Conversazione in brabante

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Questo libro, che è anche e soprattutto un libro di ricordi, è stato dettato da una memoria dolce e crudele, con spirito di consacrazione e dissacrazione, risalendo dal Brabante, dove passo la mia vecchiaia, all’Irpinia, dove ho vissuto la mia infanzia dal 1925 al 1937, della quale senza peli sulla lingua mostro i lati positivi e negativi. Non è dimenticando, rifiutando o falsificando il passato che un individuo o una società possano costruire il loro presente. Questo va basato senza ipocrisie e volute amnesie sul passato, di cui bisogna essere, se non orgogliosi, sempre coscienti. In un duplice movimento, con l’infanzia in Irpinia si illumina e consacra la vecchiaia in Brabante e con questa a sua volta si dissacra e magnifica l’infanzia in Irpinia, tenendo sempre fede al rispetto della verità, qualunque essa sia e per quanto sia possibile ricostruirla. Ringrazio in modo particolare l’amico, Gerardo Di Pietro, e mio nipote, Celestino Grassi, due punti obbligati di passaggio per chi voglia occuparsi di Morra e della sua storia.

DANIELE GRASSI

CONVERSAZIONE IN BRABANTE Un’infanzia irpina

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Tornavo dalla solita passeggiata pomeridiana un po’ stanco e deluso per non aver trovato funghi, che mi ero immaginato dovessero esserci dopo un’estate così piovosa. Per dispetto avevo raccolto alcune penne d’oca e di gazza e le avevo infilate nel sacchetto di plastica in cui di solito mettevo i funghi, ripromettendomi, una volta a casa, di studiarne la testura e compararne i colori. Roteando di tanto in tanto in aria il sacchetto e con lo sguardo non troppo sollecitato dall’arcinoto spettacolo di alberi, canali ed uccelli acquatici, andavo martellando mentalmente qualcosa in endecasillabi, che venivano e non venivano, su una composizione piuttosto strana che avevo fatto prima di uscire a funghi col ritagliare dal catalogo di un’esposizione di foto alcune immagini di sapore surrealista.

A questo insieme alquanto incoerente si trattava ora di dare coerenza cercando un leit motiv che poteva esser quello di un gentiluomo di campagna, come io mi consideravo, che erra fra le diverse immagini a caccia di un senso, riferibile a sé e a una sua donna amata: Ma dove m’hai fuorviato, dove giunto sono? In pubica selva od in arsura del tuo bollente Tropico del Cancro, cui mi avvicino teschio e fuggo ragno? Poteva andare. Brutta cosa la vecchiaia: più che surrealista in ritardo e da strapazzo, mi stavo imbarocchendo o, peggio, ero vittima di un’idea fissa, il sesso della donna, che scoprivo dovunque ed era onnipresente perché assente. Ne avevo ricavato addirittura una teoria, basata su una presunta mia scoperta: la presenza dell’assenza. Stavo ora esaminando una variante, spostando il ragno a sinistra e il teschio del montone a destra. Se nella prima versione si sottolineava l’aggressività maschile della penetrazione, nella seconda si metteva in evidenza l’irretimento nella pelosità della donna, da cui il maschio fuggiva ormai ridotto a teschio. Avevo appena optato per la seconda versione dando significato negativo, anzi mortale, alla donna in amore e cambiando di conseguenza l’ultimo verso che ora recitava

Al centro su un foglio da disegno avevo incollato una foto di Marcel Marien in cui l’artista belga, giocando sulla parola periferia e riferendosi a Parigi, aveva spostato il senso di parola e immagine sul corpo nudo di una donna , tagliato in secondo piano un poco sotto i seni , collocando una minitorre Eiffel sull’ombelico e in primissimo piano facendo sorgere dall’incavo delle cosce un folto e nero boschetto. Il centro di attenzione era quindi non quello di Parigi con il noto simbolo della torre Eiffel, ma la “ banlieu” con il forte richiamo sessuale della pelosità del monte di Venere. A destra dell’immagine di Marien avevo incollato un teschio cornuto di montone che puntava verso il pube della donna, da cui a sinistra sembrava fuggire un ragno pelosissimo, forse una tarantola. In basso della composizione c’era una mia foto di stelo secco di fiore di acanto che perdeva i semi e in alto, di un altro surrealista belga, Felix Labisse, un’uccella con ali di pipistrello, testa di formica, vulva-pungiglione di vespa e corpo gonfio di donna.

cui a ragno mi avvicino e teschio fuggo quando mentalmente sentii la donna replicarmi: ” Ragno? Nero e peloso? Ma io bionda ho rado pelo.” “ E più la vulva in vista! “, ribattevo, incerto però sull’aggiunta, calzante con la realtà, ma appunto per questo zavorra nell’atmosfera surreale dell’insieme. Volli uscire da quell’intrico di significati, fissando di nuovo i dintorni. 2


“ Buon pomeriggio”, qualcuno mi salutò. Non l’avevo notato, seduto su un ceppo di faggio al margine della strada, assorbito quindi dal bosco circostante. Chi era? “ Buon pomeriggio”, risposi meccanicamente prima di fissare lo sguardo sull’uomo, macilento,

“ Se ti conosco! Sei mio figlio.” Era allora mio padre quell’individuo con cui stavo parlando? “ Mio padre? E cosa ci fai qui ?”, chiesi stupidamente, non ricordando sul momento che mio padre era morto da una cinquantina d’anni. “ Son venuto a trovarti dopo tanto tempo perché ho bisogno di te.” “ Bisogno di me ? Ma non sei morto? “ “In

corto affermando che non c’era niente da dire e talvolta perfino mentendo, come quando nei primi tempi parlando di Parigi, dove lei aveva passato un anno da studentessa e poi era tornata varie volte, mi chiese se vi fossi stato anch’ io e quando. “Da ragazzo una volta, risposi, con i miei genitori”, ma ero troppo piccolo per ricordare tante cose della città. Durante il fidanzamento, quando venne al paese e vide l’ambiente familiare, capì subito che le avevo raccontato una fandonia e me ne volle allora e in seguito. Ma io avevo la coscienza tranquilla: cosa voleva? Ormai ero diventato un altro e, potendo per conoscenze ed esperienze stare alla pari di lei, avevo tutti i diritti di non farmi impressionare e sminuire con quei suoi vantati soggiorni parigini. C’ero stato anch’io, sì, mentalmente e sapevo almeno quanto lei di Parigi e della civiltà francese. Più penoso era il mio tacere quando le domande sul nonno venivano dai figli che avevano conosciuto e ricordavano affettuosamente mia madre, ma su mio padre niente. Bocca cucita e sviamenti. Solo in certe occasioni, polemicamente parlando delle povere condizioni in cui ero cresciuto, che non mi avevano, però, impedito di studiare e diventare quel che ero diventato, in modo indiretto, e qualche volta più diretto, parlavo di mio padre, causa della miseria della mia infanzia perché troppo dedito al vino e perciò incurante degli interessi familiari. E anche questa era una menzogna, o per lo meno una sottospecie, con cui si ammette qualcosa per negare o nascondere il resto.

qualche modo lo sono, però posso ancora vivere se...” “ Se cosa?” “Se e finché mi ricordi.” “ Ma io ti ricordo solo in rarissimi casi. Anzi, ho cercato in tutti i modi di dimenticarti, di cancellarti dalla mia memoria.” E come in un lampo ricordai che in varie occasioni, quando mia moglie mi poneva delle domande per sapere qualcosa di mio padre, lei che parlava del suo ricordando questo e quello, conscia di far rivivere un personaggio socialmente, culturalmente e anche affettivamente importante, io o cambiavo discorso o tagliavo

“ Non volevo parlare neanche della tua morte “, gli dissi.e poiché il discorso cominciava ad esser lungo, gli chiesi di spostarsi un po’per farmi posto accanto a lui sul ceppo di faggio. Avendo poi notato un certo mio imbarazzo perché ispezionavo i dintorni per vedere se passasse qualcuno, “ Non ti preoccupare, disse, sono visibile soltanto per te, per gli altri non esisto. Puoi, quindi, comportarti normalmente come se fossi solo a guardare il prato e gli uccelli acquatici lungo il canale.” “ Ma allora non vedi me soltanto, vedi anche il resto.”

con gli abiti spiegazzati, la giacca di stoffa povera che non reggeva i risvolti che pendevano sul davanti, rattoppata qua e là, come anche i pantaloni con le pezze sui ginocchi, stinti e così ridotti da non arrivare alle scarpe, una specie di stivaletti grossolani male allacciati e che non avevano, se mai l’avevano avuto, il lucido da mesi e mesi. Risalendo verso il volto, vidi che sotto la giacca, le cui maniche non arrivavano ai polsi, aveva una camicia di dubbio candore che terminava con una specie di colletto basso sgualcito che poteva abbottonarsi, ma non sostenere una cravatta. Cercai ancora rapidamente d’identificare quell’uomo, notando sotto il naso un quadratino brizzolato che fungeva da baffi secondo la moda degli anni trenta e i capelli che scendevano sulle tempie e di traverso anche sulla fronte. “ Magra la stagione “, aggiunse. Aveva indovinato o sapeva che andavo a funghi. “ Mi conosci ?“, gli chiesi.

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“Proprio così, me invece mi vedi tu soltanto” e proseguì dicendo che mi era apparso più per un bisogno suo che mio. Era lui che , se non voleva scomparire del tutto, doveva con me e attraverso me ricostruire la sua vita, capire cioè chi fosse stato veramente, in sé, ma anche rispetto alla famiglia. Così facendo ridava sostanza e forza alla sua sopravvivenza in me. Che era quel che gli importava. “ Tu sei l’ultimo sopravvissuto della famiglia. Se c’è una frazione di vita possibile per me, è in te, finché sei ancora in vita e mi ricordi.”

rimediarvi ricordandogli quella volta quando, volendo intavolare un certo discorso, venni a parlargli dei Promessi sposi e lui mi rispose: “Ah! Renzo e Lucia e don Rodrigo” e fu tutto. La mia non voleva essere una malignità, bisognava però , almeno adesso ch’era morto, rettificare la sua pretesa di essere un uomo intelligente, come da vivo affermava misurando con quattro dita di traverso l’ampiezza della sua fronte e quindi la non comune intelligenza. Del resto, bastava chiederlo a Carminucciu Lu Visiu, letterato e poeta estemporaneo, che mi aveva detto che mio padre, poveretto, benché rovinato da chi si sa – e qui accennava vagamente a un preteso comune loro amico, signorotto del paese, e a una misteriosa malattia in cui mio padre era incorso, fuorviato appunto da quell’amico- aveva sempre avuto una eccezionale intelligenza. Torniamo a bomba: dovevo ora grazie a lui riconquistare la mia infanzia autentica, non continuare a falsificarla. Ma perché proprio grazie a lui che era stato la bestia nera di essa e che io perciò avevo cercato di cancellare con tanta assiduità e rabbia? Avrei potuto servirmi , oltre che dei miei ricordi, di quelli di altri, attingere ad eventuali fonti, fare insomma tutto quel lavorio che fa chi vuole scrivere una storia o una cronaca. “ No, no, replicò. Ricorrere ad altri significa veder la tua infanzia con i loro occhi e, anche se te ne servissi solo di complemento, quel mescolare le acque tue con quelle degli altri peggiora e non risolve la situazione.” “ E tu allora intervenendo non la peggiori forse come e più degli altri?” “ No, perché io son morto e, se ritorno, è un caso unico che deve, come ti

Ci fu un lungo silenzio. Non so a cosa ora lui pensasse. Io mi chiedevo quanto ci fosse di vero in quelle parole, collegandole anche a miti e riti di popoli antichi o primitivi in cui il morto non trova requie finché i discendenti con diverse offerte e riti espiatori non plachino lo spirito del defunto o non gli diano conveniente sepoltura. Se lo fanno, il defunto passa nella categoria degli antenati che possono premiare e punire secondo i comportamenti dei discendenti, avendo comunque una seconda e più stabile vita della prima. Come se indovinasse la piega che stavano prendendo i miei pensieri, mio padre disse che parlando con me della sua vita, oltre che stabilire una solida base di essa in me, ciò serviva anche a farmi riconquistare l’infanzia l’infanzia perduta. “ Perduta come ?, chiesi. “ Peggio che perduta, falsificata.” “ Falsificata ?” “ Sì, perché hai di essa isolato certi aspetti e momenti a te graditi ed hai modificato od occultato il resto.” “ Ma non è questo il processo che segue ognuno che ricorda?” “ Lo è, però tu l’hai fatto con maggior impegno e disinvoltura poetica.” “ Poetica? Ma che sai tu della poesia?” “ So che sei poeta , ascolto quanto scrivi e mentre lo scrivi e, se finora non sono intervenuto, è per calcolo e prudenza nei tuoi confronti, per lasciarti cioè quei momenti di refrigerio, rimettendo a un secondo momento la necessità e la durezza di dover intervenire per mettere le cose a posto.” “ Ma che vuoi mettere a posto con la tua ignoranza di queste cose?” La parola mi era proprio scappata e cercai di

ho detto, risolvere il problema tuo e mio, giacché, finché non ho conosciuto fino in fondo chi fossi e chi sono stato per te, non avrò pace.” Ci eravamo intanto alzati e m’incamminavo verso casa perché la sera cominciava ad avvicinarsi, un freddolino umido si faceva sentire e sul prato e per gli stagni e i canali gabbiani, anatre, oche ed altri animali acquatici cominciavano a disporsi per la notte, facendo a schiera gli ultimi giri in aria o sistemando il capo indietro dentro il 4


soffice delle penne e piume. “ Sì, andiamo, disse, ti accompagno.” “ Ma a casa c’è mia moglie e come facciamo a giustificare la tua presenza?” “ Non ti preoccupare, sono udibile e visibile da te soltanto.” Camminando scese su di noi un gran silenzio. Lui per ora non parlava, io non ne avevo voglia o, meglio, i miei pensieri e ricordi erano tutti occupati dalla morte, quella sua, ma anche di tanti altri. Lui era morto in mia assenza. A quell’epoca mi trovavo in Calabria da uno zio che mi aveva accolto dopo il disastro dei dieci anni passati in collegio, permettendomi di riprendermi dopo quel naufragio forse con un piccolo impiego e ridando tutti gli esami – quelli dati in collegio non erano riconosciuti – per poter continuare gli studi. Si era negli anni subito dopo la guerra, trecento chilometri erano una distanza siderale, dati i mezzi di comunicazione con le strade e le ferrovie semidistrutte dai tedeschi. Avevo fatto il viaggio di andata in un carro merci e per un tratto perfino in piedi, mancando i sedili. Non avevo inoltre un soldo e l’ospitalità da mio zio si limitava allo stretto necessario, vitto e alloggio, più trecento lire mensili per le spesucce personali.

l’avevo scritta io nella lettera di risposta in cui facevo le condoglianze alla famiglia, cioè mia madre, mia sorella e mio fratello. Nel paesino, a quell’epoca di tremila e cinquecento abitanti, si viveva una vita quasi collettiva: c’era la famiglia e con la famiglia c’erano gli altri, di cui si sapeva tutto e alla cui vita e avvenimenti si partecipava in vario grado, ma si partecipava, coralmente. Di morti, quindi, ne avevo visti tanti, per la mia età direi che ne avevo visti troppi, benché ripensandoci non riesca a individuarne che pochissimi e anche di questi solo alcuni tratti, confusamente. Si allontanavano allora i bambini dai morti? Si cercava di non farli partecipare troppo a visite di condoglianza e funerali? Forse in parte o per nulla ed è stata la mia memoria a ridurre quell’enorme velo funebre a qualche lembo sfilacciato. Eravamo quasi giunti a casa. A una trentina di metri gliela indicai: quella sulla destra, dipinta di giallo senape. Avevo notato che, strada facendo, mio padre non cessava di mostrar segni di ammirata meraviglia. Il quartiere era per lui inabituale: tutte quelle case e ville tra i giardini e sullo sfondo le alte cime dei faggi del bosco. “ Ma allora sei ricco, questa è una chiesa o un castello, non una casa.”

Dopo due mesi circa, sotto Natale, giunse una lettera di mio fratello che mi metteva al corrente della morte di mio padre dopo breve malattia. Credo che terminasse la lettera piuttosto succinta, precisando che era morto per dissenteria. “ Ora ch’è morto, non tocca a noi giudicarlo.” Stop. Comunicai il contenuto della lettera allo zio. La lettera risaliva a una quindicina di giorni prima; quindi

Entrati, lo vidi a bocca aperta, spaesato e quasi spaventato: tutti quei quadri e quelle statue! Mia moglie mi aveva appena sentito arrivare e già sbraitava. “ Non ti meravigliare, ho il predicatore in casa. Poi si calmerà. Tu intanto fa finta di niente.”

pietosamente o diplomaticamente si concluse ch’era inutile tornare al paese. Per alcuni giorni mi chiusi in un mutismo comprensibile, la zia mi tinse una cravatta di nero, mi cucì una fascetta dello stesso colore sul risvolto della giacca e la vita riprese il suo corso, stavo per dire normale. Ripensandoci, la frase “ Ora ch’è morto, non tocca a noi giudicarlo “

Mi accompagnò nel soggiorno e, mentre spaurito e interdetto faceva scorrere lo sguardo da un’opera d’arte a un’altra, gli chiesi di accomodarsi dove meglio gli pareva perché io avevo bisogno di una pausa per riprendermi dalle sorprese del suo incontro e di quanto ne era seguito. “ Prima di cena ci resta una buon’ora. Invece di 5


ascoltare il solito disco di musica classica, voglio riprendere l’ultima poesia per qualche ritocco. Tu intanto, se lo vuoi, puoi guardarti il mio ultimo acquisto, poi ti spiegherò.”

fermo davanti al mio ultimo acquisto che cercai di spiegargli. « E’ un reliquiario Kota del Gabon in Africa. Quello che vedi è la parte superiore di legno ricoperto di metallo, ottone e rame, inserita all’altezza del peduncolo in un paniere di vimini o corteccia, che contiene il cranio del personaggio più importante del lignaggio con altre ossa sue o di altri membri delle varie famiglie. Il reliquiario è conservato in una capanna fuori del villaggio e solo gli iniziati possono accedervi per offerte, sacrifici o altri riti, per esempio una danza con il reliquiario in mano. Esso serve al culto dei morti che, se ricordati e venerati, passano ad essere antenati, protettori dei vivi, cui far del bene o del male a seconda del loro comportamento rispetto ai morti. « « Quasi un loculo, quindi, come nei nostri cimiteri. Come quegli antenati anch’io rivenendo potrei farti del bene o del male ? » « « Sembra di sì. » Mia moglie mi chiamò a cena in cucina. Feci accomodare mio padre di fronte a me, mia moglie restando al fianco sinistro. L’avevo indotta a farmi un piatto di spaghetti al sugo di pomodoro perché mi ero portato dall’ultimo viaggio in Italia del cacioricotta, che ora grattuggiai direttamente sulla pasta. « Ricordi il cacioricotta ? «, chiesi a mio padre. « Se lo ricordo ! Lo faceva anche zio Luigi, ma lui era avaro e ce ne dava solo un poco in rare occasioni. » « Perché ridi e parli da solo ? «, chiese agretta mia moglie. « Parlo con me stesso, ch’è il modo migliore di parlare. » « Stai impazzendo. » Cosa potevo risponderle ? Che questa volta parlavo con mio padre ?

Ecco il testo su cui volevo rivenire e che parlava dell’incontro con una donna. Questi incontri li fissavo in una poesia e così me ne liberavo. Altrettanto non avrei potuto e voluto fare con quello di mio padre. Non ti meravigliar se ti saluta con un cenno del capo sorridendo. La conosci o ti conosce ? Non conta perché ti ha letto tutto in un secondo d’invito e di rigetto, in sufficienza di sapersi ancora desiderabile. Bene, bene. L’incontro risaliva al giorno prima. Nel frattempo mi martellava in testa un’aria del Trovatore che canticchiavo e ricanticchiavo cercando senza esito di ricordarne le parole esatte. Avevo tirato fuori un minimo di tre varianti senza venirne a capo. Volendo rendere un po’ più ricco il mio testo con l’aggiunta del motivo dell’aria, mi trovai confrontato con l’ulteriore difficoltà di trasporre gli ottonari dell’opera di Verdi nei miei endecasillabi .Dopo molti tentativi, ci riuscii, rendendo così omogeneo il tutto. Poi lei canticchia : Se l’amore è un dardo, per mortevita basta un solo sguardo. -Mortevita o detto hai Per morte o vita ?-Caro sordo, son multiple le scelte : dipende da chi gioca la partita.

Feci la scarpetta, non lasciando nel piatto neanche una briciola di sugo e cacioricotta. Poi dopo qualche giro per casa me ne andai a letto. « Come le galline «, bofonchiava mia moglie. « No, come

Poteva andare, tanto più ch’ero riuscito a inserire nell’ultima battuta il dipende ch’era il ritornello delle risposte evasive di quella donna. Restava il titolo : Desiderabile o Talor basta un solo sguardo ? Rimandando la scelta a un altro momento, mi avvicinai a mio padre,

Jean Marais, che alle nove era già a letto. » « Chi era ? « , chiese mio padre che era salito con me in camera . « Un attore francese

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omosessuale che ci teneva a restar giovane e bello. » « Più delle donne ? « « Più delle donne. »

steso nella bara e vestito di bianco come una sposina, perché morta innocente. Di mia nonna niente, solo una sbiadita figura di vecchietta vestita di nero, che ci voleva tanto bene, accogliendoci a turno per un mese, credo, nella casa dove abitava col figlio, zio Luigi. Quel soggiorno, che doveva servire ad alleviare il peso della famiglia a mia madre, era per noi una specie di vacanza, mangiando meglio che a casa e accuditi con più amore, lavati, puliti e vestiti anche meglio. Mia madre si lamentava con la nonna dell’inferno quotidiano in cui la faceva vivere mio padre, da cui bisognava tenerci il più lontano possibile. La generosa vecchietta aveva perfino creato una specie di fondo di salvataggio per i nipotini, lasciandoci mille lire a testa nel testamento. Come e fin quando quel notevole lascito fosse amministrato dallo zio dopo la morte di nonna Caterina non so. In me la morte della nonna – dovevo avere cinque o sei anni- fu accompagnata da una sorta di gioia. La scomparsa non provocò un grande dolore, i riti del consuolo invece, che per tre giorni di seguito e poi di nuovo il settimo giorno inducevano parenti e conoscenti stretti a portare da mangiare alla famiglia del defunto e ognuno cercava in tale occasione di ben figurare con piatti un po’ fuori dell’ordinario, tra cui gli immancabili tagliolini in brodo di gallina, che dovevano grosso modo equivalere a quelli portati loro dalla nostra famiglia in circostanze analoghe ( e si controllava con esattezza da chi e cosa si fosse portata ) erano motivo per me di particolare festa. La nonna se ne era andata e per me restava per alcuni giorni quel ben di dio di cui approfittare come di rara occasione di prelibatezze culinarie in abbondanza. Il morto disteso nella bara ci faceva paura ? Non credo. Una settantina di anni dopo, durante un viaggio nelle Puglie mi capitò di entrare in una chiesetta con tanto di guida in mano alla ricerca di monumenti artistici. Il passaggio dalla luce alla penombra non mi fece capire all’inizio in che stato fosse la chiesa. Solo qualche

I morti non mangiano, i morti non dormono. Che sciocchezze !, pensai, proprio essi che dormono per sempre. Ma mio padre ? « Stenditi sul letto a fianco, se vuoi ; mia moglie dorme nell’altra camera. » Non so cosa facesse lui; io dormii male e verso le tre del mattino ero già sveglio. Continuai, però, a stare a letto e, come spesso , in una specie di dormiveglia passai in rassegna i i miei morti, quelli di cui tentavo ostinatamente di ricordare qualcosa. Mi ero abituato a quell’esercizio di memoria, come mi ero abituato all’esercizio di sognare. Sognavo perché volevo sognare, ricordavo perché volevo ricordare o così pretendevo, giacché sia i sogni che i ricordi conducevano una loro vita autonoma, di cui controllavo solo una minima parte. Certo, la vecchiava mi aiutava facendomi vivere quasi in uno stato onirico, in cui sprofondavo dolcemente, attardandomi a passare in rivista, per esempio, tutte le donne amate o possedute, che ripossedevo richiamando questo particolare o quello, che rielaboravo poi nel brevissimo sogno successivo, da cui mi svegliavo ricordando esattamente le ultime sequenze. Era una seconda, più innocente o comunque meno pericolosa vita amorosa, che coinvolgeva me soltanto con i miei fantasmi, un po’ come quando passavo davanti a un cespo di rose carnicine e profumatissime, di cui inalavo la fragranza, che avevo collegato col sesso di una donna amata che me lo rifiutava. Cosa ricordavo dei tanti morti che avevo visti da bambino e da ragazzo ? Quasi niente. Tentavo, quindi, facendomi sfilare alcuni nella memoria, di verificare se di qualcuno vedessi almeno il volto. Niente da fare. Era, più che una immagine confusa, una specie di sensazione generale di atmosfera funeraria. Ma almeno dei più cari, mia sorella Flavia o mia nonna Caterina, per esempio, perché non rivenivano i volti ? Del resto mi era anche difficile ricordarle da vive. Della sorellina mi era rimasto il vago ricordo del corpicino 7


momento dopo vidi un gruppetto di persone inginocchiate e al centro su uno sgabello un feretro e dentro nero e bianco pallido un cadavere, presentissimo nel gelo della morte. Brividi mi assalirono e uscii in fretta accompagnato dagli sguardi poco benevoli dei luttuanti. Dunque, i volti dei morti della mia infanzia sono scomparsi, restano però le mani incrociate sul petto con un rosario e i piedi, o meglio, le scarpe lucide, cioè le suole nuovedi esse. Al morto si mettevano il vestito buono -quasi sempre nero- e le scarpe nuove, confezionate in fretta dal calzolaio, che non si dava tanta pena- i morti non camminano- per cui spesso infilarle ai piedi del defunto non era facile, troppo strette e i piedi rigidi ! Non mancava chi si accontentava anche di suole di cartone : si era poveri e i topi, cuoio o cartone che fosse, se le sarebbero mangiate lo stesso. Mia sorella era morta di dissenteria, come poi sarebbe morto mio padre. Le condizioni igieniche del paese non erano ideali e specie d’estate le malattie, in particolare quelle infettive, facevano il giro del paese. Il medico non è che fosse un gran che, se la cavava come poteva e, se si restava in vita, era dovuto più al caso che ai suoi interventi. Ricordo che, quando mia madre protestò rinfacciandogli di aver lasciato morire la figlia in una diecina di giorni, rispose : « Che vuoi ? Anche mia figlia è morta di dissenteria. » La causa di questa e di altre malattie era probabilmente l’acqua della fontana, situata sul lato est del paese a poche centinaia di metri in basso e sovrastata da alcune case provviste di latrine, come il castello e quelle del maestro Di Pietro e dei De Sanctis. Le feci ed i liquami erano scaricati nel terreno sottostante in forte pendenza verso la fontana, nelle cui acque prima o poi andavano a finire. Ci fu chi qualche volta fece chiudere le cannelle della fontana infettasenza risalire però alle cause dell’infezione-, ma la gente che aveva

bisogno di acqua da bere andava allora ad attingerla alla fontana di sotto, che a qualche centinaio di metri dalla prima era rifornita dalla stessa falda acquifera. Qualche morte fece più scalpore delle altre, come quella del pastorello di Montecastello che per disattenzione o altro si era legata a nodo scorsoio attorno alla vita la fune con cui teneva al pascolo la vacca, che imbestialita forse da qualche tafano, a un certo punto prese a fuggire, trascinandosi dietro il ragazzo. Quel peso molesto di cui non riusciva a disfarsi fece sì ch’essa continuasse per un chilometro a portarselo dietro, saltellando il corpo martoriato su pietre e fossi. Cosa ne rimanesse quando infine i contadini allarmati riuscirono a fermare la bestia, lo si può immaginare. Portarono il morto in paese su due pali avvolto in un lenzuolo e il cadavere fu esposto in quel sudario insanguinato per ricevere le condoglianze e aspettando che arrivasse da Sant’Angelo il medico legale per gli accertamenti necessari. Questo chirurgo interveniva sempre in casi di morte accidentale. Una volta una ragazza di campagna fu trovata in fondo a un pozzo. Suicidio od omicidio ? Inoltre sembrava che fosse incinta. Quale allora il movente ? Si doveva procedere per accertarlo all’autopsia, che era praticata su un banco di marmo in un locale a destra all’ingresso del cimitero. Del chirurgo si mormorava, non so con quale fondamento, che manipolasse i risultati dell’autopsia in modo da non coinvolgere eventuali colpevoli. Tanto chi era morto era morto e non risuscitava ; inutile quindi rovinare col carcere qualche responsabile ancora in vita. L’ingresso alla saletta operatoria non era strettamente controllato, la curiosità morbosa era enorme e non era escluso che qualcuno penetrasse nel locale per veder quel cadavere di donna nuda e sventrata da museo mediceo delle cere. Fui io fra questi o l’immaginazione infantile era così eccitata da figurarsi quel che non era avvenuto ?

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Di altre morti che fecero un certo scalpore ricordo quelle di un giovane seminarista e di sua sorella : dell’uno resta nella memoria lo sciabordare della sottana, dell’altra il dolce viso di bella ragazza, non pallido, ma roseo e acceso come da un fuoco interno, che probabilmente era quello della febbre. Ambedue morirono a distanza di un anno o due di tisi, terribile malattia infettiva, di cui già il nome destava spavento perché incurabile a quell’epoca, motivo per cui fummo tenuti lontano da quella famiglia ed anche dai funerali, benché avessimo tra i compagni che più frequentavamo altri due fratelli loro più piccoli. Mi svegliai che tentavo ancora di far scorrere i grani di quel rosario funebre. Guardai il letto accanto al mio per veder cosa facesse mio padre. Non c’era. Scostai le tende e lo vidi che passeggiava in giardino. Mi vestii in fretta e furia e lo raggiunsi prima di far colazione. « Ti sei svegliato presto. » « Ma io sono morto e i morti non dormono. L’hai dimenticato ? Nel vederti così occupato a rivisitare lutti e funerali, sono stato preso prima da un’inquetudine acuta, poi da spavento e rabbia. » « Contro chi ? » « Contro me stesso. » « E perché ? « « Ricordi nonno Daniele, i suoi ultimi anni e la sua morte ? « « Degli ultimi anni ho qualche ricordo preciso, della morte niente, forse solo la gioia mostruosa dei buoni pasti del consuolo. » « In me, invece, c’è solo rabbia e rimorso per le condizioni miserande in cui passò gli ultimi anni, delle quali io fui, se non il solo, certo il colpevole principale. » E qui ci narrammo a vicenda dettagli di quel tempo, completando i miei ricordi con i suoi e forse i suoi con i miei. Nonno Daniele fu senza dubbio un gran lavoratore, per tutta la vita. Anche negli ultimi anni andava a lavorare nelle sue vigne, riportando fasci d’erba e foglie per i conigli che avevamo nella stalla. A mio padre aveva lasciato della casa dove abitavamo, e che più tardi fu ingrandita, il vano della cucina e due camere, quella bella al secondo piano col balcone, da cui si godeva lo stupendo panorama delle

colline accavallantisi l’una sull’altra e digradanti verso i monti di Nusco e Lioni verso Teora, dominante da un lato la valle dell’Ofanto come faceva Morra dal lato opposto, e quella un po’ buia sul di dietro, che dava sull’orto di mastro Giovanni muratore, in cui dormivamo due di noi- il terzo aveva il lettino accanto al grande letto matrimoniale dei genitori-. L’altra metà meno bella della casa- pianterreno con cucina e stanza sulla via Roma, dove lavoravano i cugini sarti, e primo piano con due camere che corrispondevano alle nostre due di sopra, ma con poca o nessuna luce, specie in quella di dietro del tutto interrata, che prendeva un po’di chiarore e d’aria da una specie di feritoia, motivo di continui litigi con la moglie del muratore, per la quale essa era abusiva- era stata data all’altro figlio, Celestino. A una cinquantina di metri a monte della casa noi avevamo in una strettola la stalla, due androni solo in parte ultimati, dove c’erano al pianterreno i tini, le botti del vino e gli animali, maiali , conigli-e polli. Al primo piano dove, appoggiando e levando ogni volta una scala, si saliva attraverso un buco che avrebbe dovuto avere una portafinestra mai eseguita c’erano il deposito della paglia, necessaria soprattutto come strame per i maiali, e le fascine di ginestre e tralci di vite per il camino e la cucina. In basso della casa a una trentina di metri c’era l’orto, che serviva, oltre che per il suo uso naturale, anche da letamaio e cacaturu, grande risorsa a portata di mano, dove si andava a fare i nostri bisogni, mentre quasi tutti in paese dovevano correre di qua e di là in due o tre posti determinati, anche se non ufficialmente, a tale scopo, esponendosi a strani e non sempre piacevoli incontri con concorrenti. A Dietro Corte, sul lato est del paese, avevamo ancora un edificio isolato rimasto a metà, che doveva essere una terza casa e poi lo fu quando mia sorella si sposò. Per allora serviva un po’ a tutto, deposito di vecchi arnesi, occasionale frantoio per l’uva, eccetera. 9


Verso il cimitero avevamo ancora dei terreni, una parte sola sfruttabile per l’agricoltura – patate, ceci, lenticchie e cicerchieperché il resto, ripidissimo sul vallone di Sant’Angelo era tutto a ginestre, che ogni anno tagliavamo come primo e più rapido materiale igneo. Per la legna legna avevamo una macchia nella discesa verso l’Isca , dove si tagliavano quercioli, castagni e altri alberi, ma solo dopo tre o quattro anni per lasciare alla vegetazione il tempo di ricrescere. Quando c’era il taglio anche noi bambini ci avventuravamo in quell’intrico di tronchi, liane e cespugli, che nella memoria sono rimasti come la selva selvaggia, aspra e forte. Il terreno più redditizio era la vigna a Santa Costanza, notevole serie di terrazze digradanti verso Santa Lucia, esposta tutta a mezzogiorno, su terreno asciutto e leggermente petroso, che ci dava in media più di trenta ettolitri di vino l’anno, bianco, moscato e soprattutto rosso. Quel vino era in buona parte per l’uso quotidiano dei nostri pasti, troneggiando in una o due caraffe sul tavolo, perché pasteggiando da noi si beveva vino e mai acqua. Mia madre diceva infatti, se per disgrazia qualche volta non si era bevuto vino, « Oggi mi sembra di non aver mangiato. » Di questa vigna, coltivata direttamente dalla famiglia senza mezzadri e assoldando per i lavori più pesanti qualche operaio, i ricordi sono tanti che conto di tornarci su. Tutto questo-ed altri terreni ancora verso Cervino- ci era stato dato dal nonno Daniele, che aveva inoltre lasciato quasi altrettanto all’altra nuora, madre dei figli di Celestino, morto nella guerra del 1915-18. Altri suoi figli erano emigrati negli Stati Uniti e non se ne parlava. Ne avremmo parlato solo in seguito quando la figlia di uno di essi, Maria Felicita, ci avrebbe spedito un pacco di vestiti dopo l’altro nel periodo di dura miseria successivo alla seconda guerra mondiale. Alla nuora, zia Vincenzina, che si lamentava della quota meno importante toccata loro, mia madre litigando ribatteva che la vigna e

i terreni circostanti situati sul falsopiano della discesa verso l’Isca di fronte a Montecastello e dati loro dal nonno valevano molto di più dei terreni nostri. Litigavano, dunque, le nuore attorno al povero vecchio, che per loro si era spogliato di tutto quel che possedeva. Nonno Daniele era cieco da un occhio, che gli era stato cavato alla buona, lasciandogli nel volto deturpato una caverna rossa, da cui colava un liquido di non so che specie e speriamo fossero lacrime. Probabilmente un incidente sul lavoro in quel suo incessante battere con la zappa, potare con la roncola, spaccar legna con l’accetta, arrampicarsi sugli alberi, scendere nei dirupi. Chiesi a mio padre se potesse precisarmi che occhio fosse. Non lo sapeva. « Come , non lo sai ? « « L’avrò dimenticato, come ho dimenticato tante cose di mio padre. Ma peggio di tutto è averlo dimenticato e non difeso quando era vivo. » Io cercavo intanto d’ isolare un solo fotogramma, ma preciso, del nonno. Sì, eccolo : sedeva sul gradino più basso dei due che davano accesso alla casa di mastro Giovanni. Era poveramente vestito e passava di tanto in tanto la mano tra quei cenci, sulla testa e sul collo, grattandosi e schiacciando poi qualcosa tra le unghie. Si spidocchiava, sì, si spidocchiava, fissandosi le mani con un occhio solo, quello sano. La cavità di quello strappato restava immota, spalancata. Era a sinistra di me che guardavo curioso, non so se con pietà o ribrezzo. Dunque, gli era stato cavato l’occhio destro. Lo spettacolo poco gradevole di quel guercio deve aver contribuito a peggiorar la fama di cui godeva, a prescindere dall’invidia e maldicenza solite nei paesini in cui tutti si conoscevano e da buoni vicini si odiavano o disprezzavano. Questa odiosa cattiveria aveva resistito per decenni e decenni se quel mio benefattore, parlando una volta in Calabria della nostra casa a Dietro Corte, venne fuori a dire : « Quel rudere fu costruito da tuo nonno per meglio nascondere le cose che andava rubando nelle campagne altrui. » Non replicai, ma quella malignità, sparata così a bruciapelo, la sentii come un getto di 10


olio bollente sul mio viso e giurai che un giorno, non so come- e forse è questo che sto ora facendo- mi sarei vendicato dell’ingiuria fatta alla memoria del nonno ladro. « Lascia perdere, disse mio padre. Prima di chiamar disonesto o ladro un altro, bisognerebbe fare un buon esame di coscienza. « Che voleva dire ? Prevedeva il futuro ? Ci sono morti che, oltre a ricordare il passato, prevedono anche il futuro ? La risposta a quell’offesa io l’avevo già pronta. Anni dopo in occasione di un processo tra lo zio benefattore, zio Luigi e un altro zio- in paese non si faceva che litigare, aizzati anche da legulei che da tali litigi traevano il meglio del loro sostentamento, e si litigava tanto di più e con più acredine tra parenti e vicini- per un diritto di passaggio attraverso l’orto del benefattore da parte di zio Luigi, che aveva comprato la casa dell’altro zio, adiacente a casa ed orto del benefattore, chiesi a costui che stimavo essere al di sopra di simili litigi : « Ma dimmi, questo diritto di passaggio spetta o non spetta a zio Luigi ? « ¸ imperterrito mi rispose : « Legalmente gli spetta, ma io non glielo voglio dare. « Altro che nonno Daniele e i suoi presunti latrocini ! Cominciavo ad avvertire più dolorosamente i pungoli della memoria che iniziava ora davvero a incrudelire. Dovevo pensare e dir male anche del mio zio benefattore, del quale avrei dovuto, invece, ricordare di preferenza i lati generosi e in parte intelligenti e signorili ? Avevo, quindi, bisogno di qualche momento di refrigerio. Dissi a mio padre di tornare pure in giardino a far quattro passi, non a fumare una sigaretta, come faceva mia moglie. « Magari potessi ! », mi rispose. Presi forbici e colla, poggiai sulle ginocchia una specie di leggio di plastica dura e cominciai a creare una seconda copertina per l’ultimo libro di poesie che volevo pubblicare. Per i miei libri, non trovando editore, curavo tutto io, scegliendo carta, caratteri e formato per la

messa in pagina. Per l’ultimo libro ero ora occupato a comporre le immagini della copertina. Sbirciando attraverso la portafinestra, nel vedermi occupato a sforbiciare ed incollare, mio padre rientrò. « Cosa stai facendo ? » « Preparo la copertina per un nuovo libro. » « Scrivi libri ? » « Sì, questo è il quindicesimo. » « Allora guadagni un sacco di soldi. » « Macché ! Per ogni libro ci rimetto del mio.» « E allora perché lo fai ? E’ un tuo vizio ? « « Si può dire anche così. » In casa avevamo, se ben ricordo, oltre ai libri scolastici, un solo libro con storie bibliche illustrate con personaggi delineati a disegno, probabile regalo di qualche campagna missionaria. Mia madre, che aveva frequentato solo le due prime classi della scuola elementare a Selvapiana, dove era vissuta da bambina e dove la famiglia aveva notevoli proprietà, riusciva a malapena a scribacchiare la sua firma e a sillabare faticosamente qualche frase d’obbligo. Nel paese c’erano tutte e cinque le classi, ma nelle frazioni solo qualcuna o niente del tutto. Quando si trovava un insegnante coraggioso disposto a far le prime prove lontano da Dio e dagli uomini, costui , o in genere costei, doveva affrontare le condizioni di una vita di un missionario in terre del terzo o quarto mondo. Mio padre sapeva leggere e scrivere, ma nello stato in cui si era ridotto la lettura non era certo il suo spasso preferito. Veder, quindi, la mia casa piena di libri dalla cantina alla soffitta e sentire che i libri addirittura li scrivevo dovette scombussolarlo ben bene. Durante la composizione dei testi e la preparazione del futuro libro io ero gelosissimo ed evitavo che qualcuno , moglie o figli, mettesse il naso in quel che stavo facendo. Una volta pubblicato, il libro poteva andare nelle mani di tutti, famiglia compresa. Chiesi perciò a mio padre che mi lasciasse lavorare, tornando in giardino. Per l’ultimo libro di poesie, composto di getto nel giro di una cinquantina di giorni, avevo scelto come titolo « A tu per tu. » Il tu per tu era il mare e la donna, io e il mare o la donna, il maredonna, la 11


donnamare. Come presentare questi concetti già sulla copertina ? Da un libro di fotografi russi sul nudo avevo scelto un’immagine , a mio parere bene azzeccata col mio soggetto : combinando due immagini di onde che invadevano la spiaggia, il fotografo era riuscito a suggerire una vulva schiumante al cui centro aveva collocato un nudo femminile. Per me si trattava ora di sovrapporre a quel nudo di spalle la testa a colori della Venere di Urbino di Tiziano, alla quale somigliava un po’ la donna il cui fantasma occupava questo e altri due libri precedenti. La prima versione di copertina presentava in orizzontale l’immagine marinovulvare con ingresso al centro in basso, la seconda la stessa immagine, però verticale , posizione di coito in piedi con ingresso alla vulva dal lato sinistro. Ciò mi permetteva anche di variare il solito schema orizzontale di copertina, mettendo ora il nome dell’autore in verticale. Quali caratteri e di che grandezza ? Risolti tutti questi problemi, lasciavo al tipografo la libertà di accettarli o propormi qualche modifica. Infilai i due progetti in una busta e raggiunsi mio padre in giardino. Ci sedemmo l’uno a fianco dell’altro restando immersi nel verde intenso che circondava la casa da ogni lato, creando un buen retiro fra un muro altissimo di tuie, grandi cespugli fioriti, un giovane ippocastano che in pochi anni era cresciuto fino a raggiungere la notevole altezza della casa, spontaneo, dicevo io, no piantato piccolissimo da mia figlia Flavia, sostenevano costei e mia moglie. Sul prato una o due talpe avevano qua e là estromesso monticoli di terra umida, che risaltava nericcia sul verde dell’erba. « Le talpe », disse mio padre. « Eh ! sì, le talpe : son quattro anni che son lì e non riusciamo a sbarazzarcene « , soggiunsi. « Scavano, scavano per nutrirsi « , disse lui. « Mettendo a nudo quel che si suppone ci sia, ma non si vede. Un po’ come i nostri ricordi di cui abbiamo bisogno per vivere e sopravvivere «, precisai. « Ma sono io che ora ne ho bisogno e riesco a nutrirmene solo se tu ricordando te ne nutri. »,

concluse lui. Ma chi era che scavava, lui, io o tutti e due, io in lui e lui in me ? Avevo lasciato nonno Daniele sullo scalino della casa di mastro Giovanni. Perché sedeva lì e non su uno degli scalini della nostra casa di sopra ? La casa del mastro era all’angolo di via Roma con la discesa della Rampa al corso, dove era la nostra, rivolta al nord da quel lato. L’altra, invece, era rivolta ad ovest, prendeva più sole, specie nel pomeriggio e al tramonto, e faceva fronte al pezzo di Corso che lì scendeva ripido lungo casa Gargani. Si potevano così vedere già da lontano gli eventuali pedoni e attaccare più facilmente bottone per un po’ di conversazione e di compagnia, quando, giunti all’altezza di quegli scalini, non potevano evitare chi su di essi sedeva. Perché nonno Daniele di un po’ di compagnia aveva proprio bisogno. Era successo che, date le strettezze economiche in cui vivevamo, anche una sola bocca in più era per la famiglia un peso insopportabile. Si venne così alla guerra delle nuore, cioè mia madre e zia Vincenzina. Il marito, Celestino, era caduto in guerra, lasciando moglie e cinque figli. La vedova era riuscita ad avere la concessione della più importante delle due rivendite di sale e tabacchi del paese, situata alla fine della parte pianeggiante del Corso, che da lì cominciava a scendere ripidamente verso piazza S. Rocco. Il governo premiava con piccoli favori chi si era sacrificato per la patria e questo fin dall’indipendenza. Compare Peppe De Rogatis, per essersi portato volontario alla prima guerra contro l’Abissinia, partecipando anche nel 1896 alla battaglia di Adua -ed era vivacissima la descrizione che il vecchio faceva a noi bambini di quelle orde di guerrieri nerissimi che salivano incessanti all’assalto delle nostre improvvisate trincee, dove solo qualche mitragliatrice salvava i poveri diavoli ( i nostri coraggiosi ! ) dalle scimitarre ; lui che « aveva fatto il passo avanti « partendo per l’Africa e non era scappato dalla trincea sparando un colpo dopo l’altro col suo fucile 12


modello novantuno ( spara bene e non fa fumo ), ma che paura ! , si era, però, raccomandato a S. Rocco e pensato forte alla sua ragazza, poi moglie, Maria Luigia, buon’anima- aveva al ritorno ottenuto come ricompensa il posto di casellante sulla ferrovia AvellinoRocchetta, per la costruzione della quale aveva prima lavorato anche da spaccapietre. Dopo tanti meriti e sudori col posticino di casellante aveva messo su e onoratamente allevato la famiglia e ora poteva, godendo di una pensioncina, menare una vecchiaia serena, illuminata da quei ricordi esotici di Menelik e compagni. Altri non furono così fortunati e ricordo sempre Nicola lu pacciu, che aveva perso nella prima guerra mondiale mezza placca frontale e da anni non riusciva ad avere , come tanti altri meno malridotti di lui, la pensione d’invalido e doveva arrabbattarsi per vivere, facendo tra l’altro il sagrestano e incappando in qualche tentazione di furto. Lo ricordavo e vedevo passare una mattina gelida e con la neve alta per strada incatenato come una bestia ad altri tre o quattro complici tra i carabinieri che lo trasferivano dalla caserma del paese al carcere di Sant’Angelo : era stato accusato di aver rubato l’oro della statua di S. Gerardo nella chiesa madre. I ladri erano passati da un finestrone tra chiesa e campanile rompendo un vetro e lasciando feriti tracce di sangue e impronte di scarpe nella neve, il che facilitò il lavoro investigativo. Altri furono più fortunati o più furbi. Così si mormorava che un noto falegname avesse rubato il tesoro di San Rocco, un chilo d’oro fra spille, anelli, collane, borchie eccetera, attaccate come ex voto al vestito del santo. Poteva essere stato solo luii che aveva facile accesso alla chiesa per eventuali lavori. Si supponeva che il bottino fosse stato interrato da qualche parte, ma vari sopralluoghi dei carabinieri non avevano avuto alcun esito. Il mastro era stato abbastanza furbo da far passare parecchio tempo tra furto e smercio della refurtiva. Con il suo sguardo un po’ losco e spesso abbassato a terra solo lui poteva aver trovato un ricettatore che gli desse di tanto in tanto parte della somma pattuita. Di costui,

però, non si aveva nessuna traccia e neanche una precisa supposizione. Torniamo alla guerra delle nuore. Mia madre pretese, portando la lite in tribunale, che la famiglia di zia Vincenzina era in migliori condizioni economiche della nostra, aveva ricevuto dal nonno altrettanta proprietà , era quindi obbligata a provvedere anch’essa al mantenimento del suocero. I rapporti fra le due nuore non erano mai stati cordiali, peggiorati anche dal fatto che la zia era di un paese vicino e quindi considerata una poco di buono. Alla prima occasione si narrava degli oriundi di altri paesi qualche episodio sgradevole ; la stessa cosa si faceva naturalmente dall’altra parte. Così un forestiero aveva in tante occasioni approfittato della generosa ospitalità di un morrese, ma non l’aveva mai ricambiata. Al prossimo incontro, quando costui si presentò contando sul solito lauto pranzo, il morrese prese un setaccio, invitò il forestiero a sedersi di fronte e a prendere l’utensile dall’altro lato, quindi, come se stesse setacciando, cantò : « Seta, seta, setaccio, come mi fai così ti faccio « e mise l’importuno alla porta. La legge aveva parlato, perciò nonno Daniele passava un mese in casa nostra e un mese in casa di zia Vincenzina. Che mia madre avesse ragione e non solo giuridicamente lo si vide subito : il nonno dalla zia fu vestito e nutrito meglio e, quando come al solito si sedette sul gradino di mastro Giovanni, ai miei occhi apparve come un vecchio quasi di famiglia perbene, sbarbato, lavato e spidocchiato.I soggiorni alternativi non durarono molto perché il nonno morì nel 1936, forse dopo un anno o due. In casa di chi ? Credo della zia giacché del funerale non ricordo niente nel quadro di casa nostra e anche questa volta ci fu da parte mia il solito rallegramento per i buoni pranzetti del consuolo. « Ma perché le vicende degli ultimi anni del nonno ti turbano tanto ? « , chiesi a mio padre, che mi spiegò che lui avrebbe dovuto 13


opporsi, prima al litigio fra le nuore, e poi alla sentenza del tribunale. Ma non contava niente, date le sue condizioni, rimproverato e insultato da mia madre, disprezzato e tenuto alla larga dalla zia, come dal resto dei parenti tutti. Vedeva forse nel destino del nonno quel che poteva succedere anche a lui da vecchio ? Non credo. Pur riconoscendosi in colpa per quel che gli capitava, la sua impotenza a decidere ed agire lo feriva non tanto per quel che riguardava se stesso, quanto per quel che capitava al nonno, dal quale, pur rimproverato come dagli altri, non poteva difendersi, non dico ritorcendo ed accusando a sua volta, ma esaminando se stesso per vedere se potesse trovare un filo di scusante e dati soprattutto i sacrifici fatti dal nonno per lui e noi tutti. Nei pochi barlumi che ancora gli rimanevano per un’autoanalisi quell’ingiustizia gli appariva troppo grande per sopportarla e la sua impotenza troppo evidente per non disprezzare se stesso. Disprezzava se stesso talvolta mio padre ? Volevo chiederglielo, ma non osai, almeno in questo momento. Avevo bisogno di un po’ di refrigerio anch’io e scantonai, lasciando lì nonno Daniele per rivolgermi come a gradita distrazione ad altri morti. Ci erano stati in paese due casi di decessi fuori dall’ordinario, soprattutto per i relativi funerali. Uno fu quello di don Emidio, un mio lontano zio. Don Emidio era un personaggio fuori del comune, fisicamente perché il colosso si era talmente sviluppato in altezza e larghezza che riusciva a passare da una stanza all’altra solo aprendo i due battenti delle porte. Aveva anche una voce tonitruante. Quando entravo nell’androne di casa sua dopo aver battuto con il picchiotto metallico sul portone che lui apriva dalla cucina al primo piano tirando una funicella, bisognava aspettare vari minuti perché il signorone potesse compiere le varie manovre di apertura delle porte e, restando in cima alle scale senza scendere, dava libero corso al vocione spaventoso per informarsi chi fossi e cosa volessi. Questa specie di Nembrot o

Capaneo era circondato da un’aura di favolosa ammirazione per le sue mangiate e bevute. Lo intravedo ancora nella cantina a pianterreno uscire con un boccale di almeno cinque litri di vino e si narrava che potesse mangiare fino a sessantaquattro paccarotti, grossi ravioli ripieni di ricotta. Sfidando la capacità non solo del suo stomaco, ma anche le forze superne, aveva nella sua masseria di Orcomone un venerdì santo mangiato tra l’altro un intero capretto e per punizione di aver mangiato carne di venerdì e che venerdì ! il padreterno gli aveva scagliato un fulmine , che aveva danneggiato il tetto dell’edificio, ma non il divoratore. Aveva preso moglie da quasi bandito : alle resistenze della famiglia di costei che non lo vedeva di buon occhio, aveva caricato la ragazza sul cavallo e via galoppando verso quel suo possedimento, dove consumò il matrimonio, mettendo tutti di fronte al fatto compiuto. Ingravidò poderosamente la donna una prima e una seconda volta, ma la poveretta, dando alla luce il secondo figlio, morì di parto. Il medico che era riuscito a salvare il bambino, ma non la madre dovette scappare dal paese e per un certo tempo rifugiarsi altrove per sfuggire alle minacce di morte del vedovo furibondo. Qualche tempo dopo, affidati i figli a una sua sorella nubile e a un fratello sacerdote e professore – più il secondo che il primo-, restando fedele alla memoria della moglie non volle risposarsi e prese in casa una giovane del vicinato, Clementina, in presunte funzioni di domestica, in realtà di concubina, con cui visse fino alla fine, che fu un po’ prematura, ma non tanto se si considera il tenore di vita di quel grande mangiatore e bevitore. L’arciprete del paese, cui il concubinato era noto e che aveva fatto qualche debole tentativo perché cessasse, esponendosi alle ire dell’interessato fin sul letto di morte, rifiutò al defunto i funerali religiosi nonostante le insistenze della famiglia e specie del fratello preteprofessore.

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Lo scandalo in paese fu enorme e ricordo ancora il lungo corteo funebre, cui anch’io partecipai, che si snodò attraverso il paese, cambiando spesso portatori per quell’enorme peso del cadavere, e sempre in silenzio, senza le solite preghiere prima, durante e dopo, raggiunse per la via polverosa il cimitero, dove fu messo nella fossa senza alcuna benedizione e senza che sul tumulo fosse eretta una croce. Il rigore dell’arciprete non dannò, né salvò il defunto, attizzò, invece, nei figli di don Emidio un odio viscerale contro la chiesa e la religione, il che era anche un modo di difendere gli interessi di Dio. L’altro funerale eccezionale fu quello della principessa. Il paese aveva da tempo immemorabile una famiglia principesca, di cui ai miei tempi era rimasta solo una rappresentante femminile. Per conservare il titolo e garantire la discendenza costei aveva sposato un aitante colonnello di estrazione borghese, cui fu conferito il titolo di principe consorte, che sarebbe passato poi ai figli, per i quali la casata aveva in serbo anche altri titoli : dei due figli l’uno fu principe e l’altro duca. Di malferma salute la nobildonna non si era vista molto al castello e morì giovane a Napoli. Di lei ricordo solo i funerali. Tutto il paese, me compreso, aspettava l’arrivo del feretro , che giunse su un carro funebre, di relativa pomposità e tutto polveroso. Le strade di quell’epoca, specie in provincia, non erano asfaltate, le auto dovevano affrontare i sassi e la polvere di un percorso accidentato, che specie nell’ultimo tratto da Guardia a Morra era tutto curve e fosse, pozzanghere con pioggia e neve e buche profonde con tempo asciutto, il che metteva a dura prova non solo le sospensioni e le gomme, a quell’epoca senza camera d’aria, ma anche le grandi ruote cerchiate di ferro dei traìni e carrozze. La salma fu trasferita a spalle dalla piazza del municipio alla chiesa madre. Benché questa e il sovrastante castello si potessero raggiungere anche in auto- e il principe destava lo stupore di noi ragazzi quando strombettando affrontava quelle viuzze con la sua

decappottabile ( uno dei primi modelli di auto che arrivarono in paese, cui correvamo dietro aggrappandoci alla ruota di scorta, lasciandoci poi cadere quando la velocità e la sopportazione del pilota raggiungevano un certo grado, con conseguenze ben prevedibili per i nostri ginocchi e gomiti ), si scelse il modo tradizionale perché considerato , oltre che più sicuro, anche più onorifico, una specie di ulteriore omaggio alla morta. Raggiunta la chiesa, si offrì al mio sguardo stupìto lo spettacolo della castellana, che per la nostra chiesa era quel che il tabernacolo del Bernini è per la basilica di S. Pietro, con la differenza che questo è stabile e la castellana mobile, vista e ammirata solo in grandi occasioni funerarie. Ideatore, costruttore e padrone della castellana era il falegname Alfonso Mariani, personaggio ammirato, invidiato e discusso. Se ne riconosceva l’indubbia capacità artigianale- a lui si ricorreva per lavori impegnativi, tra l’altro per bare di particolare pregio-, e se ne ammirava la bella e grande casa di pietra, col grande scalone al centro che la divideva in due parti, una per il figlio Giovanni, anche lui falegname, e una per il padre che si era risposato. Al pianterreno c’erano le due falegnamerie, al primo piano le grandi camere ariose e dietro il bel giardino che dava sui campi dei signori Donatelli. La castellana consisteva in quattro pilastri che reggevano agli angoli le travi del quadrato, da cui partivano altri travetti che salendo si congiungevano all’apice formando una specie di cupola. Questa ossatura lignea dorata reggeva ampie vele di tessuto nero a fiorami d’argento, con ricche e lunghe frange anch’esse d’argento. L’interno della cupola figurava un nero firmamento con tante fredde stelle dorate e argentate. Al centro della castellana c’era il catafalco, anch’esso ornato di panni a fiorami, su cui si posava la bara durante la messa cantata di requiem. Quattro grossi candelabri con ceri accesi e lampadine elettriche accortamente dissimulate sull’ossatura lignea illuminavano quasi festosamente il tutto. Il prete o i preti 15


giravano attorno al catafalco, cantando e incensando con turiboli la bara scoperchiata, in cui giaceva il morto. Alla fine della cerimonia mastro Alfonso e un aiutante intervenivano svelti svelti con i cacciavite per rimettere e sigillare il coperchio. I familiari del defunto trovavano posto in prima fila su sedie e inginocchiatoi vicino e di fronte al catafalco mentre il resto dei fedeli erano indietro un po’ distanti sui banchi, che spesso portavano una targhetta metallica con il nome del donatore. Il corteo funebre si riformava sulla piazzetta antistante la chiesa, le donne avanti con il prete ed i familiari dietro al feretro, canticchiando e recitando il rosario, gli uomini indietro, silenziosi e compunti e di tanto in tanto scambiando di sfuggita qualche chiacchiera che non sempre aveva a che fare col morto. Giunti al cimitero, che allora era a terrazze punteggiate di croci con una sola cappella funebre al centro, della famiglia Donatelli, una specie di spelonca con sul tetto mezzo crollato una colonna mozza- a volte ci scendevo a curiosare un po’ inorridendo-, la bara a doppia cassa, una di piombo all’interno per preservare intatto il cadavere il più a lungo possibile, l’altra di legno di noce all’esterno con maniglie di lucido ottone per far figura di ricchezza anche da morti, fu calata nella tomba. Questa era nell’angolo destro in fondo al cimitero, aveva una croce di marmo e quattro pilastri anche di marmo, collegati da catene di ottone brunito, che la isolavano formando una specie di aiuola, poi fiorita di tanto in tanto a cura del principe, il quale ora scosso da singhiozzi e lacrimante sembrava sincero nel suo cordoglio, mormorando « Sposa mia, sposa mia « e che alla fine, quando il camposantaro con aiuti ricoprì la fossa di terra, inginocchiandosi cadde e spezzò una delle catene. Questa era la tomba della principessa al cimitero. Dopo qualche anno il cadavere fu riesumato da Rocco lu camposantaru e, mentre le ossa dei comuni mortali, come nonno Daniele per esempio,

ripulite e disinfettate con vino –usanza antichissima di cui in seguito mi riferì anche mia suocera, che l’aveva osservata a Cretapassavano nel sotterraneo di un edificio detto ossario, situato nell’angolo sinistro in fondo al cimitero, ed erano lì ammucchiate in un loculo con o senza porticina da sole ( Ossa di… 1852-1936 ) o con altre ( Ossa dela famiglia x y ), quelle della principessa furono trasferite nella chiesa madre dove c’erano le tombe principesche. Di questo locale attraverso un cancello di ferro s’intravedeva dal piano della chiesa scendere un lungo corridoio che portava alla cripta. Era quello il solo resto dell’antico costume di seppellire i morti sotto i pavimenti o nelle mura delle chiese. Ed ogni volta che vi passavo accanto, sbirciando quel tunnel misterioso tremavo di paura e affrettavo il passo. Il rapporto di me bambino con i morti era per lo più sotto il segno dello spavento, ma anche della curiosità e talvolta dell’incoscienza. Così nel cimitero abbandonato adiacente alla chiesetta di Montecalvario, dove alla rinfusa erano state gettate, più che sepolte, le salme di molte persone durante un’epidemia, di tanto in tanto affioravano dalle erbacce ed ortiche tibie, peroni, costole ed altro che noi bambini disotterravamo del tutto giocandoci e senza collegare le ossa con qualcosa di vivente. Lu mammonu, invece, era lo spirito di uno o più morti, vaganti specie al buio e in determinati luoghi, una strettola per esempio vicino alla casa della nonna, dove si evitava di passare e, se proprio vi si era costretti, si attaccava una corsa precipitosa, guardando ogni tanto indietro per vedere se lo Spirito ci seguisse. Questa paura era stata inculcata sin dalla più tenera infanzia con minacce e racconti fiabeschi da parte degli adulti per le piccole malefatte da noi compiute. Quindi, anche per i cari defunti della famiglia, il ricordo era per quanto possibile subito rimosso e si preferiva non pensarci, assaliti, però, di tanto in tanto dal ritorno dei loro spiriti, specie a letto in una camera buia. Per lo stesso motivo

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non si voleva entrare da soli nelle stanze dove non ci fosse nessuno. Non ricordo di aver mai pensato a uno dei miei morti come a una presenza grata e consolatoria e solo molto più tardi, dopo un processo di riflessione in cui anche la sopravvivenza delle anime fu eliminata dalla coscienza, potei pensare ai miei cari con affetto, dicendomi spesso : « Sono i vivi che ti possono far del male, i defunti o non ci sono o, se ci sono, possono solo volerti bene. » Mariangela mi voleva certamente bene. Come mai affiorava ora quel nome ? « La memoria è femmina « , dissi a mio padre. « Cosa vuoi dire ? » Volevo dire che questa macchina segreta e imprevedibile resisteva alle mie sollecitazioni, faceva la preziosa, rispondeva solo e quando le garbava, me ne voleva perfino, incrudelendo perché la disturbavo immischiandomi nei fatti suoi. « La sai lunga sulle donne », accennò mio padre. La sapevo lunga ? Non so, ma ero vissuto abbastanza, molto più di lui, e sperimentavo, specie nella vecchiaia, questi lati misteriosi e negativi delle donne. Non avendo voglia, almeno per ora, di sbottonarmi di più a tal riguardo e temendo e non osando affrontare questo discorso con mio padreanche per quanto lo riguardava-, preferii andare in altra direzione anche se sullo stesso argomento. Parlargli di Lete , la fonte dell’oblio, e di Mnemosine, quella della memoria, era troppo complicato per lui, anche se era rivenuto e mi stava al fianco appunto per questo. La Dea della dimenticanza, sorella della Morte e del Sonno, e la Dea della memoria, che si era accoppiata per nove notti di seguito con Zeus partorendo dopo un anno le nove Muse, erano tema di predilezione delle mie riflessioni e della mia poesia, il che aveva fatto sì che mi figurassi portare già da vivo una foglia d’oro sull’alto dello sterno, la quale mi ammoniva di evitare la freschezza della sorgente dell’oblio e di bere, invece, a quella fredda che colava dal lago di Mnemosine : il Dio degli inferi mi sarebbe stato misericordioso, avrei anzi percorso la via sacra su cui avanzavano gloriosamente gli altri iniziati.

