SMALL ZINE N. 27

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ISSN 2283-9771

Magazine di arte contemporanea / Anno VII N. 27 / Trimestrale free press

SMALL ZINE

Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale 70% Cosenza Aut S/CS/19/2016/C

LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE 2018


SOMMARIO TALENT TALENT 3

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DICOTOMIE APPARENTI Arthur Duff - Davide Silvioli CORPO A CORPO CON LA MATERIA Sacha Turchi - Gregorio Raspa IL SILENZIO DELLA PITTURA Niklaus Manuel Güdel - Loredana Barillaro

INTERVIEWS 6

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LO SPAZIO E LE SUE IPOTESI Marta Colombo - Gregorio Raspa SILENZIO NUDO Giorgio Bevignani - Maria Chiara Wang SPETTRI D’ITALIA Flavio Favelli - Valentina Tebala

SPECIAL 12

L’ARTE DI SAPER COMUNICARE L’ARTE con Lara Facco, Roberta Melasecca, Norma Waltmann, Silvia Macchetto - Loredana Barillaro

PEOPLE ART 14

CINQUE DOMANDE PRIMA DI TUTTO Lorenzo Balbi

SHOWCASE 16

FRANCESCO CUNA con un testo di Giovanni Matteo a cura di Pasquale De Sensi

SMALL TALK 17

SINTESI, VISIONI E PAESAGGI DI CARTA Daniele Papuli - Silvia Puelli

SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info 3393000574 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Valentina Tebala, Maria Chiara Wang, Silvia Puelli, Gregorio Raspa, Pasquale De Sensi, Davide Silvioli Con il contributo di: Lorenzo Balbi © 2018 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.

SHOW REVIEWS 18

ALBANIA. THE SPIRIT OF THE TIMES MACA - Acri (Cs) - Luca Cofone

FREE SPACE ● GLI ANFRATTI DI UN TEMPO RITROVATO Liliana Condemi - Loredana Barillaro

In copertina Sacha Turchi, ESUVIA, 2017. (part.) Scultura indossabile. Materiale naturale di origine vegetale, costituito da sostanze che caratterizzano la composizione ossea del corpo umano. Courtesy dellʼartista.


TALENT TALENT

DICOTOMIE APPARENTI Arthur Duff

- Davide Silvioli

A

rthur Duff rientra indubbiamente fra le fila di quegli artisti che rappresentano il lato più sperimentale della nostra contemporaneità. Dalla visione del suo lavoro, emerge con molta chiarezza quanto faccia della ricerca intorno alle potenzialità espressive di materiali inconsueti e diversificati, il comune denominatore della sua produzione, riservando sempre una particolare attenzione speculativa nei confronti della loro concertazione all’interno dell’articolazione di una singola opera che, proprio grazie a tale coerenza, ne mette in luce possibilità comunicative altrimenti tacite. Difatti, in perfetta adesione con l’accezione contemporanea di scultura che, oggigiorno, appare più trasversale che mai, si veda come l’artista sia abile nel commisurare le qualità estetiche di elementi a primo impatto antitetici, svelandone straordinarie e inaspettate facoltà dialogiche e narrative. Questo dato gode di ancora maggiore centralità, laddove l’artista mette a punto delle - potremmo dire - vere e proprie simbiosi di enti materiali differenti, valorizzandone gli imprevedibili risvolti estetici insiti nella loro diversità. Sembra essere proprio questa continua calibrazione di sinergie linguistiche alternative, il propulsore creativo di un percorso artistico efficace nel rivalutare e ricucire le idiosincrasie dell’attualità. Un binomio utile ad argomentare con maggior puntualità questa caratteristica, è quello costituito dal dualismo naturale/artificiale, affrontato spesso da Duff dimostrando una notevole varietà di soluzioni. Paradigmatica, a tal proposito, è la sua partecipazione alla collettiva “E-Merging Nature” che, tenutasi presso gli spazi di Marignana Arte a Venezia lo scorso maggio a cura di Ilaria Bignotti e Federica Patti, ha fornito al pubblico e alla critica un esauriente momento di riflessione riguardo i recenti sviluppi del rapporto che intercorre fra natura e tecnologia, nel campo delle arti visive coeve. Qui, con le opere Zeroth (2017) e No Plot (2016), bene ha illustrato gli aspetti basilari della sua pratica artistica, concentrata sulla costruzione di connessioni fra elementi e materiali extraartistici e sulla messa alla prova delle proprietà fondamentali della scultura. In Zeroth si può ammirare la relazione che si instaura fra materie dissimili come la monoliticità della pietra lavica e il libero, linearismo della corda in poliestere. Alla base abbiamo un materiale archetipico antico quanto il pianeta terra lavorato con una pigmentazione accesa che ne accentua le irregolarità della superficie, su cui giace la contrastante morbidezza della corda in poliestere, materiale figlio della produzione industriale contemporanea che in questa operazione raggiunge una propria dignità estetica. L’autore ci porta così a confrontarci totalmente con la scultura, con il relativo ingombro, con la sua presenza e fisicità. Anche No Plot costituisce una puntuale meditazione su come fattori fra loro estranei siano in grado di comunicare nellʼorganicità visiva di un’unica grammatica, dove la corda questa volta in tensione - descrive un forte senso di pesantezza mentre, inaspettatamente, la pietra lavica sollevata da terra assume un senso di leggerezza per lei inusitato, ulteriormente corroborato dall’impiego della luce al neon che, nella magmaticità della roccia, aggiunge all’intera composizione una parvenza di atavica energia aurorale. Naturale e artificiale, antico e contemporaneo, acquisiscono così nella poetica di Arthur Duff qualità narrative inedite che sorgono da un’interrogazione sulle specificità dei media realizzativi e, pertanto, sulle conseguenti possibilità combinatorie, all’interno di un’indagine volta alla soluzione di dicotomie. Dall’alto: ZEROTH, 2017. Lava stone, polyester, rope polish, 45x53x42 cm. NO PLOT, 2016. Lava stone, red neon, rope, variable measures. Foto © Enrico Fiorese. Per entrambe courtesy Marignana Arte, Venezia.

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TALENT TALENT

CORPO A CORPO CON LA MATERIA Sacha Turchi

- Gregorio Raspa

P

di un territorio su cui l’esperienza individuale si confronta con le più articolate vicende del mondo sensibile. In questa narrazione, che dal sé conduce all’altrove, si annodano fra loro contesti di reciprocità e interazione, meccanismi di trasmissione e adattamento, fenomeni di spontaneo metamorfismo e di ostinata incorruttibilità. L’incessante confronto teorico-pratico con le sostanze e i materiali impiegati è forse il dato che, meglio di qualsiasi altro, riassume l’essenza di un linguaggio rispettoso delle preesistenti leggi naturali e dei loro effetti. Turchi esplora la materia - preventivamente individuata e campionata - indagando con meticoloso approccio scientifico il suo potenziale trasformativo. Nelle sue mani ogni elemento muta attraverso sequenze accuratamente programmate, modifica la sua struttura, si offre come un’entità distante dalla sua premessa iniziale. Ciascun passaggio fisico accompagna un nuovo sistema di azioni e significati, cristallizzato dall’artista nell’essenzialità del suo rivelarsi. In quest’ottica è possibile inquadrare anche il senso di Klastos (2018), l’esito artistico di un’indagine condotta sulla teoria dei “comportamenti emergenti” attraverso lo studio delle molecole argillose. In questo progetto - e in tutti gli altri della sua ricca produzione - Turchi utilizza al contempo la materia come veicolo di forza e catalizzatore di energia. Ed è all’interno della sua vitalità che si muove una prospettiva inedita, in cui il dominio della rappresentazione visiva è interrotto dall’incessante ricerca di verità inesauribili.

