sala&cucina magazine Giugno 2022

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sala&cucina n. 60 giugno 2022 - Poste Italiane Spa - CN/BO - Edizioni Catering srl – Via Margotti, 8 – 40033 Casalecchio di Reno (BO) - contiene I.P. - costo copia euro 3,50

Giugno 2022

E se, per una volta, parlassimo dei lavapiatti? I giovani di sala

Inno alla vita Glion Institute, dove l’ospitalità ha un cuore pulsante

Gabriele Zanatta

La gastronomia è una scienza che va trattata al pari delle altre




LA REDAZIONE

Mario Benhur Tondini presidente Edizioni Catering srl

Imprenditore nel settore della distribuzione alimentare, gestisce con il fratello Oscar l’azienda di famiglia a Cavriana (MN), dove ha svolto anche l’incarico di sindaco. Le competenze maturate sul piano professionale e su quello amministrativo lo hanno portato alla convinzione che il principio della condivisione sia la miglior modalità di crescita. Molte sue iniziative, anche all’interno del gruppo Cateringross (che detiene la titolarità della casa editrice), di cui è consigliere d’amministrazione, vanno in questa direzione. A questo affianca una forte sensibilità per ogni azione che dia valore al suo territorio.

Luigi Franchi Direttore responsabile

Prima fotografo di cibo e territori, poi comunicatore, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico. e infine giornalista di enogastronomia. Tra le sue principali pubblicazioni, scritte e/o coordinate: La prima edizione della Guida al turismo del vino in Italia, per conto del Movimento Turismo del Vino, (1997), I parchi e il turismo enogastronomico (2004), Il marketing delle Strade del Vino edizioni Agra – Rai Eri (2005), Atlante Alimentare Piacentino, con Valentina Bernardelli (2007), “cuo chi, due anime in cucina”, con Alessandra Locatelli, GL.Editore (2009), Dalle Terre Traverse al Po, GL.Editore (2010), ideatore e coautore dei Maestri del lievito madre, Edizioni Catering (2014), coautore della guida online dedicata alla ristorazione Meglio Prenotare, Edizioni Catering, Le interviste (2018) editore Mediavalue. Co-direttore di Food & Book, festival nazionale di editoria enogastronomica

benhurtondini@salaecucina.it

luigifranchi@salaecucina.it

Marina Caccialanza

Simona Vitali

Redazione

Milanese, un passato come traduttrice, da diversi anni giornalista e redattrice per riviste del settore alimentare rivolte al mondo dell’artigianato e all’industria, in particolare nel campo della ristorazione, del dettaglio specializzato e della ricerca. Contribuisce alla realizzazione di importanti libri di comunicazione gastronomica in Italia e all’estero diretti ai professionisti e ai consumatori. Collabora con le redazioni di sala&cucina, Ecod e Trenta Editore.

marina.caccialanza@gmail.com

Giulia Zampieri Redazione

Ricorda con esattezza il profumo del primo pane preparato all’età di sette anni. Forse il suo primo traguardo e, soprattutto, l’inizio di una grande passione: per le cose semplici, per la genuinità, per gli alimenti che crescono e prendono forma. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche, la specializzazione in comunicazione enogastronomica, e un periodo di alternanza nelle cucine, ha chiara la missione: scrivere per comunicare. Come? Utilizzando gli strumenti di oggi e la curiosità di sempre. Gionalista pubblicista, collabora anche con le guide del Gambero Rosso e Identità Golose.

giuliazampieri@salaecucina.it

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Redazione

Laureata in filosofia, ha lavorato nella comunicazione e organizzazione di grandi eventi a Parma. Ha ricevuto una prima inconsapevole educazione al gusto per il cibo grazie all’ indimenticato oste dell’Osteria di Felino (PR), il nonno materno Massimino. Con gli studi umanistici è poi arrivata seconda, consapevole, educazione al gusto per l’utilizzo delle parole secondo il loro significato. La usa a piene mani anche per chi di parole non ne riceve mai troppe. La sua amorevole attenzione va alla linfa della ristorazione, il mondo delle scuole alberghiere, e in generale alle storie intrise di valori e buoni esempi.

s.vitali@salaecucina.it

Gabriele Adani Grafico

Modenese, appassionato di arte figurativa, fotografia e linguaggi di comunicazione visiva. Nel 1992 inizia il suo percorso professionale presso una casa editrice. Lavora poi in uno studio grafico e fonda una piccola agenzia di comunicazione in cui ricopre il ruolo di direttore creativo per 18 anni. Viaggiatore, utilizza i frequenti viaggi a Londra e nel Sud Est asiatico per arricchire il suo bagaglio culturale e placare la sua innata curiosità per le altre culture. Dal 2019 lavora in proprio, occupandosi di fotografia, grafica e consulenze nel campo della comunicazione.

grafica@salaecucina.it

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SOMMARIO

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LETTERA APERTA

E se, per una volta, parlassimo dei lavapiatti? | Luigi Franchi 9 EDITORIALE La ripresa c’è! Mantienila | Benhur Tondini 10 PARLIAMO CON GABRIELE ZANATTA | Luigi Franchi 15 VENDI CON SUCCESSO Il nome del piatto emoziona il cervello del cliente | Lorenzo Dornetti 17 OSPITALITÀ Ma serve studiare per fare il cameriere? | Sebastiano Tramontano 19 L’OLIO AL CENTRO Oli Dedicati. Una innovazione di servizio | Luigi Caricato 21 LAVOROTURISMO.IT La grande bellezza di lavorare nell’ospitalità. | Oscar Galeazzi

sala&cucina n. 60 giugno 2022 - Poste Italiane Spa - CN/BO - Edizioni Catering srl – Via Margotti, 8 – 40033 Casalecchio di Reno (BO) - contiene I.P. - costo copia euro 3,50

Giugno 2022

E se, per una volta, parlassimo dei lavapiatti? I giovani di sala

Inno alla vita Glion Institute, dove l’ospitalità ha un cuore pulsante

Gabriele Zanatta

La gastronomia è una scienza che va trattata al pari delle altre

22 IN SALA I giovani di sala | Giulia Zampieri 26 FORMAZIONE Glion Institute, dove l’ospitalità ha un cuore pulsante | Luigi Franchi 30 RITRATTI Inno alla vita | Simona Vitali 34 FARE RISTORAZIONE Visioni innovative sulla cucina vegetale | Giulia Zampieri 38 FARE RISTORAZIONE Antica Cagliari, un modello di buona e bella ristorazione | Luigi Franchi 44 FORMAZIONE Ci sono concorsi e concorsi... | Simona Vitali 47 LIBRI Massimo Spigaroli una mia idea di cucina gastrofluviale| Guido Parri 48 TERRITORI Napoli, unica e poliedrica | Marina Caccialanza

N° 60 giugno 2022 Foto di copertina: Stefano Caffarri EDITORE Edizioni Catering srl Via Margotti, 8 40033 Casalecchio di Reno (BO) Tel. 051 751087 – Fax 051 751011 info@salaecucina.it - www.salaecucina.it PRESIDENTE Benhur Mario Tondini benhurtondini@salaecucina.it DIRETTORE RESPONSABILE Luigi Franchi luigifranchi@salaecucina.it COLLABORATORI ESTERNI Paolo Baracchino, Luigi Caricato, Bruno Damini, Lorenzo Dornetti, Oscar Galeazzi, Guido Parri

52 ASSOCIAZIONISMO Cosa fa il Banco Alimentare | Luigi Franchi 56 DISTRIBUZIONE L’assemblea di Cateringross ha approvato il miglior bilancio della sua storia | Guido Parri 58 PRODUZIONE Olio di semi di girasole alto oleico BigChef | Guido Parri 60 PRODOTTI Verdure in tavola, protagoniste e non contorno | Marina Caccialanza 64 PERSONE Premiate Trattorie Italiane | Bruno Damini 68 RISTORANTI Tentazioni Ristorante, gusto e inclusione | Marina Caccialanza 70 PIZZERIE Il Point, napoletana contemporanea | Marina Caccialanza

FOTOGRAFIE Archivio sala&cucina, Niko Boi, Claudia Calegari, Lido Vannucchi, Matteo Zanardi * L’editore è a disposizione per eventuali crediti fotografici di cui si ignora la fonte

RIVISTA PARTNER dell’Associazione PUBBLICITÀ Tel. 331 6872138 marketing@salaecucina.it www.salaecucina.it PROGETTO GRAFICO Gabriele Adani - www.gabrieleadani.it

76 ASSOCIAZIONE GASTRONOMI PROFESSIONISTI Vino: un viaggio nel tempo | Giorgio Maria Zinno 80 ABBINAMENTO La triglia in crosta di pane allo zafferano del ristorante Santa Elisabetta abbinata al Faro Palari annata 2010 | Paolo Baracchino 82 NOVITÀ Tagli di bovino in stile bbq, quali valorizzazioni? | Guido Parri

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STAMPA EDIPRIMA s.r.l. – www.ediprimacataloghi.com TIRATURA E DISTRIBUZIONE – 28.900 copie Ristoranti, trattorie e pizzerie 20.700 – Bar, pub e birrerie 4.000 – Hotel 3.100 – Grossisti e distributori f&b 1.100 Costo copia mensile: 3,50 euro abbonamento annuo 30,00 euro Per abbonarsi: info@salaecucina.it

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Tutta la buona cucina gira intorno a un grande olio. Un olio che sa legarsi a ogni ingrediente e che sa legare insieme gli ingredienti di ogni piatto. Che sa legare esperienza e creatività, passione e professionalità. Un olio che ha una storia familiare che unisce insieme tradizione e innovazione, vecchie abitudini e nuove tendenze. Nasce dalle materie prime migliori ed è frutto della ricerca e dell’esperienza. Un grande olio è un olio che fa parte di una grande famiglia, quella di Olitalia. Una famiglia affidabile, sempre presente nelle migliori cucine di tutto il mondo. E da oggi anche nella tua.

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LETTERA APERTA Luigi Franchi

direttore responsabile

E se, per una volta, parlassimo dei lavapiatti? Questa è la testimonianza di Roy Caceres, chef colombiano arrivato in Italia nel 1993 che ha cominciato come lavapiatti in un ristorante di Misurina, sulle Dolomiti. “Mi sono proposto di dargli una mano e ho iniziato a imparare. Mi regalò lui il mio primo libro di cucina L’arte della cucina moderna di Henri-Paul Pellaprat. Una sorta di Bibbia per cuochi. Me lo regalò fotocopiato, perché era introvabile (Testo didattico di riferimento, stampato nel 1935, offre una raccolta attenta e dettagliata delle tecniche di cottura e conservazione, del corretto uso delle spezie, dei procedimenti di base, ndr). Leggevo con avidità e guardavo le preparazioni dello chef. Ho sempre pensato che i libri e le persone siano fonti di incredibile saggezza. Poi ho iniziato a comprare la rivista Grand Gourmet, all’epoca costava 20.000 lire, non era poco. Ma mi ero appassionato a quella materia che richiamava tanti ricordi e risuonava con il mio piacere di mangiare”. Lui ha trovato uno chef che gli ha insegnato il mestiere, ma è uno dei pochi che ha avuto questa fortuna, altri, molti altri continuano, per una vita intera, a fare il lavapiatti. Ruolo fondamentale nella vita di un ristorante! Per davvero! Uno chef può sempre essere aiutato dalla brigata, un cameriere dallo chef che porta i piatti in sala, ma il lavapiatti è sempre solo, non può ammalarsi, verrebbe, in alcuni casi, subito licenziato proprio a causa della sua indispensabilità. In altri, rari, rarissimi, è accolto all’interno della brigata come uno di loro, ma le ore che passa nelle cucine del ristorante solitamente sono ore di silenzio, duro lavoro, rimproveri. E di loro che garantiscono il perfetto funzionamento di mille sera-

te si sa molto poco: i manuali dicono che lo stipendio annuale è di 29.000 euro, ma non si sa se sono netti (improbabile) o lordi e, quindi, all’incirca 1.000 euro al mese. Molti sono stranieri che, a volte, non parlano neppure italiano. Ma sono indispensabili, dicono tutti i ristoratori, tutti gli chef, tutti i maître del Paese. Allora facciamo in modo che questa indispensabilità sia davvero premiata, non limitiamoci a dirlo. Facciamo in modo che almeno la scarsa vita sociale di una brigata li veda coinvolti, che anche loro possano dire la loro sui modelli di gestione della ristorazione italiana. Non usiamo solo termini più forbiti per definirli, come ad esempio, addetti alla plonge; fa persino figo. Le loro mansioni, solitamente, sono le seguenti: • Lavare a mano o in lavastoviglie piatti, bicchieri, posate, strumenti e utensili di cucina, avendo cura di ripulirli tutti da avanzi e residui; • Asciugare piatti e stoviglie e riporle al loro posto; • Pulire affettatrici, impastatrici, forni, frigoriferi, cappe aspiranti e tutte le altre attrezzature all’interno della cucina, controllandone sempre il funzionamento; • Pulire, igienizzare e disinfettare i pavimenti e le superfici di lavoro della cucina alla fine di ogni turno, attenendosi alle norme igieniche previste; • Fornire supporto alle operazioni di preparazione delle pietanze al cuoco e al personale di cucina quando richiesto; • Mantenere costantemente l’ordine e la pulizia in cucina, riordinandola alla fine di ogni turno e preparando gli strumenti per l’uso in maniera che tutto sia pronto per il turno successivo; • Gestire lo smaltimento dei rifiuti; • Aiutare nelle fasi di approvvigionamento del magazzino e di ritiro dei prodotti da parte dei fornitori. Da qui si capisce l’importanza che rivestono, eppure il tutto è per uno stipendio base che varia dai 660 euro al mese ad un massimo di 1.000 euro. Una vergogna, visto che, da più parti, sono definiti, giustamente, indispensabili per il buon funzionamento del ristorante. E una contraddizione in termini se poi parliamo di benessere dei clienti, mentre si fa ancora molto poco per il benessere di chi ci lavora.

luigifranchi@salaecucina.it | giugno 2022

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LA RETE DEI RISTORANTI ETICI

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LA RETE DEIÈ un RISTORANTI ETICI progetto

che vuole dare valore ai ristoranti che abbiano l’etica del lavoro. Per saperne di più amodo.salaecucina.it dove si può inviare la scheda di adesione


EDITORIALE Benhur Tondini

presidente sala&cucina

La ripresa c’è! Mantienila I dati di aprile e maggio indicano una forte ripresa dei consumi fuori casa che si avvicina ai livelli pre-pandemia. Non è il momento di gridare vittoria con una guerra in Europa di cui non si conosce l’esito finale, ma pensare che il settore della ristorazione abbia ripreso fiato, e con esso anche quello degli hotel, per noi vuol dire molto! Ora è importante che la lezione del Covid venga analizzata e non dimenticata e che si cerchi di adottare un nuovo modo di lavorare per portare al successo il proprio ristorante. Tutti abbiamo cambiato prospettiva rispetto al lavoro, agli stili di vita, ai bisogni veri, e anche andare al ristorante è diverso. Si sono affacciate parole nuove nel nostro linguaggio in questi ultimi due anni: la più diffusa è sostenibilità, l’altra è resilienza ma anche parole come rispetto o scelta consapevole stanno emergendo ogni giorno. E, a pronunciarle, non è una sola categoria di persone o una fascia di età particolare. Sono ormai diventate linguaggio comune e anche chi gestisce un ristorante deve tenerne conto, insieme ad altri pochi consigli che riteniamo opportuno darvi: consigli dettati dall’esperienza che ci fa incontrare, ogni giorno, decine di vostri colleghi, con i vostri stessi problemi e opportunità. L’unica differenza che rileviamo è questa: chi sta fermo è perduto. Sono finiti i giorni in cui bastava stare accanto al telefono e ricevere delle prenotazioni, ai clienti è neces-

sario essere vicini, è una pratica in atto da tempo, ora più che mai. E, oltre a questo, suggeriamo di: • Restare aggiornato su tutte le misure e le agevolazioni che sono in essere; il riconoscimento del credito d’imposta, i bonus per la formazione, le offerte dei distributori quando ci sono. • Comunicare con i propri clienti; ora che tutto sembra essere di nuovo possibile cerca di comunicare che stai facendo cose nuove, un nuovo menu, una piccola ristrutturazione, nuovo personale. Ringraziali se, durante il lockdown, si sono avvalsi dei tuoi servizi di delivery, falli sentire indispensabili per la crescita del tuo ristorante, falli sentire importanti quando vengono a trovarti, ma con la semplicità dei gesti e della stima. • Riorganizzare e ottimizzare i costi; significa un nuovo rapporto con il personale, ad esempio risparmiare qualcosa su spese superflue e dare qualcosa in più ai dipendenti. Credi nelle persone e nel loro contributo per fare del tuo ristorante un luogo di armonia, di buon cibo, di trasparenza. • Migliorare la reputazione; oggi le persone che decidono di andare in un ristorante hanno mille opportunità e modi per sceglierlo: dai social al passaparola. E molti guardano anche al non detto: quindi comportati sempre nel migliore dei modi, cerca di avere un personale motivato perché la prima cosa che si nota quando si entra in un locale è proprio quella. Tieni in ordine il locale, pulito, sicuro, infondi queste sensazioni al cliente, sempre. Si tratta di piccoli suggerimenti che, a volte, non prendiamo in considerazione ma vedersi con altri occhi è un esercizio che val sempre la pena di fare. Ci aiuta a guardare avanti e a vincere molte scommesse professionali.

benhurtondini@salaecucina.it | giugno 2022

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PARLIAMO CON Parliamo con… Gabriele Zanatta, classe 1973, laureato in filosofia, coordinatore della guida di Identità Golose, giornalista, docente in diverse scuole di alta cucina, come ALMA, e di scienze gastronomiche; autore di un libro insieme allo chef Cesare Battisti

UN PROFONDO CONOSCITORE DELLA RISTORAZIONE

Gabriele Zanatta

La gastronomia è una scienza che va trattata al pari delle altre Autore: Luigi Franchi 10

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Parlare con Gabriele Zanatta, come in questa intervista di poche domande, significa fare un interessante viaggio tra decine di argomenti che hanno come filo conduttore la gastronomia, una pratica che esiste da millenni ma che è stata riconosciuta come scienza solo da pochissimi anni. Cominciamo con una domanda su di lui, persona apparentemente schiva. Gabriele, le tue biografie dicono sempre molto poco, che sei nato nel 1973, laureato in filosofia e curatore della guida di Identità Golose, ma in questa intervista vogliamo conoscerti di più: chi sei, come hai fatto ad approcciare a questo mestiere, cosa ti piace di più scrivere, quanto tempo dedichi alla tua formazione? “Sono nato e cresciuto a Milano, ho studiato filosofia all’università e avrei tanto voluto insegnarla, ma mio padre morì quando avevo vent’anni e, di conseguenza, pensare di campare con la collaborazione all’università significava attendere decenni prima di avere uno stipendio adeguato. Ho quindi iniziato a scrivere, di cultura, di filosofia teoretica, fino al giorno in cui ho incontrato Paolo Marchi che aveva una pubblicazione periodica – Affari di gola - sul Giornale. Era una delle poche rubriche che, a cadenza fissa ogni domenica, parlava di argomenti che oggi sono mainstream. In quel periodo fumavo come un turco e fu naturale che mi affidassero il tema dei sigari. Mi piaceva l’aspetto laterale di questo argomento, non solo quello edonistico e degustativo. Questo primo percorso mi portò a fondare un sito che si chiamava cigarstyle con l’allora direttore di Capital, per cui scrivevo: Giovanni Iozzia. A un certo punto smisi di fumare e fu normale smettere di scriverne. Nel 2003 Paolo Marchi mi disse che voleva portare in Italia un congresso di gastronomia, un mestiere che, solo vent’anni fa, era considerato di serie C, senza troppo appeal, perché la gastronomia era sempre stata relegata nei gironi più bassi del sapere a causa, tra le tante, di una visione cristiano cattolica dell’argomento; la gola era stata associata, per millenni, agli istinti corporali più bassi. Dissi a Paolo che l’idea mi piaceva molto, amavo mangiare in giro, mio padre era un vero cultore della tavola; la componente della fortuna ha giocato quindi, un suo ruolo, perché il congresso, da quel momento, diventò un appuntamento irrinunciabile. Nel 2004, alla prima edizione di due giorni, i relatori erano 18, nel 2022 i relatori sono stati 90. Io sono sempre stato free-lance, mai assunto da Identità Golose con cui il rapporto dura da ormai diciannove anni. Oggi sono il caporedattore della guida di Identità Golose e scrivo per il sito. Da qualche tempo il rapporto si è un po’ eroso perché dedico sempre più tempo a insegnare, che è la cosa che mi piace di più. C’è sempre più letteratura sul cibo e questo è molto importante perché la letteratura gastronomica non è mai stata adeguatamente considerata, fin dai tempi di Apicio, il primo gastronomo dell’Occidente, che veniva definito corruttore di giovani perché osava insaporire il sugo con dei fegati di triglia. Mi sono sempre chiesto perché non sia mai esistito un manuale di storia della gastronomia, al pari di quelli del teatro, del cinema, di tante altre professioni. La risposta è che non è mai stata considerata al livello di una professione, di un’arte, di una disciplina proprio perché c’è sempre stata una censura sui modi di mangiare, | giugno 2022

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Gabriele Zanatta e la chef Antonia Klugmann

come se quello che mangiamo non modificasse ciò che siamo. Oggi invece siamo passati dal nulla all’eccesso di informazione. I cuochi erano una congregazione da sottoscala, ora sono all’apice dei lavori più affascinanti. A me piace capire perché, perché i ristoranti sono fatti in un certo modo, perché noi stiamo seduti a tavola e usiamo le posate. Motivi storici precisi, che cerco di spiegare a tutti i ragazzi a cui faccio lezione nei master alla IULM, al Gambero Rosso, ad ALMA, per citare i principali dove insegno”.

mazioni che riusciamo a garantire sempre aggiornate, possiamo cambiare la legenda, dare valore, come nel caso della pandemia, ai ristoranti con spazi esterni, a quelli che fanno delivery, indicare cuochi e prezzi che cambiano. Poi arriva un giorno che quelle informazioni vengono cancellate e riscritte tutte per la nuova edizione. Abbiamo un limite e una posizione di svantaggio: è scritta solo in italiano e non diamo punteggi. Diamo, invece, valore alle storie e alle persone che lavorano nella ristorazione italiana perché non ci piace restringere questo in un simbolo, sia esso un cappello o una stella. Qual è il ruolo delle guide oggi? È sicuramente cambiato, una guida incide meno che in passato, Tripadvisor ha una capillarità straordinaria, aggiornata, che noi stessi sfruttiamo perché mi interessa sapere, guardo le foto e capisco. Credo però che di autorevolezza ci sarà sempre più bisogno. Si tratta di capire quali sono i modelli. Ad esempio, il New York Times ha dichiarato di aver superato, nella versione digitale, il suo numero di lettori; un paradigma rivoluzionario, se ci pensiamo bene: il maggior quotidiano del mondo che cambia così! Ma questo dimostra che non toglie autorevolezza al suo stile giornalistico”.