Gli chiesi: « Ricordi il disgelo ? » Dopo una quindicina di giorni in cui il paese era sotto la neve, questa cominciava lentamente a sciogliersi e lasciava apparire prima qualche frammento di realtà- il cocuzzolo di un camino, un sasso più sporgente della strada, uno sterpo più dissociato dal resto di una fascina- e poi mano a mano tutto il resto, che per due settimane aveva assunto aspetti irreali di un altro mondo, fantastico pur nella sua gelida concretezza. Ma il disgelo, che era lo stesso per mio padre e per me ragazzo, nel quale cioè i nostri ricordi avrebbero dovuto coincidere, ora non era più il medesimo perché a quelle immagini dell’infanzia io avevo aggiunto e sovrapposto altre di paesi nordici con grandi fiumi gelati visti in realtà o nei filmati o semplicemente immaginati. Per decenni avevo gelato i miei ricordi, relegandoli nelle nebbie di una terra di nessuno, ed ora vi facevo passar sopra un vento caldo, un sole amichevole. Mi scorrevano così sotto gli occhi frammenti di quel ghiaccio, più o meno grandi, più o meno riconoscibili. Essi facevano parte di quella grande distesa gelata, ma frammentati ne avevano distrutta, coperta, amalgamata e comunque alterata questa zona o quella. Mariangela mi passava ora sotto gli occhi come un frammento di essa, un lastrone che, urtandosi e accavallandosi con gli altri, si era messo in evidenza, cambiando sia pur in minima parte quel paesaggio fluviale. Abitava a qualche diecina di metri da casa nostra in un sottano anch’esso dei Grassi nella casa di zio Salvatore, fratello di nonno Daniele. Veniva da noi a dare una mano, non proprio una serva, anche se sbrigava i lavori che in paese erano in genere affidati alle serve. Per noi bambini era come una seconda madre, ci voleva bene e noi spesso ci rifuggiavamo da lei. In quell’androne la luce e l’aria entravano dalla porta, a un solo battente schermato dall’usciolo, una tavola a metà altezza con in basso un buco per il gatto e una specie di rinforzo in alto su cui appoggiarsi come ad un davanzale. I vecchi 17


e le donne passavano il loro tempo, specie i pomeriggi e le sere d’estate, su quell’usciolo a curiosare e fare la conversazione con i passanti. C’erano al soffitto un paio di pertiche da cui pendevano fra l’altro grappoli di uva secca. Il focolare era subito a sinistra vicino alla porta, così il fumo pur annerendo tutto il vano non asfissiava , trovando una via d’uscita. Sul fondo si elevava il grande letto con materasso riempito di scarfoglie di granturco. Per noi il problema e il divertimento era salire su una sedia e poi con un salto gettarci sul materasso. La massa di scarfoglie era ogni mattina arieggiata e risollevata penetrando attraverso due aperture nel saccone di ruvida stoffa che le conteneva. Bisognava lavorar di braccia fino alle ascelle, aiutandosi pure con una forcella, perché il peso dei dormienti appiattiva quella montagna, creando al centro una valle in cui si affondava. Non piccola parte del nostro divertimento consisteva appunto in quell’affondare tra lo scricchiolio delle foglie secche e poi star lì soli o abbracciati con fratellini e sorelline a godere il calduccio che veniva man mano creandosi e giocando un po’ a nascondino con Mariangela, che non ci aveva o fingeva di non averci visti. Chi era in realtà Mariangela ? Forse una parente, forse…la convivente di nonno Daniele ? Ora mi ricordavo che il nonno, prima della lite fra le nuore, abitava nel sottano con Mariangela. Il sottano era di nostra proprietà e fu venduto a zio Salvatore dopo la morte di lei , che precedette di poco lo scoppio della lite e ne fu forse una concausa. Il nonno allora non mangiava con noi, noi bambini gli portavamo talvolta la gamella con il pasto caldo, che lui consumava – solo o con Mariangela ?- nel sottano. Volli chiarire la faccenda con mio padre che si schermì con un « Non so « . Tutto quello che riguardava il sesso era nel paese propalato ai quattro venti e nel contempo tenuto gelosamente nascosto. Se perfino oggi il sesso dei vecchi è un argomento quasi tabù su cui i più sorvolano – e la comune sensibilità si rifiuta di ammetterlo, come qualcosa contro

natura, e specie le donne, la cui sessualità sembra essersi di più rassegnata all’astinenza senile, sono quanto mai aggressive contro i vecchi che ancora vorrebbero praticarlo e per lo più con donne più giovani di essi – figuriamoci quasi un secolo fa in un paesino imbevuto, pur nel comune libertinaggio, di acredine cristiana contro di esso. Non insistetti quindi su tale argomento, rimettendomi nei panni di me bambino e poi ragazzo, che era venuto man mano al corrente degli aspetti più intimi della pratica sessuale senza, però, un reale interesse per essi, data l’età. Degli organi sessuali maschili ero al corrente sia per quelli non ancora pienamente sviluppati, sia per gli altri, intravisti e spiati, come quelli di mio padre quando eravamo insieme nell’orto a sbrigare i nostri bisogni, o addirittura esibiti e forzati. Era questo il caso di qualche compagno un po’ più grandicello che ci teneva a masturbarsi alla nostra presenza, strapazzando il suo prispolo finché non colava qualche goccia che era più urina che sperma, ed era soprattutto il caso di Mariotto, più grande di me di sei o sette anni. Costui, muratore come il padre, tarchiato e violento, ci teneva a farsi rispettare litigando e dandole di santa ragione un po’ a tutti. Da vero spaccone voleva fare impressione su noi piccoli anche con qualche furfanteria in cui mi coinvolse. Durante i lavori di restauro al castello, rubò una o due spade dalle grandi panoplie che ornavano i muri delle prime due sale. Lasciò intatti i gruppi di fucili sette e ottocenteschi che a tre o quattro accoppiati facevano bella mostra sul pavimento- e mi ricordavano i covoni in mezzo ai campi di grano dopo la mietitura- , ma staccò un pistolone di una quarantina di centimetri ad avancarica con cui ci minacciava. Costatata e denunciata la scomparsa da chi a quell’epoca era a guardia del castello, temendo l’intervento dei carabinieri rimise a posto il pistolone, ma si tenne le due spade,

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nascondendone una nel letame del sottano dove tenevano i polli e interrando l’altra fra i cespugli di cicute e sambuchi Dietro Corte. A me fu affidata la guardia di questo secondo nascondiglio, di cui con fratello e sorella gestii paurosamente, ma accortamente il segreto, osando perfino disotterrarla dopo alcuni mesi per far legna di acacia destinata al falò dell’Immacolata, per il quale scorazzavamo per la campagna più vicina raccogliendo sterpi e tagliando rami. Nel freddo di dicembre il nostro falò, accatastato sul corso a pochi metri da casa, era il più bello del paese ed orgogliosi gli davamo fuoco fra gli applausi del vicinato. Lo spadone ad operazione terminata fu interrato di nuovo e visitato di tanto in tanto per controllarne l’inviolabilità tirandolo fuori fino all’elsa e poi ricoprendolo di terriccio. Inutile dire che nessuno della famiglia nostra o di Mariotto ebbe sentore di quella balda impresa. Mariotto era quindi un po’ il nostro capo masnadiero e lo fu anche quando un giorno in gran segreto m’invitò ad accompagnarlo in una stalla dove un contadino chiudeva le capre e le pecore. Qui giunti, Mariotto, o meglio Galeotto, tirò fuori il suo pene, afferrò una pecora per didietro, sollevò la coda ed introdusse il fallo nella vagina, dove con qualche avanti e indietro venne, riversando il suo seme. Poi volle che tentassi anch’io e tenne a tale scopo bene aperta la vulva della povera bestia che belava infastidita. Quale fosse l’esito di quella mia iniziazione precoce, lontano ancora mille miglia dalla pubertà, lo si può immaginare. Del sesso femminile la nozione fu per vari anni molto vaga. C’era stata, è vero, una specie di rivelazione ed iniziazione giocando a marito e moglie sotto a un tavolo con mia sorella Flavia, ma fu, anche se un po’ spinto, il solito gioco fra bambini. Allora come ora gli adulti si divertivano a formare simbolicamente futuri matrimoni, per cui quella bambina era la sposa di quel bambino o viceversa e noi stessi sceglievamo quella bambina o quel bambino a futuro

consorte, prendendo la cosa forse più sul serio degli adulti. La cosa, però, restava lì ed era più che altro un gioco ed un fantasma. Diversa fu, invece, la scoperta vera e propria di una vulva matura. D’estate , dopo la trebbiatura del grano e la sgranatura del granturco, si stendevano i chicchi dei cereali su lenzuola o coperte a seccare al sole prima di riporli nei sacchi e, chi poteva permetterselo, nelle madie e nei granaturi, grossi armadi a due o tre scomparti con porticine sul basso per la fuoruscita. Gli scomparti contenevano ognuno una specie di grano differente. Per facilitare la seccagione, con un rastrello e a piedi nudi si avanzava lentamente rivoltando e formando come dei solchi in quella massa rossa o brunita.. Questo avveniva sulle aie in campagna e sulle piazze o piazzole in paese. Un giorno, mentre una donna eseguiva questa operazione e avanzava e retrocedeva accoccolata a gambe larghe, servendosi delle mani come palette, di lei, che come molte povere ignorava cosa fossero le mutande e copriva le cosce solo con una più o meno sbrindellata gonnella, io bocconi al limite del lenzuolo e poggiato sui gomiti vidi chiaramente la grossa, roseggiante vulva nel suo contorno di peli neri. Mentre lei eseguiva a più riprese le sue evoluzioni andando e venendo sul rosso tappeto di chicchi di granturco, io, facendo finta di niente, continuavo a contemplare la vulva. Alla fine se ne accorse e mi scacciò : » Svergognato, lèvati di quà ! «, poi però ridendo di cuore. Di accoppiamenti veri e propri non ne vidi per allora anche se sapevo in generale come avvenivano. Del sesso femminile osservavo anche altri aspetti, indiretti, come quando vedevo le donne, mia madre compresa, slargare le gambe per urinare in piedi- eran dette con qualche disprezzo pisciainterra, mentre i maschi con qualche orgoglio erano pisciainaria-. Del ciclo mensile delle donne, pur notando talvolta le lenzuola macchiate di sangue nel letto dei genitori, non ebbi mai un’idea, scoprendolo solo molto più tardi su indicazione precisa di un 19


compagno in Calabria, che mi fece notare delle macchie di sangue sulla strada e mi spiegò sghignazzando il fenomeno. La più profonda sensazione sessuale in senso lato della mia infanzia l’ebbi in occasione del terremoto del 1930. I terremoti in paese erano e saranno non un’eccezione. Ogni tanto la terra tremava e si passava dall’osservazione di mera curiosità, come quella volta che seduto un pomeriggio d’estate sullo scalino di mastro Giovanni vidi sul tetto di una casa a valle della nostra ballare i tegoli e qualcuno scorporato dall’imbricazione con gli altri frantumarsi sul selciato, allo spavento di sentir all’improvviso ballare il letto, da cui si saltava spinti anche dagli urli dei genitori- il terremoto, il terremoto !-, cercando terrorizzati la via d’uscita verso la strada, dove ci si sentiva più sicuri che in casa. Quella volta le scosse avvennero di notte costringendoci a scappar mezzo nudi sullo spiazzo che antistava la casa del mastro. Siccome le scosse non accennavano a finire e si ripetevano ad intervalli regolari, dormimmo varie notti all’aperto avvolti alla meglio in una coperta. Erano intanto giunte in paese notizie dai paesi vicini, molto più danneggiati del nostro e qualcuno distrutto. Per stanchezza o per il freddo notturno, quando le scosse sembravano volerla smettere, si tornava in casa a letto, dormendo con un occhio solo, pronti a saltar via al primo accenno di scossa e grido di allarme. Una notte durante uno di questi intervalli, le due figlie del mastro, Mafalda ed Elena, fiorenti ragazze tra i sedici e i vent’anni, che come noi avevano passato una parte della notte all’aperto, vollero rientrare e mi presero con sé. Esse dormivano insieme in un grande letto matrimoniale nella camera situata fra la cucina all’ingresso e quella dei genitori in fondo alla casa. Avevo cinque anni ed ero un po’ il trastullo delle giovani, che si divertivano a prendermi in giro, stuzzicando il mio umore di ragazzo discolo e battagliero. Questo lato del mio carattere e il fatto che tartagliavo inducevano un po’ tutti , giovani, adulti ed anziani, a tirarmi in ballo, scherzosamente facendomi dei dispetti o

lanciandomi dei lazzi in attesa delle mie prevedibili e tutt’altro che pacifiche reazioni. Ma questo non voler lasciare in pace il can che dorme era circondato da tanto affetto che io stavo al gioco e, se proprio non mi divertivo, non mi arrabbiavo più di tanto. Le due sorelle mi misero in mezzo a loro e cominciarono tra finte di sonno e sveglia a spostarmi di qua e di là, a prendermi in braccio ora l’una ora l’altra, abbracciandomi e sbracciandomi ora supine, ora sul fianco. I loro corpi giovani sotto le coperte avevano creato un gradevole calduccio che l’animazione irrequieta contribuiva ad aumentare e talvolta a ventilare. Non ebbi tempo di crogiolarmi in esso o piuttosto il crogiolìo divenne qualcosa d’altro quando mi sentii per la prima volta sballottolare fra quattro belle tette ed altrettante cosce nude. Anche se incosciamente sentii per la prima volta l’altro sesso come qualcosa di caldo, accogliente ed eccitante. Decenni più tardi , quando sessualmente più che maturo stavo montando nudo il corpo nudo di una giovane donna, che nonostante le sue origini blasonate l’aveva sodo ed ampio come quello di una contadina, l’artisticamente dotata e quindi sensibile anche ad annotazioni formali e volumetriche del nudo, mi fece osservare, poco prima della copula, quando il mio e il suo corpo prendevano tattilmente possesso l’uno dell’altro : « Vedi, il bello nel far l’amore è sentire che i corpi maschile e femminile sono fatti l’uno per l’altro. Senti come il mio e il tuo per sporgenze e rientranze combaciano ? Aspetta un po’ a penetrarmi ; fammi godere questo momento, poi i corpi in parte divergeranno presi dalla ginnastica copulatoria e, quando sarai nel profondo di me ed io nell’avvolgimento di te combaciando perfettamente, costaterai che quel che ti ho detto trova il suo compimento. Scomparsa poi questa fusione , l’abbandono dei corpi esausti l’uno sull’altro non basterà a richiamarla e sarà nella memoria e nel desiderio svuotato un lento dissolvimento come in certe sequenze cinematografiche. »

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Questa poetica sintesi era stata, però, preceduta da una impertinenza ben consona con gli scoppi di riso di ragazza allegra e che ci teneva , come allora era di moda, a far notare di essere e comportarsi da donna scappucciata. Prima di penetrarla le avevo con le dita provocata l’umidificazione della vulva, indirizzando poi la sua mano verso il mio fallo non del tutto gonfio. « Ah ! tu sei uno di quelli che bisogna incoraggiare ! « , notò con divertito disappunto e rimprovero. Se la donna pensava al combaciamento, la femmina pensava alla penetrazione. Ora più passano gli anni e più la donna nei miei fantasmi è di preferenza presente ed eccitante distesa a cosce larghe per mostrarmi la vulva aperta pronta a ricevermi. Così me la figuro e così la sogno, anzi qualche volta è tutto il suo corpo sublimato a conchiglia , morbido e caldo, che mi accoglie e m’ingloba in sè , dal quale , se poi mi stacco ricordando, esco come metallo fuso da un crogiolo per ricevere una forma, quella improntata dal suo amore. Tutto questo era in nuce già presente in quella notte di terremoto, a cinque anni, più che trastullato tra i corpi caldi di Mafalda e di Elena. Ho detto che la memoria è femmina. Ora, dopo averne parlato un po’ negativamente come di una donna ritrosa e dispettosa che ti eccita e non si concede, mostranasconde e, se mostra di più, è per meglio incrudelire ( aspetto innegabile di memoria-amante ), bisogna aggiungere, completando, quello di memoria-madre. La funzione della madre è quella di generare e nutrire il frutto del suo ventre. La funzione nutritiva ed educativa della memoria fa sì che sia essa nella sua inesauribile ricchezza a conservare, dare, regolare e anche negare il cibo a colui che essa nutre. Una forma di negazione è il suo esaurimento, mentre la sua peculiarità è l’accumulo selettivo : non tutto passa nella memoria, che anzi distrugge volentieri l’enorme quantità di vissuto che, se restasse intatto, la soffocherebbe sommergendola. Il tempo è il suo nemico

ed il suo alleato. Senza il tempo essa non esisterebbe, con il tempo essa saggiamente riduce e riqualifica quanto ha conservato, facendolo riemergere quando e come e in che stato essa meglio ritiene. E’ in questo la sua funzione educativa, abituare cioè colui che se ne nutre ad attingervi secondo i suoi bisogni vitali, perché, se essa è offesa, maltrattata o ipernutrita, può essere anche crudele, maligna e infanticida. Senza memoria, non c’è coscienza di sé, chi non ricorda non è mai vissuto e perciò non vive. Si può addirittura dire che non esiste. Ma chi ricorda troppo può anche essere vittima di se stesso, turbato e schiacciato nel suo equilibrio, che vuole che la coscienza intervenga, ma senza eccessi, per non impedire squilibrandolo la sua capacità di agire. I tesori della memoria sono custoditi sapientemente a vari livelli : c’è il meno uno, il meno due, il meno tre, il meno quattro, il meno cinque e poi insospettato un pozzo profondissimo, dove certi ricordi sono seppelliti e inaccessibili anche per chi disponga del migliore scandaglio. Da questo pozzo esalano miasmi o profumi che non raggiungeranno mai la coscienza e che pur agiscono sulla psiche. La discesa ai vari livelli può essere singola o multipla nel senso che uno crede di essere al meno due e all’improvviso si sente portare contemporaneamente al meno tre o al meno cinque. Questa bilo, trilo o plurilocazione dei ricordi è quanto di più ricco possegga e conceda la memoria : un ricordo contiene e tira l’altro o gli altri, sì che colui che ricorda è sorpreso di questa capacità di saltare di palo in frasca, o meglio, di essere nel contempo sul palo e sulla frasca. Che in questo gioco da saltimbanco il ricordo possa anche ingannarsi e ingannare conta poco perché anche l’inganno è una realtà che viene a nutrire colui che ricorda. In questo processo intervengono solo il passato e il presente o anche il futuro ? La memoria può, cioè, precedere i tempi e dare come accaduto anche quello che accadrà, condizionando nel gioco di passato-presente talmente la coscienza 21


che questa svilupperà poi senz’altro i germi ora in essa deposti ? La oniromanzia e la mantica sono qualcosa di più che vane parole e vane tecniche o sono collegate alla mnesi, cioè Mnemosine ha veramente generato le nove Muse, quelle che poi canteranno il passato, il presente e il futuro ? Rimuginavo senza venirne a capo queste idee e mi ero quasi scordato di mio padre, che, come fosse assente o indifferente ad esse ( e che, se le avesse ascoltate, non poteva non considerarle stramberie ) sonnecchiava su una sedia. Lo scossi con una piccola gomitata- bisognava , dunque, scuotere anche i morti per svegliarli davvero- e tanto per farlo in una certa misura partecipare al corso dei miei pensieri, gli indicai di nuovo il reliquiario Kota, che troneggiava su uno scaffale nel soggiorno. « Se guardi bene quell’oggetto, noterai che sotto la grande testa il corpo è ridotto a una losanga, formata da braccia e gambe piegate. La losanga esterna forma e contiene un’altra losanga verticale e stretta ch’è in essa iscritta. La sua forma ti ricorda qualcosa ? « « Mah ! un buco, credo. » « Sì , un buco, non uno qualsiasi, ma un buco ben preciso. » Sentii che arrossivo, se ne accorse e dal mio rossore capì a cosa alludessi. Volli allora generalizzare : « Essa è la porta della vita ed una specie di frontiera tra il mondo dei vivi e quello dei defunti. La sua configurazione a forma di piroga indica un viaggio dal mondo dei vivi a quello dei defunti e viceversa. » Notai che il suo sguardo , più che meraviglia, indicava incomprensione. Eppure avrebbe dovuto capire, lui che stava compiendo questo viaggio e induceva me a compierlo in senso inverso. Non volli insistere e lo lasciai alle sue impressioni mentre io riprendevo la mie riflessioni, scendendo ora con notevole agilità da un piano all’altro del sottosuolo della mia memoria. La rievocazione della copula con la nobile artista mi riportò indietro a quando da ragazzo assistetti a un congiungimento di uomo e donna, visto non nei dettagli, ma costatato e non indovinato soltanto

nel suo svolgimento. Dormivo in quel tempo nella stessa camera di zio Luigi. Prima , più piccolo, avevo dormito in una specie di alcova buia, ch’era una suddivisione per mezzo di una parete di legno del vano della cucina, e poi in un’altra stanza adiacente con una piccola finestra che dava su un orto abbandonato e che serviva un po’ da ripostiglio, collocata com’era tra la cucina e la vera e bella camera da letto con balcone in facciata al primo piano della casa della nonna. In essa c’erano due lettini, uno per me e uno per lo zio. Dal mio lettino potevo osservare tutto quello che succedeva. Un pomeriggio, durante la siesta, la comare Filomena, moglie di un solenne e forse non tanto o per niente sessualmente attivo marito, ch’era rientrato dagli Stati Uniti e parlava un anglomorrese piuttosto divertente, entrò in camera e si accostò al letto dello zio. Dopo qualche frase scherzosa a metà voce al mio riguardo, mentre io fingevo di dormire, alzò la sottana e lei in piedi e lo zio sul fianco con inequivocabili movimenti fecero quel che per sentito dire sapevo che si faceva fra uomo e donna. Di quel lettino altrettanto se non più vivo è il ricordo di una grande sbronza- quasi un avvelenamento- che presi da ragazzo. Non era la prima, che credo fosse verso i tre anni durante un banchetto di matrimonio. Mentre i miei genitori con gli altri grandi mangiavano e bevevano seduti a vari tavoli accostati a fare una grande tavolata, io con i miei fratelli nascosti sotto a un tavolo giocavamo e di tanto in tanto nella disattenzione generale allungavamo la mano ai bicchieri. Io dovetti allungarla un po’ più spesso degli altri, per cui a un certo momento mi accorsi o si accorsero che ero brillo. Denunziato ai genitori , mi presi qualche scappellotto e tutto finì lì. Questa volta, invece, tornando da scuola , entrai in casa di zio Luigi, dove abitavo per il solito turno di avvicendamento. Doveva essere di giugno, in casa non c’era nessuno ( la nonna morta e lo zio in campagna ), il caldo si faceva sentire, sulla cucina di mattonelle bianche c’era un fiasco che pensai fosse di vino. L’afferrai e a 22


garganella mi dissetai ben bene. Verso le tre del pomeriggio mia sorella Olga, passando davanti alla casa, mi vide riverso a terra che rantolavo con la schiuma alla bocca. Dette l’allarme – Daniele sta morendo ! Daniele sta morendo !-, accorse gente, mi sollevarono e mi portarono a letto. Intanto era stato chiamato il medico che venne e mi fece una iniezione. Il fiasco conteneva vermut, non vino, quindi gli effetti su di me, che avrò avuto sette-otto anni, furono disastrosi. Mi vedo ancora alzarmi e farneticare sul letto, dove rimasi per tre giorni finché quella solenne sbornia poco alla volta si calmò, lasciandomi malridotto, ma in vita. I rimproveri vennero dopo e furono violenti quanto il passato pericolo. Ciò non m’impedì di continuare a bere vino, ma del vermut conservai la nausea per una ventina d’anni. Il sesso, se nelle forme sue specifiche esulava allora dal campo mio personale, occupava largamente le chiacchiere della gente, coinvolgendomi, come un fenomeno di notevole importanza sociale.. Mentre si lasciavano tra parentesi i rapporti tra marito e moglie, quelli extraconiugali o un po’ fuori dalle norme di un certo costume, più che di una dichiarata morale, facevano scalpore. Guai alle ragazze o donne che restassero incinte fuori o prima del matrimonio ! C’erano intanto le fughe. Quando le famiglie di uno o dei due innamorati non erano d’accordo, questi scappavano, finendo in un pagliaio ed alcuni anche in qualche paese vicino e perfino ad Avellino o Napoli. Non c’era solo l’opposizione dei parenti a far scattare la fuga. Spesso la voglia di far l’amore era troppa e che fosse di lui , di lei o di ambedue, non avendo la possibilità materiale di farlo in casa o in paese- tutti controllavano tutti-, si prendeva la fuga come punti all’improvviso da un tafano. Il costume era più diffuso in campagna, ma anche in paese i casi non mancavano. A un certo momento da una strada all’altra come una miccia accesa

scoppiettando correva la voce « La tal dei tali è scappata. « « Con chi, con chi ? « « Col tal dei tali.» Se era l’innamorato, il guasto si riparava dopo qualche giorno, quando i piccioncini tornavano o erano fatti tornare- a volte anche con l’intervento dei carabinieri- e, siccome nessuno s’illudeva su cosa fosse successo durante quei giorni di fuga, il matrimonio riparatore metteva fine alla vicenda. A volte la ragazza scappava perché incinta : non volendo affrontare le reazioni della famiglia e del paese, che avrebbe commentato e mormorato, la fuga dava un suggello a quanto era avvenuto, ufficializzandolo di colpo e quindi col prossimo matrimonio sanandolo. Diverso era il caso se l’ingravidatore , noto o sconosciuto, non era l’innamorato. Fu il caso della figlia più avvenente di comare Palomba. Costei aveva una cantina molto frequentata. Su una targa di legno scolorita si poteva leggere A la picciona e l’immancabile frasca sul muro accanto alla porta indicava, come in altri due casi che ricordo, la funzione del locale, che consisteva in un vasto androne con un grande tavolo dove sedevano bevendo e giocando a carte gli avventori. Di fronte al tavolo c’era la cucina, a mattonelle bianche, fornelli di ghisa e focolare al centro, dove si accendeva il fuoco con grossi ciocchi per riscaldare il locale, specie di sera e d’inverno. Dietro la cucina aperta uno scalone di legno portava al primo piano, dove uno stanzone conteneva i letti per madre, figlio e quattro figlie. Il figlio Peppino, un po’ vanesio, faceva, tra l’altro, il banditore, istituzione pubblicitaria autorizzata dal comune. Forestieri e paesani che avevano qualcosa da vendere, o il comune per rendere pubbliche le misure amministrative, si servivano del banditore. Il più celebre fu Rocco lu camposantaru, che, come il nomignolo indica, curava il cimitero e, disponendo di una fortissima e chiara voce baritonale, svolgeva le funzioni di banditore. C’erano tre o quattro punti del paese, dove il banditore in piedi, ai tempi di Rocco suonando prima 23


una trombetta, accostava il palmo della sinistra alla guancia per far cassa di risonanza e sgolandosi urlava il messaggio : « E’ arrivato lu sanapurcieddu » eccetera ; oppure « C’è in piazza municipio lu santangiulese che vende « eccetera ; oppure « Chi vuole pomodori freschi e per la conserva, peperoni da metter sottoaceto eccetera, vada nel sottano di Luigino o di don Giovanni Zuccardi, i pomodori a tanti soldi al chilo, i peperoni verdi a tanti, quelli rossi a tanti » eccetera. Peppino si presentò volontario per partecipare alla guerra del 193536 contro l’Etiopia ed al ritorno come ricompensa ebbe dal comune l’incarico di banditore. Si sgolava, appoggiato alla ringhiera dello spiazzo Gargani davanti a casa nostra, ma la voce non era quella di Rocco lu camposantaru che, perduto il favore del podestà fascista, ebbe così più tempo di conquistarsi quello dei morti al cimitero. Della partenza e ritorno di Peppino dalla guerra ricordo gli abbracci e baci di addio e di benvenuto delle cinque donne di famiglia, specie le smancerie teatrali della più bella di esse. Come facesse costei ad evitare la sorveglianza delle altre a far salire un forestiero nello stanzone di sopra non si sa. Non fu certo una sola volta, però fu l’ultima quando dopo qualche mese si accorsero che era incinta. Per evitare lo scandalo, con o senza consenso della madre scappò in un paese vicino, dove partorì e restò, non tornando più in paese. In seguito si mormorò che avesse trovato marito, ma non si seppe se costui fosse il seduttore o altri. L’ambiente della cantina era favorevole a incontri poco cattolici. Lì le donne per carnevale organizzavano feste, se non scollacciate, un po’ bizzarre, almeno per quel che ci capivo io. Una volta accompagnai lo scapolo zio Luigi a quella festa , dove si ritrovavano tutti, ma non solo gli scapoli del paese. Bevendo e ballando con le quattro figlie, a un certo momento s’iniziò un gioco di società, ch’era un po’ simile a quello che facevamo noi ragazzi, con la variante che , invece dello schiaffetto dato al bendato, che doveva indovinare chi

glielo aveva dato, quì si passava rapidamente con una candela accesa davanti al bendato che doveva soffiando smorzarla. Se non vi riusciva doveva pagare una penale, in genere un giro di bevute di vino ; se vi riusciva, il portatore della candela passava sotto, era cioè bendato a sua volta e il gioco ricominciava. All’avvicinarsi di mezzanotte in una serata di san Silvestro, sempre bevendo e ballando, si bendò un tale e gli si infilò un imbuto nella cinta dei pantaloni. Dall’alto, uno, due, tre, si lasciava cadere una moneta nell’imbuto. Se il bendato l’acchiappava a mezz’aria, era sua, se no doveva pagare la solita penale. Le signorine disinvolte estraevano o aiutavano a estrarre dalle mutande le monete non intercettate. Inutile dire che gli scapoloni, fingendosi impacciati, lasciavano di preferenza penetrare nella zona semiproibita le mani delle ragazze. Il gioco terminò quando a un malcapitato che era lì per la prima volta, dopo aver fatto cadere qualche moneta nell’imbuto, vi si versò da una caraffa una buona quantità di vino, che gli inzuppò pantaloni, mutande e il resto. Dopo il misfatto le ragazze accompagnarono l’indignata vittima verso il fondo dello stanzone e con un asciugamano strofinando e ristrofinando ripararono almeno in parte il subìto allagamento. Il viaggio delle monete come eccitava le figlie di Palomba, se è forse vero che un ricordo agisce sul futuro, continuò a eccitare in certe occasioni anche me. Così tanti anni dopo lasciai cadere nella scollatura di una donna refrattaria una moneta, non tanto nella speranza che mi mostrasse più di quello che mi aveva già mostratoombelico e ventre fino all’attacco del pube-, negandomi il resto per compassione, diceva lei, perché mostrare la vulva senza concederla era maggior atto di crudeltà che non farla vedere ( contemplare, correggevo io ), quanto per seguire quel viaggio nelle zone proibite, sentirne il calore e provocare un titillìo, presa di possesso del corpo della donna fantasticando per interposta moneta.

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Quasi di fronte alla cantina di Palomba, c’era il negozio di Maria la cunfessora. Donna avvenente costei, se non più bella della figlia della cantiniera, certo più matura. Aveva una bella carnagione bianca che spiccava di più sul vestito nero quasi vedovile. Era vedova di fatto, non di statuto. Suo marito era emigrato negli Stati Uniti lasciandola sola con due figli e lì come tanti emigranti aveva messo su famiglia con un’altra donna. I primi anni aveva spedito qualche soldo, poi più niente. La cunfessora dovette, quindi, provvedere a se stessa e ai figli aprendo un negozio di alimentari. La sua avvenenza vedovile e un certo spirito d’iniziativa favorivano gli affari. Di quel negozio che frequentavo spesso, dato che Gerardino, il primo figlio, era mio intimo amico in un rapporto violento di lotte e botte, che ricevevo più che dare perché lui era più forte di me, ricordo la mercanzia messa sotto agli occhi e al naso dei clienti in sacchi con il risvolto dell’apertura arrotolato fino alla metà di essi : fagioli, fave, pasta corta tipo bucatini, bucatoni, orecchie di prete eccetera – quella lunga era in cilindri di rozza carta azzurra-. Il baccalà, le sarache e i sarachieddi sotto sale erano in tinozze di legno, le alici in grossi barattoli di latta, non mancavano in scatole chiuse sardine e alici sotto olio e il salmone in una salsa biancastra, quest’ultimo prodotto di lusso comprato da zio Luigi in rare occasioni e del quale a me facevano gola anche i pezzi cartilaginosi, che sentivo rosicarelli sotto lingua e denti quando mi era concesso prelevarne col cucchiaino un pezzetto. Celebre era in paese, e tentazione più frequente per lo zio, il provolone Auricchio che la cunfessora esibiva, uno intatto appeso in alto a un gancio e l’altro già « incominciato « sul bancone. Di quello in alto ammiravo le dimensioni, sui dieci chili, con la magica stampigliatura a ferro rovente sulla scorza « Provolone Auricchio, San Giuseppe Vesuviano «, di quello sul bancone seguivo i calanchi che rigavano la massa giallina, con le famose gocce qua e là che Maria teneva a far notare quale particolare indice di bontà,

stagionatura e freschezza di taglio. Quando ero in compagnia dello zio , avevo diritto dopo di lui all’ assaggio di un pezzetto, staccato con la grande curtedda, diversa dal curtieddu perché a lama larga ( guarda dove arriva la simbologia femminile nelle varianti del dialetto ! ). Il baccalà norvegese doveva essere spesso, ma non troppo, semiduro, ma non troppo, con i margini non troppo arricciati, con pinne non troppo invadenti, a giusto punto di maturazione. Quale fosse questo punto lo giudicava il naso che doveva sentire il forte odore del baccalà, senza alcun accenno, però, d’incipiente corruzione. Per pesare la mercanzia c’era la solita bilancia a due piatti, uno per la merce, l’altro per i pesi, e per quella troppo pesante o voluminosa c’era la stadera, che da Maria era piuttosto una staderina, con il lungo braccio oscillante e il peso che scorreva di qua e di là secondo la taratura. Con i clienti difficili o abituali Maria era corretta, con altri giocava di pesi e pesetti, colpi e colpetti rapidissimi all’asta per imbrogliare un po’ sul peso. Inutile dire che queste manovre, abituali presso tutti i negozianti, specie quelli di passaggio, erano spesso causa di omerici litigi. Nel negozio regnava un odore speziato, tipico di tutti quelli di generi alimentari, ma dalla cunfessora più avvertibile per la minore aerazione del locale o perché così lo ricordo, avendovi più spesso messo il piede. E forse chi sa ? anche perché c’era odor di femmina per il mio incipiente odorato perfetto. Dal negozio si passava, infatti, nell’altra stanza dove succedevano cose turche, così almeno si mormorava ed anch’io, quando avevo ricevuto qualche botta più solenne da Gerardino o qualche dispetto più cocente dal fratello che, benché più piccolo di me, per una sua quasi innata malvagità me ne faceva di tutti i colori, lanciavo a conclusione o inasprimento dei diverbi « Mannaggia la puttana di tua madre « . Maria , non c’era dubbio, godeva di tale fama, confermata poi , quando dalle cadute occasionali con questo o quell’avventore, tenute per quanto possibile 25


nascoste, passò ad un aperto meretricio con conseguente ingravidamento e parto di un figlio, non chi sa dove , ma in paese sotto gli occhi di tutti, e non con uno scapolo, ma con uno sposato, padre di numerosa prole e di una certa età, che la decennale e repressa libidine della donna mise a dura prova, tanto da farlo vistosamente dimagrire. Ma lui di ciò si vantava e, passeggiando in piazza municipio avanti e indietro di fronte al nuovo negozio di Maria che lì si era trasferita, mentre i vecchi pantaloni ballonzolavano semivuoti attorno alle ridottissime natiche, gridava, sfidando i passanti e proclamando una sua prorompente maschilità, « Il mio culo se lo sono mangiato le donne. » La sorte delle vedove bianche era, quindi, tristissima e, anche se non portava sempre a sbocchi scandalosi, era all’origine di drammi sicuri. La zia Checchina, per esempio, era stata lasciata in paese da zio Ciccillo, emigrato negli Stati Uniti. Donna Checchina, cioè Franceschina De Sanctis, aveva diritto a tale titolo perché nipote diretta dell’uomo più celebre del paese. Allora e in seguito sbandieravo tramite lei una quasi parentela con il grande critico e noi tutti eravamo un po’ orgogliosi di avere in famiglia donna Checchina, che abitava nell’ultima casa del vicolo De Sanctis all’incrocio con via Chiesa. La casa constava di due sottani, una volta probabilmente adibiti a stalla e cantina, e di due stanze-cucina e camera da letto-, cui si accedeva per una scala malandata situata nello stesso vicolo. La casa non era stata ultimata, la camera da letto si affacciava su via Chiesa con balconata senza ringhiera, sulla quale, benché ci fossero vecchi secchi e vasi con qualche fiore ed erbe aromatiche, tipo prezzemolo o basilico, io preferivo, aperto il balcone, non avventurarmi per coglierli. Chi lo facesse non ricordo, ma certo non zia Checchina, che passava quasi tutto il tempo confinata nel grande letto matrimoniale. Non era frequentata da altri discendenti De Sanctis che si ritenevano a lei superiori e che non erano orgogliosi del suo matrimonio con mio zio, non loro pari, e

forse anche per antichi dissapori e litigi tra parenti. Restavamo noi, zio Luigi che curava gli aspetti economici e finanziari – fitto dei sottani e ricavato di terreni di origine De Sanctis e Zuccardi-, mia madre che visitava l’inferma e di tanto in tanto l’aiutava in casa, e noi ragazzi, che qualche volta le portavamo da mangiare o altri doni, sempre di tipo mangiatorio. Avrà pur fatto da sé la cucina, ma come, quanto spesso e con quali prodotti, visto che non usciva di casa, era un mistero. La sua malattia, con qualche febricciattola e inappetenza, era soprattutto psichica, una sorda malinconia, un estraniamento dalla vita : era in tutti i sensi una derelitta. Noi ragazzi la chiamavamo zia, mia madre e zio Luigi « donna Checchina ». La risposta abituale a chi s’informava della sua salute era canonica e sarebbe stata in seguito citata sorridendo da mia madre vecchia e indebolita dagli anni, ma non derelitta. « « Come state, donna Checchina?« «Bonaredda ». Il bonaredda era la sintesi di chi aveva accettato il proprio abbandono. Zio Ciccillo, tornando una volta in paese, si era portata in America la figlia Rina, che era diventata ormai quasi una signorina e stranamente abitava in casa della nonna Caterina. Perché non con la madre ? Probabilmente perché questa nel suo stato depressivo non era capace di occuparsene. Avrà avuto donna Checchina sentore o sospetto della presenza di un’altra donna nella vita del marito in America ? E’ più che probabile, anche se non ne fece mai cenno con noi. Poco prima della seconda guerra mondiale lo zio fece venire in America la moglie, riunendo così i membri della famiglia. A zio Luigi toccò il compito di accompagnare la malferma a Napoli e di aiutarla ad imbarcarsi per New-York. Quando dopo la guerra zio Ciccillo tornò in paese con moglie e un nipote, Salvatore, figlio di Rina ormai sposata e presso la quale era rimasta una figlia, tutti assistemmo con meraviglia al miracolo di donna Checchina, donna fiorente sulla settantina : della malata cronica nessuna traccia, anzi dette prova di una notevole resistenza 26


nei confronti del marito che voleva restare in paese a passarvi gli ultimi anni della sua vita. Salvatore, che non parlava neanche italiano, in quel mesetto dette tutti i segni di un mezzo squilibrato, separato dai genitori e dal suo ambiente, sentendosi ed essendo proprio un americano. La zia, che ricordando il passato non aveva nessuna nostalgia della vita paesana e soffriva per la separazione dalla figlia Rina e famiglia, fece capire a chiare note che voleva tornare in America, dove abitava a Newarck nella little Italy. Non aveva imparato quasi niente dell’americano, salvo qualche parola e frasetta. Aveva, però, dopo decenni scoperto la presenza di una certa Colomba, padrona del forno e della casa di legno dove aveva abitato e lavorato come pasticciere zio Ciccillo, che portava ancora i segni di quel suo mestiere sulle palpebre rosse prive di qualsiasi resto di ciglia , bruciate dal calore e dal riverbero delle fiamme del forno. Se aveva perso le ciglia, aveva però guadagnato una dentiera, che vedevo per la prima volta, con tutti quei denti uguali e bianchi. Da qualche frase sfuggita alla zia, quando lo zio casualmente parlò di Colomba, si capì che quella donna aveva preso il suo posto e lei era rimasta in paese a far la vedova bianca per almeno una ventina di anni, gli anni migliori della sua vita di sacrificata. Fece scalpore in quel tempo l’avventura di un signorotto e la disavventura di Nicoletta. Il signorotto era il rampollo squattrinato di una già ricca famiglia di proprietari terrieri. Di uno dei suoi antenati, padre o nonno, si narrava la favolosa storia secondo cui , non avendo un giorno a portata di mano un fiammifero, dal focolare si era acceso il sigaro con un biglietto da cento lire, quei biglietti grossi come un fazzoletto. Cento lire a quell’epoca erano una fortuna, quasi quanto riceveva come mensile un maestro. Dell’antica fortuna era rimasto un casino con relativi terreni tra Selvapiana e il bosco di Castiglione, pignorati o in vendita, e un palazzotto con tanto di presunto stemma gentilizio sul portone , grandi stanze al primo piano e per me

soprattutto un bel giardino, suddiviso da vialetti cinti da siepi di bosso ( da noi detto mortella) in aiuole fiorite o a prato. Giardini di quel tipo, qualità ed estensione in paese ce n’erano pochi e quei pochi a noi inaccessibili, come quelli delle due case Molinari, dei Donatelli e Del Buono. Giocando a nascondino dietro le siepi avevamo la sensazione di essere come in un labirinto e gli inseguimenti e le sorprese, anche se mancavano le dame- né qualche coetanea presente aveva tale natura o ambizione- non erano meno avvincenti o pericolosi. Dei vari figli del signorotto uno, Attilio, era quasi mio coetaneo e con lui giocavo, pur temendolo perché più grande di me mi vinceva alla lotta e me le suonava. Gli altri erano quasi uomini fatti ; dal primo piuttosto violento mi guardavo dall’averci a che fare, il sussiego del secondo escludeva qualsiasi contatto. C’era una sorella, ma quella andava, e sarebbe andata sempre di più in seguito, per la sua via, scivolosa come quella del padre. Il signorotto, con l’eterna sigaretta in bocca, dal fisico svelto e piacente e relativamente ben vestito, almeno secondo i canoni del paese, a una certa epoca lo si vide passare troppo spesso per via Ospedale, dove abitava la cognata Nicoletta. Caso volle che anch’io mi trovassi spesso nella stessa via, dove c’era mastro Domenico calzolaio. Il pomeriggio, dopo la scuola, andavo dal mastro a imparare il mestiere , che per ora consisteva soprattutto nel preparare lo spago. Dovevo arrotolare x volte i fili di canapa sui ginocchi ; quando l’intreccio era ben serrato , bisognava metter la pece in un coperchietto di latta e con una candela accesa riscaldarla e ammollirla, quindi passarla un po’ alla volta sullo spago, strofinando ancora sulle cosce e nel palmo della mano, che, per non farla appiccicare , si inumidiva con lo sputo. Una estremità dello spago si riduceva a punta, dove s’infilava una setola di maiale, fissata avvolgendola. Quando il mastro col subbio aveva fatto un buco nel cuoio, s’infilava lo spago, badando che la setola non si piegasse o 27


spezzasse. Se ciò avveniva, bisognava rimediarvi con una nuova setola. Sul deschetto circolare attorno a cui ci si sedeva c’erano gli strumenti del mestiere, coltelli affilati per tagliare il cuoio, martelli di varia grandezza, anche di legno per ammorbidire all’inizio il cuoio bagnato e chiodi di tutte le forme e grandezze, con cui si ferravano suole e tacchi delle scarpe, che dovevano resistere alle scarpinate sul selciato delle vie del paese e sui sassi di quelle di campagna. In qualche occasione mi si concedeva di martellare le cintredde sulle suole di piccole scarpe da ragazzo, né mancavano gli scappellotti se sbagliavo non mettendole bene in fila con le altre o facendone uscire la punta sul lato della scarpa. Interveniva allora il mastro, estraendo con le tenaglie le malpiazzate e rifacendo il buco accanto a quello sbagliato. Sul fondo del negozio,-così detto perché oltre le scarpe su ordinazione si vendevano altre di fabbrica, in una scansia figuravano in bell’ordine le forme di legno di cui il mastro si serviva per dar forma alla scarpa durante la lavorazione, ma anche per prendere la punta, cioè le dimensioni del piede del cliente, facendogli anche scegliere , consigliandolo, il tipo di scarpa, scarpone o stivaletto che fosse. Inutile dire che nonostante tutti questi accorgimenti spesso la scarpa era troppo stretta o troppo larga, troppo lunga o troppo corta. In tal caso si cercava di rimediare rimettendo la scarpa in forma, anche sostituendo questa con una simile, un po’ più stretta o larga, un po’ più grande o piccola. ; né i risultati erano sempre soddisfacenti ed alcuni clienti più puntigliosi rifiutavano le scarpe, che andavano a finire sulla scansia, aspettando un cliente con i piedi di quelle dimensioni. Per me la gratifica consisteva nell’onore di portare le scarpe nuove o riparate a certi clienti di lusso, per così dire, per esempio i maestri o i carabinieri. Da tali missioni tornavo con la mancia, due o quattro

soldi. La moglie del mastro, Alfonsina Mignone, lasciando la casa dei suoceri si era recentemente trasferita dalla Rampa al corso a via Ospedale, dove sul negozio era stato costruito un primo piano. L’accesso alla camera avveniva per una scala a pioli e quindi per una botola nel pavimento. Quell’ardua salita metteva a dura prova il mio coraggio quando a volte dovevo affrontarla, spingendo con la testa il coperchio della botola per aprirla e nel contempo con i piedi poco saldi sugli ultimi scalini della malferma scala. Mentre mastro Domenico era di carattere piuttosto benevolo e mite, la moglie ne aveva uno tutt’altro che pacifico. S’impicciava volentieri dei fatti altrui e aveva una lingua di maldicente di cui si lamentava anche mia madre negli inevitabili battibecchi fra vicine. Alfonsina ebbe il sospetto che le passeggiate del signorotto dalla cognata non fossero innocenti. S’informò anche dai vicini che la confermarono in tal senso. Il fatto che anche lei fosse incinta del primo figlio non so se contribuisse ad acuire le sue capacità di osservazione o la sua acidità tutta femminile. Fatto sta che, benché Nicoletta limitasse le sue uscite allo stretto necessario e, invece di frequentare il vicinato, se ne stesse per lo più sul pianerottolo delle scale che davano accesso alla sua casa, a un certo momento l’occhio avvelenato delle vicine misurò esattamente la linea della pancia rispetto a quella della figura piuttosto svelta della trentenne. Quand’essa superò un certo angolo di fuoruscita, non ci fu dubbio : Nicoletta era incinta e a metterla incinta era stato il cognato. Apriti cielo ! Il caso era raro, se non unico. Che alcune donne non riuscissero a contentarsi del vedovaggio o zitellaggio in cui la sorte e il costume le relegavano e dessero, quindi, sfogo ai loro bisogni essenziali di femmine lo si poteva anche capire. Se lo sapevano fare di nascosto salvando le apparenze, poco male ; se lo facevano cedendo apertamente a questa tentazione, erano additate al

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disprezzo generale , che andava fino a considerarle puttane. Ma che la lussuria di una cosiddetta vergine e di un poco rispettabile marito giungesse fino all’incesto tra cognati , questo passava ogni limite. La maldicenza, quindi, più che giustificabile, era obbligatoria e poteva anche permettersi l’insulto o la canzonatura della sciagurata. Fui, perciò, istigato da Alfonsina , perfino con sguardo connivente e risatina del mastro, a risalire di qualche cinquantina di passi via Ospedale per portarmi sotto le scale e la finestra di Nicoletta per farle il verso gridando « Nicoletta, ci hai la panza, Nicoletta, si’ prena ». Tutto il vicinato ascoltava e Alfonsina era sulla porta del negozio a godersi la scena, interrogandomi al ritorno dalla mia bravata « Cosa ha detto, cosa ha detto ? ». Lo statuto delle donne e degli uomini nel paese era il seguente : risalendo la scala sociale dal contadino o bracciante fino alla casa principesca, c’era lo scalino più basso su cui maschi e femmine davano sfogo ai loro impulsi sessuali in età giovane o giovanissima con il solito matrimonio o prestando alcune volte le donne i loro corpi come serve o parziunale ai padroni ; seguiva il secondo su cui artigiani e piccoli possidenti seguivano grosso modo, ma non sempre, lo stesso schema, permettendosi a volte il maschio o la femmina lo statuto di libertino o libertina, praticato alla chetichella ; seguiva il terzo scalino della media borghesia e dei signori, su cui il principio di salvare l’unità dell’asse patrimoniale – maggiorascato di fatto, se non di diritto- portava al matrimonio di un solo maschio, che metteva su famiglia e amministrava i beni, costringendo al celibato gli altri maschi e le altre femmine, che restavano, però, in casa, esercitando una professione di appoggio economico alla famiglia – prete. ufficiale, maestro, impiegato comunale- e concorrendo anche all’allevamento ed educazione dei figli del capofamiglia, oppure , specie i maschi, oziando in una posizione di quasi mantenuti. Costoro dovevano, quindi, bene o male cercare di soddisfare gli stimoli della carne con avventure passeggere o legami

più o meno stabili, ma fuori dal matrimonio. Altrettanto non valeva per le femmine, la cui attività sessuale non era ammessa e, quindi, per lo più non praticata o dio sa in quali forme deviate. Non mancava il caso di qualcuna di queste poverette che era addirittura impazzita e chiusa in casa, volente o nolente, si aggirava come uno spettro per le stanze, intravista talvolta con i capelli scarmigliati e quasi bianchi di vecchia precoce dietro i vetri di una finestra. Altre si davano a Dio ed erano tra le più arrabbiate e fervide devote, frequentatrici fisse delle cerimonie religiose . Non mancarono casi di quasi sante e fondatrici di ordini monastici o di zelantissime al limite di esperienze mistiche dopo un fallito o tragico fidanzamento. Altre aspettavano volenterose per decenni il marito, che qualche volta venne quando erano mature zitelle sui quaranta. Non aveva fatto eccezione alla regola neanche la casa principesca che vantava nel ‘500 una poetessa, Isabella Morra, trucidata dai fratelli perché sorpresa a mantenere una relazione con il signore di un vicino castello. Superfluo precisare che il matrimonio si stringeva per lo più per interesse, pesando quanto apportava il futuro marito o la futura moglie. Erano visti di malocchio e talora mai accettati dai relativi genitori unioni tra figli di famiglie di disuguale fortuna economica. Le famiglie e gli aspiranti al matrimonio erano quindi all’accurata e spesso vana ricerca del partito più conveniente. Il primo esempio che mi viene in mente è quello di donna Marietta, figlia unica di un signore, con bel palazzo su piazza municipio e notevoli proprietà in campagna. Da giovane avrebbe volentieri ceduto a uno dei figli del principe con i quali si lasciò perfino andare a qualche scampagnata. Ricordo davanti al palazzo la decappottabile principesca su cui i due nobili rampolli caricavano ceste di vivande e fiaschi di vino per la gita extra moenia. Ma quello che per la ragazza

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era una fervida aspirazione, che l’aveva indotta a simile azzardato preambolo, per i due giovanotti era una temporanea concessione, essendo per essi inconcepibile l’unione con una non blasonata. Così donna Marietta dopo quella prima grande disillusione restava zitella, ostica ad ogni altra profferta, e con i capelli che già ingiallivano e i baffi che già crescevano. A che pro curare le proprie grazie se il principino dei sogni non bussava alla porta ? Dopo anni qualcuno, però, osò venire a bussare. Si sparse subito in paese la voce che girava per la piazza un aspirante a quella doviziosa mano. Si era perfino saputo che il forestiero , ammesso ad una breve visita di convenienza, era poi stato quasi messo alla porta. Nel pomeriggio, però, l’attempata signorina sarebbe andata a un intrattenimento danzante in casa di un’altra notabile. Se ne aveva voglia, il forestiero poteva parteciparvi. Lei non aveva potuto rifiutare l’invito perché donna Celestina-una già scavezzacollo che aveva scandalizzato il paese mettendosi a cavalcioni sulla ringhiera di un balcone del suo palazzo che dava sulla via e di là chiacchierando disinvolta e con la sigaretta in bocca con un’altra spregiudicata che era tornata par qualche settimana da Roma al natio paesello del padre generale- era ormai se non più saggia, certo molto importante, essendo convolata a nozze nientemeno che con un ammiraglio, che soprintendeva al porto di Salerno. La coppia da qualche tempo in paese nel palazzo del padre di lei rompeva la noia dei giorni uguali organizzando pomeriggi danzanti, cui erano stati invitati anche le ragazze più avvenenti e gli studentelli locali, in mancanza di meglio. L’ammiraglio quel pomeriggio era in borghese, ma se ne era potuta ammirare la pompa, quando qualche giorno prima per impressionare il povero brigadiere che reggeva la caserma dei carabinieri e non era tempestivamente e a di lui favore intervenuto in un litigio con un terzo scoppiato a causa della serva di casa, aveva percorso i quattrocento metri della strada che intercorrevano tra il palazzo e la

caserma in grande uniforme di ammiraglio, tutta lustrini, bottoni dorati e spallette con tanto di fiocchi. Non aveva indossato, almeno per la strada, il grande piumato cappello che portava dignitosamente sotto al braccio: l’avrebbe infilato sul portone della caserma, terrorizzando ancora di più il brigadiere. Questi boriosi militari, cui dopo la seconda guerra mondiale e la sconfitta era rimasto ben poco di che gloriarsi, alla prima occasione tiravano fuori come galletti spennacchiati le loro uniformi per far capire chi fossero stati. Ricordo che il generale di cui ho parlato, quando venne in paese la mia futura suocera olandese- il che fece grande scalpore- per impressionarla con qualcosa di equivalente l’invitò nel suo modesto cosiddetto palazzo rivestendo per l’occasione la sua divisa da parata con tanto di sciarpa azzurra e spadone al fianco. Il poveretto ignorava che mia suocera, che aveva subìto gli orrori della guerra nazista e della persecuzione degli ebrei, non era proprio una ammiratrice della casta militare e le divise bastavano a suscitare in lei fremiti di repulsione, se non di orrore. Quel pomeriggio danzante nella bella sala con il soffitto affrescato e i lampadari accesi benché fosse giorno noi ballerini, durante le pause della musica, sedevamo lungo la parete che faceva fronte ai celebri balconi e quella più piccola che faceva fronte alla grande porta d’ingresso su una ventina di sedie e poltroncine rivestite di velluto rosso. La coppia dei padroni di casa aveva fatto solo un giro di valzer per dar inizio alla festa, poi si erano seduti chiacchierando con questo o con quello, tra gli altri con donna Marietta, che partecipava al ricevimento gradendo qualche rinfresco, ma non ballando. Né ballava il pretendente forestiero : più anziano della sospirata zitella sedeva silenzioso e paziente sulla seconda sedia vicino alla porta. La concupita gli stava di fronte dall’altro lato, ma non lo degnava di uno sguardo. I giovanotti cercavano, ballando più o meno bene, il massimo contatto fisico con i corpi delle ragazze. Io che non ero un gran 30


ballerino saltavo qualche giro e, fissando quel povero cristo del pretendente, ne ebbi pietà e presi posto accanto a lui, intavolando un po’ di conversazione. Seppi ch’era oculista e democristiano, più tardi sarebbe stato addirittura senatoredi quel partito per varie legislature. Finita la festicciola, in cui ognuno aveva avuto la sua parte, i giovani qualche strusciatina con i corpi desiderati, donna Marietta e altre zitelle o signore un po’ di conversazione e molte accurate osservazioni per futuri pettegolezzi sui giovani e i padroni di casa, triste coppia sterile, forse qualche ritorno di giovinezza per la notte successiva. Non erano, difatti, gli unici ad organizzare quelle festicciole. Altre zitelle – Carmelinda di Sauza per esempio- per le quali il matrimonio era ormai un pio desiderio, si rifacevano un po’ di calore e probabile eccitazione mettendo le loro case vuote a disposizione dei giovani, ai cui balli assistevano senza parteciparvi, e forse erano queste le uniche occasioni per tarde guardone di curiosare tra i corpi allacciati dei giovani, uno dei quali, un po’ più furbo, sperimentato o spaccone degli altri, narrava di un suo trucco per mettere in calore le ragazze : introduceva nella brachetta una pallina di legno con cui ballando strofinava accortamente il pube della ragazza che eccetera eccetera. Il matrimonio tra donna Marietta e l’oculista salernitano andò poi felicemente in porto, addirittura in età quasi non più canonica con nascita di più marmocchi.. Ciò non si poteva affermare per zio Luigi, più che scapolo inveterato, difficilissimo e sfortunato ricercatore – e ricercato- di buoni « partiti ». Gli scapoli dalla media borghesia in su vivevano alla men peggio la loro forzata castità, cercando refrigerio di qua e di là e questo valeva pure per le scapole, anche di più bassa estrazione, che coglievano a volo, fosse pure soltanto il richiamo, di qualche uccello di passaggio, cui altre, invece, soggiacevano, facendone una professione. Era il caso della figlia di Fulmenonu.

Non son sicuro della prima parte del nome- Filomen…, ma dell’accrescitivo sì., per la cui desinenza fra il femminile in a ed il maschile in u pencolo per quet’ultima. La donna era di una imponenza tale, e non solo in altezza, che Giunone che spaventava Giove, il quale cercava volentieri altrove forme più snelle e carni più tenere, poteva dirsi sua pari ed anche la grammatica poteva sfiorare la retorica sovrapponendo alle grazie femminili la muscolosa forza maschile. Del resto anche in italiano si faceva di una donna un donnone. Né la maestosa matrona, di cui non sapevo se avesse mai avuto marito, era sulla quarantina insensibile al richiamo del maschio. In occasione della preparazione della guerra fascista contro l’Etiopia, insieme a grandi manovre dell’esercito il paese aveva avuto l’onore di ospitare una tappa del giro ciclistico dell’Irpinia. Eravamo tutti assiepati davanti al municipio, facendo ala dove la strada di terra battuta terminava e cominciava il selciato della piazza. Per terra una grossa striscia bianca di calce segnava il traguardo. Arrivano, non arrivano, si sentiva già qualche grido di chi si era appostato su monte Calvario. Fulmenonu in prima fila si sporgeva tutta nell’attesa spasmodica, mettendo in avanti due mammelloni da far paura a un reggimento. Finalmente in un nugolo di polvere arrivò il plotone dei primi ciclisti, da cui con un ultimo scatto si staccò il vincitore, che, tagliato il traguardo, scese o fu fatto scendere dai tifosi dalla bicicletta. Era un giovanottone nerboruto, di cui Fulmenonu tifosissima cercò subito le cosce scattanti, sudate e pelose, fissando lo sguardo all’inguine dove risaltava, magnificato dalla maglia aderente dei calzoncini corti, un ben di dio che parve spropositato. Il donnone non stava più in sé, a gomitate si fece largo tra gli astanti e andò come magnetizzata ad abbracciare il vincitore. Asciugandosi le lagrime commentava poi ad alta voce l’apparizione fra di noi di quell’arcangelo.

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In paese lei non godeva della fama di una santa e meno ancora ne godeva la figlia. Costei aveva ereditato dalla madre le forme abbondanti, aggraziate, però, e ridotte in formosa misura, cui la ventina o giù di lì conferiva colori e splendori di una bella carnagione, che però come su una pesca troppo maneggiata lasciava apparire qua e là i segni di una incipiente usura.. La signorina, seminando il subbuglio tra i maschi quando si affacciava al balcone di casa, veniva talvolta in paese dal capoluogo della provincia dove si mormorava che esercitasse un certo mestiere. Vero, semivero o falso che fosse, qualcuno giurava di esserci stato e garantiva la liberalità della fanciulla, decantandone le intime grazie. La stessa guardia scontrosa che la madre faceva di lei durante i brevi soggiorni in paese, come di chi voglia nascondere qualcosa ed evitare qualche scapataggine in loco della figlia, alimentavano queste voci. Seppi così dell’esistenza di tali case e dell’attività di tali donne, che nell’esercizio ufficiale di libere professioniste potevano ricavare soddisfazioni almeno pecuniarie, inconcepibili in paese, dove si costatava solo qualche caso e per di più gratuito o quasi. Ora mi rodeva un dubbio atroce che riguardava mio padre, ricordando quanto mi aveva detto Carminucciu lu Visiu. Era forse stato indotto dal citato signorotto a visitare una casa di questo tipo, contraendovi la malattia che l’aveva ridotto nelle pietose condizioni che conoscevo ? Affrontando l’argomento sulle generali, chiesi se fosse al corrente dell’esistenza delle case chiuse. Rispose affermativamente. Oltretutto aveva partecipato alla prima guerra mondiale e si sa come l’esercito sopperiva ai bisogni sessuali dei soldati, se non al fronte, nelle retrovie e durante i pochi giorni di congedo. Quando, però, gli menzionai le malattie che in tali frequentazioni si potevano contrarre, notai un suo fastidio a parlar di simili cose, perché tagliò corto uscendo in giardino e seguendo tra il fogliame del giovane ippocastano i salti di due cince alla ricerca d’insetti. Colpito dalla

loro vivacità e dai loro colori, « Non conosco questi uccelli, da noi non c’erano « , disse. « Qui sono molto comuni e figùrati che fanno i nidi anche nelle buche per le lettere. Durante la costruzione della casa, una coppia lo fece nel vuoto di un mattone del muretto di fronte, vicino alla portafinestra » , aggiunsi. In paese comunissimi erano i passeri sui tetti dove nidificavano sotto i tegoli al limite della grondaia. Noi vi salivamo con una scala per prendere i piccoli, con cui giocavamo imbeccandoli, ma che pure mangiavamo saltati in padella. C’erano meno frequenti i cardellini, così variopinti e canterini e che facevano il nido sulle acacie basse, dove potevamo osservarli. C’erano i merli in campagna, di cui andavamo a caccia, scoprendo i nidi tra i cespugli e sugli alberi. Scoperto un nido dopo appostamento e seguendo il volo dei genitori che portavano da beccare ai piccoli o del compagno che si recava dalla compagna in cova e di cui si vedeva il capino nero che ogni tanto si muoveva al margine del nido, seguivamo la crescita dei piccoli per due settimane circa con visite giornaliere.Quando ritenevamo che la crescita fosse a buon punto, coglievamo il momento opportuno per saltare sul nido e catturare la nidiata, servendoci anche della coppola per sbarrare ogni via di fuga ai poveretti. Una volta arrampicatomi su un albero, quando vidi nel nido una massa nera agitarsi, pensando che fosse la nidiata al completo con la madre, allungai la mano rapidissimo ; più rapida di me una biscia guizzò via dal nido vuoto dove aveva consumato il pasto. Fu tale lo spavento che, perduto l’equilibrio, caddi dall’albero come una pera secca. Il salto di più metri, comprimendomi il petto, mi tolse il respiro : restai così boccheggiante un buon minuto senza poter respirare. Ciò valse a incrementare in me la paura dei serpenti che conservai per tutta la vita. I ciaràuli, come li chiamava mia madre in dialetto- che poi era per certi termini più vicino dell’italiano al latino e al greco- benché 32


innocui, impressionavano per le dimensioni e il color nero. Erano comuni in campagna, uno, anzi, ci visitò perfino in casa. Un pomeriggio d’estate , stando a letto nella camera di dietro ch’era più fresca di quella col balcone, vidi nella crepa che si apriva nel muro a un metro circa dalla finestra con l’inferriata un serpentaccio nero entrare dalla finestra e alle mie grida scomparire nella crepa. Veniva dall’orto di mastro Giovanni. Accorsero mia madre e mia sorella che salendo sulle sedie versarono un paio di secchi d’acqua nella crepa. Bagnato e spaventato a sua volta il rettile prese la via del ritorno e noi chiudemmo i vetri, sperando che la bestiaccia non si facesse più viva. Con gli uccelli, dunque, ci giocavamo. A casa non ne avevamo in gabbia a causa più che altro dei gatti che se li sarebbero mangiati. Credo che una volta zio Luigi avesse una gabbia in casa sua.con un merlo o cardellino, non ricordo ricordo, forse ambedue, in tempi diversi. Ci divertivamo a imbeccarli con semetti di scagliola. Non era raro vedere in paese appese ai muri anche esterni delle case o sui balconi le gabbie con gli uccelli canterini. Vedere in cielo la formazione a freccia e ascoltare il canto che ci arrivava fievole come un’eco delle gru di passaggio era grande sorpresa, come di un miracolo. Delle rondini osservare il ritorno isolato – la prima rondine !- e poi a gruppetti, assistere alla loro presa di alloggio nei vecchi nidi o seguire la costruzione dei nuovi con quelle arricciate piccole sporgenze beccata a beccata di fango- e dovevano volar lontano per trovarlo, forse fino all’Isca e all’Ofanto-, spiare la testina nera della madre nell’apertura ad occhio del nido mentre covava o i becchi rosei spalancati dei rondinotti che chiedevano il cibo era uno spettacolo che si ripeteva ogni primavera e ci eccitava. Sul balcone sotto la grondaia c’erano vari nidi e la curiosità crudele ci induceva anche a sfruguliare il nido per far cadere i piccoli o catturare la madre. A settembre poi c’era la partenza. Un bel mattino i fili della linea elettrica erano neri di

rondini in bell’ordine, l’una accanto all’altra, quasi si fossero dato appuntamento. Restavano qualche tempo e quando l’ora per esse era suonata szfrum szfrum e via a stormo in aria per andare lontano. Addio, rondini ! I rondoni erano più problematici. Intanto ci meravigliavano con i loro voli rapidissimi, radenti. Un posto d’osservazione privilegiato era il piccolo spiazzo davanti a casa Gargani. Venendo dall’alto i rondoni ci piombavano quasi sulla testa e s’ingolfavano nel vuoto della discesa della Rampa al corso, sfrecciando- se ne udiva il sibilo come di pallottole- verso i tetti delle case sottostanti e poi nel cielo azzurro verso Sant’Angelo o Nusco. Si diceva di essi che non potessero posarsi per terra, ma solo sui tegoli dei tetti , da cui uscendo prendevano il volo. Se fossero caduti, erano fritti perché non potevano più riprenderlo. Un giorno don Pietro De Rogatis me ne portò uno, catturato in un suo casino in campagna. Dopo averlo tenuto per qualche tempo al caldo tra petto e camicia, gli legai con lo spago una zampa e via a farlo svolazzare al guinzaglio di qua e di là. Il gioco , tra la meraviglia di ragazzi e ragazze, durò tutto il giorno. A sera tentai di nutrirlo con briciole di pane, che non volle ingoiare. Gli feci passare la notte sotto un recipiente di legno e la mattina seguente ricominciai la corsa dietro i suoi svolazzamenti. Alla fine, non so se per mia stanchezza o rimprovero degli adulti, gli sciolsi lo spago e lo lanciai in aria dallo spiazzo Gargani. Fece un giro maldestro in aria, poi si posò sugli embrici della casa di compare Peppe De Rogatis. Tentai inutilmente di seguirne la sorte : il rondone si era acquattato sotto un tegolo o era morto. D’inverno era più facile acchiappare gli uccelli. Si comprava una piccola tagliola, la si caricava, come si diceva in gergo tecnico, badando a non farla scattare imprigionando le dita poi livide e doloranti. Sul fermo a punta non si metteva niente come invece si faceva con un pezzo di formaggio su quello delle più grandi per i topi, perché sul terreno dove le si disponeva appena appena coperte 33


di un leggero strato di neve, per farle scattare dovevano bastare i pochi chicchi di grano, sparsi intorno per richiamare i volatili, in genere passeri, talvolta pettirossi e merli. Qualcuno più grandicello di me e che si faceva passare per esperto dispose una o due volte una pesante tavola, inclinata di due terzi e retta da uno zippu o rametto, attorno al quale c’erano i soliti chicchi di grano e di granone- questi con i loro colori risaltando di più sulla neve avrebbero dovuto attirar meglio gli uccelli-. Quando le bestioline saltellando urtavano lu zippu, la tavola cadendo avrebbe dovuto catturarne una dozzina. Ma fosse che il marchingegno non funzionasse, fosse per pietà verso le povere creature che la tavola cadendo schiacciava a metà, quel sistema di cattura fu presto da noi ignorato. Provavamo pietà per gli animali o ce ne servivamo con indifferenza e crudeltà ? Il problema non si poneva né per i bambini, né per gli adulti. Vivendo a contatto con gli animali, che si allevavano affinché ce ne servissimo, questi erano trattati secondo tali esigenze. Se per i piccoli essi erano a volte oggetto di divertimento o compagnia, per i grandi erano solo oggetto di sfruttamento. Non che li si maltrattasse per principio, anzi molte volte erano trattati bene e perfino amorevolmente, ma lo scopo finale era sempre quello di servirsene per cibo o per lavoro. Anche il cane da caccia non era animale di compagnia, per lo meno nelle intenzioni, anche se poi qualche volta finiva per esserlo a causa della poca cacciagione in giro per la campagna. Gli animali domestici, maiali, polli, conigli, piccioni, erano nutriti e ingrassati con cura non per amore, ma per interesse. Giunti a maturità od opportuni per tale e tale bisogno della famiglia erano ammazzati senza rimorsi, non incrudelendo espressamente, ma senza tanti riguardi. Si assisteva, quindi, alla morte del maiale se non proprio come a una festa, certo come ad un avvenimento importante dell’anno. Due o tre uomini saltavano sulla bestia ch’era stata fatta cadere tirando con una fune i piedi e, mentre essi la tenevano ferma

e questa urlava ai quattro venti, il macellaio o uno della famiglia affondava il coltellaccio nel basso del collo, mirando a raggiungere il cuore. Dopo tre o quattro strattoni e rantoli il sacrificio era compiuto e si passava alle fasi seguenti. Noi assistevamo un po’ trepidanti a quella quasi cerimonia e al suo ulteriore svolgimento. Per i polli il rito era più sbrigativo. Mia madre teneva il volatile fermo fra le ginocchia, ne allungava collo e testa verso un ceppo e tac con un colpo di mannaia la testa schizzava via. Si badava, mettendo una scodella accanto al ceppo, a che il sangue non si perdesse per terra. Quest’ultima manovra era spesso compito di noi bambini. che contribuivamo anche alla spennatura dopo che l’animale era stato calato nell’acqua bollente, non però alla bruciacchiatura degli ultimi resti di peli e penne. Per i conigli il nostro compito si limitava, dopo che erano usciti dalle tane, che avevano scavato nelle roccia incongrua della stalla, sollecitati dal fascio di rami verdi di acacia o altre erbe ( si ricordava mio padre che una delle sue poche prestazioni era quella di staccare i rami bassi delle acacie lungo la strada che dal paese portava alla stazione ferroviaria ? ) , a saltare al momento opportuno, mentre brucavano, addosso a qualcuno, acchiappandolo per le orecchie o la coda. Per i piccioni casalinghi la natura aveva predisposto un genere di morte più rapido : mia madre premeva forte col pollice sull’incavatura al sommo della testa e la fine era immediata. Non c’era, dunque, nella società e civiltà contadina troppo posto per la sensiblerie tutta cittadina di chi gli animali se li mangia , ma non vuole ricordare che per ciò devono pur essere uccisi ed ignora come. A questo si aggiunga una differenza tra paesi mediterranei e paesi nordici. Ricordo sempre i tedeschi che rinfacciavano agli italiani di ammazzare i poveri uccelli, che per essi erano poi tutti canterini –

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Singvögel- e in particolare due episodi di questo smodato amore per gli animali. Andando a passeggio nell’Englischer Garten di Monaco di Baviera con un mio figlioletto bello e carino come spesso i bambini a quell’età, le vecchiette sedute sui banchi a prendere il sole ci lasciavano passare senza degnarci di uno sguardo. Se, però, passava un cagnolino, si alzavano svelte e « Che bellino ! Come si chiama ? Ce lo lasci accarezzare. » C’era una cognata di mia moglie, cittadina trasferitasi in montagna dopo la guerra. Non le si poteva entrare in casa senza essere circondati da cinque o sei cani di tutte le razze. Evitavamo di sederci per non coprirci di peli, da cui erano invase sedie e poltrone. Sui prati della fattoria brucavano allegramente vacche e vitelli : ognuno aveva un nomignolo ed era escluso che potessero esser venduti e mandati al macello. Per metter fine a quel giardino zoologico il fattore dovette di notte far caricare le bestie su un camion e portarle via se non tutte, almeno una parte. Al mattino apriti cielo, pianti e strida come per un lutto familiare. Quando i rimproveri per la crudeltà degli italiani andavano oltre certi limiti e ai protestatari non bastavano le spiegazioni di usi e costumi diversi che tentavo di dar loro, perdevo la pazienza e sbottavo : « Meglio maltrattare gli animali che mandare uomini, donne e bambini nelle camere a gas dei campi di concentramento. » Nei decenni successivi questa brava gente del nord si sarebbe dedicata con particolare impegno e successo alla pratica della inseminazione artificiale. La voglia di migliorare le razze era dovuta certo a un bisogno eugenetico, ma l’interesse predominava : razza migliore, miglior rendimento. Che per questo fosse necessario privare i poveri animali di uno dei pochi piaceri che la natura loro riserva non creava nessun problema e non dava alcun rimorso a questi sfruttatori. Così il povero toro o stallone doveva montare una vacca o cavalla meccanica, ingannato da natiche e vulva artificiali.