er Sacha Turchi la ricerca artistica è, in primo luogo, un percorso conoscitivo. È un tracciato di esperienze attraverso cui alimentare rischio e possibilità, cullare il dubbio, travalicare le cose manifeste. La sua opera attraversa la dimensione biologica e fenomenologica dell’esistenza, persegue una bellezza ibrida in cui la complessità del pensiero stimola situazioni e accadimenti. In essa assume centralità la dimensione antropologica dei contenuti, coltivata nell’ambito di una realtà materiale che indica i tempi e i modi di realizzazione dell’opera, nonché le scelte inerenti le strategie linguistiche e visive da adottare. In un simile contesto, fondamentale appare l’intimo - e a tratti ossessivo - rapporto instaurato con il corpo umano, sovente utilizzato come matrice - filosofica e fisica - di un approccio creativo guidato da simmetrie e parametri antropometrici. In tal senso, gli elementi scultorei e installativi realizzati dall’artista preservano l’espressività della mimica e il valore plastico della posa; restituiscono l’immagine di un corpo, la vitalità delle sue proiezioni dinamiche e l’accoglienza della sua impronta. In molti casi l’opera si configura come una struttura abitabile, una singolare corazza da indossare. È così - ad esempio - in lavori come Esuvia (2017), Moveo (2017), Spongia (2015) o Makrama (2015) in cui cavità e strutture anatomiche promettono all’osservatore ospitalità e aderenza. La perfetta corrispondenza fra le forme suggerisce inequivocabili legami di appartenenza e correlazione, dissolvendo il confine opera-autore e vaporizzando altresì la distanza tra il dispositivo artistico e il suo fruitore. Attraverso la prassi metodologica descritta - e l’attento studio dei contenuti teorici che direttamente la ispirano - Turchi proietta nel suo lavoro simboli e tracce autobiografiche; deposita nell’opera - e in essa lascia sedimentare - germinali elementi d’intimità. Il tutto diventa dimensione immaginifica, metafora

MAKRAMA, 2015. Calcio Carbonato, Calcio Fosfato, Collagene, Acido lattico, Acido jaluronico, Magnesio, Amido di mais, Destrina di mais, cellulosa. Dimensione variabile (h)x85x30 cm. Courtesy dell’artista.

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TALENT TALENT

IL SILENZIO DELLA PITTURA Niklaus Manuel Güdel

- Loredana Barillaro

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el lavoro di Niklaus Manuel Güdel, il bianco è il colore dell’assenza, o forse dell’attesa, di qualcosa che ancora non ha preso forma, non si è del tutto compiuto. Questo l’aspetto che emerge soprattutto nei dipinti degli ultimi anni, ad esempio in Grand Hotel Costa Rica del 2016, appartenente alla serie Retour à la couleur, dipinto che ha valso all’artista l’assegnazione della Menzione Speciale SMALL ZINE nell’ambito della quarta edizione dell’Art Prize CBM - Premio Carlo Bonatto Minella, indetto da Areacreativa42 e che aveva come tema proprio “le forme dell’attesa”. Lo spazio sembra infatti saturarsi di un’atmosfera di attesa in cui si rimane fermi ad aspettare che qualcosa accada, che qualcuno giunga; tutto all’apparenza è pronto, ma ancora non completamente compiuto, poche tinte e una pennellata “spontanea” connotano l’insieme di una certa irrealtà. Una pittura delicata, dipinti, quelli di Niklaus Manuel Güdel, che sembrano denotarsi oltre che per un minimalismo delle forme - tale da conferire talvolta uno stato del “non finito” - per un uso essenziale di tinte rintracciabili fra i colori primari e secondari, il blu, il rosso, il verde soprattutto, chiamato a pacificare l’atto della visione. Il lavoro dell’artista, nato in Svizzera nel 1988, si connota forse per un figurativo “al limite”, in cui la composizione dei dipinti oscilla fra sostanza ed etere, come quelli recentissimi e rintracciabili nella serie succitata Retour à la couleur. L’artista infatti lavora per serie, all’interno, ad esempio, di Comme un blanc, prevalgono le cromie del bianco e del blu in un’identica attenzione ai soggetti, ma nell’abbandono quasi totale della trattazione del colore; o ancora, facendo un passo indietro Le silence des animaux. Tutte facilmente riconoscibili pertanto dal cromatismo che l’artista assegna ad ognuna di esse. Una pittura non costretta in rigidi schemi, pur palesandosi in una sorta di geometrismo in cui la composizione appare sostanzialmente divisa in due: lo spazio che circonda e “incornicia” l’elemento posto al centro, sovente un oggetto inanimato che l’artista lascia bianco, e che egli nel corso del tempo quasi “ritaglia” nel dipinto a voler sottolineare con forza che ad essere veramente importante è ciò che manca, ciò che è evocato, a conferire al dipinto un senso di sospensione temporale, come se la mano dell’artista, attendesse di agire ancora sull’opera. È certo una pittura raffinata ed elegante, “astratta” quanto basta e rigorosa il giusto. Un bilanciamento equilibrato di piani e accostamenti cromatici. E l’elemento vegetale, anch’esso protagonista, è il contesto in cui l’artista pone i suoi soggetti, li fa vivere, li fa respirare, li fa muovere o, semplicemente, li pone in attesa.

Dall’alto: HOTEL COSTA RICA, 2016. Huile et fusain sur toile, 140x120 cm. LA PISCINE, 2018. Huile et fusain sur toile, 140x120 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

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INTERVIEWS

LO SPAZIO E LE SUE IPOTESI Marta Colombo

“L

e linee dei miei disegni non sono costrette dal foglio di carta, ma corrono su muri, pavimenti, soffitti o vengono tradotte con vari materiali e tecniche nello spazio reale, stimolando un’attiva osservazione del pubblico.”

Gregorio Raspa/ Marta, rileggendo il tuo percorso di ricerca è possibile apprezzare la costanza e il rigore con cui sin dagli esordi hai deciso di affrontare il tema dell’architettura, approfondendo negli anni le numerose implicazioni connesse al suo rapporto con la storia, l’uomo e il territorio. Cosa ti ha spinto a lavorare in questa direzione? Marta Colombo/ Da molti anni mi affascina l’architettura che caratterizza il palcoscenico urbano delle diverse città. All’Accademia di Brera mi hanno influenzata i corsi di anatomia della Professoressa Maria Cristina Galli, che ci invitava ad osservare e studiare il corpo umano come se fossimo di fronte ad una vera e propria struttura architettonica.

- Gregorio Raspa

Nel 2009, quando mi sono trasferita nella zona di Düsseldorf, l’ambito della mia ricerca si è focalizzato sulla presenza dei resti romani in Nordrhein Westfalen. Mi mancavano le forme architettoniche antiche, più facilmente ritrovabili in Italia. La percepibile differenza di forme architettoniche presenti sul territorio italiano e tedesco è stato un elemento fondamentale per lo sviluppo del mio lavoro artistico. GR/ Concepito come il frutto di una riflessione sull’architettura, e in ultima analisi sulle possibilità e le tecniche di organizzazione dello spazio, con il tempo il tuo lavoro ha assunto, a sua volta, una dimensione ambientale ed installativa. Come una simile svolta ha influito sul tuo processo di ricerca e i suoi presupposti teorici e pratici? MC/ Lo stage del 2011 svolto presso i laboratori di scenografia del Teatro alla Scala ha influenzato il mio sguardo nei confronti della tridimensionalità. I miei disegni su carta hanno assunto lentamente una dimensione spaziale allargata, con l’obiettivo di entrare in dialogo con l’architettura reale. Così ho iniziato a sperimentare con diverse strategie, differenti materiali e 6

con la percezione sensoriale. Alcuni miei interventi site-specific sono stati esposti durante la residenza in Viafarini a Milano e in diverse istituzioni tedesche come il Museum Kunstpalast a Düsseldorf e il Lehmbruck Museum a Duisburg. GR/ In tutti i tuoi lavori - anche in quelli appena citati, caratterizzati da un approccio spaziale più ampio e composito - il disegno continua ad occupare un ruolo centrale, concettualmente ed esteticamente strategico. In tal senso, esso sembra rappresentare - ancora - l’elemento chiave della tua progettualità. È realmente così? MC/ Il disegno svolge effettivamente un ruolo centrale nella mia ricerca artistica. Esso mi permette di osservare, pensare, tradurre su carta e sperimentare nello spazio. Negli ultimi quindici anni il disegno si è emancipato e ha acquisito un nuovo riconoscimento nella scena artistica. È un medium che si presta a sperimentazioni interdisciplinari. Le linee dei miei disegni non sono costrette dal foglio di carta, ma corrono su muri, pavimenti, soffitti o vengono tradotte con vari materiali e tecniche nello spazio reale, stimolando un’attiva osservazione del pubblico.


