Sostenibilità cognitiva degli artefatti nel processo di design
Simona Conti Antonio Dell’Ava Fabiola Nardecchia
Abstract Questo articolo cerca di verificare e di spiegare come il concetto di sostenibilità può essere applicato agli artefatti cognitivi e di come questo è -o dovrebbe essere- applicato al loro processo di design. Interrogandoci sulla natura dei termini in gioco vedremo il ruolo che gli artefatti cognitivi intrattengono nel mondo, inteso come conoscenza, emozione ed interazione. Progettare artefatti cognitivi vuol dire, quindi, interfacciarsi non solo con la mente umana, ma anche con la molteplicità di variabili che agiscono nelle loro forme soggiacenti. L'evoluzione storica degli artefatti ha sempre seguito un percorso razionale più o meno prevedibile che sembra esser destinato a cambiare: nelle ultime due decadi, infatti, gli artefatti cognitivi stanno subendo un evoluzione mai riscontrata nella storia dell'uomo per velocità, complessità e portata sociale crescente. Ciò pone nuove problematiche – ma nuove opportunità per i designers- riguardo gli aspetti delle interazioni corrispondenti alle stratificate “categorie” di utenti. Alla luce delle riflessioni storiche, culturali, progettuali, antropologiche, con un approccio vicino alla Human Computer Interaction, cercheremo infine di gettare le basi per una “presa di coscienza” ed implemento della sostenibilità riguardo l'artefatto cognitivo.
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Indice 1. Il Processo di Innovazione 1.1. Che cos'è l'innovazione? 1.2 La Natura dell'innovazione 1.3 Un Viaggio nella Storia
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2. Che cosa sono gli artefatti cognitivi? 2.1 Prometeo e l’artefatto 2.2 Artifact Tagging
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3. Sostenibilità cognitiva degli artefatti 3.1 Una piccola premessa 3.2 Sostenibilità: un concetto ampio e poliedrico 3.3 L’accezione economica, sociale ed ecologica di design sostenibile 3.4 SID: Sustainable Interaction design 3.5 Design sostenibile e nuove tecnologie: la ricerca di un sostenibilità cognitiva
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4. Come è possibile inserire la sostenibilità cognitiva nel processo di design? 4.1 Values & design 4.2 Engineering design 4.3 Architectural & Graphic Design 4.4 Software Engineering Design 4.5 Ergonomia 4.6 Ergonomia Cognitiva 4.7 Sostenibilità Cognitiva
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5. Linee guida per una sostenibilità cognitiva degli artefatti
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6. Riferimenti Bibliografici-MLA Standard
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1. Il Processo di Innovazione Come vengono alla Luce gli Artefatti?
“in the life there is nothing more foolish than inventing" - James Watt, 1769 -
1.1. Che cos'è l'innovazione? L'innovazione è l'ideazione e l'implementazione di un artefatto nuovo o significativamente migliorato (sia esso un bene o un servizio), di un processo o un nuovo metodo di lavoro che poi migliora significativamente la qualità della vita delle persone che lo usano. Questo primo capitolo tratta di come è cambiata l'innovazione dall'antichità fino a giungere al moderno processo di design degli artefatti dove più fattori, legati solitamente a figure professionali specifiche, entrano in gioco. Questo percorso servirà a capire come e perché inserire un concetto di sostenibilità cognitiva nel processo di design oggi. Il percorso è particolarmente difficile, per questo ci proponiamo di risolverlo su più livelli in modo da affrontare il problema con la problematicità che merita.
1.2 La Natura dell'innovazione Se ci guardiamo intorno è difficile trovare stati del mondo che non siano stati modificati dall'uomo, mentre ciò non vale per le altre specie animali. Eppure anche gli animali producono soluzioni innovative, famoso è il caso dei corvi di Tokyo che hanno imparato a schiacciare le noci servendosi del traffico stradale (Klein, 2001); 1 . I corvi giapponesi oltre a lasciar cadere le noci negli incroci per farsele schiacciare dalle macchine, hanno imparato anche ad aspettare il verde per il traffico pedonale per
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E possibile vedere il filmato sul sito YouTube a questo indirizzo:
http://www.youtube.com/watch?v=bXQAgzfwuNQ
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raccogliere il frutto del loro lavoro. Resta il fatto che guardando ai due stati la quantità e la qualità dei due fenomeni è incommensurabile. Ciò che distingue il processo di innovazione umana da quella animale non è tanto l'intelligenza dell' insight o le capacità cognitive di base, ma l'accumulo, il così detto effetto "dente d'arresto" (Tomasello, 1999). La nascita di oggetti complessi dipende dall'accumulo delle modificazioni apportate nel tempo da individui differenti. Nell'uomo l'imitazione delle soluzioni di un conspecifico è un processo che si intreccia dialetticamente con quello di innovazione. Ogni variante di un artefatto, prodotta da soli o in maniera collaborativa, è il punto di partenza per nuove soluzioni innovative. Ogni nuova generazione, durante la sua “ontogenesi”, apprende per imitazione, ed eredita tutto il patrimonio di conoscenze che appartiene alla sua cultura senza che le conquiste di quella precedente vadano perse. E ne apporta di nuove che verranno ereditate dalla generazione successiva, e così via...
[Tomasello 1999, 57]
George Basalla afferma che si possa tracciare un’evoluzione degli artefatti così in maniera simile a quello che si fa per gli organismi viventi (Basalla, 1982). Questa evoluzione va di pari passo con:
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1. L'uso degli artefatti rispetto al mondo (un artefatto può evolvere la sua funzione da un dominio all'altro, es. il coltello può essere nato nell'ambito della caccia e poi essere diventato uno strumento per mangiare), 2. Con grado di evoluzione dell'attività che li sottende (mangiare in una caverna nel 10 000 a. C. non è come mangiare da McDonald nel 2009, serve un altro tipo di coltello...), 3. con i rapporti sociali che le governano (l'architettura degli artefatti cambia con il cambiare dei rapporti sociali umani, es. la cabina di comando di un aereo riflette i gradi d'importanza dei piloti ).
Ogni modificazione risponde a una determinata necessità, ma secondariamente quando si diffonde modifica l'attività per cui era stato progettato ristrutturandola (Rizzo, 2004) in tutti punti di vista . Fra l'evoluzione delle tecnologie e i comportamenti umani esiste quindi un intima connessione, tanto che si potrebbe affermare che sono due aspetti dello stesso fenomeno (Vygotskij, 1978; Rizzo, 2004). Da qui possiamo dire è che: 1. l'innovazione come processo evolutivo cumulativo è il risultato di un processo filogenetico, dal momento che è peculiare della specie umana 2. durante l'ontogenesi ogni individuo apprende dai suoi conspecifici l'uso degli artefatti che sono somma delle evoluzioni storiche passate 3. le modificazione che uno o più individui mettono in atto su un artefatto si trasformano in “innovazione” quando accettati dai conspecifici, diventando così parte del loro processo ontogenetico, e a loro volta basi per ulteriori innovazioni 4. I modi in cui noi utilizziamo le nostre risorse- per modificare e/o innovare gli artefatti-sono l'artefatto più importante (un “meta-artefatto” per la precisione), che è anch’esso un prodotto storico di questa evoluzione
A seguito di ciò il metodo di design cambia con l'evoluzione storica della società nel suo complesso (punto 4): il metodo di design come “meta-artefatto” deve specchiare i valori di una società (imitazione), e proporne di nuovi (innovazione). La nostra domanda nello specifico è: come e se le risorse cognitive messe in gioco durante l'ontogenesi (punto 2) sono state considerate nei processi di innovazione del passato (punto 3) e come devono o dovrebbero esserlo oggi. Tutto ciò, però, richiede un viaggio nella storia.
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1.3 Un Viaggio nella Storia Oggi il processo innovativo viene immediatamente associato alla forza razionalizzante della scienza e alla creatività del design, ma non è sempre stato così:come già detto, è anch’esso un “meta-artefatto” soggetto a evoluzione storica. Prima del '700 (Braudel, '82) la scienza non si curava delle applicazioni pratiche e delle soluzioni. Fino ad allora la tecnologia ed il progresso erano un' esclusiva delle botteghe artigiane-capaci di costruire il loro sapere grazie alle corporazioni dei mestieri-le quali non avevano particolare interesse a razionalizzare il processo che portava alla luce gli artefatti, anzi limitavano la diffusione di quello che era noto per proteggere il mestiere stesso. "La tecnologia, si forma come può, ed evolve senza fretta" (Braudel, 82). Nel '500 l'artigiano sommava dentro di sé una molteplicità di figure e di competenze: si occupa di arte militare, è architetto, idraulico, pittore, scultore, inventore, drammaturgo ... Le botteghe artigiane erano il luogo dove il sapere veniva trasmesso tramite l' apprendistato. I committenti erano i nobili delle corti, dove tutti i prodotti delle grandi menti si esaurivano senza toccare minimamente la vita quotidiana delle persone. La Figura di Leonardo da Vinci è forse l'archetipo di quest'epoca. Tra il XVII e il XVIII secolo molteplici processi concorrono al cambiamento di questa situazione:
La tecnica nelle guerre diventa un fattore strategico, e i nascenti stati-nazione iniziano a gareggiare per avere armamenti sempre più all'avanguardia. Il film "Il Mestiere delle Armi" di Ermanno Olmi è un' icona di questo cambiamento, così come il film “Barry Lindon” di Stanley Kubrik
La nascita degli stati-nazione mette in moto l'istruzione pubblica, sovvenziona ricerche, le università, ... tutte cose queste che oggi diamo per scontato,
L'avanzata della borghesia come classe sociale. 2
L'industrializzazione della produzione da parte della borghesia
La nascita della scienza e del suo metodo con Galileo e Newton
Gli aspetti presentati furono tutti processi paralleli strettamente correlati e hanno un riscontro su come gli artefatti venivano ideati e prodotti, come:
L'ideatore dell'artefatto è una persona differente dall'operaio che produce l'artefatto
L'adeguamento dei prodotti a una produzione in serie
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Si noti come questo sia un fenomeno connaturato alla nascita degli stati-nazione, non a caso “burocrazia” e “borghesia” hanno la stessa radice -bureau ovvero “ufficio dello stato”
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Una generale razionalizzazione dei mezzi di produzione secondo criteri capitalistici.
E' importante sottolineare come questi cambiarono il modo in cui gli artefatti venivano prodotti, ma allo stesso tempo inizialmente non generarono un cambiamento radicale nel modo in cui gli artefatti venivano innovati. Unire scienza e tecnica può produrre -in linea teorica- nuovi artefatti, ma non basta perché essi siano sistematicamente usati. Non esisteva ancora una società che potesse trarre giovamento, sia economicamente perché non esisteva una classe media, sia perché l'innovazione non era ancora un processo accettato da tutti. Ancora nel 1769 James Watt scriveva ad un amico “in the life there is nothing more foolish than inventing”. Negli stessi anni, il filosofo Montesquieu rimproverava ai mulini di aver rubato il lavoro agli operai. Infatti anche se nel '600 la scienza iniziò a farsi strada nel processo d'innovazione. Vennero così alla luce numerose tecnologie abilitanti che però si tradussero in artefatti d'uso comune solo secoli dopo:
Baltasar De Rios nel 1600 progetta un cannone scomponibile che può essere trasportato sulle spalle dei soldati, il mortaio entrerà in uso solo nel 1925 col primo conflitto mondiale
Jean Tardin nel 1618 scoprì il metodo di distillare gas dal carbon coke, due secoli prima che la lampada a gas trionfi sulle candele
Nel 1635 Schwenteer espone il principio secondo cui "due individui possono comunicare tra loro con aghi calamitati", per vedere i primi esperimenti sul telegrafo bisognerà aspettare il 1819
Nel 1775 Bushbell inventa sottomarino, contemporaneamente Duperron la mitragliatrice
E gli esempi potrebbero proseguire all'infinito [...]