Non si arrivava neanche alla penetrazione perché una specie di bottiglia raccoglieva prima lo sperma , che poi lavorato e selezionato avrebbe dato milioni e milioni di spermatozoi, alcuni dei quali erano introdotti nella vagina della femmina. Così dalle eiaculazioni di un solo toro o stallone di particolare potenza sarebbero state fecondate centinaia di migliaia di femmine. Non era questo un impoverimento genetico e forse una degradazione del gusto di latte e carni della progenie ? Ricordo l’incontro che una volta feci in treno con un emigrante italiano che tornava al suo paese per la Pasqua. Attraversando le Ardenne e alla vista di tante mandrie che pascolavano o riposavano sui prati, mi precisò che lui non mangiava mai carne , contentandosi dei salumi e dei prosciutti che si portava dall’Italia. « Guarda, guarda : quelle bestie con tanta pioggia e tanto freddo sono tutte reumatiche e io non voglio correr rischi : carne reumatica non ne mangio. » Reumatismi a parte, la crudeltà dei selezionatori non conosceva limiti. Avevano inventato anche una specie di mutandone di plastica che fissavano sulla vacca, lasciando libera solo la zone vulvare. Il toro era incoraggiato alla monta fiutando la vacca in calore. Ma qui si limitava la più che interessata concessione fatta al suo istinto sessuale. Aveva appena fiutato la vulva e montato la vacca che l’allevatore tempestivamente chiudeva la porta della beatitudine impedendo la penetrazione e raccogliendo lo sperma della eiaculazione nella solita bottiglia, con quale frustrazione di montatore e montata si può immaginare. E siccome una ciliegia invita ad altra ciliegia, non mi aveva detto una donna piuttosto libertina :« Mostrartela e, peggio, fartela annusare senza poi dartela è il colmo della crudeltà ed io voglio essere comprensiva, ma non crudele » ? In paese e nella campagna da noi le bestie in calore ricevevano qualche bastonata- specie gli asini che incontrando una loro bella o 35


brutta cominciavano a ragliare con le froge tutte vibranti e non volevano avanzare o correvano furiosi secondo che la comare fosse loro a fianco o davanti, spronandosi alla sperata impresa con fallo lungo e turgido che sbattevano contro la pancia quasi suonassero i tamburi dell’assalto-, erano però regolarmente condotte alla monta, che avveniva secondo le regole di madre natura. Anch’io una volta potei assistervi, accompagnando zio Luigi, e credo fosse per la cavalla che poi partorì una bella stacca, come da noi si chiamavano le eleganti cavalline e le ragazze graziose, né queste ultime pretendevano, come le future arrabbiate femministe , di fare a meno dei maschi, sognando l’inseminazione e perfino l’allevamento in vitro. Le cince mi avevano portato lontano, nei ricordi paesani e non paesani, di allora e di poi. Temetti per troppo ricordare di avere un po’ trascurato mio padre. Per riallacciare la conversazione gli chiesi : « Ricordi zio Luigi ? « « Se lo ricordo, eccome ! » Volevo un po’ indagare quale fosse la natura dei loro rapporti. Dalle sue risposte potei ricavare che fu di dipendenza, di ostilità e perfino di gelosia. « Di gelosia ? » « Di gelosia. Ora non ti preciso. Quando avrai riflettuto sui rapporti con lui di te e del resto della famiglia, sarai tu stesso a mettermi al corrente di qualcosa che sospettavo, ma non sapevo con precisione. » « Ed ora lo sai o lo sospetti solamente ? » « Devo riflettere con te per spiegarmi tutto e uscire da questa specie di nebbia del presentimento. » « Ma perché ? Tu pensi e presagisci quello che io penso, presagisco e so dai miei ricordi ? ». « Ti ho già detto che io penso e ricordo perché tu pensi e ricordi. Fuori dai tuoi pensieri e ricordi io non esisto né vivo, né morto. » « Ma allora, se esisti solo in questo modo, con chi sto parlando ? Parlo forse con me stesso ? E ricordando esisto soltanto io od esistono anche gli altri che ricordo ? Voglio dire, tutto quanto sta succedendo ora è una specie di fiction in cui vita e morte si mescolano ed io son morto con te e tu

sei vivo con me ? » « Se non lo sai bene tu, figùrati se lo so bene io. » Allora, zio Luigi. Della famiglia di mia madre lui fu il membro con cui più a lungo e più intensamente avemmo a che fare. La famiglia, intanto. Gli Zuccardi erano ricchi possidenti, di cui restano tracce nella storia locale soprattutto all’epoca del brigantaggio subito dopo la conquista del regno di Napoli da parte di Garibaldi. Il paese si divise in due fazioni, quella filoborbonica e quella nazionale. Come sempre la politica con la maiuscola si riduceva a livello locale a lotta tra famiglie o gruppi di famiglie. I filoborbonici avevano il loro punto di riferimento nei De Paula, più che possidenti medioborghesi, la cui fortuna ed influsso erano dovuti ad una catena ininterrotta di medici e farmacisti. I nazionali facevano capo ai Molinari, famiglia di recente impianto nel paese-venivano da Serino- che dal commercio delle scarpe erano man mano sorti ad altro livello abbracciando la causa di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Presto con incarichi politicisindaco- e militari- capo della guardia nazionale- e intrighi e manipolazioni elettorali- specie grazie a un prete, il celebre don Marino-, si erano conquistata la guida del paese. Inutile dire che la fortuna politica fu anche fortuna economica con possesso di terre, masserie e due palazzi tra gli importanti, se non i più importanti, del paese.La rivalità fra i vecchi morresi- De Paula- e i nuovi- Molinarinon impediva rapporti incrociati con matrimoni fra di essi. Il brigantaggio degli anni 1860 aveva radici profonde e trovava fertile terreno di accoglienza per le disastrose condizioni economiche della gente. Fu un fenomeno macroscopico di malavita con bande che potevano anche superare i cento uomini, che scorazzavano a man salva per quei paesi ammazzando, incendiando, rubando e taglieggiando. Il governo e le autorità locali cercarono di combatterlo impiegando esercito, polizia e milizie locali, sì che si aveva l’impressione di esser presi tra due fuochi, quello dei 36


malviventi i e quello di un esercito d’invasione da guerra di conquista coloniale. Gli Zuccardi si trovarono loro malgrado al centro di queste scaramucce e battaglie. La famiglia di origine contadina si era stabilita in paese attorno alla piazza San Rocco, ma possedeva tra l’altro una grande masseria in contrada Selvapiana. Al mio tempo la masseria era divisa fra i.tre rami della famiglia, come lo erano le case a San Rocco. Essa consisteva in un corpo centrale – di zio Nicola e poi di zio Giovannie di due corpi laterali – uno di don Emidio e poi figli- e uno di zio Luigi. Questi corpi laterali spiccavano sul corpo centrale perché erano sormontati da un secondo piano a torre piccionaria. I due corpi erano speculari e ciascuno consisteva di due vani a pianterreno, due vani al primo piano, cui si accedeva per una scala esterna, e la torre. Il corpo centrale aveva due vani a pianterreno e due vani al primo piano. Il corpo laterale di zio Luigi, fratelli e sorelle aveva inoltre di fronte, a una ventina di metri, una cucina con attiguo forno e una cappella. con piccolo altare di legno e piccola campana sul tetto. Dietro all’imponente casino c’erano altri annessi di proprietà di un ramo secondario degli Zuccardi rimasti sul posto come piccoli contadini e i cui discendenti emigrati in Argentina avrebbero là avuto grande successo, tra l’altro con famosi vigneti a Mendoza. A poche centinaia di metri dal casino c’era una fontana da cui si attingeva l’acqua da bere, con relativo abbeveratoio per gli animali, e che irrigava anche l’orto, suddiviso in tre parti come il resto, di cui ricordo un gelso bianco, sul quale mi arrampicavo per cogliere le gelse zuccherine, con in più tra piante di peperoni, pomodori e zucche serpentine una vera e favoleggiata serpe : l’avrei osservata mentre incantava un uccello che a spire sempre più piccole e cantando atterrito le scendeva nelle fauci spalancate per essere

divorato ! Dei miei soggiorni estivi a Selvapiana parlerò più avanti, per ora torniamo ai briganti. Il casino Zuccardi dominava da un’altura pianeggiante tutta a granaglie tre valli, quelle dell’Isca e della Sarda sui lati e quella dell’Ofanto di fronte, verso le quali degradando scendevano altri terreni a bosco, particolarmente denso quello di Castiglione sull’Isca. La contrada era punto naturale di passaggio sia per chi da Guardia discendeva per Formicoso, Cervino e Castiglione recandosi da Vallata e Bisaccia a Conza e Pescopagano- era la cosiddetta Capostrada di origine romana- sia per chi seguendo la valle dell’Ofanto si recava da Nusco, Sant’Angelo e Lioni a Conza, Cairano, Calitri ed il Vulture con i fitti boschi di Monticchio, rifugio deputato dei briganti come il bosco di Castiglione. A prescindere da un Angelo Antonio Zuccardi che l’amore eccessivo del vino rendeva aggressivo e filoborbonico- aveva gridato «Si fotte Garibaldi , viva sempre Francesco » quando dalle vicine botteghe di palazzo Donatelli arrivavano gli echi dei nuovi inni patriottici di chi festeggiava l’impresa garibaldina, prendendosi inoltre qualche coltellata dal futuro brigante Porciello, con cui era venuto a diverbio per motivi politici- , gli Zuccardi erano politicamente agnostici.. Erano, però, nella mira dei briganti per la loro ricchezza e per la famosa masseria di Selvapiana. Nel 1862 c’era scappato anche un morto, Michelangelo Zuccardi, spacciato a colpi di stilo perché non aveva avvertito i malfattori dell’arrivo in paese di un plotone di regia fanteria.I briganti esigevano dai malcapitati non solo vitto, alloggio, bestiame, cavalcature eccetera, ma anche soffiate di eventuali rischi con le forze dell’ordine. Il brigantaggio poteva fiorire solo se trovava complici tra gli abitanti e per converso l’eradicazione del male era affidata, oltre che alla repressione militare diretta, alla collaborazione volontaria o forzata della popolazione, che doveva negare qualsiasi appoggio diretto, vitto, alloggio eccetera, ma anche indiretto ai malviventi, 37


informando i militari delle loro mosse. Per bloccare l’eventuale collaborazione tra popolazione e briganti si giunse perfino a ordinare la chiusura e muratura delle masserie e il trasloco dei contadini dalla campagna in paese, misura inapplicabile e inapplicata se si pensa che su 2780 abitanti nel 1851 Morra contava 2200 in paese e il resto in campagna. Dei primi buona parte era pendolare, lavorava cioè in campagna e rientrava nell’abitato la sera. Tutti i metodi erano buoni per evadere l’obbligo della collaborazione con le autorità. Così in un casino Molinari, poi dato alle fiamme dai briganti, li si ospitava, dando loro via libera con una lampada accesa e, in caso di avvistamento di militari, nascondendoli in una grande botte vuota a doppio fondo, davanti alla quale si metteva una caraffa piena di vino spargendone un po’ per terra per dare l’impressione ch’era stato spillato di recente. Né i briganti si limitavano ad esecuzioni feroci dei collaboratori di giustizia. Per vendicarsi di uno dei loro ucciso in uno scontro con i militari, i briganti tagliarono i fili del telegrafo tra Sant’Angelo e Melfi e poi i guardafili che dovevano riparare la linea furono catturati, denudati e rispediti in paese con la sola camicia. Un altro brigante, Ferdinando Consigliero, abitava in paese e si spostava di notte in campagna per malversazioni con altri complici. Per non esser riconosciuto si era confezionata una maschera : dalla coppola pendevano brandelli di stoffa che gli coprivano il viso, completati da finti baffi fatti con peli di capra. Se i briganti scherzavano poco, anche le forze dell’ordine non andavano troppo per il sottile : il minimo sospetto e via in carcere ; la cattura in uno scontro a fuoco e subito passati per le armi. Se poi tra essi c’erano delle donne, all’esecuzione si aggiungeva il vituperio, sottolineandone i capelli rossi- rosso malpelo- e la soddisfazione da parte loro delle pravi passioni sessuali dei malviventi. I cadaveri seminudi erano esposti al ludibrio della soldatesca ed anche fotografati e sì che quelle poverette ora a tette

scoperte avevano valorosamente affrontato il nemico con due pistole in pugno ! Nella famiglia Zuccardi ai tempi miei non si parlava più dei morti, degli imprigionamenti, delle esecuzioni sommarie nella cappella di Selvapiana sia da parte dei briganti che delle guardie regie ; si ricordava invece il rapimento del sacerdote Vincenzo e di suo fratello Angelo nel 1863. Di don Vincenzo la famiglia possedeva ancora la casa nelle Pagliare. Il sottano era adibito a deposito di fieno e legna, il primo piano era vuoto : nelle due stanze alitava un sentore di muffa e di abbandono. E di paura. Il prete era morto nel ’69, la vigilia di Natale, di una malattia misteriosa, almeno per noi ragazzi, forse tisi. In un vecchio cassettone , che osavo aprire per curiosità quando zio Luigi era al pianterreno, c’erano alcuni libri e strane boccette e fiale di medicine, che mi guardavo bene dal toccare per paura di contrarre il morbo misterioso. Perché poi l’ambiente fosse rimasto intatto, come se la morte fosse accaduta qualche giorno prima, non si aveva una spiegazione. Di affittare i locali non se ne parlava, probabilmente per l’alone di paura che ancora regnava in quel luogo. Ma don Vincenzo era celebre, più che per la sua morte precoce, per l’avventura che aveva vissuto con i briganti. Fattolo prigioniero, costoro fecero sapere alla famiglia che volevano un oneroso riscatto. La famiglia tardava a soddisfare la richiesta e allora un bel giorno alla curva antistante la vigna ora di don Emidio un brigante lasciò una missiva con uno strano involto : si chiedeva la consegna di un chilo d’oro e per rafforzare la richiesta si allegava un orecchio dello zio con l’avvertimento « Se non pagate, la prossima volta invece dell’orecchio troverete la testa « . Mia madre ricordava ancora il racconto fattole dell’eccitata disperazione della famiglia. Tutti furono messi a contribuzione, ognuno fu spogliato del minimo oggetto in quel metallo prezioso. Il chilo d’oro fu deposto nello

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stesso luogo del ritrovamento dell’orecchio e poco dopo don Vincenzo e il fratello furono liberati. Quando da ragazzo passavo per la famigerata curva, affrettavo il passo ed avevo i brividi, temendo l’apparire dei briganti, il che non m’impediva di scavalcare a pochi metri di lì il cancello della vigna di don Emidio per staccare qualche pigna di una certa uva bianca di cui ero ghiotto. Come le case a San Rocco e il casino a Selvapiana, anche le vigne vicine alla suddetta curva erano state divise fra i tre rami degli Zuccardi. Zio Nicola aveva solo due piccole porche, zio Luigi e don Emidio più del triplo. Il primo vigneto quasi abbandonato non suscitava il nostro interesse, quello di zio Luigi era di famiglia e quindi fin troppo a noi noto, il terzo aveva un po’ l’attrazione del frutto proibito, anche perché in corrispondenza del cancello s’inarcava una bella e lunga pergola che ci faceva gola con i suoi grappoli dorati, ma forse anche con la graziosa e signorile configurazione. E’ ora il momento di chiarire un po’ un aspetto anche linguistico dei rapporti fra i tre rami della famiglia. Era escluso che noi potessimo chiamare zio don Emidio ; era permesso che esitassimo fra don e zio per don Nicola ; non ci passava neanche per la testa di chiamare don zio Luigi. Il don in famiglia era riservato ai sacerdoti e a quel ramo che si era in parte distaccato dalle condizioni economiche e sociali degli altri due rami. Don Emidio aveva un figlio professore, un altro impiegato bancario a Napoli prima che emigrasse in Brasile , un fratello sacerdote e professore a Napoli, don Raffaele, e una sorella che accudiva don Raffaele dopo aver allevato i figli di don Emidio vedovo. Costei era donna Maria, detta però comunemente la Zia, date le sue precipue funzioni. Don Raffaele compariva di tanto in tanto in paese, aveva gli occhiali cerchiati d’oro e non portava l’abito talare. Organizzava, anzi, un balletto settimanale a Napoli nel suo bell’appartamento di via

Chiatamone : le danze erano rallegrate da numerose fanciulle della borghesia e don Raffaele si lasciava volentieri andare a più di una giravolta con esse, controllato, però, dalla vigile Zia, che predicava anche a chi non voleva sentirla che lei doveva occuparsi della virtù del fratello. Zio o don Nicola era fratello del nostro nonno materno e suo figlio, zio e più don Giovanni ( sottinteso fra l’ironico, il divertito e lo scandalistico ) era cugino diretto di mamma. Don Emidio, invece, era cugino del nonno e quindi nostro prozio. Benché ai miei tempi anche noi avessimo in famiglia un sacerdote, don Luigi, fratello di nonna Caterina, e un religioso redentorista, padre Schiavone, cronista di quella congregazione, non eravamo pervenuti a raggiungere la posizione del don per zio Luigi, detto anche dagli estranei Luigi e perfino Luigino. Solo qualche rarissima volta avevo sentito un parziunalu chiamarlo don Luigi. Il prete e il religioso, parenti di nonna Caterina, erano per giunta di Cairano e quindi non potevano neanche di riflesso influire su un eventuale don per il nipote a Morra. Don Luigi di Cairano visitava la nonna di tanto in tanto ed immutabile era la cerimonia di accoglienza da parte sua di noi bambini. Ci convocava in cucina e seduto accanto al focolare faceva di nascosto rotolare una moneta d’argento di cinque lire sul pavimento. « Guarda, guarda, cos’è che si muove ? » Così passavamo per ordine l’uno dopo l’altro mio fratello, mia sorella ed io, correndo ognuno dietro alla sua moneta, che per l’epoca era un piccolo capitale. Tutti i notabili del paese e i professionisti- maestri. avvocati, medici, farmacisti, ufficiale postale eccetera- avevano diritto al don e per noi era impensabile chiamarli diversamente. Il don si estendeva anche alle relative mogli e ai figli, che erano quindi tutti donna e don. Soffriva zio Luigi di questa amputazione ? Non credo, anche perché la linea di spartiacque era quanto mai esile. Don Nicola e don 39


Giovanni vi pretendevano perché avevano conservato integra la loro proprietà, essendo figli unici. La famiglia di mia madre, invece, doveva fare i conti con ben sei figli. Cos’era allora quella proprietà frantumata ? « Come farete a mantenervi ? « era difatti il rimprovero rivolto da un cugino all’altro. E per mantenersi tre dei sei figli erano emigrati, uno era caduto in guerra ed in paese erano rimasti mia madre e zio Luigi, che era riuscito a mantenere intatta la proprietà, di cui era se non l’unico avente diritto, l’amministratore unico. Con i fratelli, uno negli Stati Uniti e l’altro in Colombia, e con la sorella in Argentina aveva risolto il ploblema con le procure, documenti che l’autorizzavano a far quello che voleva , eccetto la vendita. E lui contava su un non ritorno degli emigrati e figli, come difatti avvenne con zio Peppino e zia Rosalba, non però con zio Ciccillo. Con mia madre il problema era più semplice e più complicato : lei era sul posto e con lei poteva di volta in volta mettersi d’accordo, anche se per la situazione disastrata della famiglia noi avevamo poco da dire e molto da chiedere per campare alla men peggio. A prescindere dai problemi affettivi, si creò quindi un rapporto di semidipendenza, meglio risolto finché visse nonna Caterina, più complicato dopo e complicatissimo alla fine quando lo zio prese moglie. I notabili possidenti, che in un modo o nell’altro avevano instaurato il maggiorascato, erano in situazioni catastrofiche : cioè il matrimonio di uno dei figli maschi non avvenne, non ci fu discendenza e alla fine tutto andò nelle mani di nipoti e pronipoti paesani e forestieri. C’erano famiglie con la vecchia madre e due figli scapoli o sterili, altre con figli e figlia nubili in paese e un figlio sposato e con prole fuori paese, altre con un solo figlio o figlia sposati , ma sterili. Nel giro di due generazioni quasi tutte queste famiglie si autoestinsero. A questo esaurimento genetico si aggiunse poi il declino economico quando con la massiccia emigrazione di contadini e braccianti nella

Svizzera dopo la seconda guerra mondiale venne meno la forza lavoro : le terre man mano non furono più coltivate e quel poco che da esse ancora si ricavava bastava a malapena a sfamare questi sparuti signori, che bestemmiando e torcendosi le mani – mani che da generazioni non erano più atte al lavoro della terra-vedevano la loro posizione dominante traballare e per tirare avanti erano costretti a vendere pezzo dopo pezzo , vano dopo vano le loro proprietà, spesso a quegli stessi cafoni che avevano conculcato e sfruttato e che ora con i soldi risparmiati all’estero erano in grado di comprare le proprietà su cui i loro antenati erano vissuti da servi della gleba. Questo fenomeno economico ai miei tempi non era neanche immaginabile, mentre quello genetico era sotto gli occhi di tutti. Il don , quindi, poteva ancora salvarsi per quel che riguardava i pochi professionisti, per gli altri era in stato comatoso. I Del Buono, per esempio, erano rappresentati dalla vecchia moglie del farmacista sordo, che stava per abbandonare l’esercizio della professione, e dal fratello don Antonino, che passava la giornata tra i fumi del vino. Chi aveva ottenuto un titolo accademico- e Dio sa come- non esercitava la professione, preferendo fare il signore, cioè amministrare la proprietà. Qualche altro che la esercitava e con successo- per esempio quella di agrimensore – preferiva vivere di amori ancillari, lasciando a famelici nipoti la speranza di ereditare quanto veniva accumulando. Qualche altro con un solo figlio subiva il disappunto di vederlo così estraneo agli affari e ai piaceri della vita che, pur sposandosi, non aveva dato eredi al padre, un omone bonario anche se fisicamente ingombrante. Di lui si raccontava che, avendo mandato il figlio inetto a Napoli con un buon gruzzolo affinché si divertisse, se lo vide dopo qualche giorno tornare in paese con il gruzzolo intatto, anzi aumentato, dicevano i più maligni. Così don Peppe Donatelli sedeva accanto all’ingresso del suo palazzo in piazza, attaccando vivacemente bottone con i passanti, ragazzi compresi, e nonostante la sua mole montava a cavallo per andare in 40


campagna a controllare i parziunali, mentre del figlio don Mimì ricordo in anni successivi le lunghe sedute nella stanzetta del soggiorno che dava sulla piazza e, se la finestra era aperta, si poteva sentire il vocione del prete che là passava ore intere concionando tra la pallida moglie di don Mimì e qualche altra comare e, se era chiusa, lo si poteva veder gesticolare, mentre il suo ospite andava avanti e indietro neanche ascoltandolo. Don Mimì che così oziosamente portava avanti gli anni era famoso perché sapeva tutto di tutti nei minimi dettagli, anche delle generazioni passate, e chi volesse sapere come si chiamava il bisnonno del tale dei tali e cosa avesse fatto in tale e tale circostanza, bastava consultare questa specie di archivio paesano. Anche fra i signori c’era una gerarchia di più o meno ricchi, di più o meno antichi, di più o meno importanti. La casata principesca dominava tutti, ma era come una divinità assente ; gli altri, invece, erano più e meno presenti specie con i loro palazzi in paese, le terre e le masserie essendo extra moenia e per noi meno figurabili. Lasciando da parte il castello e il feudo principesco, c’era in piazza Municipio il bel palazzo di don Ernesto Molinari, rinnovato e ingrandito ai miei tempi, con un salone damascato rosso, cui ebbi accesso una sola volta e che sboccava su una grande terrazza. Dall’altro lato c’era il giardino a siepi ed aiuole , messo sotto il naso di tutti, che potevano ammirarlo attraverso una rete metallica. Del restante terreno che degradava verso il basso del paese ed era soprattutto orto, frutteto e vigneto con uva da tavola si favoleggiava soltanto. Adiacente al Molinari c’era il palazzo di don Peppe Donatelli, che aveva affittato un vano al circolo di cultura Francesco De Sanctis. Questo circolo, arricchito con un mobileradio Voce del Padrone , regalato, come diceva una targhetta metallica, dal signor Cardone in visita al paese dagli Stati Uniti, era destinato soprattutto al gioco delle carte., passatempo prediletto di alcuni signori e altri perdigiorno. Vi accedevamo a volte anche noi ragazzi, purché

stessimo zitti e non disturbassimo le ponderose meditazioni di chi giocava al tressette, con improvvisi getti delle carte fortunate sul tavolo coperto da un tappetino verde e con litigi ed insulti se il compagno di una coppia di giocatori non aveva memorizzato le carte già uscite, facendosi sorprendere dall’avversario, specie alla scopa o alla briscola. Guai se durante il gioco qualcuno accendeva la radio frastornando i giocatori. Il più arrabbiato inveitore era il maestro Di Pietro : « Spegni quella porcheria di musica ! « ed era musica classica. La radio era devotamente ascoltata per le notizie, specie in certe occasioni quando tra frequenti scariche elettriche ben poco si capiva di quel che diceva l’annunziatore. Se poi era il Duce a parlare, tutti devoti ascoltavano in piedi, mettendo a tutto vapore il povero apparecchio affinché ascoltassero anche quelli rimasti fuori dalla porta. Così avvenne, ricordo, per la dichiarazione di guerra all’Etiopia e per la celebrazione della vittoria e la proclamazione dell’Impero ( « Italiani al di qua dei monti e al di là dei mari » eccetera ) o per le sanzioni decretate a Ginevra dalla Società delle Nazioni contro l’Italia ( « Questo popolo di navigatori, di artisti, di santi « eccetera ). E lì don Vincenzino che batteva frenetico le mani, come le batteva a San Rocco, quando, dopo aver varie volte zittito i circostanti, alla fine di un’aria che la banda suonava ed era teneramente eseguita da un clarinetto o pomposamente da una trombetta o nel finale da trombe, tromboni, piattini e grancassa, il nanerottolo si spellava le dita, perché tra gli astanti ciarlieri ed ignoranti era stato tra i pochi se non l’unico a seguirne l’andamento, dimostrando così al paese e ai forestieri che nella folla c’era qualcuno che di musica operistica se ne intendeva. Di don Peppe Donatelli spettacolare era nel giardino un ippocastano che saliva verso il cielo e si gonfiava verso il palazzo dominando una buona parte del paese sottostante e facendo coppia per celebrità con la quercia di Santantuono, secolare questa ed elemento insopprimibile delle cartoline panoramiche del paese, 41


mentre quello le teneva testa quando tutto fiorito metteva in festa quel pezzo di piazza sulla destra, mentre in fondo sulla sinistra s’imponeva già l’entrata con torretta dell’altro palazzo Molinari, costituito da tre corpi di fabbrica, il primo sulla sinistra prima dell’ingresso – ad esso si saliva per uno scalone interno che portava al primo piano, destinato ad un’ampia cucina, maestosa con i recipienti di rame , appesi lucidi al muro sopra la fornacella, e da essa ad appartamenti che si affacciavano sulla piazzetta-, il secondo cui si accedeva per un paio di portefinestre dal cortiletto interno con pozzo per la cisterna – tutta una infilata di vani in parte affrescati e con balconi sulla facciata che dominava la discesa di via Roma e che dalle stanze di fondo dava su un giardino pensile, cui ebbi accesso una sola volta ammirando le aiuole di bosso e in angolo sotto un larice un tavolo di pietra, dove i pomeriggi e le sere d’estate sedevano i signori a prendere il fresco- e sbalzato rispetto ai due primi un terzo corpo, detto il casino di don Marino, dove abitava l’intrigante prete detto Cornacchia, e che aveva anche un ingresso a parte da via Chiesa, da dove si mormorava entrassero le donne di cui era ghiotto il sacerdote. Questo era il palazzo più in vista del paese e, se per grandiosità gareggiava con quello dei Del Buono, lo vinceva senz’altro per ariosa signorilità. Quello dei Del Buono era situato nella parte bassa del paese al limite con la campagna, con cortile interno dominato da una grande scala che portava dal pianterreno col solito pozzo della cisterna al primo piano, dove su quattro lati si affacciavano su di esso le stanze, adibite a biblioteca , ricevimento, camere da letto e pranzo. Del cortile ricordo un piccolo stuolo di oche bianche gracidanti, le uniche del paese. Unici erano anche i tesori della casa, una chioccia con dodici pulcini d’oro e nella biblioteca un atlante istoriato del secolo XXVII. Le poche volte che penetrai nel palazzone lo feci dal pianterreno sulla via nuova che a una cinquantina di metri portava

anche alla casa di nonna Caterina. Per il grande portone quasi sempre chiuso seguivo don Antonino, ch’era venuto ad aprire uscendo dalla cantina con l’immancabile boccale pieno di vino e lui avanti traballante ed io dietro un po’ spaurito per le erte scale salivamo fino in cucina, un androne che dava sull’ingresso superiore del palazzo in via Roma. Lì, accoccolata accanto al camino c’era la vecchia moglie di don Titta, la sola capace di sbrigare gli affari della casa e, quindi, anche la piccola faccenda per cui ero venuto. Il marito era quasi sordo e lo si incontrava spesso a passeggio, appoggiato al bastone col pomo d’argento : « Fesso, don Titta « salutavamo noi monelli ed il signore tutto compito replicava « Salve, ragazzi », « Cornuto,.don Titta » , « Buon pomeriggio, ragazzi » . Una volta dal nostro balcone seguii per alcune ore i tentativi di spegnere un incendio ch’era scoppiato nella canna fumaria del camino ingrommata da decennale fuliggine. Dato l’allarme per il fumo che usciva da sotto ai tegoli, accorsero i vicini e, mentre la vecchia sbraitava e don Antonino per il troppo vino e don Titta per la sordità non ben capivano cosa stesse succedendo, i più arditi salirono sul tetto e, facendo catena con gli altri che andavano e venivano con i secchi d’acqua della cisterna, s’inerpicarono alla fine sul camino e domarono le fiamme gettandovi dentro palate e palate di terra. Si diceva che la ricchezza dei Del Buono , più che alle terre che possedevano in paese, fosse dovuta ad una estesa tenuta ad Afragola, credo, di cui si raccontava la storia. Alla confisca dei beni ecclesiastici che si temeva se fossero caduti i Borboni, alcuni ordini religiosi avevano fatto parata intestando a singoli loro membri questi beni. Così un padre Del Buono, redentorista, divenne proprietario della tenuta di Afragola. In seguito, quando gli ordini religiosi poterono di nuovo possedere i lasciti eccetera, i Del Buono si guardarono bene dal restituire la tenuta, che restò di loro proprietà anche dopo la morte del religioso. Con beni ecclesiastici confiscati e

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poi messi in vendita si erano arricchiti anche altri signori se pur con procedure diverse. A qualche centinaio di metri dal palazzo Del Buono e quasi al centro del paese s’incontrava un altro palazzo Donatelli, ch’era proprietà del prete don Remigio, della sorella maestra donna Irene, di un fratello don Oreste e di tre notevoli donne, dette le Papesse. Queste venivano in paese da Napoli l’estate e per noi ragazzi, ma non solo, costituivano come l’apparizione di strani esemplari zoologici. La vecchia madre, alta, magra, vestita di nero, si portava dietro le figlie zitelle, una impacciata e mezzo sorda e che sembrava essersi messo il cuore in pace per quanto riguardava gli uomini, l’altra Teresa, alta, con gli occhiolini all’erta nel volto all’inizio della sfioritura, falsa magra con rispettabile bacino e con il chiodo fisso del fidanzato che non arrivava. Nell’attesa si concedeva qualche scappata nel terreno proibito con un intraprendente signorotto, alimentando la mormorazione soprattutto della sorella che bene o male assisteva e indovinava il resto degli scarti della cavalla in calore. Quando la storia cominciò a fare il giro del paese, la madre intervenne severa e il giovanotto prudentemente prese il largo. Teresa, però, non rinunciò alla rincorsa del batacchio e corri corri alla fine trovò un mezzo stordito favoleggiatore, già maresciallo dei carabinieri e presunto parente di un santo per falsa omonimia, che l’impalmò godendosi, più che la sua modesta pensioncina, i beni della matura zitella. Di don Oreste vidi solo una o due volte la rapida apparizione in paese : aveva spillato , forse in buona fede, i risparmi di molti e, quando la cosiddetta banca fallì, dovette stare attento perché i creditori gli stavano alle calcagna e non sempre con intenzioni pacifiche. Fece comunque molta impressione in paese l’ufficiale giudiziario quando venne a mettere sotto sequestro la parte del palazzo di proprietà di don Oreste con tanto di sigilli sulle porte.

Noi frequentavamo il cortile e il giardino del palazzo quando un ragazzo loro parente veniva d’estate da Trevico e cercava o ammetteva la nostra compagnia, specie quella di mio fratello suo coetaneo. Don Remigio lo vedevamo più per la strada e in cantina, in genere quella del padre di Corradino. Spesso ubriaco – e per questo e per altro sospeso a divinis- se la faceva con noi bambini, portandoci qualche sorpresa dalla campagna e intrattenendoci con scherzi e storielle. Eravamo un po’ la sua famiglia, come lo erano i compagni di bisboccia in cantina, dove passava la maggior parte del suo tempo giocando a carte e bevendo vino. Mai in abito talare, guardato con sospetto e controllato dall’arciprete e da don Marino, di lui si raccontava che , dovendosi una volta recare a Lioni per gli esercizi spirituali, alzatosi troppo tardi per la solita sbornia aveva perso il treno. Che il vino facesse ancora effetto o per una specie di rimorso e paura per le inevitabili ritorsioni dell’autorità ecclesiastica , s’incamminò a piedi verso Lioni lungo i binari della ferrovia. Nel buio della prima galleria perse, però, la direzione e, credendo di avanzare , invertì il senso della marcia. Appoggiandosi ai muri sullo stretto marciapiede che fiancheggiava i binari, si tinse mani e volto sudato di fuliggine, per cui quando riuscì alla luce e verso la stazione di Morra incontrò il capostazione, costui spaventato gridò al diavolo e ci volle del buono per calmarlo e fargli capire chi fosse. Lasciando in basso verso piazza san Rocco il palazzo del dottor De Rogatis e quello del generale Gargani, ambedue poco vistosi e quasi abitazioni di Dei minori, si risaliva verso casa Gargani e il palazzo di don Gerardino. Casa Gargani per noi che abitavamo a qualche metro da essa non fu mai un palazzo benché ne avesse tutti i requisiti, con il cortiletto dopo il portone d’ingresso, dove c’era il pozzo della cisterna e le belle camere con balconi al secondo piano. Lì c’era il salone con il pianoforte che suonava donna Elena, moglie del 43


segretario comunale e che veniva da Caserta. Di lei mi sorprendeva non tanto il naso volitivo o la benevola condiscendenza verso di me che nei primi tempi del matrimonio mi sgolavo a gridar parolacce sotto ai balconi, quanto il flusso dei suoni che scendevano dall’alto, inabituali non solo per il mio orecchio, essendo quel pianoforte l’unico del paese. Fino allora la mia musica era quella dell’organo in chiesa quando vi contribuivo lottando con i compagni e col sacrestano per essere ammesso a tirare i mantici, quella della fisarmonica che accompagnava canti e balli popolari e quella della banda che arrivava in paese per le feste dei santi, soprattutto in agosto per S. Rocco. In tali occasioni, più che estasiarmi la sera come don Vincenzino ai raffazzonamenti delle varie opere, ci tenevo ad accompagnare la banda quando percorreva le vie del paese al gran completo o quando alla spicciolata un gruppo di musicanti saliva e scendeva per vie e viottole. Con gli altri monelli precedevo con baldanza i suonatori, osservando anche quanto i compaesani davano ai questuanti- i mastri di festa- per sopperire alle spese dei festeggiamenti. Da casa Gargani bastava fare una cinquantina di passi per arrivare al palazzo di don Gerardino De Rogatis che da vicino era poco vistoso sia all’ingresso superiore in via Chiesa dove era quasi ad altezza d’uomo e attraverso l’inferriata si poteva curiosare nella grande cucina, sia dopo la svolta verso destra un po’ più in giù, dove si apriva il portone che attraverso un lungo corridoio pieno di sacchi di grano portava a uno stanzone ch’era ufficio e camera da letto del geometra dalla mole non indifferente. Appoggiati a un muro c’erano i picchetti colorati da agrimensore e dirimpetto un calendario con la pubblicità della banca di Pescopagano, di cui era socio e rappresentante. Alla scrivania ingombra di carte sedeva egli vigile dietro gli occhiali appannati quando mia madre si recava di tanto in tanto da lui per chiedere o restituire poco alla volta qualche piccolo prestito. Era mio compare di battesimo e potevo quindi permettermi

di chiamarlo compare e non don. Mi prendeva volentieri in giro stuzzicandomi affinché venissi fuori cacagliando con le mie frasi colorite come quella volta che davanti al suo frantoio per il vino, ch’era in un sottano quasi davanti casa, gli replicai : « Ca, ca , cu, cumpare,ca , ca nisciune me pò fa fessu. » Né si faceva far fessa una battagliera contadina che affermava anche a chi non voleva sentirla che suo figlio era figlio di don Gerardino e l’aveva concepito proprio su quel letto di ferro piuttosto stretto dell’ufficio. Si presentava quindi di tanto in tanto ad esigere lo scotto di tale impresa e per tacitarla il signorotto doveva mollare un tomolo di grano. Più interessante per me era l’ultimo portone del palazzo, da cui si scendeva in un sottano dove c’era lu trappitu per la molitura delle olive. Tutte le volte che potevo cercavo di entrarvi per assistere ai giri delle due grandi macine affiancate, azionate attraverso una grande trave da un asino bendato. Le olive tritate si mettevano poi in sacchi a rete e questi si collocavano tutto in giro dove sarebbero ripassate le mole. L’olio colava lento con un rivoletto dorato nella vasca in basso. A facilitare la spremitura si annaffiava la morchia con getti d’acqua bollente, i cui vapori facevano sembrare l’androne una fucina di Vulcano. Più grande e impressionante era l’altro trappitu nelle adiacenze della casa della nonna, di proprietà non so se di don Peppe Donatelli o dei Del Buono. Qui si poteva assistere alla pesca dell’olio : un uomo seminudo scendeva nella vasca dove l’olio galleggiava sull’acqua calda e con un piatto lucente di rame simile a quello dei cercatori d’oro pescava a gesti lenti l’olio in superficie. I primi litri erano i più puri, poi man mano andavano a finire nelle damigiane quelli meno pregiati, di seconda e terza qualità. L’imponenza del palazzo De Rogatis la si poteva apprezzare solo dal basso del paese, nel cui panorama risaltava per gli archi del suo

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loggiato a vetrate , unico e solo esemplare di quelle dimensioni in paese. Dopo questi Dei maggiori con palazzi di corrispondente importanza, gli Dei minori avevano sì diritto al don, ma non con quell’enfasi dovuta alla ricchezza così chiaramente messa in scena dai primi. I miei zii erano tra i minori : le loro case non potevano pretendere la qualifica di palazzi e, più e meno importanti che fossero, tutto sommato erano di modeste proporzioni. Zio Luigi, pur possedendone varie, non poteva rivaleggiare con i signori, con i quali rivaleggiava, però, per curriculum matrimoniale. Come per le donne finite quasi tutte zitelle o sterili, così per gli uomini il rimandar di continuo il matrimonio li condannava allo stesso esito. Il primo fidanzamento che ricordo di mio zio fu quello con una signorina Ricciardi, nipote del solito prete- don Amato- e sorella di un avvocato. I patteggiamenti patrimoniali sembrarono giunti a buon punto, tanto che il fidanzamento fu festeggiato nella casa dello zio in piazza San Rocco, rimessa a nuovo con tanto di scomodissimi e pretenziosi mobili chippendale , e un ricevimento con dolci e liquori della premiata ditta Zuccardi. Zio Luigi e mia madre , dopo la partenza di zio Ciccillo, da cui avevano appreso il mestiere, erano gli unici in paese a saper fare i dolci, torte a vari piani di pan di spagna inzuppati di strega o rum e intercalati da marmellata, crema al latte e al cioccolato, il tutto rivestito di zucchero filante e decorato con confettini multicolori ; i tatù, cantuccini alle mandorle e all’ammoniaca che così bene si accoppiavano al vino e ai liquori ; paste alla marmellata di cotogne o di amarene, ricoperte di zucchero filante e collocate ancora calde in involucri arricciati di carta multicolore, eccetera. C’erano anche i mustacciuoli al vino cotto, riservati, però, alle feste natalizie, come gli strufoli al miele lo erano per San Giuseppe. Ad incoraggiare i

festeggianti a bere con liberalità c’erano i taralli all’uovo e quelli più piccoli alla sugna, aromatizzati con semi di finocchietto selvatico. Le marmellate si spremevano con il buzirru, imbuto di stoffa con il beccuccio metallico a sega, il che permetteva di spargerne lentamente un rivoletto con cui si facevano vari disegni. Lo stesso avveniva con lo zucchero filante, mentre le creme si spandevano calde con spatolette di legno. Affinché lo zucchero non si attaccasse alla base delle torte e paste, queste erano collocate su una grande graticola di ferro. Noi bambini assistevamo alle varie operazioni aiutando come potevamo. Alla fine per ricompensa potevamo staccare dai fili della graticola le gocce rapprese di zucchero. Mentre qualche pretenzioso per matrimoni e fidanzamenti faceva venire i dolci da Santangelo, in genere ci si rivolgeva a mio zio affinché fornisse il necessario per tali avvenimenti. Grandi ruoti rettangolari di lamiera partivano verso il forno per la cottura del pan di spagna e negli stessi recipienti i dolci ultimati prendevano il via verso le case dei clienti. Gli autori di tali leccornie e noi aiutanti eravamo a vario titolo ammessi ai festeggiamenti. Quel primo fidanzamento andò a monte, non so per colpa di chi, probabilmente di zio Luigi, se il fratello avvocato della ripudiata se la legò al dito ed ogni volta che c’era una causa in tribunale cercava sempre di farsi affidare la difesa della parte avversa a zio Luigi per fargli perdere la causa, punendo così quel « fetente ». Io partecipavo in varia veste ai fidanzamenti dello zio. Portavo qualche regalo alla fidanzata, per esempio ricordo il portoncino di casa Ricciardi con il battiporta a pugno stringente una palla, cui arrivavo a malapena per tuzzulare. Altre volte accompagnavo il pretendente nelle visite di corteggiamento, che non avvenivano mai testa a testa perché doveva esserci sempre un testimone che garantisse la correttezza del comportamento dei piccioncini. Il testimone poteva essere un parente della illibata e, in mancanza di meglio, un bambino come me. Cosa garantissi non so, ma ricordo i 45


due coniugandi seduti a debita distanza , anche se sullo stesso divanetto, e la biondastra e piuttosto attempata signorina che allo zio offriva con mielato sussiego un bicchierino di rosolio fatto in casa. Un’altra fidanzata era, invece, una bella e giovane moretta, maestra elementare a Selvapiana. Veniva da un paese vicino ad Avellino e la vidi da sola in un piccolo ricevimento in famiglia nella casa a S.Rocco, ammirandone le forme piene, l’incarnato sano e la chioma corvina. La rividi due o tre altre volte, accompagnando lo zio nei suoi corteggiamenti a Selvapiana. Si disse quasi subito in famiglia che la ragazza era squattrinata e che lo stipendio da maestra non reggeva il confronto con la proprietà dello zio, che more solito si era già fatto i conti e non aspettava che quella conferma per mandare all’aria il breve fidanzamento.. Più complicato fu il seguente con una signorina di buona famiglia di Torella dei Lombardi. Non so dove e come lo zio l’avesse scovata. In genere c’era sempre qualcuno bene intenzionato che s’incaricava di segnalare l’esistenza di una conveniente candidata e di portare l’ambasciata. Costei giovane e bella era anche da parte della madre imparentata con la famiglia principesca di Torella o altro personaggio importante che viveva a Roma. Fu organizzata una spedizione a Torella : c’erano lo zio, mia madre, io e mia sorella. Per l’occasione tutti avemmo diritto ad un abito nuovo e ricordo quello di mia madre di color marrone e di un sol pezzo, contrariamente a come vestiva di solito- gonna con grembiule, corpetto, fazzoletto in testa e con il freddo mantellina sulle spalle-. Fu noleggiata una macchina e mia madre che non sopportava neanche i viaggi in treno stette male nelle curve e ricurve della strada a serpentine. Giunti a casa della fidanzata, trovammo la famiglia al gran completo, eccetto un fratello, ufficiale d’aviazione. Mio zio subito dopo il rinfresco e prima del pranzo offrì l’anello di fidanzamento di platino con brillante. Gli ospiti fecero qualche complimento a quei bravi ragazzi ch’eravamo io e mia sorella ed

abilmente chiesero notizie su mio padre la cui assenza fu altrettanto abilmente scusata non ricordo con che pretesto. Mia madre, però, pur dichiarandosi molto contenta del fidanzamento, non mancò di precisare che lo zio doveva continuare ad aiutare la nostra famiglia che ne aveva bisogno. Poi si fece il giro del paese , visitando anche il palazzo di quei famosi parenti. Dopo qualche mese la fidanzata e famiglia ricambiarono la visita, venendo a Morra, e questa volta c’era anche il fratello ufficiale. Ricordo mio zio che si affaticava a tirar fuori da una specie di cassaforte americana in camera da letto una scartoffia dopo l’altra, enumerando le varie proprietà, sue e quelle possedute per procura, nonché un pacchetto di titoli bancari. I futuri suoceri approvavano, la fidanzata era contenta, ma il fratello ufficiale uscì nervoso a fumare sul balcone della stanza da pranzo, sembrando non proprio entusiasta del futuro connubio, facendo anche capire che la differenza d’età tra la giovane sorella e mio zio non gli andava a genio. Sotto sotto una causa di questa avversione era forse anche mio padre, che alla men peggio dovette pur presentarsi al convegno familiare. Questa volta furono probabilmente quelli di Torella a mettere in difficoltà lo zio. Fatto sta che , soppesate la situazione economica dello zio, possidente sì, ma sotto cauzione per le procure, e le grane che noi bisognosi avremmo potuto dare alla futura famiglia, il fidanzamento fu rotto. Qualche parte nella rottura dovette averla anche lo zio, eterno tentennatore, se la fidanzata non volle restituire l’anello. Dopo lunghe richieste , si decise finalmente a farlo, ma fece pervenire solo l’anello senza il brillante con il pretesto di averlo perso essendosi staccato inavvertitamente dall’incastonatura. Lo zio pianse per lungo tempo i non so quanti carati di quella gioia , che tanti sacrifici gli era costata. Siccome, però, da noi non si gettava mai niente e tutto era reimpiegato, anche l’anello con qualche modifica dovette trovare certamente ulteriore impiego.

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Così gli anni passavano e zio Luigi non la smetteva di cercare un partito che gli convenisse. Ad Andretta si organizzava una fiera su un grande sterrato ai margini del paese dove un certo parente aveva un casino. Unendo l’utile al dilettevole zio Luigi vi si recava per comprare o vendere animali, vitelli, cavalle, pecore eccetera. Si partiva di buon’ora sulla cavalla bianca, lui davanti sulla varda o basto ed io dietro sulla groppa, tenendomi ben fermo alla bardatura posteriore di legno. Per un paio d’ore si scendeva e saliva prima nella valle dell’Isca, poi in quella della Sarda e la paura faceva novanta quando la bestia s’inerpicava per un sentierino di mezzo metro proprio sulla cresta di calanchi a precipizio che solcavano i ripidi pendii di creta, lavorati dall’acqua che si precipitava nel torrente non frenata dai pochi ciuffi di erba risecchiti. Perché le bestie –e gli uomini- scegliessero proprio quel nastro polveroso, da cui potevano al minimo passo falso fare un capitombolo in quei baratri profondi, era un mistero. Lo stesso avveniva nella valle dell’Ofanto , quando ci recavamo dalla tenuta La macchina a quella del casino di Selvapiana. Se la cavalla era in tal caso carica di sacchi di grano od altro, bisognava scendere di sella e tirarla bene o male per la cavezza senza strattonarla più del necessario. Figurarsi poi se per sventura veniva un’altra cavalcatura in senso opposto : non era solo questione di precedenza , ma di salvezza dell’anima. Giunti ad Andretta, facendoci largo nel bailamme di uomini e bestie che partecipavano alla fiera, arrivammo al casino del parente, attaccammo ad un anello di ferro la cavezza della cavalla e salimmo per una ripida scalinata esterna nello stanzone al primo piano con il pavimento in terra battuta perché i proprietari abitavano in paese, servendosi di quei locali solo per attività agricole. Ci aspettava un bel pranzetto con i cavatieddi di pasta fresca e gli immancabili salumi e formaggi paesani. Il vinello era piuttosto scadente, ma lo bevemmo lo stesso per cortesia. Parlando del più e del meno, il parente venne fuori con la proposta di matrimonio. Non so se la

donzella fosse visibile o rintracciabile fra una vacca e un asino o se si dovesse andare in paese a darle un’occhiata. Un’occhiata ? Eh ! sì, zio Luigi era diventato più che diffidente dopo la storia di Torella. Per farla breve, il parente quella volta non ebbe successo. Io poi andai in collegio e non ebbi più modo di seguire le vicende matrimoniali dello zio, che, guarda caso, una diecina di anni dopo fece venire proprio da Andretta una attempata signorina che impalmò, lei sui quaranta e lui sui sessanta. La prescelta che era figlia di un maestro elementare che aveva avuto solo due femmine, pur avendo scritto un libriccino Come fare figli maschi, si considerava a noi superiore e frequentò subito alcuni signori del paese. Il matrimonio fu un disastro : la donna aveva acconsentito a quella scelta per puro interesse. Tentò di farsi ingravidare un paio di volte ; non riuscendoci, indusse il marito ad adottare un trovatello, anche questo per interesse, sperando, dopo che lo zio avesse tirato le cuoia, di assicurarsi il dominio della proprietà attraverso il minorenne. Intanto faceva venire in casa da Roma un esercito di parenti che sgavazzavano mentre lo zio era a Selvapiana a lavorare e controllare i parzionali. I festaioli lasciavano il paese carichi di ogni ben di dio. Quando finalmente lo zio aprì gli occhi su quello che accadeva, aiutato e sobillato anche da mia sorella e mia madre, che avevano sempre visto di malocchio quel matrimonio -Ti è venuta in casa una strega nuda che non si è portato neanche un paio di lenzuola – ( e ciò voleva tutto dire in un ambiente dove le ragazze per decenni preparavano il corredo, considerato importante quasi quanto la dote ), ripagate da altrettanta animosità da parte dell’andrettese, che vedeva in noi i potenziali avversari delle sue mene patrimoniali, cominciarono i litigi fra marito e moglie, che si infittirono quando la salute dello zio cominciò a declinare e la moglie, invece di assisterlo, tutta presa da occupazioni di prestigio cosiddetto signorile, bistrattava il vecchio che a sua volta si rifaceva sul trovatello, di cui aveva capito la funzione secondo le mire della 47


moglie. Da quell’inferno il povero ragazzo uscì quando fu riportato nell’istituto da cui proveniva, ma non resse a tutte queste vessazioni e si suicidò. La presunta madre adottiva, ospitata dai suoi parenti a Roma, aveva intanto abbandonato lo zio, che malato e solo come un cane fu accolto in casa di mia sorella, dove nel frattempo si era stabilita anche mia madre, che al vecchio e tirannico fratello confinato a letto rinfacciava, quando costui si lasciava andare ai suoi scatti di rabbia impotente : « Gira gira, pure da me sei venuto a finire ! ». Pochi mesi dopo zio Luigi morì. Se le sue vicende matrimoniali sono esemplari per capire come si estinguessero le famiglie dei cosiddetti signori, i nostri rapporti con lui furono molteplici e per molti aspetti ambivalenti, né il registrarlo fra i signori è del tutto soddisfacente. Mentre la maggior parte di essi impigriva nell’ozio o si affaccendava solo a sfruttare i coloni, zio Luigi era un indubbio lavoratore : seguiva oculatamente il lavoro dei parzionali, ma curava direttamente molte proprietà, non esitando a sporcarsi le mani. Le vigne e la lavorazione del vino erano di sua cura diretta. Ricordo come lo seguivo nell’innestatura dei nuovi vitigni : lui con un coltello praticava sul tralcio l’apertura a libro, nella quale collocava l’occhio da cui sarebbe spuntata la gemma del nuovo vitigno, ed io inginocchiato accanto a lui tenevo ben ferme con il ditino le due facce ribattute mentre lui tagliava e poi avvolgeva il filo di rafia attorno alla nascitura che, se prendeva, sarebbe fiorita a primavera. Se dopo un certo tempo non c’era segno di vita, l’innesto si ripeteva e nel caso di ulteriore fallimento si rimandava l’operazione all’anno successivo. Era anche il solo, o uno dei pochi, a spremere con lo stringituru le uve della vendemmia e a curare la pigiatura, aiutato da noi ragazzi, che avevamo il privilegio di scendere mezzo nudi nel grande tino , saltellando e pestando i piedi tra i fumi del mosto che cominciava a colare nell’apposito tinozzo. Lunghe erano anche le cure per

preparare le botti, da sgrommare con un raschietto : per l’apertura frontale entravamo nell’antro illuminato da una lucerna che spesso si spegneva per mancanza di ossigeno. Sudando e mal respirando grattavamo, grattavamo. Lo zio si riservava di tappare eventuali falle tra le doghe con filacce di cotone, pazientemente inserite con il famoso coltello tascabile a serramanico. Alla fine c’era l’inzolfatura : s’introduceva un recipiente con la brace su cui si spandeva la polvere di zolfo, che cominciava subito a fumare. Si chiudeva allora rapidamente la porta della botte e si lasciava che per un paio di giorni le mortali esalazioni facessero la loro opera di purificazione. Non contento del solito vino rosso, lo zio era riuscito a selezionare un moscato bianco secco per nulla dolce e molto robusto, che conservava in grandi damigiane e serviva in grandi occasioni, come per il pranzo del suo matrimonio e poi anche del mio. Di fronte ad ogni convitato c’era una bottiglia da un litro, rinnovabile, cui poi seguiva lo spumante di vino rosso, gioia e tormento dello zio. Preparate accuratamente le bottiglie, per tappare le quali aveva comprato un chiavatappi a leva, vi immetteva un po’ di zucchero e una sua polverina che dovevano aiutare la fermentazione, poi le coricava in uno scaffale in fondo alla cantina, lasciandole un paio d’anni a maturare. Ma molte bottiglie scoppiavano, cioè il tappo partiva e il liquido prezioso, tutto o in parte, si riversava al suolo. Grande era il disappunto dell’enologo, che allora ricorse a legare con lo spago i tappi, che a volte e con più fracasso continuarono a saltare e meno male che quel fondo di cantina era poco frequentato. La sua tenuta La macchina era riuscito a trasformarla in un vero orto delle delizie con in fondo in riva all’Ofanto il pozzo con la catosa, cioè quella collana di secchi di zinco, collegata ad una ruota dentata nel cui asse era collocato un lungo palo, e che probabilmente aveva dato il nome alla tenuta. Un asino con il basto legato al palo girando bendato faceva salire l’acqua dal fondo, riversata poi in un 48


canale che la portava, accuratamente distribuita, ai vari solchi, sui quali crescevano gli ortaggi. C’erano così varie porche di terreno a peperoni rossi o verdi, a pomodori, a melanzane, a zucchine, a fagiolini o piselli eccetera. M’impressiovano le grandi cocozze zuccherine, che si potevano conservare l’inverno e che tagliate pure in lunghe fettucce si appendevano alle pertiche in cucina affinché seccassero. Protette da un involucro di carta contro le mosche e seccate erano poi bollite e quindi saltate in padella con peperoncini arzenti e cicciole, sostituendo così le solite lagane e laganedde. Né si contentava lo zio di attingere solo acqua dal pozzo : vi aveva immesso anche degli anguillotti e problematico era pescarli quando cresciuti guizzavano come serpi nel fondo scuro. Per me l’abbinamento delle anguille con le bisce era inevitabile e, pur mangiandole, conservavo sempre una certa diffidente paura nei loro confronti. Le porche salivano dalla valle dell’Ofanto verso la masseria e lo zio qui aveva diversificato le colture, piantando alberi da frutta e viti a siepe alta di uva da tavola. Per proteggere le giovani piante dalle formiche aveva addirittura fatto venire da Avellino un esperto con una sua polverina bianca che si spandeva attorno al giovane tronco. Alla catosa e all’asino in quel punto del fiume con poca acqua sostituì in seguito un motore a scoppio con pompa meccanica, collocata più a monte e che pescava in uno stagnone, dove l’acqua non veniva a mancare, specie d’estate quando più se ne aveva bisogno. Di quel frutteto a me resta nella memoria un grande albero di gelsi bianchi, che aiutavo a scuotere con una pertica arrampicandomi sui rami e un famoso ciliegio, i cui duroni erano particolarmente apprezzati, avendo io il privilegio di poter cogliere e mangiare in situ quelli beccati dagli uccelli : la ferita rimarginata rendeva il loro sapore molto zuccherino.

Zio Luigi gareggiava nella produzione orticola e frutticola con i Catanzano, la cui masseria era a monte della sua. Erano costoro cafoni, ma possidenti, quindi una categoria intermedia fra mezzadri e signori. Il loro terreno era circondato da una fitta e alta siepe verde, perciò l’orto e il frutteto invisibili dalla strada avevano per me qualcosa di misterioso. Quando vi fui ammesso una volta, potei ammirare gli alberi delle famose ulécine, dette per l’occasione susine. Mai si erano viste in paese prugne dorate di tale grandezza, motivo per cui lo zio fu subito tentato di piantarne qualche albero nel suo frutteto e dopo un paio di anni riuscì ad averne di simili. Così le avemmo anche noi che normalmente ci accontentavamo delle medie, bianche o nere, e perfino delle prugnole che crescevano selvatiche sulle siepi ed erano colte da chi voleva. Le siepi alla Macchina e altrove erano uno dei territori lasciati alle incursioni più o meno lecite di noi ragazzi. Lecite senz’altro erano quelle lungo lo stradone pietroso che fiancheggiava la tenuta , scendendo verso l’Ofanto là dove c’era un guado che si attraversava per andare a Teora e dove si voleva che il governo costruisse un ponte, sempre promesso e mai realizzato, che avrebbe tolto da quel lato l’isolamento stradale di cui soffriva il paese. Quella siepe era formata da avellane le cui nocelle a coppia, triple o perfino quadruple erano lasciate a noi ragazzi e raramente- perché scarse- erano curate da zio Luigi che per i suoi dolci le comprava altrove.

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Le quadruple erano come i quadrifogli segno di fortuna. I due giovanotti Catanzano erano anche invidiati per la loro abilità pescatoria. L’Ofanto, in quel tratto iniziale scarso d’acqua, si riduceva spesso a una serie di stagni, collegati sì e no da un filo d’acqua. Il fiume, errabondo durante le piene, lasciava qua e là questi specchi d’acqua, tra cui celebre era uno stagnone forse di due metri di profondità in un punto sotto la ripa. D’estate zio Luigi ed io ci accoccolavamo nell’acqua bassa del tratto che costeggiava il lato inferiore della tenuta, ombreggiato da pioppi e saliconi. In quell’atmosfera verde che lasciava appena intravedere il cielo azzurro regnava una pace idilliaca in cui ci crogiolavamo facendo il bagno. Altre volte con i fratelli Catanzano andavamo a pesca : armati di canestri , si passava al pettine ogni metro del fiume e, se si aveva fortuna, si catturava qualche pesce non più grande di una salacca e più spesso pesciolini, grandi come sardine. Uno dei fratelli particolarmente abile e che sapeva perfino nuotare conosceva bene i posti : si accostava alle ripe dello stagno e, bloccando con il canestro l’uscita dalle buche dove si rifugiavano i pesci, acchiappava anche quelli più grandi. Io allora, come altre volte con altri ragazzi facendo finta di nuotare, cioè con i piedi sul fondo ed agitando solo le braccia od osando un salto di traverso, tentavo di prender qualcosa con le mani, evidentemente senza risultato. Raggiunsi solo molto più tardi quello stato di beatitudine quando nuotando riesci a farti portare dall’acqua, entrando così in comunione con quell’elemento che domini e da cui sei dominato nel gioco edenico di portatore e portato. I Catanzano, abitando a qualche centinaio di metri dal fiume, erano in confidenza con esso e al tempo delle piene -quando l’Ofanto menava, come si diceva- disponevano le nasse all’ingresso o all’uscita dell’acqua dagli stagni, catturando un bel po’ di pesci, di cui da buoni vicini facevano omaggio anche a zio Luigi e quindi a noi. Era quella una delle poche volte in cui mangiavo pesce fresco,

il resto, eccetto il capitone a Natale quando rarissime volte avevamo i mezzi per procurarci quella leccornia, ci contentavamo del baccalà e delle sarache e dei sarachieddi salati. I peperoni e pomodori della Macchina andavano a ruba quando lo zio li presentava stesi a tappeto alla vendita. I primi servivano per esser conservati nelle grandi fesìne – od orci- , dove erano stipati interi in una salsa a base di aceto di vino con finocchietti e, quando si poteva, qualche buccia di arancia o limone. Da noi quegli orci erano subito dietro la porta della stanza di dietro e di tanto in tanto si scoperchiavano per controllare il livello del liquido in cui dovevano restare immersi, se no andavano a male. Nella stessa stanza erano collocati per una buona ventina di giorni i tinozzi con i prosciutti e il lardo per la debita salagione, spremendone l’umidità residua con lastre di pietra ; quindi erano appesi ad aerare in cucina alle grandi pertiche sorrette da anelli e ganci di ferro infissi nella lamia. La cervellata o aspic agrodolce era conservata sul comò in camera da letto in vasetti di ceramica : fatta con muso, orecchie , piedi e coda di maiale si consumava man mano d’inverno dopo la macellazione che avveniva a fine autunno. I peperoni sottaceto erano il complemento necessario del baccalà alla gualanegna, cui davano, quando friggendo l’aceto evaporava, il gusto inconfondibile. I peperoni verdi oblunghi erano consumati subito, fritti con lardo, mentre quelli più grandi erano farciti con mica di pane, carne tritata, uvetta secca e vino cotto, essendo questi la specialità della colazione in un campo presso il santuario di Materdomini, dove ci recavamo in pellegrinaggio una volta l’anno e per me erano il dolce contrappeso dell’avversione che provavo, con relativi rimorsi, per la confessione. Altri peperoni, anche arzenti , restavano appesi alle pertiche in cucina in lunghi serti in buona compagnia con agli, cipolle , castagne secche, salsicce e sopressate, delle quali alcune erano poi messe sottolio dopo una prima essiccagione e conservate in vasi nella stanza di dietro. I peperoni secchi accompagnavano la frittura di 50


minuge di pollo e maiale : gli intestini spaccati in due, lavati e rilavati erano con sangue rappreso, fegato, stomaco- di cui mi faceva impressione l’interno a solchi ruvidi-e cresta- se di gallo- friggevano insieme ai pezzi di peperone per la cena della vigilia della festa o della domenica, cui era riservato il pollo vero e proprio, se gallina, fatta in brodo, se gallo fatto al forno. Erano queste le rare occasioni in cui si portava il ruoto con il volatile e le patate alla sugna al forno sotto casa. E mentre di solito dovevo assistere invidioso all’arrivo o alla partenza dei ruoti che le serve dei signori portavano abitualmente al forno ricoperti da una candida salvietta, questa volta potevo gongolare anch’io. In genere il nostro lusso consisteva non nel ruoto con il pollo o la carne alla pizzaiola, ma nella pizza che mia madre talvolta faceva insieme al pane e che era una semplice focaccia, nella stagione propizia con i pomodori freschi, origano e aglio. Di mozzarella non se ne parlava neanche. A mezzodì del giorno di panificazione si mangiava quindi la pizza calda semplice o composita. I pomodori, oltre che a insalata, servivano a fare la conserva e i pomodori in bottiglia. Cotti nella caldaia grande sullo spiazzo davanti casa, si stendeva la conserva, ridotta a una massa essenziale, su lunghe tavole con i bordi, collocate sul muretto che serviva anche da lavatoio o semplicemente sul selciato della strada. Man mano che il sole e l’aria facevano il loro lavoro, bisognava rivoltare la pasta che si riduceva di ora in ora e dopo un paio di giorni, staccandola con il coltello dalla tavola, la si metteva nei boccali di vetro con un po’ d’olio. Così condensata bastava qualche cucchiaiata per fare il sugo dei maccheroni. Per i pomodori in bottiglia la lavorazione era più complessa e azzardosa. Bisognava lavar bene le vecchie bottiglie che si reimpiegavano. A tale scopo la sciacquatura andava aiutata introducendo per il collo stretto le asticelle di parietaria,un’erba pelosa che cresceva tra pietra e pietra sui muri : la superficie ruvida

delle foglie contribuiva a staccare dalle pareti e specie dal fondo della bottiglia le impurità. Questo era il nostro compito, per la piccolezza delle dita ; esso si estendeva anche ad aiutare a immettere nella bottiglia le fette dei pomodori di San Marzano, tagliati in quattro per il lungo. Ci si aiutava con i ferri da uncinetto, ammassando bene le fette accompagnate da un po’ di origano e da due o tre foglie di basilico. Tappate bene le bottiglie facendo scattare i tipici tappi di ferro, maiolica e gommino rosso, le si metteva a cuocere a fuoco lento nella grande caldaia, controllando bene il tempo di cottura perché i pomodori non dovevano scuocere per conservare la consistenza di pomodori quasi freschi lungo tutto l’arco dell’anno. Il sugo ideale era quello fatto con questi pomodori , più una cucchiaiata di conserva. La stessa procedura, mutatis mutandis, si seguiva per i peperoni in bottiglia, bisognando evitare soprattutto la fermentazione, dovuta a falsa cottura o a cattiva conservazione delle bottiglie, specie d’estate. Altrimenti i tappi scoppiavano come quelli dello spumante di zio Luigi. Lo zio, oltre che l’orticoltura, in questo in concorrenza con zio Giovanni e zio Emilio, che la praticavano l’uno nell’orto adiacente a quello di zio Luigi e provvisto anch’esso di noria e l’altro sul vrecchiale, ricavato dal letto del fiume, sperimentava anche la lavorazione del latte, né si fermava come gli altri ai soliti formaggio pecorino, ricotta e cacioricotta, benché anche in questo stesse particolarmente attento alla morchiatura con olio e aceto delle pezze di formaggio, che voltava e rivoltava affinché se ne imbevessero bene a formare la crosta che doveva concorrere a dar loro sapore e protezione contro gl’insetti. Nel budello del soprascala cui si accedeva per una porticina dalla stanza da pranzo le pezze sulle tavole degli scalini erano costantemente rivoltate , se necessario dando ad esse di nuovo una mano di morchia e controllando la temperatura del locale aprendo o chiudendo il finestrino che gli dava 51


aria. La ricotta era mangiata fresca, alle volte portata già pronta in fuscelli di vimini da Selvapiana ; il cacioricotta era grattato sui maccheroni caldi con cui faceva corpo meglio del pecorino o accompagnava la sobria cena con pane e un bicchier di vino ; il formaggio di capra, pecora , mucca o un misto dei tre era grattato per la pasta o stagionato accompagnava a fette altre cibarie. Non contento di questo, aiutato di solito anche da mamma e da me per quel che potevo ( salire soprattutto sugli ultimi scalini del soprascala che toccavano quasi il tetto per rivoltare le pezze di formaggio ), lo zio tentava pure di emulare la produzione di latticini delle fabbrichette familiari della zona, specie a Lioni. Lo ricordo in maniche di camicia in cucina chino sulla caldaia da cui estraeva a un certo momento la pasta di latte, che lavorava e rilavorava maneggiandola e rassodandola. La pasta pendeva molle come una matassa e lo zio a impugnarla, stringerla e spremerla finché raggiungeva la giusta consistenza. Allora era intrecciata a farne trezze o schiaffeggiata e compressa a farne scamorze e, con un po’ più di sforzo, provole. Queste erano poi appese alle solite pertiche per seccare, ma dovevano esser mangiate relativamente presto, se no facevano la muffa, non disponendo lo zio della cera ed altri ingredienti usati nelle fabbrichette per la lunga conservazione. Non tentò neanche di arrivare al provolone, che rimase per lui e per noi un limite, da comprare perciò- il celebre Auricchio- da Maria la cunfessora. Un altro settore in cui lo zio, dopo la morte della nonna, non si avventurò fu quello dei salumi : questo era riservato a mamma, anche perché noi avevamo la stalla per i maiali, il cui allevamento e ingrassamento fu di nostra competenza, come quello dei polli e dei conigli. Preso dai lavori della campagna lo zio non aveva tempo, anche a volerlo, di occuparsene. Dei polli, però, che aveva presso i coloni portava a casa le uova fresche, qualche galletto e per Natale i capponi. I due capponi, con la cresta tagliata e la voce chioccia,

erano il regalo che il parzionale faceva al padrone, che lo ripagava con uno o due chili di maccheroni di fabbrica, avvolti in lunghi pacchi di carta azzurra. Chi sa perché questi prodotti erano considerati un lusso rispetto alla pasta fresca, di cui tutti, cafoni compresi, facevano uso quasi giornaliero. Le povere bestie restavano per una diecina di giorni a ricevere un’ultima ingrassatura a base di granone ed avena in una stia provvisoria , ricavata nel vano del focolare della fornacella, chiuso da una grata di legno. La fornacella dopo la morte della nonna non era più usata e per la cottura dei cibi ci si serviva del focolare del camino, mettendo a cuocere le vivande nei recipienti di rame o di alluminio su un treppiede di ferro. Lì mamma preparava o riscaldava i piatti già pronti portati da casa per la cena dello zio quando tornava dalla campagna. Io cenavo in genere con lui. Le due case , quella dello zio e la nostra, erano per molti aspetti complementari. Si andava, specie per quanto ci riguardava, continuamente dall’una all’altra e, se lo zio veniva da noi più di rado, pur lo doveva la domenica e le feste, che passavamo insieme nella casa di sotto o di sopra, che almeno per quanto riguardava la cucina era in piena e continua attività e la fornacella non conosceva soste. Se la cucina era il vano di casa più frequentato, fungendo anche da soggiorno ( perfino nelle case che disponevano di un salotto-pranzo, questo si apriva solo in rare occasioni e i mobili pretenziosi restavano coperti da teli bianchi), la fornacella era la costruzione più importante di essa. Da noi la fornacella era disposta lungo il muro est, dove si trovava anche la cristalliera, fatta su misura e che dietro ai vetri presentava il vasellame per così dire prezioso, di cui ricordo un servizio da caffé con le tazze e i piattini col filo d’oro, che non poteva certo competere con quello di dodici e ventiquattro pezzi della Ginori, istoriato dalla Kaufman, di zio Luigi, ma che tirato fuori in rare occasioni faceva pur la sua bella figura. Sul ripiano di

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sopra c’era anche l’unico libro illustrato che possedessimo, una specie di storia sacra. Di fronte alla cristalliera una scala di legno portava al piano di sopra e che in seguito fu eliminata insieme alla botola nel soffitto quando questa fu chiusa per aver più spazio nel negozio al piano superiore. Appoggiato al muro ovest c’era il tavolo su cui mia madre lavorava la pasta per fare le lagane e i cavatieddi ( io vi contribuivo facendo con il medio l’incavatura ad orecchietta ) e che si tirava verso la fornacella per far posto alle sedie quando mangiavamo attingendo direttamente dalla comune spasetta ( da zio Luigi si mangiava nei singoli piatti ). Sul lato nord c’era lo stipo, diviso in due zone, quella inferiore aperta dove si riponevano i ciocchi e le fascine di ginestre o sarmenti, prelevati in piccola quantità dal loro deposito nella stalla, e quella superiore chiusa da sportelli, dove su due ripiani si conservavano utensili da cucina , vasetti con il sale o lo zucchero e, grande tentazione per me, la marmellata di amarene , la cotognata e la bottiglia di vino cotto. Ghiotto dell’ uno e delle altre rubavo- era il termine tecnico – qualche cucchiaiata o bevevo qualche sorso. Quando il livello delle leccornie si era visibilmente abbassato, ai dinieghi da parte mia seguivano le inevitabili botte di mia madre. Ad angolo con lo stipo seguiva la fornacella di maiolica bianca, in cui erano incastrati quattro fornelli con relativa porticina di ferro, il primo a sinistra per la caldaia piccola, il secondo e il terzo per le piastre concentriche di ghisa, che erano rimosse o lasciate secondo il diametro della caccavedda da mettervi sopra a riscaldare, il quarto all’estrema destra per la caldaia grande. Al centro, su un ripiano leggermente rialzato rispetto al pavimento c’era il focolare aperto, dove sboccava la canna del camino, il cui tiraggio si poteva regolare mediante una valvola di piastra di ferro. Tutte le porticine avevano un pomo di ottone rilucente.