GR/ All’interno della tua produzione mi ha molto incuriosito la serie Tribute to Hilla Becher (2017) in cui il lavoro fotografico compiuto dall’artista tedesca - e dal marito Bernd - diventa la traccia da cui partire per la composizione di nuove ed astratte visioni paesaggistiche. Me ne parli? MC/ Avevo incontrato Hilla Becher a Essen e la sua fragile e decisa presenza mi aveva emozionata. Nell’ottobre 2015 la notizia della sua morte è stata per me un momento importante per prendere distanza dalle forme antiche ed includere nella mia ricerca anche elementi moderni e contemporanei. Dedicate a lei sono nate le due serie di lavori su carta Tribute to Hilla Becher (2015 e 2017) e l’installazione esposta in Museum Ostwall a Dortmund. GR/ Non è la prima volta che operi utilizzando come motivo d’ispirazione un lavoro artistico preesistente, magari connesso ad una particolare esperienza autobiografica. Penso ad esempio al ciclo Architecture Walk. Medienhafen (2016), ideato in seguito al recupero di una serie fotografica di Tata Ronkholz e Thomas Struth… MC/ Architecture Walk. Medienhafen è nata dopo una visita allo Stadt Museum di Düsseldorf. Qui ho scoperto la serie fotografica Projekt Rheinhafen Düsseldorf (1979-1980) di Tata Ronkholz e Thomas Struth che mi ha colpita sia a livello emozionale che teorico. I due fotografi hanno documentato l’area del porto poco prima dell’intervento di riqualificazione per salvaguardare le forme che sarebbero andate perdute. Interessata alla storia che sottende questa serie fotografica, mi sono posta l’obiettivo di indagare il dialogo tra le forme visive antiche e contemporanee del quartiere Medienhafen. GR/ Proprio il rapporto tra l’architettura classica e quella contemporanea emerge con frequenza nel tuo lavoro attraverso un linguaggio volto a suggerire inequivocabili elementi di continuità espressiva e sensoriale. Quale valore bisogna attribuire all’uniformità grafica, concettuale ed organizzativa che nelle tue opere restituisce - e idealmente avvicina - il fascino delle rovine pompeiane della serie Colonnato (2015) a quello - ad esempio - dei grattacieli di Porta Nuova del ciclo The New Milan (2018)? Dietro le regole di un’intenzionalità preminentemente artistica sembrano celarsi le ragioni di un’analisi più complessa… MC/ Il dialogo tra l’architettura antica e contemporanea mi affascina molto. Ognuna delle due parla una lingua diversa portando con sé tradizioni e storie proprie pur coesistendo pacificamente - e in modo più o meno armonico - su uno stesso territorio. Poi, l’architettura è anche prestigio e potere. La indago attraverso il disegno e le installazioni per riflettere sul suo ruolo politico e antropologico.

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Da sinistra: TRIBUTE TO HILLA BECHER, 2017. Studio view. Mixed media on paper, 32x42 cm, 42x62 cm. Photography © Katharina Mentink. COLONNATO, 2015. Exhibition view, Lehmbruck Museum, Duisburg. Mixed media, 450x480x320 cm. Variable installation layout. Photography © Roland Baege. Per entrambe courtesy dell’artista.


INTERVIEWS

SILENZIO NUDO Giorgio Bevignani

“L

a materia ha il proprio significato e desidero adoperarla con umiltà lasciando meno tracce possibili sulle porzioni di essa che scelgo.”

Maria Chiara Wang/ Giorgio, quali sono le tappe del tuo percorso artistico? Giorgio Bevignani/ La mia ricerca artistica è testimoniata da una successione di opere che disegnano il mio percorso, partirei dalle primissime installazioni realizzate dopo Brera. La prima s’intitola Grande Muro Blu (1989) ed è composta da grandi moduli che abitano lo spazio dilatandosi ad evocare l’abbattimento del muro di Berlino. La seconda è Polittico blu (1990), nato da una serie d’acquerelli dipinti l’anno precedente, nei giorni delle proteste degli studenti a Pechino in Piazza Tienanmen. Successivamente mi sono dedicato agli encausti su tela: strati sottili che evocano

- Maria Chiara Wang

immagini simili alle lastre di marmo appena tagliate, con patine profonde e trasparenti (mostra “Pinturas” alla Galeria Diners di Bogotà e all’Ignis Kultur Zentrum di Colonia - 1999). Con Granata (premio internazionale del 2009) la mia produzione si è diretta verso la lavorazione di moduli in resina (987) per eseguire un intervento sulla facciata del teatro Jorge Elecier Gaitan di Bogotà che simulasse una pioggia di pietre infuocate. Nel 2013 sono stato nominato membro della Royal British Society of Sculptors di Londra e nel 2015 sono stato insignito del premio Spotlight dalla stessa RBS in collaborazione con la galleria londinese Andipa per l’opera I’m Ready to Live: una grande rete in polipropilene dedicata al tema dei migranti. Nel 2017 mi è giunto l’invito per Dialogues in Paradise, una conversazione assieme all’artista Kazumi Murose per le televisioni d’arte al MOA Museum of Art, a cui ha fatto seguito l’acquisizione della mia scultura Blue Fragment nella collezione permanente del museo. MCW/ Forma, materia, luce e colore: come combini questi elementi? Che importanza rivestono nelle tue sculture? GB/ Come mi è già capitato di precisare nell’intervista in Giappone, non sono 8

interessato ai materiali, ma alla Materia; tutto ciò che esiste nell’universo e che reagisce alla luce è materia: le galassie, le stelle, i pianeti. La massa consente alle molecole di legarsi secondo regole fisicochimiche costruendo strutture di pieni e di vuoti, generando lo spazio e il tempo. La materia ha il proprio significato e desidero adoperarla con umiltà lasciando meno tracce possibili sulle porzioni di essa che scelgo. Citando Henry Moore: “lo scultore è una persona interessata alla forma delle cose”, e come il mondo dei suoni e quello delle parole anche la materia ha bisogno di struttura, di grammatica, di composizione. Sperimentare è una delle mie passioni e prima di raggiungere una sintesi eseguo molte prove; i risultati di questi esperimenti li conservo nel mio studio come testimonianza del processo creativo. MCW/ Citando lo statement presente nel tuo profilo della Royal British Society of Sculptors, che ti rispecchia fedelmente: “la tua creatività emerge nell’elegante combinazione di competenze tecniche e conoscenze concettuali. Il tuo profondo studio della storia, della scienza contemporanea, della mitologia, della filosofia e della matematica influenzano notevolmente il tuo lavoro”. Puoi argomentarci questa affermazione?