Quello che si evince da questi casi è che non basta utilizzare la tecnologia per produrre innovazione. Le tecnologie abilitanti devono essere declinate nelle pratiche sociali dell'uomo, diverse a seconda del tempo del luogo. Questo permette che un determinato artefatto entri nelle pratiche quotidiane modificandole radicalmente. Qualsiasi artefatto da questo punto di vista è cognitivo almeno in parte, dal momento che esso non ha alcun significato se non inserito nel contesto dell'attività umana. La loro progettazione non ha senso in astratto, ma deriva invece dal contesto. Eppure la razionalizzazione di questo fattore nel processo creativo di produzione di artefatti verrà trascurato per secoli. Una prima spinta in questo senso è venuta dalla seconda rivoluzione industriale con il “fordismo”:l'innovazione per la prima volta è rivolta alle masse. Questo cambiamento è connaturato ad un'ondata di innovazioni tecnologiche come:
rete elettrica rete telefonica
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motore elettrico metropolitana radio la catena di montaggio (ed il “fordismo”, appunto) l'ammoniaca, la dinamite, il cemento armato, [...]
In quest'epoca iniziarono ad innalzarsi le stime del pubblico nei confronti della tecnologia, e l'inventore, che molto spesso era un fisico, era considerato un eroe romantico che si misurava da solo contro le forze della natura (Basalla, 82) per offrire all'umanità i doni della tecnologia. In realtà nei laboratori dei grandi innovatori si lavora già in gruppi: Edison lavorava a strettissimo contatto con venti collaboratori. Da questo punto in avanti il processo di innovazione inizia ad essere un processo moderno di design degli artefatti con delle caratteristiche ben precise, che oggi tutti tendiamo a dare per scontato:
Ogni azienda realizza prodotti che vanno a collocarsi in un mercato massificato Ogni prodotto non risponde ad un bisogno primario, ma ne induce di nuovi (nella società ottocentesca non si sentiva nessun bisogno della macchina). (Basalla, 82) Si presuppone un mercato di persone, a cui ci si rivolge, che sia in grado di acquistare i prodotti dell'innovazione, e di trarne beneficio I prodotti di ogni azienda rispondono ad una precisa filosofia progettuale, caratteristica che è in sintonia con la fetta di mercato a cui si rivolge (es. FIAT realizza utilitarie e si rivolge chiaramente alla classe lavoratrice) La filosofia progettuale si esplica a 360 gradi, dall'estetica alla funzionalità, ... (es FIAT forme semplici, bassi consumi, ...) Il processo che mette in gioco diversi tipi di competenze che corrispondono alle diverse professioni presenti nel processo (ingegnere, fisico, business-man, designer)
E' importante notare che da questo punto in avanti studiosi di diversa natura (Braudel, '82; Ortoleva, '02) concordano che la storia dell'innovazione dalla seconda rivoluzione industriale è caratterizzata da periodi “esplosivi”, dove molteplici innovazioni vengono alla luce, e periodi “riflessivi”, dove nella società emerge la soluzione migliore (dove essa non coincide necessariamente con la tecnologia che offre la migliore performance). Emblematico è il caso recentissimo del VHS che si è imposto sul betaCAM il quale offriva la migliore qualità di registrazione audio-video (Nosengo, '03). Nonostante questa alternanza il processo di innovazione ha subito un accelerazione costante dall'avvento del moderno processo di design.
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2. Che cosa sono gli artefatti cognitivi? 2.1 Prometeo e l’artefatto I due fratelli Prometeo,”colui che riflette prima”, ed Epimeteo ,”colui che riflette dopo”, ricevettero da Zeus il compito di creare rispettivamente gli uomini e gli animali; Epimeteo -fedele al suo nome- usò tutte le “buone qualità” che i due Titani avevano ricevuto in dotazione per dar forma agli animali dimenticando gli uomini e lasciandoli così sprovvisti di una “dote naturale” come una pelliccia per ripararsi dal freddo, o degli artigli per cacciare e difendersi o della robustezza e resistenza per spostarsi. Prometeo- trovandosi senza materiali adatti per costruire i suoi uomini- dovette sostituire quelle “buone qualità” già utilizzate dal fratello con altre due capacità, che non erano gli erano state fornite da Zeus e che erano sino a quel momento custodite da Atena: l'intelligenza e la memoria. Il mito per quanto ad un primo approccio possa sembrare inconsistente per la natura della nostra interrogazione serve a introdurre in maniera romantica il concetto di “artefatto”. L'evento narrato nel mito, infatti, segna ideologicamente la linea di confine tra l'uomo primitivo- che vive nel mondo seguendo le sole regole dello stimolo-risposta- e l'”uomo” come lo conosciamo, in grado di edificare e plasmare il mondo intorno, di creare immagini di questo stesso mondo,e di modellare il proprio pensiero attraverso la comprensione e l'interpretazione; in grado di superare i confini fisici della trasmissione genetica delle qualità attraverso la trasmissione della conoscenza. Il primo significato di artefatto è “modificato dall'uomo” ed è nell'uomo in grado di modificare materialmente e mentalmente il mondo intorno a sé, per supplire alla mancanza di una pelliccia per ripararsi e di artigli per difendersi, che risiede la nascita dell'umanità intera. Il termine “artefatto” -data la sua stessa natura- riserva connotazioni ampie e variegate spesso dai confini sfumati, è un termine quindi poliedrico e interdisciplinare, i cui valori cambiano, ma mai vengono sminuiti, a seconda del contesto. Prima di affrontare il concetto di “artefatto” (e più nello specifico di artefatto cognitivo nel processo di design) sarà bene dare una visione del termine nelle sue accezioni più generali e diffuse, in modo da non poter lasciare spazio a dubbi e, piuttosto, gettare le basi per una rete di relazioni interdisciplinari che ci condurranno -ed in parte giustificheranno- l'intero processo di design. Abbiamo già definito, ma è bene ripeterlo, il concetto di “artefatto” come “modificato dall'uomo”. Questa, seppur sintetica, è un'ottima definizione, in quanto al concetto stesso di artefatto possiamo collegare ed includere qualsiasi cosa sia inerente all'uomo: dagli oggetti, alle pratiche sociali, al linguaggio, sino alle arti, i culti e le credenze. Da questo breve ed incompleto elenco delle aree di interesse , emerge già la natura intrinsecamente dicotomica del termine: l'aspetto collettivo ed individuale, cognitivo e materiale; o per meglio dire: un artefatto può essere di un solo uomo o di molti, frutto della mente o plasmato da un materiale già esistente in natura. Sostenibilità cognitiva degli artefatti nel processo di design 9
Seppur speculari queste variabili non intervengono quasi mai separatamente,ma anzi occorrono nello stesso processo di costruzione dell'artefatto e ne sono, infine, variabili dipendenti in grado di modificarne la natura. Il primo paradigma che può venire in mente ai molti può essere semplicemente “artefatto=oggetto”; a questa relazione tutt'altro che scontata,non si può reagire con indignazione, ma piuttosto con un “..non solo..”; per capire a fondo il significato di artefatto bisogna andare ad esplorare anche gli stati soggiacenti. Nel suo “Models: representation and scientific understanding” Wartofsky definisce gli artefatti come “oggettificazione di bisogni e intenzioni umane investite in contenuti affettivo-cognitivi” e successivamente distingue tre principali categorie di artefatto.
Artefatti Primari: quegli oggetti materiali usati nella produzione come armi, pietre modellate, utensili.
Artefatti Secondari: sono la rappresentazione degli oggetti primari e del loro utilizzo. Questo tipo di artefatto è necessario per quanto riguarda la conservazione nel tempo e la possibilità di tramandare il modo d'uso ed i contesti in cui gli artefatti primari vengono utilizzati.
Artefatti Terziari: sono quegli artefatti in grado dare senso al mondo in maniera autonoma al di là di regole e convenzioni direttamente pratiche. A questo mondo- che l'autore stesso definisce immaginario- appartengono le arti e gli stati della percezione. (1979,204-208)
Micheal Cole inserisce tra gli artefatti primari anche altri strumenti essenziali allo svolgimento delle attività come : il linguaggio, gli strumenti necessari alla scrittura e alla trasmissione del sapere, le telecomunicazioni, ed i “miti”.(1998,121) Per Lev Semënovič Vygotskij -padre della teoria socio culturale- l'artefatto è: “un aspetto del mondo materiale il quale è stato modificato nella storia della sua incorporazione negli obiettivi diretti delle azioni umane. In virtù dei cambiamenti elaborati nei processi della loro creazione ed uso, gli artefatti sono simultaneamente ideali (concettuali) e materiali”. (Cole 1998, 110) Già da queste definizioni si rinforzano le caratteristiche che legano il termine all'azione dell'uomo. Ancora una volta l' “artefatto” è un oggetto modificato dall'uomo, ma ad una più attenta lettura di ciò che è stato appena riportato si potrà cominciare a vedere l'”artefatto” anche nelle sue connotazioni di veicolo e di mediatore, non più come semplice oggetto passivo, ma costrutto duttile e dinamico. Come argomento utile ad una comprensione globale riportiamo qui brevemente anche il concetto di “artefatto” inteso nel campo dell'antropologia e della psicologia culturale, conosciuto altresì – e a buon ragione- come “meme”o replicatore culturale (Inghilleri 2003)
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In questa visione l'artefatto è un “replicatore di informazione culturale” il cui potere è nella trasmissione in “sedi extra-somatiche”. I memi sono in realtà di due tipi: i memi che veicolano altri memi ed i memi che si replicano attraverso quei veicoli e che sono detti “replicatori”. Paolo Inghilleri propone due esempi efficaci ne “La Buona Vita. Per l'uso creativo degli oggetti nella società dell'abbondanza”: “La Bibbia è uno dei memi più conosciuti e diffusi al mondo. Le idee, i concetti, le prescrizioni contenuti nella Bibbia sono memi replicatori che si stanno trasmettendo sul nostro pianeta da generazioni e generazioni. Questi memi replicatori si depositano in sedi specifiche che a loro volta sono di due tipi: i memi veicoli e le menti degli individui. Un libro contenente il testo biblico è un veicolo; ma anche un computer o un CD Rom contenenti il sacro testo sono veicoli. D’altro canto, una persona che abbia interiorizzato le idee proprie della Bibbia le sta veicolando nel mondo e le presenta, attraverso le parole e i comportamenti, agli altri: figli, famigliari, amici, colleghi, comunità d’appartenenza.” (2003, 20)
Per l'antropologia l'artefatto ha quindi una valenza simbolica, in grado – assieme alle capacità psichiche dell'uomo- di trasportare cultura. Gli esempi hanno il grande potere di semplificare le teorie (possiamo bruciare le tappe e definirli artefatti cognitivi sostenibili?) e di renderle accessibili ai molti, ma nel loro slancio esemplificante forse celano valori tutt'altro che scontati. “Artefatto=veicolo di conoscenza” può apparire una definizione banale (soprattutto di fronte ad esempi stringenti che evocano rappresentazioni da lungo tempo metabolizzate ), è ovvio che il libro veicoli la conoscenza, non dimentichiamo, però, quel “..non solo..”, ossia le forme soggiacenti: il libro è un artefatto composto da molti altri artefatti, come le parole, la china, le traduzioni, le stampe, il commercio, l'interpretazione, la lettura, lo stesso processo di scrittura, le sue rappresentazioni del mondo ,e ancora un elenco lunghissimo di altri artefatti, contenuti in un solo artefatto che custodisce in sé tutte le sue nature variegate. Un puzzle perfettamente formato tutt'altro che “banale”. Guardiamo ad esempio al mondo animale: sono molte le specie in grado di usare dei “tools”, degli strumenti per agevolare alcune delle pratiche giornaliere, come la caccia o la costruzione del nido, ma questi “tools” sono assolutamente privi di quel potere simbolico e di quella capacità di trasmissione del senso. Gli animali, infatti, seppur abbiano affinato sempre più il loro intelletto dando prova di un curioso adattamento anche nelle zone urbane, non hanno questo potere di trasmissione, o meglio non hanno la possibilità di mostrare le qualità acquisite, in un tempo determinato, alle generazioni successive; ecco quindi che nel mondo animale non esiste la cultura, in quanto la cultura è un processo di stratificazione. Partendo dal paradigma che stiamo cercando di contrastare “artefatto=oggetto” questi “tools” rientrerebbero di diritto nella categoria di artefatti: sono oggetti sì “modificati” -in quanto la loro presenza in natura viene manipolata per altri scopi- ma questi non sono una rappresentazione del mondo e non sono investiti di nessun valore simbolico in grado di tramandare conoscenza attraverso di -e con- essi. Sostenibilità cognitiva degli artefatti nel processo di design 11