Ora sappiamo più cose di te, finalmente! Sei curatore, o caporedattore come ti definisci in maniera riservata, di una guida, quella di Identità Golose, che per prima ha scelto di uscire solo in digitale. È stata una scelta vincente? E qual è il compito di una guida oggi? “Il direttore della guida è Paolo Marchi, io sono il caporedattore e faccio da tramite tra i suoi desiderata e i 100 collaboratori, 85 italiani e 15 che scrivono dall’estero, della guida. Tra me e Paolo c’è un rapporto di fiducia che è cresciuto nel tempo. La guida, come hai specificato, dal 2015, otto anni dopo la prima edizione, è solo in digitale, questo significa un lavoro costante che ha a che vedere con la crisi del cartaceo. Una guida cartacea, in Italia, viene scritta solitamente in primavera e, quindi, si parla di quel menu stagionale, ma poi esce in autunno e già questo è un paradosso. In digitale, invece, si può innanzitutto porre riparo agli errori perché sappiamo bene che una guida può essere anche una somma di errori che, in digitale, si possono correggere; la guida di Identità Golose contiene circa 40.000 infor-

Uno su mille ce la fa, cantava Gianni Morandi. E questo mi rimanda a un dato preoccupante che ho letto in questi giorni: l’Italia è l’ultimo paese della Comunità Europea in una classifica che vede tra i giovani dai 15 ai 34 anni, uno su quattro che non lavora e non studia. Questo non significa che non vogliono lavorare ma che, quando cercano di farlo, per esempio nel nostro settore, le proposte che ricevono sono vergognose: sei euro, quando va bene, per scrivere un articolo, o 20 per una recensione che, se fatta bene, significa spenderne 60 nel ristorante. Cosa pensi di tutto questo? “Io penso che il lavoro vada sempre retribuito, sempre! Quello che racconto sempre ai ragazzi che vengono fare corsi di comunicazione è: quante persone fanno questo lavoro al 100%? Quante ottengono un reddito che consenta loro di vivere di questo? Trenta, quaranta! Io credo che il numero di persone sia in crescita, seppur in piena crisi dell’editoria e, a muovere tutto questo, è la passione sconfinata che questo settore produce. A scrivere le guide sono, in genere, gentleman writer, persone che hanno raggiunto una posizione professionale e che non hanno bisogno di guadagnare da questo, perché altrimenti non si riuscirebbe a produrre una guida, solo la Michelin ha ispettori stipendiati totalmente. La gastronomia sta vivendo questo squilibrio informativo, dopo duemila anni di silenzio, quindi occorre definire le coordinate di questo mondo che, intanto, abbiamo capito che è rilevante per la crescita della società. È un primo passo importante! Ritornando ai giovani la preoccupazione più grande è che non abbiano gli strumenti

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collettivi per affrontare il mondo del lavoro. Dall’altro lato la passione è talmente grande che riescono a crearsi tanti lavori che, alla fine, troveranno sempre una loro soddisfazione e identità, anche se ci vuole tempo. A loro spiego sempre che il risultato, per chi vuole scrivere di gastronomia, non si misura dai decibel prodotti dai social, ma dallo stile del linguaggio, dalla scelta di vocaboli. La gastronomia ha un linguaggio molto povero perché non ha avuto, finora, dignità di disciplina ed è ancora più difficile emergere con uno stile ma riuscirci è la più grande delle soddisfazioni. Ad esempio scrivere di come l’alta cucina del Novecento ha modificato la cucina di oggi sarebbe un’esperienza straordinaria. Chi scrive di Escoffier, un soldato in tempo di guerra, che ha cambiato la storia della gastronomia? Ognuno di noi, che ha un’esperienza almeno ventennale, dovrebbe mettere a disposizione la propria esperienza ai ragazzi, in maniera disinteressata. Il messaggio da dare è che la passione può tutto, anche modificare le condizioni strutturali negative”. Qual è il ruolo del critico gastronomico nel definire una cucina comprensibile? “Negli ultimi vent’anni si è spaccato il capello in quattro sul ruolo della tecnica. Si sanno sulla tecnica di cucina più cose di quelle dette negli ultimi cent’anni e questo è stato utile e bellissimo. Oggi, però, ci rendiamo conto che il valore di un ristorante riposa in tutti gli altri aspetti extra-gastronomici; diventano importanti le emozioni del cliente. Se si apre la porta all’ospite del ristorante, ad esempio, si è già a buon punto nel suo grado di soddisfazione, poi contano gli odori, i suoni, i comportamenti di chi è in sala. Mentre le guide, ed è un paradosso, dedicano il 95% dei commenti solamente all’assaggio, ma non c’è alcun dubbio che un ristorante è un luogo che deve ristorarti, rimetterti in sesto e questo è il suo valore originale. Una ricerca della Bocconi spiegava che un cliente torna al ristorante perché c’è stato bene e non perché ha solo mangiato bene. Aspetti

che non conosciamo ancora a fondo: l’odorato di cui sappiamo ancora poco; la musica dove siamo quasi all’anno zero. Per non parlare degli aspetti dell’inclusività, della sostenibilità che deve avere un ristorante. Aspetti che voi di sala&cucina, con il vostro progetto Amodo, la rete dei ristoranti etici, siete riusciti a portare alla luce in maniera perfetta. Abbiamo capito che la tecnica e la bontà dei piatti incide al massimo del 40% nella scelta di un ristorante. Guide come quella di Noidisala che parla solo dell’accoglienza diventa uno strumento moderno, utile per la scelta. Ricordo che una volta Josep Roca del Celler de Can Roca aveva fatto una lezione sui diagrammi di calpestabilità del suo ristorante, dove i camerieri non si sarebbero mai scontrati. Il cuoco, invece, ha una visione che si ferma al pass. Una visione parziale che si scontra con il paradosso che sono i cuochi, negli ultimi vent’anni, ad aprire i ristoranti. Mentre aprire un ristorante significa avere grandi vedute e competenze su una infinità di cose. Del resto, l’etimo dei ristoranti è questo; ristorare le persone, lungo le grandi vie del pellegrinaggio dove non si sceglieva per il miglior brodo ma per rifocillarsi, riposare, riprendere forze”. La televisione ha fatto molto per affermare il valore della gastronomia, dei cuochi, del cibo. Grazie ad essa i ragazzi che si iscrivono agli istituti alberghieri sono tanti, ma l’alberghiero ha ancora l’immagine di una scuola per chi non ha voglia di studiare o per chi è di una classe sociale meno abbiente: cosa si può fare per cambiare questo stato di cose? “Innanzitutto bisognerebbe formare la maggior parte dei formatori, riscrivere i testi scolastici perché si insegnano ancora i fondi bruni e il servizio al guèridon come espressione massima della cucina, elementi che sono stati importantissimi nel Novecento ma che non sono più adeguati. La letteratura didattica va riscritta e questo è un compito delle istituzioni, da adempiere velocemente perché il mondo è cambiato e, con esso, la ristorazione, tutta la ristorazione. Gli istituti alberghieri


hanno dati di afflusso incredibili, la tv generalista ha avuto un grande ruolo in questo, ma bisogna procedere oltre. La gastronomia è una scienza che va trattata al pari delle altre, dobbiamo recuperare il tempo perduto, capire che quello schema di mangiare è cambiato completamente: si mangia fuori sempre più spesso e, anche quando si è in casa, ci si avvale della cucina di un ristorante. Cambiano le modalità e non deve cambiare l’insegnamento? La didattica alberghiera è ferma a un mondo che non esiste più. Va riscritta per dare valore a questa scienza, raccontando anche che è una fatica enorme, dove il gesto è replicabilità. Questo devono saperlo i ragazzi che arrivano a un istituto alberghiero. Dobbiamo dare un valore sociale al mestiere e, per questo, le istituzioni devono fare la loro parte. In Francia avviene da 200 anni, Marie-Antoine Carême era il cuoco che, agli inizi dell’Ottocento, veniva chiamato a corte per i pranzi diplomatici. Noi abbiamo dato valore alla cucina italiana solo da quando si fanno le settimane della cucina italiana nel mondo, cioè da qualche anno. Un grande gap culturale, però oggi va meglio di vent’anni fa e non ho dubbi che le cose andranno sempre meglio”. I giovani cuochi oggi in Italia non riconoscono maestri: è così o è una mia sensazione? “Si, è così, e questo è uno dei lati deteriori dei reality-show che fanno pensare che tutti possono essere talenti che devono esprimersi subito. Questo genera uno scarso riconoscimento dei maestri, però la gavetta è un fattore fondamentale in cucina, la replicabilità del gesto di cui parlavamo prima diventa maestria a furia di prove su prove. Non ci sono maestri, è vero, l’ultimo di cui si parla è Gualtiero Marchesi che passava del tempo a insegnare anche con l’esempio. Gli chef di oggi sono diventate figure pubbliche così in fretta che non hanno saputo bene gestire questo lato delle cose. Ma la ristorazione ha bisogno di strutture formative importanti e Niko Romito ci sta provando”.

molte persone decidono di cambiare mestiere, e questo è un problema mondiale. Un ristorante è la somma delle persone che lo compongono e, se una persona non è felice di quello che fa, come può rendere felici gli ospiti. Questa è la sostenibilità. Poi c’è anche quella ambientale e quella economica. I ristoranti che aprono, in molti casi, lo fanno senza un business-plan, dando un valore approssimativo ai piatti in menu, ma i ristoranti sono aziende complesse”. Come è cambiata la ristorazione dopo due anni di Covid e come sono cambiati i clienti? “Tantissimo, è evidente! Anche nel mio caso ho un po’ rarefatto le visite, per me è sempre più importante stare bene e non solo godere della tecnica. Se devo semplicemente analizzare un menu degustazione mi interessa meno. La ristorazione è cambiata tanto perché sono venuti al pettine tutti i problemi. Ad esempio, i ristoratori devono dare almeno due giorni di riposo. Devono generare dei progetti per il loro ristoranti e per i propri dipendenti. La trasparenza è sempre più importante! Non c’è una vocazione in questo momento storico per l’ospitalità e questo è paradossale. Un altro forte cambiamento riguarda le materie prime nella ristorazione, e qui entra in gioco la sostenibilità ambientale. Antonia Klugmann dice una grande verità quando afferma che certi ingredienti diventeranno volgari come è successo con le pellicce anni fa. Non possiamo più mangiare alimenti che rischiano di scomparire, oggi il massimo del lusso è il wagyu ma come vengono allevati questi animali? L’istituto dei tumori ha evidenziato che, nel 2060, il numero di vegetariani supererà quello degli onnivori in questa parte privilegiata del mondo, un dato di cui dobbiamo tenere conto. Ti rendi conto di quanti argomenti abbiamo trattato in una sola intervista? È questo ciò che genera la storia della gastronomia”.

Oggi si parla molto di sostenibilità; per un ristorante come la si individua? “Io penso che il significato più importante di sostenibilità sia legato alle persone che lavorano in un ristorante; cioè in un luogo dove tutti i componenti possano lavorare in armonia, cosa che, in molti casi, non succede ancora adesso. Questo è molto interessante per capire la storia della gastronomia e della cucina stellata che nasce da Escoffier che, alla fine della guerra franco-prussiana, pensò di organizzare la cucina come un campo militare, abitudine che è rimasta ancora intatta in molti ristoranti. Tutto questo ha generato anche tossicità nei ristoranti odierni dove un sous-chef ritiene lecito trattar male un commis. Invece è necessario un riequilibrio della situazione: con stipendi soddisfacenti; con un giusto rapporto lavoro-vita, il motivo per cui oggi 14

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VENDI CON SUCCESSO Lorenzo Dornetti ceo Neurovendita

Il nome del piatto emoziona il cervello del cliente I clienti nel Never Normal vogliono vivere esperienze indimenticabili ed essere emozionati, per dimenticare lo stress di questa ‘mai normalità’. Tra guerra, paura del covid e timori per l’economia vanno al ristorante per regalarsi uno spazio di relax e socialità. Il momento conviviale diventa una sorta di bolla per estraniarsi dalle negatività del mondo che il cliente vede sui media e social media. Il cliente desidera emozioni positive. Nella ristorazione moderna, guidata anche dalle neuroscienze, tutto deve essere pensato per regalare, un’esperienza wow. I dettagli fanno la differenza. Per questo voglio focalizzare questo articolo sull’importanza del nome delle pietanze. Il nome di un piatto e le parole con cui viene raccontato, sono fondamentali per il cervello del cliente. Le parole generano un’intensa attività cerebrale. Hanno un’enorme capacità di attrarre l’attenzione, emozionare ed essere ricordate. Nei primi secondi in cui il cliente riceve il menù, il cliente è indeciso su cosa ordinare, quello che legge cambia la sua percezione. Il personale di sala può aiutare nella scelta, usando termini specifici. Davvero cambiando il nome di un piatto aumenta la probabilità che il cliente lo scelga e possa emozionarsi? Si! Tutto dipende dallo straordinario impatto delle parole sul cervello del cliente. NEUROVENDITA, il campo di applicazione delle neuroscienze alla comunicazione commerciale, dimostra che esistono parole che attivano più di altre il cervello del cliente. Gli studi attraverso il

potenziale evocato, una tecnica che misura il livello di attività cerebrale di fronte a specifici stimoli, mostrano correlazione significativa tra l’ascolto di alcune parole e l’aumento dell’attenzione nel cliente. È stata dimostrata l’iperattivazione nel cliente quando legge o sente le parole che appartengono a quattro categorie. Le parole che rimandano al movimento: veloce, rapido, elastico, flessibile, dinamico, scalare, scendere, salire, camminare, scivolare. Le parole che richiamano la sensorialità: morbido, fresco, caldo, dolce, robusto, solido, soffice, chiaro, limpido, luminoso, aromatico, profumato. Le parole onomatopeiche che riproducono un suono: croccante, spumeggiante, roboante, boom, crash, tam tam, wow. Le parole che risuonano emotività: serenità, entusiasmo, gioia, paura, felicità. Scegliere queste parole nella descrizione e nel nome di alcune pietanze attrae l’attenzione del cliente, determinando maggior coinvolgimento attentivo ed emotivo. Ecco alcuni esempi pratici. Basta provare ad immedesimarsi nel cliente che parla con il personale in sala mentre sta decidendo il piatto da ordinare. Sceglie più facilmente un Filetto di salmone oppure un Filetto di salmone affumicato al profumo di 5 legni? Preferisce un Misto mare o un antipasto che si chiama Gioia di mare. Attira di più la sua attenzione un classico Gelato alla vaniglia o un’“Esplosione di vaniglia ghiacciata”. Valuterà emotivamente attrattivo un Assaggio di formaggi oppure una Ruota di formaggi che scende e sale per l’Italia. Sui vini l’uso di queste parole è ancora più potente. Pensate al semplice valore aggiunto di un vino rosso descritto come ‘robusto, aromatico, forte’ o all’incisività comunicativa di un bianco ‘spumeggiante, aromatico, fresco’. Sulle papille gustative il cliente vive la verità emotiva. L’attenzione al nome potenzia l’emozione di ciò che il cliente si attende e ne facilita la scelta focalizzando la sua attenzione. Usare parole cerebrali legate al movimento, alla sensorialità, alla riproduzione onomatopeica e all’emotività attiva il fascio reticolare del cliente verso quel piatto o quel vino rispetto ad altri. Il nome dei piatti ha impatto sul cervello del cliente. Ogni dettaglio contribuisce alla creazione dell’esperienza emotiva.

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OSPITALITÀ Sebastiano Tramontano

Consulente e formatore Teamwork Hospitality

Ma serve studiare per fare il cameriere? Neolaureati, ingegneri, dottori, dj, farmacisti e persone di ogni tipo e categoria sociale, praticamente chiunque in un modo o in un altro nella sua vita, almeno una volta per un periodo breve o lungo, ha svolto il lavoro del cameriere. Chi per mantenersi gli studi, chi per professione e addirittura chi per scelta ha deciso di svolgere questa nobile arte. Per 22 anni ho ricoperto questo ruolo e di persone giovani e meno giovani ne ho viste. Ho insegnato molto e mi hanno insegnato ancor di più, ognuno di loro. All’età di 14 anni si inizia il percorso scolastico formativo che durerà poi nelle migliori delle ipotesi cinque anni, nel mio caso è durato un po’ di più, mi ero affezionato. Ogni anno, a giugno, facevo la valigia e partivo per la stagione. Ed era una partenza che segnava in qualche modo la mia vita, sia per quello che lasciavo, anche se per breve tempo, sia per il bagaglio, in senso metaforico, che mi riportavo indietro a ogni fine stagione. Lasciavo famiglia e amici con cui sono cresciuto per trascorrere l’estate a lavorare. Lontano molti km dagli affetti, e nonostante ciò ero felice. Svolgevo il lavoro per cui stavo studiando ed era impressionante la grinta e la volontà che avevo nell’apprendere sempre qualcosa di nuovo. La scuola mi aveva dato le basi, quelle che servivano per avere dimestichezza nello svolgere le cose facili. Accogliere, avere un bell’aspetto, muovermi con eleganza e gentilezza, districarmi in situazioni difficili, tutte

skill necessarie per affrontare un ottimo e sereno servizio in sala. Ho fatto molta strada e sono cresciuto, e molte volte, amici o persone estranee mi chiedevano: ma per fare il cameriere serve studiare? A dire il vero, la risposta ha fondamenta ben precise e strutturate, e serve una riflessione molto importante e impegnativa, se solo pensiamo a cosa ci accade ogni volta che entriamo in un ristorante qualsiasi. Lo studio e la cultura sono sempre importanti, ma dipende tutto da noi, siamo noi come essere umani a capire fin dove possiamo spingerci e cosa possiamo e siamo in grado di affrontare. Fino a qualche anno fa poteva essere definito un lavoro umile e chi lo svolgeva doveva avere delle attitudini molto rigorose e impegnative, negli ultimi anni abbiamo avuto un crescendo di persone che si sono improvvisate e hanno fatto calare l’entusiasmo e la volontà, rinunciando alla parte più disinteressata di questo meraviglioso mestiere: servire le persone. L’insegnamento che mi è stato dato nei banchi di scuola è stato molto diverso da quello che poi è accaduto nella vita professionale, e in tutti questi anni ho capito che senza uno studio adeguato e il giusto impegno scolastico non puoi riuscire a mettere in pratica tante cose. Ancora oggi studio per migliorarmi e per riuscire a dare quel servizio perfetto che fa trascorrere agli ospiti una serata indimenticabile. Chi fa questo mestiere fa parte in qualche modo delle serate indimenticabili di ogni ospite, siamo partecipi delle belle serate siamo noi a rendere speciale quel pranzo, quell’aperitivo, quel caffè o quella cena. Sono consapevole del fatto che ci stiamo trasportando in un mondo diverso, fatto di attimi e di momenti, e che anche noi amiamo essere coccolati. Forse la scuola ci insegna ancora oggi a fare il flambé,a sfilettare un pesce di fronte al cliente, e queste richieste sono molto lontane dal servizio in sala che oggi siamo abituati a vedere, ma senza una buona base di studio non si va da nessuna parte. Questo mestiere non si improvvisa e anche se sembra una professione non particolarmente qualificata nel suo genere, in realtà ci vuole molto impegno e studio per farlo bene. | giugno 2022

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Carpaccio di BlackAngus affumicato

CON ANELLO DI CROSTINO ALL’AGLIO E PUNTE DI ASPARAGI AL BURRO

Tartare di fesa marinata BlackAngus CON INSALATA DI FINOCCHI E ARANCE

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L’OLIO AL CENTRO Luigi Caricato oleologo

Oli Dedicati.