GB/ Credo che la curiosità su come è fatto il mondo sia una delle qualità più importanti dell’essere umano, ed io sono molto curioso. Ovviamente le mie ricerche, come accade ad ogni artista, sono indirizzate all’approfondimento di argomenti specifici, sono mirate a ciò che serve a realizzare il mio immaginario, a far parlare la materia. Quello che imparo è d’aiuto alla sperimentazione che precede sempre la creazione di nuove opere e nuovi progetti. Dall’inizio della mia carriera utilizzo questo metodo studiando attentamente ogni dettaglio, informazioni scientifiche, storiche, letterarie, filosofiche e mitologiche, riassumendo tutti i dati per riversarli nella disciplina del processo creativo. Rimane poco o nulla al termine della realizzazione dell’opera d’arte, ma - quando si ritiene tale - essa conserva celata tutta la forza di questi elementi che l’hanno arricchita e assume la dignità che le spetta, come direbbe la filosofa ungherese Agnes Heller.

e ad altorilievi in stratificazione con i rossi naturali e le loro infinite tonalità, costituiscono i tre strati della materia in Rossi in variazione, titolo che intende descrivere il contenuto dell’intero progetto. Ogni sottilissimo strato, senza l’utilizzo del chiaroscuro della pittura, sfrutta la tecnica di sovrapposizione propria della scultura, donando profondità alla superficie; nascono così sculture con volumi diversi che interagiscono nel vuoto divorando o concedendo spazio. È una ricerca che si esprime attraverso geometrie nude o polimorfe che lasciano lo spazio tanto libero quanto animato. MCW/ Che importanza attribuisci alle parole e che ruolo rivestono i titoli nei tuoi lavori? GB/ Le parole sono importantissime sia per l’etimo che per il suono. Talvolta sono partito proprio dalle parole per arrivare alla materia e al colore. La scelta di un titolo è importante, e concepire quello giusto è compito dell’artista.

MCW/ Silenzio Nudo: un titolo sinestetico per una serie di opere fortemente evocative. Rossi in variazione tra macro e micro volumi e geometrie minimaliste o decostruite, ci descriveresti questo nuovo progetto?

MCW/ Una citazione a te cara e perché. GB/ Vorrei riportare una citazione di Andrea Moro che mi sembra molto appropriata al mio lavoro; potrei aggiungere che è da questo meraviglioso incontro tra luce e materia che nasce il colore che i nostri sensi decodificano: “noi non vediamo la luce. Vediamo solo gli effetti che essa ha sugli oggetti. Sappiamo della sua esistenza solo perché viene riflessa da ciò che incontra nel suo cammino, rendendo così visibili gli oggetti, che altrimenti non vedremmo. Così un nulla illuminato da un altro nulla, diventa qualcosa”.

GB/ Da alcuni anni ho ripreso, utilizzando nuovi materiali e nuove sensibilità, le superfici piane in Silenzio Nudo. Questo titolo nomina una lunga serie di lavori suddivisi in Suite e in Solo che rappresentano quella parte della mia ricerca che indaga l’ipotesi che il mondo abbia un proprio inconscio nel quale conserva le tracce di ciò che dimentica e che studia la connessa possibilità di rievocare immagini da una memoria universale. Ho immaginato che la mente fosse depositaria di eventi tradotti in colori, come un linguaggio umano utilizzato ancor prima dei segni e della scrittura; questo mi ha spinto ad utilizzare materiali come silicone, resine e colle dalla consistenza gelatinosa che miscelate al colore restano semitrasparenti come un tessuto organico che lascia intravedere l’oltre. Queste opere piatte, assieme a solidi come cristalli geometrici trattati in superficie con la stessa tecnica, a forme decostruite

Da sinistra: Giorgio Bevignani davanti a SILENZIO NUDO, 2018. Pannello a nido d’ape, silicone, pigmenti, 200x150x3 cm, (opera centrale). EUROPA, 2012. 987 moduli, ferro, cemento, pigmenti, nylon, 800x150x150 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

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INTERVIEWS

SPETTRI D’ITALIA Flavio Favelli

- Valentina Tebala

Valentina Tebala/ Caro Flavio, non potrei iniziare l’intervista senza introdurre il motivo per cui ci siamo conosciuti che è anche il medesimo per il quale io stessa ho avuto modo di approfondire il tuo lavoro. Ovvero il murale che hai realizzato a Cosenza invitato ai BoCs Art nel 2015 e la diatriba che ne è conseguita tra gli addetti ai lavori e non, a proposito di Arte Pubblica. Ma un elemento che mi ha colpita - nel marasma di spunti di riflessione nati da quella vicenda - è il tuo rapporto con il Sud d’Italia. Mi pare di avvertire un’attrazione ambigua. Hai frequentato e lavorato spesso al Sud, però non hai risparmiato parole anche molto critiche nei confronti di questi luoghi così “esotici”…

Mi piacciono tutte queste sovrapposizioni, un infinito collage meridionale, dove tutto in qualche modo rinasce con grandi fratture e cicatrici. È il tema delle rovine, comuni a tutto il Sud Italiano, che al Nord non ci possiamo permettere. Posso dire che amo il Meridione Italiano perché è rovinato; rovine che insieme alla vita quotidiana di un paese comunque del primo mondo, generano riflessioni, nuove immagini, e così sto dicendo che il Sud è fonte per me di ispirazione per l’arte. Ma ciò è fertile anche perché si collega alla mia vita, a certi ricordi di luoghi e oggetti. Ho visitato con mia madre il Sud quando ero bambino e questo ritrovare dopo tanti anni certe vedute come cartoline psicologiche infonde in me una certa eccitazione mentale, che proviene da un sentire ambiguo fra piacere, passione e malinconia, e concorre a generare delle figure nuove che vengono da immagini (ricordi) scomposte, riassemblate e quindi anche distrutte. Il Sud è poetico pure perché è povero e la povertà mantiene vivo un certo mondo poetico e letterario. Può sembrare un atteggiamento esotico, come dici, uno sguardo superficiale e pittoresco, ma è anche il terreno su cui si muove l’artista, che non è interessato all’essere politicamente corretto.

Flavio Favelli/ Cara Valentina, ti rispondo da Palermo, sono i giorni di Manifesta. Mi sento molto legato all’isola e a questa città, dove ho fatto diversi progetti e preso soggetti per molte opere. Ho scelto di fare un intervento con due artisti, Giuseppe Buzzotta e Toni Romanelli, siamo tre differenti generazioni: abbiamo preso un negozio sfitto in Via Roma con scritto Fenomeno sulla vetrata. È un negozio moderno, doveva forse vendere abbigliamento per uomini attuali ed esigenti, ma di una eleganza troppo globale per essere vera, un negozio lontano da quello che un visitatore si aspetta da Palermo coi suoi palazzi nobiliari fra il dimesso e lo sbragato, così maledettamente belli quanto inutili. Direi proprio questo: a Palermo e in Sicilia c’è una bellezza eccessiva, stordente, inutile, come il dolce della Martorana che è più dolce dello zucchero. Abbiamo scelto un posto capace di rispecchiare il gusto e l’immaginario della città degli ultimi quarant’anni, lontani da chiese ricamate ed edifici antichi. Qui si spinge di più che da altre parti sull’apparire.

VT/ Gli oggetti che di frequente utilizzi per le tue opere hanno una valenza simbolica per te, quasi simbiotica, perché rappresentano o evocano una storia, principalmente la tua; lo stesso vale per le immagini. Gli anni Ottanta in particolare hanno avuto una grande influenza sulla tua vita. Invece, dei Duemila - di quest’ultimo ventennio - quali oggetti, immagini o icone porteresti nel tuo lavoro? 10


FF/ Gli anni Settanta e Ottanta sono stati ambigui e demoniaci, per me, per la mia famiglia e per l’Italia che era già un paese globale prima della globalizzazione. Ecco perché sono per me cruciali, perché le cose drammatiche che vivevo in famiglia erano le stesse, con gli stessi meccanismi, che viveva il paese. Negli anni Duemila mi manca, e meno male, quel rapporto originario con la famiglia e quindi tutto è più tranquillo; sono stato sicuramente meglio, ma è tutto meno interessante. Diciamo che cerco di portare sempre le immagini e le questioni psicologiche di quel mio periodo nei tempi successivi. Quasi funzionassi come uno stato autarchico con i propri miti di fondazione, che sono tali perché sono passati e irraggiungibili. Forse ho un problema col vivere il presente, che uso giusto per sviluppare diversi punti di vista sul mio passato. Comunque, per risponderti direi - non ho dubbi - la tragica e folle epopea dell’11 Settembre 2001 fino a Ground Zero con le due vasche del 2011 e il museo sotto nel 2014. Il Memoriale di Ground Zero è un intreccio sinistro nato dal tentativo di rappresentare un evento impensabile che rimarrà per sempre angosciante. L’inadatto immaginario statunitense ha creato una specie di terrazza-belvedere interrata che ammira le fondazioni ancora scassate delle Torri Gemelle dallo stupro dei terroristi. Ho già scritto della mia passione per gli aerei e sull’11 Settembre e questo enorme monumento senza monumento ma con cavità e catacombe è forse l’opera più significativa della nostra cara storia. VT/ Appari come una persona introversa, solitaria, eppure le tue opere sono una sorta di libro aperto. Letteralmente, Flavio, hai aperto più volte al pubblico persino le porte di quella che è stata per molto tempo casa tua e della tua famiglia, in via Guerrazzi 21 a Bologna. Visitandola mi sei sembrato un ottimo padrone di casa nel raccontare al pubblico i vari wall painting che hai poi realizzato nelle stanze dell’abitazione.

su intonaco come fosse una cancellatura-abrasione controllata e pensata. VT/ Cosa pensi della situazione artistica contemporanea a Bologna e in Italia in generale?

