basta varcare la soglia per capire se la serata sarà quello che volevamo oppure no. Un sorriso trasparente, una parola gentile, una sala allegra al posto di una sala dove ci si sente a disagio, sotto esame, sono lì, a portata dei nostri occhi, delle nostre sensazioni. C’è un film – The menu – che consiglio a tutti di vedere. È molto ambiguo ed estremo, ma ha una verità di fondo che val la pena di prendere in considerazione quando si vuole uscire a cena!
luigifranchi@salaecucina.it | dicembre 2022
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EDITORIALE Benhur Tondini
presidente sala&cucina
Un Natale libero clicca e leggi l’articolo sul web
Questo è il primo Natale libero, dopo gli anni della pandemia. Sarà sicuramente un giorno di serenità, di gioia, dove le persone, per 24 ore, non penseranno a nulla. I ristoranti torneranno a vivere una dimensione che mancava da troppo tempo: i tavoli saranno pieni, alcuni continueranno a tenere chiuso per passarlo con le loro famiglie. Un rito uguale a sé stesso ma sempre bello! Ci saranno, nel mondo, situazioni drammatiche, persone che soffrono per guerre e violenze, altre che lo trascorreranno al freddo, anche questa è una realtà sempre uguale a sé stessa ma il Natale serve anche a questo. A far riflettere un po’ di più tutte le persone di buona volontà, a fargli prendere decisioni più giuste. Perché scrivo questo in una rivista che si occupa di cibo, di ristorazione, e quindi dovrebbe essere più leggera possibile? Perché oggi il cibo è in testa a tutte le conversazioni delle persone, a volte non ce ne rendiamo conto ma è così, parliamo di cibo anche quando lo mangiamo. Ma è giunto il momento di affrontare questo argomento con la consapevolezza di come il cibo può migliorare il mondo in cui viviamo. Un mese fa il pianeta ha raggiunto 8 miliardi di abitanti, con disparità che richiamano alla memoria periodi storici lontanissimi dall’era contemporanea; esistono ancora retaggi come la discriminazione razziale, la schiavitù di molte persone, una forma di
schiavitù che si basa non più sulle tratte dall’Africa al resto del mondo ma sulla povertà, in aumento. Produciamo cibo per 12 miliardi di persone ma ne gettiamo via un terzo con lo spreco, nei campi e nelle pattumiere di mezzo mondo, mentre ci sono ancora più di 800 milioni di persone che soffrono la fame. È necessario interrompere questa assurda catena, è indispensabile porre rimedio a queste differenze e, grazie all’intelligenza di molti, questo è possibile. Adottiamo un rapporto diverso con il cibo, consideriamolo un bene, non una commodity facile da avere. Consideriamolo prezioso, paghiamolo il giusto affinché tutti quelli che lavorano con il cibo e grazie al cibo ricevano il giusto compenso. Consumiamolo in modo saggio, come un benessere per il nostro corpo e la nostra mente affinché non incida sui costi sanitari della società e sulla salute delle persone. Sono piccole cose, piccoli gesti che, a ricaduta, possono portare il bene nel mondo. In questa parte del pianeta in cui ci troviamo, per fortuna, a vivere con poco possiamo fare molto per l’intera umanità. Facciamolo, usiamo il Natale che verrà per cambiare qualcosa, dentro ad ognuno di noi, per diventare migliori verso gli altri. Utilizziamo il Natale e gli ultimi giorni di questo 2022, di questo strano anno che ci ha portato altri problemi oltre alla pandemia, per ripensare alle nostre aziende, a migliorarle sempre di più per il ruolo importante che hanno nella divulgazione del cibo. Aziende di distribuzione che hanno sofferto moltissimo negli anni scorsi, senza nessuna garanzia pubblica, ma che sono riuscite a resistere. Aziende che con il cibo lavorano e danno lavoro ad una ristorazione che dovrà diventare, ogni giorno di più, bella, sana, gustosa e sensibile alla cultura del cibo. Buon Natale a tutti!
benhurtondini@salaecucina.it | dicembre 2022
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PARLIAMO CON Parliamo con… Roberto Casamenti e Alessandra Bazzocchi, i migliori osti d’Italia secondo la guida Osterie d’Italia 2023. Insieme hanno realizzato il sogno di aprire un’osteria bellissima a Pianetto di Galeata (FC
I MIGLIORI OSTI D’ITALIA
clicca e leggi l’articolo sul web
Roberto Casamenti e Alessandra Bazzocchi
Roberto e Alessandra
L’accoglienza la fai bene solo se ti piace davvero farla Autore: Luigi Franchi 10
www.osterialacampanara.it | dicembre 2022
Polpettine a scottadito
Pianetto di Galeata è un minuscolo borgo medievale di settanta abitanti, con un’unica strada che lo attraversa e una provinciale che vi passa accanto, tagliando fuori il paese dal flusso di auto e moto. Come è possibile che proprio qui si trovino i due migliori osti d’Italia, secondo l’autorevole giudizio della guida delle Osterie d’Italia 2023 di Slow Food? Per scoprirlo bisogna venirci a Pianetto di Galeata, in provincia di Forlì-Cesena, ed è quello che abbiamo fatto in una grigia giornata di novembre resa luminosa dai sorrisi e dalle parole di Roberto Casamenti e Alessandra Bazzocchi, i due migliori osti per l’appunto. Prima delle loro parole vogliamo raccontarvi i loro primi mestieri, geometra lui, maestra elementare lei, con il sogno nel cassetto diventato realtà: avere la propria osteria. Fu durante un sopralluogo come geometra che Roberto vide questo luogo, la vecchia canonica abbandonata di Pianetto. L’ultima persona che vi aveva vissuto era la perpetua del parroco, una donna che suonava anche le campane e a lei i due osti hanno dedicato il nome della locanda-osteria: la Campanara. Roberto cercava di vendere la canonica ma gli avventori rinunciavano dopo aver capito che i lavori per metterla a posto erano troppi e troppo costosi. Allora Roberto portò a vederla sua moglie Alessandra: “È il nostro sogno che si può realizzare” le disse. Entrambi avevano girato l’Italia, visitato luoghi, scoperto trattorie, con il desiderio non troppo nascosto di diventare osti. Fu così che Roberto, anziché cercare improbabili acquirenti, comprò la canonica e iniziò a ristrutturarla. Una follia se pensiamo che Pianetto non ha nulla per attirare i turisti se non che si trova sulla strada per raggiungere il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi e il campanile rinascimentale della chiesa accanto all’osteria disegnato dall’architetto fiorentino Bartolomeo Ammanati. Eppure i due osti hanno vinto la difficile scommessa, ma da qui sono le loro parole a raccontare la storia della locanda-osteria. Quando e come avete deciso di diventare osti? “Un geometra incontra una maestra elementare e nasce l’amore. Conoscono Slow Food e cominciano a girare tra produttori e osterie. La fantasia sul fare un’osteria diventa una piacevole ossessione. Leggiamo un articolo di Davide Paolini, nostro famoso compaesano, sul Sole 24 Ore, che descrive l’osteria che non c’è e ne traccia un luogo con pochi tavoli, piatti del territorio, l’insegna che non si vede. Poi il prete mi chiama qui, per chiedermi di vendere la canonica. Porto Alessandra a vederla, era un rudere invaso da erbe infestanti. La compriamo noi, iniziamo a ristrutturarla e apriamo, con pochi tavoli, perché, pur essendo Alessandra una bravissima cuoca, non avevamo l’esperienza necessaria. Io continuavo a fare il geometra, sono ancora iscritto all’albo, e con il mio lavoro venivo spesso qui a Pianetto. Andavo a mangiare in casa di una signora che mi faceva dei piatti strepitosi, legati alla tradizione di questa valle. Fu così che, quando aprimmo, anche questa signora ci venne ad aiutare. L’idea era semplice: fare una cucina di casa con numeri un po’ più grandi. Ci accorgemmo presto | dicembre 2022
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che serviva un lavapiatti, una persona di più in sala. Io facevo un lavoro remunerativo che ci ha permesso di non guardare subito al cassetto ma di concentrarci sulla cura totale degli ospiti, al massimo livello. Il risultato è stato immediato e, presi da questo insperato piccolo successo, abbiamo deciso di imparare bene il mestiere, mantenendo ferma l’idea della cucina di casa con grandi prodotti, perché il costo della materia prima, tra un prodotto eccellente e uno medio, è irrilevante. Era l’ottobre del 2005 quando inaugurammo con una festa bellissima. L’arma vincente è la voglia di fare bene questo lavoro”. La cucina della tradizione è fatta di piatti poveri, che segnano anche una condizione di vita faticosa. Come siete riusciti a renderli attraenti nella vostra osteria? “Hai detto bene, era una cucina che, con l’avvento del boom economico degli anni Sessanta, non veniva più presa in considerazione perché generava ricordi e immagini di povertà. Però senza memoria non si fa molta strada. E riproporli oggi, per noi, significa dare agli ospiti dei sapori che non hanno eguali, un gusto straordinario di cose che non sai”. Alessandra mi racconta un episodio legato a una marmellata di more fatta da lei, con more vere, raccolte nei rovi che qui esistono ancora. La signora che l’assaggiò disse che non erano more. L’abitudine a consumare prodotti confezionati la portava fuori strada. “Il rigore di Alessandra ha aiutato tanto il successo della nostra cucina e anche le competenze acquisite dai ragazzi che lavorano con lei” mi racconta Roberto. 12
Tortello sulla lastra
Quali sono i compiti, o meglio, i doveri di un oste? “Intanto avere la consapevolezza che l’accoglienza la fai bene solo se ti piace davvero farla. Io ho la grande fortuna di voler conoscere le persone, mi fa un piacere enorme capire chi viene a trovarci. Il dovere è la responsabilità di farli star bene, fargli capire dove sono e qui entra in gioco il valore della cucina di territorio, della nostra cucina. Con la cucina facciamo capire la storia di questo territorio. Noi abbiamo il pane sciocco perché il sale costava tanto e apparteneva allo stato pontificio, qui eravamo nel Granducato di Toscana; le spezie perché non c’era sale; il tortello alla lastra perché viene cotto nella pietra arenaria di cui le foreste casentinesi sono ricche. Un piatto di socialità, non bello, sgarbato ma accogliente come pochi. E noi siamo così, tanto accoglienti”. E tu Alessandra dove hai imparato a cucinare il tortello alla lastra? “Roberto mi punge ogni tanto perché mi dice che sono ancora troppo cittadina. Sono nata a Forlì ma qui ho il cuore, fin da piccola. Il tortello ho imparato a farlo con | dicembre 2022
mia nonna, una donna talmente minuta e io ancora così piccola che, a quel tavolo dove ho imparato a fare il tortello, il falegname tagliò la parte di cipolla alle gambe. Qui ho imparato l’affascinante ritualità dei gesti antichi che, oggi, offriamo ai nostri ospiti”.
Campanara. Siamo un’anima sola, dove lei è la forza, io sono solo il narratore. Penso che la differenza vera sia piuttosto un’altra: nell’osteria ti catapulti subito nel territorio dove ti trovi; nel ristorante c’è più uniformità, puoi mangiare lo stesso piatto ad Aosta come ad Enna”.
Parlare di osteria rimanda a luoghi che non esistono più: nell’etimologia andare all’osteria significava un luogo dove principalmente si beveva vino, forse con qualche misero piatto; oggi cosa rappresenta, sul piano sociale e culturale, un posto come la Campanara? “A Santa Sofia, il comune limitrofo da cui provengo, c’erano 14 osterie dove si creavano relazioni, si firmavano contratti e accordi con una stretta di mano. Quando si faceva qualcosa d’importante si andava all’osteria. Oggi l’osteria potrebbe prendere il posto di luoghi d’aggregazione che, purtroppo, non ci sono più o sono molto pochi. Per chi viene da fuori è il luogo dove si può conoscere il territorio, per chi vive qui il luogo dove stringere o rafforzare un’amicizia, vivere un’emozione insieme. Riuscire in questo sarebbe il massimo del nostro vivere, delle scelte che abbiamo fatto. Ma devo confessarti che siamo sulla strada buona. Abbiamo molta gente che viene, che mangia piatti buoni. Noi ci sentiamo la frontiera dove cerchiamo di far capire il buono, i prodotti. Cominciamo dai ragazzi che lavorano con noi che mangiano i piatti che mettiamo in carta per fornire loro il concetto di buono, le informazioni sui prodotti che poi riusciranno a trasferire meglio agli ospiti. Per loro, così giovani, è una scoperta di sapori su cui occorre fare un’opera di educazione”.
Sono le persone che animano i luoghi. Noi ne siamo convinti e qui da voi l’esempio è calzante: com’è cambiata Pianetto con l’arrivo della Campanara? “Innanzitutto Abbiamo creato, come dicevo prima, un ritorno dei giovani all’allevamento. A questo aggiungi una rete di fornitori piccoli che non scelgono le mire della grande distribuzione ma ci danno prodotti che ci permettono di dare un’identità molto forte alla nostra cucina. Adesso non c’è festa paesana che non faccia le ricette che abbiamo rilanciato. Questo ci rende molto fieri. Abbiamo aperto, accanto all’osteria, una locanda che non basta per il turismo che abbiamo messo in moto. Ci vorrebbero più B&B per accoglierli. Non a caso dico bed and breakfast e non alberghi perché le persone che arrivano qui vogliono conoscere, sono curiose dei luoghi. L’Appennino è cambiato dopo il Covid, è ricercato per la sua rara bellezza; per la serenità che infonde”. Per l’oste sono tutti galantuomini purché paghino, Questa era l’immagine dell’oste al tempo dei Promessi Sposi. Cosa ne pensi, è ancora così? “No! Io ho un carattere che mi fa stare con tutti, ma ci sono valori e principi da cui non transigo: il rispetto per chi lavora con noi, l’onestà. Con pochi gesti e parole riesco a capire chi ho davanti e se offendono in qualche modo la ragazza che fa servizio in sala li getto fuori!”
Come deve essere, per voi, l’osteria ideale? “Con la Campanara ci andiamo vicino però manca ancora qualcosa, o meglio, non dobbiamo stare vincolati a un modello. Ora, infatti, stiamo facendo il laboratorio dove vendere i nostri prodotti confezionati: la trippa, il ragù romagnolo, le marmellate, la giardiniera. Cose che ci vengono costantemente richieste dai nostri ospiti per continuare a casa l’esperienza. Poi dobbiamo porci l’obiettivo di far quadrare i conti per riuscire a vivere bene questo lavoro. Infatti dobbiamo divertirci noi per far star bene gli ospiti. Ma la cosa più importante dell’osteria ideale, e in parte ci stiamo riuscendo, è far tornare le persone a produrre qualcosa di buono, di unico, che rappresenti il territorio. Dopo che abbiamo aperto l’osteria gruppi di giovani stanno impiantando allevamenti di capre che, un tempo, connotavano la valle”. La differenza tra osteria e ristorante è che nell’osteria il protagonista è l’oste, nel ristorante è il cuoco: siete d’accordo su questo? Risponde Roberto: “Solo parzialmente. Da noi non è così, senza Alessandra in cucina non esisterebbe la | dicembre 2022
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VENDI CON SUCCESSO Lorenzo Dornetti ceo Neurovendita
Il segreto del Natale è “far scartare” clicca e leggi l’articolo sul web
Arrivano le feste. Un momento fondamentale per il mondo del “food & beverage”. Ci sono pranzi che coinvolgono intere famiglie. Le aziende organizzano momenti conviviali con i propri collaboratori. Gruppi di amici festeggiano insieme. Soprattutto in un Natale che arriva dopo due anni di lockdown e limitazioni. Anche se l’inflazione cresce e le preoccupazioni economiche sono tante, le persone vorranno godersi le feste pranzando e cenando fuori casa. Per donare un Natale wow ai clienti dei lettori di sala&cucina voglio condividere uno dei principi chiave della Neurovendita, per poi applicarlo al mondo della ristorazione. Parto da una premessa. Cos’è la felicità? I filosofi scriverebbero trattati. I poeti molte pagine ricche di pensieri. Per un neuroscienziato prestato al business come me, è un picco di dopamina. Tutti noi vogliamo clienti felici nel nostro locale. Mangiare stimola la dopamina nel sistema nervoso. Postare i piatti scelti sui social o fare stories con le foto delle persone con cui si condivide il pasto stimola la dopamina. Il cervello rilascia questa sostanza quando si è al centro dell’attenzione altrui. Bere stimola la dopamina, inibendo la sua sostanza antagonista, la serotonina, riducendo la timidezza.
Come possiamo fornire ancora un picco di dopamina ai nostri clienti? Possiamo usare il “principio di scartamento”. Una mole immensa di studi dimostrano che per il cervello l’atto di scartare “qualcosa” aumenta la dopamina. Il picco di dopamina avviene quando il cervello apre la confezione dell’oggetto. L’atto di togliere la carta ed il fiocco stimola la sostanza alla base della felicità. Ci sono interi prodotti che fondano la loro strategia di marketing sul concetto di “scartamento”. Basta guardare il successo commerciale delle bambole LOL per capire quanto la dinamica sia potente per il cervello. Le LOL sono state create da Isaac Larian. In pochi anni hanno battuto in termini di vendite Marvel e Barbie. Oltre 2,5 miliardi di dollari il giro d’affari. Le LOL diversamente dalle altre bambole che sono disponibili immediatamente aprendo la scatola, sono all’interno di una palla, la “blind bag”. Prima di arrivare alla bambola, la bimba deve interagire con 9 strati di sorprese. Da molti anni si conosce che l’azione di scartare un pacco-regalo alza la dopamina nel cervello più della vista del regalo. Questa dinamica è esasperata nelle LOL. La bimba tocca la LOL come risultato finale di una serie di azioni di “scartamento”. Questo stimola la dopamina, la molecola della felicità nel cervello. La bambina non ha tutto e subito, ma apre, scopre, legge e solo alla fine ha la sua bambola. L’effetto wow è packaging. Come possiamo applicarla al mondo della ristorazione? Ci sono molti modi. Il minimo comune denominatore deve essere far scartare “qualcosa” al cliente. Ecco alcune idee. Un regalo all’inizio del pasto da scoprire. Il menù dentro una busta da aprire. Proporre piatti che prevedano un’azione di apertura da parte del cliente. Un dono alla fine per essere memorabili. Una lettera per fare gli auguri. Far scartare qualcosa è una via diretta verso la felicità. Parola di Neurovendita.