Una innovazione di servizio

Si possono immaginare oli dedicati a specifici gruppi di alimenti? L’olio per la carne, per esempio. Oppure, l’olio per il pesce. Alla domanda, alquanto legittima, la risposta è “sì, certo: è possibile”. Anche se, a dire il vero, per molti anni c’è chi ha pensato di utilizzare l’olio extra vergine di oliva al pari di un olio da seme, versando le medesime quantità, salvo poi scoprire, a piatto finito, risultati non del tutto soddisfacenti, o addirittura squilibrati. Pensate per esempio a un olio da olive Coratina, dalle note amare e piccanti marcate: sovrasta, se non lo si sa come utilizzarlo. L’olio extra vergine va ogni volta interpretato, ciascuna bottiglia in commercio ha il suo carattere distintivo, una propria personalità che varia in funzione dei profumi e degli aromi, nonché delle sensazioni tattili e gustative. Allora la domanda da porsi è la seguente: è tecnicamente possibile immaginare un olio extra vergine di oliva pensato per essere utilizzato senza sbagliare? La risposta è “sì”. C’è chi sa realizzare oli adatti a vari utilizzi e si adopera per venire in soccorso di quanti, siano essi chef professionisti o amatoriali, non hanno ancora acquisito la necessaria confidenza con il prodotto, oppure non hanno il tempo di approfondire. Per questo, pensare a una facilitazione nella scelta e selezione di un extra vergine aiuta gli indecisi o i più timorosi. Così, tra le innovazioni di prodotto dobbiamo considerare anche le innovazioni di servizio. Il caso della gamma degli oli extra vergini di oliva I Dedicati, dell’azienda Olitalia, è un esempio emblematico di come si possa essere utili fornendo indicazioni precise e inequivoche. Sono cinque in tutto gli extra vergini rientranti nella linea I Dedicati. In base ai vari blend

realizzati, sono destinati ciascuno di essi a verdure, carne, pesce, pasta e pizza. Ovviamente i blend realizzati a questo scopo sono soluzioni generaliste, pensate per impieghi ad ampia prospettiva, anche perché ci sono comunque ulteriori distinzioni da fare (tra carni bianche, rosse, nere, ecc.). I Dedicati, tuttavia, offrono una indicazione di massima che permette di intuire una destinazione d’uso certa in quanto la più adatta allo scopo. Questa intuizione è decisamente innovativa e rivoluzionaria. Proprio come tutto ciò che innova, apre a nuovi approcci e favorisce nel contempo nuova una più efficace comprensione degli extra vergini. Di questa proposta ho molto apprezzato il coinvolgimento di Jre, l’associazione Jeunes restaurateurs, realtà che riunisce a sé i più giovani e bravi artefici dell’alta gastronomia. Gli chef sono stati i co-protagonisti delle selezioni dedicate; e ritengo che questa collaborazione sia come tale molto importante, perché un prodotto che nasce da un dialogo tra le parti è sempre un lavoro ben fatto. Gli chef hanno potuto degustare i differenti oli dai quali partire, potendo così confrontarsi tra loro ed effettuare le prove necessarie per verificare le risultanze dei vari blend di extra vergini sui vari alimenti. Il risultato è nella selezione delle differenti tipologie di oli confluite nella linea dei Dedicati. Per chiudere, una esortazione: non leggete questa operazione come una iniziativa di marketing. Non è così: è una pura innovazione di servizio. Rappresenta un decisivo passo in avanti rispetto al vuoto di conoscenze in materia di oli che ha finora imperversato nelle cucine professionali e domestiche. Nessuno si senta offeso: la formazione avviene anche a partire da queste illuminate intuizioni.

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Fai la differenza nella tua cucina con Knorr

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LAVOROTURISMO.IT Oscar Galeazzi

amministratore Lavoroturismo.it

La grande bellezza di lavorare nell’ospitalità Imprenditori che accusano i lavoratori che non hanno più voglia di lavorare, che non accettano di fare sacrifici, che si stanno votando all’assistenzialismo. Lavoratori che accusano gli imprenditori di offrire stipendi bassi, lunghi orari di lavoro, ambienti di lavoro “inospitali”, trattamenti scorretti… “Lo Stato che fa? Si costerna, s’indigna, s’impegna. Poi getta la spugna con gran dignità.” (De André). Da mesi, non passa giorno che i media non parlino della carenza di personale nel settore turistico, della ristorazione e dell’ospitalità, con polemiche e accuse incrociate tra le parti. I social contribuiscono al dibattito facendo spesso emergere il peggio dei partecipanti. In Italia non mancano certo solo camerieri e cuochi. Non si trovano elettricisti, idraulici, meccanici, programmatori, tecnici, infermieri, medici, insegnanti… Mi verrebbe da dire sommariamente che manca personale in quasi tutti i settori produttivi. Come mai a questi profili e settori non viene riservato lo stesso ossessivo interesse, la stessa forte attenzione? In questo contesto e con questa informazione, mi chiedo come un giovane possa pensare di intraprendere un percorso professionale in questi settori, e – nel caso - cosa possano pensare/consigliare i genitori di questi giovani. In questo contesto di tutti contro tutti, di tante parole e pochi fatti, non mi resta che chiedere aiuto al pensiero di una persona che stimo - Federico Samaden – e di un’associazione da lui fondata – Ospitalia – che

da anni si impegna per diffondere gli alti valori legati all’ospitalità, che dovrebbero diventare patrimonio di ogni persona e territorio. In un recente convegno, Samaden ha esordito ricordando a tutti quanto sia bello il lavoro delle persone che lavorano nella ristorazione, nel turismo e nell’ospitalità; ha ricordato a tutti noi, quanto fossimo fortunati a svolgere un lavoro finalizzato a rendere le persone più felici, offrendo loro benessere, piacere, star bene… L’Ospitalità deve essere integrata alla bellezza, all’arte, allo stile, ovvero a quanto di più bello e ricco c’è in Italia; solo così la si valorizza e si rende l’ospitalità il “gioire dello star bene delle persone”. Non è un concetto nuovo, ma confesso che era molto tempo che non ci pensavo. Forse è opportuno comunicarlo di più e ripeterlo più spesso, affinché diventi un pensiero condiviso e acquisito. Associare il lavoro nell’ospitalità a concetti di felicità, bellezza, cultura, arte, benessere…, può essere un’azione rivoluzionaria! Coloro che lavorano nel settore dell’ospitalità, lavoratori e imprenditori, come anche chi ha responsabilità politiche e sociali, hanno il dovere di diffondere l’idea che coniuga l’ospitalità ai valori della cultura e propone una visione di lavorare e vivere per il benessere degli altri. Sono concetti che devono essere patrimonio acquisito in primis della politica, che deve attuare azioni che diano concretezza a questi principi. Gli imprenditori - che devono realizzare il benessere -, non possono proporre un benessere dei clienti se prima non attuano azioni di benessere per coloro che lo devono trasmettere. È vero che il nostro settore richiede molto impegno, ma ti offre emozioni, sentimenti e riscontri difficilmente presenti in altri. Noi doniamo molto agli altri e in questo donare ci arricchiamo moltissimo. Lavorare nell’ospitalità è una grande bellezza.

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IN SALA

I giovani di sala Due storie di giovani in sala che dicono più di molte affermazioni Autrice: Giulia Zampieri

Una sala del Contraste

La mancanza di figure professionali è un fatto che sta investendo tantissimi settori, su tutti quello dell’ospitalità. Il timore per l’imprenditoria è fortissimo, e comprensibile: tanti hanno già chiuso o rischiano di farlo. Però da tempo vi stiamo raccontando che per la prima volta, forse, da quando la ristorazione italiana si è definita si parla di qualità del lavoro: si cercano mani, ma mani, e soprattutto teste, capaci. Ogni settimana raccogliamo richieste di personale inoltrate da tante attività di ristorazione e, nel nostro

piccolo, cerchiamo di fungere da collante tra domanda e offerta. Ma ci sono pensieri che non riusciamo davvero più a digerire: “non ci sono giovani capaci”, “non ci sono giovani appassionati”, “non ci sono giovani disposti a rinunciare a qualcosa per le proprie passioni e per il proprio lavoro”. Sono pochi, troppo pochi per sorreggere un sistema che si è espanso senza controllo in questi anni, è vero, ma giovani che hanno entusiasmo, coscienza, voglia di mettersi in gioco ce ne sono. In poche settimane ne ho incontrati altri e il dato più impor-

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tante, che fa ben sperare tutta la nostra redazione, è che molti di loro vivono in luoghi diversi, hanno ambizioni e problemi differenti, ma dalle loro voci si estraggono, senza fatica, determinazione e volontà.

Cristina Ercoles, un percorso inatteso ma felice Il Contraste è una delle insegne di riferimento della scena milanese. Lo è per la cucina estrema, interessante, a tratti spiazzante di Matias Perdomo, ma lo è al pari per la sala, che segue un registro preciso, morbido, provocatorio proprio come lo sono i piatti di Matias. Un posto in cui tutto sembra puntare alla perfezione e in cui ci si aspetta che per entrare nelle brigate di sala o cucina serva un curriculum infinito. Pensiero errato. Durante una cena, a sorpresa, sotto la mascherina, scorgo lo sguardo di Cristina Ercoles, ex compagna di università, e non perdo l’occasione di chiederle come sia arrivata fin lì. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche all’Università di Parma Cristina, originaria di Cattolica, ha appreso che le due strade che le si prefiguravano - il giornalismo o l’organizzazione di eventi - non rientravano nelle sue vere ambizioni. C’era un’altra passione che bussava in quel periodo, proprio a fianco al cibo: il Giappone. Una meta onerosa, al punto che si ritrovò a ventilare un’idea che non aveva mai preso in considerazione: lavorare in sala. “Mi sono sempre sentita goffa e maldestra” - ci confessa. “La voglia di partire per il Giappone era tanta e l’alternativa più immediata è stata presentarmi in una struttura alberghiera di Cattolica per la stagione estiva, come d’altronde facevano in molti. Si lavorava sette su sette, dalla colazione alla cena, da maggio a settembre; mi sono presa l’impegno per due anni consecutivi. Ho scoperto poco alla volta che in realtà mi sentivo a mio agio con i clienti, veniva sempre più facile. Avevo un’idea completamente diversa di questa professione e soprattutto non la sentivo per nulla aderente alla mia indole” ci confessa. Ma a volte… Cristina dopo Cattolica è volata Giappone; ha studiato a Tokyo, in una scuola di lingua, la Kai Japanese Language School, e nel contempo ha continuato a lavorare in un ristorante, l’Aura Cucina Italiana, gestito da un cuoco giapponese con una grande passione per l’Italia. “La prima esperienza a Cattolica mi ha aiutata a capire le esigenze delle persone e ad anticiparle. Credo sia il senso del lavoro di accoglienza: capire cosa cerca la persona che abbiamo davanti. Il secondo step è avvenuto in Giappone quando oltre a capire… dovevo farmi capire. Un bell’esercizio comunicativo che ribalta la situazione”. Man mano che Cristina ci racconta come è andata dall’altra parte del mondo troviamo conferma su ciò che

sosteniamo da tempo: molti dovrebbero prendere questa strada in considerazione: lavorare all’estero (ma poi tornare!). È un’opportunità di vita e di crescita professionale che allarga il pensiero. E infatti, una volta rientrata, Cristina, con sorpresa, ha ottenuto ciò che mai si sarebbe immaginata. “Ho inviato il curriculum all’hub internazionale di Identità Golose a Milano. Non avevo nulla da perdere ma sapevo che la possibilità di una chiamata era remota. Invece il maître di allora, Andrea Polini, mi ha convocata per un colloquio. Ho iniziato come chef de rang ed è stato davvero fondamentale per avvicinarmi in via definitiva, se così posso dire, alla professione. In un anno e mezzo ho incontrato tantissime figure della ristorazione italiana e internazionale, ho raccolto un’immagine molto articolata di questo settore. Ma al di là degli stimoli e delle nuove conoscenze ho capito cosa conta davvero nel lavoro di sala. Per esempio l’analisi dei servizi già conclusi e di quelli che devono ancora venire, su cui mi sono abituata a ragionare sempre. Solo dopo aver analizzato si può intervenire nei passaggi non riusciti alla perfezione; oppure modificare i piccoli gesti che cambiano la percezione del cliente; o ancora correggere le modalità di racconto poco fluide. E ho anche capito che questo lavoro fa davvero per me”. Le chiediamo di motivare. “Sono sempre stata una persona piuttosto timida e ri-

Cristina Ercoles, in sala al Contraste

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servata ma ogni volta che entro in sala tutto cambia. Ho il controllo della situazione e posso guidare la trama. Sono più decisa, sicura, e il contatto che si genera con chi è seduto mi offre inattese scoperte. Grazie ad Andrea che è stato lungimirante - mi ha assunta con un curriculum povero ma era attratto dalla mia formazione in Scienze Gastronomiche - ho capito che non esistono percorsi prestabiliti. Che l’apertura mentale, anche di chi seleziona il personale, può generare delle buone opportunità di vita”. Dopo la prima esperienza milanese Cristina si è trasferita al Clandestino di Moreno Cedroni, a Senigallia, locale molto informale e versatile. Poi, dopo la stagione estiva, di nuovo a Milano; ne sentiva la mancanza. “Milano è una città che offre molto per chi vuole crescere. Al Contraste cercavano, ho visto l’annuncio e dopo un po’ di tentennamenti iniziali ho pensato… ‘ci provo!’. Sono qui da fine 2021, sono stati e saranno mesi densi. È un ristorante che emana energia e vivacità, si lavora bene. In sala siamo tutti under 30; c’è proprio una bella sintonia, lo si vede anche nel modo di dialogare all’interno della brigata, i confronti sono sempre costruttivi. E poi qui ho capito cosa cerco pure io, come figura di sala in un ristorante: amo la precisione e l’eleganza nei gesti e amo sviluppare un rapporto sincero con il cliente. Per me il tono deve essere informale, spontaneo, non reverenziale. Qui ho ritrovato anche uno strumento a cui non vorrei mai rinunciare: il vassoio. Utilizzare il vassoio è complesso ma credo sia indispensabile in alcune insegne da cui ci si aspetta un certo tipo di servizio. Eleva ogni mossa, rende tutto più elegante. Ogni giorno si impara a gestirlo meglio”.

Mattia Blaresin, un libero ritorno che ha generato nuove strade

Ristorante Alla Busa

Una storia sensibilmente diversa è quella che scopriamo incontrando Mattia Blaresin della Trattoria Alla Busa, a San Martino delle Venezze, in provincia di Rovigo. Siamo lontani dai grandi centri, più vicini a un concetto di ristorazione legata al territorio, alle tipicità, ai prodotti di prossimità, e quindi teatro di un servizio più snello, che fa dell’informalità il suo timbro vincente. Dal 1997 Enrico Blaresin, la moglie Sabina e il cognato Massimo Polonio accolgono con una cucina dapprima di carne e poi di mare, che eccelle sempre per la qualità della materia prima. “Oggi tutti ci identificano per i piatti di pesce. Non potrebbe essere che così qui”, ci ricorda Enrico. Alla Busa poggia sulle campagne bagnate dall’Adige ma che guardano il mare, con la Sacca degli Scardovari e il grande mercato di Chioggia a fare da freschissimo serbatoio ittico. Un ristorante così attento alla provenienza e qualità del pesce, così disposto a pagarlo caro pur di avere il miglior prodotto, abbisogna di una precisa modalità di racconto in sala. “Dobbiamo guidare chi si siede al tavo-

lo e fornirgli informazioni precise su ciò che trovano in menu, con la giusta misura” ci dicono. Mattia, il figlio di Enrico e Sabina, da un paio d’anni lavora al loro fianco e sta prendendo sempre più piede nelle decisioni dell’attività. Curioso ascoltare come ci è arrivato: “Sono nato qui, direi sopra al pianoforte di mio padre (un grande appassionato di musica, nato come musicista al piano bar, ndr) che si trova in una delle sale della trattoria. Per me lavorare a La Busa significa essere a casa, quindi il confine non è semplice da gestire, ma è necessario. Mi sono diplomato all’istituto alberghiero Cipriani di Adria… ho seguito il corso di cucina, e per il consueto stage formativo mi sono recato da Lionello Cera all’Antica Osteria Cera di Campagna Lupia. Sono poi andato a Monselice, al Blue, sempre in cucina. Forse avevo bisogno di uscire, di capire cosa c’era fuori e qualche tempo dopo ho cambiato radicalmente lavoro, mi sono fatto assumere in un supermercato della zona. Non è andata bene: ci

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sono rimasto fino a poco prima dell’inizio della pandemia, avvertivo che qualcosa non andava. Sentivo che ero dedito all’azienda ma le mie fatiche non venivano ripagate, per noi è importante che ci sia gratificazione dietro al lavoro. Ho chiesto quindi ai miei genitori, che mi hanno sempre lasciato carta bianca, di poter lavorare con loro”. Un dietro-front non è da tutti, ma ammirevole, soprattutto perché al suo ritorno Mattia ha trovato posto solo in sala, non in cucina. “Penso che per fare ristorazione si debba essere duttili. Conoscere bene le dinamiche di cucina mi ha aiutato a impostare il servizio, a capire i limiti e lo spazio in cui potevo apportare cambiamenti. Allo stesso modo la voglia di capire come risolvere i problemi mi ha aiutato a rispettare tutte le mansioni che riguardano la gestione e l’organizzazione. I miei in questo mi hanno fatto scuola”. Mattia oltre ad essere determinato è anche pragmatico. Non ha la testa piena di sogni, vive il lavoro in sala come una professione da svolgere al meglio, con i piedi saldi per terra. “Questo è un’occupazione che ti vincola. Alcune componenti della socialità spesso sono compromesse; penso alle mie amicizie, difficile mantenerle quando si fanno certi orari, anche se alcune cose stanno cambiando. Ma è anche un lavoro che insegna molto: io per esempio ho appreso la pazienza. Prima non ero tollerante, ora è indispensabile che lo sia davanti a certe evenienze. Ho

Mattia Blaresin, del ristorante Alla Busa

imparato che questo non è un mero lavoro, è una palestra di vita, una scuola di movimenti e buone maniere… ed è un corso di psicologia avanzato! Si impara molto nell’ascoltare e osservare gli altri”. Mattia c’ha messo del suo da quando è arrivato: oltre alla digitalizzazione del menu ha snellito la mise en place, sviluppato la carta dei vini e introdotto due selezioni, una di gin e una di rum. “Un cliente un giorno mi ha chiesto se avevo del buon gin. Mi si è aperto un mondo; li avevamo in casa ma ne sapevo poco o nulla. Ho iniziato a studiare, a documentarmi, ad arricchire la proposta, a farmi recapitare etichette particolari dai nostri fornitori. Ho capito che non voglio essere impreparato di fronte a una richiesta, e se lo sono faccio di tutto per recuperare. Oltretutto questa mossa ha generato completezza dell’offerta: se prima un cliente prendeva il dessert e gli altri tre nulla, oggi uno prende il dolce e altri due provano un distillato, magari abbinandolo ai nostri cioccolati. Ammetto che essere diventato per alcuni clienti un punto di riferimento è una soddisfazione immensa, per di più in una professione che non mi sarei mai aspettato di intraprendere. Devo molto a chi qui dentro ha creduto in me senza opporre resistenza alle mie idee, lasciandomi margine nelle proposte. Le strade aperte mi danno entusiasmo”. | giugno 2022

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FORMAZIONE

Glion Institute, dove l’ospitalità ha un cuore pulsante Ne parliamo con il professor Giovanni Manfredini Autore: Luigi Franchi

Il Glion Institute è famoso per essere, al mondo, la migliore scuola di formazione per chiunque voglia intraprendere una carriera nell’ambito dell’ospitalità. Hotel e ristoranti sono gli ambiti più selezionati ma, come scopriremo in quest’intervista con uno dei docenti di Glion, il professor Giovanni Manfredini, Head of International Event Management Specialization – Senior Lecturer, anche i settori del lusso e della finanza internazionale si avvalgono delle competenze di chi frequenta questo istituto fondato esattamente sessant’anni fa sul lago di Ginevra, appena sopra a Montreux. Professor Manfredini può darci una corretta defini-

zione di Glion Institute? Quali, dove e in quanti campus opera? Quanti studenti studiano nel settore dell’ospitalità? Di quante nazioni? “Glion Institute è nato sessant’anni fa sulla collina alle spalle di Montreux come classica scuola di ospitalità. In Svizzera, agli inizi del secolo scorso, ci fu un’industria dell’ospitalità, che diede vita a queste grandi scuole di ospitalità di alto livello, con un determinato approccio didattico che, negli anni, si è evoluto, adattandosi ai mercati internazionali. In questi anni si sono creati tre campus: due in Svizzera, a Glion e a Bulle, uno in Gran Bretagna, a Londra. I nostri studenti vanno, nel primo semestre, tutti

Glion Glion Institute Institute of Higher of Higher Education Education Glion Glion Campus Campus

Paolo Aprile


Giovanni Manfredini

l’ospitalità. Inoltre gli stage si sviluppano in oltre 3500 strutture in 50 paesi del mondo, quindi un’esperienza internazionale non solo nei campus ma in luoghi diversi. Gli italiani vengono ammessi per l’ottimo livello di preparazione che segna un punto a favore del sistema scolastico superiore del Paese; secondariamente vogliono avere una visione internazionale del settore dell’ospitalità che, mi auguro, riportino in Italia per consentire al Paese di continuare ad essere meta privilegiata del turismo e del lusso.

a Glion dove c’è la parte di pratica dove imparano tutti i servizi connessi all’ospitalità; poi fanno un primo semestre di stage in giro per il mondo; il terzo e quarto semestre possono scegliere in quale campus andare tra Bulle e Londra dove imparano le tecniche di managerialità; il quinto semestre un secondo stage di management; sesto e settimo semestre tornano nei campus per la specializzazione. Le specializzazioni sono tre: laurea magistrale in immobiliare, finanza e sviluppo alberghiero; laurea magistrale in ospitalità, imprenditorialità e innovazione; laurea in gestione del lusso ed esperienza degli ospiti. La media delle nazioni è di 100 al semestre, con circa 1800 studenti per anno” Gli studenti italiani quanti sono? Perché hanno scelto Glion? O perché Glion ha dato loro l’accesso ai corsi? “Gli studenti italiani sono in crescita, attualmente ne abbiamo 113. Prima arrivavano solo da alcune zone mentre ora arrivano dall’intera nazione e vengono a Glion perché è una scuola internazionale con un ambiente che permette di confrontarsi su 100 modi diversi di concepire

Quali sono i requisiti che vengono richiesti per essere ammessi ai corsi di ospitalità? “Serve un diploma di maturità tecnica, un’età minima di 17.5 anni e mezzo, per allineare tutte le normative internazionali, un livello buono di inglese. Non ci sono altri pre-requisiti ma c’è un colloquio iniziale con ogni studente per capire, non soltanto le caratteristiche amministrative, se c’è un desiderio vero. A mio parere non c’è nulla di più potente di uno studente motivato a venire qui”. Quali rapporti avete, se ne avete, con le scuole di alta cucina e di ospitalità italiane? “Siamo in contatto con Ecole Ducasse, in Francia, e con ALMA, la scuola internazionale di cucina di Colorno (PR), e io sono ben felice di bilanciare queste visioni dell’ospitalità tra Italia e Francia”. Quanti studenti trovano lavoro e in quanto tempo dopo aver frequentato Glion? “Regolarmente, negli ultimi otto anni, il 98% dei nostri studenti hanno un’offerta di lavoro nel giorno stesso della laurea. Dopo il Covid c’è un grande bisogno di risorse | giugno 2022

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umane in questo settore e stanno cambiando anche le regole di gestione delle strutture, abbandonando, per fortuna, quella visione militaresca che ci trasciniamo da fine Ottocento”. Quanto conta, per la formazione, condividere con tante provenienze e nazionalità diverse il tempo a Glion? “È essenziale! Noi organizziamo, ogni anno, una Festa per la cultura dove almeno 15 culture del mondo si confrontano e, a volte, si scontrano positivamente, su cucine, ospitalità dei vari paesi del mondo”. La definizione del concetto di ospitalità secondo GLION? “Per noi il mondo dell’ospitalità ha nettamente travalicato i luoghi fisici di un ristorante o di un hotel. Qui parliamo anche di ospitalità nel mondo del lusso che fa proprio di questo concetto l’elemento fondamentale. Non è il prodotto in sé ma l’ospitalità che i grandi marchi del lusso offrono nel momento dell’acquisto che la rende fondamentale. Abbiamo il mondo delle crociere, degli eventi, dell’entertainment in generale dove l’approccio del cliente per capirne le esigenze è fondamentale. Turismo sicuramente e, sorpresa, la finanza. Alcuni studenti di Glion finiscono per lavorare in grandi gruppi come Merrill Lynch per la loro capacità di interpretare le esigenze del cliente. Oppure la moda che, come altri mondi, sta rubando risorse all’ospitalità per le caratteristiche che siamo riusciti a sviluppare”. La pandemia o il post-pandemia ha cambiato il modello di educazione all’ospitalità?