Ad un’asta metallica estraibile si potevano appendere pentole ed altri recipienti direttamente sulle fiamme del focolare, servendosi anche di treppiedi di varia grandezza. Altre volte le vivande erano cotte sulla brace, come i peperoni abbrustoliti e le castagne, o sulla brace e nella cenere calda mediante i chinghi, due rozzi piatti di creta cotta a bassa temperatura, adibiti specie per la migliazza di granturco e ciccioli, una specie di polenta che da noi si mangiava d’inverno maritata a una ricca salsa di pomodori o peperoni e che per i poveri più poveri di noi sostituiva il troppo caro pane di frumento. Una specie di corrimano di ferro da noi, di ottone presso i signori, faceva da cornice al limite superiore della fornacella : da esso pendevano la paletta per levare la cenere e lo stuzzicacarbone. Cucchiare e cuppini erano appesi a ganci nel muro. Lo iusciaturu, lungo tubo di ferro con cui ci si spolmonava per provocare l’accensione o animare le fiamme era nell’angolo a destra dello stipo. Il focolare, quando cominciava il freddo a fine ottobre e che durava fino a tutto marzo, era il punto focale della casa : ci si sedeva od accoccolava attorno ad esso per scaldarsi e qualcuno affermava che i geloni erano provocati dallo stare troppo vicino al fuoco. Essi erano addirittura passati a significare i parenti : zio Giovanni alle sollecitazioni più o meno dirette dei parenti Sarni da parte materna rispondeva per scrollarseli di dosso e toglier loro ogni speranza di ereditare, essendo egli senza figli, che lui i soli geloni che conoscesse erano quelli che si contraevano d’inverno stando accanto al fuoco. Complemento del focolare era il braciere : vi si collocava la brace e sui bordi si appoggiavano i piedi intirizziti. Esso serviva anche da asciugatoio della biancheria : a tale scopo vi si collocava sopra una specie di campana a reticoli fatta di asticelle di legno e sopra di essa la biancheria, camicie, pantaloni, fazzoletti e in particolare le fasce in cui erano avvolti i bebé e che pisciate andavano lavate con 53


frequenza. Le lenzuola, invece, erano stese da noi nel vano della cisterna, lì restando per parecchi giorni. Attorno al focolare avveniva anche la conversazione con qualche ospite che approfittava del caldo per scambiare pettegolezzi o raccontare storie e fiabe a noi bambini. Con la bella stagione questo conversation pool si spostava fuori di casa sui gradini nostri o di mastro Giovanni. Nei lunghi mesi d’inverno attorno al focolare noi facevamo anche i compiti e lì appresi da mio fratello e mia sorella a leggere fin dall’età di quattro anni. L’aria chiusa e affumicata della cucina , carica di buoni odori che esalavano dalle tielle e pentole o scendevano dai prosciutti, pezzi di lardo, salsicce, vesciche di sugna, collane di cipolle, agli , peperoni o pacchi di aste di origano appesi alle pertiche, era di tanto in tanto rinnovata creando una corrente tra le due finestre con inferriate in alto, aprendo anche la porta verso il vano della cisterna che dava sulla strada, badando, però, a chiudere la porta che, scendendo tre o quattro gradini, portava alle camere da letto. Se le lagane, i paccarotti e i cavatieddi si facevano sul tavolo in cucina, la farina s’impastava nella fazzatora o madia nel vano della cisterna. Mia madre si alzava prestissimo quando doveva preparare il pane e io, raggiungendola più tardi, la trovavo ancora lì a lavorare di pugni e di gomiti nella massa frolla, cresciuta con il lievito o criscitu conservato dalle volte precedenti in un angolo della madia e dal quale si staccava un pezzo per la lievitazione. Quando un gobetto al servizio di Vincenzina Scudieri e fuochista dell’omonimo forno passava al dilucolo sotto il balcone di casa gridando « Cuncettella, puoi scanare »– preparare la pasta-, mia madre dalla pasta ormai ben cresciuta staccava, formandole con rapide e sapienti mosse da quasi levatrice, le ruote di pasta disponendole su una lunga tavola, incise di traverso con il coltello affinché poi cuocessero meglio e coperte con un panno per non prender freddo. Bilanciando con destrezza la tavola sulla testa protetta da un cercine, le portava quindi per la

ripida e sassosa discesa della Rampa al forno, che il gobetto aveva intanto portato rapidamente a giusta temperatura alimentando il fuoco con fascine di ginestre e balle di paglia. Le ruote e panelle di pasta erano da lui introdotte con l’aiuto anche delle donne nella bocca ardente del mostro, badando a non bruciarsi accostandovisi troppo. Mia sorella, man mano che cresceva, era allevata a questo futuro compito di donna , seguendo per ora mia madre con una tavola più piccola sulla testa o con il ruoto della pizza e talvolta della famosa carne alla pizzaiola. Questo compito poteva anche essere affidato a me. Le ruote di pane duravano quindici giorni circa e le fette, consistenti e di buona granatura perché nella farina si lasciava pure una certa quantità di crusca, erano la parte preponderante del nostro cibo, anzi imbevute d’acqua e con qualche goccia d’olio erano la nostra merenda preferita, che ci preparavamo tagliandole dalle panelle già cominciate e conservate nella madia. Zio Luigi non faceva il pane, non preparava la pasta fresca, non ammazzava il maiale, non allevava i polli. La conseguenza era che il passaggio di beni alimentari, a cominciare già dal grano, granone, crusca e ghiande, era nei due sensi da lui verso di noi e da noi verso di lui. Le ghiande per esempio erano da noi raccolte a fine settembre per terra sotto le querce del casino a Selvapiana – e ricordo non solo il freddo alle dita e i dolori a star tanto tempo curvi, ma anche la fugace apparizione una volta del brillante gallo cedrone con il suo canto roco- per ingrassare il maiale, di cui approfittava anche zio Luigi, arrivando perfino a barattare uno o due prosciutti per lui, lasciando a noi solo le spalle, pure queste a volte vendute ad altri per far qualche soldo, che si faceva anche vendendo le uova a coppia, mai sole. E se tutta la famiglia, me compreso, era ammessa a spigolare sulle stoppie di Selvapiana, questa non era una graziosa concessione da parte sua, essendo a tutti indiscriminatamente concesso di spigolare dopo la mietitura, ma caso mai una poco 54


simpatica concorrenza con i poveri coloni, in tal modo da noi privati di un magro complemento alle loro già magre risorse. Ma era una guerra tra poveri e non si guardava troppo per il sottile. Mia madre sotto il sole dei primi di luglio, spigolando e di tanto in tanto sollevandosi, cantava come una cicala, mio padre bofonchiava contro l’avarizia del cognato e noi ragazzi pur doloranti eravamo orgogliosi se dopo una giornata di sudori si era riusciti a riempire due sacchi di spighe. Certo, spesso la pezza di formaggio che lo zio ci dava era stata già attaccata dai vermi e, benché alcuni buongustai ubriaconi considerassero tale stato di putrefazione una delizia per il palato, noi dovevamo con la punta del coltello estrarre dalle cavità le bestiole , che inarcandosi saltellavano sul tavolo. Vermicosa o no quella pezza di formaggio era spesso l’unica risorsa per una povera cena e delle volte non avevamo neanche quella e dovevamo contentarci di pane e cipolla. Anche se dava di malagrazia, lo zio pur dava e, a ben riflettere, dovevamo esser contenti di questi doni, cui per principio non era strettamente tenuto, anche se per via diretta o indiretta ci trovava un tornaconto. Tutto considerato e a prescindere dal lato odioso di certi suoi atteggiamenti, la nostra famiglia disastrata poté sopravvivere ed evitare il peggio solo grazie a lui, che poi nelle grandi occasioni e nei momenti più difficili e non sempre tirato per i capelli interveniva a tenere la barca a galla, facendoci a volte far perfino bella figura. Lo stiracchiamento della corda, mollata millimetro a millimetro, resta però nella memoria, non solo crudele , ma in questo caso anche ingrata. E se è vero che la sua miopia e a volte cecità rovinò talvolta le occasioni più belle che avrebbe potuto avere la sua generosità, è anche vero che sotto pressione finì per cedere e intervenire in ultima istanza a salvare il salvabile. Fu questo per due volte il caso per quanto mi riguarda personalmente, cioè al momento

di essere accettato in collegio e poi di essere accolto per due anni in casa dello zio professore. La prima volta intervenne accompagnandomi in treno fino a Nocera Inferiore e qui comprando due delle celebri sfogliatelle, poi di qui a Pagani da un redentorista, zio dalla parte di nonna Caterina, e poi in carrozzella fino all’educandato di Lettere, sopra Gragnano. A Pagani, mentre lo zio , padre Schiavone, ci preparava in foresteria il caffellatte, zio Luigi affrontò subito il problema della retta mensile da pagare per me. Lasciandosi andare fino a una bestemmia, il che suscitò le ire del religioso, che per poco non ci mise alla porta, mercanteggiò la somma, portandola soltanto a ottanta dalle centoventi lire e facendo accollare al religioso la differenza. Non so dove costui, che era il cronista della provincia napoletana della congregazione, trovasse i soldi, dato che non poteva per il voto di povertà possedere nulla. Ma anche quelle ottanta lire non furono regolarmente corrisposte, esponendomi all’umiliazione davanti ai miei compagni di sentire il direttore del collegio rimproverarmi ed esortarmi, mentre apriva davanti a tutti e leggeva la lettera che doveva contenere il dovuto vaglia, a scrivere allo zio ricordandogli di pagare la retta. Che fosse remissivo, non è il caso neanche di pensarlo. Duro nelle trattative perfino al limite del ridicolo difendeva i suoi interessi con acrimonia. Quando l’amante Filomena gli chiese di prestarle un’arnia vuota, accondiscese. Dopo un anno, però, quando le api sciamarono e si riuscì a catturare con la nuova regina anche una parte dello sciame, pretese la restituzione dell’arnia, non più vuota ma con lo sciame in essa rimasto. Al che la donna lo mandò a farsi benedire, scandalizzata da tanta avarizia. Bastava assistere ai suoi mercanteggiamenti nell’acquistar qualcosa per avere un’idea della sua tenacia nel non voler sborsare neanche un soldo in più di quel che pensava fosse il suo vantaggio. Fu il caso dell’acquisto della mia mantella. 55


Avrò avuto sei o sette anni e non so se avessi mai posseduto un cappotto. Tenendo conto ch’ero in fase di crescita, ci si decise a comprarmi una mantella, quell’indumento a ruota in cui ci si avvolgeva gettandone una parte sopra le spalle a formare per proteggersi dal freddo un cono da cui fruoruscivano la testa e, se si voleva, le mani attraverso due feritoie laterali. L’indumento era indossato anche dagli adulti e perfino i signori non lo disdegnavano perché più pratico del cappotto. Anche i soldati l’avevano, permettendo più facilità di movimenti. Forse si portava più in campagna che in città, come cantava la canzone napoletana del notaio che aveva lasciato Napoli per la provincia ( Signorinella pallida eccetera ). Doveva essere la festa di san Rocco : per tale occasione arrivavano in paese, con la banda e i fuochi d’artificio, negozianti d’ogni genere, tra cui spiccavano i rivenditori di torroni e d’angurie, ma anche di utensili domestici ed agricoli e di tessuti sciolti – le pezzeo confezionati in abiti. Era merce di poco prezzo e di dubbia qualità e i rivenditori , che andavano di festa in festa e di fiera in fiera, erano particolarmente agguerriti, al limite dell’imbroglio. Al riparo della tenda, dalle pertiche pendevano questi manufatti. Gli acquirenti andavano di tenda in tenda, osservando e paragonando, decidendosi alla fine a tastare il terreno. Facendo finta di niente, si chiedeva il prezzo di un prodotto. I commercianti versuti sparavano una cifra, una diecina di volte superiore a quello che era il prezzo vero, diciamo cento per dieci. Il compratore a sua volta pensava al massimo a cinque. « Ma sei pazzo, compare : questa è una stoffa di primissima qualità. Dammi la mano, la senti com’è resistente e morbida ? Del resto è l’ultimo pezzo che mi resta, gli altri sono andati tutti a ruba. » « Ma tu chi vuoi fottere ? Sappiamo benissimo come fanno i santangelesi ( o lionesi o napoletani ). « « Senti, perché mi sei simpatico, voglio proprio rovinarmi : te la do per settanta. » « Ma tu chi vuoi pigliare per fesso ? « « Faccio uno

strappo alla mia coscienza : dammene cinquanta. » « Ma che cinquanta e cinquanta ! « e ci si allontanava, facendo un giro per le altre tende e bofonchiando scandalizzati e, tanto per compensare la mia delusione perché vedevo sfumare l’acquisto della mantella, dandomi due soldi per comprarmi una fetta di anguria ( « Con due soldi mangi, bevi e ti lavi la faccia «, urlava il rivenditore ). Come a caso si tornava alla tenda dove faceva bella mostra di sé l’agognata mantella grigioverde od azzurra. « Senti, faccio un’offerta ch’è proprio l’ultima : ti dò quattro. » « Ma che quattro e quattro. Vieni qua, « gridava alla moglie che era dall’altro lato del banco. » Lo senti questo morrese ? Mi offre solo quattro. » « Io ti ammazzo se gliela dai, così rovini la famiglia. Anche noi abbiamo figli da nutrire «, gridava poi allo zio quasi piangendo ed indicandomi con il dito. Intanto attorno alla tenda si era riunita una piccola folla che assisteva divertita e interessata allo spettacolo. Cercando l’approvazione degli astanti, che la davano volentieri, ci si allontanava di nuovo dalla tenda, facendo un giro fino alla guglia di San Rocco. Mia madre cercava di convincere lo zio a offrire di più perché la povera creatura, ch’ero io, aveva estremo bisogno di quel panno e non poteva andare in giro sotto la pioggia e poi la neve con gli abiti rattoppati ch’era una vergogna per tutta la famiglia. A malincuore lo zio tornava alla tenda, annusando i dintorni come un cane che cerca la preda. Poi insinuava conciliante « Senti,compare. » « Compare io e da quando ? « « Senti, compare : dammela per cinque e finiamola .» e mostrava la moneta d’argento da cinque lire. « Ma tu sei pazzo : vieni qua, mi chiamava il commerciante, indossa questa meraviglia, e m’infilava la mantella. Lo vedi quanto è bello il ragazzo ? Dammi venti e non se ne parli più. » « Macché venti. Questa è stoffa di Prato fatta con gli stracci ; alla prima pioggia si sfilaccia tutta. « e mi spogliava del benedetto indumento. « Ma lo vedi che la creatura piange ? » ed era vero ch’io ero al limite delle lacrime. Dammene diciotto. » « No. « « Quindici. » « No. « 56


« Dodici. » « No. » « Dieci e non ti far più vedere da queste parti. » A dieci lo zio cedeva , tirava fuori le due monete d’argento da cinque, facendole suonare l’una contro l’altra, e si faceva impacchettare la benedetta mantella. Sulla via del ritorno iterava a mia madre : « Lo vedi che l’ho fatto fesso ? Una mantella simile vale almeno venti lire. » Rivolto alla moglie, a bassavoce il commerciante diceva più o meno la stessa cosa : « Ce n’è voluto per far fesso questo morrese. » Il duello aspro era servito a dare il minimo o ad incassare il massimo, ma nella testa di ognuno dei duellanti la cosa che più contava era la consapevolezza di esser riuscito a far fesso l’altro. La seconda volta che zio Luigi intervenne a mio favore fu quando lo zio professore gli chiese di contribuire alle spese per il mio mantenimento con prosciutto, formaggio ed altro : si fece tirar gli orecchi e dare dell’avaraccio davanti a tutti, ma alla fine cedette. Sarebbe bastato poco da parte sua per non fare e farci fare queste figuracce, come capitò un’altra volta per mio fratello, tornato sbrindellato da sette anni di militare, guerra e prigionia e che per il matrimonio di mia sorella dovette farsi prestare un abito da Giovanni Natale, abito che lo zio con poco sforzo avrebbe anche potuto procurargli. Quasi ognuno aveva in paese un soprannome. Noi Grassi eravamo Castorini e c’era la cantilena « Castorino, panno fino, l’ultima medecina e poi si muore » ( Salvatore, fratello di nonno Daniele, che era sarto, aveva le figlie sarte e gestiva un negozio di tessuti, era forse all’origine del soprannome ? ). Don Gerardino De Rogatis era Lu pizuochu e con tanti preti in famiglia lo si poteva capire. Zio Luigi era La cardella e a cosa si alludesse e perché quel femminile non sono mai riuscito a saperlo. Nonostante tutto, in paese il suo rapporto con noi era valutato a suo favore. « Meno male che c’è zio Luigi ! «, dicevano.

Una vecchia abitava subito dopo piazza S. Rocco di fronte al palazzo Covino in una casa pittorescamente abbellita da una pianta che cresceva nel muro dello afiu, la tipica scalinata esterna molto frequente nel quartiere delle Pagliare, dove nel seicento dopo un terremoto che distrusse buona parte del paese furono costruiti provvisoriamente i pagliai per i sopravvissuti e poi le relative case. Lu afiu, comune in tante parti del meridione, serviva con il vuoto sotto la scala a ricavare uno spazio supplementare adibito a legnaia o piccola stalla. In chi indusse la gente a ricorrere a tale tipo di costruzione non fu forse assente l’accorgimento di far scappare gli abitanti , in caso di nuovo terremoto, direttamente all’aperto dalla stanza al primo piano dove dormivano senza dover scendere per una scala interna che, precipitando con il resto della casa, li avrebbe esposti a maggior pericolo. Orbene la suddetta vecchia, che al pianterreno aveva anche un negozio, una volta ebbe a dire che zio Luigi in realtà era il nostro vero padre perché lui solo si occupava di noi. Lei non so perché non mi era molto simpatica e una volta che lo zio da compaesani ebbe sentore che gli avesse rubato un sacco d’uva dalla vigna di Santantuono, non esitai a calunniarla affermando di averla vista anch’io rubar l’uva. Il che non era vero e me l’ero inventato o per farmi più bello agli occhi dello zio o per vendicarmi di qualche sgarbo fattomi dalla donna. Il rimorso per tale bugia mi restò sulla coscienza per molti anni, costringendomi a confessarla come peccato anche una diecina di anni dopo.. Per le funzioni di padre più che putativo di zio Luigi ero d’accordo con la vecchia, rincarando la portata dell’affermazione e corroborandola con episodi che ne ribadivano la verità e me ne vantavo come se fosse per noi un quasi privilegio. Sì, zio Luigi era più che nostro padre e nella fantasia infantile non rifuggivo dal figurarmelo come vero marito di mia madre, senza

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capire fino in fondo la natura di questi rapporti come tra marito e moglie. Mio padre stava ascoltando con crescente malumore quel che mi venivo raccontando. Giunto a questo punto gridando mi rinfacciò di averlo rinnegato. « Ma cosa vuoi che facessi se il rapporto padrefiglio era inesistente e la tua presenza era quella di uno spettro di cui dovevamo solo vergognarci ? « « Ti posso concedere anche questo, però a quello spettro non passò mai per la testa di rinnegarti come figlio e, se il rapporto sembrava di assente ad assente, non puoi sapere quanto io soffrissi di tale situazione nei momenti di lucidità che erano più frequenti di quanto pensi tu, che mi vedevi e mi ricordi sempre perso nelle nebbie dell’alcool e del fumo. Quello che ora mi confessi non l’avrei mai immaginato e mi turba ed offende da morto come mi avrebbe turbato ed offeso da vivo se l’avessi saputo. » Si alzò ed andò in giardino come per creare una distanza fisica tra un padre menomato ed un figlio giuda. Che fare ? Volli interrompere il corso di quei pensieri e per abbassare la tensione l’invitai ad uscire con me per una passeggiata nei dintorni. Il cambiamento di luogo doveva indurre anche un cambiamento degli spiriti. Mi seguì di malavoglia. I passanti, che non potevano vedere lui spirito, guardavano con malevola curiosità me che gesticolavo e parlavo da solo. Come per rimediarvi mi raggiunse ed affiancati continuammo la passeggiata distensiva. La mia villa era situata in una zona di particolare bellezza che era considerata la migliore del Brabante e del Belgio per abitare in campagna nei pressi di una grande città. Da un lato, a un duecento metri da casa, cominciava l’ Arboretum, grande orto botanico con specie europee ed esotiche, che a sua volta era inserito nella foresta di Soignes, vasto possesso dei duchi del Brabante e poi della casa imperiale e che era servito da luogo di caccia delle varie case regnanti dal medioevo fino all’ottocento. Ora era bosco demaniale

che, benché dimezzato dalla primitiva estensione di quindicimila ettari, era pur sempre abbastanza vasto per lunghe passeggiate lungo i grandi viali e per i sentieri alberati quasi sempre con faggi secolari. Dall’altro lato c’era il parco. Passando per uno stretto corridoio verde di lauri e fucsie e costeggiando un campo a trifoglio che era succeduto al grano, giungemmo al cimitero sulla sinistra, di fronte al quale c’era la casa di Jef, un originale morto da poco, di cui restavano nude dietro le sbarre del cancello due bambole del teatrino con il quale il povero vecchio tentava di attirare qualche passante per far quattro chiacchiere e vincere la solitudine. Subito dopo c’era un’altra casa con le serrande quasi sempre abbassate. Un paio di giorni prima, però, ero riuscito a bloccare sul marciapiede una fiorente ragazza, di cui già a cinquanta metri, all’angolo del cimitero, avevo notato il petto florido, la bella statura e il ventre con l’ombelico scoperto tra i pantaloni bassi e un corto bustino. Sì, abitava dietro quelle serrande e studiava pedologia. « Allora ti piacciono i bambini. Sei già sposata ? « « No. » « Ma come fa una bella ragazza come te a non avere un marito o un fidanzato ? » Si schermì, sorridendo contenta. Se l’avesse rivista Jef ! Sarebbe certamente risuscitato. « E’ questo il cimitero in cui sarai sepolto ? « , mi chiese mio padre. La domanda che mi ero posta varie volte, venendo ora da lui, mi punse più a fondo. « Non so. Non credo. Non voglio. Nel testamento ho già scritto di voler essere sepolto a Morra. » Notai che ciò gli fece piacere. « Allora saremo riuniti dopo la morte nella cappella costruita da tua sorella, dove riposano le ossa mie, di tua madre, di nonno Daniele, di tua sorella Olga, di zio Luigi in loculi di marmo e quasi sempre con tanto di fotografia. C’è anche la mia, ma non ho epigrafe, che tu però hai dettato per tua madre e tua sorella. Hai già pensato ad una epigrafe per te ? « « Sì, ma sono incerto. Forse la metteranno gli altri. Io preferirei esser sepolto all’aperto sotto un semplice tumulo e lì decompormi affidando alla terra i 58


pochi rimasugli che l’acqua porti a ingrassare i castagni fuori del cimitero. Quale sorte più invidiabile di quella di rinascere come mucchio di ricci spinosi con belle coppie di castagne ? Sarebbe questo il mio vero emblema postumo. » « Ma allora la compagnia con me e gli altri membri della famiglia ? « « E’ quella che rimpiango se fosse vera compagnia e potessimo, se non conversare, sentire almeno il calore gli uni degli altri. Ma tu sai che questa compagnia io l’ho persa già da settanta anni e più. » « Ora però son tornato al tuo fianco, anche se per poco. » « E questo mi fa piacere. » Di fronte a noi c’era il muro di mattoni rossoantico del parco, su cui crescevano a tratti larghi tappeti di edera. Lo costeggiammo per un buon centinaio di metri, raggiungendo la porta danneggiata del parco. « Avrai notato che l’ultimo pezzo di muro sulla strada è recente e più brutto del resto , con mattoni privi dell’aura infocata che ancora emana dopo secoli da quelli d’epoca. Anche qui come altrove si salva solo quello che fa far bella figura : guarda un po’ più in là sulla destra ; vedi quel tratto di muro crollato ? Un faggio vi è caduto sopra sfondandolo. Questi bestioni di venti metri e più hanno radici poco profonde, crescono facilmente con le piogge frequenti e altrettanto facilmente cadono come fuscelli alla prima tempesta. Orbene, del tronco enorme con cui si può far legna o tavole hanno portato via una buona parte, ma nel muro è rimasta quella grande rovina come se fosse stato sfondato a cannonate. Di là non passa nessuno e dunque può restar così malconcio, anzi qualcuno ha portato via i vecchi mattoni per reimpiegarli. Quindi l’utile dappertutto e solo l’utile. Il parco, che prima il muro chiudeva riservandolo ai signori, ha un perimetro così grande che potrebbe facilmente contenere un paese anche più grande di Morra. I canali e gli stagni che vedi sulla sinistra sono come i grani di una collana che si estende su questo lato fino al

lago in fondo- quasi una grossa gioia- per risalire dall’altro lato come grani della stessa collana fino alla penisola dove sorgeva il castello, di cui dopo l’incendio di un secolo e mezzo fa è rimasta solo la cappella. Il lato che stiamo percorrendo è quello più boschivo e segreto, l’altro dove mi stavi aspettando e che in parte abbiamo visto è quello più mondano. Alla fine di esso e in corrispondenza con il lago-gioia c’è un altro grosso stagno-laghetto in cui era immerso, per così dire, il castello. La forma ellittica di tutto il complesso è in parte naturale, in buona parte artificiale, così voluta dai signori del luogo e dai loro architetti, con il lavoro secolare di migliaia di uomini, militari compresi. Gli animali acquatici che s’incontrano ad ogni passo fanno bella mostra di sé dall’altro lato, ma nidificano e si riproducono più facilmente da questo lato, più calmo ed appartato. La generazione anche in natura avviene di preferenza in penombra e, per quanto possibile, in segreto anche se alcuni sfacciati, uomini compresi, si accoppiano all’aperto con noncurante ostentazione. E’ il caso dei piccioni, di certe anatre, che te la fanno sotto al naso, i maschi inseguendo le femmine, quasi incastrandole sott’acqua e per tenerle ferme durante le ripetute penetrazioni beccandole sulla testa con una ferocia che non crederesti possibile se la riproduzione fosse dovuta solo ad un atto d’amore. I fidanzatini e gli amanti, poi, se la fanno stesi sull’erba del prato o sui sedili di legno, incrociandosi, masturbandosi e penetrandosi in tutte le posizioni, superati in sfacciataggine forse solo dai cormorani, che, dopo aver pescato ogni giorno chili di pesce , poggiati su un ramo o tronco scacazzano lanciando in aria a due metri un getto di feci biancastre. Essi, però, non mancano di una certa araldica poesia quando dopo i lunghi tuffi aprono a ventaglio le ali, ventilandole maestosamente come emblemi imperiali. » Tre cigni bianchi nel lago, dopo aver guerrescamente scacciato dal loro territorio anatre e folaghe levandosi rumorosamente a 59


mezz’acqua e inseguendole con il lungo collo teso, ora facevano bella mostra di sé maestosi remando con indifferente superbia. Più tardi avremmo incontrato una coppia di cigni neri, arrivata da poco, scomparsa dopo un paio di giorni ed ora ricomparsa, che richiamava l’attenzione di tutti nello stagnone attorno al castello. La femmina era una piccolina graziosa accanto al maschio, un superbone aggressivo con un collo da far paura a un pugile. Lo snodava, lo infletteva, lo erigeva o abbassava con studiata lentezza, fissandoti con gli occhiolini rossoscarlatto che nulla facevano presagire di buono, attenti a cogliere il momento giusto per bastonarti con un colpo di spalla alare o del lungo becco rossocarminio, barrato di bianco in senso trasversale e provvisto di un’unghia bianca. Sul prato i cigni avanzano barcollando sulle larghe zampe, ma in acqua filano come velieri ed immergono e ritirano pescando il lungo collo che nell’acqua più profonda, quando non basta a raggiumgere il fondo, è prolungato da tutto il corpo che, alzando la metà posteriore, s’immerge come quella anteriore. Del piumaggio dei cigni neri, soffice e variegato in punta di colori più chiari ad unghia, non supporresti il sorprendente bianco immacolato delle remiganti primarie e secondarie, spiegate come un piano d’innocenza sotto la nera coltre di malizia, quando sollevano ed aprono a vela le ali. Ora fummo all’improvviso distratti e attratti dal chiasso delle folaghe. Alcune anatre stavano invadendo il loro territorio. Al primo avvistamento delle nemiche che avevano superato la linea di un ideale confine, tracciato dai neri uccelli con la placca bianca sulla fronte, due di essi partirono come frecce ferendo la calma superficie dell’acqua con un taglio rettilineo di spruzzi e gridi guerrieri. Ristabilito l’ordine nel loro dominio, le folaghe tornarono lente e pacifiche verso il monticolo di sterpi su cui in primavera avevano nidificato.

Passeggiando con mio padre e facendogli notare questo e quello, temevo di esser caduto nelle minutaglie di osservazioni scucite fra di loro che mi avevano fatto perdere il senso unitario del parco che sentivo quando ero solo, motivo per cui in genere a passeggiate in compagnia, e fosse pur con mia moglie, preferivo la solitudine in un’atmosfera non parteggiata e con la ricchezza e intensità del monologo. Inoltre mi ero accorto che, per far meglio comprendere a mio padre certi comportamenti animali e fenomeni vegetali, avevo a volte fuso le stagioni e i tempi, cosa che in sé non mi disturbava più di tanto, avendo costatato di fare altrettanto nel riesumare la mia infanzia. Bisognava, però, non far svanire quel senso d’unità che aveva legato paese e campagna nel parlare di Morra. A un certo momento, seguendo lo sculettare di alcune gallinelle d’acqua, che al nostro avvicinarci svelte svelte si allontanavano verso un punto preciso sulla sponda dello stagno, mi riapparve una donna , il cui bacino mi perseguitava ed esaltava anche nel parco per interposte fantasie vegetali. « Cosa pensi che sia quella cosa su cui ora saltano le gallinelle? « « Mah ! un albero caduto. » No, guarda meglio, soprattutto lì dove la figura si divarica. » « Potrebbe anche non sembrare la semplice forma di un albero. » « Cosa ti suggerisce allora ? « « Forse la forma di un corpo disteso nell’acqua. « « Maschile o femminile ? Guarda bene lì dove ti ho detto. » « Una donna allora, con la fessa aperta ( Da noi la fessa indicava la vulva, come il pesce indicava il fallo) . Ma perché t’interessa tanto ? « « Perché per vari anni l’ho cantata in poesia, dandole perfino un nome : Amadriade. » « E che significa ? » « E’ lo stesso nome che avevo dato a una donna che mi allettava e si rifiutava. L’avevo chiamata anche Felcinea perché preferiva far l’amore nel bosco tra le felci che la proteggevano con il suo amante da sguardi indiscreti. Quel troncodonna con il pube così evidenziato richiama fortemente la donna che di primo acchito ed a tutti dava il pube, serrando caldamente il suo bassoventre contro quello del maschio. Il tronco 60


appare. scompare, riappare tutto o in parte secondo il livello dell’acqua nelle varie stagioni. A volte è del tutto sommerso e lo si deve indovinare in trasparenza azzurra sotto l’acqua o d’inverno , quando gli stagni ed i canali gelano, tutto bianco ed immacolato sotto la lastra di ghiaccio. Quel va e vieni, quel tutto e quel poco, quel nulla del celarsi e quella civetteria del mostrarsi, quell’esser vivo fra le ondicine increspate dal vento o glorioso tra le foglie multicolori del tardo autunno o mummificato nelle bianche bende del ghiaccio invernale ben mi figurano la natura della donna in genere e il carattere di quella in particolare. » « Non avrei mai pensato di aver un figlio così complicato « e voleva dire contorto. La stessa Amadriade-Felcinea, che in seguito divenne Proserpina ( qui mio padre fece un segno d’insofferenza che mi fece capire che lo stavo portando su sabbie mobili di cui ignorava l’esistenza e il significato ) era presente, a qualche centinaio di metri più a monte, eretta in un albero invaso in parte dall’edera, che salendo lungo il bacino ancora verde aveva le ultime diramazioni ormai secche sulle due cosce. Così buona parte del corpo appariva e spariva sotto il ricamo vegetale quasi fosse rivestito di pizzi che coprivano e scoprivano, lasciando intravedere le parti molli che solo un uccello dall’alto avrebbe potuto contemplare in tutta la loro venusta grandezza. « Ma quell’albero non l’ho visto. » « No, non potevi vederlo : è stato abbattuto dai boscaioli. Ora mi resta solo Amadriade in posizione distesa qui davanti a noi e forse un giorno distruggeranno anche questa. » « E la donna ch’essa raffigura l’hai mai più rivista ? « « No, mai più. » « Così agli altri restano le donne in carne ed ossa e a te restano gli alberi. » « Questo è il destino di molti uomini e specialmente dei poeti. » Il discorso cominciava a prendere una piega malinconica, anzi amara, cui per me si aggiungeva la fragilità e necessità di trovare in natura i referenti oggettivi delle mie fantasie non soltanto letterarie, gioia e tormento di vivificare e personalizzare anche la natura che mi

circondava e in cui penetravo passeggiando come in un corpo palpitante d’amore, illusioni, delusioni e tradimenti, corpo vivo che viveva le sue stagioni, fioriva, si trasformava e scompariva. Così la scomparsa o la morte di un albero era la scomparsa o la morte di una donna e di un amore. Volli, quindi, divagare facendo notare a mio padre, che guardava tra i rami in alto passare uno stuolo gracidante di anatre dal collo bruno che ammarò poi accanto a un’isoletta al centro del canale, che in quelle acque si agitava non vista tutta una vita di pesci ed altri animali. Delle carpe, guardando ben bene, si vedevano i corpi bruni passare come ombre quasi a filo d’acqua. Quei sottomarini di una dozzina di chili, non molestati come altrove dai pescatori, nuotavano fra le ninfee ed ogni tanto la superficie equorea bolliva e dalle schiume appariva per qualche istante un corpo ceruleo che saltando fuor d’acqua abboccava l’aria per poi ricadervi con un tonfo. « Quando fa un po’ più caldo, dai loro rifugi nelle ripe escono fuori le tartarughe che si dispongono in bella fila sui tronchi emersi a prendere il sole. » Nel canale successivo stavamo avvicinandoci ad un airone cenerino. L’elegante pensatore con il mondano ciuffetto nero sul retro della testa sembrava con il collo rientrato voler filosofare cose profonde, tutto chiuso e raccolto in sé. Quando giungemmo alla sua altezza, l’occhio giallo aveva già dato l’allarme : scrutò per un paio di volte i dintorni e con uno scatto prese pesantemente il volo. Contrariamente al cigno che volando protende come una spada il lungo collo, l’airone lo restringe contro il petto, lasciando solo alla testa e al lungo becco la funzione di fendere l’aria davanti a sé. Dopo un breve giro, tornò verso di noi, ma si posò a debita distanza sull’altra sponda, salvaguardando una sua zona di sicurezza. Solo con il cattivo tempo e con la neve resta indifferente sul suo tronco, anche a distanza ravvicinata e, che sia il freddo o la fame, è meno altero e quasi compagnevole. « Quasi come gli uomini. I poveri sono più disponibili dei ricchi «, disse mio 61


padre, al quale nello stagno successivo, la cui riva a noi opposta era chiusa ai passeggiatori, feci notare sui rami e nelle chiome folte degli alberi numerose coppie di aironi che lì nidificavano. I tronchi erano bianchi dei loro escrementi, anche se nei mesi più freddi la colonia migrava , non potendo più pescare nell’acqua gelata. Quando il vento tirava verso la nostra parte si avvertiva il fetore di quei nidi sommari che si sommava con quello dell’acqua lì quasi stagnante. « Vederli con il loro piumaggio grigiocenere bianco e la slanciata forma aerodinamica del corpo è come assistere alla parata di giovani eleganti e impomatati, che si dandineggiano fuori casa, dove regna, però, ben altro che un’accurata pulizia ed i corpi sbellettati e poco lavati sentono di sudore e di appiccicaticcio. » « In tanto verde sento poco cantare. Solo qualche schiamazzo e starnazzo di piche e di cornacchie », notò mio padre. « Gli uccelli canterini sono stati quasi eliminati da questi uccellacci che rubano le uova e anche i piccoli nei nidi. Restano, quindi, essi ed i merli, che nidificano nei cespugli e fra i rami di alberi più piccoli. Ne abbiamo molti anche noi in giardino ed al tramonto è gradevole ascoltare il loro canto. I passeri sono scomparsi, i cardellini sono rari, abbondano le cince e i pettirossi. Anni fa verso sera si poteva assistere al concerto del tordo bottaccio che, oltre al suo verso, imita quello di altri canterini, un vero virtuoso. Se ora presti l’orecchio, puoi sentire come un segnale di allarme quasi funebre il tac-tac del picchio, che frequenta questi alti tronchi e trova sempre modo di fare il suo nido approfittando dei rami vecchi. Il cuculo si sente, talvolta fino a notte. Ora, però, è raro. I primi anni da casa lo credevamo a noi vicino e lo cercavamo tra i rami. Ma come sai, non è facile vederlo. All’appressarsi di qualsiasi intruso tace e si sposta su un altro albero, dal quale riprende la cantilena. » « Già, mi ricordo, anche a Morra lo cercavi con altri ragazzi e solo una volta o due riuscisti a vederlo nei boschi sotto la vigna di zio Luigi. »

Eravamo tornati a Morra, dove per il clima asciutto e la mancanza d’acqua la vegetazione era più ridotta, ma più sostanziosa ed aromatica, anche nel letto dell’Ofanto. Eravamo intanto arrivati al lago, dove dai due lati convergono i canali e gli stagni. Le sponde negli ultimi tempi erano state restaurate, cioè con tavole incatramate, gabbie di sassi per formar dighe e altri marchingegni era stato impedito alle correnti di mangiar poco a poco le rive e d’invadere i prati circostanti. Durante i lavori il lago era stato prosciugato pezzo a pezzo, dirigendo il ruscelletto, ch’era all’origine e alimentava quel complesso acquatico, ora da un lato ora dall’altro. Il risultato fu che dal limo non più sott’acqua spuntarono ciuffi e ciuffi di erbe e piante, specie di giunchi. Quando l’acqua tornò a invadere tutta la superficie del lago, la maggior parte della vegetazione acquatica fu soffocata, eccetto i giunchi lacustri. che estirpati dal lago restarono a crescere sulle sponde, raggiungendo anche i tre metri di altezza. Dopo la fioritura dal pennacchio emergeva un cilindro marrone di trenta centimetri buoni, che svettava sullo stelo, slanciato ed esile in confronto con questo frutto vistoso del diametro di quattro, cinque centimetri. Ne volli cogliere due di quasi uguale grandezza, uno per me, l’altro per mio padre. « Ricordi, dissi, i giunchi che crescevano nel letto dell’Ofanto ? « « Sì, ma quelli erano minimi rispetto a questi. Te ne servisti una volta per imbeverne il frutto di petrolio e giravi con quella fiaccola accesa giocando con l’altra che reggeva tua sorella. » « Li avevo colti nel letto del fiume dove li avevo scoperti correndo dietro a una donnola. L’elegante animaletto correva come un diavolo e dopo l’inutile inseguimento di pochi metri scomparve. Ora mi ricordo sempre della donnola quando osservo uno scoiattolo, animale più grande, ma altrettanto elegante. » Accanto ai due cilindri di giunco che avevo colto ce n’erano altri in fase di maturazione più avanzata. Il velluto così morbido e compatto era scoppiato in qualche punto e dalla breccia usciva una fiorescenza 62


di lana che andava dal marroncino allo champagne, al bianco. Ne colsi uno e premendo un po’ vidi venir fuori quasi un’eruzione : dal centimetro quadrato della superficie premuta eruttava una nuvola di sette, otto centimetri di materia lanosa che si sperdeva in aria in balia della brezza. Erano le capocchie brune di un millimetro e meno dei semi, ognuna retta da un peduncolo filamentoso che le serviva da vettore, portandolo lontano. A occhio e croce doveva trattarsi di un milione di semi, stretti l’uno contro l’altro fino a poco tempo prima per formare quel tessuto compatto, caldo e soffice. Mio padre volle provare anche lui a liberare quei presunti prigionieri. Io intanto seguivo un corso diverso e inconfessabile di pensieri. Vedevo la donna amata e renitente, nel cui sesso introducevo come un vibratore quel frutto o glielo regalavo affinché nelle giornate di magra o nelle ore di vizio solitario si soddisfacesse da sola. Nessun fallo poteva essere così duro e di quelle dimensioni, né farla godere con uguale intensità. Mentre seguivo quelle erotiche fantasie, e nonostante esse, potei notare sul prato, quasi inciampandovi, vari ceppi di famigliola buona. Passeggiando nel parco o nel bosco ero spesso assalito dal pensiero che dovessi scegliere tra l’utile e il dilettevole, cioè o concentrare lo sguardo al suolo alla ricerca di funghi o più disinteressato farlo vagare intorno e in alto a osservare e contemplare cielo, alberi ed animali. Come la compagnia e la conversazione con altre persone, così quella interessata ricerca non permetteva d’immergermi nel fluido misterioso ed unitario della natura in una determinata ora di una determinata stagione, in cui terra, acqua e cielo cospiravano a farmi sentire altrove con sensazioni vaghe di quasi assorbimento e annullamento. Era la classica campana di vetro che imprigiona- o piuttosto libera- gli amanti. Da quelle passeggiate tornavo a casa come da un altro mondo, di cui però, più che l’estraneità, sentivo la complementarità.

L’annata per un micofilo come me era stata maledetta. Piogge continue per mesi e mesi a primavera , d’estate e ora in autunno avevano impedito il crescere e lo spuntare dei funghi. Niente porcini, qualche sparuto boleto, niente sparassi, solo pochi agarici dal piede obliquo, che tanto bene si prestavano a farcire le lasagne dando ad esse un dolce profumo di anice. Le colonie di chiodini che invadevano i ceppi o crescevano a gruppi serrati anche sul terreno erano ora il sostituto di tanto ben di Dio assente. Colti giovani con le capocchie ancora chiuse, dopo esser stati sbollentati per cinque minuti e gettando l’acqua residua, potevano essere un buon complemento a un piatto di spaghetti e bolliti potevano anche esser conservati sott’olio. Alcuni nivei e fioccosi coprini crescevano fiabeschi un po’ più in là fra l’erba. Venuti su la notte, bisognava consumarli subito, se no si annerivano e allora addio il loro saporino delicato, esaltato da burro e prezzemolo in padella. Li colsi adagiandoli delicatamente sul letto dei chiodini, di cui avevo spezzato il gambo legnoso, in un sacchetto di plastica che portavo sempre con me quando uscivo per la passeggiata. Il metodo era un po’ barbaro ; sarebbe stato necessario avere un paniere di vimini per non maltrattarli, ma siccome da qualche tempo le guardie forestali si divertivano a perseguitare i micofili, un sacco di plastica nero o marrone che dava meno nell’occhio e si poteva facilmente occultare dietro un tronco serviva bene a tale scopo. In questo gioco di guardie e ladri non raggiunsi mai l’abilità mimetica di un vecchietto, che sorpresi una volta mentre avanzava per i viali spingendo la carrozzina con il nipotino : adocchiato un fungo, lo coglieva rapidamente e lo nascondeva in una sacca che aveva nella carrozzina. Chi volete che sospettasse quell’ingegnoso sotterfugio e desse noia all’onesto nonnino ? I divieti dei forestali erano tanto meno rispettati e rispettabili quanto più sciocchi e in malafede erano costoro, che mentre predicavano la salvaguardia della diversità delle specie, avevano ampiamente 63


contribuito a distruggere le zone di crescita delle varie specie di funghi, rivoltando a fondo il terreno e impedendo ai carpofori di allignarvi. Nel primo stagno che avevamo costeggiato e sulle cui sponde crescevano a frotte i porcini, ora c’erano solo tronchi morti, erbacce e giunchi. Manovrando le chiuse da stagno a stagno e da canale a canale, avevano lasciato montare l’acqua fino a quattro e più metri, invadendo le ripe e ammollendole come spugne. Il risultato fu che i faggi che vi crescevano caddero l’uno dopo l’altro come fuscelli, trascinando con sé pezzi interi di ripe e in qualche caso anche dei viali. Accortisi del malfatto quegli insipienti corsero ai ripari, lasciando defluire tutta l’acqua dello stagno, nel cui fondo asciutto ora serpentinava un misero rivoletto. Conseguenza : le ripe non assorbirono più acqua , si essiccarono completamente e tolsero ai carpofori l’umidità necessaria a far crescere i funghi. Lo stesso avvenne dall’altra parte nel primo laghetto a ferro di cavallo, in cui era inserita la penisola su cui sorgeva il castello. I pescatori, allontanati dal lago dove da anni tormentavano le carpe, vi si erano stabiliti. Quello era uno degli sport più stupidi che si siano mai visti, consistendo nello stare tutta la giornata su uno sgabello con le lenze tese nell’acqua. Quando un pesce abboccava all’amo, suonava un congegno che avvertiva il pigraccio che ora poteva tirar la bestia a riva. Pescata, messa sul prato e a volte pesata sotto gli occhi dei babbei che ammiravano il campione, mentre il pesce si agitava e saltellava, lo sciagurato tentava di estrargli l’amo dalla bocca ferita, dopo di che rimetteva il pesce in acqua e rilanciava la lenza, ripescando spesso la stessa bestia dopo una mezz’oretta. L’esercizio si ripeteva una quindicina di volte con successo e solo qualcuno portava a casa una carpa, cui aveva diritto, ed altri neanche quella perché non sapevano come prepararla, essendo questa una specialità dei paesi dell’Europa dell’est. Questo passatempo contribuiva per così dire a distendere i nervi di quei

gaglioffi, che scendendo con tutto il loro armamentario –carrelli, tende, seggi, tavolini e gamelle con il picnic- avevano rese aride e cretose le ripe, su cui non cresceva più niente, ma facevano bella mostra di sé barattoli, lattine e cartacce unte. Dei funghi che prima lì abbondavano, solo qualche sparuto esemplare e tutto questo con la benedizione dei forestali : i pescatori andavano rispettati ! Non per nulla essi e la loro associazione pagavano le tasse speciali allo stato e al comune. Non so se per dispetto contro le guardie forestali o contro Giove pluvio volli dare delle pedate contro le cappelle bianche e durissime delle amanite muscarie. La cappella come un bottone era saldata al bulbo grosso, inserito tenace nel terreno. Qualche amanite più avanti nella crescita mostrava già il rosso della cuticola cosparsa di verruche bianche come fiocchetti di neve. Il fungo sarebbe stato maturo in tutto il suo splendore fra qualche giorno. E’ forse la specie più vistosa e decorativa : vederne tre o quattro nel bosco l’uno vicino all’altro attira subito l’attenzione e la voglia di coglierli, non fosse altro per decorazione, è irrefrenabile, abbellendo in un vasetto la casa come una bella natura morta. Ma la natura può essere anche viva se nello stesso vasetto si mette un po’ d’acqua e l’amanite ancora giovane la si lascia crescere, aprirsi e svilupparsi , assistendo nel giro di otto giorni alle varie fasi della sua vita e della sua morte. Il suo veleno non è però così letale come quello delle congeneri tignose, il cui colore biancastro o verdastro dovrebbe già dissuadere il raccoglitore. Si dice che la muscaria è paragonabile a certe droghe e sotto il suo effetto si travede, diventando furiosi e spaccando i mobili, però cavandosela , il che non è il caso con le sue tristi sorelle , che non fanno subito effetto , spappolando lentamente il fegato e, quando te ne accorgi dopo tre giorni, sei già bello e spacciato. E’ possibile paragonare il fungo con la donna nel suo bene e nel suo male ? E la ricerca affannosa di esso può essere paragonata alla ricerca amorosa, come facevo io ? 64


Quasi all’uscita dal parco, un po’ prima dell’altra porticina d’ingresso, vidi da lontano qualcosa che emergeva dall’erba. Era quello il luogo dove trovavo sui tronchi e ceppi delle querce le lingue di bue, così compatte e carnose, con il dorso rosso sangue e la faccia inferiore di un bianco vellutato come petto di donna. Anch’esse quest’anno non si erano viste. Tanto più grande fu la mia sorpresa quando vidi l’una a fianco dell’altra tre macrolepiote pròcere o mazze di tamburo : una completamente sviluppata troneggiava come un elegante parasole di venticinque centimetri biancobruno sun un gambo di una trentina di centimetri ; l’altra era a tre quarti della crescita e la sua cupola conica con le scagliette brunastre più dense era ancora semichiusa in basso dal doppio anello del velo ; la terza presentava la compattezza percussiva di una mazza di tamburo fioccosa e bruna e la si doveva svitare dal gambo per vederla bucata in basso al centro. Come evitare di pensare a tre belle donne nelle tre fasi della verginità, delle prime penetrazioni e della completa disponibilità sessuale? Godersele poi saltate in padella, dopo averle rivestite di pan grattato in uovo sbattuto e benedicendole alla fine croccanti con qualche goccia di limone, era aggiungere al piacere dell’occhio contemplante quello del palato degustante. Senza troppo riflettere dissi a mio padre che giunti a casa avremmo potuto con mia moglie sceglierci ciascuno la più conveniente. Lui sorrise e ciò bastò a farmi ricordare che già mi aveva fatto notare che i morti non mangiano. L’ultimo tratto di strada fuori dal parco non scambiai con lui una parola : ero stato assalito dal solito accesso di poetare e stavo già martellando i versi, questa volta tutti con l’accento sull’ultima sillaba : « Per funghire ci vuole umidità propria e promossa con dattilità. » « Ma tu l’immetti anche con crudeltà. » « Quando sei secca o per piovosità

eccessiva sei tutta acidità e preziosa, o ancor peggio, di onestà ti rivesti e perfino carità pretendi esser la tua frigidità. » « Ben grosso il fungo or sfida metrità perché a funghir mi hai immesso umidità. » « E vi scapocchio con virilità. » Trallallera, lallera, trallallà. Rivenni da quel dialogo infungato con la donna, quasi svegliato da mio padre che disse : « Da noi non c’erano tanti funghi. » « Forse, ma può darsi che ci fossero e noi non li raccogliessimo. Chi non cerca non trova. » Nei boschi di castagni tra Morra, Guardia e Sant’Angelo ce ne saranno certamente stati. Don Pietro e don Remigio talvolta ne portavano in paese e dicevano di averli trovati sui tronchi di sambuco. Cosa saranno stati ? Pleuroti ? Io nel parco avevo trovato su un tronco di abete malato cascate di più metri di pleuroti, a conchiglia l’uno sull’altro, a novembre avanzato o dicembre. Zio Luigi da Selvapiana aveva talvolta portato dei funghi che crescevano sui ceppi di pioppo : saranno quindi stati piopparelli dall’odore-sapore gradevole di fungo fresco. Cos’è questo odoresapore ? Difficile descriverlo. Se il naso potesse parlare , sarebbe esso l’organo a ciò deputato. In paese si diceva che il macellaio coltivasse funghi in una cantina sotto la casa Strazza. Mi avventurai una volta anch’io nella spelonca e assistetti nel buio umido all’annaffiamento dei ceppi di pioppo su cui c’erano delle escrescenze biancastre, che poi sarebbero diventate funghi. Mio padre era più che meravigliato del mio interessamento per i funghi. Nessuno in famiglia l’aveva avuto e il fatto che l’avessi così vistosamente sviluppato decenni e decenni dopo lo sorprendeva. L’occasione e l’ambiente fanno il ladro ed io ero diventato un ladro 65


o un fissato, come diceva mia moglie, vivendo in un ambiente proprio da micofili al margine di un bosco. Avevo imparato a conoscere – e quindi a raccogliere- i funghi da mia moglie, con la quale dopo un periodo di apprendistato si era stabilito un rapporto di inconfessata gelosia fra maestra e discepolo fissato. « Ancora funghi ! « sbottava nel vedermi tornare con il sacco pieno, « Ancora funghi ! « Tirò fuori addirittura una sua teoria sulla pericolosità di mangiarne spesso. In tempo di magra, però, se ne dimenticava e cercava assiduamente come me questa specie o quella anche di funghi meno pregiati, che in tempo di abbondanza scartava o gettava, scoprendovi dentro addirittura i vermi con un suo mentale microscopio. « Ricordi, dissi a mio padre, quella mattina d’autunno quando vedemmo un lastrone del terrazzino davanti casa sollevato di una diecina di centimetri ? Cos’è, cosa non è, il lastrone messo verticale rivelò vari ceppi foltissimi di funghi. Dove un tempo c’era un sambuco dopo decenni, chi sa per quale miracolo, spuntarono quelle capocchie brune, deboli e indifese, sembrava, e che crescevano l’una stretta all’altra come per difendersi, formando mucchio, da uno spietato assalitore. Ebbene quelle creaturine avevano insieme avuto la forza di sollevare il lastrone di una trentina di chili. I funghi furono strappati e gettati via, le radici del vecchio sambuco dissotterrate e il lastrone rimesso a posto senza più muoversi negli anni successivi. I funghi e la ricerca di essi non facevano, dunque, parte della mia infanzia, come invece era il caso degli asparagi, fragole, nidi di uccelli, more, origano eccetera. Non si andava alla ricerca di essi da soli, ma in compagnia di fratelli e sorelle e di pochi compagni fidati. La sfera di queste scorribande erano le vicinanze immediate del paese, diciamo uno o due chilometri, che per quasi tutti i ragazzi segnavano i limiti della simbiosi paese-campagna. Per me, invece, grazie soprattutto a zio Luigi con i terreni del casino e della

Macchina a Selvapiana, i limiti coincidevano con quelli del comune, un rettangolo di circa tremila ettari, segnato ad ovest dal vallone di Sant’Angelo, ad est dal torrente Sarda, a sud dall’Ofanto e a nord dai boschi di Guardia. A fine aprile-primi di maggio si andava ad asparagi, che crescevano già all’inizio della campagna dopo le ultime case. A Santantuonu, lungo la via stercoraria che portava alla grande quercia, il loro luogo deputato erano le siepi che limitavano le proprietà. Individuata una sparagina, visibile da lontano o scoperta abbattendo le erbacce e scostando i rami dei cespugli con un bastone, si seguiva con l’occhio o con la mano la pianta fino alla radice e lì attorno ecco il miracolo degli agognati asparagi, a volte vistosi e subito scoperti, bene eretti e gonfi o con le capocchie un po’ pendenti. Dei grandi si spezzavano gli ultimi venti, trenta centimetri, dei medi si staccava tutto, essendo teneri, per i piccoli, liberati con le dita dal terriccio in cui erano quasi immersi, si esitava tra la voglia di coglierli ed il calcolo di lasciarli crescere, notando bene la loro ubicazione per la prossima calata. Se nelle zone assolate gli asparagi spuntavano prima ed erano facilmente raggiungibili, in quelle ombrate venivano più tardi od erano difficile preda perché bisognava inoltrarsi nel folto della vegetazione pungendosi tra le spine e lacerando i vestiti. Essi erano più abbondanti vicino alle sorgenti e nelle zone umide. Alla Pescara, sotto il paese verso la valle dell’Isca, c’era una sorgente in due tempi per così dire, con cannella cui ci dissetavamo nella parte superiore e libera per un tratto e poi ricuperata in una peschiera nella parte inferiore. Tra le due c’era un boschetto folto di quercioli ed altri alberi e cespugli in ripido pendio in cui ci si calava od inerpicava essendo molto ricco di asparagi. Lì si arrivava e di là si risaliva boscobosco dal versante Ofanto al versante Isca e viceversa. Secondo il tempo disponibile per la scappata, di pomeriggio quando 66


si andava a scuola, di mattina nei giorni festivi, ci si limitava ai tratti più vicini al paese o ci si inoltrava per varie ore fin quasi a raggiungere l’Isca. Rincasando con un bel mazzo di asparagi, per lo più li consegnavamo a casa per la frittata o per l’insalata – bolliti e poi aspersi d’olio -, ma qualche volta tentavamo anche di venderli , ai carabinieri per esempio, per quattro soldi. A poche centinaia di metri dalla Pescara e sempre lungo la carrozzabile che portava alla stazione, di fronte al casino Molinari c’era un’altra sorgente, le Fontanelle, con un tubo a beccuccio di metallo e una vasca, abbeveratoio per gli animali. Incastrata nel muro sovrastante c’era una pietra con la scritta : Non mirar, passegger, se l’acqua è scarsa, bevi se bever brami e avanti passa esercizio poetico di un certo Sarni. In questa zona gli asparagi erano rari, se non assenti, e ne trovavamo al massimo sulle prode della carrozzabile o tra i cespugli delle scorciatoie che la tagliavano. Per le fragole si andava ai boschi del Principe, sopra un’altra fontana, quella delle Mattinelle, che portava la scritta : Chi beve di questa acqua e non si sana febbre comune non è ma è lontana esercizio poetico meno felice di qualch’altro prete o signore. Se altri andava lì per attingervi l’acqua di cui si lodavano le virtù terapeutiche per varie malattie – la febbre terzana, quartana ecceteranoi vi arrivavamo, accaldati dopo il percorso piuttosto lungo fatto a passo di corsa fantasticando di probabili nemici che ci avrebbero potuto precedere, per la ricerca meticolosa delle fragole, che mangiavamo sul posto man mano che le trovavamo. Se la raccolta era stata abbondante, formavamo un panierino con foglie di castagno e felci, cucite insieme con aghi di spine e che portavamo a casa.

Per le fragole, come per gli asparagi e più tardi per i funghi, bisognava conoscere i posti, che memorizzavamo con qualche punto di riferimento, un gruppo di alberi, tanti passi dopo una determinata svolta di un sentierino eccetera. Inutile dire che il posto era tenuto segreto ed il segreto era spesso un segreto di Pulcinella : dopo la ricerca affannosa la volta successiva ecco la rabbia di scoprire che eravamo stati preceduti. Al bosco del Principe eravamo stati indirizzati la prima volta da una donna di cui non ricordavo il nome, ma la cui presenza ancora avvertivo dopo tanti anni. « Matilde » disse mio padre. « Ma che Matilde ! Matelda. » Poi mi ripresi accorgendomi che a Matilde stavo sovrapponendo la dantesca donna soletta che si gìa cantando e scegliendo fior da fiore ond’era pinta tutta la sua via. Matilde, dunque, mi precedeva allegramente ed io la seguivo fiutandone il calore e il profumo che si confondeva quasi con quello delle fragole. Scoprire quel frutticino rosa o rosso, avanzando cauteloso tra le piantine, e poi coglierlo senza troppo stringerlo tra le dita per non schiacciarlo, assaporarne il gusto squisito lasciandolo il più a lungo possibile sul palato e godendone anche il profumo delicato con il naso, era solo una parte dell’avventura, la cui molla più segreta e gratificante era la passione per la scoperta. Una cosa è avere in tavola un piatto mercenario alla portata di tutti, e spesso in base al portafoglio dei singoli, e un’altra cosa è goderselo dopo esserselo conquistato con perspicacia e fatica. Non c’è soddisfazione paragonabile a quella del cacciatore fortunato che si gode un bene che non è stato dato, ma conquistato. Per l’origano il campo di ricerca era più limitato e quasi a ridosso del paese, a nord. Ci si arrampicava per Monte Calvario, lì, raggiunta la vetta, si perlustrava una specie di pianoro, a noi noto anche per la caccia ai nidi, e si piegava poi verso il cimitero, a monte e a valle della carrozzabile per Guardia. Il terreno collinoso e pietroso era 67


quasi tutto a ginestre, attorno alle quali di tanto in tanto affioravano a ciuffi le aste di origano. Scartando quelle verdi non ancora fiorite, si staccavano alla base quelle fiorite, estasiandosi al forte profumo dei fiori rosa in spicastri riuniti nelle pannocchie. Alcuni giorni dopo si tornava negli stessi posti contando sulla fioritura delle aste lasciate. Il mazzo, frutto di ore di ricerca e legato con un rametto di ginestra, era poi a casa esposto al sole per seccarlo, quindi si strofinava tra i palmi delle mani asta per asta, raccogliendo in un piatto la polvere aromatica risultante dai fiori e dalle foglie e la si conservava in un boccale tappato per non farne svanire il profumo. Spesso il mazzo, avvolto in parte in un cartoccio, era appeso alle pertiche in cucina accanto alle salsicce e al lardo. Queste aste sole o a coppia servivano a benedire, intinte in olio e aceto, la carne ai ferri o i piccioni, aperti a libro nella graticola. Poiché l’origano, come il basilico, era parte essenziale della cucina paesana, mia madre ne comprava anche quando arrivava con il carico di sacchi il rivenditore da Lioni, dove cresceva abbondante sulle pendici delle montagne. Ma non era la stessa cosa : vuoi mettere quello nostrano colto da noi con amorevole tenacia e quello facilmente raccoglibile di Lioni ? Unendo l’utile al dilettevole passavamo così dal paese alla campagna, dalla campagna al paese. Perfino quando eravamo a scuola, durante l’ora di ricreazione si scappava in campagna a rubacchiare frutta, mangiata sul posto per quanto si poteva e dai più ingordi o dissennati nascosta sotto la camicia e portata in classe con le prevedili conseguenze quando il maestro se ne accorgeva. Le piccole malefatte lasciavano o non lasciavano segni e non erano solo i maestri a punire, ma anche i genitori, mossi questi da motivi più terraterra e non certo morali. Così, quando si tornava con i vestiti stracciati o per la raccolta dei gelsi rossi tutti inzaccherati di succo che non andava via neanche con le fumigazioni di zolfo, restando per qualche settimana ad accusare il ladruncolo, che poi ladruncolo

non era perché il proprietario di quel famoso gelso Dietro Corte aveva dato un tacito assenso sorprendendoci in piena azione tra i rami e non accusandoci presso i genitori, la punizione era inevitabile. Ma quel presunto benevolo proprietario , come altri, lasciava fare perché non apprezzava quei frutti macchiatori . Lo stesso dicasi per un sorbo, il cui padrone non era particolarmente vigilante, lasciando noi ragazzi arrampicarci come scimmie per gustare quei frutti amarognoli che allegavano i denti. In genere si sfruttava tutto, non si lasciava perdere niente, solido o liquido che fosse, onestamente posseduto o scovato o rubacchiato da noi ragazzi. Ogni piccola sorgente, oltre a dare acqua per uomini e animali, alimentava anche la peschiera, grande vasca che, più che per allevar pesci, serviva da serbatoio per l’orto del proprietario. Si aveva, quindi, la pescara del Principe, quella dei Donatelli, quella dei Molinari, quella dei De Rogatis. Vituccio la Vipera, compare e mezzo parente, aveva a Varnicola una sorgente con peschiera ed un bell’orto, da cui ci portava e vendeva vari ortaggi, tra cui la cicoria, che lì c’era tutto l’anno, ottima senz’altro, ma che non reggeva il confronto con quella selvatica che noi raccoglievamo lungo la carrozzabile quand’era la stagione. « Ricordi le castagne ? » chiese mio padre, la cui ira per la misconosciuta paternità sembrava essersi calmata con la passeggiata. « Sì, me ne ricordo. » Avevamo un paio di castagni di nostra proprietà un po’ prima del cimitero, ma quella raccolta era insufficiente. Si comprava quindi anno per anno ancora sull’albero il prodotto di cinque o sei castagni grandi e belli, curati con la potatura e che portavano frutti di maggior dimensione. Al proprietario si potevano pagare in moneta o in natura : era il caso nostro, che dovevamo dopo la raccolta dargli un mezzetto di castagne, cioè una buona ventina di chili.

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Le castagne si mangiavano arrostite su una lamiera bucata posta direttamente sulla fiamma o con più pazienza nascoste sotto la cenere calda e un po’ di brace. Si assisteva allo scoppio della buccia, prendendo cura di ritirarle per tempo in modo che arrostissero, ma non bruciassero. Altre si mettevano nella caldaia grande a bollire a ballotta con foglie di lauro. Non sempre avevamo la pazienza di aspettare che cadesse la buccia e ne mandavamo giù subito alcune, sputando poi i resti di buccia rimasti fra i denti. Con altre castagne si facevano le nzerte, bucando il picciuolo con un grosso ago e inserendole l’una dopo l’altra nella collana, appesa alla pertica a seccare in cucina. D’inverno si mangiavano secche o ammollite in acqua bollente. Un paio di queste castagne o una mela era il regalo che l’avara zia Alfonsina ci faceva quando, com’era l’uso in paese, passavamo da casa sua cantando una filastrocca per non so quale ricorrenza. Il castagnaccio lo si faceva sotto Natale, ma non ogni anno e comunque insieme ad altri dolci come i mustacciuoli, con il sapore dei quali lo confondo e quindi mal me ne ricordo. Alla raccolta delle castagne poco prima dello Ncasciu partecipava tutta la famiglia, compreso mio padre. I ricci scossi dal vento giacevano per terra aperti, semiaperti o chiusi. In tal caso con il tacco chiodato si dava qualche colpo al riccio e poi con le dita si tentava di estrarre le castagne, due, tre e perfino quattro in certi ricci doppi. Le inevitabili punture degli aculei non impedivano la gara a chi ne raccogliesse di più. « Bel frutto utile «, disse mio padre. « Un po’ come la memoria », aggiunsi, ma non gli comunicai il significato esatto del paragone, che forse capì da solo. Stavamo, infatti, estraendo insieme pezzi di ricordi, da impiegare o reimpiegare per nutrire ora la nostra comunanza, ma in seguito ? Intanto ci pungevano dolorosamente. Io pensai anche alla possibilità di servirmi di due ricci semiaperti come simbolo e compendio di quanto stavamo facendo per un futuro libro. Di memorie dolci e crudeli ? Sì, dolci e crudeli.

Ho detto che per altri ragazzi la simbiosi paese- campagna avveniva nei limiti di un chilometro e non più. Per me, invece, arrivava fino all’Ofanto, fino alla Sarda, fino a Cervino e Selvapiana ne costituiva il fulcro. Lì mi recavo non solo di tanto in tanto, ma anche per una quindicina di giorni l’estate. Chi mi ridarà le giornate della trebbiatura ? Si attaccava la coppia di buoi al giogo- una trave con due curvature sotto cui si metteva il collo del bue o della vacca, serrandolo dal basso con una specie di collare, inserito alle estremità in due buchi e chiavardato di sopra con chiavistelli di legno. Al centro del giogo c’era il timone, cui era attaccato un lastrone di pietra. Lu parziunalu o chi per lui saliva scalzo su questa pietra e con una lunga frusta terminata da correggia avviava le bestie, che, calpestando i covoni di spighe ora sciolti, cominciavano man mano a far abbassare il livello dei culmi sulla terra battuta dell’aia, grande spazio circolare a qualche centinaio di metri dal casino, al limite del pianoro che lì cominciava a scendere verso la valle dell’Ofanto. Era il luogo ideale perché, come si vedrà, parecchio esposto ai venti. Subito dopo la mietitura attorno all’aia erano state disposte le cataste dei covoni nelle tipiche costruzioni ad obice o a capanna affinché le spighe seccassero ben bene. Poi manipolo dopo manipolo i covoni erano disfatti sull’aia. Lu tufu di una quarantina di chili tirato per ore dai buoi e le loro otto zampe riducevano man mano la massa dorata, separarando il frumento dalla paglia. Quando dopo attento esame si costatava che nulla più restava nelle spighe, si scioglievano i buoi, cui si levava la museruola affinché dopo aver annusato invano per ore la paglia potessero ora fuori dell’aia pascersene a sufficienza. Per concessione speciale e dopo iterate raccomandazioni si permetteva anche a me di fare un paio di giri di trebbiatura, badando a non perdere la frusta e a non cadere dal tufu. Nel tardo pomeriggio quando si levava il vento uomini incappucciati

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lanciavano in aria con le pale il tritume di pule e paglia che volava via creando una polverosa cortina gialla che si allontanava, mentre i grani del frumento più pesanti cadevano lì vicino a formare man mano il mucchio di grano pulito. Questo poi era cernito con il ventilabro, grande recipiente di lamiera bucherellata, appeso a un treppiedi di legno, mosso in qua e in là per separare ulteriormente i chicchi da residue impurità, pietruzze, loglio, vesce eccetera. Solo allora s’insaccava il grano e le donne portavano sulla testa i sacchi di una cinquantina di chili alla masseria. Durante il giorno non si era mangiato quasi niente, solo bevuto acqua a garganella dalle fiasche per dissetarsi e togliere dalla gola il secco della polvere. La sera si festeggiava da poveri diavoli con qualche bicchiere di vino, pane e formaggio o, se le donne avevano avuto tempo, con una spasetta di lagane, da cui tutti attingevano devotamente. Poi si cantava, le donne con le voci stridule di streghe innamorate, fino a tardi nella notte. Faceva parte della trebbiatura anche la costruzione delle casazze di paglia : mentre alcuni erano intenti a sfacchinare con pale e ventilabro, altri, a tre o quattro metri dall’aia dove prima erano stati i covoni, elevavano la catasta o bica di paglia. Attorno a un palo un pigiatore schiacciandola con i piedi ammassava la paglia che le donne dall’aia portavano a bracciate agli altri uomini che con le forche la porgevano al pigiatore, sempre più in alto. Per facilitare lo scorrimento dell’acqua piovana la bica era a cono o a capanna con due o quattro spioventi. Da essa si ritirava man mano la paglia per gli animali, buoi, cavalli, asini eccetera, che la mangiavano al posto del rarissimo fieno, mescolata nei casi migliori con avena. Il cono era coronato da un vecchio vaso o recipiente di coccio o legno. Chi non aveva buoi o non riusciva ad affittarli ricorreva ai vattituri, manganelli sospesi con una correggia a lunghe pertiche. Quattro uomini si disponevano attorno all’aia a sufficiente distanza l’uno dall’altro per non ferirsi ed, agitando per aria il manganello, lo

calavano a battere sui covoni in cadenza alternata, due in aria e due sui covoni, due sui covoni e due in aria. Era un rito antichissimo, musicale e scenografico, che richiedeva solidi muscoli e perseveranza perché bisognava fare lo stesso lavoro che facevano i buoi con il tufu ed otto zoccoli. Soppiantando le antiche usanze arrivò poi la moderna tecnica e potei assistere una volta al feudo del Principe allo scoppiettare del motore a due tempi della trebbiatrice con le lunghe e larghe cinghie di trasmissione e il grano che usciva da una bocca andando a riempire il sacco mentre dall’alto un inserviente gettava i covoni in un’altra bocca. Attorno al mostro si indaffaravano le romagnole, rosse di sudore e libertine perché portavano i pantaloni a mezza gamba. Al feudo c’era anche il trattore per arare e la seminatrice per seminare. Da noi si arava con i buoi e si seminava a getto, con il largo moto del braccio del seminatore che attingeva dal sacco appeso al collo e spargeva nei solchi la sementa quasi benedicendola come un sacerdote. Il granturco, i fagioli, le fave, i ceci eccetera si seminavano con il chiandaturu, bastoncino di legno appuntito con cui si faceva il buco nella terra smossa, in cui si gettavano uno o due grani di sementa e questo perché le relative piante crescendo avessero più spazio fra di esse, allineate possibilmente nell’incavo del solco. La sgranatura di questi cereali e legumi si faceva a mano, aiutandosi caso mai con un bastone. Per il granturco, prima o dopo aver tagliato il fusto, si staccavano a mano le pannocchie, portate in un sacco sull’aia dove restavano alcuni giorni al sole per meglio essiccare. Quindi si procedeva a liberare le spighe o pannocchie dall’involucro-le scarfoglie- da cui veniva fuori il tutolo alveolato in cui più o meno gialli erano serrati i chicchi. Per facilitare la sgranatura i tutoli erano lasciati al sole ancora per qualche giorno e con i loro colori sgargianti vivificavano di grosse chiazze allegre le aie in campagna e le vie e piazzette in paese.

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A Selvapiana la sgranatura si protraeva fin nella notte, al chiar di luna. Seduti per terra o su ciocchi si sgranava il tutolo, lavorando con il pollice libero, mentre le altre dita lo stringevano e giravano. Bisognava aver dita ben nocchierute e, se già non si possedevano calli, inevitabili erano le vesciche come nel mio caso. Questa sgranatura aveva qualcosa di più festivo rispetto alla trebbiatura e non rari erano gli stornelli e i pizzichi e baci delle contadinotte, messe di buon umore e lascivette , amorose o innamorate , né era escluso che un satiro a lavoro finito le attirasse dietro una bica o siepe per concludere in gloria la serata Anche della sgranatura del granturco non si perdeva niente : le scarfoglie servivano a riempire i materassi, i tutoli ad alimentare i focolari e con gli involucri a capelli delle loro punte noi ragazzi ci facevamo i baffi. Il grano ed il mais erano portati in paese nei sacchi con la cavalla od il carro che veniva da Selvapiana a Morra una o due volte l’anno. Trainato dalla coppia di buoi avanzava lentamente lungo i tratturi e i sentieri della campagna, salendo poi per la carrozzabile o le scorciatoie verso il paese in alto. Le grandi ruote cerchiate di ferro reggevano il vano centrale, scosso ad ogni disuguaglianza del terreno perché senza balestre. Su di esso erano ammucchiati i sacchi di cereali o i ciocchi di legno, tenuti insieme dalle assi che orizzontali e verticali formavano pareti di un buon metro sul dietro e sui lati. Sul davanti dal vano partiva il timone rigido che reggeva poi il giogo. Per andare, quindi, a destra o a sinistra bisognava a frustrate indurre i buoi a prender quella direzione, anche avanzando o retrocedendo lateralmente. Qualche volta ebbi il permesso ed il piacere di fare tutto il tragitto sul carro da Selvapiana a Morra, se no, aspettavo che potessi intravederlo arrancare per l’ultimo tratto, poco al disotto delle prime case. Correvo allora per la discesa a raggiungerlo, chiedendo al parziunalu di farmi salire e tutto

orgoglioso in bilico sul timone facevo l’ingresso in paese come su un carro trionfale. I sacchi dei cereali nella casa di piazza S. Rocco erano vuotati dentro il cascione, grande mobile a scomparti verticali, tre se ben ricordo, uno per il granone, gli altri due per il grano, facendo attenzione a tener separate le varie specie, il mentana per esempio in uno scomparto e il cappella in un altro. La paglia serviva anche a costruire i pagliai. Questi sorgevano un po’ dovunque per la campagna, i piccoli per conservare gli arnesi agricoli e ripararsi dalla pioggia, i medi per abitazione o stalla, i grandi per ospitare intere famiglie. Assistetti alla costruzione di uno di questi poco lontano dal casino dove il parziunalu dell’epoca aveva abitato al pianterreno. Siccome lavorava poco e male, zio Luigi aveva tentato di metterlo fuori. Ma non era facile, tanto più che il povero diavolo non trovava lavoro altrove, accrescendo in compenso ogni anno il numero dei figli. Il governo fascista aveva perfino decretato un premio a chi, incrementando la razza, raggiungeva non so se dieci o dodici figli. Era il caso del nostro. Si procedette, quindi, a dargli dimora in un grande pagliaio a due spioventi. Si fissarono al suolo due grossi pali centrali, su cui poggiava una trave longitudinale, dalla quale partivano pali minori che scendevano verso il perimetro esterno, dell’altezza di un metro e mezzo, formato da paletti inframmezzati da fascine di legno. La copertura di questo scheletro era costituita di covoni di paglia ammassati a formare tetto e muri impermeabili alla pioggia o, per lo meno, così si sperava. Su un lato si apriva la porta di legno con chiavistello scorrevole e in alto c’era una finestrina con battenti di legno. Tutta la tribù dormiva bene o male su pagliericci disposti lungo le pareti. Quando faceva bello si cucinava fuori su due grosse pietre su cui poggiava la caldaia o i tegami di terraglia ; d’inverno con pioggia e neve si cucinava dentro su una specie di focolare al centro del pagliaio. Per evitare di essere intossicati dal fumo si creava una corrente d’aria aprendo porta e 71


finestrella. Il pavimento era di terra battuta e su di esso scorazzava a piedi nudi la torma dei figli. Alcuni di questi più o meno della mia età erano miei compagni di gioco. Uno suscitava la mia particolare ammirazione perché sapeva arrampicarsi sulla torre colombaria per catturare i piccioncini, i cui nidi erano in buche di una diecina di centimetri con un mattone della stessa dimensione sporgente come mensola. Bisognava mettere i piedi , divaricando le gambe, su due di queste mensole, tenersi con la mano sinistra a una mensola del giro superiore di buche e con la destra penetrare accortamente nel nido. I piccioni erano volati via e si aggiravano allarmati per aria. Se la madre era ancora dentro a covare la si lasciava stare ; idem per i piccioncini se troppo piccoli. Quelli di buon peso erano estratti uno alla volta – in genere erano due per nido- collocandoli al sicuro sotto la camicia o, in manacanza d’essa, in tasca, quindi l’equilibrista scendeva e i piccioncini erano consegnati a zio Luigi che li legava per le zampe per portarli nella bisaccia in paese. Io, per quanto potevo e mi era permesso, aiutavo in tutte queste operazioni. Un altro figlio, non avendo niente di meglio per impressionarmi, mi condusse una volta dietro al forno antistante il casino : là quando non avevano tempo o voglia di andare più lontano, facevano i loro bisogni. Il coprofago con ostentazione addentò uno stronzo ancora fumante e lo mandò giù a bocconi, destando il mio orrore. C’erano, dunque, poveri più poveri di me, che essendo nipote del padrone, ero per essi quasi un signorino ed io non so se mi vantassi o vergognassi un po’ di tale considerazione. Selvapiana era non solo il punto estremo al limite del territorio del paese in cui potevo condividere in modo più intenso la vita dei contadini, ma anche una specie di dimora di villeggiatura che mi permetteva di sentirmi un po’ più a mio agio e là cacagliavo meno che in paese perché la mia posizione di privilegiato mi corroborava l’animo e mi scioglieva la lingua. Anche i ragazzi Marra, che

venivano talvolta al vicino casino del loro zio Cardone, lì erano a me pari e non provavo nei loro confronti accenni di malessere come in paese, dove io ero il figlio del debosciato ed essi quelli del rispettabile negoziante, il che m’induceva a rubacchiare con più gusto e per ripicca qualche grappolo d’uva dalla loro vigna confinante con la nostra a Santa Costanza. Mio padre aveva forse indovinato il corso dei miei pensieri perché intervenne chiedendomi : « Ma ora che sei ricco e rispettabile perché giri per il bosco cogliendo funghi e raccogliendo castagne ? Non è proibito dai forestali e ti senti a tuo agio, pur non essendo più il figlio del debosciato ? » Mi era rimasto nelle vene quel gusto di cacciatore e trasgressore , o meglio di vita e ambiente contadini. Gli risposi, quindi : « Ma io sono un gentiluomo di campagna ! « Era la stessa risposta che davo a mia moglie quando insisteva a che smettessi d’indossare gli stessi vestiti e mettessi infine una bella camicia con tanto di cravatta ed io per stuzzicarla le confessavo e proponevo uno dei miei sogni più intimi. « Potremmo ritirarci in piena campagna in Italia e metter su un agriturismo. Su una collina dominante la valle e sullo sfondo lontani monti ci sarebbe la nostra casa e ai due fianchi i caseggiati con le camere degli ospiti al primo piano e a pianterreno la grande sala di soggiorno, i servizi, la cucina e il ristorante. Avremmo una carta settimanale con proposta di vari piatti, per esempio lunedì cucina spagnola, martedì cucina tedesca, mercoledì cucina inglese, giovedì cucina francese, venerdì cucina belga, sabato e domenica cucina italiana. Tu presiederesti alla cucina, dove il cuoco seguirebbe le tue istruzioni per le varie ricette, io girerei per la sala intrattenendo gli ospiti e spiegando loro il come e il perché di quelle pietanze e quale vino accoppiare con esse. » «Ma tu sei pazzo, ribatteva mia moglie, non ti rendi conto di quanto lavoro è richiesto per le tue fantasticherie. Dovremmo essere sul piede di guerra dalla mattina presto alla sera tardi e questo alla nostra età. » 72


« Ma avremmo ai nostri ordini tutto il personale necessario e noi ci limiteremmo a dirigerlo. » Tra il serio e il divertito disegnavo questi castelli in aria e costatai che nel sentirli anche mio padre era d’accordo con mia moglie in una specie di congiura familiare cui partecipavano pure i morti. « I morti ? , ribatté mio padre ; sai bene che, finché vivi e non riesci a liberarti di me, sono ben vivo anch’io. » Era meglio, dunque, rimettere i piedi per terra e, se proprio volevo sognare, che sognassi quegli aspetti felici della mia infanzia quando paese e campagna facevano tutt’uno e come tali mi erano restati nella memoria. Morra era allora una grande mammella, di cui il paese era soltanto il capezzolo, non solo metaforico, ma fisico quando, avanzando a piedi , a cavallo e perfino in carrozza o automobile dalla stazione ferroviaria o da Selvapiana verso Santa Lucia, venivo a scoprirlo, ogni volta ammirandolo e per così dire tettandolo con gli occhi estasiati. Netta si disegnava nel cielo pulito la sagoma in dolci curve di quella mammella così uberosa e la carrozzabile e le scorciatoie avvolgevano quella carne palpitante come una rete di vene. Poco dopo Santa Lucia il paese-capezzolo scompariva e restavano i vigneti, i boschetti di querce, i pini del lungo viale dei Molinari e per curve e ricurve si saliva presi come in un reticolo di labirinto di cui si possedeva il filo d’Arianna, che in questo caso serviva a penetrare in esso e non a uscirne. Dal lato est la mammella era meno appariscente e quasi indistinguibile. Eccetto il castello, il campanile tozzo accanto alla chiesa madre e poche case, il paese era come nascosto e i boschi predominavano sui vigneti e i campi coltivati. Scendendo per la mulattiera ripida si arrivava all’Isca, corso d’acqua torrentizio con un filo di corrente facilmente attraversabile di sasso in sasso, ma pericolosissimo durante la piena che arrivava a tradimento rombando e trascinando tutto con sé. Quindi per altre mulattiere si risaliva la collina di fronte verso i Caputi o Monte Castello.