FF/ Credo che la condizione dell’artista sia drammaticamente ambigua: da una parte ha a che fare con le sue immagini e i suoi problemi diciamo visivi, dall’altra deve far uscire fuori tutto ciò e deve cercare comprensione. Comprensione che non sarà mai esaudita, pena la perdita del suo demone. Solo parlando col pubblico, che è una presenza retorica, si riesce a comprendere meglio se stessi e soprattutto le opere; solo parlando a braccio dopo una decina di volte di Via Guerrazzi 21, posso capire meglio cosa sto facendo. Il pubblico è una comparsa, è come quando la mamma stava a sentire recitare la tua poesia, non faceva nulla, non doveva fare nulla, era ed è solo una presenza passiva, come è venuto se ne va. Parlare con le persone, poi, è importante: parlando dell’opera si comprende l’enfasi, lo slancio o il distacco che si ha col pubblico; si comprende, definitivamente, il rapporto che si ha con se stessi.

FF/ Dalla fine degli anni Novanta lavoro come artista e ho conosciuto i piani alti della città che ama un po’ l’arte direi per svago e per collezionismo, che sono due cose importanti, ma non sono un vero interesse per l’arte. Ci sono grandi fortune e grandi capitali, musei privati e fondazioni, ma c’è veramente poco di interessante. Se a quasi ottant’anni dalla nascita della Repubblica, per la prima volta questo paese (per tutto il mondo il paese dell’arte) con l’Italian Council, dà la possibilità agli artisti del suo tempo di esprimersi, si comprende meglio la situazione. VT/ Un tuo prossimo progetto? FF/ Gli Angeli degli Eroi, la lista dei militari italiani morti dopo il 1945 in missioni di pace. Il progetto viene da una foto della mia famiglia: quella di mio nonno materno Carlo (che tornò dalla Campagna di Russia) in divisa, mentre passeggia per Piazza Maggiore a Bologna. Riconosco in lui un modello estetico molto forte che è riassunto in quella foto in uniforme. “Caro Luca grazie! Gli angeli degli eroi ti sorridono mentre ti fanno la scorta d’onore fino alla luce di Dio in paradiso!!! Viva l’Italia”. Quando ho visto questa scritta fatta su un cartone probabilmente dai parenti di Luca Sanna, soldato morto in Afghanistan nel gennaio 2011, durante il suo funerale a Roma, ho provato lo stesso turbamento di quando visitai anni fa il Sacrario di Redipuglia. Immagini estranee che proprio per il fatto che sono lontane, perché le teniamo lontane, si scoprono a volte drammaticamente vicine. Il progetto consiste in un grande wall painting su un muro pubblico con la lista dei militari caduti.

VT/ A Bologna hai realizzato parecchi progetti, fino a quello recentissimo sviluppato a Bazzano. FF/ Ho sempre avuto e ho tutt’ora tanti progetti per Bologna perché è la città dove abito e devo dire che non è per nulla semplice realizzarli. Ho partecipato al bando Italian Council col progetto Serie Imperiale, due francobolli che posseggo col volto di Vittorio Emanuele III, desueti e scomodi per via di sovrastampe di annessioni (Zara per l’occupazione tedesca e Repubblica Sociale Italiana) che ho ingrandito e poi dipinto su due muri interni: nella stanza riunioni della Casa del Popolo e in un ex supermercato MiniCoop. Queste due sur-immagini appartengono al conflitto: sono sgarbi, sfregi, atti di sabotaggio e di censura-offesa, scritte violente di invasione, annessione e appropriazione di territori e di immagini. Una volta eseguite e presentate saranno poi strappate con un procedimento artigianale svolto da professionisti e montate su tela a comporre l’opera-dittico Serie Imperiale. I due muri privati delle pitture saranno parte costituente dell’opera, perché anziché rasarli e tamponarli come di solito avviene, saranno basi per un intervento permanente. L’otturazione diventerà essa stessa opera d’arte; il timbro Zara e Repubblica Sociale Italiana non sono altro che una specie di damnatio memoriae moderna, così come la tamponatura dei due muri che lascerà un anti-dipinto

Da sinistra: SERIE IMPERIALE, ZARA, 2018. Casa del Popolo, Bazzano (Bo). Foto © Dario Lasagni. Flavio Favelli in una foto di © Giovanni De Angelis. Per entrambe courtesy dell’artista.

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SPECIAL

L’ARTE DI SAPER COMUNICARE L’ARTE Loredana Barillaro

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on c’è evento o istituzione che si rispetti che non abbia a supporto un ottimo ufficio stampa a veicolarne le notizie e ad organizzarne la comunicazione… Qual è dunque la funzione degli uffici stampa nel mondo del contemporaneo, che grado di efficacia può avere il loro lavoro? Come nasce questa attività e dove si colloca in termini di importanza fra tutti gli attori che “compartecipano” alla realizzazione di un evento?

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Lara Facco è a capo di Lara Facco P&C di Milano.

iviamo in un mondo e all’interno di un sistema in cui, a dispetto della saggezza popolare, troppo spesso si pensa che l’abito faccia il monaco. Un mondo in cui il “far sapere” sembra contare più del “fare” stesso. E tale è la frenesia e la fretta di affermarsi e “arrivare”, semplicemente per mostrare di esistere all’interno di questo sistema, che una presa di posizione di questo tipo rischia di apparire plausibile. Ma non per questo è condivisibile, soprattutto da chi, come noi, si occupa proprio della creazione e diffusione di quelle informazioni e suggestioni che quell’abito lo tagliano e lo cuciono. Oggi nel nostro lavoro (quello dell’ufficio stampa e più in generale della comunicazione nel mondo dell’arte) è più che mai necessario mettere al centro del proprio agire il principio per cui “fare” e “comunicare” non sono semplicemente due facce della stessa medaglia. In un contesto fluido come quello contemporaneo, tutte le componenti di un progetto devono interagire tra loro come variabili di un sistema complesso: solo la capacità di integrarsi e adattarsi reciprocamente, con un continuo scambio di influenze e informazioni, permette al sistema stesso di esistere e di svilupparsi. Si può entrare nel tecnicismo parlando del ruolo dei nuovi media, delle strategie sempre più raffinate o dei fondamentali aspetti relazionali del fare comunicazione. Ma la questione è paradigmatica, prima che tecnica. La diffusione e l’accessibilità del comunicare oggi sono un’arma a doppio taglio, che permette a tutti di farsi sentire, creando però un rumore di fondo che rende la maggior parte delle voci indistinguibile e, di conseguenza, inutile. Soltanto interagendo in modo sistematico in tutte le fasi di costruzione del contenuto da comunicare è possibile non solo emergere da quel costante white noise, ma anche e soprattutto contribuire alla creazione di progetti sensati, approfonditi, corposi. In questo si distinguono i buoni uffici stampa e professionisti della comunicazione: affiancano i propri committenti, condividono una visione a lungo termine e fanno in modo che, nel comunicare, ci sia qualcosa da dire, rimettendo al centro i contenuti e ricordando che a fare il monaco non è l’abito, ma la persona che lo indossa. Lara Facco