“Il Covid ha sicuramente cambiato molte cose nel settore ma anche il mondo dell’ospitalità ha fatto del suo per valorizzare, sia in termini economici che di percorso di carriera e soddisfazione personale le risorse umane che vi lavorano”. La trasformazione digitale sta cambiando molte regole: nel settore dell’ospitalità come sta impattando? “Per noi il Covid ha significato trasformare rapidamente, esattamente il giorno dopo il lockdown, un modello di insegnamento che, oggi, oltre alle lezioni a distanza, permette di riprendere il filo del discorso perché restano le registrazioni. Nel settore sta impattando in due modi: la digitalizzazione sta offrendo un’opportunità a chi viaggia di entrare in contatto ben prima dell’arrivo a conoscere i luoghi e gli hotel o i ristoranti. Per altri, invece è considerata un risparmio in termini di risorse umane perché molte attività possono essere sostituite ma si sbagliano: l’uomo sarà sempre al centro del concetto di ospitalità, dove persone incontrano persone”. Cos’è Sommet Education? “Sommet Education è nata nel 2016. Sommet Education ha identificato in Glion e Le Roches, le due scuole svizzere di ospitalità, i primi componenti del gruppo. Successivamente hanno coinvolto École Ducasse, in Francia, Invictus, una serie di università che nascono in Sudafrica, e Indian School Ospitality, in India. Gli obiettivi sono di supporto e coordinamento tra le scuole, mettendo i sistemi digitali in comune, le competenze possono essere interconnesse, creando valore aggiunto alle scuole che mantengono comunque una loro identità”.



RITRATTI

Inno alla vita Francesca ed Elena Paternoster di Mieli Thun

Autrice: Simona Vitali

Elena e Francesca Paternsoster


Capita, in quel percorso che da bambini porta verso l’adultità, di ritrovarsi a incamerare un tesoretto che, anche se non lo sappiamo ancora, riemergerà al momento opportuno, determinando il nostro futuro. Capita, non così spesso, ed è capitato a Francesca ed Elena, 28 e 25 anni, grazie a quella travolgente e contagiosa passione che il papà, Andrea Paternoster, anima di Mieli Thun, ha saputo infondere in loro, intanto che riuniva molti intorno al suo impegno di rinobilitare il miele da mero rimedio curativo a ingrediente puro (come era in origine). Creare un marchio, un brand nel miele, che seguisse la filosofia di un’attività a filiera completa, dalla produzione alla vendita ad opera di un unico soggetto, è stato l’obiettivo chiaro fin dall’inizio - e peraltro raggiunto - di Andrea Paternoster.

Crescere dentro la cultura del miele La storia delle sorelle Paternoster comincia dalla naturale accettazione, già in tenera età, di altre ‘sorelle’ in famiglia, perché è così che questi esserini alati sono entrati nella loro vita. “Fin dalla materna, mia sorella ed io non abbiamo mai fatto il post scuola pomeridiano – racconta Elena Mamma veniva a prenderci e ci portava in azienda, dove il lavoro era tanto e anche lei era impegnata a fare la sua parte. Ho un ricordo nitido, fra gli altri, di quando in stagione apistica, entravano i melari in azienda per la smielatura e del profumo che emanavano. Un’emozione! Siamo cresciute non solo libere ma incentivate a fare le nostre scelte mentre papà, vulcano di idee, metteva a punto passo dopo passo la sua rivoluzione nel mondo dei mieli, al plurale. Nonostante il nostro percorso di studi, siamo sempre rimaste connesse, partecipi di tutto ciò che accadeva: impossibile non essere coinvolte da un gioioso trascinatore come lui! Questo finché io per prima non ho iniziato la mia esperienza lavorativa in azienda”. Elena è partita, come si suol dire, dalla gavetta in magazzino, alle prese con la gestione degli ordini e non solo. È seguita poi l’occasione di un’esperienza fuori casa, che non ha voluto farsi scappare come ulteriore motivo di crescita. Poi il rientro nel 2020, con la responsabilità di gestire tutta la parte commerciale di Mieli Thun, in stretta relazione con gli agenti, cercando di carpire dal padre quanto più possibile di quel mestiere. Nel frattempo Francesca, la sorella maggiore, proseguiva a oltranza il suo percorso di studi fino a conseguire la laurea magistrale in Economia e Management a Roma e subito dopo un’esperienza nel mondo della ristorazione. Era in procinto di iniziare a lavorare in un’agenzia di comunicazione romana quando, insieme alla sorella, è stata chiamata all’appello. Da quel momento sarebbe toccato a loro due prendere decisio-

ni importanti, non preventivate, sul futuro della creatura di famiglia: Mieli Thun.

Guardare avanti “Dopo quello che è accaduto a papà – racconta Francesca - non c’è stato un attimo in cui abbiamo preso in considerazione l’opzione di non andare avanti, nonostante i moniti di chi ci stava intorno. ‘Siete sicure - ci dicevano guardate che è un impegno!’ Ma noi, forti del legame che ci unisce, abbiamo deciso di tenere in vita Mieli Thun, anche alla luce di tutte le energie che qui sono state investite. Tempo un mesetto e già eravamo calate in un lavoro che non poteva fermarsi ad aspettarci e ci chiedeva di rodare velocemente”. “Elena – prosegue Francesca - lavorando già in azienda e vivendo in loco, era già sul pezzo, quanto a me ho lasciato una città, Roma, in cui vivevo bene e dove stavo per iniziare un percorso lavorativo a cui papà stesso teneva: ‘Pensa a fare esperienza!’, mi diceva. Il mio compito in azienda è seguire la parte dell’apicoltura e produzione, in coordinamento con chi lavora con noi, ma anche la comunicazione. Ci sono state e ancora ci sono figure fondamentali accanto a noi, come nostra madre Lucia, che con mio padre aveva avviato questa attività e che oggi rappresenta, con la discrezione che le è propria, ‘i nostri occhi’ sul comparto produttivo. E questo ci dà molta serenità”. | giugno 2022

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Francesca Paternoster

Francesca ed Elena, poesia e concretezza Capelli biondi e occhi chiari, questi sono i tratti che accomunano Francesca ed Elena che, per tutto il resto, si differenziano tantissimo. “Francesca - racconta Elena - è poesia, zucchero filato, la parte più bella di papà. Io sono più pragmatica. Lei ha le idee e io mi attivo per concretizzarle”. Lo conferma Francesca “Elena è i miei piedi per ancorarmi a terra e io sono il suo modo per svagare”. Sta di fatto che questo essere così complementari fra loro le sta aiutando nella gestione dell’azienda. Ad accomunarle ci sono i valori assorbiti in famiglia, la forza che arriva dai tanti, tantissimi, amici di papà “che sono anche i nostri amici” e una passione per quel lavoro che gli è letteralmente esplosa dentro. Una sorta di affioramento di qualcosa che nel tempo è cresciuto in loro. “Il lavoro mi ha preso da subito - confida Elena. Mi frulla il cervello anche di notte ‘devo fare questo, quell’altro...’, dico a me stessa. Mi ritengo fortunatissima perché mi alzo ogni giorno con la voglia di fare”. Francesca invece ha iniziato a documentarsi e leggere, per necessità di entrare bene nel mestiere, e ora tutto questo è diventato una sorta di dipendenza: legge in contemporanea anche quattro libri, tanto è la fame di saperne sempre più. “Il mio compito è divulgare, informare. C’è veramente molto da conoscere in questo campo. Più approfondisco e più scopro che si sa troppo poco delle api, della loro intelligenza e organizzazione. Il loro minuscolo cervello, grande come la capocchia di uno spillo, le rende capaci di pensa32

re, imparare, pianificare, risolvere problemi, formare concetti e comunicare fra loro ma, per via delle tante minacce alla loro incolumità, hanno bisogno delle nostre attenzioni e cure. Il farle stare bene è la nostra priorità (lavorare con e per le api)”. Elena è solita dire che sua sorella ha la stessa capacità del padre di farla innamorare delle api, per come ne parla e per le esperienze che le fa vivere...

Il nomadismo apistico e i mieli monofloreali Entrambe sono ferme nel mantenere invariato ciò che ha connotato Mieli Thun. “Quanto ha fatto papà da parte nostra in questo momento è insuperabile. Questo non significa che non culliamo idee che a poco a poco contiamo di realizzare ma le radici non si toccano!” precisa Francesca. A partire da quella concezione di nomadismo apistico, nata dagli spostamenti di Andrea Paternoster in giro per lo Stivale dove ha trovato fioriture altrettanto interessanti quanto quelle di casa propria, se non di più. Da qui l’idea di spostare anche le sue api, traportandole di notte nei luoghi di massima fioritura dei fiori prescelti, e di creare in loco una rete di ‘custodi’ che se ne prendessero cura per il periodo di permanenza. “Quella scelta assecondava la natura di papà e della sua anima nomade – spiega Francesca. Ad affascinarlo la possibilità di conoscere nell’intimo luoghi e persone che altrimenti gli sarebbero stati preclusi. E poi il cercare le migliori fioriture gli consentiva di ottenere mieli, mieli monofloreali, più puri, | giugno 2022


concetto su cui si è focalizzato molto. E noi pure”.

La degustazione dei mieli come per il vino “Per fare un kg di miele le api visitano 6 milioni di fiori. – spiega Francesca - Ecco, papà diceva che sono come altrettanti pixel che raccontano in maniera fedele quel territorio. Sono fotografie, istantanee del territorio. La sua ossessione per la ricerca della fioriture migliori ci ha insegnato che solo così si ottengono i risultati migliori. Quando facciamo degustare i nostri mieli capita che ci venga chiesto: ‘Oltre al miele cosa ci avete messo?’, tanto intensamente emerge il fiore in termini di gusto e profumo. Tra l’altro la degustazione la facciamo in un calice, come per il vino, dove viene introdotto un cucchiaio di miele, che si spalma sulle pareti e a quel punto inizia la valutazione sia olfattiva che gustativa. Nel suo intento di rinobilitare il miele, o meglio i mieli, papà ha mutuato diversi spunti da altri settori, quello del vino in particolare. Lui, che ha saputo porsi in ascolto”.

ligustro, spino di giuda e tiglio. C’è anche il limonium, chiamato anche ‘Fiorella di barena’. Da adesso in poi questa piccola piantina lagunare, varietà locale della salicornia, si riempirà di umidi fiorellini e colorerà la laguna con un vivace rosa purpureo. Se le api la troveranno, produrranno il prezioso miele di barena. Un miele che ha una storia antica e che un tempo si produceva mettendo delle palafitte sotto le arnie, per evitare i danni delle acque alte. Un nettare iodato, fresco e intenso, con note acide e profumo di fiori bianchi. Il progetto, costruito con la famiglia Alajmo, ogni volta ci emoziona. Un po’ perché arrivare sull’isola sembra un salto in un’altra dimensione, più lenta, silenziosa, sospesa. Un po’ perché produrre mieli in laguna è una sfida bellissima”.

Diario di viaggio di Francesca 31 marzo 2022 “Mille stelle vengono giù come le mille per mille api che anche quest’anno abbiamo portato sull’isola della Certosa, nel cuore della laguna di Venezia. Siamo partiti di notte, siamo arrivati a Venezia. Un traghetto ci ha portato sull’isola e lì abbiamo posizionato 20 arnie. Nuova vita \ nuova stagione \ nuovo nettare. L’isola è per metà un bosco di ailanti, indaco bastardo, trifoglio,

Elena Paternoster in degustazione

Il Punto vendita di mieli Thun


FARE RISTORAZIONE

Visioni innovative sulla cucina vegetale Davide Guidara ci racconta il suo modus operandi a I Tenerumi e i principi del suo manifesto Autrice: Giulia Zampieri

In questi anni la partita dei vegetali si è giocata tra innovazioni e approssimazioni gastronomiche. Per quanto sia cresciuto l’interesse - e il business - legato a questo tipo di alimentazione e cucina, infatti, non è andata sempre benissimo: in alcuni casi i prodotti vegetali sono stati banalizzati, sciupati, poco valorizzati sul piano culturale da parte di ristoratori e aziende di produzione. Ne abbiamo parlato con lo chef Davide Guidara, sensibile e attivo sull’argomento.

Le osservazioni di Davide Guidara

Tomato Salad

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“Tanti pensano che ricondurre la preparazione a qualcosa di conosciuto sia la strada migliore per far affermare la cucina vegetale… Ma vogliamo davvero pensare che mangiare vegetali significhi alimentarsi con hamburger e salsicce preparati con una miscellanea di ortaggi?”. Inizia così il dialogo con Davide Guidara, chef, dalla scorsa estate, del ristorante I Tenerumi dell’Hotel Therasia sull’isola di Vulcano. Davide è classe 1994, ha un curriculum ricco e una visione molto precisa, ma aperta, su ciò che concerne cucina e prodotti vegetali. La chiamata del

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Lo chef Davide Guidara

Fermented lattuge and sesame

Educare alle opportunità del mondo vegetale

Therasia è arrivata con una chiara sottoscrizione: qui, a fianco al ristorante Il Cappero, si voleva sviluppare una cucina interamente vegetale. Originario del Sannio, e già distintosi per le colorite interpretazioni al Sum di Catania, Davide ha accolto la sfida fiondandosi in uno dei più bei resort dell’arcipelago eoliano senza sapere cosa sarebbe andato in carta ma con una grande voglia di sviluppare un progetto diverso, volto a rompere alcuni paradigmi gastronomici. Qui ha trovato il posto ideale: al di là del panorama e della bellezza della struttura, al Therasia c’è una fonte di approvvigionamento privilegiata. “Dietro al resort, Natalino e i suoi collaboratori coltivano un orto di duemila metri quadri” - ci racconta nei giorni che precedono l’inizio della stagione estiva, caratterizzati da un forte popolamento dell’orto, poggiato su un terreno singolare - vulcanico - e da un meticoloso lavoro organizzativo per far fronte all’arrivo dei turisti. “Noi da lì preleviamo la maggior parte delle verdure impiegate in cucina. Le altre sono comunque pressoché locali, arrivano dalla Sicilia, una terra variegata e ricchissima”.

“Pensiero facile, piuttosto popolare: per fare un buon piatto vegetale bisogna avere un’ottima materia prima. Spesso io li servo per intero, voglio che siano riconoscibili e voglio evitare qualsiasi tipo di scarto ove non necessario. Altro pensiero, un po’ meno compreso da alcuni: non è che qui lavoriamo in modo eccessivo i vegetali per puro diletto. Chi prenota una cena a I Tenerumi vuole essere stupito; vuole capire dove si può arrivare con ingredienti apparentemente semplici come una carota, una melanzana, una cipolla. E noi ci prodighiamo ogni giorno per allargare l’esperienza, stravolgere il concetto di cucina vegetale che hanno la maggior parte delle persone. Non potremmo farlo proponendo una semplice insalata”. Basta scorrere velocemente il menu di queste settimane per averne conferma: Porro e lampone, Lattuga e Masala, Cardoncello alla brace… una sequenza di piatti, non ripartiti in modo tradizionale, in cui si comprende che il mondo abitualmente considerato dei vegetali è davvero infimo rispetto alle opportunità presenti in natura. Leggendo le proposte del Tenerumi si incontrano voci desuete; non solo i tradizionali ortaggi, ma anche fiori, frutti, spezie, alghe, agrumi.

Cucinare più vegetali (ricorrendo alla scienza) A I Tenerumi è nata l’esigenza di editare un manifesto, La Nuova Cucina Vegetale; sette idee guida che stanno sotto il cappello Cook More Plants, un invito a cucinare più materie prime vegetali. Davide non sfiora mai questioni salutistiche, anche nel


manifesto. “Non cucino verdure perché fanno bene, cioè questo è un assunto che tutti hanno compreso e tutti raccontano. Il mio compito, in veste di cuoco, è dimostrare che le verdure sono buone, quando sono fresche e di qualità, ma possono essere anche buonissime. Non sono un surrogato della cucina animale - pensiamo a come ci si alimentava in passato specie nelle famiglie contadine e a loro non dovrebbe spettare un ruolo di contorno, di complemento del piatto. E poi, un altro aspetto che voglio contrastare è l’associazione dei vegetali a una cucina di privazione, di stenti: no, non è così! Con la ricerca, la convergenza di più tecniche, il confronto con chi conosce la struttura dei vegetali e le loro predisposizioni chimico-fisiche (cioè scienziati e tecnologi) si possono raggiungere risultati travolgenti. Spesso appaiono dopo molti tentativi ma ogni traguardo è una nozione messa nel cassetto”. Ritorna quindi sull’orto e sulla complessità che accompagna questo tipo di cucina. “L’orto appena fuori dalla cucina allarga la forbice d’esplorazione per un cuoco. Non raccogliamo i vegetali solo quando sono giunti a completa maturazione ma valutiamo anche le altre sfumature gustative che possono concederci. Per esempio l’acidità, una nota preziosissima in cucina, che non si potrebbe altrimenti reperire in un prodotto raccolto chissà quando e chissà dove. Il resto è compito della tecnica culinaria; molti non hanno capito che le materie prime di origine vegetale mettono seriamente alla prova le capacità di uno chef. Sono più complesse da trattare di una fettina di carne o un filetto di branzino”.

Consistenza e abbinamento: due aspetti fondamentali “A I Tenerumi proviamo cotture alternative, fermentazioni, essiccazioni e tutte le tecniche che la cucina moderna ci mette a disposizione. La prima fase di studio indaga la consistenza; è l’aspetto più delicato di un vegetale,

anche nell’alimentazione ordinaria. Spesso basta aggiustare la consistenza per ottenere un risultato e un piacere completamente diverso, ma pochi ci fanno caso”. Davide rimbalza anche sulle esperienze personali e familiari legate a questo tema. “Pensiamo a come ci piacerebbe mangiare quell’ortaggio facendo leva anche sulla memoria, sugli assaggi che nel tempo ci hanno convinti, quindi cerchiamo una strada affine. Una volta raggiunta la consistenza lavoriamo sull’abbinamento. Ma faccio un passo indietro: c’è sempre una questione culturale, di conoscenza, ad innescare l’idea. Cultura e vegetali sono strettamente connessi, fanno parte del nostro ordine alimentare, è naturale che guardandosi indietro si scorgano delle vie interessanti da percorrere, seppur diverse da quelle consegnate dalla tradizione”.