Qui nella seconda domenica di maggio si celebrava la festa della Madonna, che nel 1898 sarebbe apparsa in sogno a non so chi. A noi ragazzi si mostrava il luogo esatto dell’apparizione in uno spacco tra grossi macigni. Alla festa e al pellegrinaggio come spesso si accompagnava una fiera, dove si scambiavano gli animali e nelle tende o capanni si faceva bisboccia. Così tutti i santi finivano in gloria tra i fumi del vino e i generosi piatti paesani, soprattutto il baccalà. Mio padre e mia madre ci prendevano con sé per il pellegrinaggio. Verso gli anni trenta, quando misero su un negozio in paese, approfittarono della folla dei pellegrini per vendere anch’essi qualcosa, abbinando la ristorazione al commercio. Si affittava un asino e in vari viaggi si trasportavano dal paese le sedie, le tavole e altro necessario, che si collocavano al riparo dal sole o dalla pioggia. sotto la tenda, che si costruiva stendendo delle lenzuola sopra qualche pertica e completando il resto con frasche. Una volta la domenica mattina ( eravamo rimasti soli in casa io e mia sorella Olga, maggiore di me solo di undici mesi -mio fratello Celestino era forse con i genitori-), mia sorella mi prese per mano e, accompagnandoci ai drappelli degli altri pellegrini, scarpinammo per più di un’ora verso Monte Castello. L’ultimo tratto, proprio sotto lo spiazzo su cui sorgevano chiesa e campanile ed erano disposte le tende che si estendevano anche al di là lungo i sentieri campestri fino a un boschetto di gradita ombra, era particolarmente ripido e faticoso perché il sentierino si snodava tra i sassi fatti saltare con la dinamite per costruire il santuario. A un certo momento tra la piccola folla degli avventori davanti alla nostra tenda mia madre avvistò i due disgraziati che erano scappati di casa per raggiungerla. Rimproveri, soprattutto a mia sorella, qualche scappellotto e poi rifocillati potemmo restare fino al tardo pomeriggio quando la tenda fu smontata e le masserizie riportate in paese. Inutile aggiungere che

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partecipammo a tutte le fasi della festa con messa cantata, predica, breve processione della statua della Madonna e fuochi d’artificio. Il paese e la campagna circostante erano, dunque, nostro dominio e lì ci sentivamo come a casa. La casa vera e propria era punto di partenza e di arrivo perché, appena si poteva, ci recavamo nelle case di compagni, compari e comari o di semplici conoscenti. Off-limits erano i palazzi dei signori, ma anche in essi in certe occasioni e in alcuni locali penetravamo, motivo per cui il paese non aveva per noi segreti. Conoscevamo tutti, eravamo conosciuti da tutti e a vari livelli frequentavamo tutti, maltollerati a volte, specie da alcuni parenti Grassi o Zuccardi, che vedevano in noi i rappresentanti che macchiavano in certo qual modo i loro nomi. I nostri rapporti con i compaesani risentivano di quelli che essi avevano con i nostri genitori, dall’amicizia all’indifferenza, alla inimicizia e non era raro che si passasse dall’una all’altra secondo i vari umori e i vari interessi. Tra i signori e i cafoni c’era il ceto medio degli artigiani e dei commercianti.Verso gli anni trenta non so per che motivo mio padre smise di fare il calzolaio per diventare commerciante. Questo passaggio era ambìto da molti forse perché convinti di così guadagnar di più e più facilmente o per naturale tendenza a sporcarsi meno le mani. Il rapporto tra numero dei negozi e quello degli abitanti era certamente sproporzionato : tutti volevano vendere ad acquirenti in proporzione inesistenti. Più equilibrato, invece, era il rapporto tra artigiani ed abitanti. Quasi tutti i mestieri erano rappresentati in paese, che godeva così di una specie di autonomia. Come per i prodotti agricoli, anche per i manufatti si era autosufficienti, c’era anzi un piccolo surplus di esportazione nei paesi e città più vicini e, benché limitati, gli interscambi non mancavano. Quando dopo la guerra i tratturi e i sentieri divennero carrozzzabili, dalla campagna la gente preferì per gli acquisti recarsi nei paesi vicini meglio riforniti di merce. Così Morra cominciò a

perdere artigiani e commercianti e con l’emigrazione massiccia, specie in Svizzera, i contadini e buona parte della popolazione. Ma già negli anni trenta si poteva notare il retrocedere dei manufatti artigianali rispetto ai prodotti industriali. Era il caso delle scarpe e dei vestiti. Se quindi apprendisti calzolai e sarti passarono ad altre attività, ciò era dovuto non solo al desiderio di guadagni più facili e di lavori meno usuranti. « Perché smettesti di fare il calzolaio ? », chiesi a mio padre. « Non si guadagnava abbastanza, la concorrenza era forte, la domanda stava diminuendo e poi… » « E poi ? « « Tutti in famiglia insistettero affinché diventassi negoziante. C’era un po’ di capitale e c’era il locale, ricavato alzando un piano sopra la cucina e la cisterna, la quale fu costruita anche in quella occasione. » « Ma ti sentivi negoziante ? Ne avevi le doti ? « Lui tacque ed io compresi che il silenzio non era dovuto solo a un senso di vergogna e di colpevolezza per come andarono le cose, ma anche alla difficoltà di trovare ora una risposta a quanto si era invano chiesto più volte lui stesso. Era pur un dato di fatto che nel giro di pochi decenni si era passati dai 52 calzolai che il paese contava nel 1911 a una scarsa diecina negli anni trenta. Ed anche i sarti che prima ammontavano a 26, ora non superavano la diecina. I cambiamenti avevano investito tutti i settori e non solo quelli del tessuto socioeconomico. Dove erano i 10 sacerdoti ( prima più di 20 ) dei primi del novecento, i quasi 100 tra bovari e possidenti bovari, i 262 pastori, le 40 pastore, le 25 gentildonne e le 22 domestiche ? Le casalinghe si aggiravano come prima intorno al migliaio, la scolarità era quasi la stessa con un miglioramento vistoso, però, per le ragazze che prima erano 45 rispetto a 90 ragazzi. Mia madre era allora da quasi analfabeta rimasta alla seconda elementare e le 22 domestiche rispetto alle 25 gentildonne già allora corrispondevano alla lenta, ma inesorabile scomparsa del ceto dei signori, le cui cifre verso gli anni trenta anche 74


a voler essere generosi andavano più che dimezzate. Solo l’istruzione femminile stava migliorando e agli 8 maestri e 1 maestra di prima si avevano ai miei tempi 3 maestri contro 3 maestre. Il paese , pur non conoscendo lo straordinario sviluppo tra fine e inizio del secolo, quando raggiunse l’assetto quasi signorile poi distrutto dal secondo grande terremoto e mal ristabilito con la ricostruzione, era un alveare d’industriosi artigiani e contadini e noi ragazzi , uscendo dal ristretto ambito familiare, potemmo conoscere tante attività e accumulare tante conoscenze , che resero lo scorazzare per il paese un’avventura equivalente a quella dello scorazzare per la campagna. Proprio sotto casa avevamo la forgia di mastro Alfredo che potevamo raggiungere per la porta a fianco a quella di casa, scendendo poi per un giardinetto contiguo alla nostra cucina e quindi per una seconda porta entrando nella cucina del mastro da dove per una ripida scala si scendeva al pianterreno dove c’era la forgia. Mastro Alfredo era giovane, da poco sposato con una biondina esile che ora aspettava un figlio. Man mano che la pancia s’ingrossava io potevo osservare le trasformazioni di quel corpo giovane, etereo e poco adatto, sembrava, agli inconvenienti della maternità. Mentre, quindi, al primo piano assistevo all’idillio della preparazione del corredino e delle lunghe fasce in cui la creaturina sarebbe stata imbacuccata, portando da casa alla futura madre anche qualche brodino che avrebbe dovuto impedire le nausee, al pianterreno potevo dare una mano al giovane Vulcano, tirando il mantice che ravvivava il fuoco dove era introdotto e reintrodotto il pezzo di ferro che, martellato sull’incudine, sarebbe diventato zappa, pala o falce. Il martellare che potevamo sentire distintamente a tutte le ore anche dalla nostra camera del balcone non sempre era gradito e spesso ci lamentavamo fra di noi e qualche volta con il mastro di quello sferragliare. Una delle risorse invidiabili del paese era il silenzio e la calma assoluta in alcune ore, che eventuali rumori o litigi ritmavano,

ma non distruggevano e quel silenzio e quella calma erano da tutti avvertiti consapevolmente o inconsapevolmente e spesso, come l’aria pura e fine dell’alta collina, decantati. Solo di rado la gente portava asini o cavalli a ferrare da mastro Alfredo, che si piccava di eseguire lavori di livello un po’ superiore, inferriate, balconate eccetera. Ciò era dovuto anche all’ubicazione della forgia in pieno paese sulla stretta via Roma e alla conseguente mancanza di spazio per attaccare gli animali. I furgiari veri e propri che, oltre agli altri lavori, erano gli specialisti per ferrare gli animali erano i due fratelli Ricciardi, Amedeo e Michelino, le cui case erano situate all’inizio del paese per chi veniva da Santa Lucia. I due fratelli abitavano in due appartamenti contigui in una casa di nuova costruzione non del tutto ultimata. La lunga balconata sulla strada era ben divisa in due, come divise erano a pianterreno le due forge : così si evitavano eventuali litigi che sarebbero potuti scoppiare, specie fra le relative mogli. Io ero spesso in quei paraggi perché uno dei miei compagni, Generoso, era figlio di mastro Michelino. Piccolo e nerboruto si era fatti i muscoli aiutando il padre e, se io lo vincevo a scuola, lui mi vinceva nelle lotte che facevamo per dar sfogo ai nostri litigi e stabilire una specie di gerarchia. Gli asini, i cavalli, i buoi facevano la fila attaccati agli anelli fissati nel muro. Venuto il loro turno, erano tirati per la capezza e, mentre il proprietario teneva ferma la bestia , lu furgiaru toglieva con le tenaglie i ferri consunti dagli zoccoli, che poggiava accortamente sulla coscia, quindi con un coltello affilato lavorava l’unghia spesso rovinata, assottigliandone ed equiparando la superficie ed i bordi. Prese, quindi, le misure esatte dello zoccolo rinnovato, terminava o faceva terminare sull’incudine il nuovo ferro, che mezzo incandescente era portato vicino alla bestia. Ora veniva il momento più delicato : mentre l’unghia sfriggeva e fumava al contatto con il ferro, questo era fissato con lunghi chiodi a testa grossa e punta fine. La testa doveva entrare giusta giusta nel buco del ferro, la punta 75


doveva uscire sul lato dell’unghia perforata ed era ribattuta verso l’alto e saldamente fissata allo zoccolo. Che durante queste operazioni gli animali stessero tranquilli non si poteva affermare e l’abilità del mastro consisteva nel fare una buona ferratura, evitando eventuali calci della bestia. Oltre a questi forgiari c’era anche un meccanico, Vincenzo. La sottile differenza era dovuta al fatto che costui era specializzato nel costruire o riparare meccanismi, aratri e pompe per esempio. Ma lavorava poco anche perché aveva messo su un negozio dove vendeva arnesi già belli e fatti, più i soliti pacchi di chiodi , serrature ed altro. Abitava verso Dietro Corte vicino allo svincolo della strada che portava alla fontana. Mentre con i forgiari i miei contatti furono normali se non cordiali, con il meccanico furono piuttosto freddi : si considerava professionalmente più su degli altri e forse era anche geloso e dispettoso con me perché nel nostro negozio vendevamo in concorrenza con lui alcuni degli stessi prodotti. Ma aveva una bella figlia e non so se ne ammirassi la bellezza già allora o più tardi quando andò sposa al maestro e poi sindaco Gerardo Di Santo. Chi per una strada chi per l’altra anche questi artigiani abbandonarono in seguito il loro mestiere. Mastro Alfredo volle diventare barista, aprendo il suo caffè nel locale del nostro negozio fallito. Ricordo l’arrivo, poco prima dell’inaugurazione, di una solenne macchina per fare l’espresso : il già forgiaro si mutò in meccanico per l’occasione e montò da solo sul bancone la nuova meraviglia del paese, tutta lustra di latta, nichel e rame. Credo che un’aquila di ottone sormontasse il macchinario dandogli un tocco di aulicità. Quando dai beccucci uscì fumando e sfriggendo il primo espresso, rimasi a bocca aperta a contemplarlo e mastro Alfredo lì a spiegarmi i misteri di quel vapore che per vari tubi operava la meraviglia della fusione di acqua e polvere di caffè. Ma durò poco l’avventura del barista che partì volontario per la guerra d’Etiopia, dove restò anche dopo la sconfitta, più che tollerato richiesto dagli

etiopi per la sua abilità di forgiaro. La giovane vedova bianca aspettava, aspettava e dimagriva. Si mormorava che il marito avesse moglie o amante africana. Dopo una diecina di anni tornò, volle riprendere in qualche modo la vecchia attività, ma i tempi erano cambiati e dovette campare con qualche soldo risparmiato e una pensioncina che riuscì ad avere dal governo. Anche mastro Amedeo fu tentato da diversa sirena, dandosi alla politica e diventando il primo sindaco del dopoguerra. Morto mastro Michelino, gli successe il mio compagno, ora mastro Generoso, che fu vittima anche lui di altra sirena, quella dell’emigrazione. Si era fidanzato con un fior di ragazza, una specie di Botticelli nostrana, che fu chiamata negli Stati Uniti dai genitori, da lungo tempo lì emigrati. Dopo un anno o due tornò in paese , ma quel fiore era sciupatissimo, accusando sotto il belletto e i colori artificiali numerose rughe : l’aria inquinata della grande città americana non conveniva evidentemente al suo fisico delicato. Mastro Generoso non si accorse o finse di non accorgersi del mutamento e seguì la fidanzata, ora moglie, in America, dove per andarvi nel dopoguerra si accettava qualsiasi sacrificio. Così a un maturo vedovo italoamericano tornato momentaneamente in paese si offrì su un piatto d’argento una florida sedicenne, che, pur di emigrare, chiuse occhi, naso e bocca. Su via Roma a qualche centinaio di metri da casa c’era Francescantonio l’acconzacaudare. Originario di Andretta si era stabilito in paese sposando una morrese. Abitavano nei sottani del disabitato già palazzo Manzi con bella scalinata , ingresso con stemma e una serie di stanze vuote in cui si poteva penetrare anche da una porta secondaria che dava su un larghetto a fianco della casa di zio Salvatore Grassi. Come l’appellativo bene indicava , il mastro più che altro riparava caldaie, pentole e ruoti di rame malandati, di cui bisognava rinnovare l’interno con lo stagno affinché il rame venuto allo scoperto ossidandosi non avvelenasse i cibi. Di tanto in 76


tanto, però, fabbricava anche recipienti nuovi. Lo si poteva allora seguire man mano che martellando le lastre di rame , le curvava, poi le saldava con qualche chiodo anche di rame, faceva in alto il bordo e i manichi – a volte di ferro- e infine, tenendo nella destra il saldatore e nella sinistra la bacchetta di stagno, dopo avere ben pulito le giunture con un acido che reagendo con il rame esalava un fumo ed un odore acre, pazientemente applicava lo stagno liquefatto sulle due superfici da saldare, accompagnando il rivoletto argenteo con la punta del saldatore, passato e ripassato sul fuoco affinché fosse ben caldo per la bisogna. La coronazione dell’opera era la lavorazione a colpi di martello che dava alla superficie esterna una sfaccettatura su cui la luce giocava con maggiore o minore intensità secondo l’angolo di riflessione delle minime disuguaglianze del metallo. Ma anche in questo settore stava arrivando il succedaneo industriale del rame l’alluminio, meno pericoloso e più a buon mercato. Fu questo forse uno dei motivi per cui Francescantonio lasciò il paese tornando con la famiglia ad Andretta. La sua partenza mi dispiacque non tanto perché non potevo più assistere al suo ingegnoso lavoro che, data la mancanza d’aria nel sottano, si svolgeva quasi sempre al margine della strada, quanto perché così persi uno dei più vicini e stretti compagni di gioco. Il figlio Pitruccio veniva a scuola con me, gracile e un po’ gobbo era quasi ai miei ordini ed io potevo scaricare su di lui le stesse prepotenze che i compagni più forti di me mi facevano subire. Al martellare di questi artigiani si accompagnava un po’ più lontano quello dei falegnami. Nel vasto locale di Giovanni Mariani, che chi sa perché non chiamavo mastro, forse perché mezzo parente essendo sposato con la nostra cugina Maria, o perché mezzo debosciato, si udiva lo stridìo della sega e della pialla, che spinta avanti e indietrocome la sega in giù e in su- rendeva piane le superfici delle tavole. Queste erano fornite non digrossate dai segatori o taglialegna che abbattevano gli alberi e li segavano in loco. I tronchi in verticale

inclinata erano poggiati contro un tavolo od altro, su cui saliva un segatore che afferrava un lato del grosso strumento ; l’altro segatore era in basso, in piedi, seduto o sdraiato sul dorso, prendendo le varie posizioni man mano che il nastro d’acciaio facendo la sua opera scendeva fin quasi a terra. Ai falegnami toccava poi fare il resto secondo quello che volevano fabbricare. Per ciò fare disponevano dell’ascia con il taglio normale al manico, della pialla piccola e di quella grande, di un ottanta centimetri a doppio manico e doppia lama, da manovrare a due. Lo spettacolo dei riccioli di legno che uscivano dal buco centrale della pialla mi affascinava sempre, ne ammiravo la maggiore o minore consistenza e il diverso colore dal bianco o crema al marroncino e al marrone scuro secondo che la tavola fosse di pioppo, faggio, castagno o quercia. Bisognava stare attenti ai nodi, contro i quali la lama spesso intoppava : la loro durezza metteva a dura prova il falegname che doveva appiattirli e portarli allo stesso livello del resto della tavola. Nei casi peggiori ricorreva allo scalpello e, se saltavano, bisognava tappare il buco lavorando di colla e di abilità per trovare un pezzo dello stesso diametro del nodo. I clienti non amavano i nodi, il mastro doveva perciò fare l’impossibile per dissimularli o sostituirli. Le tavole nodose erano considerate di seconda categoria. La lama era prima di ogni piallatura accuratamente regolata secondo la profondità del taglio che doveva operare andando dal più all’inizio al meno alla fine. L’ultima mano era data con la carta vetrata ; seguiva quindi la lucidatura finale con l’olio di lino o altri colori. A parte la segatura di cui raccoglievamo qualche manciata per farla lentamente cadere su una fiamma creando le scintille o stelle di fuoco, e i trucioli, di cui riempivamo un sacchetto per facilitare l’accensione del falò dell’Immacolata, al falegname si ricorreva per avere la ròcila o raganella che consisteva in un asse con ruota dentata a una estremità attorno al quale girava un parallelepipedo 77


svuotato in cima, dove a un lato o due si lasciavano una o due lamelle flessibili, che urtando contro i denti della ruota davano un suono chioccio simile al gracchiare delle rane. Lo strumentogiocattolo serviva a noi ragazzi durante la settimana santa quando dal giovedì alla mattina del sabato era proibito l’uso di campane e campanelli. A determinati momenti dell’ufficio delle tenebre e per annunciare la fine del lutto per la morte di Cristo e successiva resurrezione noi ragazzi nella chiesa madre ci scatenavamo a far girare le rocile, che poi erano impiegate come giocattolo anche fuori della chiesa. L’abilità del falegname si giudicava e apprezzava se seguiva quasi esclusivamente la tecnica ad incastro, ricorrendo il meno possibile alla colla di pesce o di farina per tenere insieme i pezzi. La costruzione della rocila era il favore che il falegname ci faceva, spesso malvolentieri perché non volevamo pagarlo considerandolo come dovuto per la cerimonia religiosa. Pagare, invece, dovevano quei clienti che si facevano costruire il mastrieddu, strumento per acchiappare i topi. Esso consisteva in una cassetta stretta e lunga, chiusa su tre lati e lasciata vuota su quello superiore dove era inserito una specie di coperchio che, alzato e sostenuto da uno spago che all’interno era legato a un pezzo di legno, cui si attaccava un pezzetto di lardo o formaggio, cadeva quando il topo addentando l’esca liberava lo spago e la porticina sul davanti saldata con il coperchio si chiudeva. Prendendo la trappola per il manico si cercava di capire dal peso la grandezza del topo, bestiolina o bestiolone. Nel primo caso si chiamava il gatto e da uno spiraglio della porta gli si faceva annusare la preda, che spontanea o costretta era fatta uscire per finire in bocca al gatto. Nel secondo caso, essendo il topaccio grande quasi come il gatto, si cercava d’incastrarlo a metà sotto la porta finendolo poi con un bastone. Ma capitava anche che la bestia riuscisse a liberarsi e prendere la fuga, inseguita sui ciottoli della strada dai poco accorti sterminatori, con

noi ragazzi spaventati almeno quanto il topo e in fuga nella direzione opposta. Qualcuno più prudente o crudele faceva cadere il topaccio in un sacco messo all’imboccatura della trappola e lo portava per schiacciarlo a pedate o a bastonate sui letamai di Santantuono che oltre ad essere lo stercorario erano anche il luogo deputato dove padroni ancora più feroci si disfacevano con lo stesso metodo di animaletti domestici, cani o gatti, indesiderati. Le falegnamerie di Giovanni Mariani e del padre Alfonso erano nei pressi di piazza san Rocco. Oltre la casa del più tardi per attività politica celebre Vito c’era un’altra casa con cortiletto, adiacente a un campo di mais. Con i pennacchi dei frutti maschili ci facevamo i baffi, lasciando quelli femminili che ne erano sprovvisti alle ragazze. Il cortiletto, schermato da una siepe verso la strada, offriva un’atmosfera d’intimità molto apprezzata da noi e questo era forse il motivo inconsapevole delle nostre frequenti visite. Le due famiglie erano legate da amicizia e ci si invitava talvolta al completo a pranzetti, preparati da quei contadini-proprietari con i tipici piatti paesani. Anche il vino girava di mano in mano nella fiaschetta di legno. La calorosità di quelle visite era dovuta anche alla presenza di ragazze, compagne indifferenziate di mia sorella e di noi ragazzi, noi cavalieri con baffi e testa rasa a caruso, le damigelle inturbandate dal maccaturu, grosso fazzoletto annodato sotto la gola , ch’era il copricapo abituale delle donne. Dal vicino campo rubavamo anche le pannocchie, tenere più che mature, attirati e ghiotti del latte che colava dai chicchi. Questi potevano essere sgranocchiati direttamente dal tutolo o bolliti o arrostiti sulla brace. Anche in seguito i cortili schermati verso la strada e su cui si affacciano uno o due corpi di fabbrica a semicerchio eserciteranno su di me nella loro grazia rustica lo stesso fascino dei chiostri monastici e cortili rinascimentali : potervi abitare anche senza esserne padrone contribuirebbe sostanzialmente alla mia felicità,

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garantendo ordine, silenzio e in certe occasioni la cornice ideale per signorili festeggiamenti. Dal barbiere ci andavo poco, al massimo per farmi il caruso e per nulla ci andavano le donne che ignoravano cosa fosse un parrucchiere, essendo taglio e cura dei capelli, con o senza trecce, parte del sapere individuale, completato dall’aiuto di qualche donna di famiglia o comare. Dal barbiere, oltre ai clienti sotto i ferri o in attesa, c’era sempre qualcuno che vi andava per fare la conversazione, essendo la bottega il sostituto di un parlatoio domestico di cui molte case mancavano o che i padroni non erano disposti a mettere a disposizione del primo venuto. Il mestiere stesso incoraggiava la parlantina del barbiere che si credeva tenuto a intrattenere il cliente sui fatti del giorno e i pettegolezzi quasi per distrarlo e tenerlo fermo sotto le forbici e il rasoio , il che succedeva e succede anche oggi, specie dal parrucchiere con clientela femminile. C’era a quei tempi un solo barbiere, padre del mio compagno Nanduccio Mignone. Quando in seguito da Guardia venne Adolfo, la sua bottega fu quasi un circolo, dove si radunavano giovani studenti e qualche professionista. Il sarto o la sarta erano più richiesti e per noi necessari, perché mia madre e mia sorella, pur cavandosela nei lavori a maglia ed uncinetto e nelle rattoppature, non erano mai arrivate a far gonne e vestiti, che dovevano quindi essere ordinati ai sarti. Il sarto di famiglia era Rocco Berardi, un piccoletto vivace e amichevole che abitava nella parte alta del paese sulla destra del municipio in una casa che era quasi l’ultima e si affacciava sul vallone di Sant’ Angelo. A parte le visite occasionali nella sua bottega, mastro Rocco una volta l’anno veniva da noi e vi restava un paio di giorni, quanto era necessario a riparare i vecchi vestiti, accorciando od allungando secondo la nostra crescita e prendendo le misure o, se questo era stato già fatto, provando e riprovando l’abito su di noi.

Prima aveva tagliato sul tavolo in cucina o su quello grande nella stanza del balcone le stoffe che avevamo comprato, in genere robetta fatta a Prato con gli stracci. Era comunque appassionante seguirlo mentre con il gesso segnava le linee delle varie parti, rivenendo spesso su quelle già tracciate, dopo un confronto di queste con le corrispondenti di destra o sinistra, giacché il vestito era ideato ed eseguito in due grandi parti, poi cucite insieme. Ciò valeva per i pantaloni e le gonne e in modo particolare per le giacche. Le diverse componenti, tenute insieme con una cucitura provvisoria o con spilli, erano indossate facendo attenzione a non disfarle con movimenti bruschi. Poi tira un po’ di qua, abbassa un po’ di là, avanzando e retrocedendo per avere una visione d’insieme e chiedendo all’interessato se si sentisse a suo agio nel nuovo indumento, mastro Rocco soddisfatto e con sulla manica sinistra sempre un cuscinetto da cui sfilava o dove infilava gli spilli, passava alla fase successiva della cucitura a macchina. Noi avevamo in casa una macchina Singer, quindi il lavoro era molto facilitato. Dopo aver infilato i fili di vario colore nella spoletta, tic tic tac, tic tic tac pedalando svelto il mastro faceva meraviglie. Era pagato a giornata e restava a pranzo da noi, motivo per cui mia madre per far bella figura tirava il collo ad un pollo. Così le visite di mastro Rocco erano una festa anche dal punto di vista culinario. A volte, però, il lavoro in casa non bastava, si sbozzava cioè il futuro capolavoro, ma poi bisognava recarsi una o due volte dal mastro affinché questo vedesse la luce definitiva. Dei vestiti così confezionati da mastro Rocco ho ben presenti il grembiule di raso nero con colletto bianco e taschino che dovette farmi quando a scuola fu a tutti imposto di presentarsi in quella quasi uniforme e quando per andare in collegio dovetti avere un corredo, con due sottane da monachello. Per questi indumenti il mastro non aveva le idee ben precise e mi combinò qualcosa di troppo aderente e abbastanza corto che non era proprio quel che ci voleva. Una delle 79


sottane era di fustagno lucido e rigido che mi espose per un paio d’anni al riso maldissimulato dei compagni e allo scotimento di testa dei superiori che mi vedevano in quella foggia fuori dalle loro norme, essendo questi e quelli cattolicamente abituati a un certo facoltoso benessere e non a una ridicola povertà. Dei miei indumenti infantili, a parte le fasce, ricordo quel vestitino tipo tuta da lavoro in miniatura, legato sulle spalle da due tiranti incrociati e con lo spacco posteriore che lasciava libere le natiche, facilitando e accorciando i tempi per l’evacuazione, se no ci si faceva nei pantaloni. Anche la brachetta sul davanti non aveva bottoni e per la feritoia il prispolino era facilmente estraibile. Più tardi quando ebbi la giacchetta, mi divertivo a tirare i crini di cavallo che fuoruscivano dal povero tessuto sui risvolti e all’attacco delle maniche con le spalle, dove il mastro aveva collocato il rinforzo di crini tra la fodera e il panno vero e proprio. Né si poteva in tal caso parlare di sbaglio del mastro. Quando più tardi fui servito da un altro sarto, Celestino Gialanella, costui, costatando alle prove che la giacca faceva difetto a una spalla, se la cavò asserendo che non poteva farci nulla perché avevo le spalle disuguali ! Ogni bottega od officina artigianale aveva il suo odore caratteristico che andava da quello della brace dei carboni dai forgiari a quello del legno lavorato e della colla di pesce riscaldata dei falegnami, per non parlare degli acidi di zolfo che irritavano le nari e offuscavano la vista dall’acconzacaudare, intento a versare lo stagno liquido nei recipienti o a liquefarlo dalle bacchette. Dalle sarte Morcone, che abitavano a una cinquantina di metri al di sotto di casa nostra, la cucina d’ingresso ed anche lo stanzone, dove la mastra con sorella e cognata era intenta a confezionare vestiti e corredi per le donne, sapevano di vino. Di solito da quel vano scendeva sulla strada il ticchettìo cadenzato delle macchine da cucire e il canto delle ragazze che lì imparavano il mestiere e preparavano il loro corredo. Come io di pomeriggio andavo da mastro Domenico

per apprendere il mestiere di calzolaio, mia sorella Olga andava dalle Morcone per imparare il cucito e il ricamo. Non che dovesse necessariamente diventare sarta, ma doveva già da bambina cominciare a prepararsi il corredo per quando sarebbe andata sposa. Il corredo e la dote erano parte essenziale delle trattative matrimoniali. A quello che la ragazza in una diecina di anni si era preparato si aggiungeva quello che era rimasto del corredo della madre, gelosamente custodito a tale scopo in una cassa e in certi casi si poteva addirittura risalire a quello della nonna. Se per motivi di moda o altro la futura sposa teneva poco conto di questa riserva, era cattivo segno e veniva considerata una degenerata, come fu il caso di una pronipote per la quale mia sorella aveva accumulato parte del corredo suo e di quello di mia madre. La famiglia Morcone era composta dalla vecchia madre, una specie di strega che ricordo accovacciata quasi nella cenere accanto al focolare, da due sorelle, di cui una, Adelina, quasi sordomuta, da un fratello, Emilio, pittore e dalla moglie di costui, Nuccia, detta la Gatta dal nomignolo della famiglia di origine. La direzione della bottega era nelle mani dell’altra sorella, zitella dal fisico asciutto e dalle guance venate di rosso come il naso del fratello. Nuccia era in secondo ordine, essendo per così dire diventata sarta a causa del matrimonio. La zitella scarna e snella era bravissima e, senza voler stabilire graduatorie con l’altra famiglia di sarte, le Siesto, godeva del favore popolare in paese e in campagna. Le contadinotte rosee, svelte ed aitanti, che venivano alla messa la domenica dalla campagna, facevano un figurone nelle attillate gonne a metà gamba e nei colorati corpetti aderentissimi che scoppiavano quasi sotto la pressione delle sodissime tette. Inerpicandosi sui ciottoli delle strade e viuzze verso la chiesa madre, sculettavano incuranti ed il notevole bacino bilanciava i loro movimenti sulle gambe snelle chiuse negli stivaletti a mezzo tacco e nelle calze a maglia nere. Colpi di natiche non meno pericolosi anche se graditi erano da quelle menadi 80


assestati quando al suono dell’organetto si scatenavano nel ballo del batticulo. La sicurezza artistica nel taglio e nell’abbinamento dei colori non era turbata od eliminata dalla più che propensione che le Morcone avevano per la bottiglia. Da casa affacciandoci sulla strada potevamo assistere al finimondo, che si scatenava in cucina e su per la scala che portava alle camere da letto, in genere la domenica, ma anche in settimana la sera. Il pittore era spesso assente perché molto richiesto anche in altri paesi. La moglie Nuccia era quindi alla mercè di suocera e cognate che per un nonnulla attaccavano litigio prese già nei fumi del vino. Quando non era Nuccia a provocare il disastro, era la sordomuta Adelina o la vecchia. Le tre donne avevano il vino cattivo che, invece di conciliare la sonnolenza o il buonumore, le spingeva alla reciproca aggressione con invettive, urli, graffi e colpi di sedia. La vecchia era quasi subito fuori combattimento, ma Adelina era dotata di una forza non comune di cui si serviva durante le bisbocce, suonandole di santa ragione a madre, sorella e cognata. Questa era la prima a tentare di salvarsi scappando nella strada, mentre l’altra sorella duellava vigorosamente con l’energumena tentando di raggiungere la scala. Su questa e per la cucina volavano sedie e masserizie e, trascurando la vecchia stesa a terra dalle batoste, le due sorelle accapigliandosi, insultandosi e suonandosele di santa ragione facevano accorrere i vicini a curiosare e divertirsi più che altro, tenendosi a debita distanza da quelle furie. Il pittore, se era presente, partecipava alla giostra : sbronzo anche lui, sulle prime tentava di difendere la moglie, ma poi si gettava a testa bassa nella tregenda familiare. Già da sobrio parlava poco e male, ma da ubriaco non parlava affatto, intento a menar le donne e a schivarne i colpi. Chiamati dai vicini accorrevano a volte i carabinieri che, però, col tempo avevano rinunciato a qualsiasi azione di contenimento di quegli arrabbiati, lasciando che se la sbrigassero da soli.

Dopo una buon’ora la tempesta accennava a calmarsi e, se pur riprendeva in qualche sussulto, si esauriva poi perché i combattenti giacevano contusi e ammaccati a terra o cercavano a tastoni per la scala di raggiungere il letto dove digerir la sbornia. La mattina dopo o il lunedì tutto riprendeva il suo corso normale e dello sconquasso serale o domenicale restavano lividi, fasciature e le vene rossicce un po’ più gonfie su guance e naso. Il trionfo delle Morcone era quando per il paese passava la processione di canestri e cuscini su cui pompeggiavano i capi di biancheria ricamata della promessa sposa. Esse stavano allora sulla soglia ad assistere a quella sfilata di meraviglie, lavorate sotto la loro direzione. Il pittore Emilio,-pittore, non imbianchino- era l’unico in paese e il più richiesto fuori di esso perché accuratissimo nell’eseguire il suo lavoro che consisteva non tanto nello stendere i vari colori nelle stanze della piccola borghesia e dei signori, quanto nel lavorare di spatola e pennello per le stuccature ed affreschi profani e sacri. Dipingeva infatti anche i soffitti delle chiese. La domenica tracannava litri di vino anche per levarsi di dosso l’odor di acquaragia di cui si serviva per stemperare i colori. Come assistente si serviva del pittorino, un giovane elegantino dalla carnagione scura e tutto brillantinato che, dopo aver esercitato per qualche anno il suo mestiere, profittò della protezione di Vera Gargani per andare a Roma a infilarsi da impiegato nel solito ministero, ennesimo caso di abbandono del mestiere di artigiano per più facili e stupidi guadagni. Se Emilio beveva parecchio e già gli tremava la testa, non raggiunse mai le pantagrueliche dimensioni di Giovanni Mariani. « Ricordi Giovanni Mariani ? « chiesi a mio padre. « Sì, lo ricordo bene. » « Dovresti spiegarmi, tu che gli eri compare di bottiglione, come mai, bevendo a volte una damigiana di una trentina di litri in un pomeriggio e notte successiva, non crepasse e, benché mezzo alcoolizzato, potesse continuare, pur nella disperazione della moglie, 81


a esercitare il mestiere di falegname. » « Cosa vuoi che ti dica ? Avrà avuto un fisico più resistente del mio. » Non volle spiegarmi oltre e a quel punto lasciai cadere il discorso per riprenderlo forse più tardi. Il mestiere del carrettiere mi affascinava e mi era nel contempo alquanto estraneo. I tre carrettieri abitavano lontano da casa nostra nel quartiere dei Piani, subito all’ingresso del paese per chi veniva da Guardia. Il più vecchio, Rocco Covino, era un bell’uomo alto e diritto, con i baffi. Lo ricordo in piedi sul traìnu come un auriga antico far schioccare in aria lo scurrialu- staffile-, lanciando il mulo o cavallo al trotto e poi al galoppo. Il carro sobbalzava sulle alte ruote cerchiate di ferro per la Via nuova sulla quale erano venuti a formarsi due solchi bianchi di polvere che ai frequenti passaggi di quei pesanti veicoli si approfondivano, costringendo gli spaccapietre a intervenire di tanto in tanto per colmarli. Essi sedevano su uno sgabelletto o semplicemente per terra a gambe larghe e ammucchiavano i frammenti di sassi davanti o a fianco a sé, dando con la mazza o mazzetta colpi precisi sui sassi tenuti fra le mani screpolate su un sasso più grande. Alla fine della giornata avevano così creato un bel mucchio che, misurato a metri cubi dal cantoniere per il pagamento, poi spargevano con una pala, cercando di colmare il piano stradale rispettando la sagoma a schiena di cavallo per lo scorrimento dell’acqua nelle cunette ai margini della strada. Questo rinnovato manto pietroso metteva a dura prova le nostre scarpe chiodate e gli zoccoli degli animali. Al passaggio dei carri le pietre volavano a destra e a manca, non avendo tutte fatto corpo con la terra battuta. Lungo le prode della Via nuova crescevano le cicorie selvatiche. A primavera, armati di coltello e sacco, andavamo con mia madre a cercarle. Nella cerca bisognava stare attenti nello sradicarle a non rovinarle troppo : le tagliavamo quindi alla base senza danneggiare le radici da cui sarebbero rispuntate alle prossime piogge, dandoci

un secondo o terzo raccolto. Niente poteva equiparare, dopo la scelta con cui a casa si salvava il cuore o parte tenera della cicoria – il resto era destinato ai conigli- il gusto amarognolo di quelle foglie seghettate, bollite e, senza scolarne tutta l’acqua, accompagnate con peperoncino secco e olio e nei casi più fortunati dall’osso di prosciutto. Quando Rocco Covino smise di fare il trainiere perchè non stava più fermo sulle gambe e anche perché sua moglie Antonietta guadagnava abbastanza con negozio e forno, rimasero i fratelli Gambaro, specie Marino, che stava costruendo nei Piani una casa grande con rimessa per cavalli e traìni. Il trasporto delle merci da e verso il paese era affidato a questi non proprio artigiani e mezzo commercianti, che non godevano quindi dell’appellativo di mastri. Anche i Forgione, che avevano la loro rimessa verso la croce dei Piani e che, chi sa perché, non godevano di molta simpatia da parte nostra, erano come i Gambaro forestieri e il fatto che venivano da un paese vicino contribuiva , come in altri casi, a renderli estranei ed antipatici. Seguendo l’evoluzione dei tempi, i Forgione abbandonarono in seguito i traìni e divennero camionisti. Anche i mugnai non erano considerati artigiani veri e propri, anche ad essi non si dava del mastro. La loro convinzione di essere quasi signori era non poco sostenuta dal fatto di essere proprietari di macchinari molitori. Da noi c’erano due mulini, quello dello Ngasciu fuori paese e quello a san Rocco di don Felice De Rogatis. Questo mugnaio era, dunque, un don e ciò era giustificato dal cognome, dal mulino, dal parziale possesso della rete elettrica del paese e da un quasi palazzotto con bel giardino restrostante. Don Felice aveva quattro figli, un maschio, Ciaulino, piuttosto inconcludente, una maestra zitella in cerca di marito, una devota che si era data a Dio e una ragazzotta, Agrippina, che crescendo stuzzicherà la voglia dei maschi con un fisico arabizzante e un penetrante odore di femmina 82


delle caverne. Mentre il figlio Salvatore giocava a far l’elettricista, provocando di continuo corti circuiti e compilando le bollette con i kilowattori calcolati a modo suo per le tre lampadine a bassissima tensione di casa nostra ( e difficile è stabilire chi esagerasse di più nella lotta tra fantasioso calcolatore ed utenti poveri) , don Felice passava le sue giornate al mulino. Per me ragazzo era sempre un’avventura poter salire talvolta vicino alla bocca del trapezio capovolto in cui si gettava il grano dal sacco e si potevano intravedere le due grosse macine di pietra che girando in senso inverso l’una sull’altra sgranavano il grano. La superficie ruvida delle macine doveva di tanto in tanto esser ringiovanita a colpi di scalpello e, quando restava ben poco da salvare, le si sostituiva con delle nuove che venivano da Andretta. Le vecchie restavano appoggiate al muro esterno accanto ad altre come un’insegna di ciò che si combinava lì dentro. Il mugnaio apriva di tanto in tanto una boccaporta per vedere a che punto fosse la molitura. Quando credeva giunto il momento buono, tirava in alto la tavoletta che arginava la massa farinosa che così cominciava a scendere per un breve condotto alla bocca alla quale era ben fissato un sacco per evitare che la preziosa farina si spargesse per terra. Il mugnaio continuava ad intervalli a prelevare dalla boccaporta una manciata di farina per vedere se tutto procedeva bene. Alla fine quando restava solo un rivoletto a scendere nel sacco, arrestava le macine e i sacchi di farina passavano sulla bascuglia per essere pesati dopo la molitura come erano stati pesati prima pieni di grano. I clienti stavano attenti a che i chili fossero gli stessi prima e dopo, ma c’era sempre la differenza di qualche chilo che secondo il mugnaio era dovuta al fatto stesso della molitura e secondo i clienti a qualche trucco poco cattolico del mugnaio. La crusca, che in anni successivi con mulini più moderni sarebbe stata fatta uscire da altra boccaporta, ai miei tempi indorava la farina, dalla quale sarebbe stata separata in un secondo tempo

dalla massaia, quando cernendo con un setaccio a rete più e meno fitta ne lasciava quanto riteneva giusto secondo il tipo di pane che voleva, che non era mai il pane bianco bianco e insipido, ma il pane saporoso, nutriente e ricco di fibre per una buona digestione ed evacuazione. Don Felice morì qualche anno dopo e gli successe Ciaulino ( che significasse quel nomignolo non me l’ero mai chiesto, poi seppi che veniva da un libro Fra Ciaulino e le cento amanti). Lui, che non aveva le doti del padre, andò perfino a far la guerra in Russia e fu uno dei pochi che tornasse da quella sciagurata avventura del fascismo. A guerra finita giunse in paese portando una Storia del partito comunista dell’ URSS in bella edizione in lingua italiana, che mi prestò quando fu annunziato un comizio del giovane avvocato Flora. Ero appena uscito dal collegio e ancora impegolato nel massimalismo della religione. Credetti, quindi, di dover pescare nel libro di Ciaulino qualche passaggio che indicasse l’ateismo dei comunisti. Con ciò pensavo di mettere in difficoltà il comiziante che alla mia osservazione se la cavò avvocatescamente con una replica che ammetteva e non ammetteva. Nel mio fanatismo non capivo che l’eco che l’oratore trovava in paese era dovuta a ben altri motivi di disagio ed oppressione di molti da parte di pochi che nulla aveva a che fare con l’ateismo. Il ricordo di Agrippina ecc.

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Il ricordo di Agrippina e, nonostante tutto, della sua misteriosa e nera bellezza m’indusse a interrompere il flusso dei ricordi, ai quali sovrapposi quelli più recenti e ben altrimenti scottanti. Alla svelta buttai giù una poesiola :

« La persona di cui parli, disse mio padre, andrebbe bene con il motivo dei cigni se tu non fossi troppo categorico, vedendola solo in nero o in bianco. La realtà è molto più complessa e le zone grige sono molto più estese e forse più importanti delle altre. Non ti meravigliare, quindi, se lei alle tue domande ed insinuazioni si ritiri nel silenzio come una lumaca nel suo guscio. » Dovevo dargli ragione ? « Mah ! « risposi, cavandomela come spesso faceva quella donna. Volli tornare ai ricordi ora meno crudeli della mia infanzia. Quando però mio padre si accorse della manovra di disimpegno che stavo tentando, sorrise ironico ripetendo « Mah ! mah ! « E poi aggiunse : « Come fai a ricordarti di tanti dettagli del passato ? « Gli confessai che a prima mattina, non ancora del tutto sveglio, mi trovavo in una specie di stato di grazia. Quel che avevo tentato invano di ricordare o precisare durante il giorno veniva a galla se mi lasciavo andare, tuffandomi in quella corrente dolce e inarrestabile. Conversavo dopo settant’anni con i morti che, messi in situazione, non avevano remore e mi confessavano tutto, precisando nomi e circostanze. Io stavo al gioco che variavo e complicavo fingendo anche fatti mai avvenuti e che creavo lì per lì , portando spesso i personaggi lontano da quel che erano stati, in fantasie anche bizzarre, che poi in definitiva completavano a modo mio la storia che risultava più vera di quel che fosse stata in realtà. Non gli dissi che lo stesso facevo con le donne amate, che spontaneamente o da me costrette venivano a recitare sul palcoscenico delle mie necessarie invenzioni ed erano più vere nella recita che nella realtà. Quei dormiveglia li potevo considerare come sogni ad occhi semiaperti e la semiapertura mi permetteva di veder meglio che per qualsiasi porta o finestra spalancate : visio (vulpeculae ? ) per foramina aut velamina. Il latino lo tenni naturalmente per me, lasciando mio padre riflettere su quel che gli avevo detto in volgare. E per me mi tenni anche ulteriori riflessioni sulla natura della

Arrivati i cigni neri ; c’eran già i cigni bianchi ; son partiti quelli neri, son rimasti quelli bianchi. Quanto resti del tuo nero, quanto parta del tuo bianco non diresti neppur credo se ti stessi stretto al fianco. La detti a leggere a mio padre e nel frattempo continuai : Seppur nel sozzo il Sublime sia silenzio e pura mistica, per te sorda sarà altissimo il mio canto e in dolci rime. Quel che celi sotto al nero e intravedo sotto al bianco non mi daresti, crudele, ti fossi anche in letto al fianco. Tenni per me la terza strofa che mio padre non avrebbe capito ; la quarta dopo brevissima riflessione la scartai, ritenendola una caduta nella vecchia solfa e per i suoi crudi dettagli riduttiva rispetto al tema principale.

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memoria, di cui volli ora approfondire il carattere eruttivo e le sue connessioni con la fantasia, specialmente quella poetica. Avevo detto che la memoria era a più piani sotterranei, il meno uno, meno due, meno tre eccetera, figurandomela come un imbuto per il quale si scendeva nel subconscio e nell’inconscio. Ora, però, essa eruttava getti roventi e fumiganti per l’aria, creando paesaggi meravigliosi di riflessi nei quali mi adagiavo come in castelli d’aria, che per me erano veri più di qualsiasi realtà. Se il senso del reale interveniva tentando d’inficiare e distruggere questi castelli, lo scacciavo decantando la bellezza di queste eruzioni, che non erano gratuite perché salivano dal più profondo della mia persona, ricca non solo di questa enorme capacità datami dalla natura, ma anche da quell’altra che mi ero venuto creando con l’esercizio della fantasia nelle creazioni poetiche. La memoria e la fantasia erano per me gemelle e complementari, che mi permettevano di vivere come vivevo. Che importava allora se quella donna da me amata non era la donna reale, ma in buona parte una finzione ? E la finzione non era autoinganno, non era deformazione della realtà, ma vera scoperta, vera formazione, nel senso di dar forma a qualcosa di naturalmente informe, la più alta aspirazione cui un uomo possa tendere e darsi come compito per la vita. Ma il deuteragonista ch’era in me andava sfottendomi dicendo : « Guarda questo presuntuoso che, dopo esser disceso per i gironi dell’imbuto della sua memoria, ora risale per la montagna delle sue eruzioni affettive per perdersi nei cerchi fantasiosi di un suo paradiso Artificiale. Ma che ? Osa fare dantescamente un suo originale viaggio salutifero ? « Ma io non l’ascoltavo, perso già dietro al motivo della volpacchiotta bionda, che mi attirava nel suo speco per essere ammirata, contemplata , amata e poi sempre ricordata e quella cantilena – volpacchiotta volpacchiotta, pelosetta ed acre e ghiottanon voleva andarsene dall’orecchio, motivo per cui, passando da

carne a carne, volli tornare a rivisitare le arti e i mestieri del mio paese. In strana coincidenza e come leggendo il mio pensiero, mio padre chiese : » Ricordi lu chianghieru e la chianga a un tiro di sasso da casa nostra ? « Il macellaio Alfredo De Rogatis e suo padre lì sgozzavano montoni, pecore, agnelli e più di rado un manzo o una vacca. Al sacrificio di questi ultimi non avevo mai assistito e di quello di pecore e montoni apprezzavo molto ciò che di rado potevamo permetterci, la capuzzedda. Mia madre con essa arricchiva il sugo per la pasta fresca in particolari giorni festivi. Assistevamo alla preparazione della testa, farcita con pane, prezzemolo ed aglio, quindi i due emisferi erano legati insieme con lo spago e messi nella salsa di pomodoro. La si mangiava dopo la pasta, liberandola dallo spago ed aprendola a libro. Gli occhi gelatinosi ancora nelle orbite e i denti scarnificati ancora negli alveoli ci facevano impressione, il che non impediva a noi ragazzi di tentare d’inforcare la maggior parte possibile di cervello, convinti che questo, aggiungendosi ai nostri, ci avrebbe resi particolarmente intelligenti. L’altro macellaio era il più noto come donnaiolo Peppe l’acciainu (tagliatore di carne), che trascinava alla cavezza o per le corna pecore e montoni verso la bottega, appendendoli poi squartati ai ganci sul muro esterno, lato strada. Noi non eravamo certamente tra i migliori clienti dei macellai e il nostro vero macello era quello di casa con l’ammazzamento annuale del maiale e di tanto in tanto il sacrificio di polli e conigli. Anche della filatura e tessitura l’esempio migliore l’avevo in casa quando mia madre faceva girare e saltellare il fuso : io tenevo il grosso batuffolo di lana, che man mano riducendosi dava il filo che aiutavo ad avvolgere attorno ad uno stecco, ritirato quando lu gliòmmeru a lavoro finito era bello e compatto.

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I carbonai lavoravano in una radura dove avevano accatastato il legname, piuttosto lontano dal paese nei boschi del Principe. Qualche volta assistetti al loro indaffararsi prima a costruire la fornace, un tumulo di terra, che copriva la catasta di legna che accesa bruciava per giorni emettendo sbuffi e nuvolette di fumo attraverso la terra, e poi a smontarla ritirando con le pale il carbone e la carbonella, che insaccati erano venduti ai clienti per alimentare il fuoco delle fornacelle e dei bracieri. Di vasai non si poteva proprio parlare. Da noi si confezionavano al massimo i chinghi, due piatti di terraglia grossolana che servivano per cuocere la migliazza di granturco. I recipienti di terracotta vera e propria, per la quale probabilmente mancavano nel territorio comunale la creta o terra adatte, venivano dai paesi vicini e si compravano alle fiere e feste dei santi. Era il caso delle fesìne, grosse giare per conservare i peperoni sotto aceto od altro, e dei cècini, orci di un paio di litri che come i barili di doghe di legno servivano a portare al paese l’acqua attinta alla fontana. La rottura di uno di essi era un piccolo dramma per noi ragazzi e comportava i soliti rimproveri e scappellotti. Anche i cecinieddi venivano comprati dai forestieri e spesso erano il regalo fattoci per incoraggiarci a risparmiare i soldini di cui di tanto in tanto venivamo in possesso. L’orciolo, con o senza manico e della capienza di un quarto circa di litro, aveva sull’alto del pancino una fessura orizzontale di tre-quattro centimetri attraverso la quale ognuno di noi faceva penetrare i soldini e raramente una lira o rarissimamente una cinque lire. Il cecinieddu che poco alla volta veniva a riempirsi era nascosto in gran segreto in qualche luogo della casa, temendo che il suo gruzzoletto, se fosse stato scoperto dai fratelli, potesse essere alleggerito facendo abilmente uscire le monete, anche con l’aiuto di una lama di coltello tenuto di piatto. Se il tesoro era rimasto intatto e aveva raggiunto una certa consistenza, lu cecinieddu andava in

frantumi e il contenuto contribuiva a comprare una coppola, un paio di scarpe o un vestito alla festa di san Rocco, per esempio. Mentre sfilavano nella memoria tutti questi dettagli, il solito deuteragonista mi faceva notare che per voler troppo acchiappare mi lasciavo sfuggire il meglio. E questo sarebbe ? La veduta d’insieme, l’atmosfera. Ah ! L’atmosfera, pensavo, l’atmosfera ! e ricordavo la celebre attrice francese Arletty che alle insinuazioni di un amante che pensava di esser riuscito a creare un’atmosfera per aver quello che la donna non era disposta a dargli, canzonando ripeteva con la voce chioccia : « Ah ! l’atmosfeera, l’atmosfeera ! « Nel dubbio questa volta che l’altro io avesse ragione, chiesi a mio padre se durante la passeggiata nel parco, in cui gli avevo fatto notare tanti dettagli di cose ed animali, lui avesse sentito qualcosa d’insieme, prigioniero non di questo e quello, ma immerso come in qualcosa di unico e irripetibile, che poteva essere quella luce, penombra e perfino ombra, nelle quali tutto era bagnato e magnificato, onde quello spazio, quel tempo e quella compagnia difficilmente li avrebbe potuti avere un’altra volta. « Capisco fino a un certo punto quello che vuoi da me sapere, rispose. Forse pensi alle foglie multicolori degli alberi festeggianti questo fin di stagione e che fra poco cadendo renderanno il cielo vedovo, deserto e perfino crudele. Quello, però, che mancherebbe al cielo, potremmo trovarcelo sotto i piedi come un tappeto. » « E tutte queste storie morresi che con te vado riesumando, danno un sentimento generale del paese o sono pietre sparse di un terreno incongruo ? « « In parte lo sono perché qui devo lottare con le mie esperienze ed i miei ricordi che sono spesso diversi e perfino contradditori con i tuoi. » « Lo erano, ma non lo sono più, se è vero quello che mi hai detto, cioè che io ricordo con te ed in te e altrettanto fai tu. » « Mah !, borbottò ancora una volta, mah ! « Posto sotto l’infausto segno di tanti ripetuti mah !, temetti di star inutilmente compromettendo la pace mia e di tanti altri, vivi e morti. 86


Il paese aveva due caffè o bar, il principale sulla strada che prolungava la piazza del municipio. In esso operava assiduo Ubaldo Targhieri, servendo il caffè o il bicchierino di liquore che gli avventori si facevano anche l’onore di offrire a chi entrava, paesano o forestiero, contando su un simile gesto da parte dell’onorato la prossima volta. Ma il grosso dello smercio era dovuto agli incalliti giocatori a carte, seduti ai tavolini per ore e ore durante la giornata, specie nelle lunghe sere d’inverno. La frequenza del bar rimase inalterata anche dopo la scomparsa di Ubaldo, che sul tardi aveva sposato Maria Mazzocchia. Benché originaria della campagna, Maria era parecchio, anzi molto disinvolta e, se tutti apprezzavano la ridanciana libertà del suo linguaggio, alcuni sapevano cogliere l’indubbio significato delle sue occhiatine che indicavano la sua disponibilità anche ad altro commercio. Che Ubaldo funzionasse poco e male nelle sue prestazioni coniugali era voce comune, come lo era quella del focoso bisogno della moglie di essere soddisfatta. E sul volere e il non dare tra i coniugi non si facevano sconti. Ubaldo, servendo i bicchierini a questo e a quello, non esitava a servirsi anche personalmente e il troppo servir Bacco non l’aiutava certo a servir debitamente Venere. Qualche scappellotto o calcio era pur volato tra marito e moglie e gli alti lai eran serviti non certo a sanar la situazione, quanto piuttosto a renderla ancora di più di dominio pubblico. La configurazione della casa aiutava le mene di Maria. Quando Ubaldo scendeva dal bar aprendo e facendo rumorosamente cader dietro di sé la botola che portava alla lunga scala con scalini altrettanto rumorosi sotto i suoi piedi pesanti, Maria nella camera sottostante aveva tutto il tempo di ricomporsi abbassando la gonnella e il fortunato Romeo di chiudere la brachetta , salvandosi per la porta-balcone che per una scaletta dava al piano terra, quando non capitava addirittura che l’alticcio barista le scale le facesse a ruzzoloni e Maria, dopo un po’ di tempo che l’annebbiato

impiegava per distinguere i fischi dai fiaschi, accorreva a soccorrerlo e consolarlo, mettendo tanta più tenerezza nel consolare il malconcio quanto più intenso era stato il piacere, da quel ruzzolone solo in parte interrotto. Con il progredire del fascismo Ubaldo diventò addirittura membro della milizia del partito e, quando dovette per non so quale ricorrenza recarsi a Milano con un drappello di morresi guidato da don Ettore Sarni, Maria lo salutò con particolare effusione, contando su quell’assenza di vari giorni per pensare ai fatti suoi. Al ritorno lo accolse con un po’ di malagrazia, associandosi perfino al coro di risate quando si seppe che il milite Ubaldo anche a Milano aveva alzato il gomito e, per rifarsi degli strapazzi del passo littorio, detto anche dell’oca, brindò gratis tanto generosamente che per tre giorni cadde ogni sera sul letto senza riuscire a sfilarsi gli stivaloni, con che piacere dell’albergatore si può immaginare. Ubaldo una o due volte l’anno aveva il suo momento di gloria anche fuori del bar. A san Rocco, per esempio, come andavano in frantumi i cecinieddi, andava per aria il sigillo della ghiacciaia. Questa era un grande pozzo scavato nella collina poco dopo la casa dei Sarni quasi all’incrocio della via nuova con quella per le Mattinelle. Durante le grandi nevicate si raccoglieva con le pale la neve e la si gettava nella nevèra badando, man mano che essa si ammassava, a creare delle intercapedini di paglia fra strato e strato. Giunti alla bocca , si pestava ben bene il tutto e si metteva un lastrone di pietra a sigillo. Durante l’estate si apriva di tanto in tanto la ghiacciaia e a colpi di piccone si staccavano grossi pezzi di quel che nel frattempo era diventato ghiaccio che, oltre che da pochi privati, era comprato soprattutto da Ubaldo, specie per la festa di san Rocco in agosto. Sulla omonima piazza di fronte alla bottega De Luca Ubaldo disponeva sedie e tavolini per la vendita e il consumo del suo gelato, detto granita. Per ottenere la granita al limone Ubaldo lavorava per ore incurante della banda che suonava lì a pochi metri e delle 87


occhiate perlustratrici di Maria, cui oltre al piatto paesano si offriva la possibilità di quello forestiero con tanti ospiti accorsi dai paesi circostanti. Il poveretto chino sudava quattro camicie , girando e rigirando un cilindro di zinco con i pezzi di ghiaccio che con l’additivo di parecchio sale dovevano portare sotto zero l’acqua contenuta in un secondo cilindro di minor diametro. Finalmente questa cominciava a formare una massa gelatinosa che nel migliore dei casi raggiungeva lo stato di neve compatta e malleabile e, nel peggiore, una brodaglia grigiastra con piccoli ghiaccioli galleggianti nel resto del liquido che non voleva proprio saperne di solidificarsi oltre. Lì dentro pescava Ubaldo con un piccolo mestolo, riempiendo le coppe svasate di lucido metallo dalle quali gli avventori sorbivano con un cucchiaino la miracolosa leccornia. Quando zio Luigi era in stato di grazia faceva sedere a un tavolino anche noi. Ciò avvenne al massimo una o due volte, dovendo le altre volte accontentarci di sbarrare gli occhi invidiosi sui pochi eletti, che erano i signori e qualche forestiero che faceva finta di gradire , con molte riserve, perché al suo paese si faceva ben altro. Quella del cantiniere era un’attività artigianale come le altre o aveva qualcosa di più o di meno secondo che la si considerasse come richiedente particolare abilità o no ? L’abilità c’era senz’altro se si voleva aver successo, ma non era apparente. Cosa faceva il cantiniere se non possedere un locale e servire del vino che non era neanche di sua produzione ? E poi quelle attività collaterali che incoraggiavano alla deboscia, si trattasse del gioco delle carte con relative puntate di soldi o di adescamento più o meno sessuale, impedivano ai più, compresi i frequentatori abituali, di concedere al cantiniere l’onorabilità che si dava a un sarto o calzolaio. Oltre alla cantina di Palomba, c’era quella di Corradino, situata alla fine della discesa che incrociava la via di Dietro Corte un po’ prima dei Buvelardi. Questa ubicazione un po’ appartata rispetto al grosso

del paese faceva sì che fosse la preferita di certi bevitori e giocatori incalliti, tra cui don Remigio- e trattandosi di un prete, si capisce- , don Pietro-anche ciò comprensibile perché quasi signore- e di mio padre, il cui motivo sarà stato la maggiore distanza da casa e, quindi, la maggiore difficoltà per noi di localizzarlo ed obbligarlo a rientrare. Il vino inoltre era migliore da Corradino che da Palomba, i giocatori a carte –eccetto mio padre- quasi dei professionisti e gli stuzzichini che accompagnavano le bevute più originali e confacenti, come il cacio con i vermi. Il pecorino quasi andato a male faceva i vermi e questi, se suscitavano la repulsione dei palati sensibili, erano particolarmente apprezzati da certi raffinati. Ricordo ancora mia madre che mi spediva da Corradino in cerca del debosciato di mio padre e, che ci fosse o meno, sorprendevo i giocatori tagliare e portare alla bocca pezzetti di quel formaggio cremoso, da cui uscivano gli animaletti burrosi e quasi trasparenti, che saltellavano inarcandosi anche sul lungo tavolo attorno al quale erano seduti i bevitori-giocatori. Se mio padre tornava spesso accompagnato da me o strattonato e insultato da mia madre, don Remigio doveva cavarsela da solo appoggiandosi al bastone e qualche volta cadendo. Non era escluso che mezzo steso per terra nella polvere o sui sassi gli scappasse qualche colorita bestemmia. Generalmente avanzava a passi lenti pencolando e appoggiandosi ai muri. Non aveva il vino cattivo come i Morcone, anzi esso contribuiva a dargli quell’aria di cane bastonato e benevolo, con atteggiamenti addirittura paterni verso di noi quando non aveva troppo bevuto. Don Pietro aveva perfino il vino allegro, che lo induceva ebbro a cantare accompagnandosi a contrabbasso con i polpastrelli delle dita che umettava strofinandoli poi contro tavoli o portoni. Don Pietro di più e don Remigio di meno alternavano le visite a Corradino con quelle alle masserie di famiglia in campagna, da dove tornavano spesso con qualche regaluccio per noi ragazzi che si 88


inseriva in una serie di connivenze che li portava anche ad iniziarci a piccoli giochi con strumenti di loro fabbricazione che ci regalavano, mostrandoci pure come costruirli in seguito da soli. Fu il caso dello zufolo di canna o flauto, ricavato da una corteccia sfilata da un ramo liscio ancora verde e, quindi, con linfa. Il primo tipo era di canna, tagliata fra due nodi. L’arte consisteva nel saper costruire e adattare la lingua di legno all’apertura frontale, lasciando lo spazio giusto per il passaggio del fiato. In caso positivo lo strumento fischiava, se no, era pena perduta e ci spolmonavamo inutilmente. Il secondo tipo era di corteccia e l’arte consisteva nel saperla massaggiare sul ramo per poi abilmente sfilarla, approfittando della linfa che facilitava lo scorrimento. Nel cilindro così ottenuto s’introduceva una linguetta e si praticavano anche dei buchi per le diverse note, ottenute otturandoli e sturandoli con le dita. Nel peggior dei casi sull’apertura di ambedue gli strumenti si fissava un pezzo di carta velina che, vibrando al fiato, dava un suono chioccio. Stranamente i ricordi di scarsi e rari momenti di tenerezza balzano nella memoria contorcendosi come i vermi del pecorino e sono collegati con le cantine, quella di Corradino per don Pietro e don Remigio e quella di Palomba per Fiorenza. Delle quattro figlie di Palomba, Fiorenza, se non era la più vistosa, era la più materna. Anche il suo fisico era nel giusto mezzo fra le eccedenze dell’una e le deficienze delle altre due. La sorte s’incaricherà in seguito di confermare questa sua vocazione di sposa e madre, contrariamente alle intemperanze delle sorelle, due rimaste zitelle disponibili un po’ a tutto e la terza avventurosa concubina. Da noi la gente passava parte della giornata seduta davanti alla propria casa ed io, che scorazzavo su e giù per il paese, m’imbattevo spesso in Fiorenza, seduta fuori dell’androne della cantina e che mi chiamava e stringeva a sé quasi a compensarmi delle malefatte di mio padre debosciato , proprio lì a qualche metro nella cantina. Di lei ricordo queste amorevoli accoglienze, indirettamente anche

amorose se per le confuse antenne del mio animo infantile il calore del suo corpo mi confortava senza turbarmi. Sentire attraverso i panni e senza rendermene completamente conto le mammelle di Vincenza era il dilucolo dello stato amoroso, nel quale in seguito le avrei sempre apprezzate, senza che la loro nudità, manipolazione e suzione aggiungessero essenzialmente molto di più. Certo, dell’amore e del corpo femminile infinite sono le possibilità e varianti e nessuna di esse è da escludere, però abbandonarsi su quel letto di rose e latte e stare lì fermo in comunione dei reciproci sensi ed affetti è una delle vette dell’amore, come più tardi avrei più chiaramente sentito e sperimentato quando la prima ragazza che a me tutta si dette così mi teneva contro il petto e, chiudendo gli occhi, canticchiava sotto gli ulivi su una collina tra Pisa e Lucca : « Fingevo di dormire perché volli con te sola restare. Ho tante cose che ti voglio dire…o una sola, ma grande come il mare, come il mare profonda ed infinita. » Da bambino non potevo certamente romanticheggiare come Mimì, ma un po’ ero sulla stessa gamma di sentimenti e già prima di Pisa da giovanotto a Morra la ripetuta offerta del suo mar di tette da parte di un’altra ragazza, in fase come me di sperimentazione sessuale più che sentimentale, mi avrebbe riportato dal pieno meriggio a quell’alba dell’infanzia con Fiorenza. Ma non avevo prima di tutti avuto il seno di mia madre ? Non so, non me ne ricordo. Il primissimo ricordo – ero ancora nelle fasce- è quello dei miei sgambettamenti per liberarmi dall’involucro del fasciaturu. E il tentativo di venirne fuori si ripetè cinque o sei volte tanto che mia madre, come in seguito mi raccontò, esclamò : « Se continui così, ti getto dal balcone. » Poi ricordo il ciucciotto e la bottiglietta da cui dovevo succhiare non so che liquido, ma delle mammelle di mia madre e del connesso allattamento, per quanto mi sforzi, non ho

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alcuna immagine. Non che mia madre fosse fredda con noi o scostante. No, proprio no ; più tardi avrei avuto mille prove di tenerezza da parte sua, ma sempre senza smancerie, badando al sodo, come quando vendeva le uova delle sue poche galline per fare un regalo ai miei figli ed a me, che di soldi proprio non avevo bisogno. Ma li accettavo sapendo che la mia accettazione avrebbe confermato in lei la convinzione di aver provveduto e provvedere ancora al mantenimento della famiglia. Da lei forse ho ereditato il fastidio per le smancerie e la troppo aperta esternazione dei sentimenti verso persone care. Come lei anch’io preferisco pensare al sodo dei sentimenti e non alla loro fiorettatura. Corradino Mariani era aiutato nella gestione della cantina dal padre o piuttosto era costui che a quell’epoca era aiutato da Corradino, che si lasciava andare anche ad altre attività, come quella di cantante. Aveva una belle voce tenorile e la faceva valere, specie nella recita di Cecilia. Nello spiazzo davanti al palazzo Donatelli e nelle strade che lì s’incrociano per la folla ivi radunata si rappresentava la storia di Cecilia, bella donna concupita da vari pretendenti. Il marito durante una lite con uno di essi in una cantina lo accoltella a morte. Catturato e messo in prigione canta una canzone nostalgica sulla libertà perduta. Segue il processo, in cui il marito Scapolazzo è condannato all’impiccagione. Cecilia per salvarlo concede di passare una notte d’amore con il capitano dei gendarmi. Quando all’alba si affaccia al balcone vede, però, Scapolazzo penzolare dalla forca. Corradino faceva la parte di Scapolazzo e lo vedo ancora con la corda al collo tirar le lacrime di tutti gli spettatori con le sue note che scendevano dalla balconata al primo piano della casa della padrona del forno,Vincenzina Scudieri, dove si cantavano le scene più importanti. Le altre parti, anche femminili, erano bene o male cantate da altri paesani, perché nessuna donna partecipava al dramma, essendo ciò inconcepibile, rimasuglio delle ripetute

proibizioni ecclesiastiche di attrici e cantanti, il che storicamente dette origine ai castrati, anche questo un modo di salvare la cosiddetta morale cattolica. « Ma come e perché ricordi e insisti su tutte queste cose e questi dettagli ? « , chiese ancora una volta mio padre. « Ma perché questa era la mia famiglia allargata, che mi permetteva di vivere quasi felice, trovando in essa quel che non trovavo a casa ed inoltre allargando e completando il campo delle mie esperienze che furono più varie e vaste di quelle di altri, che nel loro ambito familiare vivevano forse più comodamente, ma certo più poveramente. La famiglia allargata fu una scuola di vita, dove cominciai a farmi le ossa e indurire la pelle che poi mi sarebbe servita di scudo nelle successive e spesso difficili situazioni in cui mi trovai. » « Ma Fiorenza ? « , insistette più con gelosia che con rabbia. Per spiegarmi volli essere categorico. « E’ come quando fuori è notte e si gela. Rintanarsi con una o più persone, stretti l’uno all’altro, è non solo un modo di sopravvivere , ma anche di sentire la dolcezza della vita. » Volli poi allargare quell’immagine un po’ animalesca facendogli notare. « Vedi queste sculture africane che m’invadono la casa ? Ebbene presso questi popoli primitivi essere esclusi o cacciati dalla tribù equivale a una sentenza di morte perché fuori della tribù nessuno ti accetta e il mondo circostante è deserto e crudele. » Saltando apparentemente di palo in frasca, gli chiesi : « Ricordi Vituccio la Vipera ? « « Sì, era un nostro lontano parente e abitava vicino alla cantina di Corradino. « Mentre la sua mente errava tra la frasca , insegna della cantina, e il quasi antro in cui Vituccio aveva la cucina e in fondo il recinto per l’asino, la mia memoria fu sollecitata a ricordare una parola, Varnicola, intorno alla quale in un coacervo di ricordi che sembravano nulla avere in comune vennero a galla la cònnola con mia madre che cullandomi tentava di addormentarmi cantando china su di me 90


Fa lu suonnu, picceriddu, ferma l’uocchi, mio nenniddu, figliu beddu de la mamma, fa lu suonnu, ninna nanna e le due conchiglie sul comò in camera da letto, che accostate all’orecchio nel padiglione così ampliato facevano sentire un rumore di fondo che per noi era il mare, di cui avevamo solo una più che sommaria idea. Questi ricordi precisi nella loro individualità e confusi nell’alone che intorno ad essi veniva a crearsi erano zampillati l’uno dopo l’altro da Varnicola, la sorgente alla quale Vituccio si recava con l’asino ogni giorno per lavorare nell’orto dove coltivava le sue verdure, vari tipi di lattuga, finocchi, sedano, agli, cipolle, prezzemolo, basilico eccetera, che portava a vendere in paese nel tardo pomeriggio, contenute in due cesti conici di vimini sul dorso dell’asino. Nel nostro orto vicino casa noi avevamo quasi tutte queste verdure, la cicoria, però, no e Vituccio poteva sempre fornircela, della specie coltivata, non così buona come quella selvatica che potevamo raccogliere lungo le prode della strada, ma solo in primavera. Il gusto amarognolo di questa verdura, impreziosito a volte dai pezzetti di prosciutto e di formaggio che non si riusciva più a grattugiare e lì dentro si ammolliva, mi accompagnerà per tutta la vita e sarà uno dei punti forti di richiamo alla mia infanzia, come ora messo quasi in musica da quel sonoro termine Varnicola ed orchestrato per gli andirivieni del sentierino ripidissimo in una luce un po’ da acquario del bosco che bisognava attraversare per arrivare là in fondo, quasi nella valle dell’Isca, a prelevare la benedetta cicoria. Per più di sette decenni il filo di Arianna che mi ci ricondusse non si era spezzato, ma giaceva aggrovigliato e lo stavo dipanando con mani che erano anche quelle calde di mia madre cullatrice e il suono di battigia di un mare immaginario.

