ISSN 2283-9771
Magazine di arte contemporanea / Anno XI N. 41 / Trimestrale free press
SMALL ZINE
Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale 70% Cosenza Aut S/CS/19/2016/C
GENNAIO FEBBRAIO MARZO 2022
SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea
SOMMARIO INTERVIEWS 4
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MELANKOLI: RACCONTO DI UN RITRATTISTA Eldi Veizaj - Maria Chiara Wang PROGETTARE IL VUOTO Paolo Cavinato - Davide Silvioli IL DISEGNO ASSOLUTO Omar Galliani - Valentina Tebala
SPECIAL 10
ESPERIENZE DI EDUCAZIONE NELL’ARTE con Marianna Benigni, Alessandra Drioli - Loredana Barillaro
PEOPLE ART 12
A REGOLA D’ARTE Paola Caterina Manfredi
DESIGN.ER 14
MEDITERRANEO E TRADIZIONE Marco Rocco - Loredana Barillaro
PHOTO.&.FOOD 15
L’ELEGANZA DELLE IMMAGINI Yulia Rettondini - Luca Cofone
GALLERY.ST 16
L’ARTE PER LE COSE E IL MONDO Cristian Porretta - Loredana Barillaro
SMALL TALK 17
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UNA PERTURBANTE BELLEZZA Francesca Piovesan - Sabino Maria Frassà CREARE PARTENDO DAL DISTRUGGERE Luca Zarattini - Carla Sollazzo
Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Stampa Gescom s.p.a. Viterbo Contatti e info +39 3393000574 +39 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Sabino Maria Frassà, Davide Silvioli, Carla Sollazzo, Valentina Tebala, Maria Chiara Wang Con il contributo di: Paola Caterina Manfredi © 2022 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.
In copertina Luca Zarattini TUFFO #2, 2021 (part.) Tecnica mista su tela, 175x150 cm. Courtesy dell’artista
NOIR LXXXVII, 2021. Olio su tela, 160x212 cm, modella, panca. Veduta dell’installazione, Galleria Nazionale di Cosenza.
NELLA NOTTE | Pietro Finelli
“N
ella Notte” è il titolo della mostra personale che l’artista Pietro Finelli ha allestito nelle sale della Galleria Nazionale di Cosenza. Un percorso che si profila, idealmente e praticamente, come confronto fra le sue opere - connotate dall’inconfondibile carattere noir - e i capolavori appartenenti alla collezione permanente della Galleria. Un salto temporale, stilistico, che diventa al contempo filo conduttore, momento di continuità in una mostra pensata come incontro fra epoche. I lavori di Finelli, per la maggior parte di grandi dimensioni, si attestano quasi del tutto sui toni del bianco e del nero - luce estrema e buio totale - descrivendo ambientazioni tipiche del cinema noir americano degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso. Un invito, per lo spettatore, ad avvicinarsi per cogliere i dettagli di una raffigurazione “sfuggente” che necessita di essere fruita allontanandosi, per captare, con lo sguardo, l’interezza della rappresentazione, realizzata con una pennellata veloce ma densa e in grado di soffermarsi laddove sia necessario mettere in evidenza taluni dettagli. I personaggi, gli interni compongono la mostra pezzo dopo pezzo, quasi si tentasse di indagarne l’essenza. Un incedere nello spazio che conduce alla scoperta delle opere. Il movimento, tipico della raffigurazione cinematografica, lo scorrere inevitabile del tempo della narrazione, si accostano quindi al “fermo immagine” dei dipinti e dei disegni. Luce, oscurità e visione si connotano quale momento di riflessione sulla pittura e sui meccanismi della visione stessa ad essa correlati. Un dualismo che si concretizza nella maniera in cui è stata concepita l’esposizione, un affiancarsi, un contrapporsi ed un confrontarsi di opere e di epoche temporalmente tanto distanti, quanto concettualmente vicine. Loredana Barillaro
INTERVIEWS
MELANKOLI: RACCONTO DI UN RITRATTISTA Eldi Veizaj
- Maria Chiara Wang