Nel mondo animale l'uso di artefatti è in qualche modo “limitato” nel tempo e nello spazio, dimostrazione ulteriore è il fatto che l'uso di questi “tools” è solitamente individuale e non collaborativo, ossia non è eseguito in collaborazione con altri animali. Non a caso i corvi non conoscono la bibbia. La conoscenza segue un processo di sedimentazione paragonabile a quello delle rocce, in cui la “knowledge”, la conoscenza, trasmessa attraverso gli artefatti non viene percepita come ex-novo, ma processata in un sistema di stratificazione con quelle precedenti, possiamo quindi dire che l'output di un processo di conoscenza costituisce l'input di uno nuovo. Il potere dell'artefatto non sta solo nelle sue capacità di trasmissione, ma nella generazione di un macrosistema di composizione del mondo, in un processo di continuo output ed input. Infatti per Vygostky così come per Zhang , Norman, Hutchins e Rizzo 3 , il legame tra uomo ed artefatto è ben più saldo, anzi : “non è possibile indagare la cognizione umana senza considerare gli artefatti storicamente e culturalmente determinati che la mediano in ogni sua manifestazione”. L'artefatto e l'attività umana sono quindi figli della stessa madre: la cognizione umana.” (Rizzo 2000,1)
Per le scienze cognitive l'artefatto non può essere compreso indipendentemente dall'attività umana nel quale viene utilizzato, inoltre- come anticipato nel primo capitolo- l'uso dell'artefatto trasforma l'attività per la quale è stata progettata in termini di riorganizzazione degli assetti percettivo motori, di interazione con l'ambiente e le modalità di pianificazione dell'azioni e delle relazioni sociali: Esiste un mondo al di fuori e indipendentemente dalla nostra mente M1 , quando noi moriamo esso continua ad esistere, e noi non sappiano come esso sia. Poi esiste il mondo M2 come noi lo percepiamo attraverso i nostri sensi e pensiamo che esso sia, ed infine esiste il mondo M3 come noi lo rappresentiamo attraverso le varie modalità di rappresentazione che si sono evolute. Dati questi tre mondi si è portati a credere che M3 derivi da M2, ovvero che noi nel corso dell’evoluzione culturale troviamo modi sempre più ricchi e articolati per rappresentare accuratamente M2. Quello che si sostiene in questo lavoro è che M3 non sia completamente derivato da M2 bensì che M3 abiliti la percezione e l’esperienza di M2. Gli artefatti che noi costruiamo sono al tempo stesso parte di M2 e M3 e nell’azione modificano M1. (Rizzo 2000, 9)
La differenza con gli ottimi esempi di Inghilleri qui è che il valore dell'artefatto non si esprime “assieme alle capacità psichiche dell'uomo” , ma bensì esso non può essere scisso dall'essere umano (e viceversa), ed anima un continuo processo di influenze e contaminazioni, come una reazione chimica che una volta innestata non si può fermare. L'artefatto ha quindi potere di modificare il mondo, le sue rappresentazioni e allo stesso tempo di essere una delle rappresentazioni del mondo, ma ancora una volta vale la pena ripetere che noi non interagiamo con un solo artefatto alla volta. Utilizziamo gli artefatti contemporaneamente, producendo
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confronta capitolo 1
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costantemente nuovi significati tramite i contesti, le azioni, le disposizioni mentali, micro o macroscopici atteggiamenti che si sedimentato, si arricchiscono e ci arricchiscono. E' questo il momento di ampliare la prima lista: non solo i culti, i miti, il linguaggio e le pratiche sociali, ma anche le regole, i modi d'uso,il denaro, i pensieri,i bisogni, il lavoro, la stima, il numero zero, tutto ciò che “modificato dall'uomo” ha portato alla “modifica dell'uomo”, una rete di relazioni complesse che governano il nostro agire e che percepiamo semplicemente come “vivere” e che in materia viene chiamata: mediazione. Abbiamo con queste due descrizioni di artefatto aperto lo scrigno da cui Prometeo ha rubato “Memoria” e “Intelligenza”.
2.2 Artifact Tagging Sperando di aver mostrato abbondantemente il carattere poliedrico del termine ed esplorato almeno in parte il suo territorio, andiamo ora ad illustrare brevemente -e con più specificità- ambiti in cui il termine è direttamente coinvolto.
Social Artifact: un qualsiasi artefatto sociale, nato da una comunità di individui o dai comportamenti che essi mettono in atto in un dato luogo e tempo e che influenzano le attività degli stessi individui della comunità. Gli artefatti sociali possono essere fortemente influenzati dalla cultura in cui si sviluppano, un esempio di artefatto sociale sono i contratti o i documenti.
Cultural Artifact: un artefatto culturale è in grado di fornire informazioni riguardo chi l'ha creato e gli usi a cui è destinato. E' in qualche modo paragonabile ad un artefatto archeologico, in quanto è mutevole nell'aspetto, nell'utilizzo e nella sua rappresentazione a seconda del periodo e della cultura in cui era in uso. L'artefatto culturale, non deve essere relegato ai soli ambiti dell'archeologia o dell'antropologia, esempi di artefatto culturale per quanto riguarda l'era moderna sono la televisione ed il computer.
Virtual Artifact: è un oggetto immateriale esistente nell'universo digitale; internet, intranet, interfacce, animazioni ed e-book sono artefatti virtuali in quanto non tangibili e la loro esistenza è relegata ad un contesto specifico. Alcuni, nella categoria dei Virtual Artifacts, includono anche le rappresentazioni mentali che noi preferiamo chiamare Artefatti Cognitivi.
Queste tre importanti definizioni di artefatto possono essere ricondotte e riconosciute nella definizione "madre" di artefatto cognitivo:
Cognitive Artifact: gli artefatti cognitivi sono creazioni umane che abilitano alcune funzioni cognitive e più in generale ci aiutano nello svolgimento di alcuni compiti mentali. Possono essere semplici come un calendario o complessi come un sistema di programmazione, possono avere breve vita come un interfaccia o contare centinaia di anni come il nodo al fazzoletto.
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Contratti e documenti (Artefatti Sociali), televisione ed computer (Artefatti Culturali), internet ed interfacce grafiche (Artefatti Virtuali), mostrano in maniera ricorsiva la natura dell'artefatto cognitivo, ciò che li distingue è il contesto e la specificità che deriva dai campi di indagine e di interesse. La prestigiosa rivista Forbes chiese a Donald Norman di partecipare ad un articolo in cui si stilava la classifica dei venti “tools” che hanno cambiato la storia dell'umanità, l'opinione dell'autore di 'Things that make us smart' si rivelò in contraddizione con le idee di pubblicazione della redazione. Per Norman l'artefatto che ha segnato un punto di non ritorno dell'evoluzione umana è stato il processo di scrittura, o meglio i “notational systems” ossia: il sistema numerico, l'ingegneria, l'arte e la musica, la scrittura stessa; la redazione però rispose a questa prima soluzione chiarendo che la loro idea era quella di una classifica di “oggetti-handled” (usabili con le mani) che avevano cambiato i processi di svolgimento delle attività. La riflessione di Norman a seguito di questa rettifica non ha cambiato la sua precedente opinione. Gli oggetti che Forbes voleva -secondo Norman- hanno sì avuto un grandissimo impatto sulla civiltà, permettendo all'uomo di sopravvivere, ma di certo non sono alla base della sua evoluzione. Il telegrafo ha segnato un importante svolta nel campo delle telecomunicazioni, ma non sarebbe mai esistito senza tutti i precedenti sistemi simbolici di segnalazione. These cognitive tools are so essential to civilization, that we send our children to school for decades. Society knows that the educated mind is its most important asset. So I stick to my choice. What tools have had the biggest impact upon civilization? Cognitive artifacts. Tools for the mind.(Norman, s.p)
Forbes ha comunque stilato la lista dei venti strumenti in un articolo reperibile anche on-line.
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Il problema della percezione dell'artefatto forse deriva dal fatto che la cognizione in esso è intrinseca e non percepita nell'immediato, come se la manipolazione degli oggetti e la nostra interazione con essi sia innata e non richieda uno stato interpretativo profondo che riporti a galla le articolate architetture mentali che veicolano gli artefatti, che ne hanno sancito la nascita e che ne permettono l'utilizzo. Il concetto di ”affordance” ci può forse aiutare in questo. L'”affordance” è la capacità di un oggetto di “spiegare” il suo utilizzo: le scale ci “dicono” che devono essere salite o scese, la forma del bicchiere suggerisce alla nostra mano come comportarsi; diciamo che se mettessimo di fronte ad una sedia un uomo che fino ad ora non ne ha mai vista una ,molto probabilmente farebbe quello che facciamo noi, ci si siederebbe. Questa semplificazione diventa complessa ed importante durante la progettazione di altri oggetti più interpretabili, un esempio tra tutti: una maniglia che dovrà comunicare se essere tirata o spinta. L'”affordance” è quindi un ponte cognitivo che agevola l'interazione tra noi e gli oggetti. Un altro concetto interessante che trova cittadinanza nella complessa architettura cognitiva che compone un artefatto è la lotta tra entropia e neghentropia. L'artefatto come oggetto -in quanto materia- è naturalmente portato all'entropia, ossia all'annullamento: se lasciamo un oggetto a se stesso questo non farà altro che rovinarsi, distruggersi . Gli artefatti intesi come cognitivi, al contrario sono portati alla neghentropia: ossia a divenire sempre più complessi, a gestire un carico di informazioni sempre maggiore ed in continuo cambiamento, caratteristiche che, come abbiamo visto, contraddistinguono il concetto di “knowledge”. L'entropia e la neghentropia dunque convivono nell'artefatto, ma come si comportano queste due forze in tecnologie in cui è richiesto un grande, seppur agevolato, impegno cognitivo? Come la forza di queste due correnti si coniuga in una società che sempre di più si muove in direzione di tecnologie intelligenti e carichi informativi sempre più eterogenei e complessi da gestire? Come si crea l'equilibrio tra entropia e neghentropia e come queste due forze sono in grado di coesistere nonostante siano opposte? E quando il rapporto tra i due flussi è cognitivamente sostenibile? Sono queste alcune delle domande che gli studiosi dell'intelligenza artificiale e della psicologia sociale stanno cercando di risolvere e su cui anche i designers possono interrogarsi imparando a gestire i due canali di energia all'interno del processo di design. Come fa notare Dough Enghelbart (Morridge 2007,36), padre del mouse, si costruiscono tecnologie che richiedono un sempre maggiore utilizzo di capacità cognitive, di strumenti avanzati e di capacità computazionali per essere costruite, ma che allo stesso tempo cercano di ridurre i costi di apprendimento nella loro utilizzazione. Una complessità alla nascita che non viene percepita nell'atto della fruizione. Queste tecnologie inoltre fanno parte della nostra vita, assumendo ormai il ruolo di tecnologie domestiche, così il computer non raccoglie più solo i dati relativi al mio lavoro, ma anche le mie foto, i miei film, la mia musica. Cosa succederebbe se questo artefatto fatto di circuiti e plastica seguisse inesorabilmente la strada dell'entropia portandosi con se gli artefatti cognitivi che contiene e che si sono invece moltiplicati grazie alla neghentropia? Non credo saremmo in grado di calcolare la perdita, ma siamo stati benissimo in grado di capire il guadagno cognitivo nell'acquistare un hard disk esterno.