Varnicola, Varnicola ! Mattinelle o la Pescara, Fontanelle o la Profica non hanno acqua così chiara né radice così antica di dolcissima parola. Varnicola, Varnicola ! comuni esse e tu la sola misteriosa e sì canora. Varnicola, Varnicola ! canticchiavo, autocullandomi come se avessi appena poppato a quelle sorgenti, che ora in un revival di musica di epoca barocca facevano la pari con la mammella della collina natale, a me più cara di qualsiasi petto di Diana di Efeso. « Hai finito di giocare ?, « disse mio padre vedendomi tutto intento a scrivere canticchiando. Che rispondergli ? Aveva istintivamente azzeccato meglio di qualsiasi critico letterario il carattere di quella mia attività, ludica nella sua più intima essenza. Come nei giochi dell’infanzia, giocavo forse con gli altri, ma soprattutto giocavo per me. Si scrive, infatti, sperando anche in un pubblico di lettori, ma lo si fa essenzialmente per se stessi, per un bisogno incoercibile di autoesplorazione e autosoddisfazione. Anche il bambino giocando entra in contatto con il mondo, ma, cosa più importante, ciò facendo scopre se stesso, cresce su se stesso. Non c’è infatti modo migliore e più efficace di apprendimento che il gioco. Né il gioco è solo passatempo ; nell’infanzia esso è una cosa serissima e lo si può paragonare all’amore. Anche l’amore in parte minore è passatempo, però nella sua essenza è apprendimento, apprendimento di sé e del partner, arma di predilezione della conoscenza e si gioca con tutto il

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corpo, ma specie con il cervello di cui gli organi sessuali sono soltanto lo strumento, spesso insufficiente e a volte perfino traditore. Quali erano i giochi della mia infanzia ? Essi non erano affidati al giocattolo nell’accezione commerciale e seriale, di cui sono stati vittime fino al parossismo generazioni intere di bambini. La corsa al meccanismo sempre più complicato, alle prestazioni tecniche sempre più mirabolanti non faceva parte dei nostri giochi e giocattoli, se giocattoli potevano essere considerati quei prodotti da « arte povera » che talvolta entravano nei nostri giochi. Caratteri essenziali di essi erano la socialità e l’apprendimento. Il gioco quasi mai era solitario, quasi sempre era di squadra, supponeva cioè l’abilità d’imporsi a compagni e concorrenti. Né era fine a se stesso, giocare per giocare, giocare per ammazzare il tempo o per tener tranquillo il bambino, lasciando ai genitori il tempo di occuparsi dei propri fatti invece che del bambino. Per vincere –e anche per divertirsibisognava acquistare e dimostrare una certa abilità, che era frutto di esperienza, ma soprattutto d’intelligenza e di astuzia. E queste due, come servivano nel gioco, più tardi sarebbero servite nella vita. Molti giochi erano comuni a bambini e bambine, cioè i due sessi giocando insieme, o separati ma nello stesso gioco, imparavano a considerarsi partner, senza seclusioni ed esclusioni tipiche della nefasta morale cattolica, per la quale il maschile è il pericolo del femminile e viceversa. Il che non significava, però, mescolanza balorda dei sessi e passaggio scontato dal corpo degli uni in quello delle altre. Il gioco supponeva una fase d’iniziazione ed in essa si era ammaestrati o semplicemente accompagnati dagli adulti o da compagni un po’ più grandicelli. In qualche gioco entravano addirittura quasi tutti i ragazzi del paese, divisi in due squadre opposte, rappresentanti delle due piazze, quella di san Rocco in basso e quella della Teglia ( tiglio) o piazza del municipio in alto. Se per caso o a ragion veduta un gruppo invadeva il territorio dell’altro,

scoppiava la « Guerra » e la scaramuccia cominciata in piccolo faceva accorrere gli altri ragazzi, che secondo l’ubicazione delle loro case si schieravano con una squadra o con l’altra. Noi facevamo parte della squadra della Teglia. La consapevolezza dell’appartenenza territoriale era fortissima- nazionalismo o campanilismo in germe- : si pretendeva addirittura di parlare un diverso dialetto secondo che si fosse della Teglia o di piazza san Rocco. Noi che abitavamo sulla linea di confine dei due territori ed avremmo potuto, quindi, optare per una o l’altra squadra, senza esitare considerammo sempre di far parte della Teglia, godendo questa di maggiore e quasi nobilesco prestigio rispetto all’altra, più popolare. Nel gioco della barriera o guerra frangesa le due squadre erano composte da ragazzi senza badare da dove provenissero. Divisi in due squadre uguali e in due campi ognuno con una porta, segnata da due alberelli o due pietre e dell’ampiezza di circa tre metri, si tirava a sorte la squadra che doveva dar inizio al gioco mandando uno dei suoi ragazzi più veloci a sfidare quelli del campo avverso. Là a uno dei giocatori che aveva messo una mano al petto e l’altra dietro la schiena, lo sfidante doveva dare, contando ad alta voce, tre schiaffetti sulla mano e poi scappare. Se chi gli aveva porto la mano riusciva a toccarlo, lo faceva prigioniero e faceva mettere lontano dalla porta. Se non ci riusciva, l’inseguiva, ma allora uscivano fuori i compagni dello sfidante, che a loro volta cercavano di toccare l’inseguitore che poteva esser fatto prigioniero solo da chi era uscito per ultimo dal suo campo. La squadra del prigioniero poteva liberarlo se una di essa riusciva a toccarlo senza essere toccato a sua volta dagli avversari. Vinceva la squadra che aveva fatto prigionieri tutti quelli dell’altra squadra oppure se un giocatore era riuscito ad entrare nella porta avversa incustodita, gridando allora « Vittoria ».

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Questo gioco aveva certamente origine storica, derivato dall’episodio della Disfida di Barletta, in cui tredici cavalieri italiani dell’esercito spagnolo affrontarono tredici cavalieri dell’esercito francese, facendoli cader da cavallo o costringendoli a uscir dal campo, vendicando così l’insulto di codardia loro rivolto dal capitano francese. Inutile sottolineare che l’episodio, oltre ad esser magnificato nel romanzo del D’Azeglio, era motivo ricorrente della propaganda fascista. Nella Baruglia o coppelanduonu si tirava a sorte un ragazzo che doveva parare, cioè impedire che la sua coppola messa a terra e detta ciaccia ( carne ? ) fosse presa a calci dagli altri, che stando a pochi passi dalla coppola egli rincorreva cercando di toccarne uno. Costui allora gli succedeva nel dover mettere a terra la propria coppola e quindi parare a sua volta. Con la coppola, che noi carusi portavamo specie nei mesi freddi, si facevano anche altre gare. Presa per la visiera, rinforzata all’interno da cartone, nuova o relativamente in buono stato, se volava più lontano di quelle degli altri, ci faceva vincere. Spesso, però, la visiera era malridotta e la coppola con una traiettoria irregolare non andava molto lontano. Questo gioco ci esponeva alle botte dei genitori che vedevano andare in fumo molto prima del previsto i pochi soldi che avevano, né era scontato che il monello ricevesse presto una coppola nuova. Lo stesso, se non maggior rischio si correva col Gioco dei bottoni, una specie di gioco infantile del golf. Si faceva una fossetta in terra e i giocatori da una distanza stabilita di due, tre metri lanciavano i loro bottoni il più vicino ad essa possibile. Scoccando l’indice o il medio contro il pollice in tre tempi si tentava di far cadere nella fossetta il proprio bottone, dicendo tips, taps e funtanedda. Chi vi riusciva ritirava il bottone e poteva continuare il gioco, in cui ora gli subentrava il secondo, il terzo e così via.

Se dopo il secondo tips qualcuno si accorgeva di non farcela a raggiungere il buco, mandava il bottone il più lontano possibile con il terzo tips in modo da render difficile il compito del giocatore successivo. I bottoni erano vinti da chi riusciva a infilarli nella fossetta e persi da chi non vi riusciva. I bottoni avevano diverso valore secondo la loro grandezza. Drogato da questo gioco fui indotto a staccare i bottoni dalla mia brachetta e giacca ed a tagliare con le forbici quelli grossi di latta ricoperta di stoffa da un cappotto, forse di mio padre. Possedere un tale bottone era come avere alla roulette un gettone d’oro. Il tesoro spronava l’ingordigia degli avversari che ci mettevano il massimo impegno a sottrarmelo, senza esclusione di colpi, qualcuno anche sospetto, onde i litigi con accuse e controaccuse. Se fossi tornato a casa ancora in possesso del bottone, avrei potuto tentare di nascosto di ricucirlo e farla franca, ma ohimé ! tornai senza. Scoperto il delitto e il malfattore, la punizione fu inevitabile. Nel gioco di Capu e croci si sbattevano i soldi contro un muro e bisognava indovinare prima che cadessero se fossero testa o croce. Chi indovinava vinceva il soldo. Più complicato il gioco del Petricchielu , piccola pietra rotonda. La si collocava in terra e ognuno lanciava il suo soldo il più vicino possibile alla pietra. Chi vi riusciva cominciava il gioco. Si mettevano tutti i soldi a pila con la stessa faccia e, facendovi cader sopra la pietra, si cercava di far loro voltar faccia. Chi vi riusciva vinceva i soldi rovesciati. Le monete di un soldo o due-e rare volte un nichelino di cinqueerano quelle più in corso e siccome scarseggiavano non era raro che per procurarsele si alleggerissero i salvadanai propri o dei fratelli. Come per i grandi le partite a briscola o a scopa nelle cantine, questi giochi infantili dove erano in ballo i soldi avevano un lato tutt’altro che educativo, inducendo al furto o all’imbroglio, né era di facile evidenza la bontà di essere iniziati a tali vizi, né si aveva da parte di 93


nessuno il coraggio di presentarci la figura protettrice di qualche santo o divinità : pur essendo nella Magna Grecia, ci mancava quel ladruncolo di Hermes. Sul selciato del Corso la Cambana o anga zoppa per le bambine consisteva in un trapezio a forma di campana, rotondo alla sommità. In esso si tracciavano i quadrati delle case. Lanciando una piccola pietra piatta nel primo quadrato, si cominciava il gioco saltellando su una sola gamba e, senza posare il piede a terra, si prendeva la pietra lanciandola nella seconda casa e così di seguito. Fatto il giro della campana, si aveva il diritto di scegliersi una casa che si contrassegnava con una croce. Chi seguiva, arrivata davanti alla casa, per entrarvi doveva chiedere il permesso alla padrona. Se costei lo negava, bisognava saltare, sempre su una sola gamba, nella casa successiva. La cosa diventava difficile se per due o tre case di seguito le padrone rifiutavano il permesso. La padrona dava il permesso dicendo « Avanti con riposo » Bisognava allora saltare nei quattro triangoli della casa senza toccar le diagonali di delimitazione di essi e quindi passare alla prossima casella. Il tracciato della campana per i ragazzi era lineare e con case della stessa grandezza l’una dopo l’altra. Benché di rado, le bambine giocavano pure alla Cavallina o sangualieru. Nella cavallina i bambini si mettevano l’uno dopo l’altro chini a pecorella. Dopo aver saltato su ognuno di essi, il saltatore si metteva a sua volta nella stessa posizione alla fine della catena. Toccava allora al primo di questa di far lo stesso e così via. Nal sangualieru si affrontavano due squadre di ragazzi. Quelli della prima si mettevano contro un muretto chini uno dietro l’altro. Uno della seconda squadra saltava sul loro dorso il più avanti possibile in modo da lasciar spazio sulle groppe ai seguenti. Se uno dei saltatori non riusciva a mantenersi in groppa e metteva un piede a terra , faceva perdere a tutta la squadra, che passava quindi a mettersi sotto

a quelli della prima che vi saltavano. Prima di saltare i ragazzi dicevano « Sangualieru, votta ! ( butta, lancia) » . Simile a questo era il Gioco di san Giorgio con la variante di un ragazzo con le mani conserte che facevano da staffa a chi saltava. Il gioco dello Scaffu con qualche variante era comune ai ragazzi ed agli adulti. Il bendato doveva indovinare chi gli aveva dato uno schiaffo. Comune a ragazzi e ragazze era La catena de lu soriciu in cui si prendeva fra le dita un filo abbastanza lungo annodato alle due estremità. Si formava la prima figura che un altro bambino riprendeva fra le sue dita , formando un’altra figura un po’ più complicata. Il primo la riprendeva formandone una terza ancora più complicata e via di seguito finché con i fili attorcigliati non era possibile formare altra figura. Preminente e quasi esclusivo dei ragazzi era il gioco di Mazza e pìvezu. Il pivezu era un pezzo di legno di una buona diecina di centimetri e tre o quattro di diametro appuntito alle due estremità ; la mazza era un bastone di una settantina di centimetri. Si collocava il pivezu al centro di un cerchio di una ottantina di centimetri tracciato in terra. Con una pietra si poteva alzare la punta da colpire con la mazza. Con veloce abilità si poteva dare al pivezu a mezz’aria un secondo colpo per mandarlo il più lontano possibile. Così per tre volte. Il battitore prendeva poi il pivezu, faceva tre passi verso il cerchio di lancio, cercando di colpire con esso la mazza ora collocata nel cerchio. Se vi riusciva, aveva vinto e poteva battere di nuovo. Se no, batteva un altro ragazzo, partendo dal punto dove era caduto il pivezu che egli raccoglieva , batteva e contava i passi dal punto di caduta fino al cerchio. Tanti passi, tanti punti. Lu strùmmelu era la trottola di legno con chiodo in punta. Svolgendola in aria dallo spago con cui era attorcigliata, si cercava di colpire con essa la trottola dell’avversario, rovinandola o spaccandola. Prova di abilità era saper raccogliere da terra la trottola 94


ronzante nel palmo o sul dorso della mano e farla lì ancora girare ; oppure saperla fustigare con lo spago per aumentare velocità e durata dei suoi giri. La Scuppetta era uno schioppo infantile fatto spaccando a fondo una canna, in cui si introduceva un pezzo di legno. Manovrandone accortamente la flessibilità, si stringevano e poi si liberavano le due facce lanciando il proiettile il più lontano possibile. Un po’ simile alla scuppetta era la Jonda o fionda, fatta con la cinghia dei pantaloni o altro pezzo di stoffa o spago Roteandola in aria, si cercava di far sentire il ronzio del proiettile che doveva colpire lontano un bersaglio. Più che di Davide e Golia, si favoleggiava di uccelli colpiti con essa in volo. Lu chirchiu era un cerchio ricuperato dall’orlo delle vecchie caldaie o dai cerchioni delle biciclette. Poteva essere anche di legno, ricuperato da vecchie botti o fabbricato apposta con rami flessibili. La martellina serviva da motore, volante e freno perché con essa si spingeva, dirigeva e frenava in discesa il cerchio. Essa era di ferro, di due fili di ferro intrecciati o di legno. In questo caso serviva da bastone con cui colpire e far avanzare il cerchio. Negli altri casi, a punta ricurva come una mano spingeva il cerchio o lo frenava, passando dall’interno all’esterno e viceversa. L’abilità consisteva nel far percorrere al cerchio il più grande tragitto possibile senza cadere sul selciato del paese o nella polvere e sui sassi della carrozzabile. L’inventività delle bambine si manifestava nel gioco della Pupa o bambola, in genere di pezza, quella dei bambini nella fabbricazione di bastoni, spade e fucili, ricavati da rami e tavole. Se qualche figlio di benestanti cominciava ad avere in regalo giocattoli meccanici- ricordo con invidia e meraviglia la prima automobile di latta, di cui bisognava rimontare la molla o dare la corda con una chiavetta, scoperta nel cortile del segretario comunale Gargani che l’aveva regalata al suo primogenito- qualcun’altro, come i figli della levatrice, ebbe addirittura una bicicletta, sulla

quale per gentile concessione tentai di far qualche metro cadendo, mentre i proprietari filavano sicuri in sella tra l’ammirazione ed invidia generali. Io, però, mi rifacevo fantasticando con i miei mezzi di fortuna. Avevo infatti scoperto in una siepe in basso del paese una mia moto vegetale. Sui rami contorti di quei cespugli ed alberelli avevo individuato una sorta di sellino su cui montavo e, tirando a me sul davanti due rami, creavo un quasi manubrio. Movendomi avanti e indietro e un po’ in basso e in alto, davo la partenza al motore, di cui supplivo l’inesistenza schioccando le labbra e urlando br, br, br, ta, ta, br br br ta ta ta. Pencolavo a destra o sinistra in curva, mi gettavo indietro per saltare ostacoli, mi chinavo tutto in avanti per filar diritto a gran velocità contro il vento. Chi più felice di me, insuperato campionissimo ? Era l’epoca di Binda e Guerra, di cui seguivamo le vicende nel giro d’Italia, comprando da Peppe Marra i loro ritratti come se fossero santini. Lo stesso avveniva per i calciatori più famosi. Queste gare sportive per ritratti interposti ci appassionavano come se si svolgessero sotto i nostri occhi ed accesi erano i litigi, tifando per un campione mentre un altro ragazzo tifava per un altro. Non parliamo poi della spedizione di Nobile al polo nord. Zio Luigi era abbonato al Mattino e meno spesso al Roma. Quando lui aveva finito di leggiucchiare il giornale, muovendo le labbra e pronunziando le parole a bassa voce, veniva il mio turno, compitando sui caratteri tutt’altro che chiari di quella carta autarchica. Lo sport e la cronaca nera erano i miei soggetti preferiti ; delle imprese del Regime, come la traversata senza scalo dell’Atlantico di Italo Balbo e quella di Nobile, mi colpivano i lati a me più ignoti , come la banchisa o la distesa oceanica delle acque. Si faceva con poco o nulla moltissimo e la fantasia si perdeva in cose e persone che avevano del favoloso. Se la mia motocicletta me l’ero scovata da solo, allo zoo mi recavo in compagnia di fratello e sorella. 95


Zio Ciccillo aveva regalato due incerate , una a noi e una a zio Luigi, che potevano coprire i rispettivi tavoli grandi, dallo zio nella stanza da pranzo, da noi nella camera del balcone, che poiché serviva anche da camera da letto aveva il tavolo ingombro di molte cose che si avvicendavano secondo i giorni e le stagioni. Quindi l’incerata la si stendeva solo in rare occasioni, mentre dallo zio era quasi sempre sul tavolo. Sulle incerate a fondo giallo erano raffigurati vari animali, per lo più esotici, una ventina circa, allineati in senso verticale. La serie si ripeteva tre volte, coprendo anche i lembi dell’incerata che pendevano ai quattro lati del tavolo. Di ogni animale era accennato l’habitat con qualche albero o corso d’acqua ed in inglese era specificato il suo nome. C’erano elefanti, zebre, scimmie, iene, leoni, tigri, aquile, cervi, serpenti a sonagli, struzzi, bufali, scoiattoli, farfalle eccetera. Si capivano i nomi quasi simili in inglese e in italiano-lion, elephant, tiger, buffalo-, si era certi degli animali a noi altrimenti noti, per esempio il papilio (bellissima farfalla con coda), ma restavano quelli misteriosi per nome- eagle, deer, squirrel- e per aspetto -struzzo, cervo. balena-. Il riconoscimento o il non riconoscimento dava luogo a litigi con fratello e sorella che pretendevano saperne di più e non sempre erano d’accordo fra di loro. Poi il gioco si complicava perché si accoppiava una bestia con l’altra, mettendole in azione come soldatini su una scacchiera e guai allora se il rinoceronte non mangiava l’ippopotamo o il boa non strozzava l’aquila. Il gioco continuava nei sogni in cui si viaggiava per deserti, foreste ed oceani e gli animali si metamorfizzavano e mescolavano con altri a noi noti : quindi il capitone diventava un rettile che entrava nelle fauci del coccodrillo e ne usciva indenne per la coda, continuando poi ad attorcigliarsi intorno a me che mi svegliavo sudato urlando. Poi riaddormentandomi mi rinfrescavo sotto gli spruzzi della fontana che la balena portava in giro sulla testa.

Da queste oniriche escursioni tornando alla concretezza delle strade e dei viottoli del paese, i giochi più personali erano quelli ed ora complicati sono questi : Sotto una fragile cupola d’oro e di maturo verde or sì cangiante avanzo, è il tardo autunno e sono faggi. Se di terra battuta fosse il viale, segnerei nella polvere una linea e sopra un sasso metterei lu pìvezu assottigliato alle due punte, l’una in terra e l’altra in aria. Assesterei con una mazza quindi un gran colpaccio e volerebbe lu pìvezu e io dietro, mentre cade, veloce un altro colpo darei badando bene che non perda la traiettoria fissata. Ora gli altri ragazzi vengano e con me competano che non mi accorgo però che un’atomica minibomba mi precede. La massa dei suoi floridi colli in tesi jeans è contenuta appena e, se lu pìvezu baldanzoso la colpisse lì a valle dove la cucitura appena regge, vedrei che tutta s’apre e dà il passaggio al mio volante uccello che la penetra. Ma se bastava appena a spaventare rondine che volava bassa, come vuoi tu ch’ora lu pìvezu dirompa quella fortezza che richiede astuzia più che violenza ? Anche sarebbe vana la jonda : io non Davide, ma lei 96


è una Golia. Allora di lu soriciu la catena farò, passando facile da parallele linee per convincerla a giocare con me a più complesse figure di triangoli e di losanghe come bene si addice alla spelonca. Ma questo gioco finirà più presto di quel ch’io creda. Le dita s’impigliano in labirinto che so di ogni femmina essere la figura più calzante. Quando l’annuso e canto, lei si serra, a chi non canta si apre e a me fa guerra. Cosa mi resta allor ? Lo spaccastrùmmelu ? In groppa saltarle e spaccarla trottola con il furioso chiodo alla mia punta ? No, bisogna gareggiando convincerla. Anche mettendo in gioco soldi ? So che i soldi inteneriscono le femmine. Tips, dolce la batto sopra una natica, taps, più dolce ancora sopra l’altra, batto e ribatto finché molle si apra la funtanedda. Ora ci vuol destrezza man mano ad accostarsi al fondovalle dove in un buco occhieggia, chi ? la rosa tenera, calda, profumata e roscida. Lietotriste or canto, se no si serra, canto, canto al ronzio della canzerra.

lu pìvezu ha lanciato e non si accorge che a minibomba atomica non basta quest’accensione. E’ un pivezieddu trepido che nell’autunno tardo i geli prossimi attende della fine. E in tanta gloria barocca un pivezone ci vorrebbe. Stavo forzando il gioco presente ed i giochi del passato ; bisognava scrostare dalle superfetazioni di un ottantenne quell’età in fondo pura e genuina dell’infanzia. Bisognava ? Ma la dissacrazione non era il passaggio obbligato per la sacrazione ? Chiesi a mio padre : « Quando eri bambino, i vostri giochi erano questi od altri ? « « Sì, erano esattamente questi e credo che anche nell’infanzia di nonno Daniele essi fossero gli stessi. » Che il gioco di testa o croce si chiamasse Capita aut navem, che quello del cerchio si chiamasse Trochus, , che quello del pari o dispari fosse Ludere par impar e quello dello strummelu Turbo già all’epoca dei Romani confermava che la mia infanzia si svolgeva in un ambiente che poco o nulla era cambiato nel corso di millenni. Dunque, quei giochi andavano rispettati così come erano e non snaturati o deviati verso altri significati. Ma la creazione artistica sulla base di altre esperienze non andava così a farsi benedire ? Quanto alla mia memoria, poi, non so quanto verde nel giallo, quanto giallo nel rosso e quanto rossorosso fosse rimasto nel cuoio marcio del mio tardo autunno. Come per fissare un punto di riferimento al mio vagabondare poetico, mio padre volle ancorare il corso della memoria pronunciando una parola per me gravida di significati : Canzerra. « Perché quel gioco si chiamava Canzerra ? C’era un nome o verbo di significato analogo ? « « Non so, rispose, forse perché la parola riproduceva bene il ronzio. » « Ma questo si chiamava nfuta, che non rende bene quel suono sibilante e ronzante, a meno che non ci si

Sotto una fragile cupola d’oro e di verde maturo or sì cangiante avanzo. La barocca fantasia

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fermi a lungo sulle due consonanti prima della u, come se fosse nf nf nf uta. » Il gioco della canzerra consisteva nel passare un filo doppio nei due buchi di un bottone o di una castagna piatta, legandone i due lati. Infilando le dita nei capi a cappio, si facevano attorcigliare i fili, girando il bottone sempre in un senso. Quando i fili erano bene attorcigliati, si tirava ai due capi con le dita e storcigliandosi il filo provocava il giro veloce del bottone che agiva da volano. Il filo si attorcigliava così in senso inverso e il gioco si ripeteva. Di musica in musica, chiesi a mio padre se sapesse cantare. « Cantare ? Da giovane, quando portavo le serenate. » Portava le serenate mio padre e a chi ? A mia madre ? Mia madre sì che cantava ed il canto era per lei un rifugio contro i mali della vita. Cantava, però, anche a noi bambini e avrebbe cantato fino alla vecchiaia, quando quei guai erano un lontanissimo ricordo. Anche zio Luigi canticchiava mentre s’insaponava la faccia per farsi la barba ( Babbo non vuole, mamma nemmeno, come faremo a fare l’amor ) , ma era chiaramente un motivetto imparato nei pochi mesi in cui fu militare alla fine della prima guerra mondiale. Volli inoltrarmi un po’ oltre su questo terreno e a bruciapelo chiesi a mio padre : « Cantavi la Mamma de Cungittella ? «. Arrossì, dunque l’aveva cantata.

din don da ngondrà lu mulenaru cu li uocchi bianghi e neri. Mò ca ngi sì venuta na vota sola din don da din don da ju te la vogliu fa uoi li uocchi néura mia ju te la vogliu fa farina bbona. Mulenarieddu nun parlà de questu din don da din don da tengo sette fratelli cu li uocchi bianghi e neri tengo sette fratelli t’accideranno. Nun me metto paura de sei e de sette din don da din don da tengu na pistulella uoi li uocchi néura mia tengu na pistulella carrecata.

‘A mamma de Cungittella era gilosa din don da din do da nu la vole mmannà uoi li uocchi néura mia nu la vole mmannà a l’acqua sola.

E’ carrecata cu pallini d’oru din don da din don da la sparo mbiett’a tte uoi li uocchi néura mia la sparo mbiett’a tte e chi mòre mòre.

Nu juornu jette sola a lu mulinu din don da 98


Dal volto di mio padre mi accorsi che mi ero spinto troppo avanti su un terreno scivoloso su cui non voleva che m’inoltrassi più di tanto. Quali erano stati i rapporti amorosi tra mio padre e mia madre ? La domanda sapeva d’incesto né i miei genitori avevano mai sia pur lontanamente affrontato o accennato a tale argomento, eccetto una volta forse, quando mia madre ( e forse fui io a fraintenderla), mentre eravamo alla Costa vicino al cimitero a fare fascine di ginestre ed io più impertinente del solito saltavo fra i cespugli come un folletto, quasi scherzando raccontò in un momento di pausa seduti per terra a far colazione con pane e vino, bevuto a garganella dalla fiaschetta (e c’era anche mio padre ) , che non c’era da meravigliarsi perché ero nato là tra il vino, le ginestre in fiore ed il vento che brigantesco calava dalla collina del Purgatorio verso il vallone di Sant’Angelo. Nato voleva evidentemente dire esser concepito. Più tardi avrei costatato che le donne in genere sono più franche degli uomini nel parlare di sesso, non volgarmente ed oscenamente come questi, ma con delicatezza e sentimento, senza che ciò comporti una fuga dal dettaglio realistico. Questo è dovuto naturalmente alla loro maggiore fisicità, alle prese con il sesso più a lungo e più di frequente attraverso le mestruazioni, la gravidanza, il parto, l’allattamento ed in genere l’allevamento della prole. La differenza tra uomo e donna in questo settore è spesso solo questione di tono. In un testo come il seguente Nun te ne mangi ‘chiu gaddine chiene che l’hai perduto chi te le dunava. Mò che la tiene aperta la puteja, abbascia prezzu e vinni a grani doja la metafora sessuale è evidente, però le sfumature del tono, la malizia dello sguardo ed una mimica diversa saranno altre se cantate da un donna come mia madre o da un uomo, non dico mio padre che non avevo mai sentito cantare, ma da don Pietro per esempio, che aveva il vino canterino.

Se una donna decenni più tardi, volendo trastullarsi con il fallo, dirà : » Cosa fa il mio pupazzo ? «- e non era certo aliena da focosi ingolamenti- la frase in bocca a lei aveva qualcosa di divertito e di materno con cui trasponeva sul piano poetico un atto tutt’altro che etereo. E’ dunque il tono che fa la musica. Il tono della musica della mia infanzia era in parte roco e ronzante. Esso mi accompagnerà per tutta la vita e, quando in seguito incontrerò una voce femminile che tale qualità possedeva, andrò in giubilo non nel senso dell’ascesa, ma della discesa in profondità cavernose. Chiedendo, quindi, alla donna :« Hai cantato questa notte ? «, quel che mi sarebbe interessato non era la solita non risposta o risposta evasiva, quanto, nell’attesa che ciò avvenisse, il fatto che lei si schiariva con due o tre colpi la voce un po’ rauca e ciò non tanto per averla chiara, quanto per disporre di qualche secondo in cui preparare la schivata. Se all’epoca del femminismo più arrabbiato qualcuna oserà scrivere e far rappresentare « I discorsi della vagina », non sarà certo la casistica di tali discorsi che m’interesserà, né la supposta liberazione della donna. Già molto prima si era teorizzata la vulva dentata, la vulva parlante. Per me l’unico discorso interessante e possibile sarebbe stato un rauco ronzare senza articolazione di parole, un po’ come il marranzano dal suono caldo, insistente e raspante, con il quale potevano benissimo gareggiare gli strumenti della mia infanzia, per esempio la semplice foglia di acacia, tesa contro la bocca e fatta vibrando cantare, o la carta velina, sottratta a chi si preparava le sigarette con il tabacco in essa avvolto, umidificandole e sigillandole con lo sputo. La carta velina era da noi fissata con filo di cotone sulla bocca di un flauto di canna : soffiando nel tubo di canna, la velina vibrava e quel suono monotono di trombetta stonata era la nostra musica. Altri tipi di suono erano prodotti mettendo una mano sotto l’ascella ed azionando il braccio come un mantice o premendo la bocca contro il pugno chiuso o contro il dorso della 99


mano. Queste scurrili fetecchie erano provocate possibilmente non in presenza di genitori ed adulti e, come tutte le cose proibite, esercitavano un particolare fascino, cui ci abbandonavamo in gruppo tra ragazzi, sfidandoci l’un l’altro a chi le faceva più a lungo e più sonore. Cicale, calabroni ed altri insetti erano i nostri naturali ispiratori e per ammirare anche gli aspetti poetici di alcuni di essi, come il colore verde cangiante delle cetonie, le catturavamo sulle rose canine delle siepi e le tenevamo nel palmo della mano, aspettando che prendessero il volo. Ciò non toglieva che di altri ci servissimo in giochi che si potrebbero anche considerare crudeli. A certe libellule dal dorso nero striato di bianco e con l’addome lungo, dopo averle catturate inseguendole mentre volavano a bassa quota, infilavamo nell’ano uno stecchetto sottile e poi le lasciavamo riprendere il volo così appesantite e martoriate. Tutto nella natura e nel nostro corpo poteva essere oggetto d’interessamento e di fantasticherie. Il fischio per esempio era croce e delizia di quegli anni : prima apprendere a flettere debitamente le labbra per formare il bocchino, poi saper passare la punta della lingua fra le labbra e muovere tutta la bocca per eseguire il motivetto voluto, cosa non facile per il fiato che a un certo momento veniva meno non regolando bene inspirazione ed espirazione, e poi c’era quel benedetto problema dei buchi nella chiostra dentaria per la caduta dei denti di latte! Oggetto di particolare invidia ed imitazione era qualcuno più grandicello che riusciva addirittura , mettendo due dita in bocca, a fischiare come un pecoraro che richiami il cane e diriga le greggi. Certo più facile era mettere sotto una pietra il dente appena caduto o strappato, controllando la mattina dopo se sotto il sasso, al posto del dente, ci fossero i due soldi, come garantito. La delusione era la norma, ma non era escluso che un genitore assecondasse quei sogni, mettendo il soldino al posto dovuto.

Se ora è difficile figurarmi mio padre, tornato dalla guerra cui aveva partecipato da bersagliere ciclista, cantare sotto il balcone della nonna con l’elmo piumato di galletto intraprendente « La mamma de Cungittella », facile mi è ricordare mia madre che aveva sempre cantato fino agli ultimi giorni della sua vita. Ma siccome lei aveva una bella voce di soprano e mio padre penso avesse quella di baritono, anche per questo motivo, mancando il sensuale e roco ronzare del contralto e del basso, i loro rapporti amorosi sfuggono alla mia voglia di analisi e alla tentazione d’inoltrarmi su questo piano molto inclinato e tuttora per me pericoloso. Quando pochi mesi prima di morire visitai mia madre all’ospedale di Avellino, il medico, volendo spiegarmi la gravità della cancrena che dal basso aveva raggiunto l’alto di una gamba fin sotto l’inguine, alzò il lenzuolo e tirò su il camice bianco che l’ospedale dava ai malati, mettendo a nudo il bassoventre con il pube spelacchiato di mia madre impacciata ed io più di lei. Diressi subito lo sguardo sul volto della poveretta, cercando con un « Va bene, ho capito » di metter fine allo spettacolo penosissimo. Poi dovetti perfino subire il chirurgo che mi chiese se preferissi che si amputasse la gamba o la si lasciasse così marcire. » Ma perché chiede a noi familiari cosa bisogna fare ? Spetta a Lei decidere se l’amputazione serva ancora a qualcosa o no. « Quando dopo l’operazione e il rilascio dall’ospedale, lei nel suo letto in casa di mia sorella, cercando con la mano la gamba, si accorse di non averla più, si lamentò « Ma perché mi hanno ridotta così ? Perché non mi lasciano morire in pace ? » L’amministrazione dell’ospedale, oltre alle spese della degenza e dell’operazione, ci chiese anche quelle del piccolo feretro in cui il membro segato era stato messo, più quelle del suo macabro seppellimento in terra sacra al cimitero di Avellino.

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Il feticismo del corpo umano per i cristiani era legato alla credenza della resurrezione in cui il cadavere sarebbe stato ricomposto e bisognava quindi aiutarlo a restare intero conservandone per quanto possibile ogni parte. Ma questo feticismo un po’ macabro non era solo dei cristiani e si riscontrava sotto altre forme e con altri intenti presso altri popoli, specie primitivi, nei riti della magia bianca o nera. Più tardi ebbi modo di osservarne anche una variante allegra quando una moglie dissennata e sempre alla ricerca di falli bianchi e neri, in occasione dell’asportazione del prepuzio del marito per evitare infezioni e facilitare i rapporti sessuali, accettò l’offerta ridanciana del chirurgo e conservò sotto spirito in una boccetta il prepuzio, contando boccaccescamente su una più rapida resurrezion della carne. Per stornare la memoria da questi errori ed orrori sacrospeculativi, mi piace tornare alla scena della serenata di mio padre a mia madre, giovane piacente e fresca. Da accenni molto indiretti e scarsi alla sua vita da ragazza, lei mi fece capire che per il matrimonio una certa forzatura da parte di mio padre ci fu. Di che natura fosse non seppi allora e mi rifiuto di chiedermelo ora. Gli strumenti per la serenata, e in genere per feste e balli, erano la chitarra, il mandolino e la fisarmonica, detta organetto, che poteva anche bastare da sola, pur preferendo che fosse in buona compagnia con mandolino e chitarra. Al limite si rimediava anche con una armonica da bocca, di cui fra gli adulti ed i miei compagni c’era qualche virtuoso. In tal caso, però, non era uno strumento poverello di due sole ottave, come quello che ebbi talvolta, ma lungo e largo , ricco di molte ottave, con due file parallele di buchi in alto e alcuni buchi di lato. Meravigliato assistevo allo scorrimento rapido della bocca su quei buchi, completato da quello delle dita. Maldestro io riuscivo solo a produrre un ronzare basso od acuto senza mai

giungere a far cantare al mio misero strumentino un motivo vero e proprio. Seguendo il rapido su e giù delle dita e del plettro sulle otto corde del mandolino, affascinato inconsapevolmente anche dalla forma bombata della cassa di risonanza, che aveva qualcosa di femminile, avrei voluto anche da grande saperlo suonare, perché lo strumento rispetto alla chitarra o alla fisarmonica aveva un che di allegro e saltellante, di giovanile , diciamo di diciottenne, mentre il suono e le forme larghe della chitarra potevano bene addirsi a una ventottenne e per la fisarmonica le analogie inconsapevoli erano più numerose e complicate, di donna quarantenne che piange la giovinezza svanita e trema per un futuro incerto. Intanto berciavo con quanto fiato avevo in corpo canzonette e stornelli paesani e, benché fossi piuttosto stonato, riuscivo ancora a salvarmi nella massa quando la maestra, donna Erminia, al corso di catechismo in preparazione della prima comunione ci faceva imparare « Noi vogliam Dio ch’è nostro padre, Noi vogliam Dio ch’è nostro re « o più tardi don Ettore « Va, pensiero, sull’ali dorate,Va ti posa sui clivi e sui colli, Ove olezzano tepide e molli L’aure dolci del suolo natal. « Cosa fossero quei clivi e quelle aure e come olezzassero nei nostri cervelli di ragazzi irpini Dio solo lo sa. Ma la musica era la musica e, se donna Erminia aveva la famosa riga con i margini metallici, don Ettore aveva il dorso duro della destra paralizzata, per le spalmate la prima, per gli schiaffoni il secondo, che osando ci fece in quarta elementare passare da Verdi a Beethoven con l’inno alla gioia di Schiller : « Gioia, figlia della luce, Dea dei carmi, dea dei fior, Il tuo raggio ne conduce Per sentieri di splendor. Il tuo raggio asciuga il pianto, Frena l’ira e molce il duol, Deh ! sorridi a noi daccanto, Primogenita del sol. » Ed anche qui cosa fossero quei carmi, quel molcere e quella filiazione divina non ci entrò mai in testa anche se il maestro ce l’avesse spiegato, del che non sono sicuro. 101


Dal sacro al profano, « Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio Dei primi fanti il ventiquattro maggio » era piuttosto una stramberia per noi che conoscevamo le piene improvvise dell’Isca e gli stagni di acqua quasi ferma dell’Ofanto e, se in divisa da balilla ci sgolavamo per « Giovinezza, giovinezza, Primavera di bellezza, Nel Fascismo è la salvezza Della nostra libertà «, non è che capissimo come quella primavera potesse salvare la nostra libertà, né da chi questa libertà fosse minacciata. Certo fu lo stesso don Ettore a farmi sgolare per cose simili e a scegliermi per partecipare al corso d’istruzione al fine di accedere al grado di caposquadra dei balilla, durante il quale fu mostrato, smontato e rimontato un vero fucile con i benedetti percussore a punta e l’anello zigrinato che non volevano entrarmi in testa, mentre più facilmente mi entrò il manganello nuovo di zecca che egli tirò fuori da un armadio e che era lì a testimoniare non so cosa, visto che in paese il passaggio al fascismo avvenne in modo indolore e perfino con entusiasmo, almeno da parte di chi ci capì qualcosa di più della solita infatuazione nazionalistica. « Fascisti e comunisti Giocavano a scopone E vinsero i fascisti Con l’asse di bastone. Bombe a man, Carezze col pugnal . » L’asse di bastone era di mia diretta conoscenza , giocando io a briscola e a scopa, anzi uno dei maestri, don Vincenzino, nanetto tutto testa , torace e bacino su due gambette cortissime, era da noi chiamato don Piròccola ( bastone ), ma dove fossero in paese annidati i comunisti proprio non si sapeva ( si sarebbe, però, saputo più tardi alla fine della seconda guerra mondiale) e, benché in casa avessimo il pugnale austriaco, portato dalla guerra come ricordo da mio padre bersagliere che l’aveva strappato al nemico, quelle carezze col pugnale erano di difficile figurazione. Oltre al manganello don Ettore ci mostrò smontandola una bomba a mano, priva della carica, s’intende. In quinta elementare don Vincenzino ci fece addirittura imparare a memoria il canto del conte Ugolino. Ritto sulla pedana della

cattedra, che lo ingrandiva un po’ rendendolo quasi normale, il maestro chiamava « Grassi, la recita ». Io mi alzavo dal banco su cui ero seduto con a fianco un compagno- Maccia, credo- e impettito sciorinavo velocissimo : « La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator forbendola ai capelli del capo ch’egli avea di retro guasto. » Arrivato a « E gli altri due che il canto suso appella », pensando di essermela cavata bene, stavo per pormi giuso sul sedile quando don Piroccola tuonò « Grassi, in piedi ! Ripeti tutto daccapo senza mangiar le parole in modo che i compagni possano capire. » Stizzito per il richiamo di quel mio difetto, dovuto forse alla volontà di non incepparmi strada facendo perché cacagliavo-Daniele lu cacagliu mi chiamavano sfottendo perfino fratello e sorellariprendevo daccapo sudando freddo e afferrato ai bordi del banco per contenere rabbia e nervosismo. Benché il maestro si fosse largamente adoperato a spiegarci l’episodio dantesco, insistendo soprattutto sul lato fattaccio e sentimentale di quel canto, non è che io e gli altri capissimo e gustassimo altro, saltando a pié pari sin dall’inizio sul significato di quel forbendola, di retro guasto e via di seguito fino al suso del finale. Rivale nella recita, ma non solo in quella, era una compagna, Sighilde, con la e finale e non con la a perché la e mi sembra più a lei consona. La santarella si alzava in piedi e aiutata anche dai bei capelli biondi che le cadevano abbondanti sulle spalle del vestitino sempre impeccabile- e io caruso e goffo nel grembiule nero maltagliato e non fatto su misura da mastro Rocco- recitava con grazia e civetteria, mandando a spasso per l’aula gli occhioni azzurri su maestro e compagni e scuotendo di tanto in tanto come una cavallina la capigliatura che nel fervore della recita veniva a ingombrarle un po’ il volto. « Benissimo, Fienillo », la complimentava alla fine il nanerottolo, non insensibile alla bellezza che già in quegli anni si annunziava prorompente e che più tardi ne 102


avrebbe fatta la Circe del paese. A lei ed a me già nelle classi inferiori i maestri affidavano il controllo della classe quando si assentavano per una diecina di minuti. Rientrati chiedevano di far rapporto e quella strega con giri accurati di frase e sguardi malandrini non era mai d’accordo con me. Promossi a caposquadra, lei delle piccole italiane ed io dei balilla, marciando durante le sfilate del sabato fascista passavamo l’uno a fianco o a fronte dell’altra, guidando le rispettive squadre. E non dico l’impettita alterigia di lei un po’ più alta di me e gli sguardi di dispetto se non di disprezzo che mi rivolgeva. Non erano solo animosità e concorrenza infantili, c’erano altri motivi più seri per questa inimicizia, come si vedrà in seguito. Jolanda Martino non poteva far concorrenza a Sighilde. Era più piccola e, con una faccia rotonda e occhi e capelli neri, la compostezza personificata, scostante perfino. Ordinatissima sembrava una bambola, curata dalla madre con puntigliosità. La situazione familiare non era molto chiara. Il padre sarà stato il solito emigrante che, una volta partito, non fa sapere più nulla. Fatto sta che abitava con la madre a qualche centinaio di metri da casa nostra. Entrando in un cortiletto ci si trovava di fronte a una grande scala che portava al primo piano con tre stanze un po’ traballanti. Nel medesimo cortile a pianterreno abitava don Pietro De Rogatis. Il ricco scapolo, oltre le proprietà in campagna, aveva in paese un bello e grande orto in cui si penetrava per un portoncino in fondo e in basso del cortile. In esso don Pietro coltivava bella uva da tavola, ortaggi vari e perfino carciofi che erano disposti in un filare che dava su un alto muro in via Rampa al Corso. Scalando quel muro era possibile rubacchiare un carciofo o assaggiare qualche grappolo d’uva. Nello stesso muro cresceva tra pietra e pietra la parietaria le cui aste coglievamo per pulire a fondo le bottiglie dei pomodori dai sedimenti dell’anno precedente.

Jolanda aveva un fratello, dalle spalle già deformate dalla gobba, con due occhi maliziosissimi poco rassicuranti e un muso di animale tra il topo ed il furetto. Se Jolanda restava nella sua nicchia a fare la santa, il fratello Martino scorazzava e litigava con noi, iniziando giochi che sembravano innocenti e finivano sempre male. La madre presentiva futuri guai da quel mefistofele e, riservando tutte le cure per Jolanda, trascurava stizzita Martino. Scomparsi la madre, il padre e il cugino che da macellaio passerà a impiegato comunale, Martino ne combinò di tutti i colori, scorazzando per mezza Italia, rimandato sempre indietro con il foglio di via. Alla fine me lo sarei ritrovato a capo di un’orchestrina che girava per le feste in paese e fuori e suonò al ballo con ricevimento per le mie nozze. La presenza di Martino fu talmente penetrante che per me sorella e fratello sono indissociabili. Jolanda la Sfinge, come Sighilde la Circe, resterà poi sulle scale prospicienti la stanza dove abitava in via Ospedale ad aspettare , esibendo la sua combattuta, ma non mollata verginità, un marito che verrà da fuori perché in paese non si trovò nessuno disposto a conquistare quelle ormai mature, ma sempre combattive grazie. Sighilde e Jolanda tra le mie compagne di classe erano le cittadine, altre invece erano le contadine o paesane, portando ancora lu maccaturu annodato sotto il mento, mentre il medio e il basso erano un po’ goffamente coperti dalle calze di grossa lana e dalla gonnella con il vantesinu come le popolane e le contadine, mentre Sighilde e Jolanda giravano con vestitini fatti su misura, scarpe di lacca e calzettini bianchi di cotone. A mezza strada erano le figlie di Giuseppe Sarni, esattore comunale, dette Di Papio, amiche più di mia sorella che mie, anche se una di esse un po’ più graziosa e propensa a giocare con me poteva passare nei giochi infantili per mia fidanzata o moglie. Tra i compagni c’era Salvatore Strazza, con cui ero in competizione a scuola perché bravo quanto me. Ma, essendo figlio di un impiegato 103


postale, vestendo meglio di me e disponendo di qualche soldo e giocattolo di più, aveva un’aria di quasi signorino. Con la sua superbia mi arrovellava, non m’imponeva, quindi ci si frequentava anche se l’astio che covava in me scoppiava in forme più o meno aggressive e la lotta fisica era l’occasione buona per regolare i conti, né era detto che io vincessi sempre o facilmente. Amatuccio Maccia mi fu compagno di banco per un paio di anni, ma per qualche tempo ebbi al mio fianco una « paesana », forse perché non trovava posto fra le ragazze in numero dispari. Fatto sta che, mentre con Amatuccio i rapporti fuori della scuola furono continui e intensi quanto quelli con gli altri quattro o cinque brigantelli da me frequentati, con la ragazza, che abitava sulla carrozzabile un po’ prima del giardino Del Buono, essi furono sporadici e freddini. Ciò da parte mia, da parte sua, invece, la vicinanza di sedile sul banco aveva acceso un desiderio di me che aveva dell’amore, del quale io indifferente non mi accorsi e per ciò stesso rinfocolai in lei i suoi affetti. Anni dopo, quando rividi Amatuccio e la ragazza, potei notare che ambedue e per motivi diversi avevano coltivato il ricordo di me assente, seguendo le mie vicende secondo le voci che su di me circolavano in paese. Da freddezza nel passato a desiderio nel presente e cambiando le parti, andavo ora scrivendo :

ma entro vigore di matura carne, la cui pienezza in più segrete parti potrei così dedurre e delle grandi labbra ambedue i rigonfi che incorniciano di sanguigno violetto i mille fremiti della beante rosa che mi appella a confortarla confortato. Ancora non posso dirla – e neppure lo voglioappassiulata l’appassuliatella. » « Quanti giri di frase e che rigiri di fantasia ! Dormito questa notte ho poco ed il rossetto in tutta fretta ho dato male e il collo ha preso freddo. » « Sarà, però gli eccessi mi nascondi, di tanta veglia e fretta causa e effetto ». « Ma appassiulata, nòtalo, è un ribobolo letterario, male in arnese amante ! « « Pensi ancora a Sighilde ? « , chiese mio padre, vedendomi tutto inteso a limare quei riboboli. « Sì e no. Io l’ho perduta di vista a undici anni e l’ho rivista che aveva la trentina. Tu, invece, che l’hai avuta sotto gli occhi, anche se te ne disinteressavi, negli anni migliori della fioritura della sua bellezza a sedici, diciotto, venti, ventiquattro, ventotto anni, non me ne parli. E poi quello che sto scrivendo è per un’altra donna, di bellezza meno invadente e straripante, che mi sollecita, però dall’imterno, mentre Sighilde l’ha fatto sempre dall’esterno. Il suo lato circesco, poi, è entrato in azione dopo gli anni dell’infanzia, né io a quell’epoca avevo un metro per misurarne con esattezza la capacità di esplosione, anche se la presentivo confusamente. » « Però, da quanto scrivi sembra che un filo corra, certo molto tenue, ma resistente fra la Circe e quest’altra tua donna ».

« A suscitar l’incendio basterebbe che tu la palpebra inferiore avessi un po’ più gonfia dell’altra ed il labbro inferiore estroverso di più, certo non per mollezza incipiente di membra, ma per interna forza di esternarmi gli ardori tuoi. Apprezzerei finanche di grasso un cuscinetto in cima al collo, fuor di rigore estetico, lo ammetto, 104


Ero tentato d’intavolare un discorso, o piuttosto un monologo, sulla stretta connessione fra il potere d’imbestiare od indiare che hanno le donne, ma più che un dubbio mi assalì sulla correttezza di queste riflessioni, sentendo già l’altra parte ripagarmi con la stessa moneta sul potere che hanno gli uomini d’imbestiare od indiare le donne. Alla fine lasciai ad Amore questo duplice potere, onde chi s’imbarca in sua compagnia dovrebbe pur sapere, donna o uomo, a quali tempeste o incantamenti va incontro. Con qualche acrobazia da saltimbanco, presunto esperto in questa materia, pensai poi di esser riuscito a liberarmi con la scrittura di quella donna e di poter quindi tornare alla Circe per vendicarmi con soddisfazione postuma delle sue sgarbatezze durante l’infanzia , punite in seguito dallo sviluppo di quel fiore in mala pianta. Una preoccupazione non solo di natura letteraria mi spinse a voler spiegare a mio padre perché molto spesso nelle poesie ricorrevo al dialogo. Alcune di quelle domande e risposte erano realmente accadute, altre invece facevano parte di un soliloquio in cui l’amante chiede e risponde, servendo questo ad illuminare il rapporto, ma anche ad approfondirlo, quando, cambiandosi in dialogo, fa sì che la persona assente o nolente sia proprio lì a domandare e rispondere. La valenza catartica della scrittura non consiste nell’abolire e cancellare , fosse pure il ricordo, ma nel suscitare e risuscitare il rapporto amante-amata in vita e dopo morte, se uno dei sogni ricorrenti dell’amore è quello di vedere gli amanti sulla tomba delle amate e viceversa, continuando il dialogo dentro ed oltre la morte. Potei quindi rivedere poco sotto la quarantina Sighilde e posso, ora forse ch’è morta ed io sono oltre l’ottantina, vederla in quella sua fase circesca. Aveva la palpebra inferiore un po’ gonfia come per troppo o poco sonno, aveva il labbro inferiore più tumido del pur tumido labbro superiore, aveva un pannicolo di grasso sul lungo e possente collo. Quanto alle parti segrete, se pur non si vedevano, si indovinavano da

quanto affiorava della protuberanza del pube nel gioco alterno delle cosce quando maestosa scendeva dalla Teglia verso piazza san Rocco e contribuivano a confermarlo le voci che correvano sui suoi trascorsi sessuali. La Circe, oltre il metro e ottanta, era fuori norma rispetto alle donne del paese, con due poppebombarde appena trattenute dal reggiseno e che volevano far scoppiare ad ogni momento la camicetta ; con un bacino da Afrodite Pandemia e natiche voluminose come macine che ballavano e stritolavano, ma per sodezza non dilagavano verso il basso ; con due cosce possenti che facevano da antemurali imponenti a quel porto di ogni brama ; con gambe iperlunghe da Venere quasi nordica, ma dritte e piene come colonne che combaciavano ai tre punti canonici dei malleoli, dei ginocchi e ai rigonfi delle cosce poco sotto l’inguine ; con grandi occhi azzurri da Boopis, svegli, ma leggermente umidi e velati come di assonnata ; con braccia piene e tornite che, scendendo dalle larghe spalle, facevano intravedere sollevandosi la sudaticcia e afrorosa pelurie delle ascelle, atte a completare le altre cavità in varianti di sesso sfrenato ; con quella chioma di un biondo caldo, tizianesca, se non per colorito, per abbondanza, vessillo di bucintoro a festa o di galera capitanea in battaglia ; con una emanazione di possibile maternità in giacenza, che sembrava voler contrastare la strafottenza dell’infanzia e della giovinezza. Non che chiedesse comprensione per quanto ora faceva, ammetteva però e voleva una certa partecipazione. Capace con un batter delle lunghe ciglia e uno scatto sui mezzi tacchi di avere ai suoi piedi non uno o due amanti, ma un’intera arena, Sighilde aveva qualcosa del monstrum nel senso sacro della parola, incarnazione nelle prosperose forme esterne di una potenza originaria e tellurica della femmina, della Grande Femmina, che fosse poi o non fosse anche Madre. Tutto questo andava oltre gli astiosi commenti paesani, che partissero dal seno della sua famiglia attraverso la cugina, altra bellezza con destino in parte analogo a quello di Sighilde, benché 105


sposata, e che nel suo risentimento verso quella libertina dai proibiti amori sbottava : « Ne ho lavate di lenzuola macchiate di sangue di quella sporcacciona ! «, o dalle spiate notturne dei maschi che dal caffè di Ubaldo controllavano i segnali luminosi , che accendendo e smorzando le luci in camera da letto Sighilde verso le undici dava al suo invidiatissimo amante, sposato e con figli, che passeggiava nervoso avanti e indietro nei dintorni e che a quel segnale a grandi gambate inforcava gli scalini del vicoletto dov’era la porta di casa dell’amante. I più ficcanaso o rivali in desiderio aspettavano fin oltre la mezzanotte per vedere uscire lesto e un po’ abbacchiato, per le focose prestazioni di cui aveva dovuto far prova per soddisfare almeno in parte la Circe, il fortunato amante , il cui aspetto esteriore piuttosto anonimo nulla faceva trapelare delle particolari doti amatorie che pur doveva avere e che fra tanti l’avevano fatto preferire dall’esigente Sighilde. Nell’accoppiata di Venere e Giunone e nella fusione delle grazie della prima con la maestà della seconda Sighilde, emigrata poi negli Stati Uniti e per me quindi perduta per sempre, continua a sollecitarmi la fantasia in un sogno di barocche trasformazioni e fusioni che nulla hanno di reale e appunto perciò sono più coinvolgenti. Del resto più di una volta un suo ammiratore, ch’era stato in Germania, l’aspettava al varco e, non contenendosi più, esclamava : « Sieg, Heil ! Sieg, Heil ! ( Vittoria, evviva ! Vittoria, evviva ! « . Lei, pur non capendo quelle teutoniche eruzioni, sicura dagli sguardi infocati dell’uomo che le parole fossero di ammirazione, continuava in sollucchero la sua marcia. L’ultima volta che la vidi la sua componente circesca era stata quasi assorbita da una donnesca gentilezza e praticità. Indaffarata ad aiutar le mie cugine a far la conserva di pomodori con le sue braccia poderose che giravano il mestolone nella massa rossa ( e, se si alzavano a scacciare una mosca, la pelurie delle ascelle era sudata,

ma non emetteva più i ferormoni che tanto stordivano gli amanti) sembrava meno Venere e più Giunone. Non aveva forse capito cosa ci fosse sotto quella nuova amicizia, come del resto non l’avevano capito le mie cugine. Un don Giovanni- nomen est omen- era dietro la discesa della Dea in piazza san Rocco. Costui, tanto per variare gli amori con la cugina di Sighilde, bella ma già un po’ sfiorita e madre di un figlio adulterino di cui si mormorava che il padre fosse appunto il don Giovanni, aveva allungato lo sguardo verso l’illecebre ragazza e cercava di circuirla, stabilendo un primo contatto ravvicinato per cugine interposte. Non credo che il maturo signorotto fosse all’altezza della nuova sperata preda, né che questa fosse disposta a farsi corrompere dalle profferte del nuovo aspirante, tanto più che, al contrario della cugina, non aveva bisogno dell’aiuto economico dello spasimante. Finita la guerra e riallacciati i contatti con i parenti americani, a lei, madre e sorella arrivavano bastanti aiuti in viveri, vestiti e denaro per non prostituirsi. Zio Giovanni restò con quella godurie a portata di mano senza potersene impossessare. Dovette quindi contentarsi delle solenni proclamazioni di onestà che a gran voce si autoconcedeva, chiamando a testimone il « Sommo Iddio ». Passati vari decenni, rividi altri compagni di classe, Gerardino Marra e Amatuccio Maccia, per esempio. Il povero caruso cacagliante era nel frattempo diventato qualcuno ed in paese lo si sapeva. Gli incontri furono quindi improntati ancora a familiarità, però con buona dose di rispetto : se per essi ero ancora Daniele, e non come per altri don Daniele, restavano le cambiate posizioni sullo scacchiere sociale. Ciò era più evidente nel caso di Gerardino, ragazzone appena contenuto nel grembiule nero e che temevo più per i suoi scappellotti che per il fatto di essere figlio di Peppe Marra, commerciante e cantiniere che sapeva fare i suoi conti. Aveva tentato di studiar medicina, mentre il fratello Mario tentava con ingegneria. Si erano 106


trasferiti a Napoli e la madre Concetta Cardone non smetteva tornando in paese di pavoneggiarsi per quei figli dal brillante avvenire. Ma gli anni passavano, gli esami si evitavano o non si superavano e la gonfia Concetta cominciava a sgonfiarsi, cercando una causa o un colpevole per quella non rosea situazione. Alla fine trovò : « Le femmine mi hanno rovinato i figli ! ». L’ultima volta che l’incontrai, Gerardino era un attempato Gerardone che allargando le braccia esclamò « Eh ! Daniele ! Sempre avanti con la classe del ’25 « come se dovessimo partire in guerra da valorosi e imbattibili soldati. Il poveraccio, dopo essersi gongolato per anni a farsi chiamare dottore, viveva con la famiglia in un paese vicino facendo l’infermiere. Amatuccio, dopo una mia recita di poesie nell’edificio scolastico con discorsi laudativi e consegna di una onorificenza, venne a salutarmi « Eh ! Daniele ! » Era un bell’uomo, come era stato un bello e grande ragazzo, emigrato per vari anni negli Stati Uniti e poi, per nostalgia o perché gli affari non andavano a gonfie vele, tornato in paese, abitava poco lontano dalla quercia di Santantuonu in una bella villetta circondata da un fiorente vigneto. Non so quanto ambiziosi fossero stati i suoi sogni, ma mi parve sereno, modesto e contento di sé e della sua condizione come lo era stato da ragazzo. Nel tono di rispetto con cui mi parlava, se non traspariva tutta l’antica complicità di compagno di banco e di giochi, non c’erano amarezza o millanteria. Alla scuola eravamo arrivati dal paese e dalla vicina campagna ragazze e ragazzi, vari per carattere e per estrazione sociale. In cinque anni la scuola, senza cancellare del tutto ciò che in essa portavamo di diverso e perfino di contraddittorio, con la sua azione ci formò su una base di comuni valori ed esperienze. Ci conoscevamo tutti e ci frequentavamo quasi tutti prima di entrarvi, ne saremmo usciti, però, diversi, chi bravissimi, chi bravi o meno bravi, chi quasi asini. Questi vari livelli sarebbero poi stati

confermati, sviluppati, mortificati o quasi cancellati dalle scelte fatte, imposte, possibili, forzate o impossibili dopo la fine della scuola. Quasi tutti restarono in paese, accettando le varie sorti che il paese offriva o permetteva. Alcuni intelligenti divennero artigiani, commercianti o contadini, alcuni meno bravi non tentarono neanche di migliorare la loro sorte, pochi bravi o meno bravi tentarono di arrampicarsi su scalini troppo alti per le loro capacità fuori del paese, nel quale ricaddero da falliti o semifalliti, solo qualche intelligentissimo conobbe fuori e lontano dal paese altra e miglior sorte. Diverso il discorso per le ragazze. Salvo qualche rarissima eccezione, tutte erano destinate a restare sul posto, le più accettando le sorti di casalinga e qualcuna deviando su binari più scivolosi. L’intelligenza non vi ebbe nessuna parte perché, se era già uno sforzo oneroso per le famiglie tentare di far studiare i maschi, per le femmine ciò era escluso. Fu il caso di mia sorella, intelligente quanto e più di me, che dovette contentarsi di far la casalinga. La sua intelligenza vivace e il suo carattere combattivo e intraprendente le permisero, però, anche restando in paese, di avere notevoli successi, almeno sul piano economico, « mettendosi sotto mezzo paese » come diceva mia madre, un po’ orgogliosa, un po’ spaventata da quel continuo intraprendere con negozio, mulino, forno ed altre attività. La scuola ci aveva dato, dunque, un patrimonio comune di valori. A ciascuno poi di conservarlo, aumentarlo o dissiparlo. Componente essenziale di tale patrimonio era l’amor di patria, tasto difficile e dagli impensati sviluppi al tempo del fascismo. Fischia il sasso, il nome squilla del ragazzo di Portoria e l’intrepido balilla sta gigante nella storia.

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Finché si trattava di tirar sassi, per noi che li tiravamo dalla nascita, le cose andavano bene. Quando, però, si passò al fucile ’91, tira bene e non fa fumo, le cose si complicavano. Il percussore a punta e l’anello zigrinato potevano ancora sia pur verbalmente eccitare le nostre fantasie, vedevamo però male come potessimo averlo in dotazione e contro chi dovessimo sparare. Gli Austriaci, naturalmente e poi i Francesi e poi gli Inglesi. Ma contro i primi avevano già sparato i padri, lasciando sul terreno due morti di famiglia, il fratello di mio padre e quello di mia madre, i cui nomi figuravano sulle due grandi lapidi che decoravano la facciata del municipio, nè mi risultava che il valente bersagliere ciclista ch’era stato mio padre ne avesse in contraccambio stesi due della parte avversa. I Francesi divennero nostri nemici specie dopo le sanzioni decretate contro l’Italia all’epoca della guerra di Etiopia. Ma erano stati nostri nemici da sempre, ci avevano rubato Nizza e Savoia, la Corsica, la Tunisia eccetera e non si ricordavano più, gli ingrati, dei seimila morti di Bligny del contingente italiano volato al loro soccorso durante la guerra mondiale. Gli Inglesi poi cosa ci facevano a Malta, Cipro, Alessandria e Gibilterra, che con il canale di Suez era il catenaccio che c’impediva di entrare e uscire liberamente dal mare nostrum ? Spregevoli calcolatori e ladri si godevano il frutto delle loro ruberie con i cinque pasti al giorno che loro aveva attribuito il Duce. I Tedeschi , anch’essi nostri nemici da semprebastava ricordare le invasioni barbariche – erano scesi a dar man forte agli Austriaci e la ritirata di Caporetto era dovuta soltanto al loro soprannumero e migliore armamento, essi che disponevano di miniere di carbone e di ferro e potevano quindi permetterselo. Ma i nostri gloriosi fanti, pur con le povere risorse di un paese che non aveva materie prime, con il loro coraggio li avevano sconfitti e fatti risalire le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza : Il Piave mormorava Calmo e placido al passaggio Dei primi fanti il 24 maggio. Se Pietro Micca aveva fatto saltare la galleria per cui

dovevano scendere in Piemonte i Francesi, gloriosamente seppellendosi e seppellendoli sotto le macerie, già Pier Capponi aveva minacciato di far suonare a stormo le campane di Firenze se gl’invasori francesi facevan suonare le loro trombe. E non parliamo dei ceci dei Vespri Siciliani, allorché il popolo insorto dette la caccia ad ogni francese, identificandolo quando pronunziava sesì invece di ceci. Né bisognava dimenticare i Cimbri e i Teutoni, che perfino le oche del Campidoglio avevano combattuto dando l’allarme con il loro gracidìo, né Papirio Carbone, imperterrito sulla sedia curule, e che aveva bastonato il barbaro impertinente che aveva osato toccargli la barba per accertarsi che non fosse una statua. Agli Italiani, nonchè il resto, non si toccava neanche un pelo della barba ! Da questa sfilza di fatti si può capire che la storia era insegnata per exempla in un continuum che faceva risalire il nostro glorioso passato fino a Romolo e Remo. Eravamo o non eravamo i figli di Roma e l’elmo di Scipio non cingeva la testa d’Italia, che ormai si era desta dal secolare torpore sotto la guida del Duce ? La storia romana era quindi storia d’Italia. Se il comportamento di Romolo che uccise Remo, che aveva saltato un solco da lui tracciato, suscitava in noi qualche difficoltà di comprensione- noi che di linee e solchi ne saltavamo ogni giorno invadendo i terreni altrui per rubacchiare frutta ed altro-, Cesare che passava il Rubicone – un fiume come l’Ofanto ?- era simbolo del Duce che aveva organizzato la marcia su Roma : « Maestà, Vi porto l’Italia di Vittorio Veneto », aveva detto al re, dando inizio all’Era Fascista, come Cesare, passando quel fiume e combattendo Crasso e Pompeo, aveva fatto nascere l’impero romano. Per il nuovo impero, che con la guerra d’Etiopia il Duce aveva fondato, noi eravamo pronti a morire come Attilio Regolo. Quella botte chiodata, in cui il generale romano entrò andando imperterrito a morte quando i Cartaginesi la fecero rotolare per le strade della città, eccitava le nostre fantasie con le quali la facevamo rotolare dalla Teglia per la discesa ripidissima di via 108