Il piacere è elemento irrinunciabile in cucina La conversazione s’infila sul tema dell’ego del cuoco, spesso anteposto alle finalità vere di questa professione. “Credere che una preparazione sia riuscita quando piace a noi è un errore grossolano. Il banco di prova è un altro, è oggettivo: sono i palati di tutti. Noi per esempio facciamo assaggiare l’esito della lavorazione ai collaboratori della struttura. Se piace alla maggior parte di loro abbiamo creato qualcosa di nuovo e potenzialmente innovativo. Se non piace dobbiamo tornarci su. É una questione semplice, facciamo cucina e il punto di piacere deve sempre essere messo in discussione e poi raggiunto, anche con i vegetali”.

I Tenerumi Isola di Vulcano, 98050 Vulcanello ME Tel. 090 985 2555 www.therasiaresort.it


cucina l’arte della ale a b as e v e g e t


FARE RISTORAZIONE Autore: Luigi Franchi

Il territorio è una delle voci più utilizzate e ascoltate quando si parla di ristorazione, insieme a stagionalità e l’orribile termine rivisitazione. Se ne parla, se ne discute, si fanno convegni, eventi, ma non si affronta quasi mai come quel territorio viene davvero messo in evidenza, non solo nel menu ma nelle azioni, nei gesti, nelle decisioni quando si apre un ristorante. Per questo crediamo che raccontare la storia di Alberto Melis e del suo progetto Antica Cagliari sia illuminante per chiunque.

Antica Cagliari, un modello di buona e bella ristorazione La storia di Alberto Melis è esemplare, per questo abbiamo scelto di raccontarvela in questa intervista 38

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Cominciamo dall’inizio Alberto, perché hai scelto questo settore e come hai fatto a diventarne un imprenditore affermato? “Ho cominciato 31 anni fa, nel 1991. Nasco in una famiglia modesta, uno stipendio unico, quello di mio padre, per mantenere moglie e cinque figli. Di conseguenza il mio approccio con il lavoro è iniziato dai tempi della scuola e comincia proprio dalla ristorazione in quanto i miei fratelli avevano già lavorato nel settore. Mi buttano in un ristorante, senza sapere nulla di come funziona questa complessa attività. Le condizioni, in molti casi ancor oggi come allora, e questo la dice lunga sulla necessità di rinnovare in fretta tutto il settore, non sono cambiate: orari assurdi, ambiente militaresco, ge-


stioni approssimative. Però stare in una sala mi piaceva, molto più che il lavoro di contabile in un autosalone, per cui mi ero diplomato in ragioneria e, da ragazzino, poter contribuire a rendere dignitosa la vita della mia famiglia e avere ancora qualche soldo per me mi riempiva di orgoglio. Per questo portavo avanti entrambi i lavori, contabile dal lunedì al venerdì, cameriere nei weekend fino a 25 anni, quando cominciarono le domande sul futuro e lì scelsi quello che più mi piaceva: la ristorazione, con l’obiettivo, un domani, di aprire un mio locale”. Da quel momento è stato un susseguirsi di decisioni che non hai ancora finito di prendere ogni giorno: la prima fu di emigrare in Germania, perché? Fu una decisione consapevole e non obbligata come

le tante emigrazioni di inizio Novecento. Ero convinto, e lo consiglio ancora a chiunque voglia diventare imprenditore della ristorazione, che un’esperienza all’estero fosse indispensabile per la crescita professionale. La scelta della nazione fu assolutamente casuale, lì viveva un amico di famiglia che poteva garantirmi un primo approccio. All’inizio lavorai, come tutti, in una gelateria intanto che imparavo la lingua, poi entrai a far parte della brigata di sala di un ristorante dove rimasi un paio d’anni. Acquisita la lingua e le competenze venne il momento di aprire un mio locale, lo feci con i soldi ricavati dalla vendita dell’auto e con il contributo di due soci. Era il 2003 e l’esperienza non durò per una sommatoria di errori a cominciare dalla posizione del locale, nella zona in-

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dustriale di Dusseldorf. Non mi persi d’animo e, nel 2005, aprii per la seconda volta mettendo a profitto gli errori, affiancato da esperti e da un commercialista che furono fondamentali per insegnarmi cos’era un business-plan, il food-cost, il bilancio previsionale. In quegli anni ho capito la difficoltà, anzi la complessità di gestire un ristorante”.

con la clientela: presi un secondo locale, affiancato al mio, dove esisteva un altro ristorante, e i posti di Antica Cagliari passarono dai 40 ai 100 con cui riuscii a fare economie di scala del personale, degli acquisti. In dieci anni, dal 2010 fino alla pandemia il bilancio ha avuto un incremento del 900% e le persone sono passate da 4 a 30 persone”.

Il rientro in Italia quando è avvenuto e perché? “Nel 2010 il ritorno in Italia con la voglia di rimettersi in discussione nella propria terra, con tanta esperienza acquisita grazie ad errori e piccoli successi. A Cagliari, dietro al porto, fino al 2010 c’era una zona non adeguatamente sfruttata e oggetto di ridisegno urbanistico. Pensai subito di cercare un posto proprio lì per aprire il mio locale ed è così che apro Antica Cagliari, un ristorante con 40 coperti che, fin dall’apertura estiva, lavorava tantissimo, ma nelle altre stagioni si mangiava i guadagni estivi. Una cucina di territorio, materie prime eccellenti, ma forse troppo avanti con i tempi e il luogo. Fu in quei due anni faticosissimi che capii che la mia formazione doveva essere continua, che l’esperienza, pur importante della Germania non bastava, e iniziai a frequentare i corsi di OSM - Open Source Management e vivere con più coinvolgimento il territorio e l’associazionismo di settore (oggi Alberto Melis è responsabile formazione della FIPE di Sud-Sardegna ndr). Feci anche una scelta azzardata, stimolato dal confronto

Poi ci sono stati altri investimenti? “Si, nel 2018 Antica Cagliari, ormai un brand conosciuto in città, aprì un bistrot con una cucina sempre legata al territorio ma in chiave moderna, con un servizio veloce e adeguato ai tempi della clientela. Con questi due locali creo le premesse per una scelta importante: nel 2019 sul lungomare, sulla spiaggia di Poetto, esisteva un posto davvero magico ma le spese di affitto erano proibitive: 20.000 euro al mese. Aspettai un paio d’anni e, visto che il locale stava ancora vuoto, mi riproposi in veste di acqui-

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Alberto Melis

rente e conclusi l’affare. Ora l’Antica Cagliari Lungomare e Terrazza (sono sue i ristoranti che vi ho ricavato) è un fiore all’occhiello della città: vista mare, 400 posti a sedere, pizzeria di alto livello e ristorante, al piano superiore l’Antica Cagliari Terrazza, più raccolto, con una cucina di grande qualità. Un investimento fatto in piena pandemia, tenendo fermi i lavori di ristrutturazione e guardando al futuro con grande incertezza. Nonostante questo siamo riusciti a portare a termine il progetto, pagando tutto e tutti, onorando tutti gli impegni presi”. Adesso quante persone assunte ci sono in Antica Cagliari e quale fatturato? “Ci sono 100 persone stipendiate regolarmente e il fatturato stimato, per quest’anno, sarà di circa 7 milioni. Dico stimato perché non c’è uno storico per il nuovo Lungomare Terrazza”. Che rapporti hai con il personale, in un momento dove ci sono molte persone che abbandonano il settore? “La mia formazione mi ha insegnato che bisogna essere etici, rispettosi, trasparenti con le persone. Ho persone che sono con me da quando ho iniziato dodici anni fa,

che hanno condiviso fatiche, scelte e successi. In Antica Cagliari ho un bassissimo turn-over dato da come abbiamo impostato il rapporto tra dipendenti e imprenditore. L’elemento umano è il valore portante di ogni azienda e, da quando ho iniziato, ho sempre creduto in un organigramma efficiente che mi permettesse di dare fiducia nella direzione dei locali, che consentisse una crescita delle persone sia dal punto di vista professionale sia da quello, di conseguenza, economico. Tutti i dipendenti svolgono molti corsi di vendita, marketing, leadership… A Cagliari godo della stima di moltissimi colleghi per il nostro modello gestionale”. Come vedi la ristorazione nel prossimo futuro? “Come è giusto che venga fatta. Non farò mai ai miei ragazzi quello che hanno fatto a me. Io vengo da una ristorazione di 18 ore al giorno pagate male e questo oggi non può più esistere. Molti ristoranti, ancora, non hanno una sostenibilità economica e gestionale perché sono stati aperti senza criterio. Questo danneggia tutto il settore, allontana i giovani, rappresenta il settore come un regno di improvvisati. Non può più esistere questa condizione, per il bene della categoria”. | giugno 2022

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FORMAZIONE

Ci sono concorsi e concorsi... Dall’istituto alberghiero di Cervia un bel progetto e un contest di bartending ricco di spunti Autrice: Simona Vitali Non ci pensiamo mai, o comunque troppo poco, a che valenza abbia l’organizzazione di un concorso per il bene degli istituti alberghieri e a che tipo di sforzo, impegno, rappresenti per chi si prende l’onere di farlo. Ci siamo mai chiesti se questa non sia un’opportunità che la scuola vuole dare ai ragazzi nel margine di manovra che gli è concesso? Coinvolgere molti altri istituti italiani e non solo, mettere gli studenti a confronto, offrire loro la possibilità di rinfrancarsi dopo la chiusura e lo spaesamento vissuti in fase di lockdown, vi sembra cosa da poco?

E dall’altro lato creare un progetto che risulti convincente per le istituzioni e le aziende che si intendono andare a coinvolgere, perché oggi con tutte le richieste che ci sono c’è sempre più scrematura nelle proposte. Anche questo vi sembra facile? Certamente non è da tutti, men che meno per chi non ha sviluppato negli anni rapporti di reciproca collaborazione sul territorio, per via di quel principio che dando - dando la propria disponibilità - si ha. A proposito di tutto questo ci ha favorevolmente colpito il Concorso internazionale di Enogastronomia e

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Turismo ‘L’Oro bianco di Cervia” (un omaggio al sale dolce del luogo), a cui l’alberghiero Tonino Guerra di Cervia quest’anno ha dato vita, superandosi rispetto agli anni precedenti.

Quando il meteo avverso mette in luce il meglio di cui una scuola è capace In questa ottava edizione infatti il focus del progetto stava in una sorta di villaggio, il Villaggio del sale, da allestire, grazie alla bella disponibilità del Comune, nella piazza principale, dove le 19 scuole avrebbero presentato, con il proprio comparto di accoglienza, un percorso multimediale per valorizzare il territorio cervese (oltre ad esporre prodotti del proprio territorio di provenienza), ulteriormente supportato dalla presenza di stand ad opera della Salina di Cervia. Contestualmente, sotto la torre dell’orologio, sarebbe stato predisposto un grande palco per il concorso di bartending, con un impianto stereo per la musica (contest del comparto sala vendita). Tutti i partecipanti ma anche un pubblico esterno avrebbero potuto vivere la loro esperienza conoscitiva nel villaggio e pure approfittare di visitare il centro storico del piccolo borgo marinaro, grazie alla guida di Mauro Marino, docente di cucina e profondo conoscitore del territorio. I cuochi in erba si sarebbero invece sfidati presso la sede della scuola, che dispone di ampie ed invidiabili cucine. Tema “Un piatto con l’oro bianco”. Ma sì sa che il meteo segue il suo percorso e in quest’occasione non è stato bonario. Fino all’ultimo si è sperato in un miglioramento del tempo. Erano le 7 del mattino quando non un’agenzia di allestitori ma lo staff della scuola preposto alla logistica si è portato sul posto, attendendo fino alle 10, quando la dirigente, Scilla Reali, ha optato per portare tutto dentro la scuola. Va ricordato che erano presenti 19 delegazio-

Contest cucina

ni di scuole dall’Italia e dall’estero, e la responsabilità moltiplicata per tutti gli ospiti, appunto. Con rapidità tutto è stato riassorbito e distribuito all’interno dell’edificio scolastico, fortunatamente abbastanza capiente da consentire lo svolgimento dei due contest previsti (bartending e accoglienza, quello di cucina il giorno precedente) e il contenimento di tutti gli ospiti. Questo mentre una squadra di docenti di sala e studenti della scuola provvedeva all’allestimento per la cena di gala con 200 ospiti e un’altra di cucina si accingeva a preparare i piatti per la sera. “Uno sforzo notevole – ha commentato la dirigente a fine evento - che ha coinvolto tutto il personale scolastico, tra docenti e personale ATA. Sono orgogliosa di tutti loro”.

I vincitori dei contest I tre contest, che sono il focus della manifestazione, hanno segnato la vittoria di: - Sara Galletta dell’Istituto Antonio Turi di Matera per la categoria “Cucina e pasticceria” - Chiara del Giudice dell’Istituto Lombardo Radice di Campobasso per la categoria “Bartending” - Gloria Zanatta dell’Istituto Alberini di Lancenigo (TV) per la categoria “Accoglienza”

Il contest di bartending: spunti per evolvere le modalità concorsuali Dei tre contest, tutti ben gestiti, segnaliamo in particolare quello di bartending per gli elementi di novità e gli spunti che ci offre in materia di concorsi. Senza considerare che in questa fase le formule di cocktail bar con piccola cucina sono sempre più in crescita e rappresentano, nuovi piccoli format di ristorazione su cui va il nostro sguardo. Ad organizzare la gara di bartending i due docenti di sala Francesco Cutolo e Gennarino Abate.

Contest accoglienza. Stand alberghiero di Ottaviano (NA)


Michael Limoni, Brand Ambassador Fabbri 1905

“Due sono le prove – spiega Francesco Cutolo - che abbiamo chiesto agli studenti in gara: la prima consisteva nel realizzare un cocktail che contenesse un ingrediente del proprio territorio. A loro disposizione i ragazzi avevano, inoltre, prodotti Fabbri e Nonino come base. Su questo dovevano arrivare preparati in termini conoscitivi, ossia dimostrare di sapere tutto della composizione di quel cocktail. Ho studiato ciascuna loro ricetta nei giorni precedenti la gara e ho preparato domande curiose, che non fosse così semplice trovare tramite il cellulare ma che richiedevano una ricerca più approfondita. Un modo per capire come avevano studiato. Conoscere bene ciò che si utilizza, essere in grado di spiegarlo al tuo cliente è un aspetto fondamentale per chi farà questo mestiere”. “La seconda prova – prosegue il collega Gennarino Abate – richiedeva di preparare un cocktail improvvisato, con la sola condizione di utilizzare uno sciroppo di Fabbri 1905, sorteggiato alla cieca (mistery Box). In questo senso abbiamo studiato con l’azienda, che ha colto bene i nostri intenti, di fare una Masterclass, appunto, per fornirgli spunti, consigli valevoli anche per il prosieguo, perché non si sentissero disorientati. Tra l’altro, in questo frangente, Fabbri stava per lanciare la nuova linea di prodotti, per cui ci sarebbe anche stata una sorta di anteprima”. E in effetti si è trattato di un paio d’ore molto costruttive che ha inchiodato alla sedia tutti i partecipanti al concorso e li ha stimolati ad interagire e fare domande. A condurre la Masterclass Michael Limoni, Brand Ambassador di Fabbri 1905, che in comune con questi ragazzi ha il percorso di studi. Come loro ha frequentato l’alberghiero, aspetto non trascurabile, poi ha iniziato a investire su corsi di formazione e a divorare libri di settore, alla ricerca di risposte. Sono seguite diverse esperienze fino a quella competizione che lo ha visto sul podio e gli ha aperto le porte. Oggi

è nella squadra di Fabbri 1905. Il poter incamerare informazioni e cultura lui per primo, grazie a quest’azienda dei cui prodotti già in passato si era appassionato, lo ritiene un bel vantaggio. La freschezza del suo approccio e quei messaggi giusti forano nei ragazzi, che si lasciano letteralmente rapire da quel contributo aggiuntivo, rispetto a ciò che apprendono a scuola. “Il mio calarmi negli alberghieri ha un sapore particolare. Mi sento veramente nei panni di questi studenti, mi rivedo io alle prese con i miei perché. Li sprono a dirmi cosa pensano, li invito a raccontarmi dei loro esperimenti, fornisco loro suggerimenti e anche qualche chicca. Non voglio che si annoino, piuttosto cerco di stimolarli. In questo caso, essendo in procinto di fare una gara - peraltro ben strutturata da due prof che definirei contemporanei - parto dal presupposto che in loro ci sia già la propensione ad approfondire e ad essere competitivi”.

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Due menzioni di sala&cucina ai migliori comunicatori del contest di bartending Abbiamo seguito con attenzione lo svolgimento del concorso e, per quella dichiarata vocazione che ci vede in prima linea per la sala - ancora non parimenti considerata rispetto alla cucina -, abbiamo portato il nostro contributo nella giuria del contest di bartending, ritenendo di attribuire non una ma ben due menzioni speciali per il modo di comunicare questo mestiere a: - Riccardo Giulioni dell’Istituto A. Panzini di Senigallia - Gloria Lo Bianco dell’Istituto G.Giolitti di Torino Un ragazzo e una ragazza, due modalità quasi contrapposte di esprimersi ma entrambe efficaci: l’uno rassicurante, tipico di chi ha risorse da cui attingere e ti avvolge con il suo racconto, l’altro esplosivo, pieno di vitalità ed entusiasmo. Stare con i giovani, frequentarli. Ne vale sempre la pena!


LIBRI Autore: Guido Parri

Massimo Spigaroli una mia idea di cucina gastrofluviale

Da sinistra Mario Cucci, Luigi Franchi, BenedettaSpigaroli, Massimo Spigaroli, Luciano Spigaroli e Alain Ducasse

Luigi Franchi e Alain Ducasse

È da poco uscito il libro Massimo Spigaroli una mia idea di cucina gastrofluviale, scritto da Luigi Franchi ed edito da Multiverso. La presentazione è avvenuta all’Antica Corte Pallavicina, alla presenza di Alain Ducasse che ne ha scritto la prefazione. Luigi Franchi, nell’introduzione, riassume così il significato di questo bel volume: Questo è un libro che traccia una storia bellissima, di come si difende un territorio, le sue tradizioni, portandolo, al contempo, ad essere riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo. E questo grazie al fortissimo legame che un cuoco ha sempre dimostrato per la sua terra, per i prodotti e per le sue genti, dedicando ogni minuto della propria vita, professionale e privata, a questo obiettivo. Non è stata una scelta facile quella di Massimo Spigaroli perché, come ricorda lui stesso nelle pagine di questo libro, quando era adolescente Polesine Parmense, il suo paese natale, era segnalato con cartelli stradali che lo lo indicavano come zona depressa. Nasce lì il concetto di riscatto del territorio, oltre che suo personale, che ne connoterà tutta la carriera professionale e umana. Le pagine introduttive del libro raccontano questa carriera, ne evidenziano la singolarità: un ragazzo che diventa cuoco, poi presidente del Consorzio di Tutela del Culatello di Zibello DOP, poi presidente di Cheftochef emiliaromagnacuochi, poi ancora sindaco del suo comune, mantenendo sempre e comunque il fortissimo legame con la sua vera passione, la cucina. Tappe che si snodano in circa cinquant’anni di storia che hanno trasformato, grazie principalmente al suo essere trascinatore di entusiasmi e di persone, il suo territorio da zona depressa a polo di turismo gastronomico a livello internazionale. La dimostrazione della bellezza di queste terre emiliane e della cordialità delle sue genti è espressa magnificamente dalle foto di Paolo Gepri. Il volume racconta la storia di Massimo ma anche quella della sua famiglia, quegli Spigaroli che da un secolo accolgono le persone, di suo fratello Luciano e dei tanti che si sono formati nelle cucine di Massimo. Nella seconda parte, invece, la cucina di Massimo Spigaroli, chef stellato che, a partire dai primi anni ’70, affianca la zia Emilia e che non ha mai dimenticato da dove arriva e gli insegnamenti preziosi di una cuoca sopraffina. All’inizio, infatti, troviamo le ricette della tradizione di queste terre. Successivamente ne osserviamo l’evoluzione, un percorso che probabilmente non avrà mai fine come testimonia il fotografo che ha lavorato a questa parte del libro, Paolo Picciotto, chiamato fino all’ultimo giorno prima della stampa ad aggiornare i piatti. Una cucina che Massimo Spigaroli ha definito, qualche anno fa, gastrofluviale per rendere bene l’idea di ciò che questo territorio, lambito dal Grande Fiume, offre in termini di biodiversità e naturalità. Un libro che fissa, in maniera indelebile, la forza di volontà, quella stessa che determina anche l’ottimismo di fare le cose bene, di uno chef che, per originalità, non ha eguali.