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Bruce Sterling in “Shaping Things” divide gli artefatti in cinque categorie a seconda dell'uso che il genere umano fa di essi; la sua catalogazione è interessante quanto utile al tema della nostra ricerca perché è in grado di dare un taglio più specifico in visione del processo di design. Nella nomenclatura di Sterling troviamo: Artifacts, Machines, Products, Gimoz e Spime . Lo stesso Sterling spiega: By using this special terminology, I want to emphasize the continuing interplay between objects and people. I'm describing an infrastructure of human support, irrevocably bound to and generated by the class of people who are necessary to create and maintain that infrastructure. It's mentally easier to divide humans and objects than to understand them as a comprehensive and interdependent system: people are alive, objects are inert, people can think, objects just lie there. But this taxonomical division blinds us to the ways and mean by which objects do change and it obscures the areas of intervention where design can reshape things. Effective intervention takes place not in the human, not in the object, but in the realm of the technosocial. (2005,9)
Artifacts: semplici oggetti artificiali, usabili con le mani. Sono creati uno alla volta, in ambiti locali e sono strettamente dipendenti dalle 'regole del pollice' e del folklore piuttosto che a interpretazioni astratte dei principi della meccanica. Le persone che usano questi artefatti sono “Hunters and Farmers” (es.: le società basate sulla caccia e l'agricoltura che producevano, usavano e raffinavano armi, mezzi ed altri attrezzi)
Machines: sono artefatti proporzionati e complessi con molte parti movibili e ben integrate alimentate da tipi di energia non umana e non animale. Le macchine richiedono strutture di supporto e impegnano l'ingegneria, la distribuzione e l'economia. Le persone che partecipano a questo sistema sono i “Customers” (es. Inizia con l'era dei commerci con l'est asiatico e l'introduzione di nuove merci nel mercato europeo fino alla prima e seconda rivoluzione industriale.)
Products: oggetti distribuiti a livello internazionale, anonimi e prodotti in quantità massificate. Coloro che utilizzano le infrastrutture dei “products” sono anch'essi” “Customers” (es. merci che si trovano tutt'ora sul mercato, prodotte a basso costo ed in grande quantità possono essere prodotti di abbigliamento, oggettistica ed accessori)
Gimoz: sono “oggetti” altamente instabili, multi-accessoriati, programmabili, destinati a target diversi .Sono generalmente legati ai “network service providers”, non sono veri e propri prodotti tangibili, ma piuttosto interfacce. Coloro che utilizzano queste strutture vengono detti “endusers”. Richiedono un'interazione estesa e sostenuta attraverso l'installazione e la lettura di aggiornamenti, plug-ins, messaggi, sistemi di sicurezza e così via.
Spimes: sono i cosiddetti “data”, dati rappresentati sugli schermi, nati da sequenze digitali e di cui si può mantenere la tracciabilità durante tutto il loro utilizzo. Sono (secondo Sterling) i veri protagonisti dell'ultimo processo storico. Le persone che usano queste infrastrutture vengono chiamati “Wranglers” .
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Per distinguere queste “technocultures” Sterling introduce i concetti di “Line of No Return” e “Line of Empire”. La “linea di non ritorno” viene tracciata quando, dopo una rivoluzione tecnologica, non è più possibile tornare indietro -o almeno- senza pagare costi considerevoli in termini di riadattamento: un pescatore dell'era degli “artifacts” può diventare un agricoltore, ma se un pescatore dell'era delle “machines” tornasse indietro sino a quella degli “artifacts” milioni di persone morirebbero di fame e la tecno-società collasserebbe. La “linea dell'impero” si presenta quando coloro che hanno capacità produttive attuano il controllo su un territorio e coloro che non hanno tali capacità rimangono sotto il giogo dei colonizzanti o costruiscono una linea di difesa. Sterling non si scosta dall'interpretazione di cultura che abbiamo già dato, cerca, invece, di mettere in guardia i lettori comunicandoci che la tecno-società in cui viviamo ora -che è quella dei gimoz e che è stata costruita sulla base delle passate- si sta trasformando nell'era degli spimes e che quest'ultima è destinata a segnare una “linea di non ritorno”. Secondo l'autore gli spimes sono artefatti talmente tanto complessi e talmente capaci di permeare la nostra esistenza, che perdere il controllo di queste strutture, superata la “linea di non ritorno” equivarrebbe alla totale perdita del controllo delle nostre informazioni (Sterling 2005,11-12). Rikard Stankiewicz spiega come la tecnologia possa essere intesa come un sistema socio-cognitivo autonomo -detto anche SCST- in continua crescita e che divide la tecnologia in “generica” e di “base”, l'evoluzione degli artefatti tecnologici secondo l'autore è simile ad ogni altra dinamica che intercorre in ogni sistema socio-cognitivo per cinque ragioni: 1. All sustained learning process are inherently recursive: the essence of this phenomenon is well captured by such phrase as “science grows out of science”, “technology grows out of technology” 2. System consisting of self organizing sub systems tend themselves to be self organizing. Autonomous components are, by definition, resistant to external control. 3. The density of interactions within a cognitive system tends to increase over time: as the amount of accomulated knowledge increases the interdependence of various specialized learning process intensifies. The initially individual and particularistic cognitive activities become interconnected and large dense communication networks emerge. 4. The increase in the internal complexity of a cognitive system makes self organization imperative and can be reduced in three basic ways: through specialization i.e. subdivision and segmentation, through functional recombination and generalization 5. The external governability of the cognitive system tends to decrease due to the growing information or competence asymmetries between such systems and the neighbouring social system . An important threshold is crossed when a cognitive system acquires superior diagnostic competence as regards the cognitive need of other social systems. (1992,25)
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I tre stadi del sistema evolutivo delle tecnologie 4 sono adattabili anche ai seguenti modelli dell'autonomia del sistema socio-cognitivo tecnologico. Il primo stadio è quello dello “Standard Evolutionary Model” che definisce il SCST una “knowledge pool” in cui gli elementi sono portati da attori differenti e sono il risultato della ricerca di soluzioni a specifiche problematiche. Il secondo è il “Systemic Model” capace di catturare la complessità e le interconnessioni dei moderni sistemi tecnologici. Il terzo è il “Cognitive Model” che enfatizza l'emergere di conoscenze generiche riguardanti la tecnologia che sono sempre più autonome . Lo svolgimento dei processi sopra elencati dipende in parte dall'accumulo delle informazioni circa la tecnologia (functional insight) ed in parte dalla “simbiosi scientifica” (Stankiewicz 1992, 35). Queste differenziazioni tra modelli sono il risultato sostanziale dell'inevitabile tensione tra due parti della tecnologia: uno attento a produrre soluzioni specifiche e “context sensitive” e l'altro che cerca di raggiungere il controllo generalizzato di tutto il sistema Il computer con la sua interfaccia rappresenta una delle svolte tecnologiche epocali che NON rientrano nella classifiche di Forbes. E' forse l'artefatto più completo che abbiamo al momento a disposizione. E' fatto di materiali lavorati in maniera complessa e di assemblaggi che una persona comune non è in grado di ricreare, ma contiene in sé un deposito smisurato di rappresentazioni mentali facilmente accessibili ed interpretabili. Ha radicalmente cambiato il sistema economico, le amministrazioni, le telecomunicazioni, l'acquisto e la fruizione di prodotti, i concetti di legalità e di luoghi, distingue i paesi sviluppati da quelli in via di sviluppo nel suo utilizzo massificato. Il sistema di simboli utilizzato dal computer- le icone- è un ottimo esempio di artefatto cognitivo. Gli oggetti virtuali che vediamo disposti su una scrivania che non ha gambe, o che riponiamo in cassetti che non si aprono, o che buttiamo in un cestino che si trova sopra la scrivania, rendono accessibile l'altra metà del significato 5 in maniera veloce ed a costo zero, seppur la relazione semantica non sia sempre coerente (nella vita reale ci risulterebbe ancora molto difficile aprire una finestra per mezzo di una freccia mentre stiamo su una scrivania). Il computer ha rivoluzionato il nostro linguaggio, il modo di trasferire documenti, di fruire delle foto, ci ha permesso di trasportare libri interi, cartelle e film tenendoli semplicemente in tasca, contenuti in un oggetto minimale chiamato “penna usb”, che poi è più piccola di una penna e non scrive, ma “ci si scrive sopra”. Questo nuovo modello di artefatto cognitivo è stato in grado di cambiare sensibilmente il nostro stile di vita, ma non ha ancora intaccato gli altri modelli mentali che condivide con altre strutture: la cartella non ha smesso di esistere nel mondo reale. Resta da chiederci ancora una volta come si raggiunge la sostenibilità cognitiva in questi artefatti, come nel caso sia possibile mantenerla e, soprattutto, se l'agognato raggiungimento di questa può segnare a sua volta una “linea di non ritorno”. 4
Rispettivamente: “The standard evolutionary model”, “The system model” e “The cognitive model”, vedi Rikard Stankiewicz in “Technology as an autonomous socio-cognitive system” pagg. 26-30 5 La parola "simbolo" deriva dal latino symbolum ed a sua volta dal greco σύμβολον súmbolon dalle radici σύμ- (sym, "insieme") e βολή (bolḗ, "un lancio"), avente il significato di "mettere insieme" due parti distinte. “L'altra metà del significato” si riferisce alla messa in relazione del significato con la sua rappresentazione Sostenibilità cognitiva degli artefatti nel processo di design 18
Come possiamo gestire cognitivamente una conversazione con una macchina che a volte non è in grado di condividere con noi un linguaggio, che non è capace di capire le nostre perplessità ed i nostri dubbi, che risponde in maniera troppo generica alle nostre domande e che ci fa passare da uno stato di esaltazione per i piccoli successi alla più nera depressione alla comparsa di un problema nel sistema? Ecco di nuovo l'artefatto cognitivo in tutta la sua complessità in ultimo espressa nella sua interazione con l'uomo. “I simply can't enough, the cognitive load is too great. I can do my part, I might Wrangle away in vigourus fashion in some situations I know rather well, but I can't Wrangle all the world's techno-social issues all the time”. (Sterling 2005)
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3. Sostenibilità cognitiva degli artefatti 3.1 Una piccola premessa L’utilizzo del termine “sostenere” e dei suoi derivati (come sostenibile, sostenibilità, etc…) può avvenire all’interno di una molteplicità di significati che vanno da quello letterale (del sostegno fisico, di ciò che “tiene su”) a quello figurato, ampiamente usato ad esempio in “sostenibilità” e nell’aggettivo “sostenibile”. Inoltre è sensibile la differenza di significato attribuito, anche all’interno di un utilizzo figurato, in dipendenza dal contesto entro cui la parola viene usata. Quando un naturalista parla di sostenibilità lo fa avendo come riferimento dati, informazioni e situazioni concrete ben diverse da quelle che muovono un economista o uno studioso di scienze sociali. Sostenibilità è così un termine che assume significati spesso molto divergenti a seconda che lo si usi a partire da una visione sociologica, piuttosto che economica, naturalistica o cognitiva (come si tenterà di dimostrare in questo paper). Imparare a riconoscere queste differenze (e le contemporanee analogie) consente di avvicinarsi alla comprensione interdisciplinare di un concetto così complesso ed articolato come quello di “sostenibilità”.