Roma. Dove si sarebbe fermata sfasciandosi ? Davanti alla casa di mastro Giovanni o più avanti verso via Fontana ? Anche Muzio Scevola con la mano ferma sul braciere nemico ci eccitava, noi che eravamo costretti d’inverno a riscaldarci le mani sul braciere. Eravamo allevati in un nazionalismo ardente, ma retorico, in cui, più che la comprensione degli eventi con cause ed effetti, erano sottolineati il bel gesto ed il bel motto, come quello di Enrico Toti che prima di morire lanciò la sua gruccia contro il nemico austriaco o Vittorio Alfieri che si faceva legare dal servo alla sedia per studiare, quello del « Volli, sempre volli, fortissimamente volli. » Una spinta a capir meglio la storia poteva venirci dall’apologo di Menenio Agrippa con le membra che si rivoltano contro lo stomaco, causando il deperimento di tutto l’organismo, esse comprese. Come per la ribellione e le divisioni dei Romani, anche per quelle italiane qualche luce poteva venirci dal verso « Liberi non sarem se non siamo uni », però già l’infelicità letteraria dell’uni indicava la mancanza di una vera capacità di essere uniti, né l’incontro di Teano con quei due bei cavalli, uno bianco per Vittorio Emanuele e l’altro baio per Garibaldi, né l’Obbedisco di costui, ormai alle porte di Trento, all’ingiunzione di deporre le armi colmavano i vuoti nella comprensione della storia del Risorgimento, nella quale con la retorica del bel gesto e del bel motto erano in buona compagnia il lacrimoso sentimentalismo di « Va, pensiero, sull’ali dorate » e di « Eran trecento, erano giovani e forti e sono morti » della spigolatrice di Sapri. Più gli anni passavano, più il regime fascista snaturava il nostro in parte sano nazionalismo verso forme estreme e malsane e più i muri del paese erano imbrattati da sentenze memorabili del Duce : « E’ l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende », o « Credere, obbedire, combattere », con la capocchia del dittatore stretta nell’elmo guerriero, o « Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi ». E nessuno si sognava anche

lontanamente di far qualcosa contro quel mascellone prominente e quella fronte spaziosa e corrucciata. La storia era più fertile di exempla per noi ragazzi che per le ragazze, che dovevano contentarsi di Cornelia, madre dei Gracchi, con i suoi tesori di figli, o di Lucrezia che preferì la morte piuttosto che venir meno alla memoria del marito Collatino. Anche la storia sacra non le aiutava molto perché Giuditta e altre avevano reagito, ma dopo aver ceduto. Susanna non aveva ceduto, però si era lasciata spiare nuda al bagno. Ceduto cosa, spiato cosa ? Si doveva entrare nei dettagli del sesso ed il sesso, almeno a livello insegnamento, era tabù. Se la storia profana era insegnata per accumulazione di episodi, quella sacra lo era per sottrazione o falsificazione. La sottrazione non riguardava solo la bibbia nel suo insieme, ridotta a pochissimi episodi, ed anche per questi una parte era velata o sottratta. Cosa significava esattamente un padre putativo, come nel caso di San Giuseppe, e perché putativo ? Cosa implicassero, non dico l’Immacolata Concezione – che pur si festeggiava con un falò e aveva dato luogo a un largo diffondersi dei nomi Concetta, Concettina e Concettella-, ma la verginità di Maria, che pur aveva partorito – e si festeggiava Natale con la messa di mezzanotte ed il presepe nella Chiesa Madre- e l’Epifania- con la calza attaccata al letto, sperando vederla la mattina seguente piena di dolci e doni e non di carbonella- non lo spiegava l’arciprete, intento a celebrar messe, funerali, matrimoni, battesimi, cresime e prime comunioni, ma neanche donna Erminia, cui era affidato l’insegnamento del catechismo. Se la storia profana alimentava il patriottismo, quella sacra sottintendeva un generale conformismo. Tutti erano cattolici, come tutti mangiavano i maccheroni. Tornando al fascismo e al Duce che ormai dominavano a scuola e fuori di essa, dell’Uomo della Provvidenza, come l’aveva definito il papa Pio XI, imparavamo a memoria i detti memorabili ed i 109


discorsi : » Mangiate il pane, onorate il pane, sudore della fronte, ricchezza della mensa ». E fin qui si poteva esser d’accordo, ma perché poi « Sotto la neve pane, sotto la pioggia fame », uno di quegli oracoli che ci lasciavano interdetti, noi che sotto la neve vedevamo il grano spuntare verde e tenero nei solchi sotto la pioggia ? Quando poi spuntarono sui muri le targhette di metallo smaltato con « La persona civile non sputa in terra e non bestemmia », anche se i maestri si affaticarono a spiegarci che con gli sputi si diffondevano microbi e malattie, non capivamo che altri microbi e malattie si diffondessero con le bestemmie. Tutti in paese bestemmiavano o dicevano parolacce, solo Carminuccio lu Visiu, mancato letterato, era riuscito a trasformare il volgare Cazzo o Càspita in un nobile Càpperi. Di targhetta in targhetta, un bel giorno le autorità comunali ne fecero mettere con il fascio e il numero civile dell’abitazione su ogni porta, anche quando la casa ne aveva due, obbligatorie pure per depositi e stalle, forse per aiutare polli e maiali a trovare il loro domicilio. Inutile dire che per ogni targhetta bisognava pagare una tassa al comune : ciò spiegava le sassate con cui noi volentieri salutammo quell’innovazione, deturpando i bei e bombati rettangoli. Del regime si decantavano e ammiravano i lati positivi, il prosciugamento delle Paludi Pontine, la battaglia del grano, la campagna per la madre e il fanciullo. E, se al prosciugamento aveva partecipato perfino un morrese, che poi avrebbe sposato Assuntina, la serva dei Gargani, la battaglia del grano noi non la combattemmo e della campagna per la madre ed il fanciullo profittò solo qualche povero diavolo come il colono di zio Luigi, incoraggiato da quella beneficenza ad inguaiarsi facendo ancora più figli. Dopo tanta indiretta venerazione, nel 1935 il paese ebbe addirittura l’onore di una visita del Duce, alla fine delle grandi manovre dell’esercito in Irpinia che precedettero la guerra in Etiopia. Non so a chi fosse da attribuire tale onore, essendo il paese rimasto fuori dal

quadro vero e proprio di quelle esercitazioni militari. C’era stato un cannoneggiamento dell’artiglieria nella valle dell’Ofanto con i proiettili che fischiando ci passavano sul capo a Selvapiana per andare a schiantarsi tra i sassi del greto del torrente Sarda. Ma ciò era avvenuto già altre volte. Forse l’incursione del Duce in paese fu dovuta al maestro Sarni, promosso proprio allora da centurione a seniore della milizia fascista. Restammo allineati in piazza , vestiti da balilla o piccole italiane. C’era qualche gruppetto di avanguardisti e uno scarso drappello di giovani fascisti e militi. Don Ettore, che comandava il piccolo esercito, era accompagnato da don Vincenzino e dal maestro De Gregorio, costui centurione , da poco arrivato in paese , e l’altro in orbace nero con giubbotto, pantaloni alla zuava e gambali. Ma le gambe quasi inesistenti del nanerottolo mal reggevano il poveretto che marciando squilibrato rischiava di cadere ad ogni passo. Il fez nero con frangia che gli scendeva su una guancia rendeva ancor più ridicolo l’improvvisato guerriero. Dal Duce in giù tutti si fregiavano di quel copricapo arabizzante. Noi balilla avevamo una specie di cappuccio con bombon alla punta di un filo lungo che lo faceva ricadere sulle spalle, coperte sulla camicia nera dal fazzoletto tricolore, legato davanti con un nodo sotto al collo. Don Ettore, seniore ritto e rigido come un palo, dava gli ordini per la parata, il maestro De Gregorio, magro e nobilesco centurione, marciava avanti e indietro, il povero don Vincenzino accennava qualche passo di gloria incerto come uno sgraziato che osi entrare in ballo per la prima volta, io caposquadra dei balilla magrolino e macilento scimmiottavo i due primi davanti alla squadra che segnava il passo o riprendeva la marcia con le teste di fronte o di lato e i nasi per aria, e altrettanto tentavano di fare, ma con qualche grazia, le piccole italiane agli ordini di Sighilde. Mezzogiorno era passato, stavamo lì da oltre due ore , cercando di reprimere i morsi dell’appetito con qualche canto guerriero e il Duce si faceva 110


aspettare. Dov’era ? Le staffette in moto od in auto scoperte andavano e venivano sulla carrozzabile da e verso il Purgatorio. In seguito si seppe che il Gran Condottiero si era fermato con lo stato maggiore e gli addetti militari stranieri sotto i castagni del Principe allo Ncasciu per una colazione al sacco, al termine della quale lanciò contro un tronco l’abbondante liquido ingozzato militarmente da una borraccia e che gli bolliva in corpo. La pisciata del Duce scandalizzò gli addetti militari, abituati alle sue colorite esternazioni verbali, ma che mai si sarebbero immaginato potessero coinvolgere anche il glorioso e maschio membro. Imbarazzati finsero quindi di guardare altrove. Solo quello inglese, dopo un momento di esitazione, avendo capito a cosa si accingesse lo sbrachettante, gli si accostò e pisciò, con humour britannico, un po’ meno abbondantemente, però con getto bene arcobalenante. Misurò il Duce il suo con il getto del rivale o fece finta di niente, gongolando però per aver dato romanamente ancora una volta l’esempio a quel barbaro ? Sollevato da quella scarica littoria sotto il fresco dei castagni, il Duce prese il comando della trentina di alti ufficiali e verso le due arrivò in piazza, dove noi lo accogliemmo rigidi con il saluto fascista, urlando a squarciagola Duce, Duce. La sua macchina, arrivata all’inizio della discesa davanti al palazzo Molinari, fece manovra sulla piazzetta antistante e tornò indietro. Così vidi quell’Angelo sterminatore e Benefattore dell’Italia due volte, o meglio, fosse il nervosismo di quell’istante unico o la debolezza della lunga attesa, lo intravidi soltanto, completando l’immagine della marionetta guerriera, che rispondeva al nostro vociare con un breve saluto fascista, con il ritratto che tante descrizioni e immagini sintetiche su tutti i muri avevano inchiodato nella mia memoria. Poche settimane dopo quell’apparizione , agli inizi di ottobre, in una giornata fredda e piovosa ero di nuovo in divisa davanti al circolo di cultura De Sanctis per ascoltare dalla radio, regalata dall’italoamericano Cardone, la voce stentorea del Duce che

annunziava agli Italiani al di qua dei monti e al di là dei mari di aver pazientato troppo per le provocazioni del Negus e dava quindi ordine al glorioso esercito sotto il comando del generale squadrista Del Bono d’invadere l’Etiopia. La guerra, di cui seguimmo giorno per giorno dai giornali gli sviluppi fino alla vittoria e alla proclamazione dell’Impero, che dopo duemila anni tornava finalmente sui colli fatali di Roma, fu l’inizio della fine del regime, rivelatosi guerrafondaio e che passando di avventura in avventura, specie dopo il patto di acciaio con la Germania nazista, avrebbe portato alla rovina l’Italia. Ci accorgemmo di tutto questo ? No. Il nazionalismo era penetrato fino alle nostre midolla e, accettandolo entusiasti senza discussione, eravamo incapaci di distinguere il sano dall’insano, l’aggressione sistematica degli altri dalla legittima difesa degli interessi della nazione, l’oppressione di qualsiasi forma di libertà di espressione all’interno dal ragionevole controllo di forme sobillatrici od eccessive di protesta. Il nazionalismo esasperato nulla aveva a che fare con il culto del sentimento nazionale. Era ormai il cancro di affetti degenerati che rodeva l’organismo e non solo in Italia, ma in tutta l’Europa. Se noi eravamo ridicoli, imbacuccati a scimmiottare gli eroi del passato da figli della lupa o balilla, altrettanto lo erano i Francesi, che costringevano i neri delle colonie a studiare sui libri di storia le gesta dei loro antenati Galli o i Tedeschi, figli di Arminio in agguato nella selva di Teutoburgo, o gli Inglesi, sparsi per mezzo mondo a succhiare le risorse dei vari paesi e che si permettevano di menar vita da nababbi serviti da un nugolo di servitori, predicando nel frattempo il rispetto dell’indipendenza e l’inviolabilità dei confini del paese del Negus, essi che i confini di decine e decine di stati non avevano rispettato. Che l’egoismo di chi era arrivato prima al pasto delle belve fosse corresponsabile dell’aggressività di quelli che in ritardo a quel pasto volevano partecipare lo si sarebbe capito tardi e solo in parte. Né è detto che il riposizionamento dei vari stati 111


sullo scacchiere mondiale e la fine del colonialismo nella forma ottocentesca abbiano ancora oggi nel terzo millennio sradicato del tutto la mala pianta del nazionalismo dal cuore di chi fatica a rinunziare a velleità di primogenitura e a pretese di guida degli altri Dei minori in un mondo egualitario e solidale. Torniamo all’infanzia e a don Ettore, figura preminente di maestro, ma anche personaggio dal doppio aspetto, pure dopo la guerra, in cui pagò di persona lo scotto della sua incondizionata adesione al fascismo. Fra le pur belle ragazze del paese la ormai signorina Ada Sarni aveva quasi la palma. Data la differenza di età, io non potevo che ammirarla quando passava rosea e tornita, con grandi occhioni azzurri, per la viuzza che da via Roma portava a casa del maestro. Lei, più che camminare, danzava allegra come meravigliandosi dell’ammirazione che notava negli sguardi di chi la seguiva voltandosi dopo averla incrociata. La vedevo di rado perché già studentessa abitava, credo a Sant’Angelo, da parenti della madre e tornava a casa solo per le vacanze. Seppi dopo che, scoppiata la guerra, lei incontrò un albanese, che al momento dell’occupazione dell’Albania da parte dell’Italia era avvedutamente passato fra i sostenitori del nuovo regime. Così senza troppo riflettere Ada passò a nozze con costui e si trasferì in Albania. Con la successiva sconfitta dell’Italia e il prevedibile passaggio dell’Albania ad altro regime il già fascista si affrettò a cancellare inopportuni ricordi del passato, ripudiando la moglie, che intanto aveva avuto da lui due figli. La poveretta fu trovata da mio cognato scalza d’inverno in una specie di stamberga e fece appena in tempo a scappare con i figli in Italia prima che si chiudessero le frontiere. Don Ettore dovette accollarsi il mantenimento di nipoti e figlia, che rividi in paese donna provata, matura e pur sempre bella. Data la sua bellezza, non le fu difficile trovare un lavoro a Roma presso un’ambasciata e, la carne giovane essendo carne, accettò di esser la compagna di un

funzionario dell’ambasciata, lasciando però i figli presso il nonno. La cosa si seppe in paese e quel più che naturale e prevedibile arrangiamento della giovane donna non le evitò di esser considerata una poco di buono, in parole povere una concubina, tradotta in morrese con puttana. I guai per don Ettore e famiglia non finirono quì. Più tardi da fonte affidabilissima seppi che, quando il figlio Aldo, che non riusciva a combinar niente all’università, volle candidarsi per un corso ufficiali a Modena, dal municipio di Morra, allora in mano a comunisti e compari , benché don Ettore lui stesso avesse voltato gabbana , sostenendo lui già fascista, e che fascista !, i nuovi padroni, partirono informazioni in base alle quali la candidatura fu respinta perché proveniente da un aspirante di famiglia disonesta., la disonestà essendo naturalmente la condotta della povera Ada. Forse è giunto il momento di spiegare un po’ queste cose. Il voltafaccia di don Ettore e il suo appoggio sicuro ed efficace , anche se indiretto, ai comunisti fu da molti considerato un tradimento, non tanto di persone, quanto di casta. Lui maestro faceva pur sempre parte della casta dei signori, dai quali era stato sempre appoggiato al tempo del fascismo con dichiarazioni dirette e indirette per intima convinzione e perché era uno dei loro.. Quasi tutti i signori erano politicamente agnostici, ma, badando ai loro interessi, servivano chi aveva il potere. Vederlo ora passare dalla parte dei cafoni era condannabile al cento per cento, anche se di quel passaggio davano una interpretazione furbesca : l’aveva fatto per calcolo e per vendetta. Ma vendetta di che ? Dopo la caduta del fascismo, dovuta fra l’altro anche a quella agnostica passività, don Ettore voleva dare una lezione a quei parassiti, memore anche di un certo lato populista del fascismo, forse di lontana origine socialista. Caduta l’amministrazione comunale in mano ai cafoni, la politica locale si ridusse a una lotta senza quartiere fra chi era o si 112


considerava cafone e fra chi era o si considerava signore. Mia sorella chiamava uno dei nuovi sindaci lu cafonu de Selvachiana, che dal canto suo non andava per il sottile nel metterla nella categoria degli sfruttatori. L’apparente tessuto unitario mantenuto dal nazionalismo e dal fascismo si lacerò, l’idea stessa di nazione fu messa in discussione , guardando chi a Mosca e chi a Washington. Le divisioni a livello locale e nazionale sarebbero state coperte per mezzo secolo dal velo democristiano e, sparito anche questo, tutto sarebbe peggiorato in un paese incanaglito, con un terzo in mano alla malavita organizzata e un altro terzo che chiede la separazione. Resta un moncone al centronord, però con l’arrivo sulla scena d’imbroglioni e di affaristi il paese senza più ideali è un cadavere in decomposizione che aspetta il miracolo di un Veltro che lo faccia risuscitare e che si spera non sia un altro Uomo della Provvidenza, ma un uomo forte che metta fine a questo bailamme. Il discorso sembra reazionario, ma non lo è perché è nutrito solo degli ideali risorgimentali che mi furono inculcati a scuola, anche se con esagerata distorsione. Se fra i maestri don Ettore occupa il primo posto, fra le maestre la figura più cara è quella di donna Anita Gargani. Da lei frequentai la prima elementare e forse l’inizio della seconda, quando la poveretta morì e dovetti passare sotto la ferula della sorella, donna Erminia, per il resto dell’anno. Le Gargani e la loro scuola erano a venti passi da casa, ci conoscevano da quando eravamo nati ed erano al corrente delle vicende della nostra famiglia. Religione e politica a parte, l’insegnamento è stato per generazioni la loro vocazione. Non so se donna Anita fosse presa, come le sorelle Erminia e Maria, nei giri della vocazione religiosa, né se avesse a che fare come costoro con padre Pio e padre De Feo. E’ più probabile che intendesse dedicarsi all’insegnamento e basta, senza fondare una famiglia come l’altra sorella Antonietta a San Marco La Catola, devolvendo il suo stipendio al mantenimento della famiglia del fratello Francesco.

Di lei mi resta il ricordo preciso delle monetine di rame che mi regalava quando ero particolarmente bravo : erano centesimi non più in circolazione che io gelosamente conservavo anche se non potevo farmene niente perché non più validi. Quel guiderdone mi era caro perché testimoniava da parte sua un particolare affetto per me. Non so a cosa fosse dovuto, essendo io un discolo poco raccomandabile, ma forse era proprio questo il motivo, volendo lei compensare gli squilibri psicologici di cui il discoleggiare era solo la manifestazione esterna. Quell’accentuata affettuosità mi viene a galla come una nuvola calda che piacevolmente mi avvolge senza che in essa possa ora distinguere altri particolari. Se il flusso dell’affettuosità, accentuato anche dalla improvvisa interruzione per la morte, è quanto scorre ancora di lei nei miei ricordi- e mi chiedo se non fosse per riflesso anche un bisogno di lei, giovane donna condannata a restar senza figli-, una corrente altrettanto calda e più misteriosa , quella della fabulazione, scorre al ricordo dell’altra maestra, donna Irene Donatelli. Costei, morta più che centenaria, non fu mia maestra vera e propria perché non ne frequentai i corsi. Ne frequentai, invece, la casa con un piccolo drappello di ragazzi e ragazze nel doposcuola e durante le vacanze. Nella sua casa, ch’era anche quella del fratello sacerdote don Remigio, c’era e c’è tuttora una grande cucina, dove accanto al focolare , acceso o spento secondo le stagioni, donna Irene raccontava storie meravigliose di dame e cavalieri, principi azzurri e principesse, cenerentole e maghe dai cento filtri ed incantesimi, mostri umani od animaleschi, viaggi per aria su cavalli alati o sottoterra per buie caverne e gallerie senza sbocco, favolosi tesori ammucchiati da briganti e scoperti da avventurosi cercatori. Le storie cominciavano con un intrigo, si complicavano strada facendo e, quando sembrava tutto perduto o la fine imminente, arrivava

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sempre un deus ex machina, che non solo rimetteva le cose a posto, ma dava alle povere vittime un lieto fine con ricchezze insperate e regali matrimoni. Come se le storie non bastassero, donna Irene interveniva anche con giochi di prestigio. Il più frequente era quello di Pensa una carta, che la maestra avrebbe poi messa sotto al naso di chi l’aveva pensata, tirandola fuori dal mazzo dopo varie manovre, o quello di far uscire dal mazzo rimescolato l’uno dopo l’altro tutti i sette o tutti gli assi. Anche al gioco della Catena de lu sòriciu, duellando con una bambina o un bambino, formava sempre nuove figure e alla fine, riprendendo, riusciva a scioglierla, presentando ai bambini stupiti il filo liscio e libero. Ai più grandicelli svelava poi in separata sede il segreto di quei trucchi, invitandoli a fare altrettanto, rivelando così anche nel divertimento le sue doti pedagogiche. Chiesi a mio padre se fosse stato fascista. « Praticamente no « , rispose. « Che vuoi dire ? « « Se per fascista intendi uno che s’iscrive al partito e partecipa fervidamente alle sue attività, non lo sono mai stato. Non lo sono stato neanche passivamente nel senso di lasciar fare, per esempio, a don Ettore che metteva in camicia nera tutti quelli che poteva e che non riuscivano a sfuggire direttamente o indirettamente alle sue sollecitazioni. Io non fui sollecitato, fui anzi subito scartato per i motivi che conosci, non potendo così come ero ridotto partecipare a manifestazioni di qualsiasi genere. Fui, però, fascista in senso lato perché lasciai fare gli zeloti del partito. Ma non vedo come avrei potuto oppormi alle loro mene. Questo fu inoltre l’atteggiamento della maggior parte della popolazione, che oltre tutto non capiva un gran che di politica, né dove saremmo andati a finire. Se non fui fascista, fui però nazionalista. Tutti quelli che avevano partecipato alla guerra e con entusiasmo, quando tornarono dal

potevamo capire eravamo tutti patrioti. Avendo liberato Trieste e Trento, volevamo che la patria riunificata fosse grande. In paese non vedevamo chi volesse o potesse opporsi a ciò. All’estero, oltre agli slogan che ci avevano messo in testa già sui banchi della scuola e dopo, specialmente durante la guerra, consideravamo nemici i Tedeschi e gli Austriaci- ma questi li avevamo sconfitti-, degli altri non sapevamo gran che , pur provando rispetto per Francia e Inghilterra, nostri alleati. Per gli Stati Uniti, alleati anche essi, al massimo mi permettevo qualche battuta di risentimento, non verso gli americani, ma verso i compaesani che tornando facevano bella mostra di sé da nuovi ricchi : « Lu vide ch’ha fattu l’America ? Lu cafonu cu la sciammerica ! ». Per la grandezza della patria noi in famiglia avevamo pagato il prezzo forte : a parte i miei quattro anni passati al fronte combattendo in prima linea, c’era stato mio fratello Celestino, ferito il 4 ottobre ad Opacchiasella da un proiettile al piede sinistro, mandato poi a morire in un ospedale militare in Macedonia, Albania, il 19 settembre 1918 e c’era stato il fratello di tua madre, Vincenzo Zuccardi, venuto entusiasticamente dagli Stati Uniti per arruolarsi fra i bersaglieri e caduto in combattimento sul San Michele il 2 dicembre 1915. » Tacque amareggiato e tacqui un po’ vergognoso per avergli quasi rimproverato un aspetto del suo passato che poteva sembrare politico. Ciò non mise fine, però, alla mia voglia di capire, non tanto il nazionalismo mio e della famiglia, quanto cosa successe in paese alla fine della guerra e come si passò gradatamente e senza rendersene veramente conto dal nazionalismo al fascismo. Se la sua figura di assente più che di spettatore non può essere sottoposta al vaglio di una arcigna virtù, diverso è il giudizio sugli altri che potevano e dovevano capire, specie i notabili. Il loro nazionalismo aveva le stesse radici del nostro, anche se più articolato e diversamente espresso. La loro scuola era stata la nostra, sotto però

fronte, pensarono e sentirono che il fascismo fosse lo sbocco naturale e la ralizzazione del loro patriottismo. Per quel che 114


c’erano altri interessi, se non altri sentimenti. Durante la guerra e dopo si erano espressi più o meno come mio padre ed in seguito me. I Tedeschi e gli Austriaci erano « gente bruta e disumana. La razza teutonica maledetta da tutti, le tigri non potevano prevalere sull’antico sangue latino eccetera. » Sulla disfatta di Caporetto ebbero idee più precise di quelle che dopo ci furono insegnate a scuola, anche se la reazione contro « il barbaro invasore » fu la medesima. Per la vittoria sul Piave e la fine della guerra i festeggiamenti in paese furono straordinari, dovunque fu inalberato il tricolore « vessillo della patria, simbolo di pace, speranza e giustizia. » Il tempo, però, a metà novembre si permise il lusso di nevicare, mandando in fumo i preparativi della festa con banda di Frigento, fuochista di Torella, campane a distesa e giovanette che avevano imparato a memoria una canzonetta , composta da autore che volle restare incognito, e che non poté essere cantata per le strade del paese. Da questo nazionalismo, esasperato anche dalle magre ricompense del trattato di pace e dai malanni come la febbre spagnola, che mieté molte vittime specie fra le donne anche in paese, il fascismo spuntò come la pianta più naturale ed adatta a prosperare in brevissimo tempo. Di esso molti notabili furono fiancheggiatori silenziosi, attenti a salvare e accrescere i loro vantaggi senza molto preoccuparsi di dottrine e sistemi politici. Erano e intendevano restare dalla parte di chi comandava ed i rapporti familiari con qualche oppositore del regime, come il prefetto Sansone, non li spinsero oltre una certa riserva. Fu il caso della potente famiglia Molinari. Altri saltarono allegramente sul treno in corsa e così i sindaci divennero podestà. Fu il caso di Felice De Rogatis. Dal ceppo dei proprietari terrieri, come gli Zampaglione di Calitri, o da professionisti di successo, come il D’Urso di Lioni e il De Marsico di Sala Consilina, o il maestro Sarni di Morra vennero fuori i dichiarati rappresentanti del regime, abbandonando talvolta

precedenti posizioni antifasciste. Fra i nostri parenti i Grassi erano troppo insignificanti, compreso il commerciante Nunzio, perché se ne parli ; fra gli Zuccardi, zio Giovanni e zio Luigi, erano agnostici, solo il professore zio Angelino ebbe una parte diretta nel fascismo, partecipando da squadrista alla marcia su Roma. Ma la sua attività di professore si svolse fuori del paese ed i legami familiari, avendo sposato la figlia del prefetto Sansone, attutirono in parte i suoi entusiasmi, dovuti, più che a chiare idee poltiche, a risentimenti di reduce dalla guerra e di appartenenza alla cosca dei notabili. Lo stesso si può dire del fratello Emilio, tornato squattrinato dal Brasile con moglie e cagnolino poco prima dello scoppio della guerra e che si lasciò trascinare nelle lotte politiche del paese a cavallo fra la caduta del fascismo e la sommossa popolare del 1943 prima come podestà e poi come sindaco. I pochissimi gesti d’indifferenza non sboccarono mai in aperta resistenza. Quando nel 1923 fu sciolta la locale Società operaia , chi se ne occupava, cioè i Molinari, non fecero altro che donare all’amministrazione comunale la sua bandiera, che il sindaco, poi podestà, Felice De Rogatis , a sua volta donò alle scuole elementari, dove insegnava il più noto fascista, Ettore Sarni. L’insegnante Emilia Gargani, monaca più che monaca in veste secolare, che aprendo il portone della scuola la mattina pretendeva che i ragazzi la salutassero con Sia lodato Gesù Cristo, quando da disposizioni del regime fu obbligata a chiedere ai ragazzi il saluto fascista, salvò capra e cavoli : gli alunni entrando facevano il saluto fascista e poi, una volta dentro, dicevano Sia lodato Gesù Cristo, al che lei rispondeva E sempre sia lodato. Anche il suo fanatico attaccamento alla religione , per cui, se qualcuno era assente dal corso di religione che lei impartiva in chiesa o a scuola nella sua casa, rischiava di avere un insufficiente in religione sulla pagella scolastica, non le dettò di assumere aperto atteggiamento antifascista, così come il fratello Francesco, che avrà pure rifiutato di 115


far dipingere in bianco il suo palazzo come pretendeva il podestà dell’epoca, restando però al suo posto di segretario comunale ed avallando con particolare zelo e severità tutte le angherie che la popolazione dovette soffrire durante la guerra, motivo per cui fu coinvolto nell’insurrezione popolare del 1943 e dovette essere trasferito a Lioni, non potendo più esercitare le sue funzioni a Morra. Se la politica locale fu, come altrove, in piccolo la traduzione degli interessi economici delle varie caste e famiglie, in questo senso ci furono solo cambiamenti di facciata dai Borboni al regno d’Italia, dal brigantaggio postunitario al dominio dei notabili, dal liberalismo della destra storica a quello della sinistra, al fascismo e al postfascismo. Le cose sembrarono cambiare solo con la rivolta popolare del 1943 e conseguente amministrazione della sinistra e più ancora con la massiccia emigrazione in Svizzera degli anni ’50. I sistemi chiusi condizionano chi vi è dentro, solo chi ne esce può rompere quella sfera di acciaio e pensare ed agire diversamente. La stessa sfera poi resiste a piccole e medie pressioni interne ; solo quando l’atmosfera raggiunge un punto critico e deflagra, essa va in pezzi. Questo punto critico furono le angherie che fecero rasentare la fame negli anni di guerra, portandolo ad ignizione con le secolari vessazioni dei signori verso la povera gente. Questo lo capì anche mio padre che disse : « Tu parli diversamente da me, che accusi di essere stato assente, solo perché andasti in collegio, uscendo così da quella sfera.Se fossi rimasto in paese , così come eri balilla, saresti diventato avanguardista, giovane fascista e membro del partito e non so quando e come avresti cambiato idea alla fine o dopo la guerra. Tuo fratello Celestino si arruolò in Marina a sedici anni, principalmente, ma non solo, per sfuggire alla miseria e si fece allegramente sette anni di guerra e prigionia, tornando poi in paese come uno sbandato. » « Ma tu sei stato assente metà della tua vita. » « E tu non so se, restando in paese, non avresti fatto come

gli altri o chi sa per quale miracoloso cambiamento saresti stato fra i pochissimi che verso la fine della guerra si riunivano nella sagrestia della chiesa di San Rocco con l’arciprete Gallucci o con Vito Mariani per complottare contro il fascismo. Ma l’arciprete era stato in seminario e veniva da Calitri e Vito era stato negli Stati Uniti, dove aveva abbracciato l’ideologia anarchica. » Capii che quello che più amareggiava mio padre e me non erano le posizioni politiche reali o possibili che avevamo o potevamo prendere sotto il fascismo, quanto l’assenza di metà della sua vita tra i fumi dell’alcol e del tabacco. Avrei voluto affrontare subito tale argomento, ma sentii che non eravamo pronti né lui, né io. Per divagare presi dei fogli che avevo sul tavolo davanti a me, cominciando ad analizzarli. Vedendomi computare, mio padre chiese cosa fossero. « E’ un quaderno contabile della famiglia Molinari del 1928, in cui figuri anche tu come commerciante e zio Luigi. Lo zio vende mele selvatiche per fare marmellata e tu lampadine e gesso. La data è per me importante perché mi precisa che già allora avevi smesso di fare il calzolaio per darti al commercio. Una certa sensazione di quel tempo l’avevo già avuta quando il tuo discepolo Vincenzo Ricciardi, dopo decenni e decenni mi venne incontro esclamando : « Ma io ti ho portato in braccio ! « . La frase l’accettai lì per lì senza avere altri riferimenti della sua veridicità. Ma poi col passar del tempo e specie dopo la fine tragica di Vincenzo che ultraottantenne si è suicidato con un colpo di pistola, dopo aver prima tentato di fare altrettanto con la moglie Mafalda, quelle parole hanno risuscitato i ricordi e mi vedo infante-uno o due anni- portato in braccio da Vincenzo che cerca di non farmi piangere, cullandomi e girando attorno al deschetto di calzolaio, dove c’è un’ombra di personaggio seduto che forse sei tu. Per calmarmi mi avrà già a quell’età minacciato di far venire il pupenalu, cioè il lupo mannaro, che mi avrebbe sbranato, o la janara, cioè la strega, che di notte entrava nelle case e storpiava i 116


bambini piccoli, però, se la sera si metteva una scopa dietro la porta, la strega doveva prima di entrare contare tutti i fili della scopa e se sbagliava doveva cominciare da capo, o lo scazzecamaurieddu, il folletto che entrava di notte nelle case e si metteva sulla pancia di chi dormiva cercando di soffocarlo, però, se quando entrava si diceva Scazzecamaurieddu, caca denari , allora non poteva più uscir di casa fino a quando non avesse cacato un mucchio di soldi ? Non so. Ma questi mostri minacciosi e i morti che girano attorno comparendo qua e là popolarono la mia fantasia atterrita per tutta l’infanzia. Ritornando al quaderno Molinari, vedo che il tuo nome figura più volte con tanto di date e cifre degli acquisti nel tuo negozio. Avevi, dunque, smesso di fare il calzolaio ed eri diventato commerciante. A che fu dovuto quel cambiamento ? Al desiderio di guadagnar di più lavorando di meno ( e fu questo l’inizio della fine, non trovando nel nuovo mestiere alcun appiglio che frenasse la tua caduta nell’alcool e nel fumo ) o questa caduta era cominciata già prima e l’apertura di un negozio fu un tentativo da parte della famiglia di fermarti su quella china ? « Costatando che mio padre non era disposto a rispondere a tale domanda, continuai ad esaminare il quaderno, che a posteriori mi permetteva di capir meglio quale fosse la situazione socioeconomica del paese in quegli anni. Dal loro palazzo che era senz’altro il più bello e panoramico e poteva gareggiare con il castello, essendo questo semitrascurato e solo dimora occasionale del principe e quello curato e dimora stabile dei notabili, i Molinari in due generazioni erano riusciti ad imporsi sul paese. Avevano giardino pensile, cisterna e cesso. Dalle loro masserie ricavavano grano e vino, quello venduto a 128 lire al quintale e questo a 153. Avevano bestie in campagna, pecore , agnelli, bovini e perfino un toro per la monta. Pur avendo uliveti, dovevano comprare olio supplementare e, benché avessero polli in paese, compravano uova e pollastri. Nonostante il grano di loro

produzione, compravano notevoli quantità di pasta, maccheroni e riso, cioè la servitù non faceva la pasta fresca, come era il caso quasi quotidiano da noi. La farina serviva a fare le panelle, i taralli, le torte ( con le cicciole ? ) presso il forno di Vincenzina Scudieri, dalla quale a volte compravano perfino il pane. Erano grandi consumatori di carne ( vaccina, vitella, agnelli, capretti ) che compravano dai macellai del paese. Dai negozianti compravano pesce, fresco e no, specie il baccalà, secco o spugnato, sarache, sarde, seppie. Da fuori facevano venire anche i latticini, scamorze e mozzarelle ( Lioni ). Il bestiame di loro proprietà serviva per il lavoro dei campi o per la produzione di carne. Il latte lo compravano nel negozio di Antonietta Covino, situato nei Piani vicino a lu jazzu , il luogo dove i contadini portavano ogni sera a mungere pecore e capre. Lu jazzu era una forma primitiva di cooperativa : tutto il latte munto era di un contadino che a turno ne aveva diritto di possesso. Per casi speciali si mungeva e vendeva anche il latte di asina, riservato ai malati e alle partorienti perché più leggero e facilmente digeribile. I Molinari vendevano legna e ginestre, compravano carbone per la cucina e i bracieri. Non potevano fare a meno di far allevare e ammazzare i maiali con tutta la susseguente lavorazione di salsicce, sopressate, prosciutti, lardo e sugna. Il dazio sulle bestie uccise era molto salato, più di venti lire a maiale per esempio. Tutta la fiscalità era del resto pesante, sfiorando le mille lire per l’esattore Giuseppe Sarni. Per il rinnovo del porto d’armi ci volevano 120 lire. Non mancava qualche spesa un po’ originale, come le bottiglie di cognac per don Marino ( 20 lire l’una ) ; il rosolio sarà stato per il solito bicchierino da offrire agli ospiti. I fichi freschi e le zucchine erano per fare la parmigiana. Il personale di servizio era pagato una miseria, con una eccezione per il guardiano ( lire 1,25 al giorno ). Ma si metteva la coscienza a posto, rimborsando alla madre della servetta Luigina scarpe e vestiti 117


( 85 lire ) e comprando la tela per le camicie ed il grembiule della nuova domestica, Domenica Ambrosecchia. La generosità arrivava fino a regalare qualche sigaro agli operai che lavoravano in casa. Pur avendo asini, giumenta, vacche e toro, la curiosità spingeva i notabili Donatelli e Molinari a prendere la carrozzella per assistere alle prove di motoaratura della Pavesi, probabilmente al feudo del principe. I ricchi Molinari controllavano oculatamente la spesa, quindi per le dieci lire date al falegname Gerardino Mariani per la cornice di un quadro ed altre cosette notavano « fatteci prendere a forza « e non esitavano a comprare mediante don Vincenzino Di Pietro sei chili di pasta e sei di riso , approfittando dei prezzi bassi della Provvida, una specie di cooperativa fascista, che avrebbe dovuto aiutare i meno abbienti. Anche la levatrice Bianca Zucchi approfittava largamente della Provvida, come si mormorava in paese, ma di lei don Vincenzino era innamorato ed all’amore si perdona molto, non però in paese, scandalizzato da quell’amore un po’ fuori costume, se non fuori legge. Noi non avevamo i soldi per comprare i prodotti della Provvida e, se c’era qualcosa che accomunava la nostra povera mensa con quella dei Molinari, erano le sarache e il baccalà non spugnato. Qualche lusso ce lo permettevamo anche noi, nei limiti dell’industria domestica, come i taralli e i tòrteni con le cicciole o raramente qualche pollo o pollastro di quelli che avevamo nella stalla, dove però dominavano le galline per la produzione delle uova che si compravano a coppie-tradizionale misura commerciale- da mia madre che così si procurava qualche soldo per altre spese necessarie. Le scamorze provvedeva a farcele assaggiare, anche se raramente, zio Luigi che le produceva in proprio. Ma, tutto sommato, forse noi eravamo più contenti di quel che s’industriava a cucinare mia madre, che certamente aguzzava l’ingegno un po’ più delle domestiche di

casa Molinari, lasciando a costoro i loro chili di vaccina e vitella, agnelli e capretti. Da un documento all’altro, dal quaderno Molinari del 1928 a una foto di cucinedda pasquale del 1932, che presenta un gruppo di compaesani davanti all’albergoristorante di Salvatore Strazza. Che a Morra ci fosse qualcosa di simile proprio a pochi passi da casa l’avrei negato con fermezza, però il documento è lì e bisogna ammetterlo come un pezzo del reticolo che sottostà e regge la memoria., che ora vede entrare e uscire dal portone i vari ospiti e Lucia e Maria Strazza sfaccendare dietro le finestre di quella specie di loggia al primo piano, dove probabilmente c’era il ristorante. Bisogna pur spiegarsi il benessere di cui s’inorgogliva il mio compagno Salvatore e che non era solo dovuto al magro stipendio del padre Peppino, impiegato postale. Con i volti ricostruibili dalla foto titillano il mio orecchio soprannomi come Felice Cacazucu, Rocchino Pesaturu, Franceschino Rosantonia ed allo strimpellare della chitarra e del mandolino risorgono il barbiere Alfonso Mignone, Peppiniello Berardi, figlio del nostro sarto di famiglia Rocco, Antonino Mignone falegname, ognuno ricollocato nella sua bottega e nell’esercizio del suo mestiere. E poi c’è Angiolino Di Pietro con i baffetti alla Hitler, fratello di don Vincenzino e di Eduardo, rimasti scapoli per la implicita legge del maggiorascato. Se prima non lo erano o lo erano solo in parte, ora risorgono fra i banchi della mia classe quei bambini in prima fila, Salvatore Strazza, il piagnucolone Nanduccio Mignone, Claudio Gennari dalle lunghe ciglia ricurve, oggetto della mia invidia, suo fratello Franco, possessore della prima bicicletta per ragazzi, altro oggetto della mia invidia, e Aurelio Capozza, figlio del carrozziere Gerardino che gli permetteva di sedere a cassetta con le briglie in mano e lo staffile schioccante, per me ancora un oggetto d’invidia.

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Io non figuravo in quella comitiva, né lo potevo, essendo escluso dalle nostre condizioni economiche che andassi a festeggiare la pasquetta al ristorante. La festeggiavo, però, con compagni e compagne meno abbienti sul prato appena verdeggiante sotto la quercia di Santantuono, senza chitarra e mandolino, ma con la frittata alle erbe e la borraccia austriaca di mio padre bersagliere, dalla quale bevevo a garganella il vino che m’incitava a cantare sgolandomi nel vento primaverile. Il reticolo della memoria può formarsi in vari modi ed a vari livelli per aggregazione spontanea o per sollecitazione. Basta un nome, un volto, un luogo, un sapore, un odore, un frammento di sogno e sotto le acque limpide o semitorbide della realtà quotidiana appare come una formazione corallina in progress, nella quale una cella cresce su o accanto all’altra. Quella città sepolta negli ultimi tempi ha guadagnato ampiezza e consistenza, reggendosi però su un sostrato doloroso che non vuole venire alla luce, lasciandomi talvolta nel dubbio se non sia meglio lasciarlo così com’è senza correre il rischio che alla sua manifestazione crolli il debole equilibrio che mi sono creato da decenni ignorandolo o conculcandolo. L’apparizione di una realtà, supera o infera, può anche non essere salvifica, pur se ormai alla fine della mia vita ne abbia urgente bisogno per dare un senso a tutto quello che ho detto e fatto. Bisogna concludere, sì, non si può più procrastinare. Alla ricerca della verità, qualunque essa sia, non posso più rinunziare. Se mi voglio immettere nel flusso universale senza reticenze e senza infingimenti, se voglio morire in pace, devo togliermi di dosso il peso di ogni dubbio e di ogni ipocrisia. Mio padre era diventato, dunque, commerciante. Di quel commercio due episodi mi vengono subito alla mente. Il primo dovette essere intorno al 1928-29. Zio Ciccillo era tornato dall’America per portarsi la figlia Rina, la

nostra situazione economica doveva essere disastrosa e già mio padre alcoolizzato. La notte prima della partenza per imbarcarsi a Napoli, a tarda sera o verso l’alba lo zio venne a casa per il saluto di addio. Qualche giorno prima per coprire i debiti fatti da mio padre aveva dato in prestito una somma per quell’epoca enorme, qualcosa come trentamila lire. Che lo trovasse ubriaco o reagendo a qualche frase spropositata o a un grido disperato di mia madre, ci fu colluttazione o diverbio con mio padre, cui io svegliandomi assistetti atterrito dal lettino in cui dormivo accanto a quello dei genitori nella camera del balcone. Agitando una pistola vera o immaginaria, lo zio minacciava di ammazzare mio padre, rovina e vergogna della famiglia. Prima che i vicini se ne fossero accorti e intervenissero i carabinieri, lui sarebbe già sulla nave che quella mattina salpava da Napoli per New-York. Grida di zio Ciccillo e di mio padre, pianti di mia madre e miei, tutto nell’incerta luce della camera illuminata da una povera lampadina di dieci watts, perché si risparmiava anche sulla corrente. L’attacco dall’esterno, specie se accompagnato da violenza fisica, in chi lo subisce e in chi vi assiste rompe l’equilibrio interno ch’è alla base della personalità insieme con la coscienza e la memoria. Lo choc può durare qualche giorno o tutta la vita. Io resterò sensibile pure da adulto al minimo sgarbo o attacco anche solo verbale, risentendolo come una intrusione nella mia sfera intima, dove nessuno dovrebbe entrare e certo non in quel modo. Avrò avuto tre o quattro anni, ma quella violenta esplosione da tragedia greca di conflitti che non supponevo potessero raggiungere tale grado mi resterà impressa come una ferita profonda, svalutando e macchiando, se ancora ce ne fosse stato bisogno, la figura di mio padre, non quella reale, ma quella ideale che portavo in me, anche se non me ne rendevo conto. Più tardi e ormai adulto assisterò a un’altra scena di degradazione dell’immagine paterna e che fosse proprio mia madre a degradarla 119


aggiungerà vergogna a vergogna e risentimento a risentimento. Ancora oggi son lì a cercare di salvare almeno l’immagine di mia madre e non sempre vi riesco. Dopo la guerra era passato da noi un parente in quel di Conza, un Mègaro credo. e mia madre l’aveva invitato a pranzo. Attorno alla povera tavola imbandita nell’ex negozio, dove abitavamo essendo la casa di sotto affittata a Zaccaria Covino, parlando del più e del meno, mio padre, in genere silenzioso e assente, dovette dire qualcosa che mise su tutte le furie mia madre, che reagì dandogli uno schiaffo. Mio padre incassò il colpo e l’onta senza reagire, l’ospite restò muto e imbarazzato, io ero allibito e distrutto. Pur avendo tutti i motivi di lamentarsi di mio padre, come poteva mia madre trattarlo in quel modo e alla presenza nostra e di un estraneo ? E come si era ridotto mio padre se pur nella condizione di quasi clochard subiva senza reagire un tale affronto ? Forse nell’abiezione in cui era caduto e si trovava da anni non era più neanche capace di rendersi conto di quel che gli accadeva. Quando più tardi anche mia madre riceverà dal genero in uno scatto d’ira uno schiaffo, raccontandomi l’accaduto commenterà : « Meno male che non c’eri né tu, né tuo fratello, se no succedeva una tragedia. » Due pesi e due misure ? Non credo. Nella sequela di patimenti suoi e della famiglia che si era protratta per decenni le scene e scenate saranno state per la povera donna pane quotidiano. Solo dopo, quando mio padre non ci sarà più e la sua situazione grazie a mia sorella sarà migliorata, lei riuscirà a dimenticare. Io, invece, pur vivendo lontano e fuori della famiglia fin dall’età di undici anni, non riuscirò mai a dimenticare e a risanare quella ferita. Gli affari del negozio andavano, dunque, male. Oltretutto c’erano troppi negozi a farsi la concorrenza, con ridotte possibilità di smercio delle mercanzie, essendo il piccolo paese senza grandi risorse anche perché, al contrario dei paesi vicini, mancava di sbocchi esterni e del passaggio di forestieri. Qualcuno più avveduto

si salvava, ma non era questo il nostro caso. La crisi economica di quegli anni, dovuta al fascismo, ma anche a probabili riflessi di quella mondiale in seguito al crollo di Wall Street, rendeva la vita difficile a tutti, signori, artigiani, commercianti, contadini. Se i notabili se la cavavano angariando i mezzadri, che, oltre a più della metà del prodotto, dovevano fornire gratis giornate di lavoro come servitù e, quando davano al padrone il grano, questo alla consegna era misurato nel mezzetto con l’ accolmatura, però quando, avendo terminato il loro grano, andavano a chiedere in prestito al padrone la sarma ( soma) di grano , questo era misurato a varra strecata, cioè nel mezzetto scolmato con una sbarra di legno. Anche per le feste il mezzadro portava al padrone il gallo o il cappone per Natale e per Pasqua uova, agnello o capretto, ricevendo in cambio un pacco di maccheroni, o un pezzo di baccalà o una bottiglia d’olio. La resa dei terreni migliori per il grano era del quattrocento, cinquecento per cento, quella dei meno buoni era a lu fratu , il duecento per cento, ed a volte anche meno, salvando sì e no la semente per l’anno successivo. Perfino al feudo del Principe , dove erano i terreni migliori, come pure a Selvapiana e a Santa Lucia, la resa non superava in genere il cinquecento per cento e proprio in quegli anni il Principe tentava senza successo di sbarazzarsi del feudo, in cui poi per ingraziarsi il fascismo fece venire una colonia di romagnoli, che soppiantarono i contadini del paese. C’era, dunque, poco da scialare. Ai debiti che mio padre fece allora e dopo, prosciugando anche il prestito di zio Ciccillo, si aggiunse una forsennata pratica che consisteva nel vendere a credenza. Così la merce partiva e i soldi non rientravano. Il credito fa parte del sistema economico, specie bancario, da sempre. Esso può facilitare gli scambi e far prosperare l’economia se da parte del creditore si prendono le necessarie misure e si esigono le dovute garanzie e se da parte del debitore si calcolano bene i vantaggi e i rischi, sapendo far 120


fruttificare i soldi del prestito in modo che lo si possa restituire, interessi compresi, alle scadenze concordate. In una economia di miseria quale era quella del paese la vendita a credenza era segno evidente della povertà diffusa della maggior parte degli abitanti e una specie di capestro per i commercianti troppo numerosi e in balia della concorrenza, che si lasciavano andare a vendite se con scarsi o zero interessi. Il risultato era che, quando si riusciva a ricuperare il credito, questo non corrispondeva alle volte neanche al valore nominale del capitale impiegato o speso per la merce venduta o i soldi prestati, calcolando il tempo trascorso fra prestito e rimborso e con l’inflazione galoppante. Ricordo i grossi registri in cui ogni volta si notava la merce venduta con il relativo prezzo, data di vendita e nome del compratore, che aveva naturalmente promesso di pagare appena possibile, millantando ricavi da venire con il prossimo raccolto o altra operazione. Nei casi più importanti con cifre considerevoli si facevano firmare le cambiali con data di scadenza. Per i pagatori morosi cominciavano da parte dei negozianti le pratiche di ricupero, fra di esse l’ambasciata e far la spia, cui partecipavamo anche noi ragazzi. Il cattivo pagatore si manifestava con l’assenza : dopo aver promesso di pagare il giorno x, non lo si vedeva più, andando a comprare da altri commercianti o diventando latitante. Si cominciava allora a mandargli l’ambasciata, una specie di convocazione a farsi vivo. Se l’ambasciata in paese era relativamente facile, per la campagna bisognava aspettare che venisse qualche vicino, che s’incaricava di dire al tal dei tali che il negoziante gli ricordava quella certa cosa. Se il tal dei tali non si presentava, l’ambasciata seguente era formulata in termini irritati ed offensivi, dandogli del ladro per ambasciatore interposto. Anche in paese noi ambasciatori avevamo spesso il compito difficile: il convocato al vederci apparire

se la squagliava, non si faceva trovare in casa, non apriva la porta. Cominciava allora la seconda fase, quella di far la spia. Se era qualcuno della campagna e si era scoperto ch’era venuto in paese – la domenica od altra ricorrenza festiva- si cercava di sapere da altri campagnoli dove fosse e si spediva noi ragazzi a perlustrare il paese per snidarlo. Se si presentava, c’era una scenata vera e propria, alzando la voce così che i vicini potessero sentire, e per poco non si veniva alle mani. Sbollita l’ira, tutto o quasi tutto rientrava nell’ordine con nuove promesse di rimborso e alle volte con nuovi acquisti, che si aggiungevano ai debiti precedenti. Se era qualcuno del paese, noi eravamo incaricati di appostarci nelle vicinanze della sua casa e, una volta accertato che stava dentro o stava rientrando, facevamo l’ambasciata o correvamo a dar la notizia a nostra madre che si presentava a far la richiesta alzando la voce in modo che il vicinato sentisse. La conclusione era spesso la solita promessa di onorare il debito quanto prima o una scenata in cui da ambo le parti volavano epiteti poco lusinghieri. Il seguito era da prevedere : o il moroso effettivamente cominciava a restituire in parte o in toto quel che doveva, cambiando però commerciante, o bisognava ricorrere all’avvocato ed andare quindi in tribunale se l’ultimo tentativo di conciliazione da parte del legale non aveva avuto successo. Qualcuno seppe così bene approfittare della situazione che riuscì non solo a comprare immoderatamente senza mai pagare, ma addirittura a farsi dare soldi in prestito. Fu il caso della zia di Sighilde, Vincenzina, addetta a lussi e sprechi : aveva largo lu cannaronu ( gola) e si permetteva perfino di farsi i bagni termali a Contursi ! Quando mia madre alle strette tentò di farsi pagare e restituire il prestito, costei non se la dette per inteso. Fu, quindi, necessario citarla , iniziando un celebre processo. L’unico bene che la donna possedeva era la bella casa di fronte al palazzo Donatelli.

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Probabilmente su consiglio di un avvocato la donna pensò di farsi passare per nullatenente. Quando dopo la protesta delle cambiali da lei firmate l’usciere del tribunale si presentò per il sequestro dei suoi beni, la donna trionfante presentò il contratto di vendita della casa con tutto il contenuto a un prestanome in data anteriore alla scadenza delle cambiali. Colpo di teatro : rischiavamo non solo di non ricuperare i soldi dei debiti e del prestito, ma di rimetterci anche le spese del processo e degli avvocati di parte. Fu facile, però, capire che la compravendita della casa era falsa. Restava da dimostrarlo in tribunale con esame degli atti e citazione di testimoni. Mentre avveniva tutto questo, parte del paese si era schierato per noi, parte per la Fienillo : povera donna ! Volerle levare la casa ; e dove andava a dormire con la sorella e le due bambine di costei, rimaste alla mercé di commercianti esosi e senza avere neanche la protezione del padre dalla lontana America ? Io vedevo ogni giorno Sighilde a scuola. Era scontato che l’altezzosa biondina mi considerasse un nemico da evitare e disprezzare, me figlio di debosciato che osava competere con lei in classe mentre i miei genitori tentavano di spogliar della casa la sua onorata famiglia. Guardassi, se non altro, come ero vestito io da poveraccio e come era vestita lei, signorinella tutta liscia ed agghindata. Il processo durò anni. Prima annullamento del falso contratto e vittoria in prima istanza, poi ricorso in appello, riesame del contratto, convocazione di vecchi e nuovi testimoni che si presentavano e non si presentavano, ripetuti rimandi delle sedute del tribunale eccetera. Per noi era un continuo correre a Sant’Angelo per parlare con il nostro avvocato, da soddisfare con versamenti di piccole somme per la parcella e spese amministrative, e panieri di uova fresche e di polli come suppletivo e per tenerselo buono, perché tra l’altro si correva il rischio che l’avvocato mal pagato si mettesse d’accordo con l’avvocato della parte avversa e ci facesse perdere la causa,

accettando sottobanco soldi dall’altra parte. Tirare in lungo i processi e addivenire a simili pratiche disoneste non era raro tra gli azzeccagarbugli di quei tribunali. Nelle frequenti visite agli avvocati o per le sedute del tribunale anch’io andai spesso a Sant’Angelo, per lo più a piedi, qualche volta a cavallo se il viaggio era con zio Luigi, anche lui cliente di avvocati per i frequenti litigi con parenti e non parenti. Per arrivarci si seguiva la carrozzabile fino al mulino dello Ncasciu. Arrivati ai Pali di ferro della linea elettrica, si prendeva a sinistra per un viottolo che s’inerpicava e serpeggiava tra i boschi di castagni. Qui la veduta era sbarrata dai tronchi su tutti i lati, non si vedeva nella luce verde delle foglie o in quella bruna dei rami spogli che il sentiero solitario e silenzioso. Quella solitudine appartata quasi fuori del mondo incuteva paura per tutti i racconti che avevo sentito di briganti e che, se riuscivo a vincerla, faceva posto a un idilliaco piacere di aggirarmi fra quelle ombre amiche, rallegrate dal canto e volo degli uccelli al mio passaggio, anche se un po’ irritato dal penetrante odore dei gattini al tempo della fioritura e molto tentato nella stagione della maturazione delle castagne, che raccoglievo al margine del sentiero dai ricci aperti, cercando sotto gli alberi quelli più carichi di frutti che occhieggiavano dai ricci semiaperti. Le scappatelle erano brevi e rapide perché bisognava arrivare in tempo al tribunale o dall’avvocato, che spesso ci faceva aspettare nello stanzino antecedente allo studio, seduti su sedie scomode che i clienti che ci avevano preceduti avevano avuto la cortesia di non occupare. Se ero andato a cavallo, zio Luigi lasciava la vettura in una specie di caravanserraglio all’inizio del paese e volendo si poteva anche mangiar qualcosa in una locanda adiacente. Ma per lo più in piedi o seduti su un banco di cemento del cosiddetto parco antistante l’edificio del ginnasio o addirittura sulle scale del palazzo principesco, sede del tribunale e del carcere, si consumava la 122


colazione portata da casa. Un paio di volte ebbi l’occasione di entrare con lo zio nella locale agenzia del Credito Irpino. Il vano modesto non era molto diverso da quello dell’ufficio postale di Morra, dove mia madre andava ad esigere le piccole somme dei tagliandi dei buoni fruttiferi lasciatici dalla nonna. Zio Luigi, però, poteva permettersi di andare allo sportello bancario per depositare il ricavato della vendita dei prodotti agricoli. Quel mondo in cui i biglietti , allora enormi, passavano dal grosso portafoglio dello zio nelle mani adunche dell’impiegato attraverso una specie di stretto boccaporto restò per me sempre qualcosa di estraneo ed inquietante fino al giorno in cui a me più che ventenne zio Angelino, che aveva dimestichezza con quei traffici pecuniari ed orgoglioso dichiarava che lui si arricchiva anche prendendo soldi in prestito da contadini benestanti, mi affidò una notevole somma da portare in banca a Sant’Angelo e che questa volta era il ricavato della vendita del grano della sua masseria di Orcomone. In gran segreto e con un po’ di trepidazione nascosi quei bigliettoni sotto la camicia e mi avviai solo verso Sant’Angelo, passando attraverso i castagneti e facendo attenzione più a qualche raro passante che alle ombre misteriose del bosco. Mi presentai in banca con disinvoltura, consegnai il malloppo e tornai in paese a missione compiuta con orgoglio, ma anche con sollievo, che avevo del resto provato già durante il viaggio di ritorno, in cui l’animo alleggerito da ogni cura gustò la piacevolezza di quel viaggio tra le ombrose piante. Torniamo al famoso processo. Con l’entrata dell’Italia in guerra i processi civili furono congelati sine die : quindi, pur avendo vinto anche in appello, non fu possibile venire in possesso della benedetta casa o del rimborso del debito. Solo a guerra finita, il pagamento venne a scadenza. Ma ormai la situazione era completamente cambiata. La famosa signora era emigrata negli Stati Uniti, la lira non valeva più niente ed ai Fienillo fu facile rimborsare debito e spese processuali con soldi che corrispondevano più o meno ad un

millesimo del pristino valore. Ci trovammo così dopo tanti anni e tante pene con un pugno di mosche in mano. Sighilde, ormai signorina fatta, poté restare nella famosa casa, dandosi anche con i soldi ed i pacchi che regolarmente riceveva dall’America ad una vita agiata e viziosa che in paese fece scalpore quanto e più del processo. Anche da parte nostra l’animosità si era calmata e, pur amareggiati per il danno subito, avevamo altro per la testa. Assistemmo, perciò, a quegli amori libertini ed adulterini più o meno con la stessa morbosa curiosità degli altri. Con il salto ormai di una generazione io giovanotto e lei signorina dimenticammo le aspre rivalità dell’infanzia e della scuola. Ci salutavamo come se niente fosse stato ed altri pensieri occupavano le nostre menti, io d’invidia, non pungente però, per le sue forme prosperose e sfacciate di AfroditeGiunone di paese, lei di marginale interesse per lo studentello, tutta presa dagli assilli di un sesso vorace che, pur soddisfatto con sfrontatezza, non dava requie al suo corpo, mostrato ed esaltato dal passo sovrano della formosissima che scendeva per via Roma, eccitando i maschi di ogni età che avrebbero dato chi sa che per una notte con la vampira, la quale poi, dopo aver concesso le sue grazie a uno solo e non certo apollineo amante, sarebbe emigrata in America, dove avrebbe forse compiuto altre clamorose gesta, di cui in paese non si seppe mai niente. Tornando indietro di una buona dozzina d’anni dalla beffa del cosiddetto ricupero dei nostri soldi, prima che il negozio chiudesse in pratica per fallimento, ricordo mia madre tentare di venire a capo della causa principale di tanti ripetuti disastri, ricorrendo anche a mamma Rosa, detta Mammasanda. Accanto alla religione ufficiale cattolica ed ai suoi riti fioriva tutta una serie di altre credenze, superstizioni e pratiche mirabolanti. Per il solito malocchio le pratiche erano molteplici e diffuse. Chi ne era stato colpito per invidia e rivalità da parte di chi glielo aveva gettato e che era dotato di particolari poteri malefici al confine con 123


quelli diabolici, aveva la possibilità di farselo levare da chi ne aveva la capacità, in genere una donna. Lo si poteva evitare e scongiurare prima d’incorrervi : intravisto un jettatore, si accavallava il dito medio sull’indice, nascondendo la mano dietro la schiena per non farsi scorgere. Se però ci si era incappati, si chiamava la donna capace di toglierlo, che si trattasse di un mal di pancia o di una malattia più seria. I bambini, le belle donne, gli innamorati e chi aveva successo negli affari erano le vittime preferite di queste streghe. Presa una bacinella d’acqua e qualche goccia d’olio, la guaritrice pronunziava vari scongiuri, tipo Uocchiu e contr’uocchiu e scatta ( crepi ) lu maluocchiu. Oltre Gesù e Maria uno dei santi più invocati era san Nicola. L’esito poteva essere positivo o negativo, dipendendo dal rapporto di forze tra chi aveva lanciato il malocchio e chi voleva toglierlo. Strumenti generici di protezione preventiva erano il ferro di cavallo attaccato alla porta o il piccolo corno appeso al collo. Si cercava di garantirsi non solo contro pericoli secondari, ma anche contro il destino finale cui ognuno andava incontro. Per interrogare i morti c’era la pratica dello spiritismo o tavole parlanti. Ci si sedeva attorno ad un tavolo creando una catena di contatto fra le mani dei partecipanti alla seduta, tra i quali c’era il medium, capace di far parlare i morti con domande a cui l’evocato defunto rispondeva con una specie di alfabeto morse di uno o più battiti o spostamenti del tavolo. « Se ci sei, batti due colpi « eccetera. Il morto poteva essere quello invocato o uno sconosciuto, le domande riguardavano fatti del passato o avvenimenti del futuro, i primi ignoti o sfuggiti a qualsiasi inchiesta, i secondi rispondenti a curiosità o paure sul futuro. Dal morto si voleva sapere se era salvo o dannato ed in alcuni casi se uno dei presenti sarebbe salvo o dannato. Una delle organizzatrici più attive di queste sedute era Celestina De Rogatis ed una delle medium più dotate una ragazza, anche De Rogatis, sulla sedicina. Costei si sarebbe rivelata potentissima partecipando casualmente a una seduta, in cui cadendo in trance

senza avvedersene era riuscita addirittura a far volare un grosso tavolo per la sala. Risaputo il fatto, ognuno guardava la povera ragazza con un misto di ammirazione e timore. Frequentandola io più tardi e amoreggiando, potei notare in lei altri doni e grazie, ma non quelli, perché ero incredulo, mi si sarebbe replicato. Per simili cose bisognava infatti esser credenti, gli scettici o i negatori annullavano qualsiasi possibilità di accadimento. Ciò era anche vero per le sedute di magnetismo e sonnambulismo. Era arrivata in paese una coppia itinerante che sollevò molto scalpore per la fama di cui godeva in quanto dotata di poteri mirabolanti, di cui dava prova in spettacoli cui chiunque poteva partecipare. Cercando un locale che ospitasse il decantato spettacolo, seppero del nostro già negozio, disponibile e ben situato al centro del paese. Dopo breve trattativa lo mettemmo a loro disposizione per due o tre sere. Una quarantina di sedie furono stipate nel locale, lasciando solo uno stretto passaggio al centro e nel fondo, dove fu eretto su una pedana un quasi palcoscenico. Lo spettacolo iniziava con un discorsetto del mago, che decantava i suoi doni straordinari e l’onestà dei mezzi impiegati, che escludevano qualsiasi trucco o connivenza con eventuali complici. Quindi la moglie passò fra le sedie offrendo a chi volesse una busta con una domanda e risposta, tipo « Stai pensando a Roma o a Venezia ? A Roma. « Aprendo la busta, l’interessato doveva fortemente concentrarsi pensando la risposta or ora letta. « Siamo pronti ?, chiedeva il mago. Ti stai concentrando e pensi solo a quello che hai letto ? « All’affermativa il mago a sua volta si concentrava, chiudeva gli occhi, scuoteva la testa fra il sì ed il no, poi deciso andava a fianco dell’interrogato e di colpo, come se gli fosse balenata qualcosa nel cervello, gridava :« Stai pensando a Roma « . Il dabbenuomo confermava ed il pubblico applaudiva. Inutile dire che la moglie aveva disposto le buste secondo un ordine concordato con il marito che per ogni numero conosceva domanda e risposta. 124


Tra il pubblico solo qualcuno che conosceva giochi analoghi con le carte scuoteva la testa, ma non osava disturbare lo spettacolo, che continuava con un intervallo musicale : il mago accompagnava con la chitarra la moglie che aveva una bella voce e un fisico prestante che faceva valere atteggiandosi e sottolineando le sue forme. Poi veniva il piatto forte della serata, le sedute d’ipnotismo. L’istrione serissimo e con termini quasi scientifici spiegava in che consistesse l’ipnotismo, insistendo sul mistero del suo dono d’ipnotizzatore, scoperto per caso, ma poi coltivato con serietà e passione così da raggiungere la celebrità, come risultava da giornali e riviste scientifiche ; e qui metteva sotto il naso di quelli seduti in prima fila un foglio spiegazzato dove figuravano lui e a grossi titoli le sue imprese. La prima prova era con la moglie : le si metteva di fronte, la fissava intensamente, poi avanzando e ritirando le braccia, apriva e chiudeva le mani come se le stesse infondendo o levando qualcosa dalla testa. Prima d’iniziare aveva raccomandato il silenzio e la sala ubbidiva. Così nel silenzio assoluto si avvertivano le parole d’incoraggiamento e di comando : « Vieni, abbandònati, non far resistenza, le palpebre ti pesano, chiudi gli occhi, vorresti sbadigliare, non farlo, stai già quasi dormendo, dormi, dormi, conterò fino a dieci, ma non ci arriverò, già al sette tu dormirai, uno, due, tre, quattro … ». La donna cominciava a respirare faticosamente come chi lotti contro qualcosa che non vuole, poi incerta sulle gambe cominciava a perdere l’equilibrio, ma si riprendeva e lui insisteva : « Sei coricata in un letto di rose su cuscini caldi, sotto coperta di lana leggera, non senti più la mia voce, non vedi più le mie mani, stai già dormendo, cinque, sei, sette « e la donna cadeva, come corpo morto cade, nelle braccia del marito, il quale nell’introduzione aveva spiegato che altrettanto, se non più difficile, dell’indurre il sonno era richiamare l’ipnotizzato alla coscienza svegliandolo, perché un sonno troppo lungo poteva anche farlo morire. Quando il paziente riveniva alla

veglia in tempo debito-e l’ipnotizzatore poteva e doveva pesarlo coscienziosamente- il momento era delicatissimo e all’ipnotizzatore toccava accompagnare il paziente al risveglio. Rivenendo in sé la moglie aveva l’aria stranita di chi non sa cosa le sia capitato, guardando sperduta il marito e la gente. « Ma che ti è successo, dove sei stata, cara ? « eccetera, eccetera. La sala applaudiva anche se sconcertata e un po’ impaurita. Ora era la volta del pubblico, chiedendo il mago se in sala ci fosse qualcuno disposto ad assoggettarsi all’esperimento. Si alzarono tre o quattro, tra cui una donna. Il mago li fece salire sul palcoscenico e scelse per la prima prova la donna, con la quale ripeté il rituale già eseguito con la moglie. La paziente addormentata e seduta su una sedia cominciò a sospirare, ad agitarsi, a tendere la bocca come per offrire e ricevere un bacio, a toccarsi i seni, a piagnucolare come un’amante respinta , a strapparsi i capelli. Il pubblico divertito rideva ed il mago, dichiarando scaduto il tempo di sopportabilità, dando un buffetto sulle guance alla paziente, l’incoraggiò a svegliarsi, sussurrando : « Su, su, svègliati, l’innamorato ha fatto finta di non volerti, ora ti aspetta amorosamente « eccetera. La poveretta sveglia fissava la sala e si chiedeva perché il pubblico ridesse. Venuto il turno degli uomini, due furono scartati perché non idonei, essendo uno troppo debole per tale esperimento e l’altro miscredente. Interrogato, rispose infatti che lui a quelle storie non credeva e voleva personalmente dimostrare in pubblico che si trattava di una soperchieria. « E’ come nella religione, postillò l’ipnotizzatore, non a tutti è dato sperimentare od assistere ai miracoli. Se manca la fede, il Padreterno in genere non li fa e fa dannare l’incredulo che da solo si è già messo fra i reprobi. » Passò quindi all’altro candidato, di cui lodò la bella disposizione per l’esperimento che questa volta avrebbe dimostrato meglio che nel caso della donna la capacità di trasmettere i suoi pensieri e i suoi comandi al paziente. Ciò poteva andare molto lontano fino ad 125


indurre il paziente a commettere delitti e perfino il suicidio, motivo per cui la legge prescriveva che alle sedute d’ipnotismo dovessero essere presenti i carabinieri, come dimostrava la loro presenza in sala. « Un applauso per le forze dell’ordine ! » Dopo l’applauso e garantita la non pericolosità dell’esperimento, al paziente silenziosamente attraverso la lettura del pensiero furono impartiti vari ordini, tra cui quello di trottare come un cavallo, di andare a quattro zampe come un cane, dimenando la testa come chi fiuta il terreno ed infine ad abbandonarsi a un inizio di spogliarello. Si era già tolte giacca e cravatta, stava sfilandosi i pantaloni restando in mutande. In tale stato fu svegliato e quale non fu la meraviglia e la vergogna del poveretto, che come gli altri non ricordava nulla di quanto gli era accaduto durante il sonno. La serata fu conclusa in musica con una canzonetta napoletana, cantata e mimata dalla moglie, che, se non eseguì lo spogliarello, ne mimò tutte le fasi eccitando ed esilarando il pubblico con varie mosse e frasi salaci. Arrampicato su una scaletta io non perdetti nessuno spettacolo, assistendo a tutte le serate. Per mesi poi io e mia sorella continuammo le sedute, ipnotizzandoci a vicenda. Mamma Rosa era un concentrato di tutti questi spettacoli e credenze, in cui la credulità della gente e forse qualche dono non comune cospirarono ad attirare ogni venerdì la gente nella sua masseria, situata nella campagna di Guardia dei Lombardi. Mia madre ritenne che una visita alla santa potesse aiutare mio padre con una guarigione miracolosa. Facemmo quel pellegrinaggio io, mia sorella ed i genitori. Dopo una buon’ora per stradine di campagna arrivammo su uno spiazzo, dove c’era una piccola folla di una cinquantina di persone. Alcuni li avevamo incontrati per via su asini e ci precedettero. I pellegrini erano dei paesi circonvicini, di Morra quella volta c’eravamo noi e una famiglia della campagna. In fondo al piazzale con qualche arnese agricolo c’era una modesta masseria con una

stanza capace, nella quale fummo introdotti da un paio di manutengoli che sulla soglia esigevano la paga, detta offerta, della visita e smistavano e regolavano l’ingresso a piccoli gruppi di una dozzina di persone. Nella stanza semibuia, era il pomeriggio, in un grande letto contadino a due piazze, coricata a metà giaceva mamma Rosa. Si raccontava che ogni venerdì, giorno della visita, la donna sudasse sangue in rimembranza della crocifissione del Signore e di cui la prova erano certe macchie rosse che si vedevano sul muro accanto al letto. Chi recitava il rosario, chi diceva giaculatorie, chi inginocchiato faceva grandi segni di croce o si batteva il petto. Al muro di fondo c’era un’immagine della Madonna e sul cuscino accanto alla santa un crocifisso. In fila, prima io e mia sorella, poi mia madre e in coda mio padre ci accostammo alla santa, che levandosi un po’ sul cuscino accennò un segno di croce sulle nostre teste benedicendoci. Mia madre mormorò qualcosa all’orecchio di mamma Rosa che assentì e, quando mio padre si avvicinò, il segno di croce fu più lento e prolungato. Mentre ci scostavamo dal letto per far posto ai seguenti, all’improvviso quasi all’ingresso scoppiarono degli urli. Un povero giovane fu tirato dentro come un animale al guinzaglio dai genitori. Era la famiglia di Morra. Il giovane urlava, si dibatteva, aveva gli occhi stralunati e la bava alla bocca. Se non l’avessero sostenuto, sarebbe caduto per terra. Mamma Rosa si rizzò sul cuscino, imbracciò il crocifisso e cominciò ad urlare a sua volta : « Per Gesù e per Maria, vieni avanti, Spirito del male. Per Gesù, Maria e san Giuseppe, esci fuori dalla bocca, diavolo incatenato. » Più la santa gridava i suoi scongiuri, più il giovane si dibatteva, cominciando a bestemmiare Gesù Cristo, i santi e la Madonna, terrorizzando i presenti, ma non mamma Rosa che gridando precisava : « Non è lui che parla, è il diavolo che ha in corpo e che non vuole uscire. Esci, Satanasso, lascia questo povero giovane, in nome di Cristo io sono 126


più potente di te, esci, Satanasso. Per la Santa Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, esci, Satanasso. » Il giovane in pieno collasso era sfuggito alle mani dei genitori e si dibatteva per terra come una serpe ferita, sbavando livido da far paura. Io e mia sorella ci eravamo stretti l’uno all’altra terrorizzati, ma pur terrorizzati continuavamo a guardare il povero ossesso che si agitava per terra e che poi man mano si calmò, giacendo esausto al suolo. I suoi genitori lo sollevarono e l’accompagnarono inebetito dalla santa che lo benedisse, dichiarando di averlo liberato dal diavolo. Riprendesse quindi la vita normale perché era guarito. Così pretendeva la santa e così credettero i poveri genitori, naturalmente fino alla prossima crisi epilettica. Mio padre aveva taciuto per tutto quel tempo. Non so cosa si aspettasse dalla visita a mamma Rosa, ben poco, credo, come dovette costatare anche mia madre alla prossima ubriacatura nella cantina di Corradino o di Palomba, da cui dovemmo tirarlo fuori non con la bava alla bocca, ma farfugliante frasi sconnesse e non reggentesi sulle gambe. Temo che la memoria mi stia giocando un brutto tiro : non che inventi o falsifichi i ricordi, ma li colloca in una falsa prospettiva, mettendo in primissimo piano certi avvenimenti ed impressioni, ricacciandone altri nel fondo, non con digressione naturale, ma forzandoli ed a volte annullandoli. Sul fondo di quelle scene c’è una nebbia spessa che non mi permette di capire come le cose si siano gradatamente svolte. La non gradualità della memoria mi fa correre il rischio di non capire quando, come e perché si siano verificati quei fatti. Il che è meno grave negli altri casi, ma è gravissimo per quel che riguarda mio padre. In realtà io lo vedo accumulando nel tratto di cinque, sei anni quanto era avvenuto su un arco di dieci e più anni. Ed anche per questo tratto, dal 1930 al 1936, tutto fa blocco e la sua figura è fissa in una immagine dolorosa che ignora lo sviluppo. Ora la sua malattia o decadimento psichico e fisico non dovettero essere

improvvisi, dovettero conoscere varie fasi, anche di lotta e resistenza da parte sua, non fu cioè un fulmine a ciel sereno, ma una progressiva discesa delle tenebre con un progressivo venir meno della luce, a meno che…a meno che un episodio tragico, di una gravità determinante, non avesse deciso una volta per sempre che lui era condannato e noi con lui, senza possibilità di rimedio. La mente rifugge dal prendere in considerazione tale possibilità, eppure bisogna che mi faccia coraggio ed affronti il problema. Per qualche tempo e poi sempre di nuovo si è affacciato il sospetto che all’origine fosse la sifilide, interpretando quello che una volta aveva detto Carminuccio De Rogatis :« Non è colpa sua, ma di un altro che l’ha fuorviato « . Chi, come, quando ? Cosa poteva essere questa fuorviazione con effetti così catastrofici ? Ad un esame più attento il sospetto non reggeva : altri sarebbero stati i sintomi e le conseguenze. Mia madre era vissuta sana fin oltre gli ottanta anni, dei sei figli, benché tre fossero morti in tenera età, una Celestina a otto mesi nel 1922, un altro o altra pure in tenera età e Flavia dopo gli anni trenta a cinque o sei anni per dissenteria, malattia molto diffusa in paese specie d’estate, noi altri tre, cioè mio fratello Celestino, mia sorella Olga ed io stesso saremmo vissuti normalmente senza accenni di qualsiasi sequela di un tale morbo. Risalendo indietro, nonno Daniele, morto a 84 anni, aveva avuto sei figli tutti vegeti e sani. Tutto dunque era e sarebbe stato in ordine su quattro generazioni. Restava mio padre che usciva da tale normalità e sul quale si poteva nutrire qualche sospetto, dissipato, però, da quanto si è detto. E allora ? Cosa aveva voluto dire Carminuccio ? Non lo so ed è inutile chiederlo a mio padre. La difficoltà di parlare con lui in vita e dopo la morte è dovuta, oltre che a un blocco psicologico da parte mia ed al graduale rispetto della sua figura, ricacciata sempre più indietro e più lontano dalla mia vita e dalla mia memoria, al fatto che, prendendo ora in esame l’altra e più probabile ipotesi dell’alcoolismo e tabagismo come causa della sua 127


degenerazione, mi urto alla particolare difficoltà di farlo parlare e farlo ricordare. Le ricerche di Marchiafava e Bignami e quelle di Korsakov hanno dimostrato che negli alcolizzati è difficile la fissazione dei ricordi, essendo essi vittime di amnesia e incoerenza di formulazione verbale. La degenerazione del corpo calloso e delle cellule nervose fa sì che i due emisferi del cervello siano sconnessi e che il passaggio dell’informazione da cellula a cellula sia saltuario e difettoso. Nella generale sconnessione è difficile pretendere che ci sia una connessione ordinata tra ricordo e ricordo e tra parola e parola. La confabulazione che prende il posto del discorso normale fa sì che gli alcolizzati siano in preda a fantasticherie ed incubi. Farmi ora raccontare da mio padre origine e particolari della sua malattia, ammettendo che sia capace di formularli, che peso di veridicità può avere ? Ma ciò nonostante, dopo tanti anni io voglio- e lui vuole – la verità. Quale verità ? Per avere qualche probabilità di raggiungerla devo intanto cercar di capire come e perché lui fosse caduto in preda a tale malattia o vizio che dir si voglia. Tutti lo considerarono vizio e tra questi fui e sono io. Mia madre, però, lei che era stata la principale vittima, una ventina d’anni dopo la sua morte aveva detto : « Povero Pitruccio ! Era malato. » Rielaborazione e falsificazione dei ricordi ? Assoluzione postuma ora che si era messo il cuore in pace e viveva gli ultimi anni della sua vita in una relativa felicità ? Per essere più vicini al vero bisogna forse parlare di malattia e di vizio, lasciando da parte la pretesa di voler dare il primo posto all’una o all’altro, anche se in realtà l’uno fu forse causa dell’altra. Forse. E poi le concause. Per passare dalle ubriacature occasionali in cui si cadeva tutti, me compreso, all’alcolismo cronico, che avrebbe attaccato tutto l’organismo e deformato irrimediabilmente la psiche e il comportamento, bisognava supporre tare psichiche, il che mi sembra poter escludere, o fattori ambientali e predisposizione psicologica. Questa poteva essere debolezza di carattere, poca

capacità di resistere alle tentazioni e progressivamente incapacità totale di evitarle. I fattori ambientali intanto. Dopo l’estraniamento degli anni passati al fronte e l’euforia del ritorno vittorioso con il corollario del matrimonio e dei primi anni di vita coniugale probabilmente felice, l’ambiente paesano offriva ben poco a chi volesse altro o non accettasse più il trantran quotidiano di lavoro e famiglia, mal compensato da qualche casuale distrazione e divertimento. Per gli uomini questo consisteva essenzialmente nel giocare a carte e frequentare le cantine. Non mi risulta che quì le poste al gioco fossero enormi o considerevoli, tipo gioco d’azzardo. Il pericolo consisteva piuttosto nel prendere l’abitudine di andarvi, di propria iniziativa o sollecitati dagli altri frequentatori. Il piccolo gruppo di debosciati era noto e comprendeva un prete, don Remigio, uno scapolo benestante piuttosto anziano, don Pietro De Rogatis e un artigiano alquanto sfaticato ed in contrasto con il padre, Giovanni Mariani, dotato di notevole resistenza fisica e vera spugna capace d’ingozzare una ventina di litri di vino, il quale, pur dando spettacolo come mio padre, riusciva a digerire le sbornie e a tenersi a galla senza cadere nelle degenerazioni dell’alcolizzato al cento per cento. Di altri frequentatori per ora non ricordo il nome. Sì, c’era anche l’avvocato Ricciardi, che da Sant’Angelo tornava di tanto in tanto in paese per darsi a solenni sbornie per riguadagnare dopo qualche giorno la sede della sua attività professionale. L’esercizio di un mestiere limitava le occasioni e il tempo di correre in cantina. Come, però, dimostravano casi di alcoolizzati maschi e femmine, ci si poteva abbandonare al vizio anche a domicilio, come i Morcone e don Antonino Del Buono. Anche mio padre aveva già in casa la possibilità di darsi al vino, tanto più che ne producevamo in quantità. Quì però c’era un certo controllo da parte di mia madre. E nei primi anni del matrimonio e più efficace di questo aleatorio controllo- oltretutto le botti erano un 128


po’ fuori mano nella stalla, né raro fu il caso di trovar mio padre per terra vittima di solenni ubriacature proprio davanti alle botti nell’antro oscuro della cantina familiare- fu l’esercizio del suo mestiere di calzolaio, espletato con successo tanto da avere anche un giovane apprendista, Vincenzo Ricciardi. Ho un ricordo preciso di me bambino mentre osservavo mio padre al deschetto di calzolaio dar colpi di martello sulle suole da chiodare e che allungavo la mano per prendere la subbia o lesina o il coltello affilatissimo per tagliar le tomaie, scacciato da mio padre o preso in braccio da Vincenzo. Penso che a quell’epoca, verso il 1926-27, si potesse parlare di una certa sua tendenza a esagerare nel bere e di occasionali ubriacature, però il passo decisivo verso l’alcoolismo dovette esser fatto verso il 1928, quando lasciò il mestiere di calzolaio per fare il commerciante. Il cambiamento di mestiere fu dovuto non tanto a voler lavorare di meno e guadagnar di più quanto alla insoddisfazione per qualcosa poco gratificante e non veramente amata e che si estendeva a tutto quello che lo circondava, moglie, figli, paese. Se la nuova professione gli avesse dato piena soddisfazione e successo, forse lui si sarebbe come altri esaurito in essa, senza cercare scappatoie o succedanei. Ma evidentemente così non fu. Era troppo intelligente, come lui pretendeva essere misurandosi la fronte alta, per operare indenne il passaggio, com’era avvenuto con lo zio Salvatore Grassi, passato da sarto a negoziante di tessuti, con il cugino Nunzio o il discepolo Vincenzo, da calzolaio ad esattore, o troppo sensibile per entusiasmarsi di vendere e contar chiodi di varia grandezza o metri di spago ? Dapprima il vino fu un rifugio occasionale per stordimenti passeggeri e poi un antro buio dove cadere e rifugiarsi per sfuggire al mondo, a se stesso e ai propri fallimenti, che cominciavano ad accumularsi l’uno dopo l’altro. Lottò con se stesso e si rese conto di quanto gli stava accadendo ? Fece pencolare da una parte o dall’altra

la bilancia, cercando di far prevalere il bene sul male e non viceversa questo su quello ? Ebbe mai nozione precisa di cosa fosse il bene e di cosa fosse il male per lui e per la famiglia ? Anche se in lui mancò la chiara consapevolezza dell’abisso in cui stava precipitando, mia madre, gli zii e altri con rimproveri e scenate quotidiani erano lì a ricordarglielo. Lotta quindi dovette esserci e la sua coscienza dovette rimordergli non lievemente. A questo punto è necessario che gli chieda spiegazioni perché, se ci fu lotta e resistenza da parte sua, io posso fare un passo avanti non verso il perdono, ma attraverso la comprensione verso la compassione. « Ti accorgesti mai su che china pericolosa stavi scivolando verso il baratro che avrebbe inghiottito te e tutta la famiglia, tentasti di resistere o ti lasciasti andare, trascinato da forze irresistibili che non capivi o capivi solo in parte ? Ci fu nel fisico qualcosa che ti tradì, una malattia di cui il medico non diagnosticò la natura e che debilitandoti concorse a renderti incapace di resistere a quella corsa verso lo stordimento e l’oblio di te stesso nel vino ? « Mio padre mi fissò a lungo scuotendo la testa come indeciso se dire o non dire. Poi disse : « Parliamo una volta tanto di te. Tu hai vissuto analoga esperienza, rischiando di fare analoga fine. Ma per fortuna tu ti sei salvato ed io no. Hai parlato di bene e di male e di chi vede il bene e fa il male. Ricorda gli ultimi tuoi anni in collegio. Non credere che io alcolizzato fossi talmente assente a tutto quello che succedeva in famiglia da non notare lo stato in cui ti eri ridotto quando tornasti dal collegio. Magro fino all’osso sotto quella canadese giallina, con la testa rapata e le occhiaie profonde da farti sembrare uno spettro, malcerto sulle gambe e afflitto come un reduce che torni da una guerra combattuta a lungo e persa fosti accolto in famiglia con trepidazione e molto relativa contentezza perché, se ti si

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era per così dire ricuperato, ora si poneva assillante l’interrogativo di cosa fare, non tanto per il peso di un’altra bocca da nutrire, quanto per dare un avvenire a chi sembrava non ne avesse, almeno nell’immediato. Tutti presero per buona la storia della cosiddetta malattia che ti aveva costretto a lasciare la vita religiosa, ma nessuno apparentemente si chiese cosa fosse questa benedetta malattia. Si parlò di esaurimento nervoso. E lo era. Bisognava però spiegarsi come e perché tu ne fossi vittima, tanto più che nei primi mesi tu continuasti le pratiche religiose e tenevi discorsi da indottrinato come se nulla fosse successo. Io, però, da debosciato capii che qualcosa di grave ti aveva colpito e che tu, risalendo la china, volevi nascondere, sperando che il silenzio ed il tempo cancellassero quel marchio infame di sconfitto. Quale era stata la tua sconfitta ? « La mia sconfitta era stato il sesso. Tenuto per anni fuori dal mondo femminile, presentato come tentazione e peccato, rinnegato il corpo che nella sua fisicità poteva insorgere e costituire un ostacolo alla castità, predicata e praticata nella continua apprensione che qualcosa da fuori o da dentro potesse intaccarla, essa che con altre virtù era il distintivo del nuovo stato a cui per vocazione ero stato chiamato, vivevo con convinzione ed entusiasmo in questo sistema, quando all’improvviso nel profondo di me si risvegliò un vulcano addormentato e la lava dei fantasmi sessuali e la produzione di sperma cercarono uno sbocco. Volessi o non volessi, mi trovai confrontato a una lotta impari tra bene e male, bene la castità in atti e pensieri, male la minima concessione al sesso, spontaneo o consentito. Per quello spontaneo ci pensavano il sonno ed i sogni e da sveglio il minimo movimento ed irrigidimento dei malprotesi nervi e muscoli, che portavano alla eiaculazione, che mi lasciava atterrito, impotente e sudicio di qualcosa che usciva dal mio corpo e lo imbrattava periodicamente e vergognosamente.