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n ufficio stampa che opera nell’ambito dell’arte contemporanea ha principalmente tre missioni. La prima mission è quella di generare reti e connessioni tra operatori culturali - artisti, curatori, giornalisti, blogger, galleristi - ed essere dunque un “ponte” che lega, collega e mette in relazione. Sempre di più, infatti, si scopre la necessità di lavorare non in modo inclusivo ma in un sistema aperto e dinamico dove più vengono amplificati i flussi di informazioni e interconnessioni, maggiori sono le opportunità e le ricchezze materiali e immateriali che da essi si sviluppano. La seconda mission è centrata sul lavoro dell’artista: ho sempre cercato, infatti, di comprendere prima di tutto io personalmente il cuore intimo di ogni ricerca artistica e puntare, in seguito, non solo a darne semplice informazione ma a trovare modi e strategie per permettere una conoscenza mai superficiale, ma profonda e attenta. Per raggiungere tali obiettivi è determinante instaurare rapporti diretti, sinceri, basati sull’ascolto e sul vero interesse, non solo nei confronti dell’arte come prodotto ma anche nei confronti dell’artista come persona. La terza mission consiste nel “collaborare” in modo creativo, positivo e costruttivo con colleghi, altri uffici stampa, curatori ecc., accogliendo opinioni differenti: credo che dal confronto possa nascere sempre la strada di maggiore interesse, di sviluppi per il futuro. Questa attività emerge da una profonda esigenza dell’anima: portare e diffondere l’arte e la bellezza, essere testimoni e cantori dell’arte, essere a servizio dell’altro mettendo a disposizione competenze, talenti, conoscenze diversificate e multidisciplinari. Ogni soggetto implicato nella realizzazione di un progetto ha il suo ruolo specifico e peculiare: tutti sono indispensabili alla buona riuscita di un evento; essenziale è la cooperazione e l’essere pronti a sperimentare strade nuove e inattese. In alcune occasioni ho lavorato ad un evento sia come ufficio stampa sia come curatore e tale doppio ruolo mi ha permesso di comprendere sempre meglio le dinamiche che si sviluppano e il complesso, contraddittorio e per me salvifico mondo dell’arte. Roberta Melasecca 12

Roberta Melasecca è a capo di Melasecca PressOffice di Roma.


LARA FACCO ROBERTA MELASECCA SILVIA MACCHETTO NORMA WALTMANN

O

ggi la comunicazione ha assunto una velocità estrema. La tempestività è necessaria ma non deve essere a discapito del contenuto. È importante che alla base ci sia uno studio, che le informazioni divulgate siano corrette da un punto di vista scientifico, le parole siano misurate. La funzione di un ufficio stampa è fare da tramite per veicolare una storia, attraverso un linguaggio immediato, comprensibile anche ai non addetti ai lavori. L’ufficio stampa si deve relazionare sempre con tutti gli attori coinvolti nel progetto e tenere costante il confronto, per aggiornare o modificare le informazioni in tempo reale. Silvia Macchetto

Da sinistra in senso antiorario: Lara Facco con il suo team. Courtesy Lara Facco. Roberta Melasecca in una foto di © Antonio Virzi. Courtesy Roberta Melasecca. Un ritratto di Norma Waltmann. Courtesy Norma Waltmann. Silvia Macchetto in una foto di © Andrea Guermani. Courtesy Silvia Macchetto.

Silvia Macchetto è a capo di Silvia Macchetto PR&Communications di Milano.

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el mondo del contemporaneo non c’è evento, istituzione o azienda che possa fare a meno di un ufficio stampa. Nella società di oggi dove quasi tutto si focalizza sull’immagine e sull’apparenza e dove le notizie sono sempre più “take away”, gli uffici stampa riescono invece a dare una struttura solida e una continuità nei contenuti, costituendo un valore aggiunto nella comunicazione. L’importanza di un ufficio stampa si trova proprio in questa peculiarità, cioè nella costruzione di basi solide per lo sviluppo di una comunicazione continuativa di contenuti. Nello specifico, la funzione degli uffici stampa che lavorano nel settore culturale è portare alla luce di tutti, dagli addetti ai lavori al grande pubblico, il mondo della cultura (arte, design, architettura, musica, cinema, etc.) in maniera originale e ottimale, mettendo in evidenza le potenzialità delle mostre, degli artisti, le loro particolarità e i focus delle loro ricerche. L’ufficio stampa cerca di interpretare, mediare e combinare in vari modi i contenuti che riceve dai curatori nelle varie fasi progettuali della mostra o dell’evento culturale di riferimento. Tutto ciò non sarebbe possibile senza l’instancabile e incondizionata collaborazione dei media del settore che sono fondamentali, indispensabili e parte integrante e complementare del lavoro articolato e mirato degli uffici stampa. Il grado di efficacia dipende molto dall’esperienza, dai contatti costanti con i giornalisti e con le redazioni, dalla conoscenza delle loro linee editoriali per

sapere qual è il taglio da dare per proporre il progetto in questione: a seconda di chi si ha davanti infatti si deve rendere accattivante il progetto e “smussare i suoi angoli” seguendo sempre le esigenze del momento. Allo stesso tempo sta all’ufficio stampa il compito costante e fondamentale di aggiornarsi, sia a livello tecnologico, essendo il nostro un mondo in continuo sviluppo, che a livello di contenuti ed eventi che ci circondano: frequentare mostre, conoscere i contenuti tramite le pubblicazioni redazionali e testi critici nei cataloghi, tenere contatti diretti con gli artisti e i curatori, aggiornarsi sulle strategie di marketing e comunicazione nei vari ambiti per non dimenticare, last but not least le pubbliche relazioni. Questi sono gli ingredienti alla base del nostro lavoro, che deve essere sempre accompagnato da una grande precisione, capacità di organizzazione, coordinamento e pragmatismo, per poter coordinare non solo il proprio team di lavoro ma anche per coordinarsi nel migliore dei modi con gli altri componenti dell’intera operazione. Contestualmente a tutte queste premesse si arriva all’effettiva realizzazione dell’evento, un vero e proprio progetto dove la variabile tempo gioca un ruolo fondamentale. L’attività di un ufficio stampa specializzato in arte e cultura, operante a livello nazionale e internazionale e su larga scala, nasce alla fine degli anni ’80, prima dell’era dell’utilizzo di internet e con un’editoria di settore molto ricca. In Italia allora eravamo in pochi a svolgere questo lavoro, oggi le cose sono cambiate ma le modalità 13

e le collaborazioni con gli altri attori del progetto sono sempre le medesime. Per poter lavorare ai massimi livelli, creando le condizioni ottimali per avere maggior visibilità, oltre ad un progetto con delle potenzialità, occorre avere le idee chiare e degli obiettivi prefissati, capire dove si vuole e dove si può arrivare, con quali mezzi e soprattutto nei “tempi giusti” per se stessi e per gli altri. In questo modo si attiva una collaborazione funzionale per tutti, in cui ognuno è indispensabile per la realizzazione del passo successivo e si riesce a fare in modo che si veda su carta, online e in tv, il risultato del lavoro di squadra di tutti. Norma Waltmann

Norma Waltmann è a capo di Culturalia, Comunicazione d’arte e organizzazione eventi culturali di Bologna.


CINQUE DOMANDE PRIMA DI TUTTO Lorenzo Balbi

...quella del curatore è una professione e come tale ha i suoi metodi e i suoi strumenti anche se non sono insegnati e sono difficilissimi da apprendere.”