Maria Chiara Wang/ Quanto è importante la figura del bambino nelle tue opere? Eldi Veizaj/ Tutti i bambini che dipingo sono autoritratti. Preservare un legame con il bambino che è dentro di me mi permette di rimanere sempre in contatto reale con me stesso e di non avere paura di Eldi adulto. È una presenza che mi acquieta. Mi concentro molto anche sulla mia parte femminile, altrettanto fragile e delicata, perché ciò consente - in generale - di comprendere meglio le donne e la vita e, inoltre, mi mantiene in una terra fertile per la mia ricerca. MCW/ La psicoterapia e l’analisi del sé giocano un ruolo chiave nella realizzazione delle tue opere, puoi approfondire questo aspetto? EV/ Grazie alla psicoterapia ho cominciato a “scrivere” un diario sulle tele, trasferendo su di esse tutti gli interrogativi riguardanti passato, presente e futuro. Soffro, fin da piccolo, della paura di morire soffocato e sento, di riflesso, il bisogno di uscire dal guscio che mi imprigiona. La ribellione a questa condizione di chiusura si traduce - nella mia ricerca - nell’impiego di una molteplicità di materiali, di colori, di tecniche e di contaminazioni oltre che nel bisogno di lasciare uno spazio bianco, vuoto - la tela vergine - come via di fuga. 4
MCW/ Il tema della violenza rappresenta un filo conduttore in tutta la tua produzione: dagli acquerelli ai ritratti più recenti. Da dove trae origine e come lo esprimi attraverso i vari media che utilizzi? EV/ L’essere cresciuto in un paese aspro e forte come l’Albania dove ho visto e vissuto la violenza dappertutto, dalla scuola alla guerra civile del ’97, influenza da sempre la mia ricerca. Tutto ciò che ritraggo è riconducibile alle mie origini: i volti che dipingo possono essere considerati, infatti, mappe della mia terra. Per quanto riguarda i diversi media, il lavoro degli acquerelli anche a livello fisico è molto più rilassante, ma non bisogna lasciarsi ingannare dalla forma. Per realizzare queste opere uso una siringa con un colore rosso che richiama il sangue, impiego degli strumenti di ferro e delle spatole per incidere, oltre ad altri materiali taglienti. Quando vado a togliere la materia superficiale con l’acqua è come se spogliassi un corpo rivelandone i segni che nasconde in profondità, sotto la pelle. Tutte le mie opere nascono da un processo in cui prima metto, costruisco, e poi tolgo. Nei ritratti, invece, la forza e la violenza sono molto più evidenti: è come se sfogassi la rabbia scuoiando il soggetto che ritraggo, per poi prendermene cura.
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’essere cresciuto in un paese aspro e forte come l’Albania dove ho visto e vissuto la violenza dappertutto, dalla scuola alla guerra civile del ’97, influenza da sempre la mia ricerca. Tutto ciò che ritraggo è riconducibile alle mie origini: i volti che dipingo possono essere considerati, infatti, mappe della mia terra.”
MCW/ Nello sguardo dei volti che ritrai traspare sempre una certa melanconia, che significato attribuisci a questo stato d’animo? EV/ Io sono un ritrattista e sono figlio delle case di riposo che ho frequentato durante gli anni del liceo. I miei genitori non volevano che studiassi pittura così, dopo la scuola, andavo in questi luoghi e mi esercitavo ritraendo gli anziani. Il loro sguardo triste e abbandonato mi accompagna ancora; il mio modo di dipingere è questo: melanconico. Tantissime volte si ha la sensazione che la tristezza e la melanconia siano stati d’animo da rifuggire, sono - invece - condizioni bellissime, perché permettono di avere una percezione reale del mondo che abita dentro e fuori di sé e di accettarsi per quello che si è. MCW/ Concluderei la nostra chiacchierata con un riferimento all’elemento dell’acqua a te caro perché simbolo di nascita, di vita. EV/ È vero, l’acqua è un elemento a cui sono molto legato: vuol dire madre, vuol dire tornare all’origine. Nei miei acquerelli parlo molto della bellezza della nascita e della vita, lo faccio ritraendo anche embrioni e animali marini. Nei ritratti, invece, parlo dello scontro con la dura realtà. L’acqua è anche memoria, in tutti i miei ritratti o anche negli acquerelli insisto nello scavare degli strati per giungere alla memoria profonda, al passato, all’origine della storia di ognuno di noi. Spesso nei ritratti lascio solo un occhio, un occhio che più che guardare osserva, osserva con lo sguardo melanconico di cui parlavamo prima e che riporta in un altro tempo, in uno stato che forse non c’è più, ma che è rimasto nel nostro ricordo.