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TERRITORI Autrice: Marina Caccialanza

Napoli, unica e poliedrica Il sentimento, o il folklore, che aleggiano intorno a Napoli e ai suoi abitanti contribuiscono alla sua fama e creano un’atmosfera ineguagliabile: “Napule è mille culure, Napule è mille paure… Napule è mille culture” cantava Pino Daniele. Napoli va avanti e offre un’immagine evoluta e contemporanea, senza rinunciare alla sua storia Napoli, Roma, Firenze, Milano e Venezia sono le città che vedono il maggior numero di contenuti a tema enogastronomia, secondo l’ultimo Rapporto sul Turismo Enogastronomico Italiano. Il Rapporto segnala che in Italia, i ristoranti più prenotati sono, al primo posto, quelli che offrono piatti della cucina mediterranea (15%); a seguire, pizzerie e ristoranti dove si mangiano specialità del Belpaese (rispettivamente 13% e 12%). La Campania, insieme a Sicilia e Puglia, tende ad avere un mercato, effettivo e potenziale, piuttosto alto: sono le regioni italiane più popolose e vantano una certa attrattività turistica. Il settore ha saputo crescere

e possiede le potenzialità per continuare, migliorando il contesto territoriale, malgrado le condizioni svantaggiose: secondo il report annuale di FIPE, infatti, a Napoli, nel 2021, 711 attività hanno abbassato la saracinesca. Il 2022, però, è considerato l’anno della ripresa, dell’uscita definitiva dalla pandemia e dalle sue restrizioni. Le ultime festività di Pasqua e l’inizio di maggio sembrano confermare questa tendenza e i ristoratori napoletani testimoniano un’esplosione di turismo quasi senza precedenti. Unica nel suo genere, incantevole perla del Mediterraneo, Napoli ogni volta sorprende perché al suo interno

La sala piano terra del Mimì alla ferrovia


La Genovese

vivono mille realtà differenti; l’anima di Napoli è capace di mutare e trasformarsi ad ogni angolo di vicolo, ed è questo, forse, il fascino che diffonde e che attrae visitatori da tutto il mondo. I mille volti di Napoli possono riassumersi in due tendenze principali: da un lato un turista, italiano o straniero, che cerca la Napoli classica, che vuole il folklore, i colori e i suoni, la pizza di strada; dall’altro un turista più contemporaneo che, insieme al napoletano della generazione recente, esigente e preparato, va alla ricerca di qualcosa di nuovo, vuole sperimentare e lo fa con entusiasmo. È, quest’ultimo, il cliente che ha saputo stimolare e intercettare la nuova onda della ristorazione in città, quella che cuochi e ristoratori giovani portano in tavola secondo una visione contemporanea e creativa, interpretando la tradizione con lungimiranza e innovazione, con creatività ma, sempre, con il rispetto e l’amore per la città, la sua storia e le sue usanze culinarie e sociali. La pizza stessa, simbolo e icona, non è più soltanto cibo di strada e di trattoria, lo dimostra l’evoluzione di locali dove i maestri pizzaioli napoletani hanno un nome divenuto famoso – Gino Sorbillo, Enzo Coccia, Ciro Oliva, Ciro Salvo, Vincenzo Esposito, Francesco e Salvatore Salvo, solo per citarne alcuni ma l’elenco sarebbe infinito - e offrono un’immagine della pizza che è espressione di ricerca e tecnica ineguagliabili, con livelli qualitativi altissimi e materie prime che appartengono alle eccellenze gastronomiche italiane.

Mimì alla Ferrovia, la storia di Napoli Dal 1943 Mimì alla Ferrovia rappresenta la celebrazione della tradizione culinaria partenopea. La nuova genera-

Chef Salvatore Giugliano

zione di questo ristorante storico è rappresentata dallo chef Salvatore Giugliano che ha raccolto l’esperienza di famiglia e, oggi, porta avanti quel retaggio che ha segnato la fama del ristorante nel mondo con piatti che, nel rispetto della tradizione, regalano nuovi sapori. Nel cuore del centro storico, a due passi dalla stazione centrale, incarna Napoli: tutta l’Italia è passata di qui, Totò, De Filippo, illustri personaggi e gente comune, perché Mimì è al tempo stesso custode delle origini e creatore del futuro. “La clientela di Mimì alla Ferrovia è vasta ed eterogenea – racconta Salvatore Giugliano – perché negli anni la fama del locale ha superato i confini di Napoli e i turisti arrivano da tutto il mondo. Ci sono i napoletani affezionati che, da generazioni, trovano nella nostra accoglienza la familiarità della loro storia; poi ci sono i turisti che arrivano per la prima volta, col passaparola”. Tutto il mondo da Mimì alla Ferrovia, dunque, e un approccio che di volta in volta la famiglia Giugliano sa come modulare per soddisfare le aspettative di tutti. “Al turista che arriva per la prima volta, soprattutto se straniero, offriamo i piatti della tradizione più pura perché hanno le idee chiare: vogliono vivere l’anima di Napoli, assaporare i piatti classici di cui hanno sentito parlare o hanno letto, come le nostre candele alla genovese, che non possono mancare in carta. È un turista informa| giugno 2022

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to che desidera immergersi nella napoletanità. Il napoletano affezionato, invece, è un intenditore e vuole, deve, essere coccolato. Noi lo facciamo con dedizione stimolando le sue voglie con piatti più contemporanei, realizzati in base al mercato del giorno, soprattutto pescato fresco. Per questi clienti, che per noi sono preziosi perché rappresentano la continuità, abbiamo studiato proposte che incarnano l’identità del ristorante e di Napoli ma abbiamo anche cercato di dare contemporaneità e innovazione, per suscitare il loro interesse, appagare la loro voglia di novità. Per esempio, negli antipasti, accanto ai peperoni ‘mbuttunati, piatto forte per il turista straniero in cerca di napoletanità, trovano il taco bao cinese farcito con la genovese e la salsa caesar; al posto della mozzarella di bufala campana coi pomodori possono scegliere le alici ‘mbuttunate con zucchine alla scapece, sì, ma servite con mayo al wasabi. Hanno voglia di sperimentare e noi diamo loro un tocco moderno, senza esagerare, restando legati alla nostra identità perché è quella che ci contraddistingue.”. Il 2022 ha portato grande rinnovamento, Napoli attira

sempre, conferma Giugliano: “Il turismo è sempre stato costante ma abbiamo avuto picchi altissimi negli ultimi tempi. Lo scorso agosto abbiamo registrato numeri mai fatti prima e quest’anno ci aspettiamo un boom incredibile, le premesse ci sono. Napoli va avanti”.

Garage Gourmand, il gourmet partenopeo Non è una trattoria classica, non è un ristorante gourmet. Garage Gourmand incarna il nuovo che avanza e vuole essere il giusto compromesso: l’dea nasce dalla volontà di smorzare la parola gourmet, che nel napoletano e, in genere, nella gente del sud suscita sempre un po’ di pregiudizi, sia sulle porzioni sia sul costo. “Con questo locale – racconta lo chef Marco Nitride – ho voluto costruire una cucina elegante ma saporita, tradizionale e al tempo stesso informale per unire la cultura gastronomica napoletana con modernità e fusioni. Mi piace contaminare le diverse culture e Napoli è un crocevia di culture. Per esempio, faccio il ragù di maialino all’antica col cioccolato fondente, oppure l’anatra ma in versione napoletana; molto apprezzata la genovese di bufala: preparo i culurgiones, una pasta ripiena sarda, farciti con la genovese di bufala tipicamente napoletana, un piatto leggero e insolito che ho chiamato Occhio e Malocchio. Il clima e l’ambiente sono conviviali, la cura della proposta raffinata, ecco il perfetto compromesso”. Al Vomero, aperto appena prima della pandemia, Garage Gourmand accoglie una clientela eterogenea ma non il turista convenzionale che cerca il folklore tipico napoletano e che ruota intorno al centro storico. È, invece,

Pasta patate e provola

La famiglia Giugliano e il team di Mimì alla ferrovia

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Spaghettone quadrato al riccio con polvere di limone e aria di cappuccino

punto di ritrovo per un turista evoluto e per il napoletano esigente. “I primi tempi sono stati duri – ammette chef Nitride – erano certamente avversi, ma stiamo recuperando molto bene. Da prima di Pasqua, Napoli è letteralmente invasa dai turisti, tutti i giorni, e mi sento davvero fortunato dopo tante difficoltà. Riusciamo a intercettare un tipo di clientela che oggi è la maggioranza nella nostra citta, da un lato il napoletano non convenzionale, esigente e al tempo stesso cordiale, che vuole lo storytelling dietro ogni piatto, cerca la novità e una sorta di informalità che accompagna il percorso: deve essere incuriosito e attratto altrimenti da noi non viene; dall’altro il turista moderno ingolosito dalla fusione e dal bilanciamento delle nostre ricette; sa capire la tecnica dietro a ogni innovazione e apprezza la sperimentazione che trae origine dalla classicità. Recentemente ho proposto uno spaghetto con riccio, polvere di limone e aria di cappuccino; può sembrare strano, invece al palato si sente il riccio, il limone, tutto è ben bilanciato e i turisti, attratti dal bizzarro, hanno dimostrato grande apprezzamento. Il fatto è che il turista straniero, oggi, capisce e conosce

la cucina, non è sprovveduto, quindi è anch’egli molto esigente. Siamo noi che dobbiamo accontentarlo e non possiamo raggiungerlo solo con l’apparenza, ci vuole concretezza e riscontro”. Sono le due anime di Napoli e convivono. Esiste ancora il cuore pulsante della tradizione: il turista che vuole l’anima antica della città, la musica, le parolacce e i gesti scaramantici. Ma l’altra faccia della medaglia sono i ristoranti che crescono formando una nuova generazione e offrono una visione più contemporanea, guardano avanti. Questa è Napoli, una miscellanea di vite e un crogiuolo di inventiva.

Una sala del Garage Gourmand

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Lo Chef Marco Nitride

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ASSOCIAZIONISMO Autore: Luigi Franchi

Cosa fa il Banco Alimentare

Una realtà importante per una corretta politica del cibo Ogni anno in Italia il 15% della produzione alimentare viene sprecato in vari modi e il Banco Alimentare, una fondazione con 21 centri territoriali dotati di magazzini e logistica, cerca di contenere questo spreco grazie a iniziative come la Colletta Ailmentare che avviene in un giorno prestabilito in ogni parte d’Italia, e al recupero che fanno, tutto l’anno, presso le industrie alimentari, la GDO, i mercati generali, la ristorazione e le fiere, e alle oltre 7.600 associazioni caritative ed enti che poi redistribuiscono questo cibo. Tutto questo avviene grazie ai 1.934 volontari della rete del Banco Alimentare. Di questo parliamo con Marco Lucchini, segretario generale del Banco Alimentare, che ci spiega il gigantesco funzionamento di questa rete, nata negli Stati Uniti da un incontro particolare. Quando è nato il Banco Alimentare e chi è stato ad avere l’iniziativa? “Il primo Banco Alimentare nel mondo nasce negli Stati Uniti ad opera di John Van Hengel, un volontario presso la mensa dei poveri di Phoenix in Arizona. Era il 1967. Nasce in modo casuale, senza nessun pensiero strategico antecedente. Incontra una donna che sta frugando dentro i bidoni della spazzatura di un supermercato per recuperare il cibo per lei e per i suoi dieci figli. John le si avvicina e le dice: perché non viene alla mensa dei poveri? La risposta della donna fu: qui trovo cose più buone! Rimasto colpito da questa cosa va dal direttore per capire e scopre che le leggi del mercato, con standard dettati dal marketing, definiscono quali prodotti vanno di più mentre gli altri vengono gettati


perché costa di più smaltirli. A quel punto prese un accordo con il direttore del supermercato per ritirare lui la merce e portarla alla mensa francescana. In poco tempo si trovò a raccogliere più di quello di cui i frati avevano bisogno così cominciò a distribuirla anche ad altre associazioni della città, fino a quando gli venne donato uno spazio in una vecchia panetteria dismessa che John trasforma nel primo magazzino. Reincontra la signora che gli suggerisce, inconsapevolmente, il nome, affermando: se noi avessimo una food bank, una banca del cibo saremmo più ricchi. La cosa diventa presto virale e si sviluppa in tutti gli Stati Uniti”. In Italia quando nasce il Banco Alimentare? “Da una partecipazione di un italiano, milanese, a un incontro a Barcellona dove viene coinvolto nel Bancos de Alimentos. Il suo nome è Diego Giordani. Chiamò Giorgio Vittadini della Compagnia delle Opere a Milano che mi chiese, in quanto laureato in Agraria e coordinatore delle cooperative commissionarie (quelle che oggi sono i GAS; gruppi di acquisto solidali ndr), di capirne di più. Presi contatto con Giordani, andai a Barcellona per capire come funzionava questo Banco Alimentare. Era il 1988, io lavoravo in una piccola catena alimentare e, in quel periodo, si stava sviluppando la trasformazione del commercio, i supermercati prendevano sempre più spazio, l’inflazione era a due cifre, l’industria alimentare era praticamente statalizzata e in agricoltura si lasciavano marcire i prodotti nei campi in base ai regolamenti della PAC e perché non si guadagnava più nulla. Un periodo dove il consumismo cominciava a diventare regola di vita, il famoso 2x3 imperava. Quindi succedeva che facevi acquisti per ottenere un prezzo e molta merce restava invenduta. In quella situazione decidiamo di dar vita al nostro primo Banco Alimentare, incontrando un grande imprenditore, Danilo Fossati della STAR, sensibile al tema del recupero. Grazie a lui creammo il primo magazzino e, nel gennaio del 1990, ci arrivò del Fernet Branca avanzato dai pacchi natalizi, fu così che intuimmo che la cosa era possibile. Nel 1992 lasciai il mio lavoro e, da allora, mi dedico interamente all’attività della Fondazione Banco Alimentare”. Cosa significa oggi la presenza del Banco Alimentare? “Una presenza in 70 stati del mondo suddivisi in tre grandi reti: una rete europea (FEBA) che coinvolge 30 paesi europei; Feeding America per i paesi dell’America del Nord; Global Food Banking Network per il resto del mondo. In Italia abbiamo la sede della Fondazione a Milano, con 21 Banchi Alimentari nelle regioni italiane dotate di magazzini per la corretta gestione delle merci alimentari e 1934 volontari attivi, 160 dipendenti che sono con noi dopo aver perso il lavoro”.

Marco Lucchini

Come si diventa volontari? Che requisiti occorrono? Avete sedi territoriali? “Principalmente chi si rivolge a noi è una persona che ha del tempo perché qui si lavora a tempo pieno. Poi dipende dall’attività: in magazzino occorrono persone che abbiano la giornata intera; per la raccolta del cibo urbano servono invece poche ore al giorno. Non abbiamo mai fatto campagne di reclutamento, le persone arrivano con il passaparola e le collochiamo in base ai desiderata e le nostre esigenze. Facciamo un percorso di formazione. Chi viene per ‘l’emozione’ di aiutare direttamente un bisognoso da noi non la trova, perché il nostro lavoro è di intermediazione tra chi offre e chi redistribuisce. Noi consegniamo, o vengono direttamente a prendere la merce nelle nostre 21 sedi territoriali, a circa 7.600 associazioni di volontariato in Italia, in modo che abbiano più tempo da dedicare alle persone. Poi abbiamo la Colletta Alimentare che dura però un solo giorno, mentre l’attività quotidiana è incentrata sulla raccolta del cibo per evitarne lo spreco”. Si spreca ancora molto in Italia? “Negli anni si spreca sempre meno, grazie all’infor| giugno 2022

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matica che tiene sotto controllo i cicli produttivi, a una diversa sensibilità delle persone, ad una crisi economica di fatto e a una sostenibilità che sta facendo breccia. Chi dice il contrario dice una falsità. Resta ancora un problema, certamente. Uno studio del Politecnico di Milano del 2015 rivelava che erano circa 5 milioni di tonnellate all’anno lungo tutta la filiera, compresi i consumatori, le eccedenze alimentari, un dato che è leggermente migliorato ma ancora troppo elevato. Di quelle eccedenze il 50% è ancora commestibile e recuperabile. Il costo del recupero, con più ci si sposta a valle della filiera, è più alto: recuperare in un ristorante o in un supermercato costa di più che ricevere un tir dall’industria, ma offre più varietà di prodotto”.

Un’intervista che rende bene lo straordinario lavoro quotidiano della Fondazione Banco Alimentare. Ma ci sono due cose che vogliamo ancora raccontare: il recupero dei pesci sequestrati per frodo da parte del Banco Alimentare interrompe anche una catena malavitosa. Con la donazione si evitano le aste dove, a volte, c’è la sensazione di un accordo tra chi ha fatto il reato e chi gestisce l’asta. L’anno scorso sono state 16 le tonnellate di pesce recuperato dai sequestri. L’altra cosa è il giudizio sui giovani, anche quelli che fanno i volontari del Banco Alimentare, che ha Marco Lucchini: “I giovani di oggi sono fantastici! Hanno un’attenzione alle cose che è propria e capiscono una cosa fondamentale: che anche un piccolo gesto incide!”

La ristorazione classica come può interagire con voi? “La ristorazione ha gli strumenti per ridurre lo spreco, cominciando dalla cura che mette nella gestione della cucina: un bravo chef riesce a riproporre, con altre ricette, quello che si è avanzato oggi. In cucina rimane sempre molto poco. Rimane il problema di quello che rimane sul piatto, ma questo è un problema universale. Noi non lo ritiriamo perché non è più recuperabile, perché c’è un problema di contaminazione. L’unica possibilità è che l’ospite se lo porti via”. Quante derrate avete raccolto nel 2021, in termini quantitativi? “Abbiamo raccolto 126.235 tonnellate di alimenti, redistribuite tra le 7.600 associazioni che aiutano 1,7 milioni di persone. Ed è il 50% del bisogno reale! Cerchiamo di contenere il numero di associazioni per evitare di dare un tozzo di pane a testa”.

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DISTRIBUZIONE

L’assemblea di Cateringross ha approvato il miglior bilancio della sua storia

Autore: Guido Parri

Sabato 7 maggio si è svolta l’assemblea di bilancio del gruppo Cateringross, a un anno dall’elezione del nuovo consiglio d’amministrazione composto da Andrea Marchi (presidente), Riccardo Zuccali (videpresidente), Emiliano Baldi, Peter Foppa e Benhur Tondini (consiglieri). Un’assemblea partecipata dalla stragrande maggioranza dei soci che ha approvato all’unanimità il bilancio 2021, il migliore di sempre nella lunga storia di un gruppo che il prossimo anno festeggerà i 40 anni di attività.

Andrea Marchi, nella sue sintetica ma efficace relazione ha detto: “Stiamo cambiando pelle come gruppo, siamo il secondo per fatturato aggregato in Italia, abbiamo 40 soci che presidiano il Paese da Bolzano a Ragusa, con un livello di servizio ormai giornaliero ai ristoranti, agli alberghi, alle strutture di ospitalità. Con il Covid abbiamo avuto un anno, il 2020, che è stato molto faticoso ma siamo riusciti a resistere e, nel 2021, siamo cresciuti del 7% rispetto al 2019 e, nei primi quattro mesi del 2022, siamo al 15% in più rispetto allo scorso anno. L’attività diretta sta crescendo sempre di più

Da sinistra.Fabio Molinari, responsabile di sede, Andrea Marchi, presidente di Cateringross e Stefano Trotta, commercialista

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La delegazione di Cateringross a Seafood Expo di Barcellona

e questo determina un legame sempre più forte tra i soci e il gruppo. Abbiamo rafforzato la nostra presenza, unici italiani, all’interno di ECD – European Catering Distributors, la rete europea di distribuzione alla ristorazione, dove si possono creare forti sinergie commerciali tra le aziende alimentari e i distributori. Da loro dobbiamo imparare velocemente il valore del distributore all’interno della filiera dei consumi fuoricasa. Come Cateringross, da quest’anno, faremo molte più cose sul piano della comunicazione interna che su quella del marketing esterno, puntando molto anche sui nostri prodotti a marchio che, da settembre, saranno oggetto di una vera e propria campagna commerciale. Anche con Horeca. it abbiamo portato avanti, sul piano politico, le rivendicazioni per un riconoscimento ufficiale della categoria. L’esempio più recente di tutto questo è la nostra partecipazione più recente a Seafood Expo a Barcellona, la più grande fiera internazionale dell’ittico dove ci siamo presentati non come aziende individuali ma come gruppo e, credetemi, l’attenzione dei fornitori era ben più elevata.

Il bilancio 2021 Come dicevamo nel titolo il bilancio 2021 è stato il migliore, con un dividendo tra i soci (Cateringross è un gruppo cooperativo ndr) di 1.050.000 euro, e una forte patrimonializzazione. Inoltre tutte le aziende socie sono assicurate per poter lavorare senza rischi sul mercato. Nel corso dell’assemblea è stato approvato anche il bilancio positivo di Edizioni Catering, la controllata del gruppo che edita sala&cucina.

Il presidente Andrea Marchi

Le azioni future La prima grande operazione di marketing in programma è, a partire da settembre, una campagna di promo-commercializzazione dei prodotti a marchio BigChef dedicati al mondo pizza con l’impiego di brand ambassador che visiteranno i clienti del gruppo. Poi sarà la volta del 6° Cateringross Food Summit in programma al Palacongressi di Rimini il 14 e 15 ottobre dove le 40 aziende socie con tutta la loro forza vendita incontreranno i fornitori di Cateringross per conoscere le novità del mercato. Prosegue, dopo aver fatto il nuovo sito, il progetto di avvio di un ecommerce per le aziende del gruppo che vorranno dotarsi anche di questo strumento commerciale.

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PRODUZIONE Autore: Guido Parri

Olio di semi di girasole alto oleico BigChef Dai semi di girasole tradizionali si ottiene un olio con un punto di fumo intorno ai 130° per cui sarebbe impossibile raggiungere i 200-220°. L’industria alimentare, quindi, ha iniziato a produrre olio di semi di girasole alto oleico, con l’aggiunta di vitamina E, e degli antiossidanti naturali del rosmarino, della salvia e dell’alloro. Ciò gli conferisce caratteristiche simili all’olio di oliva e alza il punto di fumo ai 200°. Il fritto è elemento integrante della storia gastronomica italiana. Ogni regione d’Italia vanta almeno una ricetta di fritto, sia esso vegetale sia carne o pesce o pasta. Una tradizione che risale ai tempi dell’antica Roma ma bisogna attendere il Medioevo perché il fritto diventi prodotto di uso comune tra le classi elitarie, che “friggevano nel lardo carne e verdure, mentre nell’olio il pesce”. Da allora il fritto, nelle sue varianti infinite, è entrato nel linguaggio gastronomico comune e, ancora oggi, il consumo è decisamente elevato. Occorre sfatare il detto che il fritto fa male; come tutte le pietanze, se consumate in eccesso non vanno bene, ma se il fritto è fatto a regola d’arte, oltre ad essere gustosissimo apporta anche dei benefici all’organismo.