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evo essere sincero: nessuno prima di Loredana Barillaro mi aveva chiesto di esprimere, in un breve testo, il mio “approccio curatoriale”. Ovviamente è il centro della mia pratica professionale quotidiana, ma sono grato per questa domanda perché mi dà l’opportunità di fermarmi a riflettere su come sia possibile inquadrare i confini e le caratteristiche della mia ricerca come curatore. Per questo sono doppiamente grato a SMALL ZINE per questa opportunità che mi ha imposto una pausa e mi ha fornito l’occasione per una riflessione sul mio lavoro. Il primo elemento per provare a descrivere la mia metodologia come curatore deriva dall’esperienza come mediatore culturale d’arte; ruolo che

ho ricoperto per diverso tempo alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, a stretto contatto con il pubblico delle mostre, indirizzato dalla visione e dalla formazione di Giorgina Bertolino. Il mediatore culturale, figura che si pone a metà tra l’opera e lo spettatore, è colui che con il dialogo e la condivisione comunica i contenuti di una mostra o di un’opera creando dibattito, scambio e partecipazione attorno ad essa. Da questa esperienza professionale, per me fondamentale (che suggerisco a tutti coloro che vogliano intraprendere una carriera come curatore), si è sviluppato il mio approccio: grande attenzione al pubblico a cui mi rivolgo, accessibilità dei contenuti, promozione di progetti (e di artisti) che coinvolgano e creino domande, scambio e dibattito. Potrà sembrare scontato o banale, ma, dopo aver ascoltato molti curatori parlare di come iniziano a lavorare a una proposta di mostra ho sviluppato una lista di 5 domande alle quali sottopongo ogni mia idea prima di capire se abbia una validità o sia realmente interessante o possibile: Qual è il messaggio? A chi si rivolge? Perché oggi? Perché qui? Come lo si può mettere in pratica? 14

PEOPLE ART

Immediatamente ritorna il discorso del pubblico: qual è il messaggio che voglio trasmettere con questo mio progetto? A chi si rivolge? Questo è il primo pensiero. Ma subito dopo viene il contesto: perché questo progetto è interessante nello specifico momento o luogo in cui sono chiamato a lavorare? Ammetto che la maggior parte delle idee non supera le prime quattro domande. Solo i progetti più convincenti arrivano all’ultima, decisiva: come lo si può mettere in pratica? Un elemento portante nel cercare di descrivere il mio approccio alla curatela e, in particolare, al mio modo di lavorare con gli artisti, è quello che riguarda la produzione di nuove opere. Sicuramente in questo senso la mia pratica è fortemente influenzata dai progetti di Francesco Bonami a cui ho avuto la fortuna di lavorare.


C

hiedere a un artista di pensare a un’opera nuova per il proprio progetto di mostra attiva un confronto tra curatore e artisti che si articola su diversi piani a volte non solo professionali ma anche emotivi. Da un lato il senso di fiducia e stima che spinge un curatore a individuare un artista come fondamentale per un determinato discorso e dall’altro il senso di sfida per un artista a mettersi alla prova in un nuovo contesto, che oltre a essere un momento di visibilità è soprattutto un acceleratore per l’evoluzione della sua pratica. L’ingaggio di un artista sale in questo modo a un livello ulteriore: “non solo io come curatore ho stima del tuo lavoro e ho individuato una tua specifica opera “in linea” con il progetto che sto mettendo in piedi ma sono talmente convinto che la tua voce possa essere “costitutiva” e portare nuovi contenuti al mio progetto che ti chiedo di metterti alla prova e di concepire un nuovo lavoro in questo contesto”. La differenza è enorme e, inutile dirlo, il rischio per entrambi è altissimo, ma sono convinto che in questo stia il vero senso della pratica curatoriale e del lavorare con artisti contemporanei. Questo approccio è stato portato all’estremo con la mostra “That’s IT! Sull’ultima generazione di artisti in Italia e a un metro e ottanta dal confine”, che inaugura la mia direzione artistica al MAMbo di Bologna. Il progetto espositivo, che mette insieme i lavori di 56 tra artisti

e collettivi italiani nati dopo il 1980, vuole fornire una rappresentazione di un’intera generazione. In questo particolare contesto, e seguendo la propensione al richiedere opere nuove agli artisti, li ho invitati a riflettere insieme a me su quali opere potessero essere più rappresentative. Da questi dialoghi è nata la mostra, effettivamente co-curata con ognuno di loro, in cui ogni singola opera, esistente o (in moltissimi casi) creata appositamente, è stata scelta insieme. Alcuni anni fa ho avuto l’occasione di chiedere ad Andrea Lissoni quale fosse la sfida più difficile per un curatore: lui ha affermato che un curatore non si può definire tale finché non lavora con una collezione. Ho riflettuto molto su queste parole e sul loro significato per delineare la professione del curatore non solo come autore o promotore di progetti, ma anche come figura in grado di mettere, aggregare, disgregare e ricomporre contenuti esistenti per valorizzarli e darne nuove possibili interpretazioni. Una metodologia a cui mi rivolgo con particolare attenzione. Ma c’è un aspetto che non posso trascurare e a cui tutto si riconduce: quella del curatore è una professione e come tale ha i suoi metodi e i suoi strumenti anche se non sono insegnati e sono difficilissimi da apprendere. In questo senso sono riconoscente agli insegnamenti di Irene Calderoni e a tutto ciò che ho imparato lavorando come suo assistente. È lei che

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mi ha insegnato come sia fondamentale procedere in ogni progetto con ordine e perizia, mettendo in piedi budget, timing, check-list dettagliate e tutti gli strumenti necessari per portare avanti in modo professionale e ordinato un progetto di mostra. A prescindere da tutti i temi, le influenze e gli interessi, credo che non ci sia un modo corretto per stabilire un “approccio curatoriale” ideale. Crearsi un metodo, una visione e calarla in una dimensione pragmatica, concreta e con al centro il proprio pubblico aiuta molto anche a rendere teorie e messaggi complessi accessibili al pubblico. Avere degli strumenti utili e collaudati rende più efficace quel lavoro di decodifica e traduzione che è il fondamento del mestiere di curatore.

Lorenzo Balbi è Direttore Artistico MAMbo Museo d’Arte Moderna di Bologna. Responsabile Area Arte Moderna e Contemporanea Istituzione Bologna Musei.

Da sinistra: Lorenzo Balbi in una foto di © Caterina Marcelli. Lia Cecchin, DADA POEM (to a fearless female), 2018. Composizione scritta di Vincenzo Estremo, capi d’abbigliamento prodotti da aziende di moda low cost, audio. Veduta dell’allestimento presso MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna. Courtesy dell’artista. Photo © E&B Photo. Dalla mostra That’s IT! Sull’ultima generazione di artisti in Italia e a un metro e ottanta dal confine, a cura di Lorenzo Balbi.


SHOWCASE

FRANCESCO CUNA | a cura di Pasquale De Sensi

Da SIMMETRIE DEL CAOS di Giovanni Matteo

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a pittura di Cuna è una fiera tenuta in cattività da un padrone animato da abbandono d’innamorato e durezza di domatore, costretta a compiere le sue evoluzioni secondo le regole della pratica circense, sotto il tendone della storia. La disposizione obliqua del libro al centro racchiude seicento anni di quella storia. La scimmia si ferma alla copertina. È il godimento che l’artista trae dal vedere la natura riflettersi nei suoi gesti, ma Cuna riprende il gioco nel momento in cui s’interrompe. La bestiola si volta di scatto, gettando lo sguardo oltre la cornice e il silenzio invade lo spazio dell’opera. 16

SENZA TITOLO (LA SCIMMIA), 2011. Tecnica mista su tela montata su legno, cornice di legno, 57x80 cm. Courtesy dell’artista.


SMALL TALK

SINTESI, VISIONI E PAESAGGI DI CARTA Daniele Papuli

- Silvia Puelli

Silvia Puelli/ Il tuo lavoro dialoga con svariate discipline: scultura, architettura, installazione, design. Hai studiato all’accademia ma la tua carriera comprende opere e progetti eterogenei. Da cosa trai ispirazione?

stabilire dei rapporti e spesso accade che in un primo schizzo coincidano visione e realizzazione finali. SP/ Ovvero sono le forme che prendono le tue sculture a suggestionarti oppure la tua intenzione è di rappresentare il tutto che scorre (Panta Rhei), una metaformosi (Metaformosi), una visione (Visioni), la natura grezza (Raw Nature)?