Da sinistra in senso orario: MARCO. M, 2017. Pastelli a cera su carta, 70x50 cm. TODO CAMBIA, 2019. Acquerello su tela, 200x130 cm. ERA SUO PADRE, 2021. Pastelli e acrilico su tela, 200x170 cm. Per tutte courtesy dell’artista.
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INTERVIEWS
PROGETTARE IL VUOTO Paolo Cavinato
- Davide Silvioli
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a ricerca di Paolo Cavinato si contraddistingue per un particolare approccio allo spazio; quello dell’opera e quello espositivo. Attraverso una pluralità di tecniche, lo spazio, declinato come vuoto, si configura quale parte attiva nella costituzione delle sue opere, costantemente impostate su rapporti geometrici rigorosi. Secondo questa metodologia, Cavinato, definendo strutture complesse, approfondisce i concetti di limite e di soglia, autentici comuni denominatori estetici della sua sperimentazione. Leggiamo, dalle sue parole, l’entità di questi metodi e temi nello svolgimento del suo lavoro.
Davide Silvioli/ Nel tuo lavoro, complessivamente, il ricorso alla geometria è aspetto portante. Quali sono le ragioni alla base del tuo interesse per questa disciplina in ambito di ricerca artistica? Paolo Cavinato/ La continua riflessione sullo spazio e la sua ricostruzione o rappresentazione mi hanno condotto al suo calcolo e alla progettazione del vuoto. Così, la geometria come evidente proiezione della matematica, è necessaria all’uomo per costruire quell’edificio protettivo in un mondo in costante mutamento e divenire. Ordine per arginare il caos. Allora, che cos’è questo Ordine e che cos’è questo Caos? Ma anche il caos potrebbe avere un suo ordine, solo che noi, nella nostra dimensione spazio-temporale non riusciamo a coglierlo, se non armati di strumenti necessari; vogliamo o cerchiamo di analizzarlo o controllarlo. In fondo, credo, cerchiamo di allontanare la paura, camminando sul bordo che si frappone tra ragione e follia. Probabilmente la geometria è questo voler rimandare il momento dello schianto.
DS/ Sia nella grande che nella piccola dimensione, le tue opere dimostrano un rapporto non secondario con lo spazio e con il luogo espositivo. Come si inserisce questo legame nel tuo lavoro? PC/ Il luogo espositivo diviene anche luogo fondamentale per la riflessione e progettazione. Il luogo ha sue caratteristiche ben definite di luminosità, dimensioni, forme, materiali, tracce storiche o tracce di vario tipo, ecc. e la ricerca avviene quindi in relazione alle peculiarità fisiche, percettive o emotive ad esso collegate. Si tratta di capirne punti di forza e altrettante criticità. Mi appassiona molto lavorare nel luogo e sul luogo trovando ogni volta occasione per una nuova esperienza, portare un tassello in più alla ricerca. Così, modificando, aggiungendo o togliendo, cerco di integrare e di far convergere le opere allo spazio creando una sorta di “dimensione altra”, facendo sì che il fruitore si immerga in un nuovo “racconto”. La luce, il sonoro, le realizzazioni plastiche o scultoree diventano elementi immersivi e coinvolgenti della medesima narrazione. 6
DS/ Su questa base operativa, come si configurano i concetti di “soglia” o “limite” a fondamento della tua ricerca?