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OSPITALITÀ Martina Manescalchi
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Quale ruolo avrà la tecnologia sugli spazi dell’hotel? clicca e leggi l’articolo sul web
IoT è l’acronimo dell’espressione americana “Internet of things” e indica gli oggetti che si rendono riconoscibili e acquisiscono intelligenza grazie al fatto di poter comunicare dati su sé stessi e accedere a informazioni aggregate da parte di altri. L’industria dell’ospitalità ha a disposizione un grande potenziale per aumentare le entrate e diminuire spese integrando le tecnologie IoT nelle attività operative, ma anche all’interno degli spazi dedicati agli ospiti, sempre più esigenti. Per implementare al meglio le soluzioni IoT in hotel, tenete d’occhio queste tendenze che stanno già cominciando ad avere un impatto sul settore dell’ospitalità. Automazione delle camere Non è una novità che gli ospiti dell’hotel richiedano sempre più tecnologia ogni anno che passa. Se finora il problema è stato legato alla larghezza di banda per la rete Wi-Fi, utile per un numero sempre maggiore di dispositivi, domani la sfida sarà mantenere gli stessi livelli di comfort e connettività che i viaggiatori sono abituati ad avere a casa. L’automazione delle camere consente agli hotel di differenziarsi e far sentire l’ospite più a suo agio. Manutenzione preventiva Il mondo sarà presto affollato di sensori per controlli e segnalazione di dati. Ottenere i dati giusti sarà banale, la sfida sarà setacciare tutti questi dati per ottenere pre-
ziose informazioni che consentano di risolvere problemi prima ancora che si verifichino. Gli hotel stanno utilizzando le tecniche di manutenzione preventiva per aiutare a prolungare la vita delle strutture e degli oggetti e, allo stesso tempo, ridurre al minimo i reclami degli ospiti per eventuali malfunzionamenti e disagi. Mobile Engagement Il numero di utenti mobile è aumentato drasticamente negli ultimi anni, ma la cosa più interessante è che le persone vi trascorrono sempre più tempo. Dal 2014, gli americani hanno trascorso più tempo sul web con i loro dispositivi mobili che con i loro PC. Gli ospiti hanno quindi sviluppato aspettative tecniche particolarmente elevate per i prodotti che usano. Gli albergatori sono già consapevoli di questo impatto tecnologico, ben sapendo che ogni ospite arriva in hotel con almeno tre dispositivi da collegare. La tecnologia mobile ha prodotto un senso permanente di immediatezza e sta cambiando per sempre il modo in cui gli ospiti interagiscono con l’hotel e come si aspettano che l’hotel interagisca. Iper-personalizzazione Proviamo a immaginare un’esperienza alberghiera nel futuro (nemmeno così lontano). Apri la tua app di fidelizzazione preferita e in pochi secondi prenoti la camera con la vista che preferisci e un letto king size. Il giorno dopo, la tua app ti avvisa che il tuo aereo è atterrato e chiama un taxi, il cui autista sa già dove sei diretto. La tua app sa quando arrivi in hotel e ti dà in automatico le indicazioni stradali, mentre il personale della reception ti accoglie chiamandoti per nome e ti chiede se hai bisogno di qualcosa. Tu vai direttamente in camera, apri la porta dalla tua app mobile via Bluetooth. Una volta che la porta si apre, le luci si accendono e la TV ti saluta con il tuo nome impresso sullo schermo. La stanza è già climatizzata con la temperatura che preferisci e nel frigo bar sono presenti le bibite che avevi richiesto. Proprio come hanno cominciato a fare tanti software di CRM, sarà sempre più importante profilare gli ospiti in base alle loro preferenze in modo da offrire servizi personalizzati, fidelizzare e demandare alla tecnologia aspetti che consentano allo staff di avere più tempo da dedicare alle relazioni umane. Basti pensare al tempo che il checkin online è in grado di sottrarre agli aspetti “burocratici”, lasciando ai receptionist il tempo di parlare con gli ospiti. | dicembre 2022
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AD: EIKON / Photography: Raffaele Mariotti
STORIE IN BARATTOLO “I nostri prodotti nascono dai doni preziosi della natura e dalla sapienza della tradizione marchigiana. Perché il cibo possa trasformarsi ogni volta nell’emozione di un momento da ricordare.” Lorenza Marchetti Product Manager T&C T&C s.r.l. ACQUALAGNA - ITALY
www.tectartufi.it
L’OLIO AL CENTRO Luigi Caricato oleologo
Non basta dire qualità. Ci vogliono strumenti adeguati per servire l’olio evo clicca e leggi l’articolo sul web
Non basta dire qualità, quando si ha a che fare con l’olio extra vergine di oliva esiste un’altra parola chiave da tenere in grande considerazione: il servizio. Iniziamo a chiederci come serviamo l’olio, in quali recipienti o manufatti, in che modo proporlo ai clienti. Per un servizio impeccabile è necessario disporre di nuovi e più appropriati manufatti. Certo, ci sono investimenti da fare. La domanda è: quanti sono disposti a impegnarsi? Si può sempre chiedere una collaborazione economica alle aziende olearie. La volta scorsa ho accennato all’esaltatore del gusto denominato “Oliena”, del designer Mauro Olivieri. Si tratta di un inedito strumento da cucina e da tavolo pensato per far cogliere tutte le percezioni che di solito restano inespresse rispetto a quando l’olio viene presentato nella classica bottiglia in vetro scuro. In questo caso si versa solo la quantità necessaria. Il cliente può ammirare il colore dell’olio e cogliere tutte le sue sfumature, la densità e fluidità. La forma dell’Oliena, con le sue curve sinuose, ha lo scopo di evidenziare le sensazioni che abitualmente si tendono a ricercare. La superficie bianca del contenitore è pensata allo scopo di non contaminare il colore dell’olio, ma di esaltarlo. La pancia e il canale attraverso cui si raccoglie e scorre l’olio, servono per distribuirlo meglio e ad amplificarne il sapore. Si può annusare liberamente, in modo da cogliere tutti i profumi. L’olio poi lo si versa a piacere sul pane, su un
gambero, una costa di sedano o di carota, una foglia di carciofo e ovunque lo si desideri. Forse si potrà obiettare che l’introduzione di un ulteriore oggetto sul tavolo crea ingombro e soprattutto richiede un’adeguata manutenzione e pulizia, quindi costi in più, oltre al possibile spreco del prodotto residuo non più riutilizzabile. È vero, ma tale servizio andrebbe in verità proposto calcolandone il prezzo da inserire nel menu. Non c’è l’abitudine a immaginare un cliente disposto a spendere per l’olio, ma le consuetudini, così come i bisogni, si creano. Si tratta di dare il via a una nuova tendenza e avere il coraggio e la giusta visione per farlo. Se vi è un olio di alta qualità con una corrispondente qualità nell’offerta e nel servizio, ricorrendo a oggetti di design accurati, ogni nuova proposta può essere accolta di buon grado. Attenzione, però: non si deve confondere l’olio inteso come ingrediente, la cui presenza rientra nel costo di un piatto, con l’olio formulato come proposta a sé stante e con un prezzo a carico del cliente. Si tratta di una grande scommessa, ma vale la pena correrla. Per affrontarla con successo è bene curare ogni aspetto, dal rigore del design alla scelta dei materiali, dall’attenzione all’olio (anche in termini di stabilità del prodotto) alla ricerca di un equilibrio tra estetica e funzionalità. Occorre investire, tutto qui. Individuare nuovi strumenti, perché ve ne sono ormai già diversi in commercio. In circolazione c’è anche un bicchiere in tutto simile a quello ufficiale per l’assaggio dell’olio, ma in vetro chiaro, trasparente, provvisto ai lati di doppio dosatore, utile per i mancini: ha nome “Iride - il senso dell’olio” ed è a firma Bluside. Insomma, qualcosa si muove. L’importante è andare al di là delle improponibili (e giustamente vietatissime) oliere. Occorre solo investire in idee, energie, coraggio, tempo e denaro.
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DIGITAL TRANSFORMATION Claudia Ferrero
Digital Strategist & Evangelist
La rivoluzione del recruiting clicca e leggi l’articolo sul web
L’innovazione tecnologica trasforma inesorabilmente la nostra vita quotidiana rimpiazzando ogni giorno oggetti di uso comune come cabine telefoniche, mappe cartacee, macchine da scrivere e così via. Se per la maggior parte delle nostre attività utilizzare strumenti vecchi di oltre 50 anni ci sembrerebbe del tutto fuori luogo, per quella del recruiting invece è normalissimo. Quando dobbiamo assumere qualcuno ripetiamo incredibilmente lo stesso identico schema dei nostri predecessori: da una parte la pubblicazione di un annuncio e dall’altra la selezione dei candidati attraverso il Curriculum Vitae. Tuttavia il mondo lavorativo è del tutto diverso rispetto a quello di decenni fa, aziende e candidati hanno bisogno di risposte puntuali, non possono più permettersi il lusso di aspettare fino a due mesi per una decisione. Soprattutto in un momento come quello attuale, dove il tasso di turnover nel settore ha raggiunto il punto più critico della sua storia. A seguito del Covid19 e della pandemia infatti si devono recuperare ancora 200.000 posti di lavoro nei pubblici esercizi, negli USA quest’estate erano 1,52 milioni i posti vacanti nel turismo ma la situazione è molto simile in tutti gli altri Paesi. Per questo motivo alcuni recruiter hanno finalmente realizzato che è arrivato l’ora di rendere il processo più efficace.
Analizzando le debolezze di questo sistema si notano subito dei limiti almeno su due fronti: 1. limiti legati a come le aziende gestiscono le loro offerte di lavoro, ovvero a come scrivono gli annunci (troppo brevi, troppo lunghi), a dove e quando li pubblicano (non tutte le piattaforme sono adeguate e se non si investe in campagne gli annunci sono di fatto invisibili al pubblico), a come gestiscono la ricezione e la classificazione delle candidature (usare la mail non è così comodo come sembra) 2. Limiti legati a come i candidati gestiscono le loro ricerche, ovvero a come redigono i loro CV (modelli, aggiornamenti, personalizzazione), alle loro capacità e accesso a supporti informatici (ad es. un lavapiatti non sa usare il PC), a come reagiscono di fronte a decine di campi da riempire sui moduli online nelle procedure di iscrizione (che infatti abbandonano). Occorre quindi da una parte rivedere tutta la “candidate experience” per migliorare la gestione del rapporto con i potenziali talenti, dall’altra introdurre delle tecnologie in grado di ottimizzare il processo per renderlo più veloce. Gli ATS (Applicant Tracking System) sono stati i primi software ad introdurre criteri di selezione automatizzata. Tuttavia non sono così soddisfacenti perché basati comunque sull’analisi di parole chiave contenute nel CV (e con i limiti elencati prima). Una valida alternativa in grado di soddisfare tutti sembra essere quella fornita dai chatbots di ultima generazione, in grado di operare come veri e propri assistenti virtuali che conversano con i candidati dal loro cellulare e danno costantemente feedback. Nel 2022 il business dei chatbots valeva quattro miliardi di dollari, a conferma che il trend nel mercato ormai va ormai in quella direzione. Ora tocca anche agli italiani prendere coraggio e cambiare finalmente questo vecchio paradigma. | dicembre 2022
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FARE RISTORAZIONE
Autrice: Giulia Zampieri clicca e leggi l’articolo sul web
Il tempo e il cibo Abbiamo più bisogno di tempo. Nel cibo, nell’accoglienza, nel nostro vivere “La farfalla non conta gli anni, ma gli istanti: per questo il suo breve tempo le basta”. Leggendo, a pochi giorni dall’uscita di questo numero, la frase dello scrittore bengalese Rabindranath Tagore, premio Nobel nel 1913, mi ha rapita il finale, “il tempo le basta”. Ho pensato fosse destino che affrontassi, nell’ultimo mese dell’anno, uno dei più complessi e accelerati del mondo moderno, il tema del tempo e il cibo. Non è partito tutto da questa delicata e potente affermazione ma da una serie di coincidenze, chiamiamole così, che mi hanno portata a mettere insieme i pezzi, ovvero le interpretazioni e le esperienze rivoltemi nelle ultime settimane da chi lavora nel mondo del cibo. Il quadro si è fatto chiaro leggendo Tagore, partendo da un accento ahimè negativo: alle pochissime farfalle che si incontrano
Preparazione del tortellino di Valeggio, Ristorante Alla Borsa
Giovanni Solofra e Roberta Meroli
Dessert Condiviso, Ca De Be’
oggigiorno il tempo che hanno a disposizione magari basta, ma all’uomo contemporaneo sembra davvero non bastare più.
Il tempo, da amico a nemico del cibo Mi spiego meglio. Viviamo in una condizione sociale ed economica che ci impone un ritmo travolgente: per poter stare al passo, per non essere da meno rispetto agli altri, il tempo lo dobbiamo ingurgitare, scavallare, a volte addirittura anticipare. Alla faccia che la pandemia ci aveva segnato profondamente. Mi chiederete cosa c’entra il cibo con questa riflessione. C’entra, c’entra eccome. Perché il tempo, quando si parla di cibo, è sempre più considerato uno scoglio: è un limite da abbattere per essere più produttivi, è un fattore da accorciare per non perdere tempo (per esempio a tavola, o nel cucinare), è un aspetto valutato con rigore dalle industrie alimentari perché anche il centesimo di secondo è prezioso. Invece il tempo giusto, necessario per fare bene le cose, sin dall’antichità, è stato un fattore essenziale nella gastronomia. È l’ingrediente che non si vede ma unisce, amalgama, rende buono, commestibile, digeribile. Il tempo è la variabile che trasforma, allunga, intensifica, dilata. E non è così solo per il cibo, vale anche per l’accoglienza: il tempo agisce sui sapori ma anche sulle sensazioni, le determina, le rende importanti. Ma arriveremo anche a parlare di questo, di accoglienza.
Se è vero che il cibo è lo specchio della società in cui viviamo quello del ventunesimo secolo è un cibo che tende all’ottimizzazione. È un cibo corto, rapido, confacente alla nostra corsa quotidiana. Una corsa molto dispendiosa, in cui spesso finiamo per starcene sulla superficie, per smarrire i valori che contano, per annacquare i momenti, i gesti, i sapori che, invece, andrebbero distillati e poi impressi nel tempo nel modo più semplice e personale che ci sia: la memoria. Sì, anche la tecnologia ha fatto i suoi danni, a proposito di memoria e ricordi che perdurano. Lo scatto a un piatto prima di assaggiarlo o a una preparazione prima di sapere se effettivamente è venuta buona ne sono l’esempio: abbiamo bisogno di fissare con una foto nella galleria quello che il nostro cervello fa sempre più fatica ad immagazzinare autonomamente, a conservare.
Il tempo nella filiera alimentare Come è considerato oggi il fattore tempo dalle filiere alimentari? Nel cercare di rispondere a questa domanda mi sono ritrovata in un tifone di considerazioni controverse. Un imprenditore impegnato nel comparto dei prodotti da forno sostiene come, nonostante le moderne tecnologie, il fattore tempo sia imprescindibile per decretare la qualità del prodotto finito. “Per ottenere un prodotto eccellente, distinguibile, con una texture riconoscibile, ci vuole tempo” dice. Non è una coincidenza se negli ultimi anni il comparto
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Da Oreste. Tortelli di zucca, burro acido e amaretti
della pasta, ma anche dei lievitati, e molti altri, abbiano messo la lentezza come una componente qualitativa. La lievitazione lenta, l’essiccazione lenta, la maturazione lunghissima… sono tutte espressioni rimarcate in rosso e con caratteri evidenti sulle confezioni che evocano qualcosa di tradizionale e lento, per cui si può spendere qualcosa in più. Ma le domande da porsi, per chiunque operi nel settore sono: siamo riusciti davvero a veicolare il messaggio? E quello veicolato era sempre vero? Abbiamo reso le persone consapevoli del valore del tempo nella preparazione o le abbiamo solo bombardate con locuzioni commerciali? Ho chiesto ad alcuni, estranei al settore alimentare e al mondo del fuori casa, di dirmi quale pasta comprano e perché. Il risultato è che sono andati in una direzione senza saperne il motivo. Comprano pasta a lenta essiccazione per fare bella figura con gli amici, perché il mercato glielo suggerisce, esattamente come acquistano i piatti pronti per la settimana perché il mercato gli garantisce praticità e velocità di consumo. Trovate la contraddizione in queste scelte? Non manca qualcosa in questo sistema di narrazione del tempo? Forse la ristorazione e l’industria non hanno lavorato sempre bene e in sinergia: non basta dire che ci vuole più tempo, bisogna spiegare perché è importante il tempo. Lo spot, il manifesto pubblicitario possono veicolare, ma sono proprio l’esperienza al ristorante, la tavola, a dover trasferire un messaggio chiaro, comprensibile. Altrettanto potremmo dire del rapporto tempo-salubrità del prodotto. Mi tornano alla mente, a questo punto, le considerazioni di una produttrice di birra artigianale che ha rimarcato come il tempo non sia responsabile solo
di una dimensione qualitativa, ma anche della digeribilità di alcune bevande o alimenti. Le fermentazioni, d’altronde, sono per definizione tempi di attesa che garantiscono un prodotto buono, in grado di conservarsi per il futuro, e lo rendono anche decisamente più digeribile. Ma tutti i produttori di birra artigianale, per esempio, rispettano i tempi giusti per ottenere un prodotto sano, buono, digeribile? O si avvalgono della definizione artigianale dimenticandosi la componente della lentezza?
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Il tempo della tavola Parto da una buona e da una cattiva notizia. L’Italia è sul piano globale uno dei Paesi che dedica più tempo alla tavola (due ore e cinque minuti al giorno, gli americani circa un’ora). La cattiva notizia è che si tratta di un dato del 2015 riportato su Cibo, il libro di Jacques Attali e chissà, a parità di indagine, cosa emergerebbe oggi. È comunque molto, molto poco, se consideriamo il ruolo sociale, conviviale, culturale che la tavola si è conquistata nei secoli. In sostanza trascorriamo di gran lunga più tempo sui social (la soglia delle due ore al giorno è per la maggioranza raggiunta e oltrepassata, non dite di no!) che non seduti a goderci del buon cibo e una sana conversazione. L’altra considerazione è qualitativa, strettamente legata proprio ai social e alla tecnologia: come trascorriamo il tempo a tavola? Basta alzare lo sguardo in un qualsiasi locale in centro urbano, e ormai non solo, per accorgersi che il momento (che dovrebbe essere) dedicato al cibo è costantemente interrotto da sguardi allo smartphone, allo smartwatch, personali o a quelli degli altri. Un automatismo che non appartiene solo ai giovani, anzi, e non è solo per urgenze lavorative, come tanti contro-
battono. Questo si vede nell’ordinario… il paradosso arriva quando lo strumento tecnologico è quello che consente, come dicevamo prima, di fissare compulsivamente nel tempo il ricordo di un piatto e di un momento, sminuendo il valore del presente. Anche qui il ristoratore può dare il suo contributo per governare il fenomeno. Chiedetevi: è giusto che la cucina si impegni per curare i dettagli del piatto, e la sala quelli dell’accoglienza, e poi gli ospiti siano inattenti, concentrati su dimensioni e apprezzamenti virtuali, e non sulle vostre parole, sulle vostre attenzioni, sulle sfumature e i significati di una pietanza o di una bottiglia? O, ancora, non accertandosi neppure del nome della persona che li serve al tavolo? Il ristoratore sì, può fare molto; non dando per primo il cattivo esempio (vale anche per i comunicatori del cibo), quindi riducendo l’eccesso di condivisione. L’attesa ha un ruolo ben definito nella logica del tempo, se viene sopraffatta da un eccesso di immagini e informazioni non c’è più tempo per la sorpresa, per il piacere finale. Le aspettative vanno dosate con il contagocce per tutelare il tempo a tavola!
Il tempo antagonista della modernità A novembre mi sono imbattuta in un ristorante chiamato Moderno. Poi ho appreso dal proprietario, con stupore, che si tratta di un’insegna con oltre sessant’anni di storia. Che lungimiranza! Verrebbe da dire… No, è che il concetto di modernità è relativo: appartiene al tempo esatto in cui si vive. La parola moderno definisce una prospettiva contemporanea che svanisce man mano che la lancetta dell’orologio fa il giro. A qualcuno sarà a questo punto suonato il campanello d’allarme: per definirsi moderni e contemporanei non basta essere allineati alle tecniche e tendenze odierne, bisogna essere in grado di stare al passo con tutti Locanda Mariella, una sala in cui il tempo è rispettato
i cambiamenti che verranno… o conviene cambiare nome. Il tempo per molti non è antagonista della modernità solo perché, avanzando, ne costituisce una nuova. Lo è anche perché ciò che viene lasciato indietro - per esempio la tradizione - sembra remare proprio contro il progresso, la modernità. Non è propriamente così. Riporto a tal proposito una storia che mi ha davvero stupita. Ho conosciuto un giovane cuoco e ristoratore che, dopo aver girato in lungo e in largo svariate cucine di ristoranti gastronomici è rientrato nell’attività di famiglia e, pur con tutte le risorse e le motivazioni per farlo, ha deciso di non intervenire sul luogo, né sul servizio né sulla cucina del ristorante. Ha ricucito il libro delle ricette di famiglia per continuare a replicarle, con qualche miglioria, ma senza snaturare nulla. Lo stesso per le tinte della sala, i quadri, gli oggetti. “Non me la sento di togliere al tempo futuro questo luogo del tempo passato in cui le persone vengono, stanno sempre bene, si godono il momento”. Il suo ristorante era pieno. Qui volevo arrivare. Questo è il tempo che basta. Un tempo di significato, scelto e goduto da tutte quelle persone che, vi assicuro, erano in sala a godersi piatti semplici e buoni senza distrazioni, parlando con chi avevano davanti senza bisogno di dimostrare qualcosa. Godendosi il tempo e il cibo.