3.2 Sostenibilità: un concetto ampio e poliedrico La Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (WCED) ha definito il concetto di sostenibilità nei termini di ”uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. In tale definizione, come si può vedere, non si parla dell'ambiente in quanto tale, quanto più ci si riferisce al benessere delle persone, e quindi anche alla qualità ambientale. Bisogna però pensare che il concetto di sostenibilità va ben aldilà della sola -e forse mediaticamente più conosciuta- accezione ecologica che siamo solitamente abituati ad attribuirgli, coprendo un significato molto più ampio di proprietà in grado di mantenere l’equilibrio di un processo o uno stato. Più nello specifico, la sostenibilità è un concetto sfaccettato e poliedrico composto da molteplici categorie (che si intersecano e influenzano reciprocamente), utili da considerare ogni qual volta ci confrontiamo con un processo di sviluppo. Di seguito sono state riportate le definizioni delle tre dimensioni di sostenibilità più conosciute (sostenibilità ecologica, economica e sociale) a cui sono state aggiunte altre accezioni ‘minori’ -nel senso di meno conosciute e utilizzate-. Proprio in virtù del carattere duttile e aperto del concetto di sostenibilità, la seguente lista non è da considerarsi né completa né quantomeno esaustiva; tanto più all’interno della prospettiva in cui si inserisce questo paper, ossia nella dimostrazione di come il concetto di sostenibilità possa essere applicato a quello di cognizione e più in particolare al processo design di artefatti cognitivi 6 :
6
È bene ricordare l'accezione che usiamo in merito: “creazioni umane che abilitano alcune funzioni cognitive e più in generale ci aiutano nello svolgimento di alcuni compiti mentali”
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Sostenibilità ecologica: la capacità di un ecosistema di mantenere processi ecologici, biodiversità e produttività nel futuro. Perché un processo sia eco-sostenibile esso deve utilizzare le risorse naturali ad un ritmo tale che possano essere rigenerate naturalmente. Sono emerse oramai chiare evidenze scientifiche che indicano che l'umanità sta vivendo in una maniera ecologicamente non sostenibile, consumando le limitate risorse naturali della Terra più rapidamente di quanto essa sia in grado di rigenerarle.
Sostenibilità economica: la capacità di un sistema economico di generare una crescita duratura degli indicatori economici. In particolare, la capacità di generare reddito e lavoro per il sostentamento delle popolazioni.
Sostenibilità sociale la capacità di garantire condizioni di benessere umano quali sicurezza, salute, istruzione, equamente distribuite per classi e per genere. In comune con la sostenibilità ecologica, la sostenibilità sociale ha alla base il principio che le future generazioni debbano avere le stesse se non maggiori possibilità di accesso alle risorse sociali rispetto alla generazione presente.
Sostenibilità culturale la capacità di mantenimento di valori storici e strategici stratificati nel tempo. valorizzazione dei beni e servizi, intesa come tentativo di renderli produttivi, di incentivarne il consumo e di favorire la diffusione della conoscenza del patrimonio, in particolare di quello verso cui si riversa una domanda minima rispetto alle potenzialità; tutela e conservazione dei beni culturali, in particolare di quei beni che rappresentano una forte attrattiva, su cui si riversa un’enorme domanda di consumo (Giangrande, 2005) Sostenibilità emotiva come riflessione e attenzione alla qualità delle relazioni tra gli uomini nei luoghi dell’interazione sociale, affettiva e comunicativa. Le emozioni infatti sono una determinante fondamentale delle azioni umane, perché sono collegate strettamente ai loro scopi (Poggi, 2005).
3.3 L’accezione economica, sociale ed ecologica di design sostenibile Ancora strettamente collegato al concetto di sostenibilità ecologica, la definizione di “design sostenibile” fa riferimento alla filosofia di progettare oggetti fisici, alla costruzione di ambiente e servizi che si sposino con i principi di sostenibilità economica, sociale e ecologica. L’obiettivo del design sostenibile è quello di eliminare completamente impatti ambientali negativi attraverso un design capace e sensibile. Secondo questa definizione, manifestazioni di design sostenibile richiedono risorse rinnovabili, un impatto minimo sull’ambiente e un identificarsi delle persone con l’ambiente circostante. Applicazioni di questa filosofia spaziano dal microcosmo dei piccoli oggetti di uso giornaliero al macrocosmo rappresentato da palazzi, città e la superficie fisica della terra. Si tratta di una filosofia applicabile al campo dell’architettura, architettura del paesaggio, urban design, pianificazione del tessuto urbano, ingegneria, graphic design, industrial design, interior design e design della moda. Il design sostenibile è più in generale una reazione alle crisi ambientali globali, alla rapida crescita dell’attività economica e della popolazione umana, all’esaurimento delle risorse naturali, ai Sostenibilità cognitiva degli artefatti nel processo di design 21
danni all’ecosistema e alla crescente perdita di biodiversità. In tale prospettiva, alcuni tra i principi e le linee guida (Kim, 1998; Anastas, 2003; Ryan, 2006, Levin, 1995) per un design sostenibile -comuni alle varie discipline di applicazione- sono i seguenti:
Uso di materiali a basso impatto: materiali non tossici, prodotti in maniera sostenibile o materiali riciclati che richiedono poca energia per essere prodotti Efficienza energetica: usare processi di lavorazione e creare prodotti che richiedono meno energia Qualità e durevolezza: prodotti durevoli e maggiormente funzionanti che dovranno essere rimpiazzati meno frequentemente Design per il riuso e il riciclo: i prodotti, processi e sistemi dovrebbero essere progettati per funzionare in un’ afterlife (prodotti riciclati) Biomimetismo: Riprogettare sistemi industriali su linee biologiche abilitando il riuso costante di materiali in continui cicli chiusi Sostituzione di servizio: cambiare la modalità di consumo da possesso personale di prodotti alla fornitura di servizi che mettono a disposizione funzioni simili, es: da un’automobile privata a un servizio di carsharing Rinnovabilità: i materiali dovrebbero provenire dalle vicinanze (locali o bioregionali), risorse rinnovabili gestite in maniera sostenibile che possono essere composte (o allevate in bestiame) quando la loro utilità è stata esaurita. Edifici ‘sani’: il design di edifici sostenibili ha lo scopo di creare palazzi che non sono dannosi per i loro abitanti né per l’ambiente circostante. Un’enfasi importante va posta sulla qualità degli ambienti interni, specialmente su la qualità dell’aria negli interni.
3.4 SID: Sustainable Interaction design Stegall (2006) sostiene che “il ruolo del designer nello sviluppo di una società sostenibile non è semplicemente quello di creare ‘prodotti sostenibili’, quanto piuttosto di immaginare prodotti, processi e servizi che incoraggiano un diffuso atteggiamento sostenibile. Eli Blevis (2007), ha presentato in un suo articolo la prospettiva secondo la quale la sostenibilità debba essere un elemento di centrale importanza anche per l’interaction design (ossia il design sistemi, prodotti e servizi tecnologici e interattivi), tanto che si può iniziare a parlare di un Sustainable Interaction Design (SID). L’attività di interaction design viene definita da Blevis come l’atto di scelta tra opzioni informative rispetto alle modalità future di essere e comportarci. Blevis propone diversi aspetti per la strutturazione di un programma di ricerca e di una metodologia appropriata a questo modo di pensare e fare interaction design, che l'autore considera “necessario per il futuro di tutti”. L’obiettivo del SID è quello di suggerire modi attraverso i quali gli aspetti legati alla sostenibilità possano essere integrati ai metodi esistenti di design o a nuovi metodi di design in modo da rendere l’interaction design sostenibile. Nella ricerca di Blevis il focus è principalmente legato alla sostenibilità ambientale -con aspetti relativi anche alla salute pubblica, l’uguaglianza e la giustizia sociale, così come altre condizioni e scelte relative all’umanità, la biosfera, l’uso di risorse-, alle modalità attraverso le quali le tecnologie interattive possano essere usate per promuovere comportamenti più sostenibili e a come la sostenibilità possa essere applicata come lente critica per progettare nuovi sistemi interattivi. I temi di questa prospettiva sulla sostenibilità sono perciò lo smaltimento, il recupero, il riciclaggio, la fabbricazione per il riuso, l’acquisizione di longevità Sostenibilità cognitiva degli artefatti nel processo di design 22
d’uso dei sistemi e prodotti interattivi, la condivisione per un utilizzo massimo, la ricerca di utilizzi alternativi ecc…
3.5 Design sostenibile e nuove tecnologie: la ricerca di un sostenibilità cognitiva Tuttavia tale accezione di sostenibilità applicata al design risulta essere povera e incompleta se raffrontata al sempre più attuale campo del design di tecnologie interattive (interaction design), che più che confrontarsi esclusivamente con la progettazione di oggetti fisici e materiali, ha a che fare con la creazione e formulazione di prodotti, sistemi e servizi con i quali l’uomo potrà interagire, talvolta in maniera completamente avulsa dalla fisicità e materialità degli oggetti. Le nostre vite sono giorno dopo giorno sempre più interconnesse grazie alle reti di telecomunicazione e la quantità di ‘oggetti’ immateriali che riempiono la nostra esistenza aumentano a dismisura: musica, film, tv e numerose altre risorse informative. Questi servizi, forniti da compagnie e istituzioni pubbliche, sono importanti tanto quanto gli strumenti attraverso cui vi accediamo: smart phone, PDA, laptop, lettori mp3…. La nostra esperienza di queste tecnologie dipende sia dall’architettura del servizio stesso sia da come noi interagiamo con tali strumenti. La progettazione di tecnologie implica la necessità di conoscere a fondo i processi cognitivi umani, tanto che l’interaction designer progetta comportamenti, prima ancora che prodotti e servizi, e ancora più specificatamente progetta le condizioni abilitanti di certi comportamenti. L’”armatura cognitiva” umana è il codice adottato dall’uomo per interpretare la realtà: un codice di cui è in parte responsabile anche il progettista di tecnologie in quanto sono gli artefatti cognitivi- che Norman (1993) formale definisce strumenti di pensiero che aumentano le capacità della nostra mente rafforzandone i poteri- a forgiare tale “armatura cognitiva”. Questo peculiare carattere ha fatto guadagnare all’interaction design la definizione di “design dell’immateriale”: design di tecnologie sempre più impalpabili, ubiquite, pervasive e delle condizioni tali che abilitino comportamenti e interazioni con queste tecnologie. Come può essere declinato allora il concetto di sostenibilità, facendo riferimento a un tipo di attività creativa che non solo genera prodotti, ma soprattutto genera nuovi comportamenti? Per comprendere ciò dobbiamo fare un salto qualitativo che ci porta a considerare la mente umana come un sistema complesso risultante dall’interazione tra la mente naturale (la mente nel senso stretto del termine) e gli artefatti che la circondano. Ciò che ne risulta è una mente tecnologica- una mente detta anche “esosomatica”: ossia estrinsecata e reificata all’infuori dell’individuo-, negli artefatti tecnologici e cognitivi prodotti dall’uomo stesso. Il contatto e l’interazione quasi simbiotica tra mente naturale e mente tecnologica, il proliferare di tecnologie sempre più invisibili, ubiquite, presenti nella vita di tutti i giorni e conseguentemente l’aumento degli atti di interazione uomo-macchina -che vanno sempre più a sostituire quelli uomo-uomo- sono tutti elementi fondamentali che spingono a pensare che la definizione e considerazione di un concetto di sostenibilità cognitiva (e di principi di sostenibilità cognitiva) applicata agli artefatti tecnologici possa essere più che auspicabile. In che modo i comportamenti, le cognizioni e le emozioni umane vengono influenzate da un artefatto cognitivo? Basti pensare al fenomeno di multitasking 7 e di information overload 8 di cui si sente sempre più spesso parlare
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in un articolo di ricerca scientifica Ulla afferma che è sempre più comune, soprattutto tra i giovani, l’essere coinvolti contemporaneamente in più di una attività con media e tecnologie: instant messaging, e-mail, ordini on-line ecc..