Quelli che erano i fenomeni normali della pubertà furono magnificati dalla feroce repressione di una educazione sbagliata, che, invece di spiegarli e rimetterli nei confini del naturale sviluppo, li considerò indecenti e peccaminosi se non fossero ignorati e respinti con decisione. Essi furono inoltre aggravati da un esaurimento nervoso, dovuto alla scarsa e povera nutrizione proprio nel periodo in cui il corpo in pieno sviluppo aveva bisogno di cibo sostanzioso ed abbondante, dal mio solito accanimento a voler primeggiare studiando assiduamente e dall’ambiente chiuso che favoriva lo sviluppo delle idee fisse e delle manie, in mancanza di altre attività e distrazioni. Deperivo a vista d’occhio, non potevo più seguire il corso normale degli studi, mi sentivo spiritualmente reietto e colpevole. I consigli scontati dei confessori e le medicine propinatemi da medici di stretta osservanza cattolica non servirono a niente. Nello squilibrio generale in cui rasentavo a volte il delirio e la pazzia, per fortuna il corpo ci pensò da solo a salvarmi. Quando debilitato e ormai incapace di controllare i miei movimenti passai dal sesso spontaneo a quello meccanicamente provocato con la masturbazione attiva, fui dato per spacciato dai confessori, che rifiutarono di assolvermi, e retrogradato dai superiori che mi considerarono indegno di passare alle tappe successive della vita religiosa. Sull’orlo del baratro in cui mi vedevo precipitare da un momento all’altro, io stesso prima chiesi ardentemente nelle preghiere di poter morire, mettendo fine a quel martirio, nel contempo odiando il mio corpo come peso insopportabile e nemico invincibile, poi conclusi, costatata la sordità di un Dio che prescriveva leggi di cui non dava i mezzi per osservarle, che nell’impossibilità di viver castamente come avrei dovuto era meglio tagliare il nodo gordiano, uscire da quella trappola infernale e cercare salute fuori da quel mondo e da quelle mura, tornando a casa per rifarmi una vita.

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Una volta fuori, man mano che il corpo si rinvigoriva da solo lontano da quei confessori e medici, ci vollero tre anni di lotta per liberarmi definitivamente di quelle idee e pratiche che mi erano state inculcate giorno per giorno nell’isolamento e nel fanatismo di una religione cieca ed assurda, non molto diversa nella sua essenza da quella di fachiri ed altri fanatici autolesionisti e sanguinari. Questa era stata dunque la mia lotta tra bene e male, questa era stata la mia sconfitta fisica e psichica e questa era stata la vittoria su me stesso e su quel mondo in cui avrei dovuto viver felice e non infelicissimo e disperato. La mia sconfitta, intravista da mio padre ed ora ripresentata in una specie di esame di coscienza, mi aveva fatto comprendere il suo stato, un po’ sotto gli anni ’30, cioè capire chi sta sbandando, non vuole sbandare e finisce comunque per sbandare perché c’è qualcosa nel fisico e nella psiche che porta allo sbandamento. Non potevo quindi esser manicheo nei suoi come nei miei confronti, decretando : qui sta il bene e qui sta il male. Dalla comprensione bisognava ora passare alla compassione per chi si trovava in quella situazione e non riusciva a venirne fuori. Il passo però mi risultava ancora difficile. Compatire mio padre, come e perché ? Riordinando i ricordi, mi accorsi che avevo spinto indietro di cinque o sei anni la morte di nonno Daniele. Inconsciamente avevo voluto che non assistesse al crollo pauroso e vergognoso del figlio ? Ora costato che morì solo nel 1936 ; dunque prese in pieno volto quell’ondata di fango e di vergogna, lui che aveva passato tutta la vita a lavorare, sostentare ed arricchire la famiglia. Il dramma da immaginare non è quello di un figlio verso il padre, come nel caso mio, ma di un padre verso il figlio. Ebbe il nonno comprensione e compassione verso mio padre ? Giunse mai a perdonarlo ? Non credo. Troppa era la differenza fra la sua vita e quella del figlio, troppo profondo il baratro che separava i

valori in cui lui aveva creduto e per i quali aveva lavorato ed i disvalori nelle cui maglie si era irretito mio padre. Il nonno era un contadino e nel mondo contadino, specie quello durissimo e senza pietà di allora, erano poche le cose in cui si credeva e, appunto perché poche, erano irrinunciabili. Se non si gettava un chicco di grano, se si sfruttavano fino all’incredibile le parti degli animali, setole e piume comprese, se con quel che davano i campi, gli orti e perfino i margini delle strade si facevano vivande povere, ma saporite, non si era disposti ad ammettere che qualcuno gettasse al vento quello che per generazioni si era guadagnato, dando benessere e lustro alla famiglia. Il senso della famiglia era profondamente radicato e l’attaccamento ad essa era tenacissimo. Per salvaguardarla si era disposti a fare tutti i sacrifici e da essa ci si aspettava rispetto ed assistenza, se non proprio amore. La stessa emigrazione aveva come motivo la volontà di cercare a qualsiasi costo di salvarne l’onorabilità, anche se poi se ne creava un’altra oltre oceano. Il nonno credo che sapesse ben poco dei tre figli a New York. Io stesso ne ignoravo l’esistenza, eccetto per la figlia di zio Alfonso, Maria Felicita. In pratica il nonno dei quattro figli ne aveva come persi tre negli Stati Uniti ed uno morto in guerra. Del solo figlio rimasto, mio padre, doveva aspettarsi riconoscenza ed aiuto. Ed invece fu costretto ad assistere alla sua perdizione. Fosse morto, la morte avrebbe almeno risparmiato la vergogna ! Desiderio crudele di chi proprio da quel decadimento vide amareggiati gli ultimi anni della sua vita con liti delle due nuore che per scrollarselo di dosso ricorsero perfino in tribunale. E tutto questo, se non con l’assenso dell’unico figlio presente in paese, con il mutismo del debosciato che non aveva più nulla da dire. Certo, mia madre era furibonda per quanto accadeva, certo gli zii Zuccardi passavano dal disprezzo alle minacce, certo noi figli eravamo atterriti e svergognati, ma il nonno Daniele ? A cosa avrà pensato quando, sedendo sugli scalini di mastro Giovanni e 131


guardando con il solo occhio rimastogli, vedeva suo figlio tornare traballante dalle cantine, dove mia madre o noi l’avevamo scovato e trovato a giocare a carte, fumare le pestilenziali popolari ed ubriacarsi ? Cosa gli passava per la testa, a lui che aveva fama di gran lavoratore e ladro, quando sentiva le rimostranze e grida di mia madre che aveva scoperto nella cantina di Palomba la vescica di sugna o il pezzo di lardo, rubati in casa da mio padre e portati in cantina per pagarsi da bere ? Era ancora suo figlio quel relitto d’uomo o un mostro spuntato chi sa da che grotta per avvelenare gli ultimi giorni di una vita onorata ed invidiata dagli altri, che gli davano del ladro appunto per i suoi successi di contadino lavoratore ? In tanto disastro gli fu almeno risparmiata l’amarezza di vedere il figlio ergersi contro il padre, accusandolo di essere all’origine e responsabile dei propri misfatti, ciò che spesso accade quando un Caino qualsiasi accusa suo padre e sua madre di essere causa delle proprie scelleratezze, levando anche la mano parricida per colpire chi l’ha messo al mondo. E pretendono questi Caini fannulloni e sperperatori di togliere anche il pane dalla bocca di chi li ha nutriti, autoassolvendosi con il sofisma : « Se sono così è perché mi avete fatto così. Se sono debosciato la colpa è vostra per avermi messo al mondo. » Mio padre non giunse mai a tanto, non ricordo di averlo mai sentito accusare nonno Daniele. E questo torna a suo onore, anche se il dubbio mi sfiora che non commise quella nefandezza solamente perché così com’era ridotto ne era incapace. Probabilmente ci fu un primo periodo, verso il 1927-28, di scontri fra padre e figlio, di rimproveri, accuse e controaccuse, ma di esso non ricordo niente e voglio supporre e sperare che non ci sia stato. Dal 1930 in poi la discesa verso il baratro fu così rapida e irreversibile che vedo nonno Daniele in un suo cantuccio dimenticato e assente e mio padre nel suo pantano incapace di guardare oltre la cortina dei fumi dell’alcool

per accorgersi dell’esistenza del nonno. Date queste due reciproche assenze, almeno in apparenza e per quanto io potessi accorgermi di altre reazioni, non ci fu da parte del nonno né comprensione, né compassione e tanto meno perdono per mio padre. Ora che egli mi aveva indotto a ricordare la mia lotta e il mio fallimento giovanili, nell’incapacità di chi vedeva il bene e faceva il male, o meglio, di chi avrebbe voluto evitare il male per restare nel bene e per questo ricorreva , ma invano, a tutti i soccorritori divini ed umani che il sistema chiuso di verità belle e fatte e di comportamenti imposti gli offriva, per analogia mi trovavo disposto a comprenderlo e mi avviavo verso una posizione di compassionevole partecipazione. Non che l’avessi raggiunta, ma ne intravedevo la possibilità. Dovevo però superare altri ostacoli. Io non avevo avuto compassione per il mio corpo che mi tradiva, anzi lo odiavo e disprezzavo fino a desiderare la morte. Aveva avuto mio padre odio e disprezzo per se stesso per poter ora sperare ch’io avessi compassione di lui ? La comprensione è un fatto intellettuale e da me, che avevo studiando sviluppato le capacità intellettuali di capire, mio padre poteva aspettarsela e chiederla. Ma la compassione è altra cosa, non è solo intellettuale, suppone un coinvolgimento del compassionante nel compassionato, raggiungendo perfino una soglia comune di sentimenti, se non di affetti. Per un figlio Caino potrei avere comprensione, non certo compassione, almeno finché è vivo ed operante. Aver compassione significherebbe giustificarlo in parte ed ammettere che possa continuare ad agire cainescamente. No, se i valori tra padre e figlio non sono gli stessi, se tra un comportamento e l’altro non c’è niente in comune, bisogna avere il doloroso coraggio di ergere un muro verso, se non contro, quel delinquente. Ma mio padre è morto e, se è venuto a trovarmi, è affinché io vada oltre la comprensione di quel ch’è stato ed ha fatto. Stato e fatto non soltanto a sé e per sé, ma per mia madre e noi figli. C’è ancora troppo risentimento e coinvolgimento per assolvere, giacché la 132


compassione è il secondo passo verso l’assoluzione. E il perdono ? Per ora non se ne parla neppure. Certo, lo spettacolo che offriva era compassionevole. Anche se non si poteva parlare di delirium tremens, le mani gli tremavano ; anche se era ancora capace di osservazioni a volte acute e mordaci, come quella su zio Luigi che, se ci dava qualcosa, lo faceva solo quando era andata o stava per andare a male, per lo più taceva come chi non sapesse più comunicare e, se parlava, il suo discorso era spesso incoerente, con le idee e i ricordi che si affacciavano a lampi per essere subito riassorbiti da una notte oscura ; anche se non era in preda alla confabulazione, era perché non ne avevamo le prove, perché non si confidava o affidava solo al vino e al tabacco i suoi fantasmi e il suo delirio ; anche se le sue condizioni fisiche gli permettevano ancora di partecipare a qualche lavoro, come zappare la vigna, che per risparmiare qualche soldo zappava anche mia madre e zappettavamo mia sorella ed io, o spigolare a Selvapiana sui campi mietuti che mia madre e noi chini perlustravamo per riempire di spighe qualche grembiule le donne ed io la coppola di carusonere formiche nel sole di luglio-, la sua capacità lavorativa nel senso di un lavoro continuo, responsabile ed indipendente, era nulla ; anche se non era litigioso- gliene mancava la forza fisica e psichicanon aveva più nessun senso etico e pochissima capacità critica ; quanto alla libido, solo mia madre avrebbe potuto parlarne. Ma non lo fece mai, né noi bambini pensavamo a tali cose e questo aspetto del suo decadimento sarebbe baluginato solo decenni dopo nella mia memoria quando pensavo a come dovette passare quegli anni mia madre ancora giovane, praticamente vedova bianca, come le mogli lasciate sole dai mariti emigrati, lei che il marito l’aveva a portata di mano. Effetti psicofisici più gravi, che a noi sfuggivano, potevano essere costatati e curati solo da medici e specialisti che in paese non c’erano, né noi avevamo i mezzi di farli venire da fuori.

Una eventuale comprensione e compassione non trovava, quindi, alcun supporto in queste condizioni. Ed ora ? Ora dopo decenni sono costretto a supporre ed è difficile basare la compassione su supposizioni. C’erano, sì, gli aspetti esterni della degenerazione e ci sono ancora nella mia memoria, che mio padre non può aiutare : questo capitolo lo ignorava da vivo e credo lo ignori anche da morto. E allora ? Dato e non concesso che il fisico lo tradisse, dato e non concesso che questo tradimento concorresse a debilitare le sue forze di resistenza, resta lo scoglio insuperabile della sua responsabilità nel cedere ed abbandonarsi alla deboscia. Se lui, ciò facendo, non ebbe pietà di noi, perché adesso io dovrei aver pietà di lui ? Perché è venuto a chiedermela, direttamente o indirettamente che sia ? Richiesta ingrata da soddisfare e richiesta forse ancora più ingrata da non soddisfare. Mi ci voleva anche questo assillo ora nella vecchiaia, come se non ne avessi altri per conto mio. Mi accorgo che vigliaccamente cerco di eludere questo problema, mandando il can per l’aia, come se il differimento fosse una soluzione. Ho bisogno di una pausa per alleggerire almeno temporaneamente questa tensione. Domani chi sa, la notte porta consiglio e il sonno ed i sogni mi rifanno le forze, permettendomi ora come nel passato di riprendermi e salvarmi. Dico, quindi, a mio padre che devo mettere il naso fuori ed andare al Sablon nel quartiere degli antiquari per fare quattro chiacchiere, vedere gli ultimi arrivi dall’Africa o da altrove, seguire l’andamento del mercato e trovare forse qualche oggetto che mi tenti. Vuol venire con me ? Va bene, andremo con il tram e poi con la metropolitana, che per i vecchi sono gratis e per i morti, suppongo, pure. Detto, fatto. Alla stazione centrale , lasciando da parte gli edifici moderni che imbruttiscono quello che una volta era uno dei quartieri più belli della città, andiamo verso la piazza che miracolosamente si è in gran parte salvata. Ma ho fretta, indico a mio padre quel che c’è da ammirare, passando sui marciapiedi tra i tavolini dei caffè affollati 133


da turisti e perdigiorno, per imboccare sulla sinistra un vicoletto che sbocca su una piazzetta interna. Nello stretto passaggio, affiancato su un lato da un grande albergo e sull’altro da varie gallerie d’arte, m’infilo all’angolo a sinistra nella galleria di quello che io chiamo il mio antiquario. Breve scambio di saluti e passo in rassegna oggetto per oggetto esposti nelle vetrine o troneggianti sugli zoccoli. Dato che le mie visite sono quindicinali e a volte settimanali, le novità sono poche e su quelle fisso la mia attenzione, chiedendo informazioni e prezzi. Questa volta c’è un bel vaso a due bocche con manico e bombatura molto eleganti, ma le terrecotte sono fragili e si corre sempre il rischio di romperle. Meglio astenersi. Nella stanza successiva saluto la negra, un po’ segretaria, con cui scambio qualche battuta tra la confidenza e l’impertinenza che in parte accetta, in parte subisce, in parte si aspetta : io almeno con lei parlo, senza ignorarla come fanno i più, e questo le fa piacere. Poi passo davanti a terrecotte di scavi clandestini, una delle quali molto bella, un personaggio accoccolato con testa parlante e gioco perfetto delle membra. Mi limito ad ammirarlo perché da anni ho deciso di non comprare terrecotte di civiltà antiche, di cui bisognerebbe studiare in situ vari elementi, specie la stratigrafia delle tombe. Negli scavi clandestini ciò non si fa e così si distruggono intere civiltà, di cui si ignora quasi tutto. Quel che non compro io lo comprano, però, gli altri, musei compresi, e così il mio rifiuto si riduce a un gesto donchisciottesco. Per una scala ripidissima, raccomandando a mio padre di tenersi ben fermo al corrimano per non cadere- e lui sorride mormorando :: « I morti non cadono, sono già caduti « - salgo al primo piano dove l’antiquario espone pezzi di maggior rilievo e di arrivo recente per clienti selezionati. Mi comporto come se fossi a casa mia, giro le sculture per esaminarle da tutti i lati, apro le vetrine e porto alla luce verso la finestra le sculture per meglio apprezzarle. Alla fine molto deciso ne prendo una di una ventina di centimetri e me la metto in tasca, pronto a scendere a pianterreno. « Ma che

fai ? », mormora mio padre allarmato, pensando che voglia rubarla. « Non ti preoccupare, la metto in tasca per meglio tenermi scendendo ai corrimani con la destra e con la sinistra ». Lui non si è accorto che nel maneggiare l’oggetto l’ho capovolto per leggere sotto lo zoccolo prezzo ed indicazione etnografica. A pianterreno prendo posto in una poltrona di fronte alla scrivania dietro la quale è seduto l’antiquario. Nel frattempo ho tirato fuori dalla tasca la statuetta che tengo fra le mani. L’antiquario sa ed io so che questa è la prima mossa per un eventuale acquisto. Per smorzare un po’ la tensione del venditore e del compratore, comincio a chiacchierare chiedendo informazioni sulla situazione del mercato, arrivi, vendite, cataloghi, aste, mostre, prezzi eccetera. Poi per stuzzicarne la vanità ed il risentimento chiedo come mai i membri della giuria per la selezione degli oggetti da presentare alla recente fiera degli antiquari abbiano osato rifiutare alcuni suoi avori dichiarandoli falsi. « Chi ve lo ha detto ? » « Tutti ne parlano. » Sorpresa ed amarezza dell’antiquario di cui tento di calmare l’ira e ben disporlo nei miei confronti, dichiarando ch’è inaudito che i tre giurati, clienti abituali e in parte suoi discepoli, abbiano osato mettere in dubbio la sua competenza. Fra i tre lui ne isola uno che sarebbe all’origine di tutta la faccenda, mezzo sonato e comunque invidioso del successo della sua galleria, oltretutto a pochi metri da quella del fellone nello stesso vicoletto. Poi si parla della morosità generale del mercato, con poche vendite e svogliati acquirenti. Uno di questi che alla fiera aveva bloccato una scultura fortemente espressionista di donna incinta, il cui ventre si protendeva come un obice e che io avevo ammirata moltissimo, non si era fatto più vivo, quindi l’antiquario non teneva più conto dell’intenzione di acquisto e rimetteva in vendita l’oggetto. « Da ricuperare ? « « No, no, è rimasto quì da me in attesa del pagamento. » Avessi maggiore disponibilità finanziaria, sarebbe il momento di sostituirmi al mancato acquirente. Ma le mie finanze, più che sgonfie, sono bloccate da spiacevoli storie familiari. Ad ogni 134


modo questo è il momento buono per tentare almeno un piccolo acquisto. Sollevo quindi la statuetta che ho in mano e ne chiedo il prezzo. « Cosa c’è scritto sotto lo zoccolo ? « « Non ve lo dico. » Lui ha una memoria di ferro e spara : « Duemila euri », esattamente il prezzo segnato. Io avevo già preparata la replica con la controfferta : « Cinquecento « . « Come cinquecento ? « « Sì, sì, cinquecento e per avere dove poggiare la scultura questo dischetto Tutsi del Ruanda. » « Eh ! no, questo no. » « Sì, sì, come regalo di Natale. » Bofonchiando perché così lo mando in miseria, finisce per accettare ed io passo dalla segretaria per farmi imballare i due oggetti. Mentre lei maneggia la statuetta con i seni enormi, ridendo le chiedo se son grandi come quelli della figlia. Non gradisce molto il richiamo, benché altre volte sia stata proprio lei a parlarmi dei seni sproporzionati della figlia, che avevo inoltre potuto ammirare prorompenti accanto alla madre che presentava un po’ impacciata quella meraviglia di frutto esotico che, troppo rapidamente sviluppata, studiava male, specie la geografia. Ora però si era ripresa e aveva messo la testa a posto. « Ha un amico ? « « Ora, sì, lo ha. » « Allora ha già assaggiato ? « « No, no, non quello che pensi. » Mio padre aveva assistito a tutti questi maneggi un po’ interessato, un po’ sconcertato. Io l’avevo lasciato da parte ripromettendomi di spiegargli di più, se non proprio tutto, più tardi durante il ritorno o a casa. Durante il tragitto in metropolitana e poi in tram lo lasciai silenzioso seduto accanto a me e per occupare il suo posto al finestrino avevo messo sul sedile il pacchetto con la scultura. Qualcuno avrebbe voluto occuparlo, ma, visto il pacchetto, scuotendo la testa se ne astenne. Io mica potevo spiegargli che il posto era occupato da uno spirito, con il quale chiacchieravo di tanto in tanto. Al vedermi muovere le labbra rivolto verso un assente qualcuno pensò che fossi mezzo matto, parlando da solo ; quindi era meglio tenersi a debita distanza. Sui sedili dall’altro lato del corridoio avevo di sguincio due bambine di spalle e la madre sul

sedile esterno con un’altra bambina che aveva la testa acconciata a treccine ritorte che formavano una specie di cactus. La madre aveva i tratti molto fini per nulla gonfi, la pelle serica e liscia che dava la sensazione di essere leggermente oleosa al tatto e morbidissima. Nera aveva calze nere che le serravano le gambe molto tornite, appena coperte da un gonnellino di jeans ridottissimo che lasciava libere le cosce e si sarebbe certamente intravisto l’inguine se non avesse avuto una borsa sulle gambe che faceva da paravento. Chiacchierava assidua al telefonino : cercai di capire in che lingua, ma il sordo rullio della metro non lo permise. Conclusi che, benché non molto alta, dovesse essere di una etnia di pastori e non di agricoltori. Se avesse squadernato le cosce, l’avrebbe mostrata escissa o no ? Cosa ? Ma la solita cosa che dovunque e sempre sollecitava la mia fantasia. Nel tram, poco dopo che mi ero accomodato nel senso della marcia controllando chi saliva dalla porta anteriore della vettura, attirò la mia attenzione una coppia, ambedue poco sopra la trentina. Lui era signorile, ben vestito con cappotto di stoffa buona e taglio elegante, lei era una di quelle che marciano spavalde, confortate dal loro ticchettio sul marciapiede. Calzava, infatti, stivaletti non eccessivamente a punta, con mezzitacchi neri contro il marrone rossiccio delle tomaie. Dagli stivaletti venivano fuori e su le gambe lunghe che cominciavano rastremate in basso per poi prendere pieno e tornito sviluppo lungo le cosce molto sviluppate, ben servite a questo effetto da pantaloni di stoffa jeans alquanto rigida e tuttavia galbante, che stringeva aderentissima le salienti rotondità così che la colonnarità s’imponeva di primo acchito quando lo sguardo risaliva fino al bacino che poggiava su di esse come un capitello non dorico, ma ionico se coperto e forse corinzio se nudo e fiorito di ulteriori grazie come foglie di acanto immaginarie. Un corpetto sobrio, ma elegante giungeva appena sotto l’ombelico, ricoprendo l’attacco della cintura dei pantaloni. Il volto, appena appena sciupato come 135


fiore dopo l’acquata, sapeva di sapere, di aver saputo e di potere ancora intensamente sapere il piacere. Il forte di quella donna, però, non era la testa o i seni, ma la silhouette, snella senza esserlo troppo, florida senza eccessi, insomma piena e contenuta. Sicura di questi effetti non cercò neanche di sedersi, preferendo restare in piedi : seduto il suo corpo avrebbe perso molto della sua forza di attrazione. Chiacchierando di tanto in tanto con il marito, non si degnò una sola volta di abbassare lo sguardo sul popolo degli dei minori ed evolveva sapientemente presentandosi ora di spalle-e quì le natiche suonavano a pieni e misurati battenti né alte, né basse, ma ben centrate come bilanciere del tutto-, ora di fronte-e qui il rigonfio delle cosce cessava appena sotto l’inguine, lasciando due centimetri di vuoto, su cui piombava la collina del pube ben evidenziato con misura e che sembrava il pulsante che avrebbe potuto mettere in marcia chi sa quale misterioso e possente meccanismo-. Ebbi appena il tempo di esaminare questa incarnazione di toscana bellezza rinascimentale con una punta di patita esternazione fin di secolo nel volto, perché dopo due fermate la coppia scese. Quel tipo di persone s’incontrava raramente nei trasporti pubblici, circolando in genere in auto. Quella volta, quindi, ebbi fortuna. Si accorse mio padre di questo mio vagheggiare persone incontrate per caso ? Forse sì, perché a sua volta notò : » Da noi neanche le contadinotte in gonnella corta e corpetto a trine che la domenica e le feste venivano in paese, dondolandosi per le strade petrose, avevano una bellezza che lontanamente possa competere con queste nordiche cittadine. » « Era la natura, aggiunsi, ma mancava l’arte. » « Perché l’arte consiste in questo ? « Non ebbi voglia d’intavolare un discorso di estetica che ci avrebbe portati lontano e non so con quale possibilità di comprensione da parte di mio padre. Mi riservai, però, di tornare sull’argomento per via indiretta una volta a casa, riesaminando i due oggetti che avevo acquistato.

La sottocoppa tutsi era un prodotto di finissimo artigianato, affidato a un intreccio di tre giri di filo di rafia gialla, quadrettati a scacchiera da un filo nero e che facevano da cornice o bordo, ai quali succedeva un intreccio più minuto di rafia gialla che saliva per cerchi concentrici strettissimi verso una leggera bombatura al centro. A qualche distanza dall’umbone un cerchio continuo di rafia nera chiudeva quello che poteva anche essere un capezzolo. Da esso partivano due sezioni contrapposte di cerchio a fiammelle nere che volavano verso la circonferenza dando l’impressione di una girandola infiammata, come nei fuochi di artificio. Il tutto era, quindi, rotatorio con moto dal centro alla circonferenza che frenava e chiudeva questa fuga di fiammelle. L’intreccio era così minuto e serrato da rendere l’oggetto impermeabile, quasi liscio dal recto e leggermente rugoso dal verso. Sul recto dava l’impressione di una certa sericità di pelle, che avevo sentito sotto i polpastrelli carezzando una o due donne di mia conoscenza. Ma quella era natura e questa era artigianato d’arte, cioè arte minore in cui prevalgono l’abilità tecnica e la funzionalità. La statuetta femminile, invece, pur dovuta all’abilità tecnica, quasi ne prescindeva, cioè la supponeva, ma non si limitava ad essa. La ricerca dell’artista era più complessa e più profonda, cercando di raggiungere un significato più alto e più generale. Il corpo umano si prestava e si presta particolarmente a questi scopi. E’ chiaro che quello di un animale potrebbe offrire altrettanta complessità di ricerca. La differenza sta nel fatto che l’artista- salvi casi rari- sente diversamente il corpo umano da quello animale e che il fruitore fa altrettanto. La mammella di una donna non è quella di una mucca, il volto di un uomo non è quello di un cavallo, anche se materialmente essi possono presentare ad un artista le stesse difficoltà tecniche con analoghe riuscite a livello riproduzione ed interpretazione. In genere, però, un artista è coinvolto nel seno di una donna con ben altra passione che in quello di una mucca. E lo stesso vale per il fruitore. 136


Ci sono stati, quindi, animalisti molto apprezzati e celebri e ci sono fruitori che vanno in brodo di giuggiole più di fronte a una scimmietta che a un bambino. Ci sono perfino artisti e fruitori che possono perdersi davanti a una composizione di bottiglie o sassi. Ma in tal caso bisogna fare tutto un discorso di metafisica dell’oggetto, calando nelle bottiglie e nei sassi preoccupazioni e visioni altrimenti umane. Cioè l’uomo, come l’artista, è capace di assumere il mondo animale, vegetale o inanimato a significati umani, trasfigurandoli e dando ad essi una valenza che normalmente non hanno. Le grandi civiltà, però, non sono quelle degli ossi di seppia, delle bottiglie e dei cagnolini. A questo punto mi accorsi che stavo deragliando : mio padre non mi seguiva ed io probabilmente sragionavo. Presi, quindi, la statuetta in mano, la girai e rigirai allontanandola e avvicinandola, con una lente d’ingrandimento volli perfino analizzare la patina di certe parti e la testura del legno. Scorrendo sulla zona del bacino, magnificai sul davanti la vulva : ridotta alle sole grandi labbra indicava la pratica dell’escissione in quel gruppo etnico o era la semplificazione scultorea dell’organo ? Sul retro le natiche erano praticamente assenti : lo scultore le aveva sacrificate a un appiattimento e a una forzatura longitudinale del tutto, scavando un grosso solco al centro che iniziava alla base del collo e scendeva fino all’inguine, tagliato orizzontalmente da un alto incavo che era quello di una cintura e dai polsi delle mani a moncherino. All’inguine sembrava esserci un leggero affossamento, che poteva essere l’ano o semplicemente una irregolarità della superficie del legno, tagliato grossolanamente dal sotto delle mammelle ai piedi, anch’essi due moncherini. Nell’ano spesso si mettevano materie magiche che denotavano o aumentavano il carattere feticistico di molte sculture. Le proporzioni erano quelle canoniche africane : un terzo per la testa, un terzo per il tronco o busto, un terzo per le gambe. Il colore chiaro del legno per gambe, bacino e ventre indicava che la statuetta

era stata coperta da un tessuto su queste parti, mentre la patina scura e oleata del resto accusava maneggiamento continuo e forse venerazione di testa e mammelle. Il terzo superiore era a sua volta suddiviso in tre, collo poderoso, volto accorciato con boccuccia, naso ed occhi assenti, due bande laterali di capelli e fronte di quasi corruccio ridotta a una striscia aggettante che continuava sul retro con capigliatura corta tagliata a raso sul collo ed alla sommità con casco e cercine continuo a rilievo alla base, il quale reggeva, conteneva e delimitava la capigliatura compatta. La severità era sacrale e scultorea, quasi imbronciata e minacciosa. Ma quello che saltava agli occhi, appena vista la statuetta, erano le mammelle iperdimensionali, che veri obici sparavano in avanti protese per ben sette centimetri, sode, piene, erette e turgide come falli. Era una voluta forzatura simbolica di questi organi, dando alla loro valenza sessuale e nutrizionale un impatto volumetrico, vera caratteristica della scultura. Del resto, l’avevo covata per mesi e poi acquistata decisissimo proprio per questo. La sproporzione non aveva nulla di grottesco ed era molto più seria di molte sculture antiche di satiri che portavano a spasso come un carriaggio il loro fallo enorme. L’antiquario aveva detto che si trattava di una bambola. Cercai affannosamente in tutti i libri se vi fosse qualcosa di simile nei musei e collezioni private, con risultato negativo. La ricerca fu comunque proficua in quanto, rivedendo le grandi statue e maschere Baga, potei risentirne la sacrale maestà. La differenza di formato, 23 contro 120-140 centimetri, non aveva importanza perché nel piccolo come nel grande l’artista africano era riuscito a incarnare la grandiosità delle manifestazioni degli spiriti della fecondazione e della nutrizione. Anche le grandi maschere apparendo si mostravano nude fino ai seni, il resto era coperto da tessuti e rafia, un po’ come nella piccola scultura. Il diverso impatto dovuto alle diverse dimensioni era stato in pratica reso identico, sollevando in erezione le mammelle 137


nella piccola che nelle grandi pendevano appiattite contro il torace, nota realistica questa di un costume delle donne dalle grandi mammelle schiacciate da una cintura contro il petto per salvaguardarle durante il lavoro, ma anche per quasi addomesticarle. No, non era una bambola, ma la raffigurazione in piccolo di una statua raffigurante la fecondità. Ora si poneva il problema della sproporzione e dell’eccesso in genere, non solo in arte, ma anche nella vita. Bastava vedere una donna lungamente manipolarsi o farsi manipolare i seni e, se africana, panificarli quasi con olio e laterite, dando loro lucentezza e consistenza, per capire che l’eccesso poteva essere non solo quantitativo, ma anche tattile e temporale come una ricerca pignevole o una sequenza musicale. A cadere nell’eccesso si era portati da forze invisibili e superiori, si era costretti da una specie di organicità, che si era ereditata e a cui non si poteva resistere ? A me le sculture africane servivano spesso di occasione per scrivere poesie, in altri casi per dar libero sfogo ai miei fantasmi, dopo essermi però documentato su natura e funzione della scultura con relativi riti, miti e costumi nell’etnia corrispondente. Ma col passare degli anni mi ero accorto che la stessa funzione esercitavano le donne in carne ed ossa e i sogni. Farneticavo e vivevo mentalmente nell’eccesso. Era l’eccessivo, il non sopportabile la linfa segreta dell’arte nel farla e nel fruirne ? Stavo confondendo arte e vita, biografia ed opera. L’arte e l’opera non conoscono remore e limiti, possono tutto permettersi, la vita e la biografia no. Eppure con lo sguardo e la fantasia nel tram e dall’antiquario avevo cercato e snidato proprio l’eccessivo. Le cosce iperlunghe e le mammelle straripanti facevano buon gioco e concorrevano ad attizzare la mia creatività e la mia sensualità, sovrapponendosi anche al corpo di una donna amata , della quale forzavo le forme ben lontane da quegli eccessi. E mio padre in tutto questo che c’entrava ?

Ero uscito di casa e corso al Sablon per calmare la tensione ed ora ne tornavo diversamente, ma altrettanto teso, però il diversivo mi era servito perché la natura della seconda tensione era del tutto diversa dalla prima, dolorosa questa, gioiosa quella. Ma risalendo alle mie radici, dovevo pur riconoscere che la fronzuta ricchezza dell’albero della mia vita in questa sua ultima fase era dovuta anche alla miseria e alla sofferenza della mia infanzia e alla sregolatezza della diseducazione sessuale della giovinezza in collegio. Cioè il mio io di oggi, che sembrava tanto diverso dal mio io dell’avantieri, era in buona parte lo stesso, almeno in potenza. E se ero orgoglioso- e lo ero- del mio oggi, dovevo pur esserlo del mio passato, non dovevo cioè vergognarmi, come avevo fatto, di mio padre debosciato e dei miei religiosi aguzzini, perché sia lui che loro erano probabilmente stati frutto di un dato ambiente e di un dato sistema. A ciò pensando, ricascavo in pieno nella problematica della compassione. Bisognava ora decidersi a risolverla, tanto più che mio padre era lì, aspettando da me una risposta. Non potevo più vivere tranquillo in Brabante senza aver risolto il mio dramma in Irpinia, dove nel frattempo maturava la tragedia familiare e nazionale. Il nonno era morto nel ’36 e noi avevamo dovuto smettere di fare i negozianti per fallimento. I locali del negozio erano stati affittati ad Alfredo, da fabbroferraio passato a caffettiere. In seguito, partito costui nel ’35 per l’Etiopia, i locali restarono sfitti per qualche tempo, poi con le aumentate ristrettezze economiche, dovemmo affittare la casa di sotto a Zaccaria Covino, passando noi nel locale dell’ex negozio, diviso in due da una transenna di legno per ricavare un cucinino all’ingresso e una camera da letto verso la finestra che dava sul tetto della casa di sotto. Ma a quell’epoca io ero già via in collegio. Mio padre era in tali condizioni fisiche e la sua deboscia talmente avanzata che mia madre e zio Luigi mi raccomandarono più volte di non parlarne in collegio, dove non mi avrebbero ammesso se avessero saputo da che famiglia provenivo. Dovevo dire che mio 138


padre era malato, motivo per cui in collegio mi aveva accompagnato lo zio, che s’incaricava pure di pagare la retta mensile. Quanti sforzi ci vollero per farmi preparare il corredo, cioè la biancheria da portare e la divisa, cioè i due abiti talari da mastro Rocco ! Ancora maggiori furono gli sforzi di mia madre per sbarcare il lunario, anche se la famiglia era ormai ridotta a tre membri, mio padre, mia madre e mia sorella, che era tornata in paese dopo l’anno passato a Napoli a fare la servetta da zia Maria Zuccardi. Io e mio fratello Celestino eravamo a Lettere nell’educandato dei Redentoristi, costretti prima lui e poi io a dissimulare, a mentire ed in definitiva a rinnegare nostro padre, cancellato dalla memoria dopo essere stato cancellato dall’assenza delle sue funzioni paterne.

segnati per la Patria : che salutò la Vittoria di sangue tinta : che sventolò ancora quando l’Uomo della Provvidenza , in un’ora lutulenta, valorizzò dall’alma Roma il sangue sparso ! Fate che mai si ammaini per questa combattuta Italia in gloriosa marcia » eccetera eccetera. Quante maiuscole e che dannunzianesimo riciclato ! Io partecipai da baldanzoso caposquadra dei balilla alla raccolta del ferro ed altri metalli, ammucchiando vecchie pentole e caccavelle, ferri smessi di asini e cavalli, fildiferro perso sotto qualche mucchio di terra, zappe rotte ed accette spaccate. Per l’oro il discorso era diverso : la prima offerta fu quella delle fedi matrimoniali. Tutti furono sollecitati a darle alla patria, ricevendo in cambio un anello di acciaio. Le offrirono anche mio padre e mia madre ? Non risulta, né io mi ricordo di averle mai viste alle loro dita. Probabilmente erano già state impegnate o vendute per sopravvivere. Questo non ricordo è tanto più singolare in quanto ho memoria precisa di altri ornamenti, come quel cerchietto d’oro che portava all’orecchio un certo Adamo, contadino un po’ all’antica. Tra gli offerenti non figurano gli zii Zuccardi : avarizia o poco coinvolgimento nell’entusiasmo fascista ? Probabilmente i due. Solo la brasiliana zia Sofia figura con due anelli, il suo e quello di zio Emilio. I notabili del paese vi sono tutti, a cominciare dall’arciprete che offrì l’anello pastorale. I signori non si contentarono degli anelli, ma aggiunsero altri oggetti preziosi, orecchini, ciondoli, spille, braccialetti, bottoni da polso, pennini, per non parlare di sterline e dollari. Donna Lucietta Molinari, segretaria del Fascio femminile, offrì al posto di padre e madre, offrirono il segretario comunale Gargani e tutti gli insegnanti, tra i quali spicca il cavaliere e seniore Ettore Sarni, offrirono i De Sanctis, compresa Concettina, appena laureata, offrirono tutti gli altri Grassi e parenti. Presenti e messi in evidenza i miei compagni maschi e femmine : caposquadra Eduardo Di Pietro, balilla Francesco De Rogatis, balilla Salvatore Strazza, balilla Generoso Ricciardi, balilla Francesco

Nel paese ferveva intanto la vita fascista. La guerra d’Etiopia e le sanzioni della Società delle Nazioni contro l’Italia erano concorse a rinsaldare il paese attorno al Duce. Sintomatico quel che avvenne nel novembre 1935 con la raccolta del ferro e di altri metalli per farne cannoni e carri armati e con l’offerta dell’oro alla patria per finanziare gli armamenti e la guerra. Si è già detto che il fascismo era sorto e prosperava perché andava a braccetto con il nazionalismo. Ai richiami del sentimento patriottico nessuno fu sordo, anzi tutti fecero a gara nel darne testimonianza come meglio potevano. Da uno stralcio del Corriere dell’Irpinia del 9 novembre ’35 traggo e ricostruisco gli elementi di quell’entusiasmo nazionale a Morra come altrove. Dovunque si festeggiavano le vittorie dei valorosi legionari in Etiopia, dovunque si richiamava la gloriosa prima guerra mondiale, dovunque preti e podestà in testa e gli altri dietro con bande e fanfare marciavano verso i monumenti ai caduti per deporre corone di fiori e fare discorsi altisonanti del tipo « Il tricolore è quello che sventolò nelle grigie e paurose giornate della Grande Guerra : che spiritualmente vi accompagnò quando superbi ascendevate le vette dei confini da Dio 139


Capozza, figlio della lupa Claudio Gennari, piccola italiana Onorina Ricciardi, piccola italiana Marietta De Luca, piccola italiana Maria Di Sabato e, per finire in gloria, piccola italiana Sighilde Fienillo, la cui zia Vincenzina, quella del celebre processo, offrì tra l’altro perfino una montatura di occhiali. Leggere questi nomi è come fare una visita al cimitero. Mi sono proposto di farla e potendo la farò, leggendo sulle croci e sulle lapidi i nomi degli scomparsi di quattro generazioni, alcuni presenti anche con foto sulle targhette smaltate, altro segno dei successivi cambiamenti, non so se in meglio rispetto alle nude croci del passato. E’ un tuffo all’indietro simile a quello che sto facendo ora ricordando. I nomi dei trapassati, accostati per famiglia, mi servirebbero a ricordare con più efficacia ed evidenza gli anni e l’ambiente dell’infanzia, respinta e quasi cancellata per decenni. Ritroverò da qualche parte anche l’album fotografico con borchie e fermaglio di ottone, uno dei pochi soprammobili che faceva bella mostra di sé sul cassettone accanto alle due grandi conchiglie marine ? Quell’album, come lo ricordo, stava già subendo gli effetti della catastrofe familiare. Molti ovali al centro degli spessi fogli erano vuoti : le foto che avrebbero dovuto contenere o non erano mai state fatte o erano scomparse, foto di famiglia con mio padre e mia madre, i nonni, gli zii e forse noi piccoli, man mano che crescevamo. Erano state lacerate e buttate via per dispetto contro anni infelici da cancellare come se non fossero mai esistiti ? Io ricordavo esattamente le pose davanti al cavalletto del fotografo ambulante alla festa di san Rocco, con la testa del virtuoso che entrava ed usciva dall’involucro nero dove schermato metteva a fuoco l’obiettivo dell’ingombrante e traballante marchingegno. Ogni volta che mia moglie tira fuori le foto della sua famiglia che documentano personaggi e vicende illustri di più generazioni, specie del ramo viennese della nonna materna, quello che m’interessa è vedere uomini e donne, edifici e luoghi nel corso di un secolo tra

‘800 e ‘900, alcuni noti, altri ignoti e, guardandoli, rivivere in quei luoghi e tra quei personaggi. Il fatto che essi fossero perfino celebri per sapere, ricchezza e mondanità tra Austria, Ungheria, Germania, Olanda ed Inghilterra solletica non tanto il mio orgoglio quanto suscita la mia curiosità, cercando di capire quanto di quel passato è forse ancora presente in lei e nei miei figli e nipoti. Quelle foto hanno certo anche valore storico per la loro qualità, eseguite dai migliori fotografi dell’epoca con i migliori apparecchi. Questo, però, m’interessa solo in sottordine e metterle a fianco di quelle della mia famiglia, se si fossero salvate, anche se eseguite alla men peggio da fotografi ambulanti, servirebbe appunto per contrasto a dar più luce ad ambedue le serie. Scomparso l’album delle foto, ingoiati come dai flutti di un cataclisma altri relitti del mio passato, salveranno i nipoti almeno il settimanino del corredo di mia madre e la scrivania di mio padre, che mia sorella Olga era riuscita a religiosamente conservare ? Quale è la parte che l’assenza recita nella memoria, nella comprensione e nella compassione ? Assenza come tale ed assenze puntuali. Mio padre fu assente durante la mia infanzia ed è stato respinto e rinnegato dopo. Anch’io, però, fui assente in momenti capitali della sua vita, la morte ed i funerali. D’accordo, queste assenze non dipesero dalla mia volontà, ma restano comunque come assenze. Il rapporto fra presenza ed assenza è problematico e si presta spesso a sofismi. Già organicamente, come mi confessò una donna, un fallo troppo grande nella vagina, cioè troppo presente, causa l’impossibilità nella donna di muoversi ed ostacola la vagina nel dilatarsi-restringersi, causa cioè un’assenza di risposta ; oppure, se troppo piccolo o per eiaculazione precoce troppo brevemente in essa, induce la donna, come dovettero confessarmi altre due, a cercare altrove l’assente, nonostante i rimorsi della prima, moglie

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teoricamente fedele, o le crisi di coscienza della seconda, pissipissi cattolica. Spostando il discorso su un altro piano, chi facesse voto di non perdere mai tempo, come fece un santo Dottore della chiesa nel ‘700, in realtà ridurrebbe questo suo fanatismo di occupazionepresenza a un meccanico voler fare e pregare e, se è scrittore come quel santo, le sue opere risulterebbero in un accumulo di citazioni argomento per argomento senza lasciar spazio a originalità e creatività. Benedetto allora l’ozio, il vacare dei latini, per avere nell’esser liberi da negozi il tempo di meditare e maturare qualcosa di bello e di vero, qualcosa di autentico. L’assenza di mio padre nelle sue funzioni affettive verso mia madre e noi e, se non come nutricatore, almeno come non distruttore dei beni di famiglia, in realtà era una presenza eccessiva perché tutto il tempo eravamo alla ricerca di lui, materialmente e spiritualmente. Fosse stato un marito e padre normale, avesse svolto queste sue funzioni come tanti altri, avremmo pensato meno a lui, lo avremmo dato per scontato. Il che non fu. Paradosso anche questo, se non sofisma. L’eccesso in arte –l’arte è sempre eccessiva- è regolato dalla forma, gli eccessi nella vita sono regolati dagli usi e costumi e dall’etica o morale. Se però l’eccesso in arte può portare alla distruzione o mancanza della forma, se gli eccessi nella vita possono portare alla distruzione degli usi e costumi e dell’etica, allora ecco il paradosso di chi troppo vuole e nulla stringe. E quì si tratta ancora di volere, mentre nel caso di mio padre si trattava di non volere, di lasciarsi andare. Lasciamo da parte queste considerazioni e sottigliezze, forse non sempre condivisibili, e torniamo alla malattia e morte e ai funerali di mio padre per i quali l’interrogativo è il seguente : se avessi potuto, se avessi saputo in tempo, se avessi avuto i soldi per il viaggio, mi sarei precipitato a casa da Catanzaro, incurante di qualsiasi

ostacolo ? O l’impossibilità materiale giungeva al momento opportuno per giustificare e nascondere l’avversione a farlo o almeno il desiderio inconfessato di non farlo perché già da tempo mio padre l’avevo rinnegato e rigettato ? Sarebbe servita a qualcosa la mia presenza, a lui, a me, alla famiglia, al paese ? Non ho la coscienza tranquilla a questo soggetto, ieri come oggi, anche perché questa mia non partecipazione si verificò altre due volte, per i funerali di mia madre e di mio fratello. Anche quì la difficoltà materiale dello spostamento si abbinò alla convinzione che la mia presenza avesse poco significato perché mia madre l’avevo vista a lungo poche settimane prima sul letto di moribonda e avevo potuto parlarle e separarmi da lei, consapevoli lei ed io che quella era l’ultima volta ; ed anche da mio fratello mi ero separato qualche settimana prima, consapevoli ambedue della prossima fine, cui la penultima volta reagì e l’ultima neppure, essendo già in coma. Nel caso di mia madre mio cognato mi fece delle rimostranze perché il paese non avrebbe capito la mia assenza ai funerali, e nel caso di mio fratello le figlie conservarono un rancore verso di me, non perché il pubblico- eravamo a Roma- non avrebbe capito, ma perché la famiglia non poteva accettare quella che sembrava una defezione. E se nel foro interno mi giustificai dicendo che per me contavano solo mia madre e mio fratello, non il paese e la famiglia, devo ammettere che ebbi torto, onde il mio rimorso. Nel caso di mio padre nessuno mi rimproverò e nessuno fece delle rimostranze ed io ora sono quì a farmele da solo. Per la malattia, persi l’ultima occasione di vederlo e fargli vedere diversamente me e lui : sul letto di morte si aprono gli occhi a tante cose che non si sono viste o lo sono state diversamente. Basta uno sguardo, una stretta di mano, una carezza e l’immagine fissa di un rapporto cambia sostanzialmente. Non per nulla si parla di ultima verità. Per la morte, veder morire una persona cara è anche un momento di suprema verità : quell’immagine difficilmente si cancellerà dalla memoria. 141


Altro che album di foto ! Mio fratello nel comunicarmi la morte di nostro padre notò che aveva fatto la barba e aiutato a vestire il cadavere che sarebbe stato poi esposto per alcune ore nella bara aperta durante le visite di condoglianza. Quei gesti di pietas avranno certamente influito sul suo rapporto con mio padre, verso il quale poteva nutrire gli stessi sentimenti e risentimenti miei. I funerali poi, benché certamente modesti, date le condizioni di quasi povertà della famiglia, erano l’ultimo omaggio reso al morto, a prescindere da meriti o demeriti, e se la folla accorsa era in proporzione più con l’importanza e notorietà della famiglia che con il morto, erano pur sempre un atto, non dico di omaggio, ma di pietà o di convenienza verso la famiglia. La non partecipazione di zio Giovanni alla visita e ai funerali fu considerata un affronto al morto e alla famiglia e il rancore per tale atteggiamento restò vivace presso i miei e presso di me, che mi limitai a scuotere le spalle alla notizia della morte dello zio. Questi atti di culto servono a mitigare il dolore e a facilitare il lutto per la perdita di una persona cara ; nel caso mio mancando, hanno contribuito ad una non risoluzione del dolore e del lutto. E se ora mio padre mi visita da morto è perché anche lui non trova pace finché non riceva da parte mia queste estreme testimonianze di riverenza, se non di affetto, per il morto. Allora ha egli diritto alla mia compassione ? Penso di sì, anche se per ora la esperimento nel significato etimologico di com-passione. Sto patendo con lui, più che per lui e lui sta patendo con me, più che per sé. Questo è un fatto nuovo che non ci fu quando era in vita, né dopo nel ricordo quando era morto ed è dovuto a una maturazione, certamente in me e forse in lui. « Perché dici forse ?, mi fece notare mio padre. Se così fosse, non sarei venuto a trovarti ». « Sì, sì, sei venuto, ma da morto. » « Sarò anche morto, ma finché vivo nel tuo ricordo, sono vivo e capace di sviluppo, come lo sono i ricordi nella tua memoria. Li stai modificando, me ne accorgo, e li modifichi perché stai maturando ed

io maturo con te. » « Lo ammetto, li sto modificando perché non posso più vivere senza farlo. Patiamo, dunque, insieme. Se la compassione fosse solo da parte mia e non ti coinvolgesse, non saprei cosa farmene, anzi la rigetterei come gesto unilaterale ed egoistico, che contenterebbe me, lasciando invariato il resto. Sarebbe come dare l’elemosina ad un povero, egoisticamente mettendosi la coscienza in pace e lasciando il povero nella sua povertà. Ora io ho bisogno di modificarti, di renderti compassionevolmente attivo. Lo fosti in vita ? Questo dubbio va risolto, per avere di te un’immagine quasi paterna, non più soltanto negativa. » Stavo, dunque, inoculando in questa immagine sentimenti di cui io avevo bisogno. La ricerca della verità, una verità qualsiasi, continuava. L’avrei mai scoperta quella verità ? E scoperta mi avrebbe messo il cuore in pace ? Sto ancora sbagliando : ci avrebbe messi i cuori in pace ? « Ho detto e lo confermo che per un figlio Caino vivo arriverei alla comprensione, ma non alla compassione, comprendendo questa una certa complicità. Per mio padre morto sono arrivato alla compassione, supponendo, al di là dell’esistenza di tale sentimento anche in lui durante la vita per noi figli e per nostra madre, una sua sofferenza ed in parte non responsabilità per malattia ignota a lui ed ai medici e quindi inguaribile. Resta, però, lo scoglio dell’assoluzione e del perdono e per superarlo ho bisogno di scoprire la verità, direttamente o indirettamente. Senza di essa non son disposto a perdonare mio padre, anche ora nel ricordo, anche ora che mi è apparso a chiedermelo. Mentre mi avvolgevo, liberavo, riavvolgevo e liberavo di nuovo da questa ragnatela di ricordi e riflessioni senza venirne ancora a capo, notai che mio padre si era fermato nel soggiorno davanti a due ritratti di donne e li contemplava come se volesse, esaminandoli, cogliere la personalità di quelle donne, scoprendo la molla di una verità intima che le reggeva e che l’artista, dipingendole, aveva 142


cercato di portare alla luce. Mi chiese chi fosse la prima a sinistra, ritratta a mezzo busto con un vestito rosa scollato che mostrava l’attacco e, poi sotto, il rigonfio dei seni. Dal rosa del vestito si passava al rosa incarnato del petto, collo e volto leggermente di tre quarti, di cui risaltavano la bocca rossa a labbra sottili serrate, il naso diritto, gli occhi scuri a mandorla e l’orecchio sinistro. L’ovale perfetto era limitato in basso dal mento appuntito, in alto dai capelli neri e per il resto dal profilo netto contro il fondo nero del quadro. I punti parlanti del personaggio erano la bocca riservata e non invitante, lo sguardo fisso e penetrante che voleva comprendere e l’orecchio all’erta che ascoltava. C’era dunque qualcuno che dialogava o cercava di dialogare con la donna, che però l’esaminava

La composizione è un accumulo e giustapposizione di grasse pennellate, tra cui dominano, oltre il fresco incarnato del volto, il nero e il verde che dallo sfondo invade anche il nero dei capelli e il rosa del volto. « E questa la conosci ? « « Sì, è una zia di mia moglie. » « Sembra molto giovane. » « Lo è nonostante i suoi 36 anni : essere e sentirsi giovane anche nella maturità e nella vecchiaia era un suo pallino. Bisognava, quindi, non chiamarla zia e considerarla cugina, quasi fosse nostra coetanea.. Nonostante avesse subìto tutte le traversie della persecuzione nazista degli ebrei e solo all’ultimo momento fosse riuscita a salvarsi con la madre scappando da Vienna a Londra, conservava una certa naività giovanile. In vari autoritratti non era tanto interessata dal suo rapporto con il mondo quanto dall’introspezione, facendo i conti in bene e in male con se stessa e con il tempo che passa. » « Ma non è la stessa donna del libro che stai leggendo, nel quale ho notato una foto in bianco e nero di lei quindicenne con cappellino, gonnellino, stivaletti, gambe e toro nudi, con bei seni sodi di tre quarti, tra i quali scende una lunga collana che li accarezza ? « « Sì, è la stessa, com’è la stessa su quella pagina nel nudo a colori in cui si ritrae sul balcone della grande villa nei sobborghi di Vienna a prendere il sole su un sofabagnarola dove la giovanissima Venere slanciata ha già il bassoventre sperimentato ed i seni abbondanti di chi ha gustato in pieno i piaceri del sesso, pur atteggiandosi come chi si guarda in uno specchio assente, mentre lontano sul verde del parco vola un aquilone, andando verso un destino che la giovane ignora, ma che la pittrice quarantaduenne ormai in esilio conosce. » « Si viveva, dunque, e ci si cullava in un mondo di piaceri, affrontati a volta con trepida aspettazione. » « Sì, c’era una libertà di pensieri e di costumi da alta società e da intellettuali, per non dire da ricchi ebrei viennesi. Del resto questo cochetteggiare con il nudo e con il sesso sarebbe stata un sua costante. Ricordo che durante un mio soggiorno a

intus et in corde, prima con riserbo e poi respingendolo. Questa persona assente era presente nella reazione della donna. Dissi a mio padre che non sapevo chi fosse la donna, non lo sapeva neanche il pittore che però mi precisò trattarsi di una orientale, tailandese o giù di lì, che aveva notato mentre passava per la strada e lui era corso subito nello studio per fissarne in un ritratto la presenza intrigante. « E tu perché l’hai comprato ? » « Per lo stesso motivo : mi piace e mi turba. » Dovevo ora confessare a mio padre che l’attrattiva principale che una donna reale esercitava su di me, di passaggio o spesso rivista, amata o solo ammirata, consisteva proprio in quel piacevole turbamento o turbante piacere e che questa peculiarità m’inseguiva e quasi perseguitava anche nei sogni e nei fantasmi ? Il ritratto della seconda donna, più piccolo del primo, presentava in iperdimensioni la sua testa, su fondo verdolino, con un grande volto incorniciato da folti capelli castani, che guardava frontalmente con due occhioni neri, e con le labbra semiaperte come di chi si sta contemplando allo specchio, al quale chiede di dirle in che stato si trovi di autointrospezione. 143


Londra nel suo appartamento della Finchley road la sentii gridare dal corridoio, più festiva che allarmata : « Non aprire la porta, sono appena uscita dal bagno, sono nuda. » Mio padre tornò a contemplare i due ritratti, quello della donna di cui non sapevo nulla e quello dell’altra di cui sapevo molto, avendola anche frequentata. Poi volle farmi notare : » Se paragono la mia vita a Morra e quella di questa parente a Vienna, Londra e altrove, un pensiero mi assale. Chi ci ha destinati a condurre vite così diverse ? Chi ha dato tanto ad alcuni e rifiutato tanto ad altri ? » Cosa voleva inferire ? Voleva scusare e giustificare se stesso, condannato a vivere nella ristrettezza di un paesino con le sole distrazioni del vino e del tabacco, mentre altrove e nello stesso periodo altra gente poteva spassarsela e menare una vita più variata , anche se forse non più felice ? Dovevo accettare questo suo innuendo o rifiutarlo come pretestuoso ? La replica era lì a portata di mano e mi bruciava quasi sulle labbra, ma non ritorsi ammettendo che forse una briciola di verità in esso c’era. E ciò riguardava non solo la zia o cugina Piz, ma anche me che conducevo una vita dello stesso tipo, pur con modalità diverse. Dovevo fare un esame di coscienza prima di confermare il mio rifiuto di perdono per mio padre. L’esame di coscienza è una ricerca della verità, o per lo meno di una certa verità perché, anche se l’esaminante dispone come nessun altro degli elementi che potrebbero portare a questa verità, il suo coinvolgimento diretto in essi fa sì che sia portato a vederli sotto una certa luce, che, se non è falsa, è fortemente unidirezionale e molto colorata. Già ricordando quanto più possibile della mia infanzia, facevo un esame di coscienza e i problemi che l’apparizione di mio padre mi poneva concorrevano fortemente ad approfondire questo esame. Non dovevo mentire a me stesso anche nei ricordi, che pur messi in prospettiva dovevano essere al massimo consentito precisi. Il fatto poi che essi riguardassero solo una minima parte- circa un

ottavo- della mia vita non doveva impedire di leggere in essi le radici di quel che sarebbe venuto dopo. Mi dovevo però chiedere quale fosse l’importanza in sé di questi ricordi : quisquilie da buttare o lasciare nel dimenticatoio o, pur riconoscendone il carattere personale, saperne tirar fuori un succo che valesse anche per gli altri ? La cronaca personale e familiare aveva un senso più generale o era solo un coacervo di fatti e persone ch’era meglio, non fosse altro per pudore, lasciare lì dov’erano, scomparsi in gran parte o ancora vivi per quel breve lasso di tempo che mi restava da vivere ? Il protagonismo e l’esibizionismo delle biografie ed autobiografie, latenti in ognuno di noi, non era meglio combatterli dimenticando ? Ma il passaggio allora dalla cronaca alla storia, la continuità di questa e la continuità del mondo ? C’era chi risolveva questi interrogativi con la fede, rifugiandosi nel potere e volere di Dio e nella sopravvivenza dell’anima. Ma mi era ciò possibile, non credendo né in un Dio nell’accezione delle religioni più diffuse, né in un’anima individuale con lui in rapporto prima, durante e dopo la vita terrena ? Lasciando per ora da parte queste mitologie, m’importava eliminare l’elemento della ricompensa, direttamente o indirettamente presente nel loro concetto di vizio e virtù, punito quello in un Inferno e ricompensata questa in un Paradiso. Il perdono, se c’era, doveva rispondere a un intimo bisogno non di chi assolve o condanna, ma di chi riconosce la propria pochezza e sostanziale incapacità di purezza, un atto di solidarietà con il perdonando, insomma. Stavo cadendo di nuovo in sofismi ? Volevo la verità e la verità era lì con mio padre e me presenti, io che chiedevo e lui che non rispondeva, non perché volesse ancora sfuggire alle proprie responsabilità con l’assenza di una dichiarazione d’ignoranza, ma perché effettivamente non sapeva, a parte la sua caduta nella deboscia del vino e del tabacco. 144


La verità, quindi, era il non sapere. A che pro incaponirmi nel tentativo-bisogno di estorcegliela ? So che non so : anche questa è scienza e verità, forse le più profonde. La mis-credenza è scienza ed il dubbio dopo l’analisi è scienza, anzi sapienza. Come per l’esistenza di Dio, per la quale tanti sapienti si sono accaniti ad accumulare presunte prove per affermarla o negarla, l’unica risposta è ; so di non sapere. Né questo è relativismo. La scienza oggi è arrivata, per esempio nella teoria delle corde-che non è una rimasticazione dell’atomismo antico- a supporre di aver messo la mano sulla verità definitiva della costituzione di tutto, con infinitesimali particelle di materia-energia che sarebbero come i micromattoni dell’edificio dell’universo. Esse non si vedono, non c’è strumento con cui si possa raggiungerle, ma si suppone che esistano, ultima barriera raggiungibile dalla conoscenza. L’universo, quindi, Dio, gli esseri inanimati, animati, il corpo e l’anima degli uomini sarebbero costituiti da queste corde. Le diverse apparizioni di esse nel tempo e nello spazio sono luci infime di un processo continuo, che non ha avuto inizio e non avrà fine e, come non conosce tempo, ignora lo spazio, spazio e tempo concetti impropri applicati a segmenti temporanei. Niente rientra in questo universo perché niente ne esce, la vita e la morte di x o y sono soltanto fenomeni momentanei, x e y essendo sempre esistiti e che sempre esisteranno in questa o quella combinazione. Che x perdoni y significa semplicemente che il tutto, impropriamente parlando, perdona se stesso. Il perdono, cioè, è come il rientro di due particelle nell’armonia universale. Questo concetto mi esaltava e mi spaventava, mi esaltava perché con esso il perdono era un atto dovuto che mi metteva in sintonia con il tutto, mi spaventava perché sembrava abbattere i bei castelli della morale e della responsabilità. Sapeva, inoltre, di scappatoia e non di generosità. Parlare però di generosità da parte mia verso mio padre

era altrettanto assurdo, collocando me su un piedistallo con mio padre ai miei piedi. Ne avevo diritto e di che natura era questo diritto ? E qui l’esame di coscienza poteva essere il benvenuto per disintegrarlo, portando il figlio allo stesso livello del padre, il che era il minimo che la cosiddetta morale potesse da me esigere. Restava l’ultimo intoppo quando mio padre mi fece notare che perdonando lui, perdonavo me stesso, assolvendo lui assolvevo me stesso e che di questa assoluzione io avevo altrettanto bisogno di lui. Se no, perché ricordavo ? Perché ricordando avevo risuscitato mio padre e la mia infanzia ? Non mi rendevo conto che in questo ricordo io e mio padre coincidevamo ? Avevo 83 anni, mio padre era morto da una sessantina d’anni, la mia infanzia rimontava a più di una settantina di anni fa ed io ero lì cocciuto a voler ricostruire tutto ciò, distribuendo da giudice condanne ed assoluzioni ? Mio padre mi era apparso perché non aveva pace nella sua nicchia a Morra nella cappella eretta da mia sorella per tutta la famiglia. Fra breve anch’io sarei andato, se non in quella cappella, in quel cimitero. La pietas m’imponeva, non fosse altro per tale vicinanza, di essere in pace con i miei antenati, me lo imponeva anche quanto credevo fosse la verità. Quelle corde familiari, per riprendere l’immagine delle ultime teorie scientifiche, dovevano essere concordanti e non discordanti, suonare, se non all’unisono, armonicamente. In un impeto di amore filiale tentai di gettare le braccia al collo di mio padre, tentai tre volte e tre volte rivenni con le braccia al petto. Avevo dimenticato che le ombre sfuggono all’abbraccio. Mia moglie nell’osservarmi esclamò : « Ma che fai ? Sei matto ? » Come uscendo da un lungo sogno e rimettendo i piedi su terra, le risposi : « Mi abbraccio. » « Ti abbracci ?.» « Ora sono più leggero, più libero. » « Perché, prima non lo eri ? « Scuotendo la testa, andò verso la portafinestra del soggiorno ed aprendola rincalzò : « Aria, aria, aria pura ! Un po’ d’aria pura ti farà bene 145


facendoti uscire dalle tue stramberie. » « Stramberie ? « e la seguii fermandomi sulla soglia che dava sul giardino, dove ora, come per un disgelo improvviso, sulle tuie tubavano due colombi, un po’ in ritardo sulla stagione , è vero, ma ciò importava poco perché avevano desiderio, cioè bisogno, l’uno dell’altro, perchè si amavano.

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