ACCOGLIENZA Autrice: Simona Vitali clicca e leggi l’articolo sul web
Case Sottane: nasce una comunità rurale in Alta Val Taro Una possibilità, aperta a tutti, per tornare alle radici dell’accoglienza e della condivisione
Ci sono parole cariche di significato profondo come accoglienza, condivisione, che ricorrono di frequente nel nostro linguaggio quotidiano in modo trasversale, dalla vita privata al lavoro. Capiamo che hanno un peso importante nel nostro vivere ma spesso non riusciamo a dargli corpo come dovremmo. Quante volte l’accoglienza che riserviamo o riceviamo è scarica, sbiadita oppure dopata, percettibilmente un po’ finta e la condivisione non riesce così facile perché qualcosa non scorre, come se ci fossero degli intoppi ad una reale apertura... Ci hanno insegnato che ogni volta che perdiamo per strada qualcosa di importante è bene che facciamo qualche passo indietro per recuperarlo, riavvolgendo il nastro. Ciò che stiamo per raccontare è un progetto in corso d’opera, certamente il più estremo, forte e coraggioso fra quelli che sono gravitati da queste pagine e che riteniamo sia utile conoscere, 26
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dato che sarà accessibile a tutti, per quel bisogno di alimentare la nostra vita, personale o professionale che sia, che prima o poi fa capolino e ci chiama a rapporto. L’intenzione è quella di ricreare una comunità rurale in un borgo il cui insediamento originario pare che risalga addirittura al 1400, denominato Case Sottane, nell’alta Val Taro (PR) - composto da nove edifici in pietra, una stalla di 660 mq e una barchessa di 400 mq, senza contare l’estensione dei terreni agricoli e del bosco circostante - abitato fino agli anni ’50 da famiglie di agricoltori, poi parzialmente ristrutturato in tempi piuttosto recenti dalla nuova proprietà, per cadere infine in stato di abbandono, inghiottito da piante e rovi. Un luogo praticamente dimenticato ma di cui qualcuno da alcuni anni stava andando alla ricerca, perché aveva in testa un progetto ben preciso da realizzare, che non ha a che fare col mero ripopolamento di un borgo abbandonato (magari incentivato dalla vendita di case a basso prezzo, iniziativa comunque lodevolissima) ma
tivazione di frutta e verdura, con il metodo dell’agricoltura biologica, a quell’epoca ancora in fase embrionale. Ad animarli anche un desiderio di accoglienza sociale, per cui – già dopo il primo anno di attività - non hanno tardato ad ospitare in diurno un ragazzo di una comunità di minori, perché la sua giornata fosse impegnata. A lui sono seguite altre persone in difficoltà per i più svariati motivi, in accordo con i servizi socio-sanitari del territorio, per un percorso riabilitativo della durata di tre anni. Intanto la produzione di ortaggi e frutta, unitamente a una selezione di prodotti di altre aziende del territorio, ha trovato il suo naturale sbocco in un piccolo spaccio nell’azienda e pure nel mercato settimanale del paese, divenendo nella zona un riferimento di qualità. Il meglio forse non era stato previsto: quell’azienda agricola è divenuta, visti i buoni risultati ottenuti con l’accoglienza, Fattoria sociale e quindi si è dedicata ancora di più all’accoglienza sociale - arrivando ad
Gioivanni Codeluppi e Alessandra Zerbini
con un “disegno” ancora più importante aperto all’intera collettività.
Un primo passo Per comprendere questo “disegno” è necessario che partiamo da quella che, 27 anni fa, è stata la scelta di lavoro e di vita di Giovanni Codeluppi e della moglie Alessandra Zerbini, con l’abbandono di un lavoro dipendente, lui come serigrafo e lei come infermiera presso uno studio dentistico, per avviare un’azienda agricola, Terra e sole, a Collecchio (PR), dove dedicarsi alla col-
ospitare in diurno una quindicina di “persone in difficoltà” (come le definiscono Giovanni e Alessandra, che amano pensare che quella difficoltà, di diversa natura, non le caratterizzerà per un tempo infinito) tutte coinvolte, a seconda delle possibilità, nell’attività della fattoria. E già questo è un passaggio notevole perché siamo bravi a parcheggiare persone in strutture ma è il lavoro in un tessuto di vita ordinario che le nobilita, e sono sempre troppo poche le realtà dedicate a questo. La cosa ulteriormente sorprendente è che Terra e sole si è inoltre palesata come un luogo dove si vivono rela| dicembre 2022
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zioni positive in senso più ampio. L’accoglienza non è rimasta vincolata solo ai servizi sociali ma si è aperta, in modo naturale, a 360°. “Ci sono persone del luogo, un po’ sole – racconta Giovanni - che hanno iniziato a venire qui con noi per stare in compagnia. Ma anche clienti che si sono veramente affezionati ai ragazzi (in alcuni casi un po’ cresciuti!) con cui si intrattengono, prolungando il momento della spesa. Una sorta di appuntamento atteso da entrambi”.
Un altro passo: il più grande È il 2012 quando Giovanni e Alessandra sentono che è giunto il momento di fare un altro passo: condividere la propria esperienza quotidiana insieme ad alcuni amici, in una dimensione più grande, una comunità, per cui iniziano a perlustrare l’appennino parmense alla ricerca del posto giusto. “Dopo diverse valutazioni finalmente cinque anni fa arriva la soluzione, grazie all’amico Guido Sardella – racconta Giovanni - che ci porta a visitare un borgo rurale in stato di abbandono vicino a Porcigatone, frazione di Borgotaro (PR). Ricordo ancora l’energia che ho avvertito entrando in quel luogo, con un panorama che mi ha stregato e fatto dire ‘questo è il posto giusto’. È arrivato così il momento di strutturarci, per cui creiamo l’Associazione di Promozione Sociale e culturale Case Sottane, potendo contare sul supporto di persone, che pure entrano in associazione, mettendo a disposizione la propria professionalità ed esperienza per la causa. A quel punto prendiamo contatto con la proprietà di Case Sottane, una famiglia di Mantova, che anni prima aveva iniziato un’operazione di ristrutturazione, per un progetto di accoglienza turistica poi interrotto per cause di forza maggiore. Dopo un anno di trattative concordiamo un contratto d’affitto per 36 anni.
La visita a Case Sottane: un progetto che si concretizza sotto gli occhi Ci portiamo in quota, in Alta Val Taro e saliamo per una dozzina di km fino a Porcigatone per poi prendere una strada stretta che scende costeggiando poche case abitate e poi un prato verdissimo, dove pascolano cavalli bardigiani con tre cani che gli fanno la guardia, un quadretto inusuale e bellissimo. Più oltre, dove la strada finisce e regna incontrastata la natura, troviamo un cancello con affissa a lato una grande mappa, che ritrae, in modo naif, il complesso di Case Sottane: quadrotti rossi, ben nove, che stanno per gli edifici, numerati in bianco e dislocati lungo un asse intorno a cui sono distribuite macchie verdi (le piante) come a dire “ecco cosa state per vedere”. Una legenda a lato spiega la funzione di ciascuna struttura, dando già percezione di come il progetto sia multiforme. Giovanni scende dell’auto e ci indica con il dito un com-
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plesso di case più in alto, in lontananza “vedete, quello è Porcigatone, l’abitato principale, a cui questo sta sotto, ecco il perché di Case Sottane” e poi volge lo sguardo agli edifici in pietra che ci appaiono davanti agli occhi: “il primo sarà adibito all’accoglienza turistica, il secondo a residenza, quello accanto a biblioteca e sala studio, il quarto è una sala comune bellissima che possiamo mettere a disposizione, oltre che per noi, anche per incontri/ iniziative esterne. Naturalmente avremo anche qui, come a Terra e Sole, un punto vendita con i nostri prodotti. Quella che vedete più oltre è un’altra struttura adibita all’accoglienza. E poi arriviamo a ciò mi ha fatto innamorare davvero di questo luogo: l’edificio che diventerà refettorio, con una terrazza che guarda al crinale appenninico, dove si distingue bene passo della Cappelletta e passo del Bocco: appena oltre c’è la Liguria. Laggiù invece ci verrà un magazzino per gli attrezzi. Non va dimenticato che c’è poi una stalla di 600 mq, 60 ettari di terra e 120 ettari di bosco”. In questo luogo condivideranno un percorso di vita e di lavoro persone che riconoscano la solidarietà, il rispetto della persona umana di qualsiasi provenienza, estrazione sociale e religione, la tutela dell’ambiente, l’accoglienza come valori irrinunciabili di una comunità. Nello specifico saranno cinque famiglie che vi abiteranno stabilmente. Ci sarà poi un’accoglienza residenziale per otto persone in difficoltà (il residenziale sarà la vera novità rispetto a Terra e Sole) e un’accoglienza diurna per altre 15, impegnate in un tirocinio formativo, finalizzato all’inserimento lavorativo, come da tanti anni fanno a Terra e Sole. “Accoglieremo quello che sarà alla nostra portata - precisa Giovanni - Non siamo una comunità terapeutica ma una comunità di famiglie che accoglie persone, le quali avranno beneficio dallo stile di vita della comunità stessa”. Verrà poi attivata un’accoglienza turistica con 23 posti letto. La comunità sarà caratterizzata da uno stile di vita molto ordinario: tutte le persone che vi abiteranno saranno impegnate, a vario titolo, a portare avanti le attività rurali connesse a questo luogo e di questo vivranno (attività agricole di allevamento e coltivazione, laboratorio di panificazione, laboratorio di trasformazione, accoglienza turistica...). Verrà attivato un refettorio comune che funzionerà anche da ristorantino rurale per gli ospiti. Un laboratorio attiguo consentirà la produzione di pane e prodotti da forno e pure di succhi, confetture e infusi.
La notizia: il progetto ha vinto il bando PNRR per le architetture rurali Succede che una meta tanto agognata su cui non si è mai persa la motivazione, nonostante la consapevolezza
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di un lungo percorso, diventi all’improvviso più vicina, come se si fosse imboccata una discesa, ad accorciare notevolmente le distanze. Sono giorni di gioia grande per tutti i sostenitori di Case Sottane, che hanno appreso da pochissimo che il progetto ha vinto il bando PNRR per le architetture rurali, segno che è stato ritenuto buono e ben articolato. Giovanni Codeluppi lo comunica sul suo profilo Facebook, non mancando di ringraziare le tante persone che hanno saputo esserci, ognuno mettendoci del proprio e assicura “ora continuiamo il lavoro con forza e decisione nel raggiungere il nostro obiettivo”. A partire dal primo step che contempla il completamento di quattro delle strutture per consentire alle prime due famiglie di insediarsi e di ospitare stabilmente due dei ragazzi in residenziale oltre ad attivare l’accoglienza turistica.
Chi potrà beneficiare dell’ospitalità di Case Sottane Tutti! È un luogo aperto che non si pone alcuna pre-
clusione. Potranno farlo i singoli, desiderosi di vivere qualche momento di stacco in solitaria piuttosto che condividendo il quotidiano della comunità. Alle aziende sarà data l’opportunità di organizzare per i propri dipendenti team building di uno o più giorni, grazie alla possibilità dell’accoglienza turistica, coinvolgendoli nelle attività rurali o nei laboratori di panificazione o trasformazione, per rinsaldare lo spirito di gruppo e rendere più fluide le relazioni, come accade ogni volta che viene lasciato emergere il lato più umano delle persone. Ci sarà inoltre a disposizione una struttura completamente dedicata a riunioni, incontri, corsi di formazione e sempre, in tutti i casi, il momento conviviale condiviso con tutta la comunità lì insediata. I ristoratori, gli osti, gli albergatori potranno invitare il proprio staff a calarsi in una dimensione in cui l’accoglienza nell’accezione più vera la si si respira nell’aria, anche soltanto trascorrendo una giornata nella pace di quel luogo, guardandosi intorno, intrattenendosi a parlare con chi vive lì e sperimentando il piacere della condivisione di un pranzo frugale.
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IN SALA Autore: Luigi Franchi
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Giulia Battistini: la Trattoria Da Lucio è una piccola oasi felice In sala e in cucina abbiamo tutti la stessa giovane età e la stessa visione delle cose Da Lucio sembra sia un nome che rimanda alle trattorie di cinquant’anni fa, quando il nome dell’oste era garanzia di qualcosa, non sempre di mangiar bene ma una cosa buona almeno doveva averla: il vino, o l’accoglienza o il posto. Qui, Trattoria da Lucio, invece riporta il nome del figlio, il piccolo Lucio di quattro anni, del cuoco patron del locale: Jacopo Ticchi, e di buono ha moltissime cose. Il cibo, con il pesce che arriva solamente dal mare Adriatico, quel mare di Rimini dove la trattoria si trova; un pesce che, in questo luogo, non ha spreco alcuno, dalla testa alla coda è, infatti, il titolo anche dell’ironico video che apre il loro sito. Il vino che si esprime in una carta originalissima, frutto di ricerca vera, di visite ai produttori, di scambio di informazioni tra tutto lo staff. Il locale, nel cuore di Marina Centro, che offre una visione di Rimini avulsa dal turismo massificato. Ma soprattutto il calore che qui si coglie appena si varca la soglia della trattoria. Non ho mai trovato, finora, un locale dove riconosci subito la felicità, quella vera, quella di persone che lavorano, certo, e anche tantissimo, ma lo fanno con una gioia, con uno spirito di squadra, con la precisa volontà di offrire una serata a tutti gli ospiti dove ogni cosa va per il verso giusto. Persone giovani, tutte, che sanno sorridere senza infingimenti, che ti danno
I frigoriferi per la frollatura
tutto il tempo che vuoi per scegliere, che ti sanno raccontare tutto dello chef, della sua idea di cucina, senza fronzoli, senza etichette, solo con il desiderio che tu stia bene davvero Da Lucio.
Condividere È un verbo molto di moda nella ristorazione, alcuni locali lo hanno anche scelto come nome del ristorante. Eppure condividere è uno degli esercizi più difficili da svolgere in questo settore. Vuoi perché gli ospiti sono mutevoli, come carattere, come gusti; vuoi perché il rapporto tra il titolare e la brigata non è quasi mai trasparente; vuoi per tanti altri infiniti motivi. Ebbene, Da Lucio la condivisione è lo stato naturale delle cose. Lo abbiamo provato, lo abbiamo capito subito, quando Giulia Battistini è venuta al nostro tavolo. Chi è Giulia Battistini? Non ha un ruolo preciso, ben definito come vorrebbe la storia della ristorazione dai tempi di Escoffier: un compito diverso per ognuno fa funzionare bene il ristorante. No, qui non funziona così. Da Lucio si aprono continuamente nuove porte, non si è mai fermi, ingessati, non c’è qualifica. E Giulia questo lo sa bene. Sorride quando le dico che vorrei scrivere di lei, non le importa, a meno che non serva a qualche altro per capire cosa significa scoprire quante opportunità ti offre questa professione di sala. Le prometto che è proprio questo l’obiettivo dell’articolo, ci scambiamo i cellulari e, dopo qualche giorno, mi chiama e nasce questa chiacchierata da condividere.
Perché lavoro da Lucio “Sto studiando Scienze e cultura della gastronomia all’Università di Cesena. – comincia così l’intervista a Giulia Battistini – Da Lucio ci sono da due anni, l’ho scelto perché avevo visto un post su Instagram, avevo già mangiato Da Lucio, il miglior pranzo della mia vita. E poi conoscevo già il metodo della frollatura del pesce, l’avevo scoperto in un viaggio in Australia. Infine volevo un lavo-
La griglia della trattoria
ro attinente ai miei studi, volevo capire quali possibilità mi dà laurearmi in scienze gastronomiche. Ero in Svizzera in quel momento e sono tornata per stare con loro”. Tantissime, le dico, è una materia fortemente interdisciplinare: ristoranti, enoteche, aziende agricole, produttori alimentari, imprese della distribuzione, comunicazione. Sono davvero tante le ipotesi di lavoro in un settore che diventerà sempre più importante per la vita delle persone. Ma Da Lucio ci stai bene vedo… “Sono arrivata qui guardando il suo sito, scoprendo la sua originalissima cucina, perché stavano cercando una persona che si occupasse dei vini ed eccomi qui. Sto facendo delle bellissime scoperte con la conoscenza diretta di vignaioli, distributori, clienti amanti del vino”. Ma come fai a conciliare studio e lavoro, con una professione come questa che richiede un tempo mai definito? “Con Jacopo e con i miei colleghi abbiamo diviso il tempo lavorativo, non lasciando indietro nulla. Questa è la dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che la collaborazione risolve moltissimi problemi e qui è la parola d’ordine a cui tutti ci atteniamo, senza sforzo alcuno”. | dicembre 2022
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Giulia Battistini
Jacopo Ticchi, quest’anno, ha fatto una scelta molto audace per il luogo in cui si trova: Rimini. Ha scelto di non cucinare pesce in piena estate perché c’era il fermo pesca: come avete vissuto il momento? “Con la trattoria ugualmente sempre piena. Abbiamo cambiato il menu, gli ospiti hanno capito e apprezzato. L’ennesima conferma che tutte le difficoltà portano con sé sempre qualcosa di positivo”. Come ti rapporti, o vi rapportate con i vostri fornitori? “Non è un compito prevalentemente mio, ma condividiamo con Jacopo anche questo. Lui ha fatto una scelta, andare da loro e loro vengono da noi: dal pescatore al fornitore di pesce; dall’affinatore di formaggi di Roncofreddo al vignaiolo. Passano tutti da noi, è un modo per conoscere da parte di tutti un metodo di lavoro che può portare a nuove idee”. Perché nella vostra sala c’è un clima così bello? “La Trattoria Da Lucio è una piccola oasi felice, lontana dalle aspettative ovvie. Non sapendo cosa li aspetta tutte le volte che gli ospiti ci vengono a trovare abbiamo carta bianca nel rapporto con loro. Ma soprattutto perché in sala e in cucina abbiamo tutti la stessa giovane età e la stessa visione delle cose. In mancanza di questo forse non sarebbe possibile, non ci saremmo riusciti”. E aggiunge: “Non mi troverei così bene in un altro ristorante. L’idea della sala che c’è qui è uscita da me perché ho introdotto un’informalità che, in altri luoghi, non sarebbe riconosciuta come valore. Qui gli ospiti percepiscono il nostro messaggio: non ti preoccupare, sei a casa, siamo giovani e vogliamo fare qualcosa di bello e di buono”.
piccola ricchezza. Ai colleghi dico: state trovando qualcuno di interessante? Fermatevi con lui, vi copro io”. Il viaggio è importante per te, vero? “I genitori mi hanno dato l’opportunità di conoscere il mondo. Viaggiando ho scoperto la straordinaria capacità di adattamento che abbiamo dentro, ho acquisito stima di me stessa. Nei viaggi parto sempre da sola perché solo così entri in contatto con molti stimoli e riesco a focalizzarmi su quello che portano alla mia persona. C’è bisogno di un po’ di coraggio all’inizio ma la voglia di scoprire vince su tutto”. Come vivi questa società così precaria? “La vivo abbastanza bene perché mi permette di evolvere sul lungo periodo. Ho sempre trovato una via d’uscita, anche quando era difficile. Come dire? È una situazione che permette a chi vuol fare di riuscirci, l’importante è avere e tenere la mente aperta. Questo consente di superare l’angoscia del breve periodo, della falsa sicurezza in cui siamo cresciuti come popolo italiano. Anche in questo caso molto ha fatto il viaggiare perché ti insegna a sopravvivere in ogni piccola o grande difficoltà”:
Come trasferisci questa visione delle cose? “Parlando tanto, non sulla parte tecnica della cucina o del servizio, bensì cercando e trasferendo empatia. Io sono una grandissima amante dell’umanità, forse perché ho viaggiato molto e, in questo momento, il viaggio è attraverso le persone che sono al tavolo. Ognuna di loro è una
Torniamo al lavoro: come affrontate le situazioni difficili, come quella in cui stiamo entrando con i costi alle stelle delle materie prime e dell’energia? “Stiamo lavorando molto e bene ma questo non significa che sarà sempre così. Facciamo molti incontri con Jacopo e con lo staff e, in questi incontri maturano idee che ci permettono di realizzare entrate parallele al ristorante: eventi, collaborazioni, Jacopo nelle scuole. Se il contesto fosse facile non avremmo creato tutto questo. Abbiamo una lista enorme di stagisti che vogliono venire da noi. Stiamo, insomma, vivendo a mente aperta. Ovvio che non puoi avere 12 persone in cucina e sette in sala come sarebbe necessario però abbiamo raggiunto la quadra anche in questo”. La Trattoria Da Lucio fa parte di Amodo, la rete dei ristoranti etici e ne ha davvero tutte le carte in regola.