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in relazione all’interazione con le nuove tecnologie. Le società sviluppate si trasformano giorno dopo giorno in economie “knowledge-driven”, di conseguenza aumenta il rischio di erodere la sostenibilità cognitiva e il benessere emotivo dell’uomo (Bray, 2007). In maniera simile all’inquinamento dell’ambiente naturale della terra, l’inquinamento informativo può erodere la curva dell’attenzione degli individui e causare effetti dannosi di stress sia per gli individui che per la società nella sua interezza. Cosa produrrà questo tipo di fenomeni a medio e lungo termine? Quali principi e linee guida dovranno essere considerate per il design del futuro? Come andrà ripensato il processo di design in base a queste linee guida? Facendo riferimento alla definizione più ampia di sostenibilità come le proprietà in grado di mantenere l’equilibrio di un processo o uno stato, definire euristiche di sostenibilità cognitiva applicata al processo di design consisterà nel considerare quali variabili del sistema cognitivo e emotivo umano vengono messe in gioco nell’interazione con le tecnologie. Considerando attraverso un processo analogico il sistema cognitivo umano al pari di quello ambientale- e quindi usando come termine di paragone la definizione di sostenibilità ecologica- potrebbe farne derivare una definizione di sostenibilità cognitiva come di capacità di progettare artefatti cognitivi in grado di supportare (sostenere, appunto) i processi cognitivi (tra cui comprensione, apprendimento, memorizzazione, attenzione, problem-solving ecc..) ed emotivi umani 9 , mantenendo un equilibrio nel processo di interazione tra mente umana e artefatto cognitivo. A proposito di dimensione emotiva da considerare nel processo di progettazione di artefatti, Norman (2004) argomenta che le emozioni suscitate da un determinato artefatto possono talvolta essere più importanti delle sue effettive caratteristiche funzionali, in quanto gli oggetti e strumenti che ci circondano rappresentano per noi qualcosa in più del semplice possesso di beni materiali. Questo avviene perché attribuiamo ad essi una componente narrativa e talvolta l'espressione di noi stessi. La percezione della funzionalità di un artefatto si congiunge con le emozioni da esso suscitate, ad evidenza del fatto che cognizione ed emozione sono in realtà due parti indispensabili di un sistema. Bellezza e funzione, estetica ed usabilità debbono in qualche modo essere parte di un artefatto. Questo cambiamento di prospettiva riflette certamente una recente maggiore attenzione alle emozioni dell'utente nella progettazione di artefatti e la considerazione che esse sono elementi indispensabili nel determinare la dimensione affettiva, comportamentale e anche cognitiva di un individuo in situazione di interazione. Nell'attività di presa di decisione ed espressione di giudizio, ad esempio, le emozioni sono necessarie innanzitutto per renderci consapevoli di cosa è buono e cosa non lo è, attività che viene solo in seguito interpretata dal sistema cognitivo, e in secondo luogo per permetterci di attribuire un valore alle varie opzioni di scelta.
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il sovraccarico informativo dato dalla ricezione di troppe informazioni che vanno ad intaccare la capacità di prendere una decisione o di sceglierne una specifica su cui concentrare l’attenzione 9
Secondo gli studi più recenti esiste un legame strettissimo tra cognizione e emozione, tanto che si parla di una psicologia cognitiva dell’emozione
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4. Come è possibile inserire la sostenibilità cognitiva nel processo di design? 4.1 Values & design La presenza di molti artefatti non è scindibile dalla storia dell'umanità e la loro natura è intrinseca con il nostro vivere, è però possibile rintracciare le tappe fondamentali delle teorie e degli studi che hanno cercato - e tutt'ora cercano- di legittimare razionalmente i comportamenti che ci caratterizzano, agendo spesso in asincronia con il soggetto dell'indagine. Il novecento vede l'affermazione della psicoanalisi come dottrina, ma non segna la nascita del “sé”. Se l'”io” e la sua analisi non fossero esistiti prima della loro teorizzazione molte delle opere della nostra letteratura sarebbero prive di ogni valore. La ruota o la teiera sono certamente esempi di buon design, ma la loro nascita ed il loro utilizzo non di certo si piegano -cronologicamente- alle moderne leggi della materia. Per lo stesso motivo non sarebbe corretto parlare di “nascita”, “invenzione” o “scoperta” del design, ma piuttosto di “presa di coscienza” o “teorizzazione”. Cerchiamo quindi di tracciare a grandi linee l'albero genealogico che ha permesso la manifestazione dei nuovi processi di design associati all'interazione. Potremmo far risalire il concetto di artefatto sino agli antipodi dell'umanità, nella cultura greca con i simulacri di Epicuro o alle rappresentazioni mentali di Kant, ma quando la necessità di modellare gli artefatti alle attività dell'uomo è stato riconosciuto, dalla società e dalle istituzioni, come irrimandabile? Il Design viene-almeno inizialmente- percepito come una delle tante tipologie delle arti. Il forte senso estetico del design, tratto che di fatto lo avvicina all'arte, sembra sempre nasconderci qualcosa; sotto la buccia dell'apparenza, infatti, soggiace l'intenzione. Le opere di design si distinguono dalle altre- dette anche “fine arts”- proprio per questo utilizzo delle intenzioni, dei propositi, capaci di esprimersi con uno slancio comunicativo quasi inconscio. I puristi dell'arte accusano il design di essere un' arte commerciale, capace cioè di piegarsi ai gusti di una massa di individui, tale opinione probabilmente deriva anche dall'uso che l'architettura e l'industria hanno fatto del design, ma a noi piace pensare che sia la stessa vena estetica che lo lega all'arte a far colpo sulla massa smuovendo, in maniera più popolare, gli stati sentimentali di un popolo (quello degli consumatori). Il DNA del design è fatto quindi soprattutto di “estetica” capace anche di veicolare una “funzionalità”, che -come ci suggerisce Mark Getlein- è perlopiù istintiva, naturale e fa parte del nostro “senso del giusto”. Il design siffatto, è ancora fine a se stesso, ha soggiacenti in sé le capacità per rispondere alla nostre problematiche, ma manca di un senso pratico realizzato, di un potere attuativo,una affermazione costruttiva che vada oltre “il bello”.
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L' Ergonomia affonda le sue radici etimologiche nel greco e significa letteralmente “legge del lavoro” (ergòn=lavoro e nòmos=legge) , appare nelle sue vesti per la prima volta nel 1949 e nel 1961 nasce l'Associazione Internazionale dell'Ergonomia e la Società Italiana Ergonomia. Questa “presa di coscienza” avviene, seppur in maniera tardiva, in risposta all'elevata industrializzazione che interessa le nazioni dei paesi sviluppati , proponendo un “modellamento” della macchina intorno alle necessità lavorative dell'uomo, strizzando l'occhio -allo stesso tempo- alla linea ascendente della produzione. E' una “presa di coscienza” in quanto coloro che la teorizzano riconoscono l'impossibilità di spegnere la miccia del progresso industriale- che era stata accesa con la prima e la seconda rivoluzione industriale - ma allo stesso tempo cercano di snaturare positivamente il significato di lavoro- labor inteso come “fatica”. La stessa associazione internazionale dell'ergonomia attesta che l'ergonomia è La professione che applica teorie, principi, dati e metodi per progettare con la finalità di accrescere il benessere dei soggetti umani e le prestazioni complessive del sistema (s.p.) e ancora, la legge italiana si pronuncia in merito nel Art 15, lett. d) del D.Lgs. 81/2008: il rispetto dei principi ergonomici nell'organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo L'ergonomia è dunque in grado di salvare Charlotte 10 dagli ingranaggi delle macchine e allo stesso tempo di salvare la fabbrica di Chaplin dal giudizio negativo degli spettatori. L'ergonomia ha come scopo quello di creare una compatibilità in termini di costi e prestazioni tra l'operaio e la macchina, di mediare l'antropometria- ossia le caratteristiche del corpo umano- con la grandezza, il peso e le fattezze delle macchine negli stabilimenti. Valori congruenti con il pensiero degli anni del benessere economico del dopo guerra, dove non ci si accontenta più di lavorare (inteso qui come labor e quindi faticare), ma di lavorare bene. Una materia esaustiva quella dell'ergonomia se non fosse per la sua scarsa lungimiranza- e una consequenziale limitatezza territoriale- che l' ha portata se non a una sua esclusione di certo ad un superamento. Gli operai in catena di montaggio che ora lavorano bene diventano “consumatori”,ossia cominciano a comprare anche i prodotti che producono altre fabbriche: sono lavatrici, lavastoviglie, televisori elettrodomestici di ogni sorta e l'ergonomia dalle fabbriche adesso torna a casa con gli operai.
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Riferimento al personaggio interpretato da Charlie Chaplin in “Tempi Moderni”. Charlotte a causa della ripetitività della catena di montaggio veniva inghiottito dagli ingranaggi delle macchine.
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Questo è un primo incontro tra design e il popolo dei consumatori, nonché segno di una latente e generale tecnologizzazione che presto invaderà le case e costruirà nuovi modelli di lavoro: non più lavoro come labor fisico, ma labor mentale. Si diffondono i primi computer, i primi database e si assiste alla nascita del settore terziario, è il 1975 e l'ergonomia non basta più, ci vuole un' ergonomia che sia “cognitiva”. Unendo “arte” e “legge” otteniamo dunque l'ergonomia cognitiva e/o il design dell'interazione. L'Ergonomia Cognitiva cerca di alleviare lo sforzo dell'operaio che ha lasciato le grandi macchine per sedersi di fronte ad una macchina più piccola, questa è capace di contenere un carico informativo elevato e di tradurlo in stringhe verdi di numeri, di codici e di lettere. Il nostro Charlotte ora non suda più per il calore emanato dalle macchine in catena di montaggio, ma suda per poter interpretare, memorizzare, decidere e svolgere un lavoro in cui le sue mani sono l'output di un processo ben più complesso, che parte dal suo cervello e che in questo caso viene mediato da un ammasso di rappresentazioni grafiche, o più semplicemente un'interfaccia. Alla ripetitività del lavoro dello Charlotte operaio si affianca ora l'isolamento dello Charlotte impiegato, alla fatica fisica si sostituisce la tensione del cosiddetto decision making (ossia il compito di risolvere problemi e prendere decisioni veloci in breve tempo), lo svolgimento di più attività da parte di una persona sola e l'interazione che non è più con un collega scorbutico, ma con un -ancora- inespressivo “terminale”. L'Ergonomia Cognitiva, esiste anche grazie all'evoluzione e agli studi di altri campi di indagine come: le scienze cognitive, la psicologia, la sociologia, la fisiologia, l'intelligenza artificiale, l'ingegneria , l'informatica e -permettetecelo- il design. Grazie agli studi incrociati di queste materie è stato possibile creare tesi ed antitesi, identificare i problemi e progettare soluzioni. La“Terza Legge della Dinamica” di Newton recita: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Nonostante questa citazione appartenga a tutt'altro campo di indagine, ci aiuta nello spiegare come sviluppo tecnologico ed evoluzione dell'uomo come “essere sociale” intervengano in concomitanza l'uno dell'altro. L'evoluzione continua della mente e della tecnologia ha permesso il formularsi di domande sempre più complesse e di bisogni sempre più specifici da soddisfare. Ecco che il cambiamento delle interfacce, l'architettura delle informazioni, la disposizione del testo, l'uso del mouse e molte altre applicazioni hanno abilitato la nostra mente a nuovi processi di tipo cognitivo, che stratificandosi, sono entrati di diritto nel territorio della conoscenza. Riesce l'ergonomia cognitiva a sopportare questo carico cognitivo instabile? L'Ergonomia Cognitiva è pur sempre figlia dell'Ergonomia e forse nel suo DNA non ci sono tutte le caratteristiche necessarie per affrontare un certo tipo di battaglie. Una “seconda generazione” dipendente da questo albero genealogico potrebbe averi i “geni” per rispondere alla situazione attuale, in cui ad una iper-stratificazione della società degli individui, corrisponde, in maniera simmetrica, una iper-stratificazione delle esperienze e delle conoscenze.