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a continua riflessione sullo spazio e la sua ricostruzione o rappresentazione mi hanno condotto al suo calcolo e alla progettazione del vuoto. Così, la geometria come evidente proiezione della matematica, è necessaria all’uomo per costruire quell’edificio protettivo in un mondo in costante mutamento e divenire. Ordine per arginare il caos.”
PC/ Con gli ultimi progetti è rientrato questo tema fondamentale già affrontato in passato, di soglia o di spazio liminare, di inquadratura e di cesura temporale, di spazio e tempo dell’attesa. L’idea di “limite” innesca il meccanismo come grimaldello del pensiero. Circoscrivere un vuoto e incorniciarlo rimanendo sul bordo ed osservare e meditare il momento dell’attesa. Chiedersi se tutto questo che ci ritroviamo di fronte è pura illusione e se questa “realtà” che viviamo fa parte di una nostra proiezione. Così come nelle Interior Projection, sconosciuti luoghi tra vita e morte, le dimensioni tendono a ribaltarsi o a capovolgersi o in Drops, il fragile lettino pronto a sfaldarsi, persiste in bilico nel breve tempo dell’attesa temporale. O nelle ultimissime Breath, dove il tempo, marcato e ritmato dal respiro, pone domande monolitiche all’incertezza del primo passo non ancora pronunciato. Percepirsi “Soglia” tra passato e futuro. Io sono qui, ora, adesso, spazio liminare tra ciò che sono stato e ciò che sarò. La domanda finale e che ritorna come un mantra è: che cosa determina e costituisce l’individuo? DS/ Dove ti sta conducendo, attualmente, la sperimentazione? 7
PC/ Le due mostre attualmente in corso sono un po’ uno spartiacque della ricerca. “Limen”, a Palazzo Te a Mantova, raccoglie una visione ed una sedimentazione di un lavoro portato avanti ormai da diverso tempo, mentre la grande personale “Another Place” in galleria The Flat - Massimo Carasi a Milano è uno sguardo sul futuro e vede raccolte opere realizzate nell’ultimo periodo. Utilizzando tecniche e materiali diversi ho voluto qui sperimentare e pormi in un atteggiamento nuovo e aperto in un periodo così depressivo, incentivando la collaborazione con altre figure professionali, come fabbri, falegnami, laccatori, restauratori, ecc. Così ho sperimentato la cangianza delle vernici, ho ripreso il dinamismo delle luci elaborando nuove sculture con centraline elettriche Led, ho lavorato sull’ambiguità della percezione della realtà e la sua illusione, creando oggetti scultorei del tutto inediti. Ho ripreso il discorso del colore come forma dello spazio. Da sinistra in senso orario: KALEIDOSCOPE, 2017. Sala del Pisanello, Palazzo Ducale, Mantova. Foto © Guido Bazzotti. STARGATE #4, 2021. Dettaglio. Foto © Paolo Cavinato. Per entrambe courtesy dell’artista. BREATH #1 e #2, 2021. Veduta della mostra “Another Place” nella galleria The Flat - Massimo Carasi. Foto © Paolo Cavinato. Courtesy Galleria The Flat - Massimo Carasi, Milano.
INTERVIEWS
IL DISEGNO ASSOLUTO Omar Galliani
- Valentina Tebala
“E
siste una bellezza apparente o attraente fatta spesse volte di mutazioni imposte dall’estetica indotta dai media lontani da un vero concetto di bellezza. Una bellezza addomesticata.”