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FARE RISTORAZIONE Autrice: Simona Vitali
C’è un tempo per ogni cosa Manifattura Alimentare a Ferrara: la scelta, attuale, di Pierluigi Di Diego e Laura Galantuomo clicca e leggi l’articolo sul web
www.manifatturaalimentare.it
Ci sono professionisti che nel loro percorso possono decidere di fare quello che vogliono perché tanto riusciranno sempre, magari aprendo pure nuove strade. È la riflessione che sgorga inevitabilmente nel ripercorrere ciò di cui sono stati capaci Pierluigi Di Diego, chef stellato, enfant prodige dell’indimenticato Trigabolo e cuoco stellato del Don Giovanni e relativo bistrot di Ferrara e a Laura Galantuomo, brillante direttrice di Hotel Duchessa Isabella e Hotel principessa Leonora, 5 e 4 stelle a Ferrara che, a un certo punto, ha deciso di portare la sua professionalità nella sala dello stesso Don Giovanni, apportando - di fatto - ulteriore valore all’attività del marito Pier Luigi. Quattordici anni di stella Michelin quella del Don Giovanni, limpidi, con un’attività in salute che mai ha dato segno alcuno di criticità. Se non quel neo del vicino bar troppo esuberante, capace di disturbare la quiete del ristorante, a cui è seguita la decisione inesorabile da parte della coppia di non rinnovare il contratto di affitto, comunicare alla Michelin la sospensione dell’attività, ottenendo la gradita notizia del suo congelamento in attesa di valutare il nuovo, e prendersi un anno sabbatico alla ricerca di un’accogliente location da cui ripartire, perché questa era l’intenzione. “Abbiamo iniziato a guardarci intorno – ricorda Pierluigi di Diego - finché un giorno, passando davanti a una vetrina con il cartello ‘affittasi’ siamo rimasti colpiti da quell’ interno, con quattro splendide colonne in marmo. Non restava che accordare un appuntamento per prenderne meglio visione. E qui, non appena ci ho messo piede, mi è scoccata la scintilla: e se proponessimo piatti buoni e belli da consumare a casa propria, offrendo al tempo stesso anche la possibilità di fare una piccola consumazione in loco? - ho esclamato volgendomi verso Laura con aria di intesa - Sarebbe una nuova sfida per noi!”.
Un nuovo modello di alta cucina
Pierluigi Di Diego e Laura Galantuomo
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“Da quel momento – prosegue Laura - il nostro impegno è stato quello di creare un posto di libertà che noi stessi avremmo desiderato trovare dopo anni di tanto rigore, in cui dare al cliente la possibilità di fare quello che aveva voglia di fare: mangiare come al ristorante nel comfort di casa propria? Una breve degustazione in loco di cappelletti di Re Bianco alle 10 del mattino piuttosto che alle 17 del pomeriggio? | dicembre 2022
Acquistare speciali prodotti accuratamente selezionati? Tutto sotto il cappello di quella filosofia del buono, del sano e delle cose fatte bene a cui ci siamo sempre ispirati. Ci siamo occupati personalmente di ogni aspetto organizzativo di questa nuova attività, a partire dal nome: Manifattura Alimentare, importantissimo per dare immediata percezione di cosa intendessimo fare, letteralmente trasformare alimenti con le mani. Nessuna distesa di salumi appesi o grandi banchi formaggio. L’intenzione non era quella di dar vita a una gastronomia”. “Un aspetto gratificante – ci spiega Pierluigi – è stato il poter contare su due ragazzi che lavoravano in cucina con me al Don Giovanni, da cui mi sono portato anche i miei storici fornitori. È marzo 2018 quando mettiamo piede nel locale. Lo ricordo come se fosse oggi: una volta aperta la porta ci ha avvolto un tepore, senza che ci fossero i termosifoni
accesi, come di casa. Una bella sensazione”. La nuova avventura inizia il 25 settembre dello stesso anno e da subito si focalizza sull’asporto, vantando un banco che è un tripudio di proposte ogni giorno diverse, tra verdure - tante! - pesce, carne, senza che manchi mai il pasticcio di maccheroni – piatto identitario di Ferrara - anolini con ripieno di suino Re Bianco, pasta fresca, pane autoprodotto (a partire dalla rinomata coppia ferrarese) dolci al cucchiaio, tarte tatin, cioccolateria... tutto secondo le migliori ricette di uno chef che continua a onorare il suo mestiere con lo stesso credo, lo stesso invariato entusiasmo, non dimenticando mai - come è solito dire -che proprio quello lo ha fatto diventare uomo. A rincarare la dose dell’impegno quotidiano anche la volontà di consentire ai clienti una breve e informale sosta in loco, dove sono dislocati tavolini alti di appoggio, per poter degustare piatti espressi, secondo il menù del | dicembre 2022
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giorno, fra cui certi indimenticabili piatti del Don Giovanni, come il celebre AOP – aglio, olio e peperoncino su vellutata di Parmigiano Reggiano; la terrina di canocchie con pomodori confit e pesto di basilico; tagliolini ostriche, limone e caviale.
La selezione di prodotti di Laura Galantuomo A coronamento di questo stimolante viaggio nel gusto c’è una selezione di prodotti, curata personalmente da Laura, forte delle precedenti esperienze lavorative ma anche di una meticolosa e continua ricerca. Eccellenze vere che si palesano a partire da qualche riconoscimento (pochi perché la selezione è veramente particolarissima) come nel caso del latte Salvaderi, la cui qualità è ormai nota e al tempo stesso la distribuzione è molto centellinata. Per il resto si spazia di regione in regione ma anche fuori dall’Italia (interessantissima una pasta marchigiana di semola di grano duro e orzo, cannolicchi naturali di un’azienda portoghese, biscotti fatti a mano da una ragazza giramondo che della pasticceria ha raccolto tanti segreti...). Proposte battezzate in modo deciso: una per tipo e non di più (una sola azienda di pasta, caffè, confetture ecc.). Il periodo natalizio rappresenta certamente un’apoteosi di proposte, tant’è che da dopo il 10 dicembre viene sospeso il servizio ai tavoli per lasciare spazio al rito della personalizzazione dei pacchi da regalo. “Le aziende che scelgo -spiega Laura- devo sentirle mie, sapere bene cosa c’è dietro il prodotto e raccontarlo, dato che hanno pure un costo. Fare informazione sul cibo è un altro dei motivi per cui è nata Manifattura Alimentare. A parte le nozioni che i nostri clienti acquisiscono frequentandoci, per cui imparano a chiamare - ad esempio - le cose con il loro nome, abbiamo deciso di creare anche una libreria con parte dei nostri libri, nella speranza che qualcuno mentre degusta anche solo un caffè con un buon dolce sia tentato di sfogliarne uno. Il messaggio che
svetta dalla libreria a muro è chiaro “ I libri si possono visionare, leggere, fotografare”.
Anticipare i tempi “Ci sono voluti un paio di anni di rodaggio per metterci in bolla - racconta Pierluigi. Abbiamo dovuto rifidelizzare i clienti in un’altra veste. Con diversi di loro il passaggio è stato naturale, per altri difficile da comprendere. Ma come ripete Laura, memore degli insegnamenti del suo maestro di hôtellerie, il cliente più ostico deve diventare il cliente del cuore e allora sì che sai fare il tuo lavoro”. “Si trattava di fargli capire – prosegue Laura - che ora l’attenzione andava spostata sul contenuto e non sul contenitore. In compenso abbiamo guadagnato clienti nuovi. C’è anche da considerare che il banco è alla portata di più tasche, rispetto al Don Giovanni. Sta di fatto che il sopraggiungere della pandemia ci ha trovati pronti, ci è scoppiato il lavoro in mano. E devo dire che stiamo continuando a lavorare”. Senza volerlo, o in un qualche modo intuendolo, Pierluigi e Laura è come se avessero intercettato i tempi che stavano per maturare. Nel loro caso non c’è stato bisogno di alcuna conversione, erano già sul pezzo. Oggi contano una clientela variegata, dal vecchietto al giovane, dal professionista alla famigliola a cui si preoccupano di fare trovare un banco ricco, che comporta di essere sempre di corsa per poterlo riempire a dovere. “Le nostre giornate – racconta Pierluigi - iniziano presto. Io personalmente vado ad acquistare il pesce. Quello che trovo determinerà il menù della giornata. E questa per me è libertà: non essere vincolato ad un menù. E cosa ancora più bella quando il cliente, e ce ne sono diversi, mi dice ‘fai tu!’. Quanto alla carne acquisto un quarto di bestia alla volta, lo smonto io (non sono per le scorciatoie ma per l’esercizio della tecnica) e ci ricavo tantissime ricette, tutte accolte con favore. Vorrei avere il tempo per farne ancora di più!”
Cos’è cambiato nel passaggio dal Don Giovanni a Manifattura Alimentare “Questa attività ci impegna tantissimo – riflette Laura - tuttavia bisogna riconoscere che è cambiato completamente il nostro stile di vita. Pur facendo ancora tante ore, e sempre di corsa, la nostra vita si è più normalizzata, nel senso che alle ore 20 chiudiamo, per cui se – ad esempio – vogliamo andare al ristorante lo facciamo”. Ciò che invece è rimasto invariato sono è il concetto di qualità, tenuto alto come una bandiera, e quella professionalità su cui entrambi hanno investito negli anni e che mettono a frutto ogni giorno. Aveva 25 anni Pierluigi quando ha avuto la grande opportunità di lavorare al Trigabolo, il ristorante italiano che ha cambiato la visione della cucina nel nostro Paese. “Un’esperienza straordinaria – così la descrive Pierlugi - rispetto a quel che avevo vissuto fino a quel momento, peraltro in buoni ristoranti, che mi ha stregato per l’energia che correva in quella cucina, la gran voglia di fare, l’utilizzo di materie prime mai viste, la nascita di piatti di senso con pochi elementi...”. Una sorta di reset per lui che pensava di conoscere già il mestiere, una ‘rinascita’ che certamente ha avuto la sua incidenza sui risultati raggiunti a seguire . Laura, invece, nella sua esperienza di 25 anni di hôtellerie si è forgiata, complice anche un importante percorso di formazione, nel rapporto con il pubblico: “Ti passano davanti tante persone– dice- e tu devi sapere dare il meglio e accontentare tutti e – importantissimo - non fare distinzioni”.
Una brigata felice Se c’è una cosa di cui Pierluigi va fiero è l’avere con sé due dei suoi ragazzi, quegli stessi della brigata al Don Giovanni. Corre una bella energia nella cucina di Manifattura Alimentare e molto dinamismo. “Qui non c’è il capo-partita che si dedica solo a quello – spiega Pierlugi - Mattia Fiore ad esempio al mattino prepara un grande
assortimento di verdure e durante il servizio si dedica ai primi, Francesco Edipi realizza i dolci, che sono tanti e molto golosi, ma all’occorrenza si presta per altre produzioni. Martina Veronese, si dedica alla pasta fresca e, se le avanza tempo, a ciò di cui c’è bisogno”. La regola è che tutti quanti devono essere in grado di fare tutto (compreso servire al banco! E bisogna vedere come prendono il cliente...) Sorridenti, simpatici, scambiano una battuta volentieri. Mattia racconta di quanto sia stato gratificato dalla chiamata di Pierluigi in procinto di aprire questa nuova attività, una sorta di convocazione in nazionale per un allora ventenne! E poi non ha dubbi sul preferire questa formula a quella del ristorante, per quel poter variare le preparazioni che consente di imparare molto di più. Anche Francesco rimarca il concetto espresso da Mattia, sottolineando come rispetto a prima, la qualità è sempre quella ma non avendo ciascuno soltanto una propria linea, si fanno molte più lavorazioni, per cui si cambia sempre. Inoltre ci si aiuta più. Martina è l’ultima arrivata. Laureata in giurisprudenza, grande appassionata di cucina, lavorava nello studio di un avvocato, finché non ha maturato la decisione di frequentare un’accademia di cucina a Bologna. Poi lo stage in Manifattura e l’assunzione. Da quasi due anni fa parte della brigata. Su una cosa sono tutti d’accordissimo: terminare il lavoro alle 20 di sera gli consente di vivere! “Abbiamo tempo – Francesco si fa portavoce per tuttiper la nostra vita sentimentale, per stare con gli amici, in una parola per fare una vita normale!”. Affermazione che viene accompagnata da una sorta di ovazione di pieno consenso. Sorridono Pierluigi e Laura a questi ragazzi di cui, si vede, vogliono il bene. Un flusso di ingressi continuo, ininterrotto, mai fastidioso ha animato lo spazio di Manifattura Alimentare nel tempo, non breve, della nostra permanenza. La clientela è come uno specchio: riflette. | dicembre 2022
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Grow, un germoglio accudito ad Albiate L’idea di crescita e accudimento dei fratelli Riccardo e Matteo Vergine in un piccolo ristorante di periferia Autrice: Giulia Zampieri L’accudimento è una pratica complessa, che richiede pazienza, capacità di gestione, vigilanza, coerenza. Cito l’accudimento perché Riccardo e Matteo Vergine, due giovanissimi ristoratori brianzoli (28 e 25 anni), hanno fatto dell’accudimento il perno della loro attività: Grow, un ristorantino che in poco più di un anno di attività si è ritagliato un posto speciale ad Albiate, piccolo comune a nord di Monza. Grow - che in inglese significa crescere - si sviluppa su una sala di novanta metri quadri che termina su una lunga e stretta finestra da cui si intravede la cucina, lo spazio di Matteo. La sala invece è costituita da cinque tavoli, avvolti da arredi semplici e lineari, ed è il luogo di Riccardo. Un occhio attento scorge subito un dettaglio: al posto di bottiglie di grandi formati e preziosi oggetti di design ci sono dei barattoli in vetro, che loro chiamano “soprammobili organici”, ospitano le loro conserve e verdure fermentate. Un indizio che ci porta subito a parlare con loro di vegetali e orto, elementi che hanno connotato Grow sin dal primo giorno.
Foto: Lido Vannucchi
Matteo e Riccardo Vergine
La sostenibilità… sociale Ormai sembra che senza un orto non si possa aprire un ristorante. Per voi cosa rappresenta? “Orto è una parola abusata nella ristorazione contemporanea. In molti casi dietro si cela una speculazione commerciale. In alcuni, indagando un po’, si scopre che il rigoglioso orto è composto da qualche erba aromatica. È molto diverso rispetto a una fonte di approvvigionamento che fornisce il 100% di materie prime vegetali al ristorante. L’altro aspetto da combattere è il concetto che orto implichi sostenibilità: no, per essere sostenibili bisogna fare molto di più”. E il di più lo racconteremo passo passo in questa intervista. Ma già all’interno di quest’orto c’è una particolarità: il contributo sociale. “Il nostro orto è cambiato dall’inizio ad oggi, ci siamo avvicinati al ristorante aderendo a un progetto stimolato dalla Cooperativa Sociale In-Presa e messo a punto dalla Regione Lombardia e dall’Associazione di Volontariato Antonia Vita. È uno spazio decisamente più ampio su cui lavorano in sinergia volontari, persone affette da disabilità, ex detenuti che faticano nel reinserimento in società, e naturalmente noi. È davvero un’iniziativa di convergenza sociale visto che tutto ciò che viene impiegato nell’orto proviene da donazioni volontarie, compreso il suolo. Per l’irrigazione abbiamo un serbatoio per l’acqua piovana. L’orto rappre-
senta una risorsa fondamentale per Grow: in ogni stagione abbiamo una fornitura di verdure che sappiamo esattamente come e dove vengono prodotte e sappiamo, inoltre, che rappresentano lo ‘scopo’ per molte persone. Non è un fazzoletto di terra… ma qualcosa di più importante”.
Energia, fornitori, riscaldamento L’accudimento, dicevamo all’inizio, è un esercizio complesso. Non basta annaffiare una pianta per farla crescere sana o dare nutrimento a un animale per renderlo vigoroso. Vale anche per un ristorante che vuole definirsi sostenibile: non è solo una questione di fornitura locale e tinteggiature verdi. Matteo e Riccardo hanno pensato praticamente a tutto: l’energia proviene al cento per cento da fonti rinnovabili; non hanno gas nella struttura (se non per emergenze estreme); gli arredi sono stati realizzati con materiale di recupero e, naturalmente, tutte le scelte di cucina sono ragionatissime, pensate per generare il minor impatto ambientale possibile. Acquistano solo animali interi e per ogni materia prima non vengono prodotti scarti: si utilizza tutto. Inoltre alle verdure dell’orto si aggiungono i prodotti raccolti nelle vicinanze. A questo punto, chiediamo a loro: qual è in questo periodo storico l’aspetto più difficile da gestire nel vostro ristorante? | dicembre 2022
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“Non ti risponderò quello che probabilmente ti risponderebbero molti altri ristoratori. Non abbiamo avuto problemi legati agli aumenti del gas perché non ce l’abbiamo. Idem per l’energia; avendo un fornitore che ci fornisce energia da fonti rinnovabili non abbiamo avuto alcun tipo di carenza o speculazione. In quanto al costo delle materie prime, anche lì, non mi sento di sottolineare degli aumenti. Spesso gli aumenti delle materie prime sono dettati da costi di logistica e imballaggi a prezzi folli. Essendo i nostri fornitori piccoli, e avendo un rapporto diretto con loro, questi segmenti di aumento li abbiamo abbattuti. I problemi semmai per la nostra attività sono legati alla natura che ha spostato di molto in avanti il suo calendario e ricondotti alla gestione di alcuni specifici prodotti. Non è semplice lavorare con animali interi e trovare il modo di ridurre a zero gli scarti”.
Una cucina che funziona anche in periferia Albiate è un comune di poco più di seimila anime, non certo l’ombelico del mondo. Però è un luogo in cui si sta e si lavora bene, ci dicono Matteo e Riccardo. “Tanti ci chiedono perché siamo qui. La risposta è che Grow ha senso qui, in questo territorio. Replicare altrove questo luogo sarebbe impossibile. Inoltre la periferia costituisce un bacino fondamentale per il nostro Paese, è da rivalutare; è un posto in cui sicuramente ci sono meno ser40
vizi, per esempio rispetto a una metropoli come Milano, ma la qualità di vita è più alta. In pochi chilometri abbiamo comunque tutto quello che ci serve, con il vantaggio di una dimensione più lenta in cui possiamo incontrare a tu per tu, per esempio, l’allevatore di capre o il pescatore di Monte Isola e conoscerne la storia. Il nostro ristorante in una grande città magari sarebbe cresciuto più in fretta, in pochi mesi, chi può dirlo. Ma vivere in questo modo, a stretto contatto, e vedere quanta gente si sposta per raggiungerci ci gratifica molto di più” confessano. Riuscirci con scelte precise, nette, è un’ulteriore conquista. Soprattutto quando si parla di menu. “Crediamo sia davvero difficile essere sostenibili proponendo un menu alla carta per questo abbiamo definito tre percorsi degustazione - Substrato, Spore e Growing. Il primo a tema vegetale, molto richiesto anche da un
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pubblico non vegetariano; il secondo libero, cioè animale e vegetale; entrambi con un forte rimando al nostro territorio. Il terzo è alla cieca, con un accento ancora più sperimentale. Poi, per chi ha già provato la nostra cucina, diamo la possibilità di provare i nostri piatti anche alla carta con porzioni più grandi. Abbiamo scelto anche delle grafiche particolari, diverse”.
Crescere, in due Poco prima di rivolgere loro la domanda sul personale apprendo che Grow, in realtà è, nel perimetro del ristorante una partita giocata a due, cioè solo da Riccardo e Matteo. “Sì, siamo solo noi. Siamo aperti solo la sera e accogliamo un tavolo ogni mezzora. Entrambi conosciamo ogni aspetto del ristorante. Lo abbiamo pensato assieme, scelto assieme, e continuiamo a prendere decisioni condivise. Lo scambio tra i nostri ruoli è fondamentale, per esempio visitare assieme i rispettivi fornitori, confrontarci sui piatti, sulle situazioni che avvengono durante il servizio. E la cosa più importante è che la volontà di crescere è veramente il motore di tutto”. Crescere richiede tempo, ma già porselo come obiettivo, già aver scollato i piedi dal blocco di partenza, è un passo importante. Farlo facendo crescere a propria volta qualcosa, qualcosa di sentito, pensato per gli altri e per l’ambiente, accudendolo, deve avere un sapore speciale.
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FARE RISTORAZIONE Autore: Luigi Franchi
Foto: Paolo Gepri
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La carta dei distillati della Locanda del Culatello Ivan e Francesca danno dignità ad ogni prodotto che fa parte del loro locale Ivan e Francesca, due giovani che hanno entusiasmo da distribuire e desiderio di far star bene le persone che varcano la soglia della loro Locanda del Culatello a Soragna, un borgo della bassa parmense che ospita anche il Museo del Parmigiano Reggiano. Hanno aperto pochi anni fa, mettendo in questo progetto tutti i loro sogni ma con molto criterio; ogni dettaglio è curatissimo, ogni prodotto è selezionato direttamente, ogni componente del menu si gioca tra tradizione e voglia di contemporaneità, creando un sapore e un gusto nei piatti ma anche nei salumi che esprime una precisa identità. Con queste premesse riempiono, letteralmente ogni giorno, i tavoli della locanda ma a Ivan questo non bastava, c’era ancora una cosa che doveva essere fatta per completare l’offerta: la carta dei vini ormai era completa, pur con le variazioni periodiche dettate dalle visite che i due fanno nelle cantine italiane ogni volta che possono; il menu rispondeva alle aspettative degli ospiti. Durante la chiusura per il periodo pandemico trovarono la risposta: mancava una carta dei distillati e degli amari. Come si fa una carta dei distillati e degli amari? “Sentivo l’esigenza di questa carta, per evitare due situazioni. La prima sentirmi chiedere genericamente un grappino come se fossimo l’ultimo bar del paese; la seconda mettere in chiaro un prezzo che non è mai specificato nel fuoripasto, quando si arriva alla fine della cena” mi confida Ivan. “Poi c’era la voglia di far divertire l’ospite, evitando che si alzi dal tavolo per venire al banco a scegliere. Con la carta passa almeno dieci minuti a leggere storie appassionanti di rhum, amari, grappe. Infatti ho impiegato molto tempo per realizzarla ma ora è come un libro fatto di tante storie di produttori e di luoghi che coinvolge talmente tanto i nostri ospiti che il fatturato dei distillati è cresciuto del 70%.