Daniele Papuli/ Mi muovo come un esploratore. Lo scultore ha a che fare con le materie del mondo, le loro fisicità, caratteristiche, rapporti, dimensioni e relazioni spaziali. Il mio è un dialogo aperto. È la stessa scultura che “abita” il mondo e ha bisogno di stabilire delle connessioni. Il design ha rapporti e coordinate terrestri più intense che hanno a che vedere con il quotidiano, con le necessità. Anche se nella mia ricerca in questo ambito l’oggetto è un’amplificazione di passaggi che affronto direttamente con la materia tra le mani e il tentativo è di consegnare un oggetto che si fa esperienza, che racconta qualcosa d’altro. L’installazione stessa è un colloquio che vive nelle forme dell’architettura, tra me e la forma stessa. Tutte estensioni che mi permettono variazioni e continue indagini. L’ispirazione è tra le righe, anzi tra le carte o le materie affini in un connubio con il mio “patrimonio” che si affaccia preponderante, sempre, un accumulo di visioni, di paesaggi, di sovrapposizioni, di sfocature, di centri, di dettagli minimi e di macro realtà.

DP/ La carta possiede un’alta densità di fascinazione. Toccarla e muoverla coincide spesso con una rivelazione. Vent’anni di “amorosa corrispondenza” e milioni di frammenti di carta tra le mani mi permettono di agire con un grande controllo, di guidare suggestioni e di “edificare” costruzioni. Di pari passo rappresentazione e titoli, ora evocativi, con rimandi ad alcune parole dialettali del Salento, ora esplicativi, che mettono di fronte una visione completa e un’esperienza da compiere. SP/ Tornando alla moda e al design, ci puoi parlare di questa esperienza dal punto di vista di un artista? Lavorare con noti stilisti o brand di design è sicuramente diverso che relazionarsi con musei e gallerie, devono essere due rapporti professionali decisamente distinti.. DP/ Ho avuto sempre “carta bianca” nelle mie diverse esperienze. È una questione di curiosa corrispondenza. Tra le linee delle mie carte ho ritrovato i zig zag di Missoni per esempio. A Milano nel 2000 ho inserito le mie sculture di carta nelle dodici vetrine del nuovo flagship store pensando che la vetrina stessa potesse raccontare e presentare il mio lavoro. Poi da cosa nasce cosa per dirla alla maniera di Munari con un lavorio quotidiano che si stratifica, carta insegna.

SP/ I titoli delle tue opere sono molto evocativi: parti dalla forma o dal soggetto per realizzarle? DP/ A volte è la materia stessa a suggerirmi la forma, concepita spesso come una sorta di frattale o meglio costituita da strutturazioni e destrutturazioni, perché la scultura è struttura. Nel mio caso è un agglomerato, una sorta di concrezione che si compone di centinaia e migliaia di elementi, moduli sagomati, forme bidimensionali, strisce. La sintesi è nel disegno che spesso abbandono, disegno solo per

METAMORFOSI, 2014. Installazione a Palazzo Ducale, Martina Franca. Foto © Gianfranco Aquaro. Courtesy dell’artista.

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SHOW REVIEWS

ALBANIA. THE SPIRIT OF THE TIMES MACA - Acri (Cs)

- Luca Cofone

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illustrazioni per le riviste o per i testi scolastici di allora. Ma che, man mano, lascia il passo ad una volontà di creazione delle più giovani generazioni di artisti albanesi, scevra da ogni condizionamento, ma che talora trattiene il “ricordo” quale pesante, quanto preziosa, eredità. Artisti - eredi quindi di un tradizione iconografica di grande valore e profondità di messaggi - il cui lavoro si pone come ponte fra il presente e il passato di un intero popolo, ma che sottolinea come lo “spirito dei tempi” segni un inevitabile passo in avanti.

a pochi giorni si è aperta nelle sale del MACA, Museo Arte Contemporanea Acri la mostra “Albania. The spirit of the times” a cura di Artan Shabani e Boris Brollo, la quale sarà fruibile dal pubblico fino al 28 ottobre 2018. Un’esposizione che pone l’accento sulla produzione pittorica, ma non solo, dell’Albania degli anni recenti. L’arte, in fondo, sappiamo bene che si pone come linguaggio straordinario per raccontare la storia di luoghi e di popoli e specchio privilegiato in cui tutto si riflette e i messaggi si decodificano mediante lo sguardo sensibile degli artisti, capaci di tradurre ogni cosa, ai più. L’esposizione, pensata per essere itinerante comincia il suo “tour” proprio dalla Calabria, terra così ricca di popolazioni arbëresh, ivi giunte centinaia di anni fa. La mostra si compone di opere in cui il messaggio patriottico si amplifica, un messaggio a tratti poetico, a tratti di ribellione, e che divenne - in contesti governati da regimi totalitari strumento di propaganda politica, per cui gli artisti, subivano - in anni non troppo lontani - l’imposizione a creare un’arte asservita al Regime Socialista che si trasformò, come afferma Boris Brollo nel testo in catalogo in “una nuova pedagogia estetica”, “un’estetica al servizio della neo etica socialista, nuova religione del Proletariato o del Popolo” e che si concluse alla fine degli anni Ottanta, gli stessi anni della caduta del muro di Berlino. Il percorso della mostra si apre infatti con i simboli del potere politico, con la rappresentazione pittorica del lavoro, della forza fisica come metafora della fierezza identitaria, e si compone, ancora, dei ritratti, dei manifesti cinematografici, delle

Agron Hoti, DARWIN, 2017. Printer su legno, pittura acrilica, 120x230 cm. Courtesy dell’artista e MACA.

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FREE SPACE GLI ANFRATTI DI UN TEMPO RITROVATO Liliana Condemi

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iliana Condemi muta la sua maniera, gli anfratti, i morbidi angoli delle forme, dipinte un tempo in maniera delicata, divengono superfici graffianti su cui ella agisce tramite energiche spinte caratterizzate da colori intensi, decisi, lontani dai toni soavi di qualche anno fa. Figure astratte che racchiudono sensazioni veementi talora nella sovrapposizione dei piani, quasi un moto cosmico che si imprime sulla tela. Anche i titoli dei dipinti sembrano palesarci un’inquietudine tutta tesa al cambiamento, alla trasformazione, alla metamorfosi dello spazio, del tempo, così come del corpo. Un’armonia controversa in cui sono pochi i toni che si contendono la scena: il rosso fuoco, il giallo intenso, l’azzurro, il blu, il fucsia; essi mettono in risalto superfici “corrose”, quasi aspre, tangibili e corpose in cui il nero, che a tratti emerge, rimane pur sempre relegato a sprazzi improvvisi e sporadici. Le atmosfere, calde o fredde che si percepiscano, si palesano come sensazioni del corpo. Potrebbe dirsi pittura astratta? Chissà, i dipinti di Liliana Condemi sono accompagnati da riflessioni precise che ne mettono in evidenza tutto il loro fondamento. Il sogno è un fluire di linee, di materia, di respiri, di geometrie appena accennate in cui, peraltro, quello che emerge è una lotta titanica tendente al “caos” che satura lo spazio in un alternarsi di forze centripete e forze centrifughe: il dentro e il fuori, vicinanza e distanza, i pieni e i vuoti. La pittura dell’artista si presenta libera da gerarchie e schemi prestabiliti, e la tela del dipinto a simulare l’epidermide umana, in cui ogni segno porta con sé un momento vissuto, un pensiero, una sensazione, passi che si compiono giorno dopo giorno. Loredana Barillaro Dall’alto: FUOCHI E FUOCO, 2016. Olio su tela, 80x80 cm. UN VENTAGLIO PIENO DI SOGNI, 2016. Olio su tela, 80x80 cm.



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