Scegliere questo tipo di olio per il marchio BigChef è stata, da parte del gruppo Cateringross, una scelta funzionale ad offrire un servizio vero ai clienti ristoratori e pizzaioli che potranno così differenziarsi per la elevata qualità delle loro ricette.

Cateringross ha scelto l’azienda leader di settore, Olitalia, per avere un olio di semi di girasole che abbia quei benefici evidenziati da quelli che ormai vengono considerati gli opinion leader nel settore food, ovvero gli chef. Con una shelf-life di 24 mesi, inoltre, permette allo chef di avere sempre a disposizione l’olio migliore per friggere. Inoltre la presenza dell’acido oleico rende questo olio di girasole anche più resistente all’ossidazione e alla degradazione a cui gli acidi grassi vanno incontro non solo durante la cottura, ma anche durante la conservazione. 58

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PRODOTTI Autrice: Marina Caccialanza

Foto: Claudia Calegari

Verdure in tavola, protagoniste e non contorno L’alimentazione, in quanto espressione culturale, costituisce un complesso di azioni e di abitudini di vita che assumono valore simbolico oltre che materiale. Il rapporto con il cibo, pertanto, si struttura con l’evolversi della civiltà, della società e delle differenti comunità


La cucina del Borgia

Negli ultimi anni si è consolidata la tendenza verso un’alimentazione orientata ai cibi vegetali, non solo per ragioni nutrizionali ma etiche e di sostenibilità ambientale. Sull’importanza dei vegetali per una buona nutrizione, non sussistono dubbi. Sull’opportunità di una dieta nella quale i cibi di origine vegetale prevalgono, per salvaguardare la continuità della specie e del pianeta, neppure. Il ristorante, luogo vocato per eccellenza alla diffusione di stili e tendenze gastronomiche, trova nella cucina vegetale un supporto e un’espressione di straordinario impatto creativo. E se, un tempo, era difficile trovare in abbinamento a un secondo di carne o pesce della verdura – a parte banali insalate – se non espressamente richiesta, oggi, le verdure nel piatto di uno chef sono l’indispensabile coronamento della ricetta o il sostituto ideale di quelle proteine animali che molti rifuggono per ragioni nutrizionali o etiche. Insomma, i vegetali a tavola sono indispensabili e, per un cuoco moderno, sapersi destreggiare tra stagionalità e freschezza dimostrazione di talento e sensibilità. È di fondamentale importanza saper inserire in menù una quota vegetale sufficiente a soddisfare non solo la clientela dichiaratamente vegetariana ma ad arricchire le proposte culinarie con freschezza, colori, sapori e versatilità come soltanto le verdure possono.

Ortaggi in cucina Alimenti scarsamente energetici ma con un buon valore vitaminico, gli ortaggi contengono una percentuale elevata di acqua e pertanto saziano mantenendo basso il valore delle calorie. Si distinguono generalmente in base alla parte commestibile: di alcuni si utilizza la

Tiziano Sotgia e Edoardo Borgia

radice, di alcuni il tubero, il bulbo, le foglie o i fiori, perfino i semi. Saperli impiegare nel modo corretto per valorizzarne le peculiarità richiede tecnica e applicazione. Ogni ortaggio ha la sua stagionalità, che in tavola rappresenta un valore aggiunto anche se, con le moderne tecniche di conservazione, è possibile impiegare ortaggi tutto l’anno e con eccellenti livelli di qualità. Resta il fatto che verdure e frutti sono soggetti a ritmi di coltivazione che conviene conoscere, per gustarli al meglio dal punto di vista organolettico, per ottenere condizioni economiche vantaggiose e, anche, ma non è un fattore trascurabile, per rispettare la territorialità dell’alimento elevandone le caratteristiche culturali oltre che nutritive. Non dimentichiamo che il turismo gastronomico, di cui i ristoranti sono un vettore fondamentale, è uno dei principali asset del nostro Paese. Allo stesso modo, è importante la lavorazione, da modulare secondo le caratteristiche dell’ortaggio utilizzato. Il taglio delle verdure, tecnica basilare nella for| giugno 2022

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mazione di un cuoco, serve a valorizzare il prodotto e amplificarne la resa in cucina. La scelta del metodo di cottura o presentazione, è altrettanto importante per mantenere i valori nutrizionali ed esaltare il sapore e la consistenza del cibo. La cottura delle verdure in acqua, per esempio, favorisce la perdita di una quota di vitamine e minerali, meglio la cottura al vapore o una veloce ripassata in padella. Alcuni vegetali, possono cambiare il loro indice glicemico con la cottura: le carote cotte hanno un IG più alto rispetto a quelle crude; patate e zucca, alimenti dotati di un indice glicemico molto alto, se mangiate lesse e raffreddate presentano un IG più basso, che si innalza notevolmente se servite bollenti o in puré. Nella composizione di un piatto o di un intero menù è importante, quindi, calibrare ogni elemento allo scopo di realizzare una proposta piacevole, creativa e sana. Sono, pertanto, molte le ragioni che invitano a introdurre sempre più menù vegetali nella carta del ristorante.

La testimonianza e l’esperienza dello chef Giacomo Lovato È interessante l’esempio del Ristorante Borgia di Milano perché ha ideato un metodo dove la cucina concreta s’intreccia alla creatività e alla tecnica ricercata. La proposta si chiama Menù Psyche, ideato dal patron Edoardo Borgia insieme allo chef Giacomo Lovato, e ha lo scopo di coniugare cucina e psicologia attraverso il filo conduttore dell’ospitalità; lo staff si approccia ai clienti attraverso un dialogo naturale e spontaneo, composto da domande mirate e fatte per scoprire gusti e desideri culinari. Insomma, una breve ma attenta intervista, volta a raccogliere informazioni utili per la realizzazione di piatti ad hoc e stupire il cliente creando, contemporaneamente, un rapporto di estrema fiducia. Secondo questo approccio, la presentazione di un menù totalmente o parzialmente vegetariano viene così affrontata con particolare cura. Colonne portanti di questo originale menù, oltre al proprietario e allo chef, sono il restaurant manager Tiziano Sotgia e il sommelier Devis Giuliano: è loro anche il compito di selezionare i giusti abbinamenti dalla carta vini per un corretto accostamento con i sapori che escono dalla cucina. “Un menù basato sui vegetali – spiega Giacomo Lovato - si organizza studiando la stagionalità dei prodotti e la loro sostenibilità. La motivazione principale è cercare d’andare incontro alle esigenze della clientela che, in questo periodo, ha sempre più interesse nel riscoprire gli ortaggi come elemento protagonista di un piatto, di una cena o di una dieta. Inoltre, per un ristorante è essenziale cercare di sviluppare dei piatti che abbiano un food cost che possa alleggerire la spe-

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sa gestionale. Il menù viene organizzato selezionando innanzi tutto la materia prima che viene resa protagonista, per andare successivamente ad aggiungere ulteriori elementi, al fine di esaltarne le proprietà organolettiche”. La scelta accurata della materia prima, pertanto, è basata sulla sensibilità del cuoco che deve identificare il modo migliore per esaltarla: “Le verdure hanno tutte una loro identità e delle proprie caratteristiche – continua chef Lovato - quindi non c’è una verdura più pratica rispetto a un’altra, ma è responsabilità di chi la lavora esaltarne le caratteristiche con le varie tecniche di cucina. Per mia esperienza personale, dal mio menù sono stati molto apprezzati vari piatti vegetariani, tra cui la tartare di pomodoro, provola, semi di girasole e basilico; il carpaccio di barbabietola, salsa ai tre pepi, pistacchio e olio alla brace; il risotto alle rape e ricotta affumicata oppure gli agnolotti del plin al sugo d’arrosto (la mia versione vegetariana) dove sia il ripieno sia il fondo di cottura con cui vengono serviti sono interamente a base di verdure: zucchina in escabeche, aglio orsino, salsa di yogurt alla menta e fiori di zucchina. Al ristorante Borgia quando viene strutturato un menu degustazione Psyche si cerca quasi sempre di inserire almeno un piatto totalmente vegetariano all’interno del percorso, perché crediamo che l’esperienza venga in questo modo valorizzata.”

Giacomo Lovato

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PERSONE Autore: Bruno Damini

Premiate Trattorie Italiane Invito alla tavola di sedici famiglie di grandi artigiani della ristorazione italiana 10 e 11 ottobre, a Sant’Agata sui due Golfi

I componenti delle Premiate Trattorie Italiane. Foto di Lido Vannucchi

Dopo due anni di blocco per la pandemia riprendono le iniziative delle Premiate Trattorie Italiane con l’evento annuale che non fu possibile organizzare nel 2020. Saranno Mimmo De Gregorio e la sua famiglia de Lo Stuzzichino a Santagata sui due Golfi a ospitare le Trattorie associate per due giorni, i prossimi 10 e 11 ottobre. Abbiamo raccolto alcune anticipazioni su questa festa e sulle attività sull’Associazione da Mimmo De Gregorio e Simone Circella, cuoco della Brinca di Ne (Genova), neo presidente delle Premiate Trattorie Italiane che succede alla lunga e proficua presidenza di Federico Malinverno del Caffè La Crepa di Isola Dovarese (Cremona).

www.premiatetrattorieitaliane.eu info@premiatetrattorieitaliane.eu

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Mimmo De Domenico con la sua famiglia

Fin che erano in poche si riunivano quattro, cinque volte l’anno presso l’una o l’altra delle trattorie associate per cucinare insieme, condividendo esperienze, convivialità, principi rigorosi di cucina territoriale e di economia alimentare sostenibile ed elaborare progetti e strategie per il futuro. Crescendo di numero stabilirono di fare organizzare annualmente una due giorni dalla trattoria che via via avrebbe avuto la libera responsabilità di ospitare l’evento. Così nel 2015 toccò all’Antica Trattoria del Gallo di Vigano Certosino Gaggiano (MI), nel 2016 alla Trattoria Visconti di Ambivere (Bergamo), 2017 Amerigo 1934 a Savigno (Bologna), 2018 La Brinca di Ne (Genova) e 2019 il Caffè La Crepa di Isola Dovarese (Cremona). A Sant’Agata sui due Golfi il 10 e 11 ottobre e sarà una grande giostra di idee, persone, cucine e visite alla scoperta di ogni segreto, non solo enogastronomico, di un territorio baciato dal sole. Un trenino su gomma permetterà di effettuare escursioni e visite a produttori e coltivatori locali. Per i soci delle Premiate e per i giornalisti Mimmo De Gregorio sta pensando anche a un giro in barca lungo la costa partendo da Marina della Lobra fino alla Baia di Ieranto e all’area marina protetta di Punta Campanella La prima serata si svolgerà in una delle strutture più belle del territorio di Massa Lubrense, Villa Angelina, situata su un piccolo promontorio che guarda verso l’isola di Capri e Lisca, scoglio di Marina della Lobra. La villa è circondata da un bellissimo, ampio giardino a terrazzamenti a strapiombo sul mare in uno scenario di grande magia. I cuochi delle Premiate cucineranno per duecento ospiti (prenotazioni dal 1agosto TEL. 081.5330010) e le brigate condivideranno i compiti, dalla panificazione all’aperitivo, dall’antipasto fino al dessert. Non avrebbe senso fare un percorso in sedici portate, tante sono oggi le Premiate Trattorie con le ultime adesioni non sarebbe nel loro spirito, nessuna delle quali prevede menu con tanti piatti ma si riu-

La famiglia Circella. Al centro Simone Circella

scirà a dare rappresentanza a tutti i territori elettivi dell’associazione, secondo le portate canoniche con porzioni da trattoria. La seconda giornata sarà dedicata agli operatori, giornalisti e colleghi del mondo della ristorazione e ai soci delle premiate, si svolgerà con numeri più contenuti allo Stuzzichino riservando tavoli anche al pubblico. Sarà un incrocio di tradizioni gastronomiche che coinvolgerà anche grandi pizzaioli come Enzo Coccia della Pizzaria La Notizia e altri colleghi ristoratori del territorio. Quanto ai vini ci si affiderà ai consorzi di tutela dei vini della Campania e non poteva essere altrimenti vista l’alta qualità della produzione locale. C’è la piena consapevolezza di organizzare un evento che serve a far conoscere sempre più un’associazione molto attiva che riceve tante richieste di candidatura. La loro parola chiave è “italiane”, considerando la trattoria come definizione migliore della nostra tradizione ristorantizia. Fino a non molto tempo fa si era portati a considerare rappresentativa solo la cosiddetta ‘alta cucina’ che però non necessariamente rispecchia la nostra storia. La trattoria con le Premiate si riappropria del concetto di alta cucina territoriale, tradizioni di famiglia storicizzate nel tempo anche nell’impegno | giugno 2022

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a sostenere i piccoli produttori locali insieme ai quali si genera lavoro contrastando il fenomeno dell’abbandono di territori lontani dalle città, ridando vita a lavori che una volta venivano considerati secondari che non ci si può permettere di dimenticare senza pregiudicare il nostro futuro. Il nostro paese ha la fortuna di avere 1000 campanili a cui corrispondono altrettante cucine diverse che si esprimono attraverso infinite variazioni dialettali. È un immenso patrimonio culturale in continua evoluzione perché si deve essere rispettosi, a volte fedeli, ma con intelligenza perché non si

possono congelare le ricette in una fissità museale. Le Premiate Trattorie Italiane celebrano il grande artigianato in cucina in un continuo passaggio di testimone che va vissuto con gli occhi, con le mani e con la testa attraverso una consolidata storicità nella gestione familiare trasmessa in eredità di generazione in generazione, in sala come in cucina, dove lavorare assieme alla nonna e alla mamma, cuoche con cui sei cresciuto e che hai sempre visto fare quella cosa in una determinata maniera, perché ogni volta si rinnovi l’invito a mangiare a casa loro.

PREMIATE TRATTORIE ITALIANE

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Sono partite più di vent’anni per volontà di Alberto Bettini (Amerigo 1934), Sergio Circella (La Brinca), Avguštin Devetak (Lokanda Devetak), Federico Malinverno (Caffè La Crepa). Completava il gruppo delle trattorie pioniere il Gambero Rosso a San Piero in Bagno. Dotate di un disciplinare d’accesso molto severo e selettivo, fino a quest’anno erano in 13, tutte nel bel volume del Gambero Rosso “Premiate Trattorie Italiane”, testi di Sara Favilla, foto di Lido Vannucchi. Recentemente sono diventate 16 con l’ingresso del Capanno di Spoleto, dell’Enoteca della Valpolicella (Fumane - VR) e della Locanda Altavilla (Bianzone - SO) ma alcuni altri ingressi sono al vaglio. Queste Trattorie rappresentano la storia di famiglie italiane dedite da generazioni all’alto artigianato gastronomico e all’accoglienza, con storie che si proiettano nel futuro. Condividono valori e identità culturali mai perdute e costantemente rinnovate. Sono Premiate dal tempo e dall’affetto di una clientela consolidata, cosmopolita e curiosa. Luoghi di ristoro “senza tempo” conservano la memoria e sanno essere contemporanei e aperti al nuovo, porte di accesso al territorio con un progetto di salvaguardia e promozione delle produzioni locali. La varietà delle loro ricette racconta storie preziose che hanno reso la cucina territoriale italiana unica al mondo. Consiglio direttivo Presidente: Simone Circella •Vicepresidente: Avgustin Devetak •Segretario: Federico Malinverno Consiglieri: Alberto Bettini, Paolo Reina, Daniele Caccia, Domenico De Gregorio

Le trattorie associate: Amerigo 1934, Savigno (BO) www.amerigo1934.it

La Brinca, Ne (GE) www.labrinca.it

Antica Trattoria del Gallo, Vigano Certosino Gaggiano (MI) www.trattoriadelgallo.com

Lo Stuzzichino, Sant’Agata sui due Golfi (NA) www.ristorantelostuzzichino.it

Boivin, Levico Terme (TN) www.boivin.it

Lokanda Devetak, San Michele del Carso (GO) www.devetak.com

Cacciatori, Cartosio (AL) www.cacciatoricartosio.com

Nangalarruni, Castelbuono (PA) www.hostarianangalarruni.it

Caffè La Crepa, Isola Dovarese (CR) www.caffèlacrepa.net

Sora Maria e Arcangelo, Olevano Romano (RM) www.soramariaearcangelo.com

Cibus, Ceglie Messapica (BR) www.ristorantecibus.it

Trattoria Visconti, Ambivere (BG) www.trattoriavisconti.it

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Vecchia Marina, Roseto degli Abruzzi (TE) www.facebook.com/ LaVecchiaMarina Il Capanno, Loc. Torrecola, Spoleto (PG) www.ilcapannoristorante.net Enoteca della Valpolicella, Fumane (VR) www.enotecadellavalpolicella.it Locanda Altavilla, Bianzone (SO) www.altavilla.info


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un’alveolatura ben sviluppata, croccante fuori e morbida dentro, con una fragranza e un gusto davvero intensi. Le Pinse Surgelate Molino Spadoni sono state realizzate per semplificare i processi di lavorazione e avere prestazioni “time saving”: essendo precotte, basta farle scongelare a temperatura ambiente e rinvenirle in forno statico a 280°C o ventilato a 220°C per 4/5 minuti la piccola (29x19 cm da 210g) e 6/7 minuti la grande (55x25 cm da 600g). Saranno pronte per essere farcite a piacere, nel top o all’interno, o anche come semplici focacce con l’aggiunta di olio e sale prima della cottura.

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RISTORANTI Foto: Matteo Zanardi

Autrice: Marina Caccialanza

Tentazioni Ristorante, gusto e inclusione Dalla Calabria alla provincia di Bergamo e il sogno si realizza: due fratelli gemelli e una passione condivisa per la cucina

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Tentazioni Ristorante è un locale elegante dove gustare una cucina contemporanea ideata per coccolare il palato e una grande selezione di vini italiani e francesi. Sandro e Giacomo Pittelli definiscono la loro cucina inclusiva e il termine non è utilizzato a caso. Da Tentazioni Ristorante, a Costa Volpino (BG), si gusta e si apprezza una cucina piacevole e gustosa; una cucina raffinata ed elegante ma per tutti; comprensibile e frutto di equilibrio e moderatezza nel rispetto della materia prima; una cucina studiata per soddisfare le aspettative del cliente, chiunque esso sia. È il 2012 quando Sandro, chef, e Giacomo, maître, coronano il sogno di una vita e aprono Tentazioni. È un traguardo al seguito di una lunga carriera iniziata da adolescenti, nella loro Calabria, quando le estati erano scandite dai ritmi del lavoro stagionale nei ristoranti della costa; continuata nei migliori ristoranti della penisola imparando dai più esperti. Infine, il grande salto e un primo Tentazioni, annesso a un hotel, finché nel dicembre del 2012 aprono Tentazioni Ristorante: “Volevamo un posto tutto nostro – spiega

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Sandro – dove mettere a frutto l’esperienza maturata ed esprimere la nostra passione comune per la cucina. Questo lavoro è la nostra vita e l’amiamo”. Due fratelli, due gemelli, una sola anima e una coesione d’intenti che si rivela ogni giorno nell’armonia con cui hanno definito i loro ruoli – Sandro ai fornelli, Giacomo in sala – nell’impostazione dello stile culinario, nella profonda comprensione che li conduce a perseguire l’obiettivo comune: soddisfare il cliente con l’accoglienza, il gusto, il servizio piacevole e i piatti gustosi. Perché quando la gestione familiare funziona di buon accordo, è la soluzione ideale. Racconta Sandro Pittelli: “Ci piace definire la nostra cucina inclusiva perché offre un gusto gradevole e rotondo, non è aggressiva ma accogliente. Nonostante la profonda ricerca che operiamo ogni volta che studiamo una nuova creazione, alla base c’è sempre l’equilibrio, perché crediamo sia importante proporre piatti comprensibili e apprezzabili da tutti. Nella sostanza, usiamo tecniche particolari che esprimono cura e ricerca, qualità e personalità; nella forma, offriamo popolarità e semplicità. Un piatto deve essere capito, deve essere riconoscibile, per essere apprezzato. Quando un cliente non capisce il piatto che gli servo, vuol dire che ho sbagliato qualcosa e devo cambiare il mio approccio”. Piatti belli e buoni, dunque, perché, spiega Sandro: “Non devono essere solo instagrammabili e fotografabili: devono essere, prima di tutto, buoni e chi li mangia deve alzarsi da tavola dopo averli gustati. Ci troviamo in un’area molto ricca e attiva e i nostri clienti sono soprattutto imprenditori e artigiani della zona che si rivolgono a noi per pranzi di lavoro: devono spendere con consapevolezza e soddisfazione. Allo stesso modo, le famiglie o i turisti occasionali hanno bisogno di un luogo accogliente e piacevole dove appagare il palato in tutto relax. La nostra tavola soddisfa le esigenze perché trae origine dalla cultura mediterranea del sud ma spazia in tutta la penisola e comprende sapori e tradizioni che, miscelati con cura, si rinnovano con discrezione, stupiscono con gentilezza”. Anche questo è equilibrio: la cucina di chef Sandro Pittelli gode di note acide e amare, ma senza prevaricare; ha un’identità forte ma accompagna il palato con rotondità piacevole e sa unire materie prime e ingredienti seguendo un bilanciamento perfetto nelle note e nelle intensità. Per questo, tra i suoi piatti più apprezzati, e che identificano il suo stile, troviamo, per esempio, i bucatini al ferretto, tipici della Calabria, preparati con farina Senatore Cappelli e poche uova, accompagnati con pummarola, nduja, ricotta salata e olive taggiasche, più delicate nel gusto di quelle calabresi. Oppure, in inverno, la crema di patate di montagna cotte sotto la cenere servita con le cozze alla marinara o con la seppia alla brace o i ricci di mare. O, infine, ma sarebbero molti gli esempi, pappa

al pomodoro e sarde in saor. È un viaggio alla scoperta delle meraviglie d’Italia: personalità prorompente, contaminazioni sorprendenti ed equilibrio di sapori. È frutto di esperienza, coscienziosità, tecnica e lungimiranza. Aperto 5 giorni su 7, con un bel gruppo di lavoro affiatato, Tentazioni Ristorante è un luogo dall’anima antica ma proiettato al futuro, un locale solido che sa innovare con concretezza e stabilità, con armonia. Giacomo e Sandro Pittelli hanno saputo creare un ambiente moderno e sereno e sedersi alla loro tavola vuol dire “stare bene” perché trasmettono amore per il cibo e lo fanno con garbo.