Ivan e Francesca
La Locanda del Culatello
Non compenserà mai gli sforzi, anche economici, che abbiamo fatto in questo settore per dare completezza alla carta, ma la soddisfazione di essere onesti verso l’ospite fornendogli tutte le informazioni su cosa sta bevendo e quanto sta spendendo è impagabile”. Quanto hai impiegato a fare questa carta? “Non ho ancora finito di farla; per ora ho impiegato circa un anno. I testi li ho ricavati da conoscenza diretta; da venticinque anni di carriera, ho iniziato giovanissimo, a contatto con molti di questi distillatori; mai dai loro siti che raccontano in maniera troppo metodica. Ho scelto le certezze e ho scritto quello che fa riflettere divertendo, quello che fa cultura del buon bere”. Chi consuma oggi i distillati? “Innanzitutto la carta ci ha portato maggior valore anche sulla carta dei dolci. Poi ci sono delle differenze demografiche che non pensavo. Dai 50 anni in su l’ospite è orientato verso i distillati. I giovani apprezzano e scelgono molto più spesso gli amari”. Genera un rapporto umano, diretto con l’ospite? “Tantissimo perché, a differenza della carta dei vini, il rapporto con i distillati non è così definito e quindi l’ospite chiede a noi, si fida di quello che gli proponiamo, si apre alla conversazione che parte anche dai luoghi di produzione. Basti pensare che, solo di amari, togliendo i classici, in carta ne ho più di cento. Cento luoghi diversi dell’Italia e del mondo. Da raccontare c’è davvero tanto”. I testi invitanti Le parole che compongono la carta dei distillati della Locanda del Culatello hanno ottenuto recensioni molto positive, creando un passaparola importante. Alcune di queste parole le riproponiamo perché ci hanno colpito, ci hanno fatto viaggiare stando seduti al tavolo della lo-
canda. Per esempio con un rum che Ivan descrive così: Rum Bianco Clairin Vaval, Haiti. Prodotto nel pittoresco villaggio di Cavaillon da un artigiano distillatore, con doppia distillazione di puro succo di canna da zucchero, utilizzando un alambicco a colonna. È caldo, morbido, minerale e tropicale, dalle leggere sfumature di erbe aromatiche e semi di finocchio. Oppure gli amari: Amaro L’Orvietan, 30°. L’Orvietan è un amaro erboristico ottenuto dalla macerazione in soluzione idroalcolica di oltre25 erbe officinali, pressate a mano con piccoli torchi e poi filtrate a telo. Nasce dall’antica ricetta di un medicamento presentato come miracoloso, messa a punto nel 1603 dallo stesso venditore, Girolamo Ferranti, di Orvieto, da cui il nome. Una panacea per tutti i mali che conquistò l’Italia e poi l’Europa, a iniziare dalla Francia dove niente meno che il Re Sole ne fu tra i più noti estimatori. Per non parlare dei liquori artigianali che citiamo come altro esempio: Liquerizia Abracadabra Magazzino Doganale. Liquore autentico di liquirizia di Calabria DOP. Il metodo ancestrale di bollitura aiuta a sfibrare le radici che vengono successivamente spremute. In modo separato viene preparato un infuso in alcol di radici ridotte a tocchetti; gradazione alcolica e tempo di maturazione dell’infuso può variare di volta in volta. Il colore naturale, il profumo e la densità di Abracadabra ne fanno un liquore di liquirizia unico. Come si fa a non essere incuriositi, come si fa a non provare?!
Locanda del Culatello Piazza Garibaldi, 12 Soragna (PR) Tel. 347 492 5951
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EVENTI Autore: Guido Parri clicca e leggi l’articolo sul web
Miglior ricetta RicibiAMO Un concorso contro lo spreco alimentare
Nel 2023 si svolgerà la quinta edizione del concorso Miglior Ricetta RicibiAMO, un’iniziativa di promozione e sensibilizzazione organizzata dall’Associazione Piace Cibo Sano, con la collaborazione e l’egida scientifica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e il Centro di ricerca per lo sviluppo Sostenibile Opera. Un concorso che mira a raccogliere e divulgare, in ogni forma, ricette inedite con l’obiettivo di promuovere la cultura del contrasto allo spreco di cibo e della sostenibilità, prestando particolare attenzione alla scelta delle materie prime, all’utilizzo delle risorse e alla valorizzazione delle tradizioni culinarie territoriali. Il concorso è destinato a tre categorie ben definite di partecipanti: i futuri giovani chef, e quindi agli istituti alberghieri e alle scuole professionali di Innovazione Apprendimento Lavoro; agli chef professionisti; agli chef di casa, ossia tutti gli appassionati di cucina che non rientrano nelle prime due categorie citate.
Scadenza del bando
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Per partecipare è necessario inviare, entro il 15 dicembre 2022, una mail a piacecibosano@gmail.it con quattro foto che servono a documentare lo svolgimento più il piatto finito; una fotografia dello chef o della brigata; la scheda di partecipazione; la liberatoria. Verrà accettata una sola ricetta per ogni partecipante. Solamente per la categoria dei futuri giovani chef verrà accettata la partecipazione di brigate composte da tre persone. Le altre due categorie potranno partecipare in misura singola.
Selezione dei finalisti Le ricette per la finale saranno in tutto sei (due per categoria) e verranno selezionate in base al numero di like sui social di riferimento del progetto. Altre sei saranno selezionate da una giuria professionale. Le 12 ricette parteciperanno alla finale presso l’Università a Piacenza e saranno giudicate da una giuria professionale di cui farà parte anche la nostra rivista.
PRODUZIONE Autore: Guido Parri clicca e leggi l’articolo sul web
Cresce il buono del gusto italiano Progetto FornoItalia, i maestri del bakery dolce e salato e della pasticceria italiana È il primo polo italiano del bakery e della pasticceria surgelati. Dal dolce al salato, dai cornetti al tiramisù e alle torte da forno, Progetto FornoItalia ha una vocazione e un obiettivo ben definiti: offrire l’eccellenza agli operatori professionali più esigenti, per crescere insieme in un mercato sempre più selettivo. Lizzi, Forno della Rotonda, Spar e La Donatella, portano in dote una storia di passione e di competenza, accomunate dalla capacità di bilanciare tradizione e innovazione per promuovere il grande patrimonio delle specialità italiane. Lizzi è il laboratorio della pasticceria milanese: in ognuna delle sue creazioni c’è un tempo prezioso, quello dell’attesa: impasti che riposano per 24 ore, secondo il metodo originale di lavorazione con lievito madre che permette all’impasto di “maturare” naturalmente e arricchirsi di un profumo inconfondibile. Quando l’alta pasticceria non cede alla tentazione della fretta, si ritrovano gusti e fragranze che hanno reso grande la pasticceria italiana. Forno della Rotonda è il pioniere del pane moderno. Con la stessa passione con cui ha reinventato il lavoro del pane oggi propone nuove specialità salate, tra cui una gamma di focacce che restano sempre morbide alla dop-
pia lievitazione, bucherellate e farcite a mano. Dalle valli del Roero, in Piemonte, giunge la maestria dei panettieri Spar, in grado di consegnare al consumatore pane di altissima qualità, fatto con il metodo indiretto e con la biga, come nella tradizione della panetteria italiana. E poi grissini e focaccine e pizzette. La Donatella è l’atelier della pasticceria contemporanea. È dal cuore ammaliante di Venezia che i suoi maestri danno vita alle loro ricercate creazioni di pasticceria moderna. Delizie che accompagnano gli appassionati del dessert alla ricerca dello spirito autentico della pasticceria, coi suoi pregiati, originali sapori. Specialista del Tiramisù e delle torte da forno, La Donatella propone anche un’ampia gamma di crostate vegane, con farine multicereali e farciture alla frutta di grande intensità. Progetto FornoItalia offre ai distributori del Food Service l’eccellenza delle produzioni di questi specialisti del bakery e della pasticceria surgelata italiani, con i vantaggi di un unico interlocutore: un’unica logistica, un’unica rete vendita e amministrazione, un assortimento ampio e profondo contenuto in un solo catalogo. | dicembre 2022
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FARE RISTORAZIONE
Autrice: Marina Caccialanza clicca e leggi l’articolo sul web
Sicilia, a nord del fiume Simeto si erge l’Etna, il vulcano più grande d’Europa. Ai suoi piedi si estende una terra dove la natura esplode in prelibati prodotti, dalle melanzane agli agrumi, dai carciofi ai peperoni, il pregiato pistacchio – Bronte è proprio lì, alle pendici del vulcano – e poi le nocciole di Randazzo, funghi e asparagi selvatici, olio e vino, l’elenco sarebbe infinito. Un mondo vegetale che si armonizza perfettamente con quello marino e di terra. Carne e pesce entrano nella cucina siciliana con vivacità e insieme perché, qui, c’è tutto e tutto esplode di sapori, di profumi e tramanda la storia dell’isola. La provincia di Catania, epicentro gastronomico, è un viaggio che porta al mare attraverso le vigne e i boschi che circondano l’Etna. Terra di conquista per secoli, la Sicilia racchiude nella sua civiltà - e la cucina ne è espressione - usanze e culture, un miscuglio di esperienze e tradizioni che costituiscono una ricchezza ineguagliabile. Dai Greci agli Arabi, dai Normanni agli Spagnoli, tutti hanno lasciato la loro impronta e, oggi, la ritroviamo nei piatti della cucina, tradizionale o moderna, perché fanno parte della sua identità e del suo patrimonio.
Sotto il vulcano, tra storia e natura
Catania e le terre che la circondano, l’ombra dell’Etna che domina e veglia sulla pianura, una cucina fondata sul territorio e le sue tradizioni ma aperta al mondo e alle sue genti che qui, si riuniscono e restano affascinate
Il rispetto del territorio va oltre il territorio Seby Sorbello incarna perfettamente l’anima di questa Sicilia dalla straordinaria espressività che deriva dalla contaminazione: “La cucina dell’Etna, contrariamente a quello che si potrebbe pensare trattandosi di un monte, non è una cucina di montagna. È tutt’altro e deriva dal pensiero di popoli che si sono interfacciati col resto del mondo che li circonda, perché l’Etna è un monte e un vulcano che si affaccia sul mare. Vive col mare e la cucina scaturita da questa coesistenza è una simbiosi tra terra e mare, tra pesce e verdure spontanee, tra porcini e carne, sapori che convivono in un connubio ideale e creano un’armonia unica. La cucina siciliana, etnea in particolare, è diversa da ogni altra”. Sabir Gourmanderie è il ristorante dello chef Seby Sorbello che, a Zafferana Etnea, racconta mirabilmente, con vulcanica eleganza, il carattere del territorio che lo accoglie. Un territorio da valorizzare, certamente non da delimitare, un territorio che si esprime ma anche accoglie, come precisa chef Sorbello: “Mi piace definire la mia cucina ‘a Km illimitato’. Oggi che si insegue l’ideale del km 0, io preferisco aprire la mente e esplorare orizzonti più lontani perché questo non significa non rispettare il territorio, semmai dare uno sguardo al mondo e riunire ciò che di meglio 52
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Seby Sorbello
offre. Cerco di portare in tavola i prodotti della mia terra ma se un ingrediente non è presente sul posto oppure altrove si trova migliore, non esito a utilizzarlo. Ormai la cucina è oggetto di scambi culturali e la Sicilia, da sempre terreno di conquista e scambio, naturalmente aperta verso culture e tradizioni straniere, ce lo insegna. La cucina moderna riporta il territorio alle contaminazioni storiche secondo una visione più ampia che interpreta i piatti arricchendo le tradizioni di contaminazioni, sì, ma quelle giuste”. Una clientela vasta e variegata frequenta Sabir Gourmanderie perché qui, ai piedi del vulcano, prima o poi tutti passano, affascinati dal luogo, colpiti dalle sue bellezze e dalla sua storia. “Gli stranieri che si fermano da noi – racconta Seby Sorbello – sono generalmente molto attenti alla cucina siciliana che, in tutto il mondo, è raccontata e rappresenta una icona vera e propria. Si aspettano, pertanto, di trovare, nei piatti che gustano, gli ingredienti tanto decantati, vogliono sentirne la presenza, capire la differenza. Più che il folklore cercano l’identità del luogo. Del resto, è naturale, perché quando si viene sull’Etna si vive un’esperienza straordinaria e ci si immerge totalmente, anche a tavola”.
Natura e cultura Paesaggio unico al mondo, le pendici dell’Etna offrono
un luogo ideale per una vacanza all’insegna della natura, immersi nelle tradizioni antiche e nella cultura popolare. Etna Quota Mille è un agriturismo e si trova a pochi chilometri da Randazzo, borgo medievale dal fascino incontaminato. Il turista che soggiorna in questo luogo può scegliere le mete che preferisce perché la cittadina si trova in una posizione che consente di raggiungere facilmente sia la costa settentrionale sia quella meridionale, al confine tra l’area protetta dei Nebrodi e il parco fluviale dell’Alcantara. Il posto giusto per il turismo internazionale: il territorio offre una varietà di prodotti di straordinario pregio: “La nostra cucina – racconta Enzo Spartà – può proporre piatti di grande valore culinario proprio perché attinge al patrimonio locale: lumache di terra, funghi, castagne, pistacchio, doni che ispirano e arricchiscono la tavola, come la provola dei Nebrodi Dop, il maialino nero. Abbiamo una decina di camere per chi desidera soggiornare e un ristorante con 110 coperti che accoglie clienti da ogni dove, sia locali sia turisti. Le eccellenze del territorio sono molto ricercate e una delle proposte che maggiormente attira gli stranieri è il nostro antipasto della tradizione composto di 16 assaggi, 16 ciotoline che accolgono 16 specialità tipiche stagionali. Grande impatto visivo, forte attrattiva, e se non riescono a finire tutto perché abbondante, sono soddisfatti perché incarna il loro ideale di tavola succulenta, prelibata, come si immaginano debba essere secondo tradizione”. È quel tocco di folklore che allieta il visitatore, perché trasporta in un mondo dal fascino antico. Quel fascino che Etna Quota Mille preserva e comunica anche a livello culturale; spiega Enzo Spartà: “Cercano la storia, da noi, il retaggio e noi li accontentiamo. I prossimi mesi di gennaio e febbraio Etna Quota Mille chiuderà e si rifarà il look: stiamo preparando due stanze dedicate ai pupi siciliani e al carretto siciliano, come in un museo storico del folklore. Meno coperti in tavola ma un’immersione | dicembre 2022
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Enzo Spartà
totale nella tradizione popolare perché è la nostra storia e merita di essere mantenuta viva”.
I cicli delle stagioni e il legame con la terra Nel centro storico di Pedara, La Tana del Lupo è il regno della tradizione sicula. Cucina di carne e di pesce, la sua specialità è la griglia. Soprattutto la carne, nazionale o estera, di ogni tipo, è cucinata in tutti i modi secondo le antiche ricette della tradizione siciliana ma la cucina abbraccia le tipicità dell’isola e propone un vero viaggio dei sapori, dal pesce agli ortaggi, dai latticini ai dolci. “In inverno il ristorante è frequentato quasi esclusivamente dalla gente del posto – racconta lo chef Giuseppe Borzi – ma in estate, quando i turisti salgono al vulcano, si fermano da noi per assaporare le specialità tipiche. Sono le stagioni che scandiscono il nostro lavoro, che ci permettono di portate in tavola piatti genuini, perché la campagna offre tante e tali prelibatezze che sarebbe assurdo non farne uso. Per questo il nostro menù cambia in base all’offerta del momento e, naturalmente, la tradizione culinaria dell’isola, con le sue mille sfaccettature, è il filo che unisce ingrediente e fantasia”. Il luogo è incantevole, un palmento ristrutturato che conserva il fascino degli antichi arredi. Il menù propone le ricette della cucina tradizionale, le fritture, la carne sulla tegola, i dolci, vere prelibatezze, le specialità della gastronomia siciliana accompagnate da vini selezionati con cura. Racconta Giuseppe Borzi: “Il legame con la terra è fortemente sentito qui da noi e seguire la stagionalità delle colture quasi un rito: adesso sono le zucche, i carciofi, 54
in estate le melanzane; ogni piatto, ogni menù rispetta i cicli naturali perché sono parte stessa della storia dell’isola, delle sue usanze e della sua cultura profonda: una cucina genuina e casalinga, la certezza dell’appartenenza a un luogo e alla sua gente”. Quaranta coperti che d’estate si espandono nella stradina privata, un ambiente caratteristico, invitante, che conforta, dolcemente. L’isola abbraccia e accoglie, il vulcano veglia dall’alto.
La Tana del Lupo
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Big Mamma, una rete che esalta la trattoria italiana in Europa Autore: Luigi Franchi Enrico Pireddu è nato in un paesino di 2000 anime nell’entroterra della Sardegna, ha studiato ingegneria elettrica a Cagliari e poi è partito per la Francia nel primo decennio del terzo millennio. Per fare cosa? Per fare il cameriere a Cordes-sur-Ciel, nell’Occitania. Ed è da lì che è partito per raggiungere Parigi dopo aver risposto a un annuncio che cercava personale per l’apertura di un ristorante italiano.
La nascita di Big Mamma È il 2015 quando Enrico incontra Tigrane Seydoux e Victor Lugger, due francesi talmente innamorati dell’Italia e dei suoi prodotti che lo rimbambiscono di racconti legati alle centinaia di trattorie visitate in Italia nel corso degli anni, di aziende agricole e fattorie dove hanno scoperto il grande lavoro fatto con amore dalle persone, di prodotti che definiscono incredibili per la loro assoluta bontà. È da quell’entusiasmo e profonda conoscenza dell’Italia che loro vogliono condividere con il maggior numero di persone possibili che prende origine il progetto di Big Mamma. “Non sapevo come reagire, come comportarmi, le loro erano parole che lasciavano trasparire un entusiasmo coinvolgente. – ricorda Enrico – Per questo ho detto si, anche se non sapevo che piega avrebbe preso il progetto e quale ruolo potessi avere io in tutto questo”. Pochi mesi nel sud della Francia e subito dopo, il primo ristorante prende vita, a Parigi nel marzo 2015, con un’idea semplicissima: doveva essere un locale accessibile a tutti, in un posto bellissimo, dove mangiare vera cucina italiana. “L’obiettivo era di 300 coperti e Tigrane e Victor erano straconvinti che lo avremmo raggiunto. – continua Enrico – La sera dell’inaugurazione la fila era lunghissima, non tutti sono riusciti ad entrare e allora abbiamo preso il nome di tutti e ci sono voluti dieci giorni per reinvitarli, con 600 coperti al giorno che
Carmelo a Lione
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Enrico Pireddu
Bellezza a Lille
durano tuttora, a sette anni di distanza. Il motivo di tanto successo? Aver tenuto fede alla promessa iniziale”. Dopo sei mesi il secondo ristorante e 100 persone assunte. Nel 2016 altri due ristoranti, sempre a Parigi, uno dedicato ai primi piatti, il secondo diventato ora 100% vegetariano. “È in quel momento che mi chiedono di diventare direttore operativo. Ricordo quell’anno e, soprattutto, il 2017 come un periodo di sconvolgimento della mia vita perché apriamo anche una pizzeria in centro a Parigi e altri quattro ristoranti. Mi sembrava impossibile che così tante persone ci apprezzassero, volessero venirci a trovare. Forse il successo derivava dalle scelte precise fatte da Tigrane e Victor: solo prodotti che arrivassero davvero dall’Italia, personale quasi interamente italiano, prezzi accessibili e trasparenza che si esplicitava, ancor oggi, nell’elencare i nomi dei produttori, la loro provenienza geografica, il racconto che ne facciamo mentre parliamo con gli ospiti”.