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I cambiamenti tecnologici non intervengono più con intervalli di decine di anni, ma ad intervalli di mesi, e permeano a fondo nella nostra vita modificando il nostro agire ed interagire con il mondo ed il nostro modo d'essere. Se potessimo prendere oggi, ad esempio, un gruppo di persone di età compresa tra 18 e 38 anni nate a 5 anni di distanza e confrontare le esperienze personali e gli approcci tecnologici avremmo una serie infinita di variabili da interpretare e manipolare. Alcuni di loro hanno iniziato ad ascoltare la musica con le music-cassette, altri con i cd, i più giovani hanno conosciuto la musica come qualcosa di intangibile, con il formato mp3. Tutti loro però probabilmente hanno un computer con lo stesso sistema operativo, un cellulare, una connessione internet ed una macchina fotografica digitale. Queste persone dalle esperienze tanto diverse utilizzano tutti gli stessi artefatti. C'è quindi da chiedersi : come può lo stesso artefatto modellarsi ed adattarsi alle esigenze, agli stati dell'essere di individui così culturalmente diversi? Il ruolo della cognizione è qui centrale, ma in che modo questo arbitraggio cognitivo può essere e mantenersi sostenibile? Questo tiro alla fune tra cognizione ed artefatto in questa era di sviluppo tecno-culturale è destinato prima o poi a sbilanciarsi, a meno che la sostenibilità cognitiva sia presto in grado di sviluppare quelle caratteristiche di “seconda generazione” che la rendano terreno fertile per lo sviluppo di interazioni universali nella loro diversità. Passato il pericolo della piena bisogna agire con la lungimiranza. Sostenibilità in questo caso vuol dire anche saper “mantenere”.
4.2 Engineering design form follows failure (not function)
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Alla nascita del moderno processo di ideazione degli artefatti, durante la seconda rivoluzione industriale (XIX sec, vedi cap. 1), l'ingegneria faceva la parte del leone. Il valore che anima questo processo di progettazione è la prevenzione del fallimento nella trasformazione (energia / materia), Petroski afferma: “Form follows failures (not function)” (Petroski, 92, 96). Per questo il processo di creazione nell’ingegneria è fortemente influenzato dalle conoscenze sugli artefatti antecedenti: attraverso la loro storia evolutiva progettuale gli ingegneri riescono a minimizzare i fattori di fallimento. Per esempio un ingegnere progetta un ponte a partire da tutti gli elementi dei ponti che hanno avuto dei cedimenti, evitando sistematicamente le scelte progettuali che li hanno prodotti. L'innovazione è vista come un processo lineare verso una sempre maggiore efficienza energetica, e resistenza fisica (Basalla, 82). Non per niente le conoscenze teoriche messe in gioco si focalizzano sui fenomeni naturali che riguardano i materiali e le energie coinvolte nel funzionamento dell’artefatto (trasformazione della forma d’energia e del materiale: fisica, chimica, scienze dei materiali) (Petroski, 92, 96). Ponti, strade, edifici, non potrebbero esistere senza gli ingegneri. Il fatto che quest'approccio crei tutt'oggi le condizioni di esistenza di tutte queste cose non comporta che esso abbia in effetti più importanza, o che preceda necessariamente gli altri nel processo di ideazione.
4.3 Architectural & Graphic Design shape is the king
Il valore guida dei grafici e degli architetti è l'estetica delle forme. Lo spazio è la loro materia poietica. Il processo creativo è spesso vincolato dai rapporti sociali fra architetti, grafici e clienti e deve bilanciare il desiderio di espressione con le necessità di tutti questi. Questo tipo di approccio è sempre esistito sin all'antichità,infatti, Vitruvio scrive il suo “De Architectura” prima della nascita di Cristo. Emerge nella
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sua autonomia, però, solo nel XIX sec. in contrapposizione all'ingegneria (la quale rappresenta l'applicazione della nascente nuova scienza). Nel rinascimento, gli architetti come Brunelleschi erano anche ingegneri -non a caso architetto in latino vuol dire “capo costruttore”-; nel moderno processo di design, invece, il loro ruolo è legato quasi esclusivamente alla forma e marginalmente alla scelta dei materiali. La ricerca del bello si muove sul limite estremo delle conoscenze e dei principi di design, poiché una delle sue forme euristiche consiste proprio nell’infrangere le regole sia in forma sottile che con modalità eclatanti Ogni problema di design è nuovo ed unico almeno in alcuni dei suoi aspetti, e richiede quindi soluzioni ad hoc. Il processo di progettazione si basa su una lunga esplorazione delle forme e attraverso molte versioni, sempre più definite, dello stesso lavoro, il designer giunge gradualmente alla soluzione.
4.4 Software engineering design What’s your functional requirement?
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Il processo di creazione del software nasce parallelamente al computer nella seconda metà del XX sec. Tutto il processo è animato dalla definizione dei requisiti funzionali, che orientano poi la scelta degli algoritmi e delle strutture dei dati così come l’interfaccia con l’utenza (functional requirements). Gli ingegneri del software padroneggiano i metodi formali di elaborazione dell’informazione: calcolo numerico, calcolo simbolico lineare. Il processo di progettazione ha semplicemente il ruolo di precisare le specifiche per il software che deve essere ideato. Esiste quindi un mapping preciso fra requisiti e algoritmi.(Sommerville, 06; Bohem, 04; Schach, 07)
4.5 Ergonomia is it usable?
Il fine dell'ergonomia è migliorare l'uso dell'uomo degli artefatti, ovvero la qualità dell'interazione fra utente e mezzo nella vita quotidiana sulla base di parametri come: l'efficienza, l'efficacia, la soddisfazione nell'uso, ... All'ergonomia va il merito di aver riproposto per un approccio umanistico detto human-centred, dove la progettazione delle tecnologie deve tener conto di parametri atropometrici e antropomeccanici, nonchè delle possibilità cognitive delle persone. È stata usata per la prima volta da Wojciech Jastrzębowski in un giornale polacco nel 1857 (Karwowski, 1991). Il termine è stato ripreso nel 1949 da Murrell, che lo utilizzò per descrivere le linee guida di prodotti, servizi o ambienti rispondenti alle necessità dell'utente. Tuttora le linee guida sono la forma in cui gli ergonomi esprimono le loro considerazioni su come gli artefatti devono essere progettati per essere usabili dalle persone. Un esempio di studio ergonomico è quello della chinetosfera, ovvero lo studio dello spazio delle "prensioni" possibili attorno all'uomo e viene rappresentato idealmente come un involucro sferico. Questo spazio di lavoro deve essere progettato in modo tale da consentire la massima efficienza e la massima economia dei movimenti.
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4.6 Ergonomia Cognitiva the distance between you and me is...
L'ergonomia cognitiva sposta il valore dell'usabilità dai processi fisici a quelli cognitivi come memoria, apprendimento, pensiero e così via. L'ergonomia cognitiva è quella branca dell'ergonomia che si occupa dell'interazione tra l'uomo e gli strumenti per l'elaborazione di informazione studiando i processi cognitivi coinvolti e suggerendo delle soluzioni per migliorare tali strumenti. Partendo dagli studi di ergonomia classica, è cresciuta parallelamente allo sviluppo dei paradigmi cognitivisti e di “Human Information Processing” a allo sviluppo dei sistemi digitali interattivi. Proprio questi ultimi costituiscono il campo d'azione dell'ergonomia cognitiva. La curva di apprendimento, e l'usabilità delle interfacce dei moderni computers diventarono un fattore critico tanto quanto lo sviluppo delle componenti che le facevano funzionare. Scopo ultimo dell'ergonomia cognitiva è eliminare le distanze esistenti tra la le strutture algoritmiche simboliche del computer, e le rappresentazioni umane tangibili e analogiche. L'interfaccia grafica nata nei laboratori della Xerox, con lo Star nel 1981, è stata forse la sua più grande conquista dell’ergonomia cognitiva. Dall'inizio degli anni '90, ha iniziato ad occuparsi molto degli aspetti di web usability, degli aspetti cognitivi delle interfacce, dei sistemi informativi e di temi di ergonomia sociale -quest'ultima legata all'interazione e alla cooperazione tra più attori sociali nei contesti lavorativi-.