Tentazioni Ristorante Via Marco Polo, 2d 24062 Costa Volpino BG Tel. 035 1991 0354 www.tentazioniristorante.it


PIZZERIE Autrice: Marina Caccialanza

Il Point, napoletana contemporanea Se vi capita di passare da Albairate, in provincia di Milano, ricordate che c’è un luogo dove la pizza è come vuole la tradizione ma, se volete provare qualcosa di nuovo, ci sono le ricette di Fabrizio e, allora, non ve ne andrete più Fabrizio Tropea ci è cresciuto tra farine e forni a legna, fin dall’età di 14 anni quando faceva le consegne per le pizzerie della zona. Da lì viene la sua passione per la pizza, che dal 2010 è il suo lavoro, la sua attività, la sua vita. Pensate che in pizzeria ha conosciuto Silvia Ruggieri, che oggi è sua moglie e gestisce l’attività con lui. Da questo amore sbocciato tra le pizze è nata la Pizzeria Il Point di Albairate. All’inizio è una pizzeria da asporto, poi man mano che la clientela aumenta, il locale si amplia e oggi conta 90 posti a

sedere. “Faccio una pizza contemporanea che deriva dalla rivisitazione della classica napoletana – spiega Fabrizio Tropea - ho cercato di mantenere l’aspetto visivo della pizza tradizionale, col cornicione alto come una volta; ho voluto, però, darle caratteristiche più consone ai gusti contemporanei”. Per ottenere questo risultato, Fabrizio ha studiato gli impasti e ha impostato un metodo di lavorazione che, partendo da una base comune, si sviluppa in modi


diversi a seconda della destinazione d’uso. “Utilizzo farine macinate a pietra e opero una tecnica a lunga lievitazione; questa è solo la base però, poi utilizzo prefermenti diversi come la biga o il poolish oppure la lievitazione diretta a seconda se il prodotto è destinato ad essere consumato subito, o dopo un giorno, o per l’asporto. Adeguo la tecnica cambiando tempistiche e lavorazione per ottenere lo stesso risultato finale: una pizza gustosa e digeribile, leggera e fragrante, come la gente vuole”. A Il Point si fa solo ed esclusivamente pizza. Questa è la sua caratteristica, spiega Fabrizio: “In questo modo la nostra attenzione è concentrata sul prodotto e ci dedichiamo completamente a eseguirlo per bene. Chi viene da noi lo sa. L’apprezzamento della nostra clientela, sempre più numerosa, ci rende soddisfatti. Albairate è un piccolo paese dell’hinterland milanese ma è circondato da molte località più popolose e ormai il nome di Il Point è conosciuto e i clienti fanno volentieri qualche chilometro in più.”. I risultati ottimi, secondo Fabrizio, derivano anche dall’aver scelto fornitori affidabili, come Le 5 Stagioni, che Fabrizio utilizza da sempre perché “è una certezza e non rischio sorprese: la pizza riesce sempre perfettamente e la farina giusta ne ha certamente parte del merito”. Due menù, a Il Point: il primo, una quindicina di varianti, è orientato sulle pizze classiche, come le tradizionali 4 stagioni o capricciosa; ma è il secondo menù la vera sorpresa. Si chiama “le ricette di Fabrizio” e qui il pizzaiolo esprime il meglio della sua creatività. “Le chiamano pizze gourmet – racconta Fabrizio Tropea – ma io preferisco definirle ‘le mie ricette’. Sono

pizze per buongustai che amano sperimentare qualcosa di nuovo e io cerco di accontentarli. In pratica, riproduco sulla base pizza alcune ricette tradizionali italiane realizzate con prodotti italiani. È un modo per rendere omaggio allo straordinario patrimonio del nostro Paese e ne vado molto orgoglioso. Qualche esempio? La cacio e pepe, la ficus, la zucca o la cimetta. Qualche scappatella in Spagna col jamon serrano e le acciughe del Cantabrico ma soprattutto tanti prodotti italiani perché mi piace l’idea di valorizzare il nostro territorio così ricco di specialità. Scelgo con cura gli ingredienti perché per ottenere un prodotto di qualità bisogna partire da una materia prima di eccellenza. Quindi, innanzi tutto freschezza e prodotti garantiti. Naturalmente non manca una pizza in onore del mio cognome: Tropea come la cipolla, e allora ho inventato la pizza provolona con pomodoro, pomodorini secchi, provola di bufala affumicata, olive taggiasche, origano e…cipolla di Tropea”.

Pizzeria Il Point Via del Parco 9 20080 Albairate (MI) Tel. 02 9492 0401 www.ilpointpizzeria.it


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“In cucina chiudo gli occhi. Immagino il mix di sapori, odori, emozioni che vorrei ritrovare nei miei piatti. Poi apro gli occhi e li creo, li provo e li approvo, se catturano tutti i miei sensi. Ho creato, provato ed approvato la linea Grand’Or Gourmet: potete sceglierli ad occhi chiusi”.

Chef ristorante “Il Tiglio” - Montemonaco (AP)

IL SURGEL ATO RAFFINATO

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· ph. Mauro Corinti

CREATI. PROVATI. APPROVATI.


una terra, una famiglia, una forma

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ASSOCIAZIONE GASTRONOMI PROFESSIONISTI

Vino: un viaggio nel tempo Autore: Giorgio Maria Zinno

La formazione del gastronomo professionista, come abbiamo più volte ribadito, è un potpourri di conoscenze di ambito diverso, che si legano strettamente le une alle altre attraverso il filo rosso dell’enogastronomia. Durante il percorso di studi però c’è un momento, o un argomento, in cui si trova l’esemplificazione più limpida di tutte, il vino; un prodotto che da solo possiede e può raccontare ogni sfaccettatura delle Scienze Gastronomiche. Apriamo quindi con questo numero una rubrica dedicata all’enologia, che vuole far spazio a piccole storie e grandi persone, gli artigiani del vino di qualità. Il vino ha rappresentato, e rappresenta, per noi una vera

e propria tradizione, alle volte una specie di rituale, di simbolo: con esso non accompagniamo soltanto i pasti, ma celebriamo incontri e avvenimenti a cui diamo importanza, suggelliamo unioni e infine ne facciamo oggetto di studio, ricerca e riflessione. Il vino è storia. È storia quando i popoli ne hanno fatto la scoperta, quando lo hanno esportato o importato, mettendo in comunicazione realtà e contesti sociali di gran lunga differenti e lontani tra loro. È storia quando quegli stessi popoli ne hanno appreso i metodi di produzione e li hanno di volta in volta modificati e migliorati per renderlo sempre più gradevole e raffinato, come lo conosciamo oggi. Il vino è storia quando ha animato il Simposio, quella pratica con-

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viviale ai tempi in cui la Grecia era al centro del mondo. Ed è storia, e ancor più cultura, quando ha ispirato la poesia, l’arte, il teatro, la musica e la letteratura. Ripercorriamone insieme la storia, dunque. La viticoltura nasce nell’8.000 a.C. nel Caucaso ed in Mesopotamia, da qui si diffonde via mare attraverso il Mediterraneo e via terra attraverso i paesi slavi, centro e nord europei. Sono state ritrovate tracce di vite “allevata” risalenti ad oltre 100.000 anni fa. Se invece parliamo di forme non domesticate, numerosi fossili di vite ancestrale, ovvero varietà selvatiche non ancora adeguate per la produzione, ne testimoniano la presenza sulla Terra ben oltre 66 milioni di anni fa. Dalla Mesopotamia la vite si diffonde anche in Egitto, dove per i faraoni viene trasformata in quello che viene definito “prelibato nettare”. Fenici e Greci, invece, dapprima imparano ad apprezzarlo come prodotto di importazione, in seguito, a loro volta, ne diventano grandi produttori ed esportatori. È proprio in questo momento che il vino assume quelle caratteristiche simboliche che noi oggi gli riconosciamo: vino come elemento di convivialità, vino che riunisce, vino che dà ebbrezza. A proposito di simbologie e di quest’ultima espressione, Omero parla di quel “buon vino di Itaca”, che Odisseo, uomo dal multiforme ingegno, diede a Polifemo per liberare se stesso e i suoi compagni dalla caverna in cui quello li teneva prigionieri. L’otre di vino, accettato come dono gradito, rense il ciclope ebbro e quindi vulnerabile, permettendo ad Odisseo e ai suoi compagni di accecarlo e fuggire. Ma andiamo avanti con questo rapido excursus. L’espansione ellenica verso le coste meridionali dello “stivale”, l’area che conosciamo tutti come Magna Grecia, determina l’ultimo passaggio verso quella che sarà la vera e propria culla del vino. Qui, prima gli Etruschi, poi i Romani, appresero le tecniche di viticoltura e trasformazione. A questi ultimi dobbiamo un grande merito, che non possiamo certo dimenticare. Essi per primi fecero un’impor-

tante distinzione, riconoscendo e classificando diverse varietà di uva; oltre a quella da tavola, furono identificati vitigni più o meno pregiati, produttivi o aromatici. E così, sebbene fossero soliti tagliare il prodotto della fermentazione con dosi variabili di acqua, per ridurne il tenore alcolico, ne fecero un prodotto di culto e largo consumo. Fu quindi grazie a loro che avvenne la penetrazione dell’enologia oltre i confini della Penisola, all’interno del continente – Francia, Germania, Spagna – e verso l’ Europa orientale. Con la crisi dell’Impero Romano, e le invasioni barbariche, inizia un vero e proprio periodo di decadenza della viticoltura. Si fanno spazio la cervogia, antenata della birra, ed altre bevande fermentate tipiche del Nord Europa, e la civiltà del vino e dell’olio viene soppiantata da un’altra differente cultura. Solo a partire dal V secolo, qualcosa cambia. L’Impero Romano d’occidente che aveva ammesso il culto del cristianesimo è ormai crollato ma questo non perde terreno: abbazie e monasteri continuano a presidiare i territori europei. Qui frati e monaci, nei loro domini, allevano la vite con grande cura per ottenere il vino da consumare durante il rito liturgico. Oltretutto imparano e migliorano le tecniche di produzione, anche grazie ai testi agricoli romani giunti in eredità dal mondo latino. È così che con essi la vite torna in auge nelle abbazie e nei monasteri. Per questo motivo che oggi sono numerosi i nomi di vini italiani e francesi il cui nome è legato ad ordini monastici o luoghi anticamente consacrati. Il viaggio del vino nella storia non finisce qui. Le vicende attorno a questo straordinario prodotto sono le più disparate e se pensiamo che oggi al mondo ci sono circa 8 milioni di ettari coltivati a vite, con una produzione di vino di circa 256 milioni di ettolitri che corrispondono a 34 miliardi di bottiglie, forse ha senso tornare sull’argomento, e lo faremo, nei prossimi mesi.


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Nel cuore di Firenze, all’interno dell’Hotel Brunelleschi, nella splendida torre bizantina della Pagliazza, si trova il ristorante Santa Elisabetta, due stelle Michelin. Lo chef executive è Rocco Santis. La sua cucina è una raffinata sintesi tosco-campana. Lo chef Rocco De Santis è riuscito a creare uno staff che lavora in piena armonia, dove ogni persona gioca il proprio ruolo. Il restaurant manager è Alessandro Fe, il sommelier Lorenzo Paoli e il sous-chef Fabio Silla. Il piatto scelto è un omaggio alla toscana, lo zafferano è l’impreziosimento del piatto di mare. Triglia in crosta di pane allo zafferano: Ingredienti per 4 persone: Ingredienti per 4 persone: 8 triglie, limone, finocchietto, olio extravergine di oliva, sale, pepe Per la composta di Cipolla Rossa di Tropea: Un chilogrammo di cipolle, 100 g di zucchero, 100 g di glucosio, 50 g di aceto di Sherry - Per il pane allo zafferano: 600 g di farina, 250 g di acqua, 15 g di pistilli di zafferano, 15 g di lievito di birra, 10 g di sale, 10 g di zucchero semolato, olio extravergine di oliva - Per il pesto di menta: 200 g di foglie di menta, 60 g di olio extravergine di oliva, 40 g di mandorle tritate, 40 g di olio di semi, 20 g di basilico, uno spicchio di aglio sbianchito - Per il pesto di uvetta e pinoli: 150 g di uvetta, 14 g di olio extravergine di oliva, 50 g di pinoli, 50 g di aceto di uva, 50 g di pane raffermo, 30 g di capperi finissimi dissalati, un’acciuga dissalata, menta Per la salsa all’aglio rosso di Nubia: 100 g di spicchi di aglio sbucciati e privati dell’anima, 50 ml di panna, white 35%, 50 ml di latte - Per la guarnizione: quattro ciuffi di menta, quattro fiori di aglio, quattro steli di erba cipollina Procedimento Sbucciare le cipolle, lavarle e tagliarle a fette sottili con

Paolo Baracchino Fine Wine Critic info@paolobaracchino.com www.paolobaracchino.com

“La triglia in crosta di pane allo zafferano del ristorante Santa Elisabetta abbinata al Faro Palari annata 2010 l’aiuto di una mandolina, far bollire venti millilitri di acqua e l’aceto poi sbianchirvi le cipolle per pochi minuti. Versare gli altri ingredienti in una ciotola, unire le cipolle scolate, coprire con della pellicola e lasciare macerare per sei ore. Conclusa la macerazione, trasferire tutto in un tegame e far bollire a fuoco basso finché non avranno assunto la consistenza tipica della composta. Per il pane allo zafferano versare la farina nel cestello di una impastatrice, aggiungere il lievito sciolto in poca acqua calda con zucchero. Iniziare a impastare a velocità moderata quindi unire lo zafferano, diluito in un cucchia-

Triglia in crosta di pane allo zafferano


io di acqua, e il resto degli ingredienti; lavorare fino ad ottenere una massa morbida. Trasferire l’impasto su un tavolo da lavoro in legno spolverizzato con un poco di farina e lavorarlo a mano giusto il tempo di renderlo ancora più omogeneo, poi metterlo in uno stampo da plumcake unto con l’olio extravergine di oliva. Lasciar lievitare per circa due ore poi cuocere in forno a 180°C per 45 minuti. Una volta cotto, sfornarlo, lasciarlo raffreddare quindi con un’affettatrice tagliarlo in fette spesse poco meno di 3 millimetri. Sbianchire le foglie di menta e di basilico, raffreddarle in acqua e ghiaccio, strizzarle bene e amalgamarle al resto degli ingredienti. Frullare tutto con un mixer a immersione e riporre in freezer per circa due ore. Mantecare energicamente rompendo i cristalli di ghiaccio fino a ottenere un pesto cremoso. Lasciare ammorbidire l’uvetta in acqua tiepida per circa 20 minuti e mettere in ammollo nell’aceto il pane raffermo; nel frattempo tostare i pinoli in una padella antiaderente. Quando l’uvetta sarà ben idratata, strizzarla e versarla nel bicchiere di un mixer a immersione con il resto degli ingredienti, frullare per pochi minuti ottenendo un composto omogeneo. Far sbianchire per tre volte l’aglio partendo sempre da acqua fredda; versare la panna e il latte in un pentolino, unire l’aglio sbianchito e lasciare

cuocere a fuoco basso in infusione per circa venti minuti. Frullare e tenere da parte. Sfilettare le triglie eliminando la lisca centrale ma avendo cura di lasciare le due metà unite alla coda. Condire con sale, pepe, la buccia del limone grattugiata e il finocchietto tritato. Spennellare la pelle con un filo di olio extravergine di oliva quindi adagiare un lato su una fetta di pane allo zafferano e, con la punta di un coltello, ritagliare il pane seguendo la lunghezza del pesce arrivando all’attaccatura della coda. Procedere nella stessa maniera per l’altro lato. Versare un filo di olio extravergine di oliva sul fondo di una padella, farlo scaldare e rosolare le triglie da entrambi i lati facendo dorare leggermente il pane in modo che aderisca perfettamente alla pelle e risulti croccante. Stendere con una spatola il pesto di menta sul fondo di ogni piatto, disporvi sopra un cucchiaio di quello, di uvetta e pinoli e su questo adagiarvi una triglia. Rifinire con alcune gocce di salsa all’aglio, un poco di composta di cipolla rossa, ciuffi di menta, erba cipollina e fiori di aglio. Ristorante Santa Elisabetta n. 3 50122 Firenze, tel. 055/2737673, info@ristorantesataelisabetta.it.

Il vino da me scelto per abbinarlo a questo piatto è il Faro Palari, un vino siciliano composto da uve Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio. L’Azienda agricola Palari è di proprietà dell’architetto Salvatore Geraci che, la leggenda narra che dopo un incontro con Gino Veronelli, intraprese anche la strada di vignaiolo. Gino capì la potenzialità del territorio e lo invogliò a coltivare nei suoi sette ettari vitati, poco lontani dal mare che bagna Messina, i vitigni autoctoni siciliani tra i quali il Nerello Mascalese ed il Nerello Cappuccio. Dal 1990 la cantina produce il Faro Palari DOC. In questi ultimi anni Salvatore ha acquistato dei vigneti sull’Etna e produce due fantastici vini, il primo Rocca Coeli Etna bianco con uvaggi Caricante e Minnella, con intense note olfattive, in primis minerali, vino riccamente sapido e l’Etna rosso Rocca Coeli con 100% di Nerello Mascalese. Quest’ultimo ha al naso note di gasolio e di acqua di mare. Ma ritornando al piatto, preciso che ho scelto il Faro Palari perché, su un piatto sapido come questo, ci voleva un vino di carattere con profumi speziati e minerali con struttura media e allo stesso tempo fine, elegante con tannini setosi e sapori fruttati di prugna e ciliegia. Questo vino inoltre è ricco di freschezza che esalta anche il sapore del piatto, entrambi, vino e cibo si compenetrano e si esaltano reciprocamente. FARO PALARI DOC, ANNATA 2010 (Uvaggio : Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio) Seduce con la sua classe, preannunciata da un color rosso rubino e granato chiaro. Il naso è di carattere con profumi speziati di pepe nero e noce moscata e intensi di gasolio e origano. La passeggiata olfattiva prosegue con note di prugna, pomodoro secco, guscio duro di mandorla, ciliegia fresca, alloro, salvia, buccia verde della banana e pietra focaia, per terminare con una spolverata di cioccolato fondente. Al gusto ha corpo medio ed è equilibrato con l’acidità in bella evidenza e la massa tannica d’ottima estrazione. I tannini sono dolci, larghi e setosi. Vino sapido e minerale, fine, elegante e di struttura. Lunga è la sua persistenza gustativa con finale di ciliegia. Nelle mie note ho scritto: “Bella beva, giovane, entusiasmante”. Mi ha ricordato il 2005. (95/100) L’azienda si trova in Sicilia, 98137 loc. S. Stefano Briga (Messina) tel. 090/694281. Mail : vinipalari@tin.it | giugno 2022

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NOVITÀ Autore: Guido Parri

Tagli di bovino in stile bbq, quali valorizzazioni? www.centrocarnicompany.com Il bbq, che trova le sue origini e il suo sviluppo nel continente americano, ha conosciuto un periodo di forte popolarità e diffusione soprattutto negli ultimi anni, segnati da un momento storico particolare che ha stravolto e cambiato stili e modi di pensare in cucina, coinvolgendo privati e ristorazione. Tuttavia, la passione per le cotture al bbq si è affermata prepotentemente, dando vita ad una rivisitazione del modo di mangiare e pensare la carne. Sono diversi i tagli proposti per il bbq ma i tagli che si possono utilizzare sono molteplici e soprattutto può essere, il bbq, un’opportunità per valorizzare pezzature per lo più non considerate o comunemente utilizzate per altre preparazioni. Fra queste, non così scontata nel caso specifico del bovino, le beef ribs. Le Beef Ribs, ovvero le costine di bovino, sono probabilmente uno dei tagli più prelibati dedicati al barbecue. Succulente, piene di sapore, grasso e tessuto

connettivo sono, come direbbero gli americani, estremamente beefy! Una novità, o meglio, una rivisitazione nel mondo del barbecue, diventato non solo un mood casalingo ma un esempio di ricercatezza anche nelle cucine professionali che vogliono innovare il menù e proporre in salse diverse un taglio diverso dal solito. Le beef ribs Unika® di Aberdeen Angus Sired sono ricavate dalla selezione della migliore materia prima, dalle scottone allevate in Irlanda e poi per almeno 4 mesi in Italia: la tradizione irlandese nell’allevamento incontra quella italiana, dando forma ad un prodotto dal gusto ricco e morbido, tipico dell’Aberdeen Angus Sired Unika®.

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