Nel 2018 il salto di qualità e quantità Enrico Pireddu pensava che fosse abbastanza questo successo, invece, nel 2018, a Lille Big Mamma diventa un colosso, nel locale che apre si misura la forza logistica del gruppo. “Un locale di 4.500 metri quadrati, era una stazione degli anni Trenta del Novecento. All’interno c’erano ancora due locomotive che abbiamo lasciato. 1.500 coperti, pizzeria, caffetteria, griglia, panificio, primi piatti e un grande bar. 250 persone coinvolte nella gestione, 10.000 ospiti il primo sabato di apertura. Da quell’esperienza capimmo che non ci bastava, dovevamo crescere ancora, ci volevano bene, facevamo del bene: alle persone, all’Italia. Fu così che decidemmo di andare nella città che tante cose ha ispirato: Londra!”
Londra insegna molte cose “Convinsi la mia famiglia a trasferirsi. – racconta il di-
rettore operativo di Big Mamma – Avevamo in testa un concetto preciso: quando un format funziona basta spostarlo. Londra mi ha insegnato che così non è: questa metropoli ha regole tutte sue, ogni quartiere è diverso e devi adattare tutto a quelle regole. Ho fatto un anno dove ogni azione era un tentativo, ma ora funziona benissimo e, di conseguenza, altre scelte si profilavano all’orizzonte. Era il 2019 quando aprimmo a Madrid e in Germania a Berlino e a Monaco di Baviera, due città diametralmente opposte. Inoltre in Germania c’è anche il problema della lingua da risolvere, perché l’inglese è ormai comune, il tedesco no. Nel frattempo arriva il Covid e tutto si ferma. Non si ha percezione di cosa potrà succedere, non si sa come sarà il futuro. “Svuotare tutte le celle frigo, parlare con tutti i dipendenti, rafforzare il senso di comunità. Tutto questo in pochissimi giorni, fino a che decidiamo di provare il delivery, rivediamo tutti i menu in funzione di quel tipo di servizio, con l’aggravante che ogni nazione aveva regole diverse per affrontare quell’emergenza. Ci siamo riusciti, per fortuna”. Nel 2022, il 1° gennaio, Enrico Pireddu diventa direttore generale: “una grandissima soddisfazione, credo molto in questa storia. Quest’anno abbiamo aperto altri quattro ristoranti, a Marsiglia, a Montecarlo, in Germania. Non è facile gestire 21 ristoranti e 2.000 persone sparse in quattro paesi, devi capire le particolarità di ogni città, con i tuoi occhi. Costruire un team non è facile, non è facile far spostare la gente: autenticità, passione, eccellenza, meritocrazia e imprenditorialità, sono le caratteristiche che chiediamo a chi lavora cn noi. Ogni persona deve prendersi il rischio della decisione, non conta l’età che, da noi, è bassissima. Quello che conta è il coinvolgimento nell’impresa, nell’idea. A me ha cambiato la vita trovare Big Mamma sul mio percorso e mi va benissimo, perché ho a che fare due geni, come li ha definiti Bernard Boutboul, un’economista francese esperto nella ristorazione”. | dicembre 2022
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PRODOTTI Autrice: Simona Vitali clicca e leggi l’articolo sul web
La masculina da magghia del Golfo di Catania Tenere viva un’antichissima tradizione di pesca già presente ai tempi di Omero in tutto il Mediterraneo e sorprendentemente attuale per la sua insita ecosostenibilità è quello che una piccola cooperativa di pescatori e trasformatori., la cooperativa del Golfo, perpetra ogni giorno nel golfo di Catania - da capo Mulini a capo Santa Croce, nella provincia di Augusta - con la pesca delle masculine da magghia. È così che nel gergo locale sono chiamate le alici, catturate con le menaidi o tratte, piccole reti con una particolarità, come vedremo.
La pesca con le menaidi Descriviamo brevemente quella che potremmo definire una ritualità, scandita da tempi e accorgimenti dettati da antichi saperi trasmessi di generazione in generazione, precisi indicatori più ancora delle nuove tecnologie. Sono piccole imbarcazioni di pescatori, quindi già per definizione non impattanti, quelle che di notte verso l’alba salpano dalla marineria di Ognina tra la primavera e l’estate, quindi da aprile a luglio, per gettare a mare reti sottilissime che hanno la funzione di sbarrare la strada alle masculine di passaggio. È proprio la dimensione della maglia (a magghia) della rete, di un centimetro quadro, ad agire da selezionatore, lasciando passare gli esemplari più piccoli e trattenendo quelli più grandi, che rimangono impigliati con la testa nella rete stessa. Il dissanguamento naturale che ne consegue nel tentativo di divincolarsi permette di conservare le caratteristiche organolettiche del prodotto e lo rende ancora più gustoso e pregiato. Tirate le reti in barca i pescatori liberano una a una le masculine dalla maglia che le tiene bloccate per poi venderle fresche sul mercato catanese ‘a Piscaria’ oppure sottoporle a salagione. Modalità di lavorazione che, forse non tutti lo sanno, a inizio secolo scorso i nostri emigrati siciliani in Spagna hanno insegnato agli spagnoli, a beneficio dell’acciuga del Cantabrico.
Una sostenibilità che parte da molto lontano nel tempo Basta ascoltare il racconto appassionato di Gaetano Urzì, pescatore da generazioni e presidente della coope-
rativa del Golfo, per capire come di certi mestieri bisognerebbe farne una disciplina, una materia di studio, proprio per quell’approccio rispettoso del mare e della sua biodiversità che porta con sé. La tecnica della pesca a magghia infatti contempla che rimangano impigliati nella rete quegli esemplari che hanno fatto almeno un ciclo di vita e quindi una riproduzione all’attivo, mentre quelli di taglia piccola vengono lasciati andare. In più non impatta su altre specie accessorie, nel senso che non comporta catture involontarie di pesce. Intanto dal 2003 nasce il presidio Slow Food per tutelare questo mestiere e la tecnica di salagione del prodotto. E anche qui Gaetano Urzì è in prima linea, nella veste di responsabile del presidio.
I segreti del mestiere tramandati oralmente “Sembrerò un nostalgico del mondo che fu – riflette il presidente della coperativa del Golfo - ma l’unica via che oggi ci può fare ritornare ad una pesca compatibile e rispettosa dei cicli biologici del pesce è il modello della piccola pesca costiera che i nostri padri praticavano ancora negli anni Sessanta. Lì per millenni, attraverso la trasmissione orale e quotidiana dei saperi, attraverso l’esperienza di ogni notte e di ogni giorno, il piccolo pescatore costiero diventava architetto del mare, costruendosi un atlante della memoria, diveniva al tempo stesso meteorologo, biologo, astronomo, geografo ed economo del suo stesso destino”. Nozioni che vengono tramandate oralmente fra pescatori e che ancora oggi sanno essere più puntuali della tecnologia sopraggiunta, di cui tutte le imbarcazioni
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sono ormai dotate. “Mio padre Carmelo, pure lui pescatore, era solito dire che per chi usa la menaide sono i cicli naturali di vita del pesce, in questo caso della masculina, a guidare il tempo delle attività di pesca. E più che l’ecoscandaglio contano e bisogna conoscere i venti, le correnti marine, i diversi fondali. Per fare una grande pescata di masculina è importante sapersi regolare con l’apparizione di alcune stelle nell’orizzonte durante le notti di primavera e d’estate, interpretare i movimenti della luna, cogliere i momenti giusti all’alba o al tramonto”. Gaetano Urzì è un uomo tenace, il primo ad adoperarsi perché ci sia un futuro per la masculina da magghia. È pure anche profondamente consapevole che
tolto quel piccolo nucleo strutturato che è la cooperativa che rappresenta, ci sono poche altre realtà, a Pisciotta e in qualche centro della costiera del Cilento, in cui si ricorre a questa tecnica di pesca e salagione. E poi il nulla. Da qualche tempo sta pensando seriamente alla possibilità di far partire progetti pilota per riportare questo mestiere in altri punti del Mediterraneo e c’è da scommetterci che ci metterà tutto sé stesso. Avere un mestiere raro fra le mani e capire che fermarsi lì è farlo un po’ morire è il presupposto di una mente aperta, che a suo tempo all’Università ha fatto studi di urbanistica ma ha scelto di dedicare la sua vita al mare. Il passaggio successivo, notevole, è di capire che ci sono casi in cui quello che “si coltiva” non può essere solo per sé stessi. Ma questo non è da tutti.
Carmelo Urzì, padre di Gaetano
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PERSONE Autore: Bruno Damini clicca e leggi l’articolo sul web
Fiorella Belpoggi, una scienziata libera
Per la tutela della salute ambientale e alimentare, perché la mela di Biancaneve è molto bella, però è anche velenosa
Licia Granello
Dietro una corporatura minuta e un timido sorriso si cela un temperamento forte e determinato che l’ha aiutata ad affermarsi come scienziata di fama mondiale. Fra i tanti meriti la dottoressa Fiorella Belpoggi può vantare di avere contribuito alla sconfitta della Exxon in una storica class action intentata dagli abitanti di Jacksonville, nello stato americano del Maryland quando nel 2006 un’enorme quantità di benzina verde inquinò irrimediabilmente le falde acquifere della cittadina. La benzina “verde” contiene l’additivo MBTE, sostituto del piombo che una ricerca effettuata dalla Belpoggi all’Istituto Ramazzini di Bologna aveva certificato come tossico. Questa ricerca fece accreditare la sua testimonianza al processo nonostante l’agguerrito studio legale del colosso petrolifero avesse cercato in tutti i modi di screditare lei, l’attendibilità dello studio e del Ramazzini. A ricostruire la vicenda umana e scientifica di questa donna mai doma ci ha pensato la giornalista Licia Granello, per quarant’anni firma prestigiosa di Repubblica, scrivendo a quattro mani con lei il volume Fiorella Belpoggi. Storia di una scienziata libera, edito da Terra Nuova. | dicembre 2022
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Un laboratorio dell’Istituto Ramazzini
Nell’ampia introduzione Granello racconta il Ramazzini e il suo fondatore, Cesare Maltoni, che fece proprio il motto “Prevenire è meglio che curare” di Bernardino Ramazzini (1633-1714), padre della medicina del lavoro. Si parte dalla nascita dell’Istituto nell’Italia di cinquant’anni fa per ripercorrere le tappe delle ricerche sugli inquinanti ambientali e alimentari. Poi è Belpoggi in prima persona a raccontare sei case history: pesticidi, aspartame e Acesulfame K, 5G, MBTE, glifosato, fanghi tossici, inquinamento dell’acqua e dell’aria. L’ultimo capitolo si intitola “Domani”, seguito da un intervento che Cesare Maltoni tenne in un consesso internazionale nel 1992: “La scienza tra la limitatezza delle risorse e domanda dell’uomo”. La postfazione è di Manlio Masucci, portavoce di Navdanya International Italia, branca dell’organizzazione fondata 30 anni fa in India da Vandana Shiva a difesa della sovranità alimentare, dei semi e dei diritti dei piccoli agricoltori in tutto il mondo. La vocazione alla ricerca sul cancro nasce in Belpoggi a vent’anni, quando suo padre muore a causa di un mesotelioma. Si laurea in Scienze Biologiche e prende la specializzazione presso l’Istituto di Anatomia Umana e Istologia Patologica della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Bologna. Inizia a lavorare in anatomia patologica all’ospedale Sant’Orsola, poi decide di proporsi al professor Maltoni, oncologo di fama internazionale. Partecipa a un concorso convinta di non avere chance ma arriva prima e il professore l’incarica di riordinare gli archivi del Ramazzini, un patrimonio di informazioni unico al mondo. Seguono quarant’anni di studi scientifici liberi da ingerenze esterne nello stesso istituto di cui di-
viene vice direttrice e poi direttrice, forte della struttura di una cooperativa sociale che vive solo coi contributi dei 32.000 soci. I loro studi cercano le connessioni tra inquinamento ambientale e salute in una battaglia, mai urlata, contro i dolcificanti artificiali, l’acetato di vinile, i pesticidi in agricoltura, gli inquinanti dell’aria e delle falde acquifere, e contro i residui di lavorazione dell’industria che sarebbero rifiuti speciali da smaltire con ogni cautela ma vanno a finire nei terreni coltivi come fanghi “ammendanti”, perché alla logica del profitto poco importano i costi ambientali e in salute umana. La frequentazione fra la giornalista e la scienziata è ventennale, da quando la prima comincia ad occuparsi sulle pagine di Repubblica di alimentazione con un taglio etico, ecologista, perché le interessa sapere cosa c’è dietro il cibo, non fare la critica gastronomica. Scopre di poter contare sulle ricerche del Ramazzini e comincia con l’Aspartame che, assieme all’Acesulfame K (E951 ed E950), è un dolcificante artificiale tra i più utilizzati dall’industria alimentare. Belpoggi sottopone l’aspartame a una lunga sperimentazione che ne conferma la cancerogenicità. Ma l’Unione Europea e la Food and Drugs Administration in America, sotto la pressione dei grandi potentati industriali, si inventano un limite di soglia. Allora l’Istituto dimostra che l’aspartame è cancerogeno anche a quella soglia. Granello scriverà una pagina su questo studio su Repubblica nonostante i tentativi dell’associazione italiana industria dolciaria di farla desistere rassicurandola sull’innocuità dell’aspartame e insinuando dubbi sull’attendibilità scientifica del Ramazzini.
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Le ricerche di Belpoggi hanno riguardato anche i pesticidi di sintesi più usati al mondo in agricoltura, quelli che finiscono nella catena alimentare umana, individuati ad esempio in certe paste industriali. Il Glifosato, un erbicida i cui effetti anche a basse dosi possono interferire con l’attività ormonale aumentando il rischio di cancro al seno, pericoloso anche per le donne incinte, e il Mancozeb, un fungicida di cui sono state rivelate le proprietà di interferente endocrino per gli esseri umani e gli animali. Grazie anche a questi studi la Commissione Europea ha deciso di ritirare dal mercato dell’UE il Mancozeb dal giugno 2021. Nel capitolo dedicato al futuro Fiorella Belpoggi mette al centro l’agricoltura e la filiera alimentare che arriva fin sulle nostre tavole perché il futuro del pianeta passa dalla presa di coscienza delle persone, e di chi le rappresenta, di prendere in mano questa situazione disastrosa e farne una piattaforma di sviluppo equo, etico, sostenibile. La “rivoluzione” deve partire dalla terra, soprattutto dai contadini che sono i custodi del pianeta, coinvolgendo le nuove generazioni. Ma la riorganizzazione del modello produttivo – dichiara Belpoggi - non possiamo farla pagare ai contadini, che già hanno dei guadagni molto risicati. Il ministero della transizione ecologica dovrebbe cominciare ad assegnare loro un salario di sostegno a fronte di un comportamento etico affinché la terra non venga più avvelenata, incentivando le coltivazioni biologiche per avere del cibo sano nel piatto. Come dice Papa Francesco: come facciamo a pensare di vivere sani in un pianeta malato? Perché non esiste un’altra specie vivente che sopravviva a discapito delle altre. Quando parliamo di
sostenibilità dobbiamo mettere la salute al primo posto. Si tratta di incidere sulla percentuale di persone che si ammalano di cancro e di patologie neurologiche come il Parkinson, l’Alzheimer, patologie del sistema nervoso nei bambini piccoli, soggetti a rischio di malattie rare. Questa recrudescenza di patologie deriva anche dal fatto che siamo esposti dalla gravidanza fino alla morte. In tutto questo l’alimentazione svolge un ruolo cruciale superato solo in ordine di importanza dall’inquinamento dell’aria. Il suo appello si rivolge anche alla coscienza etica dei cuochi e dei ristoratori (Belpoggi è lei stessa una cuoca sopraffina nella cui cucina troneggia una Molteni taylor made). È indubbio che serva un consumatore sensibile e che i cuochi possano orientarlo decidendo di comprare solo biologico, abbattendo gli sprechi e aderendo all’economia circolare, ad esempio. “È tempo di comprendere di più, così possiamo temere di meno”. Fiorella Belpoggi ha preso in carico le parole di Marie Curie e ne ha fatto una filosofia di vita. Parte dei proventi di questo libro andranno a sostegno delle attività dell’Istituto Ramazzini www.istitutoramazzini.it
Un laboratorio dell’Istituto Ramazzini
Il castello di Bentivoglio (BO) sede dell’Istituto Ramazzini
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PRODUZIONE Autrice: Marina Caccialanza clicca e leggi l’articolo sul web
Coati, il cotto si fa in tre Tre categorie di prosciutto cotto, tre diversi utilizzi in cucina. Stessa professionalità e cura per la qualità del prodotto Il Salumificio Coati è una delle realtà imprenditoriali italiane che meglio esprimono la passione e la cura in grado di produrre quelle eccellenze gastronomiche che tanto onore portano al nostro Paese. Nasce in Valpolicella, terra di vini e salumifici. Cresce negli anni e trasmette una tradizione antica che oggi, alla quarta generazione, rappresenta alto livello tecnologico e innovazione. Tra i prodotti di punta del salumificio Coati, il prosciutto cotto è un fiore all’occhiello ed è oggetto di continua ricerca e perfezionamento da parte del reparto Ricerca&Sviluppo di cui è responsabile Elia Mezza che spiega, in occasione del recente Cateringross Food Summit e col supporto di Renato Bosco, pizzaiolo di fama e da gennaio testimonial Coati, le peculiarità di questo prodotto popolare, amato, eccellente e versatile. Un prodotto che si adatta a numerosi utilizzi; un prodotto dall’identità precisa ma declinata in varianti espresse, nel 2016, da un decreto governativo che ne regolamenta
la produzione e l’attribuzione di categoria. Sono tre, infatti, le tipologie di prosciutto cotto riconosciute: • prosciutto cotto, caratterizzato da umidità evidente che riveste un ruolo importante in fase di impiego in cucina, dal gusto delicato; • prosciutto cotto scelto, dal gusto più marcato e aromatico e con una percentuale di umidità inferiore al cotto, altrettanto adatto in cottura; • prosciutto cotto alta qualità, più asciutto e dal gusto ben definito, destinato a un utilizzo crudo. Sarebbe sbagliato identificarli in base al valore – dal meno pregiato al più pregiato – perché tutti manifestano caratteristiche e peculiarità uniche e non inferiori uno all’altro. Il prosciutto cotto, o il cotto scelto, sono quelli più adatti all’utilizzo in cottura. Spiega Renato Bosco: “In Coati abbiamo intrapreso un lavoro di ricerca e approfondimento che si basa sull’osservazione dei risultati ottenuti nel
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processo di utilizzo del prodotto in cucina. È un lavoro condiviso, alla base del confronto necessario per definire gli scopi e poter divulgare i risultati all’operatore, il cuoco o il pizzaiolo, e al consumatore. Personalmente sono partito dallo stesso concetto che pratico quando devo progettare un impasto: decido cosa foglio fare, studio l’impasto, definisco quali ingredienti desidero abbinare e, quando arrivo agli ingredienti, cerco di capire se il prosciutto cotto lo voglio utilizzare alla fine della cottura o all’inizio. La scelta dipende dal tipo di lievitazione, lunga o breve, dai tempi di cottura. Il prosciutto cotto permette una cottura più lunga perché, essendo ricco di acqua interna, consente all’impasto di sostenere la lievitazione, migliora la cottura e tutela le proprietà sia dell’impasto sia del prosciutto stesso”. Renato Bosco, con il supporto di Coati, sta seguendo un progetto di informazione che mira a rendere l’operatore e il consumatore consapevoli del prodotto impiegato: non tutti i prosciutti cotti sono adatti a essere utilizzati nello stesso modo. Questo è il concetto di base e conoscerne le caratteristiche è fondamentale per operare la scelta corretta. Aggiunge Elia Mezza: “Il lavoro di ricerca e sviluppo che portiamo avanti in azienda mira proprio a questo, ad approfondire tutti gli aspetti per capire i punti di forza e quelli di debolezza del prodotto; è una fase di sperimentazione indispensabile”. Tre prodotti, dunque, tre diverse caratteristiche individuate attraverso l’assaggio a crudo e a cotto, le performance in cottura e la condivisione dei risultati. Il prosciutto cotto scelto, più aromatico e dal gusto più intenso rispetto al cotto, con una percentuale di umidità leggermente inferiore, si presta anch’esso molto bene alla cottura. In entrambi i casi l’umidità li rende adatti al forno in base ai tempi di cottura e alla temperatura del forno, dai 90 secondi di una pizza napoletana ai 3 minuti di una contemporanea. Diverso il discorso nel caso del prosciutto cotto alta qualità. È un prodotto asciutto, dal gusto ben delineato che, in cottura, risulterebbe troppo secco e perderebbe le sue proprietà organolettiche, un evidente spreco non necessario. “Chi afferma di utilizzare il prosciutto più costoso, quello più pregiato in cottura pensando di fare bene, si sbaglia – dichiara Bosco – non è la categoria di prosciutto che determina la riuscita di un piatto, è la correttezza nella scelta e nell’abbinamento”. Il cotto alta qualità, dunque, è ideale in accompagnamento al piatto a fine cottura. Aggiunto in questo modo mantiene inalterate le sue note aromatiche delicate che altrimenti andrebbero disperse. La pizza contemporanea è l’esempio perfetto, dove il prosciutto alta qualità viene disposto sulla fetta nella quantità esatta per valorizzare la ricetta, per accompagnare ingredienti morbidi e dall’umidità marcata come potrebbe essere una burrata. Altrettanto importante è l’alternanza di temperature, cal-
do/freddo, così come la croccantezza, la friabilità, l’acidità. Un gioco di equilibri e contrasti che trovano nel cotto alta qualità un alleato ideale. Ma tutto questo è reso ancora più evidente dalla qualità dei prosciutti Coati, realizzati dalla coscia intera del suino, manifestata dalle fasce muscolari in evidenza, dal trattamento delicato che ne rispetta le proprietà lungo tutte le fasi di produzione: disosso, siringatura, zangolatura, stampaggio e cottura che, nel caso del prosciutto cotto alta qualità, arriva a 25 ore a temperature modulate per equilibrare la struttura del prodotto e valorizzarlo. Materia prima di eccellenza, processo di lavorazione adeguato e corretto, sono i punti forti per ottenere un prosciutto dalle proprietà organolettiche e nutritive di alto livello. Da una materia prima di pregio, poi, si può procedere a un utilizzo consapevole e professionale per ottenere una cucina eccellente.