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4.7 Sostenibilità Cognitiva emotions, feelings and aesthetics matters Quanto enunciato fino a questo momento ci porta a considerare un’apertura e una rivisitazione metodologica dell’interaction design e della ricerca all’interno del dominio della Human-Compuer Interaction. L’idea di un concetto di “sostenibilità cognitiva” -assolutamente nuovo nel campo della progettazione di tecnologie- nasce dalla consapevolezza che i tradizionali parametri metodologici di ricerca e design non rispondano completamente alle numerose variabili che entrano in gioco quando parliamo di sistemi interattivi. La penetrazione della tecnologia interattiva nella vita di tutti i giorni sta modificando il modo in cui comprendiamo e progettiamo per la Human-Computer Interaction 11 . I sistemi computerizzati, giorno dopo giorno, diventano da strumenti di lavoro molto specializzati a oggetti computazionali che pervadono le nostre vite: ne consegue che il significato stesso di HumanComputer Interaction si modifica [Peterson 2008]. Ciò ci spinge a pensare ad un superamento metodologico e teorico, e le numerose conferenze e workshops che esplorano vari aspetti delle conseguenze di integrazione della computazione nella vita di tutti i giorni confermano questa tendenza. Abbiamo definito la sostenibilità cognitiva come “la capacità di progettare artefatti cognitivi in grado di supportare (sostenere) i processi cognitivi ed emotivi umani, mantenendo un equilibrio nel processo di interazione tra mente umana e artefatto cognitivo”. L’accento posto, attraverso questa definizione, alla dimensione emotiva umana, oltre che a quella cognitiva, va di pari passo con molte ricerche e teorie attuali legate alla disciplina del design dell’interazione che spingono a una rivisitazione dei modelli metodologici (Peterson 2008, Rullo 2008, Wright 2008, Norman 2004). Abbiamo a che fare con nuovi strumenti tecnologici e qualità di uso che non sono necessariamente collegate alla tradizionale concezione di usabilità -intesa nelle sue dimensioni di funzionalità, adeguatezza all’uso e di prestazione-, ma piuttosto a qualità emotive, esperienziali ed estetiche. Si parla di “New Human Factors”, settore di ricerca che estende l’approccio dello “User-Centered Design” ponendo al primo posto la componente soggettiva dell’interazione. Nuovi termini stanno introducendosi nel vocabolario dell’HCI, tra i quali emozione, piacere, esperienza, espressione, conoscenza ed infine estetica. Inoltre, recenti ricerche nell’HCI e nel campo dell’interaction design suggerirebbero che lo spazio del design debba essere ripensato per permettere l’introduzione non solo delle variabili funzionali che influenzano e determinano la nostra interazione con i sistemi e gli strumenti, ma anche variabili emotive che determinano come diamo senso a tali strumenti e come si manifesta la loro presenza nelle nostre vite (Rullo 2008). Le variabili emotive possono essere scatenate dai valori estetici delle soluzioni progettuali (Djajadiningrat 2000; Norman 2004), tanto che il concetto di “estetica dell’interazione” sembra essere un aspetto sempre più considerato nella progettazione di tecnologie interattive. Con estetica dell’interazione si intende qualcosa che va ben oltre l’apparenza e l’espressività degli artefatti in sé, quanto piuttosto un aspetto strettamente connesso all’uso e all’interattività abilitata dalla computazione. I designer progettano oggetti ma implicitamente anche atti d’uso. L’espressività dell’uso è di forte interesse per l’estetica dell’interazione (Peterson 2008). Un sempre maggiore interesse verso l’estetica e l’espressività applicata al design, negli ultimi dieci anni, ha aperto e rinnovato il campo di discussione rispetto a “come” gli oggetti computazionali fanno ciò che fanno e come abilitano forme di
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Ricordiamo che la Human Computer Interaztion è conosciuta anche con il termine HCI o come “interazione uomo-macchina”. Sostenibilità cognitiva degli artefatti nel processo di design 33
interazione. La differenza tra un terminale a linea di comando, un interfaccia-utente grafica (GUI) 12 e una tangible interface, non è solo una questione relativa a ciò che queste fanno, ma come lo fanno (Redström 2008). McCarthy e Wright (2005) vedono nell’atto di interazione con la tecnologia interattiva un’”esperienza” modellata da elementi compositivi, sensuali, emotivi e spazio-temporali, definiti anche “modi di parlare della tecnologia”. La nuova agenda dell’usabilità (Hallnas e Redström 2002, Norman 2004) ha ampliato la quantità di fattori che determinano la qualità delle interfacce utente, prestando attenzione al design dell’estetica e all’influenza delle emozioni nel design. In un suo libro di grande influenza, Norman (2004) afferma che l’aesthetic design può avere addirittura maggiore influenza nel determinare le preferenze degli utenti rispetto alla tradizionale usabilità operativa. Questa affermazione riflette una conoscenza ben stabilità nel campo del marketing, del product design e addirittura della psicologia sociale per cui in realtà, la bellezza conta. La bellezza, parlando di tecnologie interattive, non si ferma però ad un concetto di “apparenza” (look) tipico del design estetico visuale, ma si apre ad un concetto di interazione che deve generare un “feel-good factor” che si sviluppa nell’arco dell’interazione. Ma se l’estetica è un’importante componente della qualità del design, la percezione dell’estetica è suscettibile del background e dei compiti portati avanti dagli utenti; l’esperienza estetica ha un forte carattere di contingenza generata dalla reciproca influenza tra utente, cultura e storia, e non dovrebbe essere visto esclusivamente come una caratteristica propria dell’artefatto o dell’utente. Secondo Wright e McCarthy (2004): “Nell’esperienza estetica, l’integrazione vivace tra mezzi e fini, significato e movimento, che coinvolge tutte le nostre facoltà sensoriali e intellettive, è emotivamente soddisfacente e appagante. Ogni atto si relaziona significativamente all’intera azione ed è percepita da chi vive l’esperienza come costituita da un’unità o un’integrità che è in sé appagante.” Dewey (1934) afferma che le sensazioni e le emozioni creano la base solida che tiene insieme l’esperienza e che la qualità particolare che definisce la nostra esperienza estetica è che essa è creativa, espressiva e coinvolge i sensi e i valori di un individuo in un’attività inclusiva, coinvolgente e appagante. Wright (2008) ha elaborato un framework volto all’analisi dell’esperienza estetica attorno a tre temi:
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un approccio olistico che riconosce la necessità di considerare non solo l’aspetto cognitivo, intellettivo e razionale dell’esperienza ma anche quello emotivo e sensuale, come aspetti importanti dell’esperienza.
un continuo coinvolgimento e generazione di senso: L’esperienza è costituita da un continuo ed attivo coinvolgimento con il mondo attraverso atti di generazione di senso a più livelli. E’ continuo poiché non possiamo mai essere fuori dall’esperienza, e attivo nel senso che si tratta di un coinvolgimento in un agire interessante e emozionante per noi stessi con e attraverso materiali e strumenti. Il significato è costruito attraverso il dinamico influenzarsi tra gli elementi di tipo sensoriale, emotivo, spazio-temporale e compositivo.
un’ontologia dialogica nella quale l’individuo, gli altri e la tecnologia sono costruiti come centri multipli di valore: In una situazione di “dialogicità”, il significato di un’azione, Graphic User Interface Sostenibilità cognitiva degli artefatti nel processo di design 34
un’espressione, un’affermazione o un artefatto è aperta perché la sua interazione con gli altri crea un significato contingente. Attraverso questo schema concettuale Wright fornisce un linguaggio e un set di risorse concettuali per analizzare l’esperienza umana con la tecnologia come primariamente estetica, fondata sull’intersecarsi di azione, sensazione e emozione e costituita da processi di costruzione di senso. Inoltre Wright (2008) afferma che l’esperienza estetica nell’interazione con artefatti e sistemi è data sia da ciò che l’individuo porta all’interazione, sia da ciò che il designer lascia nell’interazione. Questo significa che non è sempre possibile architettare l’esperienza estetica, o addirittura controllare con precisione l’esperienza dell’utente (Wright e McCarthy 2005). Ciò che i designers possono fare è fornire le risorse attraverso le quali gli utenti possono strutturare le loro esperienze. Wallace e Press (2004) affermano che la bellezza gioca un ruolo cruciale nella facilitazione delle nostre esperienze di costruzione di senso e di coinvolgimento rispetto alla complessità della tecnologia digitale. Il framework di giudizio proposto fornisce una visione comprensiva di nuove qualità di design e si estende ad una gamma di misure soggettive da considerare nella progettazione di sistemi interattivi (dai fattori emotivi a quelli estetici). Secondo Redström (2008) un’implicazione metodologica consiste nel rafforzare e riformulare il già ben noto principio “conosci la tua utenza”, in un più specifico “conosci le preferenze e aspettative della tua utenza”. Un esempio di progetto che fa dell’estetica dell’interazione un aspetto fondamentale, è quello rappresentato dai cuscini interattivi o Interactive Pillows (Redström et al. 2005). L’ interactive pillow è una reinterpretazione di ciò che significa stringere un cuscino quando desideriamo stare con qualcuno, trasformando questo atto in un atto di comunicazione. Questi cuscini funzionano in coppia e sono connessi wireless tra loro: quando uno dei due viene abbracciato e stretto a sé, l’altro si illumina.
Interactive pillow
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Il concept di questo cuscino riprogettato è in qualche modo collegato a un’idea piuttosto influente nel design delle tecnologie attuali: quella di creare nuove tecnologie che appaiano simili a oggetti esistenti per facilitarne l’uso e l’appropriazione. Lo scopo è quello di creare una “tangled interaction”, ossia un’interazione che intrecci estetica, aspetto e funzione: nascondere le nuove tecnologie all’interno di oggetti e ambienti familiari implica nella pratica una sorta di interazione a livelli. Questo avviene perché nuovi ruoli e funzioni vengono introdotte e allo stesso tempo vengono preservati ruoli e funzioni esistenti. Rendere cognitivamente sostenibile un artefatto, sistema o servizio interattivo, significa considerare i bisogni dell’utente che a loro volta sono formati da un complesso di aspettative, esperienze d’uso precedenti e variabili emotive che dovrebbero essere integrate nel design del sistema. Rullo (2008) afferma che nella progettazione di applicazioni di ambient computing, lo spazio progettuale dovrebbe essere aperto al fine di considerare più variabili, non solo quelle funzionali ma anche quelle emozionali, esperienziali e estetiche. In questo senso, la natura dei requisiti che devono essere considerati dovrebbe essere estesa al fine di includere quelle che nell’architettura tradizionale vengono chiamate “soft qualities” o “qualità senza nome”, ossia caratteristiche che definiscono l’estetica e che creano un senso di integrità che caratterizza la nostra relazione con certi ambienti e artefatti. Una metodologia sempre più centrata sulla dimensione emotiva ed esperienziale dell’utente Porre l’esperienza estetica al centro della teorizzazione sull’HCI non riguarda solo il modo in cui viene analizzata e valutata l’interazione delle persone con la tecnologia; influenza piuttosto il modo in cui ci approcciamo al design e alla creazione di artefatti digitali. (Wright 2008). Questa concezione di design porta a un’ulteriore riflessione sulle metodologie e gli strumenti di design. Un prima considerazione fa riferimento al ruolo degli utenti lungo l’intero processo di design. La partecipazione degli utenti alle sessioni di progettazione -l'approccio participatory del design- permette di comprendere meglio e porre il focus su come un artefatto viene a far parte dalla vita di qualcuno, come un individuo formula aspettative rispetto ad esso, come le sue attività cambiano per adattarsi alla tecnologia e come egli cambia la tecnologia per assimilarla al suo mondo. Se la chiave per la buona usabilità ingegneristica è la valutazione, la chiave per un buon design di interazione estetica è capire come l’utente genera senso dall’artefatto e dalla sua interazione con esso, a livello emotivo, sensuale e intellettivo. L’enfasi è posta sul significato personale e unico che si genera nell’uso e interazione con un artefatto, nell’esperienza di interazione. Secondo Rullo (2008) però, non sempre gli utenti sono in grado rendere espliciti i latenti, ma fondamentali, bisogni che influenzano la loro esperienza in un particolare contesto. Questo implica che una prospettiva che è esclusivamente focalizzata sul coinvolgimento dell’utente non permette una completa comprensione e quindi una effettiva rappresentazione di tutte le variabili che giocano un ruolo specifico. Strategie di design complementari dovrebbero essere identificate per raccogliere effettivamente i bisogni particolari degli utenti e per trasformarli in accurati requisiti progettuali, sperimentando così nuove modalità di partecipazione ed espressione degli utenti. Tutto ciò fornisce un framework filosofico che mira a non ridurre né a vincolare la cognizione, l’emozione e il coinvolgimento; piuttosto, esso incoraggia ad esplorare il reciproco influenzarsi di queste dimensioni tra di loro e a considerare il concetto di estetica dell’interazione come una categoria ontologica da inserire nel processo di design e come elemento di valutazione della sostenibilità cognitiva degli artefatti interattivi.
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5. Linee guida per una sostenibilità cognitiva degli artefatti Poste le premesse per una rivisitazione metodologica dei processi di design e delineato il framework per l' inglobamento del concetto di "sostenibilità cognitiva" nelle attività di progettazione e valutazione degli artefatti, strumenti e sistemi interattivi, vorremmo ora delineare alcune euristiche -o linee guidache riteniamo essere utili per ripensare la progettazione dell'interazione in termini di sostenibilità cognitiva. Tali linee guida non hanno la presunzione di rappresentare dei vincoli rigidi di progettazione e valutazione di artefatti, piuttosto di definire con maggior precisione il dominio e il contesto progettuale, aprendolo alla considerazione di una maggiore quantità di variabili interagenti nei processi di interazione con complessi sistemi computazionali di tecnologia digitale
Pensa all'utente non come un entità fissa ma come un processo mosso da desideri di autorealizzazione. Ogni utente è un uomo. Inizia il processori design con una sua rappresentazione archetipica definendo i suoi obiettivi futuri. Ricorda che i suoi “task” quotidiani sono uno strumento per raggiungerli.
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Pensa all'interazione sempre per gruppi mai per individui: considera l'interazione nella sua forma triadica e sociale, mossa da aspettative, desideri, emozioni, sentimenti, sensazioni proiettate verso qualcuno o qualcosa.
Apri lo spazio dell'interazione ad un dialogo tra utente e sistema: abilita l'emergere di nuovi comportamenti, lascia l'utente libero di porsi da solo i suoi vincoli, crea uno spazio di libertà per le capacità espressive dell'utente
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Integra il mezzo e il fine dell'interazione, il significato e il movimento. Pensa che la tecnologia dovrebbe avere le reazioni di un uomo: nascondi la computazione e crea atti di interazione fluidi, come una carezza, dove lo strumento di mediazione diventa un tutt'uno con il significato dell'interazione
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