Renato Bosco
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FARE RISTORAZIONE Autrice: Giulia Zampieri clicca e leggi l’articolo sul web
Il Mercato del Porto a Marina di Ragusa Il numero di supermercati, ipermercati, discount e centri commerciali in Italia sta crescendo con una rapidità impressionante, trasformando in modo permanente infrastrutture, paesaggi e regole di vita. Ne siamo complici: mentre ci rechiamo con regolarità in questi grandi punti vendita per la spesa settimanale, o quotidiana, non pensiamo che da un’altra parte, magari proprio sulla stessa strada, una bottega storica o un banco del mercato stanno chiudendo i battenti. E non per una pausa stagionale, bensì in modo definitivo, portando con sé il saper vendere, il saper scegliere, le piccole imperfezioni dei prodotti artigianali o freschi, le espressioni folkloristiche, gli assaggi… Questo triste bilancio per raccontarvi un progetto che va nella direzione opposta: il Mercato del Porto a Marina di Ragusa, voluto da Gabriele Cannata e curato negli interni e nei dettagli da Noemi Benatti. Ha poco più di un anno di vita e ha sede proprio nel Porto Turistico di Marina di Ragusa, crocevia per tantissimi visitatori e turisti, non solo nel periodo estivo. L’insegna si trova a tu per tu con le imbarcazioni, ed ha nell’anima l’obiettivo di sensibilizzare le persone sul valore del mercato.
Il dna del Mercato del Porto Si tratta infatti di un ristorante cha ha annesso un piccolo mercato di eccellenze gastronomiche, gestiti entrambi da due giovani siciliani, Davide Di Marco e Giovanni Cortese, rimpatriati dopo aver girato il mondo per dodici anni apprendendo da una cucina e dall’altra. Il loro curriculum è davvero ricco: Francia, Inghilterra, Sud America… e non solo ristorazione, anche hotellerie. Dopo tanto viaggi, utili ad avere una visione complessiva del cibo, è scattata la voglia di rientrare. “Questo progetto si è sovrapposto con il nostro bisogno di tornare in Sicilia. Volevamo portare un’idea di ristorazione accessibile, ma di alta qualità e fondata sulla giusta ospitalità. È un progetto in cui siamo stati coinvolti che ci ha motivati molto perché non è un semplice ristorante, ma un luogo poliedrico e dinamico che comprende il cibo, il bere, la musica” ci racconta Davide.
Il Giardino Botanico
I banchi del pesce fresco con tantissime specie ittiche, la carne, la frutta e la verdura, le conserve; la bottiglieria che raccoglie quasi trecento etichette tra vini e birre artigianali: questa è la dispensa del ristorante, ma anche una bottega privilegiata per gli appassionati di cibo che qui si recano per la spesa. “In questa fase dell’anno, naturalmente, l’esposizione dei prodotti è limitata per il fisiologico calo stagionale. Nei giorni di punta e in particolare nel fine settimana abbiamo il fresco, gli altri giorni esponiamo prodotti da forno, mentre in estate la scelta è molto variegata. Acquistano sia locali sia quelli che sostano sulle barche. Il ristorante invece è aperto tutto l’anno. In quanto alla nostra linea gastronomica, è una cucina in chiave mercato, innanzitutto perché utilizziamo le eccellenze che abbiamo a disposizione. E poi perché cerchiamo di valorizzarle con tecniche, abbinamenti, tratti dalle nostre esperienze, in modo che la materia prima rimanga comprensibile mentre l’esperienza gastronomica rimanga impressa”.
La cucina del Mercato La cucina di Davide e Giovanni è colorata, è un mix di stili e culture. Quella siciliana e quella orientale, per esempio, come nel Ramen siciliano preparato con un brodo di fungo porcino dell’Etna, i noodle realizzati con la cucuzza (tipica zucchina sicula) e la ricciola a crudo. Oppure quella esotica, come nel Maialino dei Nebrodi alla plancia affumicato nelle carrube, con foglia di banana e gambero rosso. Le proposte, lo avrete capito, si nutrono di creatività e ecletticità, ma anche sempre di grande rispetto per la materia prima. E, non da ultimo, della voglia dei due cuochi di innovare il proprio profilo professionale. “La Sicilia si è evoluta molto sul piano gastronomico e dell’accoglienza in questi anni. Molti investono nella nostra regione perché unisce la bellezza paesaggistica e naturale a una moltitudine di prodotti straordinari e a una collezione di tradizioni speciali” - continua Davide. “Crediamo che serva sicuramente aggiornare l’immagine del cuoco siciliano, va attualizzata perché abbiamo grandi possibilità se riusciamo a valorizzarci. Questo è il lavoro più bello del mondo se lo si fa con passione.
Davide Di Marco e Giovanni Cortese
Poche altre professioni riescono a dare grandi soddisfazioni, a stimolare su tutti i livelli, ad aprire mille strade, a mettere in connessione! Dipende dal piglio che ci mettiamo a fare i cuochi”.
L’apertura: l’essenza del mercato Cos’è l’elemento che accomuna i mercati? Non le dimensioni, non i prodotti, non chi li frequenta. Ma l’apertura, l’assenza di confini. Che sia coperto o all’aperto, il mercato è, infatti, un luogo in cui non ci sono barriere fisiche e ideologiche. Gli oggetti, i cibi, le persone entrano ed escono, a volte mettendosi in contatto, altre scambiandosi un’idea o un’esperienza, altre ancora determinando la nascita di qualcosa. Frequentare un mercato implica una condizione di benessere, una svolta energetica, che certo è difficile provare nei corridoi di un grande supermercato. È il concetto che vogliono veicolare Davide, Giovanni e tutte le altre figure che lavorano per il Mercato di Marina. “L’apertura è un messaggio che vogliamo trasferire attraverso la cucina, ma anche attraverso l’accoglienza e l’atmosfera che si respira da noi”. Qui la musica è l’altra grande protagonista. Al Mercato del porto c’è una direzione artistica vera e propria che stabilisce la scelta della sequenza di brani, con una bella consolle posizionata al culmine del lungo bancone in marmo su cui si espongono le eccellenze. È un posto vivo, indubbiamente con un profilo contemporaneo, ma con un fine preciso: mettere al centro il colore del mercato e l’opportunità delle relazioni.
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PIZZERIE Autrice: Marina Caccialanza clicca e leggi l’articolo sul web
Città Vecchia, qualità e servizio Un locale accogliente e con un menù che abbraccia la tradizione con un pizzico di creatività. Soprattutto, un locale per tutti perché la tavola è convivialità
Alle porte di Milano, a Vanzago, il ristorante pizzeria Città Vecchia di Gamel Mina è il ritrovo per tutti. Locale ampio, con i suoi 170 coperti più un centinaio nel giardino estivo, si presta perfettamente a una cena conviviale o per feste e banchetti. La cucina abbraccia ogni specialità, dalla carne al pesce, anche preparati sulla griglia a carbone a vista che nell’ampia sala riscalda l’ambiente e gli animi rallegrando l’attesa alle delizie che arriveranno in tavola. “Ho aperto sei anni fa – racconta Mina – questo locale nel centro di Vanzago, nella zona del Mercato, ma sono vent’anni che lavoro nel mondo della ristorazione”. Il menù di Città Vecchia è studiato per accontentare tutti i gusti, con proposte semplici o ricercate, ingredienti genuini e abbinamenti fantasiosi, una lista del giorno sempre pronta per offrire novità e specialità fresche dal mercato e proposte su misura per banchetti o cene aziendali. Gli spazi si prestano perfettamente, l’ambiente è accogliente e l’atmosfera allegra.
Le pizze non possono mancare in un locale come Città Vecchia, per famiglie, per comitive, feste o pranzi d’affari, dove tutti, insomma, trovano il piatto che preferiscono, l’ospitalità che cercano. Spiega Mina: “Facciamo pizze classiche, con un impasto leggero e sottile, molto gradevole e digeribile perché non utilizziamo olio. Le sole varianti all’impasto classico sono l’integrale e la pizza alla curcuma. La pizza alla curcuma è una nostra specialità, un esperimento riuscito e molto apprezzato che realizziamo con farciture particolari, ai porcini e tartufo, al pistacchio con mortadella e burrata, oppure con zucca e speck. Tutte le altre le realizziamo sia in versione classica sia con impasto integrale. Naturalmente cerchiamo di offrire una varietà il più possibile ampia, dalle ricette tradizionali, immancabili, a quelle più creative, le cosiddette ‘pizze della casa’ come la pizza Città Vecchia con mozzarella, gamberetti, ‘nduja e zucchine. Altre sono in versione marinara, con pesce e frutti di mare come la pizza Dell’Egizio preparata con pomodoro, salmone, mozzarella e gamberetti. Cerchiamo di accontentare tutti i gusti: facciamo anche il pane e seguiamo per quanto possibile la stagionalità e prepariamo le creme che decorano le pizze con materie prime fresche quando sono disponibili e, solo se proprio non si possono reperire, con creme pronte. In questo modo il menù è costante, i nostri clienti lo preferiscono perché quando vengono sanno cosa vogliono”. Servite al tavolo nella bella sala ricavata dagli spazi di
un antico edificio industriale, o d’asporto, le pizze di Città Vecchia sono un punto di riferimento, sono una certezza per la clientela affezionata che sa di trovare sempre la sua pizza preferita: una pasta di sapore gradevole, leggera e sottile realizzata con farine 5 Stagioni perché, spiega Mina: “Quando ho rilevato il locale – allora si faceva soprattutto asporto - era la farina utilizzata abitualmente e non ho assolutamente pensato di cambiarla, anche perché era esattamente la farina con la quale avevo imparato a fare la pizza vent’anni fa. Noi egiziani, per abitudine, siamo legati alla 5 Stagioni 00 rossa. È quella che meglio di altre soddisfa le nostre esigenze e il nostro metodo di lievitazione, riusciamo a capirla anche durante il cambio di stagione e, poiché, per noi fare la pizza è una tradizione, perché cercare altrove? Siamo convinti sia la migliore”. I risultati lo dimostrano, il locale è sempre affollato e Mina aspetta tutti.
Ristorante Pizzeria Città Vecchia Via della Filanda 2 20010 Vanzago (MI) Tel. 02 9354 0160 www.cittavecchia.net
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DISTRIBUZIONE Autrice: Giulia Zampieri
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Marchi Spa a Cosmofood L’azienda di Romano d’Ezzelino in prima linea all’evento di riferimento per l’HORECA del Triveneto Dopo due anni Marchi Spa, tra le aziende fondatrici del gruppo Cateringross, torna in prima linea a Cosmofood, l’appuntamento di riferimento per l’HORECA del Triveneto. L’evento, giunto alla nona edizione, si è tenuto come di consueto alla Fiera di Vicenza. Un ridimensionamento che non ha coinvolto Marchi Spa che si è posizionata letteralmente in prima linea con lo stand, accogliendo numerosi visitatori per tutta la durata della manifestazione in uno spazio espositivo di 160 metri quadri, situato proprio all’ingresso della fiera. Abbiamo parlato a ruota libera con Andrea Marchi, titolare di Marchi Spa, di questa quattro giorni e, in generale, dell’andamento del nostro settore. “Il valore intrinseco di questa fiera è mettere in contatto diretto la nostra azienda con i ristoratori nel territorio in cui operiamo. Finalmente - continua Andrea Marchi - dopo due anni di fermo a causa della pandemia possiamo sfruttare a pieno un’occasione di contatto e dialogo reale, non virtuale, con i nostri interlocutori. In questo biennio non abbiamo mai perso di vista l’obiettivo, il legame e il rapporto solido con gli attori della ristorazione, ma avere un ulteriore spazio e momento di ritrovo, oltre l’ordinario, è davvero importante per la nostra azienda e per tutta la forza vendita. Oltretutto Cosmofood si tiene proprio a Vicenza, nella provincia in cui la nostra attività è stata fondata. Questo rafforza il legame tra la nostra azienda, con il territorio e le sue
attività”. A proposito dell’utilità dell’evento, aggiunge: “Questa fiera può crescere molto e diventare davvero il punto di riferimento per tutto il comparto HORECA di quest’area geografica. Per quanto concerne noi, siamo molto soddisfatti del bilancio in termini di presenze e interesse. I nostri clienti hanno dimostrato la volontà di venirci a trovare, di stringerci la mano, di provare le referenze, di capirne le potenzialità. Non diamo mai per scontate queste scelte, sono la dimostrazione tangibile che credono in ciò che fanno e danno fiducia al loro distributore”. A proposito di prodotti, Marchi Spa ha presentato alla Fiera di Vicenza due novità assolute della propria divisione carne: Old Cow e The Angus. “Era l’occasione giusta per avvicinare i nostri clienti a due prodotti in cui crediamo molto. Old Cow è una carne con un periodo di frollatura e una percentuale di grasso importante, apprezzata specialmente dagli amanti della brace. L’altra novità è The Angus, da razza nobile allevata in Veneto; abbiamo voluto premiare la tradizione zootecnica della nostra Regione scegliendo un prodotto di altissima qualità che ha già riscontrato ampio consenso”. Non sono state le uniche referenze in assaggio: i professionisti della ristorazione recatisi in fiera hanno potuto provare, presso lo stand di Marchi, tanti altri prodotti rigenerati, cotti, trasformati secondo i migliori metodi di preparazione, garantiti dalle aziende partner. “Abbiamo fortemente voluto la presenza di alcuni nostri partner in fiera proprio per questo motivo: dimostrare al cliente il livello che si può raggiungere se un prodotto è gestito in modo ottimale. Oltre a proporre materie prime fresche non trasformate, quindi ittico, carne, verdure, proponiamo infatti un’ampia gamma di prodotti innovativi di servizio che possono sensibilmente aiutare i ristoratori. I nostri partner credono nell’innovazione del prodotto, nelle tecniche di conservazione all’avanguardia, e stanno mettendo in campo prodotti pronti all’uso o semi-lavorati di altissima qualità. Penso alle paste ripiene e ai vegetali surgelati, ai topping, che possono sopperire alla mancanza di personale in cucina, un tema di estremo rilievo in questo periodo storico”.
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DISTRIBUZIONE Autrice: Giulia Zampieri
Autrice: Giulia Zampieri
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Amelia3, distributore food service con sede ad Amelia, in provincia di Terni, è tornato a Expo Tecnocom, la grande kermesse professionale per il settore dei pubblici esercizi, delle attività ricettive e dell’arte bianca, che si è tenuta nei primi giorni di Novembre a Umbriafiere di Bastia Umbra (PE).
Amelia3 a Expo Tecnocom
Federico Posati, AD dell’azienda ternana, che con le sue forniture copre un’ampia fetta del Centro Italia, ci ha raccontato com’è andata. “Gli eventi di questo tipo sono sempre utili per consolidare il lavoro che svolgiamo a monte. Ad Expo Tecnocom abbiamo accolto attuali clienti, ma anche tantissimi potenziali clienti, con cui ci auguriamo di stabilire da ora in avanti un rapporto di fornitura. Se si è ben posizionati e si cura la propria immagine la fiera dà un volto, un nome, e afferma un brand ma non prescinde dall’importanza di tutto ciò che avviene prima e dopo l’evento. Mi riferisco - continua Posati - alle attività svolte online e offline dalla nostra azienda, tutte indirizzate ad affiancare i professionisti del settore in ogni fase del loro lavoro: da quella creativa a quella operativa, sino a quella gestionale”. E per raggiungere questo obiettivo c’è bisogno di uno spazio concreto, fruibile, funzionale, dedicato, che sia accessibile tutto l’anno. Infatti Amelia3 da qualche stagione può contare su una validissima e moderna sala dimostrativa, Amelia Food Lab, ubicata proprio all’interno della sede, in cui si tengono corsi formativi e demo di ogni sorta che riguardano indistintamente il mondo dolce e il mondo salato. Anche all’evento di Bastia Umbra Amelia3 ha voluto dare piccola dimostrazione di quanto avviene con cadenza regolare in azienda. “Nel nostro stand abbiamo lavorato a braccio con due importanti aziende partner, IRCA per il comparto dolce, Molino Bongiovanni per tutto quello che concerne il settore delle farine. I due corner dimostrativi sono stati l’aggancio giusto per far vedere che Amelia3 punta sulle attività formative. Ci preme però raccontare che non sono un elemento accessorio ma una componente fondamentale della nostra azienda, un impegno verso i nostri interlocutori che pratichiamo con regolarità. Abbiamo anche una figura interna, Riccardo Rinaldi, un
tecnico specializzato su preparazioni di ogni tipologia, a disposizione dei nostri clienti, pronto a rispondere alle richieste o dubbi, o a fornire indicazioni pratiche che avvantaggino l’operatore”. L’importanza di eventi come Expo Tecnocom, e di tante altre manifestazioni fieristiche che si svolgono in Italia, al di là del numero di partite iva e contatti che si possono raccogliere, sta proprio anche nell’immagine che viene veicolata dell’azienda, come diceva Posati. Ogni evento, ogni stand, è una vetrina che rimane impressa nel visitatore. “Sono convinto - conclude - che in questa fase storica sia responsabilità di ciascuna azienda sapersi raccontare. Essere attori passivi non porta da nessuna parte. È fondamentale che le aziende, comprese i ristoranti, gli alberghi, le pizzeria, sappiano comunicare la propria qualità per far fronte al cambio delle dinamiche di mercato. Comunicandola la si fa comprendere, quindi la si può vendere. Se si ragiona in senso opposto, cioè abbassando la qualità dell’offerta per sopperire all’aumento dei prezzi si rischia di chiudere”. | dicembre 2022
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DISTRIBUZIONE Autore: Guido Parri
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La cena Apci Taste and Learn a Mozambano, con il contributo di F.lli Tondini Il perché di un tour itinerante e formativo Lunedì sera, 24 Ottobre, si è tenuto presso Villa Conti Cipolla di Mozambano uno degli appuntamenti del tour itinerante e formativo organizzato da APCI – Associazione Professionale Cuochi Italiani: la cena «Taste and learn». Quella svoltasi nella cittadina mantovana è l’ottava tappa di un’iniziativa resa possibile dalla solida collaborazione tra APCI e alcuni distributori del food service. In questo caso la F.lli Tondini srl era l’azienda protagonista della serata. L’obiettivo del tour APCI è di far conoscere ai ristoratori le tante opportunità che l’industria alimentare mette ogni giorno a disposizione delle cucine, grazie ad accurati sistemi di ricerca e performanti strutture logistiche, dando valore a un attore fondamentale nella filiera della ristorazione italiana: quello del distributore. Un’iniziativa che risulta utile per mettere dunque a dialogo gli attori del settore alimentare in un periodo storico in cui si evidenziano notevoli problemi di personale, e in cui i prodotti di servizio con una qualità garantita (come quelli che selezioniamo noi della F.lli Tondini) possono sopperire in parte a questa situazione fornendo un aiuto concreto all’operatore.
Come si è svolta la serata
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L’evento, riservato a ristoratori e cuochi, si è proposto come un vero e proprio viaggio tra le eccellenze culinarie del nostro territorio. Ogni piatto del menu degustazione ha avuto come finalità il racconto della materia prima, attraverso una narrazione video e l’accurata descrizione delle ricette (fornite tramite qr code agli ospiti), i partecipanti hanno potuto acquisire informazioni sul valore e l’origine degli ingredienti che potranno tornare utili anche nei loro ristoranti. Ci teniamo a sottolineare che non si è trattato di una canonica cena, piuttosto di una dinner talk, volta a fornire ai ristoratori spunti concreti per rispondere alle proprie esigenze e aggiornarsi sui temi della cucina professionale. Il percorso gastronomico della serata è stato realizzato dagli chef della Squadra Nazionale APCI Chef Italia, coordinati dal Capitano Luca Malacrida. Durante la serata c’è stato spazio anche per il gioco con l’intervento di Davide Pini che ha chiesto agli ospiti di indovinare, da bendati, gli ingredienti dei dessert. “È stato un momento di condivisione con i nostri migliori clienti e con lo staff aziendale della forza vendita. Divertimento, condivisione, cultura di prodotto sono stati gli ingredienti di questa serata. - con queste parole Benhur Tondini ha ringraziato il pubblico, l’APCI nella persona di Sonia Re, i cuochi della Nazionale APCI CHEF, presentando anche la terza generazione dei Tondini: le figlie Carlotta e Cecilia , il nipote Aronne – Siamo davanti al cambio generazionale che porterà la F.lli Tondini a crescere ulteriormente nei prossimi anni, diventando un preciso punto di riferimento per la ristorazione, grazie alla modernità che figli e nipoti porteranno in azienda, ma sia io che mio fratello Oscar saremo sempre al fianco di una ristorazione di qualità e lavoreremo per far crescere i nostri territori, come abbiamo sempre fatto”.
DISTRIBUZIONE Autore: Guido Parri
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Buona la prima di Bergel+EXPO Martedì 25 ottobre si è conclusa la prima edizione di Bergel+ EXPO, una fiera voluta e organizzata dall’azienda di distribuzione bergamasca per favorire l’incontro tra i produttori, le aziende fornitrici, e i loro clienti ristoratori, baristi, pizzaioli. “Siamo molto soddisfatti per il clima respirato in questa due giorni e per l’afflusso costante alla manifestazione. Diciamo, senza remore, che siamo andati oltre alle aspettative!” ha dichiarato Michael Caldara, direttore generale di Bergel+ commentando l’iniziativa.
Come si è svolto l’evento Negli spazi della bellissima Villa Moroni a Stezzano ben 27 aziende espositrici hanno presentato i loro prodotti, concedendo ai visitatori assaggi e domande di approfondimento. Tantissimi i ristoratori venuti per capire qual è il metodo di lavoro delle aziende da cui acquistano le materie prime per i propri ristoranti e per intercettare le novità di mercato. E di novità, ve lo assicuriamo, ne sono state portate parecchie. “Vedere tanta curiosità e tanto interesse da parte dei visitatori, e tanta intraprendenza da parte delle aziende, è stato davvero stimolante! Bergel+ EXPO non rappresenta per noi un punto di arrivo, ma un punto di inizio. Rappresenta il passo deciso verso un dialogo
con i nostri clienti che ci auguriamo diventi sempre più frequente, proficuo e solido. Siamo convinti che nella condivisione di momenti e relazioni reali, concrete, ci siano le risposte per affrontare il futuro. Partiamo da qui.” continua Michael Caldara. Parole che sono state apprezzate dai fornitori di Bergel+, come, ad esempio, Luigi Trentini di Olitalia che era presente insieme allo chef promoter Ignazio Brancato: “Partecipare a queste manifestazioni b2b è sempre stimolante perché si crea un rapporto diretto con chi deve utilizzare il prodotto: da questi incontri escono sempre idee nuove, miglioramenti, crescita”. Dello stesso parere anche Federico Libero, promoter di Wiberg, l’azienda specializzata in spezie distribuita in Italia da Demetra: “Le spezie devono essere assaggiate nelle preparazioni basiche per capirne il valore nel piatto ed eventi come questo permettono di poter entrare in contatto con un pubblico professionale che, diversamente, non riusciremmo a contattare in maniera così capillare. Inoltre si ha la possibilità di parlare alla forza vendita del distributore, far conoscere loro i pregi delle nostre spezie, fargli capire quanto possono essere utili nelle cucine dei loro clienti. Insomma, è stata una bella manifestazione”.
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DISTRIBUZIONE Autore: Guido Parri clicca e leggi l’articolo sul web
C.I.F.O. e Agugiaro&Figna la formazione è fondamentale
Il 3 Novembre 2022 si è svolta una demo organizzata da C.I.F.O. Srl e da IL Molino AGUGIARO & FIGNA col Brand 5 STAGIONI, farine speciali per pizzeria, con la partecipazione del maestro Paolo Priore della Scuola Italiana Pizzaioli, presso il MED COOKING SCHOOL di Ceglie Messapica (BR), scuola internazionale di cucina mediterranea, fortemente voluta e sognata dal ristoratore
del luogo Angelo Ricci, uomo di cucina con una grande conoscenza dei prodotti tipici del territorio. L’evento ha riguardato i lieviti speciali per le diverse tipologie di impasti, prodotti e studiati da 5 Stagioni. In particolare, ci si è soffermati sul lievito LEMADY, speciale per impasti di pizzeria tipo napoletana; inoltre, sulle farine MIA, brevettate da Agugiaro & Figna, farine a macina integrata che, con la combinazione di grani selezionati unita ad una macina brevettata, hanno colpito i partecipanti per profumo e fragranza. Una marcia in più rispetto alle normali farine. Questo evento sarà seguito da altri che C.I.F.O. Srl e AGUGIARO&FIGNA organizzeranno sul territorio per far crescere la conoscenza sul mondo AGUGIARO & FIGNA e la sua filosofia di pizzeria nota in tutto il mondo.
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PRODUZIONE Autrice: Marina Caccialanza clicca e leggi l’articolo sul web
Confezioni Negri, l’eleganza della praticità Quando la praticità e la funzionalità incontrano l’eleganza e la classe del made in Italy, il risultato sono divise professionali che soddisfano le esigenze del personale della ristorazione con quel tocco in più che solo la sartoria offre È la forza della famiglia Negri, da trent’anni alla guida dell’azienda, il fulcro dell’attività. Capi d’abbigliamento professionale che, nel corso degli anni, hanno seguito l’evoluzione dei costumi e delle esigenze lavorative, hanno incontrato le tendenze di stile, nuovi materiali e tecniche di lavorazione ma, sempre, hanno mantenuto la caratteristica che identifica il prodotto: la qualità e lo stile made in Italy di capi sartoriali e creati ad hoc per il professionista. Questa particolarità, la produzione su misura per il cliente, è un pregio che Tommaso Negri tiene a mettere in evidenza: “Abbiamo creato linee di prodotto studiate per incontrare il gusto e le esigenze di una vasta platea di professionisti dell’accoglienza, dal barista allo chef, dal pasticcere al commis. Tutti trovano
nel nostro assortimento la divisa che li accompagni in maniera funzionale nello svolgimento dei loro compiti lavorativi”. La produzione su misura e creata ad hoc è il segno che identifica il marchio Confezioni Negri ed è frutto di una sartoria interna organizzata secondo fasi di processo eseguite passo dopo passo da personale competente che studia il cartamodello, esegue il taglio e confeziona ogni capo con cura e attenzione artigianale. “La particolarità delle nostre divise – spiega Tommaso Negri – è l’espressione del vero made in Italy: sartorialità e personalizzazione eseguite secondo i desideri del cliente, con colori aziendali, ricami, stampe, creati e realizzati in base allo stile, alle esigenze di taglia, funzio-
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nalità, praticità e immagine. Una divisa professionale, e di questo siamo convinti, non è solo uno strumento di lavoro, un capo indossato per svolgere una mansione, è un abito che identifica la personalità di chi lo indossa, esprime il suo genere di attività e rende la persona riconoscibile nella sua funzione. Il fatto che si definisca ‘divisa’ vuol dire proprio che riveste un ruolo importante, attribuisce ufficialità al compito. Ecco che, indossare una divisa adatta al ruolo e ben costruita in quanto a modello, colore o funzione, diventa un elemento fondamentale. Inoltre, le nostre divise professionali, dal grembiule alla giacca al copricapo, sono tutte realizzate in tessuti di alta qualità, 100% cotone o cotone e poliestere. Sono tessuti facilmente lavabili e traspirabili per consentire il massimo del comfort”. Il marchio Negri e la bandierina del made in Italy che l’accompagna sono sinonimo di qualità e la clientela li interpreta come un segno di valore da esibire. La linea “chef”, recentemente rinnovata, è oggi composta di giacche in tessuto gabardine 2/1, 100% cotone sanfor oppure in tessuto 65% poliestere 35% cotone, e sono disponibili con o senza inserti in rete su schiena e ascelle, con chiusura doppio petto con bottoni automatici a scomparsa o a ciliegia, con o senza taschino porta penna su manica sinistra e lato cuore. Dettagli di stile e di praticità per ogni gusto e necessità. I modelli sono studiati su base tradizionale o in taglie slim per abbracciare una sempre più ampia vestibilità. “Disporre di una sartoria artigianale interna – afferma Tommaso Negri – vuol dire anche questo, poter soddisfare il cliente con eleganza oltre che con praticità; perché lavorare con indosso un capo confortevole che agevola i movimenti mantenendo l’immagine elegante e professionale, per un operatore, è importante”.
La gamma dei colori è ampia: il bianco è sempre al primo posto nelle preferenze ma conquistano favore anche i colori, innanzi tutto il nero come il blu; capi con inserti di diversi colori per interpretare il marchio aziendale; i ricami o le serigrafie sono eseguiti accuratamente per evidenziare il logo, il nome dello chef, in oro o nei colori scelti. L’assortimento è completo: dal grembiule al davantino, dotati di collo regolabile con tre bottoni o con velcro, tascone centrale o una o due tasche laterali, taschino porta-penna lato cuore e lacci nello stesso tessuto del grembiule; dalla giacca al copricapo, che presenta caratteristiche distintive come la chiusura regolabile con velcro e la visiera rigida o morbida per agevolare l’attività lavorativa. Le divise professionali Negri, infatti, possono essere adottate da tutti gli operatori della ristorazione in senso lato, non solo il cuoco e i suoi assistenti ma gli addetti al laboratorio di cucina, al negozio di alimentari. Nei trent’anni di attività, Confezioni Negri ha interpretato la sartoria professionale con cura e passione, seguendo la visione del fondatore Oliviero Negri, commerciante, e di sua moglie Riccardina, sarta, che hanno dato vita, a Cisano Bergamasco, a un’azienda evoluta e ampliata nel tempo grazie al lavoro dei figli Tommaso, Davide e Valentina, che hanno saputo rinnovare i valori della tradizione con dinamicità e forte senso pratico. Una vera “sartoria”, questo è Confezioni Negri, per professionisti che devono eseguire i loro compiti sentendosi a proprio agio nell’abito che indossano, che offrono un’immagine di eleganza e stile, che identificano il made in Italy nella qualità dei cibi che preparano e nell’immagine che interpretano.
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Conosco Valeria Piccini, Maurizio ed Andrea Menichetti da tanti anni. Ricordo che la prima volta che andai nel loro ristorante Da Caino a Montemerano, Andrea non aveva ancora compiuto i diciotto anni. Valeria, persona simpaticissima, nata, come sottolinea lei, in una famiglia di golosi, con la madre e la nonna che amavano cucinare per dare gioia al prossimo, come faceva a non appassionarsi alla cucina? Il ristorante, due stelle Michelin, si trova in un borgo medioevale del XIII secolo, abitato da 438 persone. Valeria inizia nel 1978 a cucinare nel ristorante e la sua prima maestra è stata sua suocera. Nel 1997 Caino ottiene la prima stella Michelin, nel 1998 entra nell’associazione JRE - Jeunes Restaurateurs d’Europe e, poco dopo, ottiene la seconda stella Michelin. Nel 2005 entra nella prestigiosa associazione Relais & Chateaux. Valeria nel parlare della sua cucina afferma: “Sviluppiamo una cucina innovativa, leggera e moderna”. Il piatto scelto è : Animella glassata al peperone, topinambur e aglio nero: Ingredienti per 4 persone: 500 gr di animelle di vitello Per la glassa : 6/7 peperoni rossi 1 cucchiaio di glucosio, 500 gr di topinambur, serviranno per fare la crema con aggiunta di 1 cucchiaio di pasta di nocciole Per fare la salsa: Far spurgare le animelle in acqua fredda per un paio di ore poi metterle al fuoco con acqua fredda, quando inizieranno a bollire proseguire la cottura per 8/9 minuti. Togliere dal fuoco e farle freddare nel liquido di cottura,
Paolo Baracchino Fine Wine Critic info@paolobaracchino.com www.paolobaracchino.com
Da Caino “animella glassata al peperone, topibambur, e aglio nero” abbinato al “A Carisio Bianco 2018” eliminare il velo e le impurità che le ricoprono. Estrazione di peperoni rossi: metà peperoni cotti in forno e metà peperoni fritti. Passare i peperoni nell’estrattore separatamente, filtrare e unire i due estratti, mettere sul fuoco e far ridurre della metà, unire il glucosio. Scegliere i topinambur, affettarli con una mandolina, friggere in olio di semi a 120/140 gradi e asciugare bene. Affettare sottili altri due topinambur e, con l’aiuto di un coppapasta, rica-
vare dei dischi piccoli che metteremo sottovuoto con del succo di limone. Pelare i restanti topinambur e cuocere separatamente le bucce e la polpa, in forno a 200 gradi, per circa 30/40 min. Trascorso questo tempo trasferire la polpa in un pentolino capiente, unire l’olio, coprire di acqua e portare a cottura. Frullare addizionando la pasta di nocciole e tenere in caldo. Le bucce ben tostate serviranno per fare la salsa. Trasferite in una pentola capiente con olio, bagnato con vino bianco e poca salsa di soia e aceto di riso. Quando saranno evaporati coprire di ghiaccio e lasciare cuocere fino a che il liquido non si sarà ridotto della metà, filtrare e addensare se necessa-
rio. Rosolare bene le animelle con olio e sale, scolare l’olio in eccesso, versare l’estrazione di peperone, glassare aiutandosi con un cucchiaio fino a che il peperone non avvolgerà bene l’animella. Appoggiare l’animella alla sinistra di un piatto piano, sulla destra fare una quenelle di crema di topinambur, ricoprire con i topinambur fritti alternati con quelli al limone e al centro lasciar cadere la salsa fatta con la buccia di topinambur. Il ristorante Caino - 58014 Montemerano (GR), Via della Chiesa 4. Tel 0577/751222 602817, mail : Info@dacaino.it
Il vino da me scelto per l’abbinamento di questo piatto è il bianco a Carisio di Maurizio Menichetti dell’annata 2018. Viene prodotto in bianco e in rosso e prende il nome dal padre di Maurizio Menichetti: “Carisio” detto Caino. Vuole essere un vino della Maremma, con i suoi pregi e difetti, senza ritocchi. La passione di Maurizio per la tavola e per il vino risale a quando a dodici anni era capo trattorista e a quattordici anni era già il referente del ristorante da Caino per la mescita dei vini, a fianco del padre. Questo lo ha portato ad avere una cantina unica, sotterranea, che conta circa 20.000 bottiglie. Maurizio però ha sempre avuto un sogno nel cassetto, quello di fare un proprio vino che fosse la vera espressione della vecchia Maremma. Il figlio Andrea oggi si occupa della sala del ristorante, permettendo così a Maurizio di realizzare il proprio sogno di viticoltore, con due etichette: un bianco e un rosso fatti da vigne di oltre 50 anni, contornate da rose e ulivi, con vista su Montemerano. Le uve prodotte sono: Ansonica, Procanico, Malvasia bianca, Sangiovese, Sauvignon e Petit Verdot. Il bianco viene prodotto in 1200 bottiglie mentre il rosso da 500 a 1000 bottiglie, a seconda dell’annata. Veniamo a degustare questo vino bianco. a Carisio, M. Menichetti, IGT Toscana bianco annata 2018 (Uvaggio: Procanico, Sauvignon e Ansonica) Veste giallo paglierino intenso con riflessi oro. Al naso è vario e interessante con profumi di salsedine, fiori gialli maturi, intesi di sapone di Marsiglia, pepe bianco, buccia di pesca gialla, guscio duro della mandorla, buccia di cedro, iodio, panno caldo inamidato, lievi floreali di calle e di limone. Al sorso è molto sapido, quasi salato con sapore di limone. Il corpo è medio e il vino è piuttosto morbido, si sente la maturità dell’Ansonica che smorza un po’ la freschezza. Il corpo è medio e l’equilibrio tra alcool e freschezza è altalenante. Lunga è la sua persistenza gustativa con finale di sale e limone. (89/100) Trovo che questo vino si adatti agli ingredienti del piatto e questa sua rotondità e sapidità gustativa esaltino il piatto stesso, mantenendo, al contempo, la propria identità. Azienda Vinicola “a Carisio” di Maurizio Menichetti, mail: msangiovese@gmail.com
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Se è vero che “l’uomo è un mondo in miniatura”, “siamo quello che mangiamo”, “felicità è trovarsi con la natura, vederla e parlarle”, appare immediato il legame strettissimo che abbiamo con essa. Nel corso della storia filosofi e poeti si sono interrogati e hanno celebrato l’effetto della Natura sull’essere umano, giungendo tutti alla stessa conclusione: la Terra ci fa bene, ci migliora e ci insegna. Venite con noi nel viaggio alla scoperta del nostro Spirito.
Concept e foto: Sergio Supino Testi : Sonia Leo
Con le mani nella terra e lo sguardo al futuro Nei campi di Spirito Contadino, tra le varie verdure scomparse, si coltivano i Friarielli. Sono ortaggi che raccontano la propria storia e quella del proprio territorio da oltre tremila anni. Essenze vegetali ereditate dai nonni e che con orgoglio, umiltà e dedizione continuiamo a portare avanti. I Friarielli di campo sono l’ingrediente cult della tradizione gastronomica pugliese, protagonisti dei raccolti dei lunghi autunni e inverni. Fanno parte di quella rosa di sapori che ti catapulta in Puglia al solo pensiero, di quella clorofilla brillante che sa di Apulia nell’immaginario mondiale. Un alimento semplice e complesso, che avvalsi di intuito e d’esperienza noi raccogliamo nel momento migliore quando la pianta inizia a svilupparsi e l’infiorescenza ha fiori ancora chiusi. Questo è il picco di qualità del prodotto e nessun macchinario o previsione scientifica potranno sostituire l’esperienza in campo di chi tocca, odora e saggia la sua pianta.
L’Autorevolezza
IN CAMPO
LE CARATTERISTICHE ORGANOLETTICHE DEI FRIARIELLI DI CAMPO
Il clima e il terreno pugliese sono adatti alla coltivazione di questo prezioso ortaggio dalle diverse virtù per la salute e il benessere dell’organismo. I Friarelli di campo sono ricchi di minerali, calcio, fosforo e ferro, vitamine, A, B2 e C. Grazie alla loro composizione svolgono preziose funzioni disintossicanti, aiutando il corpo a depurarsi dalle tossine. Vantano preziose proprietà antiossidanti, proteggono dall’anemia e rinforzano le ossa.
Un elisir di sana vita
che secondo alcune ricerche contribuirebbe a prevenire la formazione di tumori al seno, stomaco, prostata, esofago, pancreas e colon. Inoltre, concorrerebbero a tenere sotto controllo la pressione, il colesterolo e il diabete, ma anche a proteggere l’apparato cardiocircolatorio e a migliorare la circolazione sanguigna. Non a caso la Natura è maestra di vita. Tutto a vantaggio della leggerezza: queste qualità sono concentrate infatti in sole 22 Kcal per 100 grammi di prodotto. Caratteristica che li rende ideali protagonisti di numerose ricette tradizionali ma anche contemporanee, adatti ai nuovi stili alimentari dei nostri tempi.
SANDWICH DI SOGLIOLA di Silver Succi
SASICC E FRIARILL di Gianni Di Lella
La varietà di piatti che è possibile creare è pressochè infinita, il vantaggio per gli Chef è di avere un concentrato di salute e freschezza da offrire ai propri ospiti in svariate forme gastronomiche. Richiedi i Friarielli di Campo al tuo distributore!
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