Valentina Tebala/ Spesso ci si rivolge a lei definendola “maestro”, un appellativo oggi forse démodé, ma che in effetti la riporta sulla stessa linea (il termine non è a caso, dato che di linee, tracciati segnici, si parla) e la accosta a grandi maestri del Rinascimento italiano, tra i quali cito, per via di alcune già dichiarate affinità, Leonardo, Raffaello, Correggio: maestri che hanno portato lo stile - e il disegno - italiano nel mondo. Un’impresa che lei, in tempi in cui l’arte e la concezione dell’arte sono totalmente cambiate, riesce a condurre magistralmente appunto. Le chiederei subito come giudica le sorti e lo stato di salute attuale del disegno, in Italia specialmente, e se ha stima in particolare del lavoro di qualche suo (anche molto giovane) collega… Omar Galliani/ La parola “maestro” è sinonimo di una conoscenza tramandata o a volte soltanto rispettata per chi svolge un lavoro del cui valore si ha rispetto o a cui si riconosce una particolare abilità o originalità. In un tempo come il nostro in cui tutto si mischia e centrifuga sembra desueto e inusuale, ma nel mio caso, dato che mi ritengo fuori e dentro al tempo, questa parola diventa sinonimo di estraneità a una globalizzazione degli stili o dei linguaggi a cui sono certo e fiero di non appartenere. Insegno da tanti anni pittura in Accademia; in quella di Brera dove attualmente insegno ho diversi giovani allievi talentuosi che portano avanti nel disegno la propria ricerca creativa. Anche se oggi davanti alle più sconfinate tecnologie che l’arte contemporanea 8
utilizza sembra anacronistica la parola “disegno”, le assicuro che il numero degli iscritti alla mia cattedra supera ogni immaginazione e hanno tutti poco più di vent’anni. VT/ Parliamo ora di un altro tipo di segno grafico: quello alfabetico della scrittura, del testo, che compare nelle opere degli anni Settanta o nei Mantra degli anni Novanta; mentre nei “taccuini di viaggio” traspone impressioni ed emozioni vissute nei luoghi visitati in memorie visive. Che relazione c’è tra il disegno e la scrittura nei suoi lavori, e tra queste due tipologie segniche e l’esperienza del viaggio (fisico, mentale, spirituale)? OG/ Alcuni giorni fa accompagnando due mie nipoti nel classico pellegrinaggio agli Uffizi mi sono soffermato davanti all’Annunciazione di Simone Martini dal cui gesto dell’angelo annunciante esce la nota frase rivolta alla Madonna in cui i caratteri in oro sono in rilievo quasi non bastasse la foglia d’oro ad evidenziare il valore dell’enunciato. Una sottolineatura, un rafforzativo dell’immagine che porta oltre la rappresentazione. L’uso del testo, della parola nei Mantra, ha questo duplice valore: a sinistra il testo d’Oriente a destra l’immagine d’Occidente in un confronto volutamente improbabile, volutamente contrastante. È la spiritualità contenuta nel codice delle parole in cui l’oro aspira all’assoluto solare confrontato con il bianco e nero d’Occidente del disegno, dove la realtà del quotidiano rivela i suoi aspetti contrastanti.
VT/ A proposito di mantra e di suggestioni orientali: come definirebbe il suo rapporto con l’Oriente? OG/ Dalla fine degli anni Novanta in poi ho fatto diversi viaggi in Cina, Corea del Sud, India, Vietnam, per lavoro, per turismo. Non mi ritengo un conoscitore dell’Oriente ma piuttosto un viaggiatore con un quaderno in tasca, una matita o altri strumenti trovati sul posto. Un viaggiatore trasognato che non pensava di portare a casa tante piccole o grandi contaminazioni. VT/ Dalle bellissime modelle sottratte al mondo patinato delle riviste, alle costellazioni di rose simbolo di bellezza indifferente allo scorrere del tempo. Che cos’è e che ruolo ha per lei la bellezza, e la sua rappresentazione, oggi? OG/ Viviamo in un pantheon di immagini lanciate da orbite lontane e vicine dove non sempre è facile afferrarne i contorni e dire… bellezza. Esiste una bellezza apparente o attraente fatta spesse volte di mutazioni imposte dall’estetica indotta dai media lontani da un vero concetto di bellezza. Una bellezza addomesticata. Spesse volte le immagini di cui mi chiede viaggiano tra emisferi o galassie immaginarie e forse perché nella terribilità oscura dell’universo esiste un ordine di bellezza che non comprendiamo poiché troppo grande e infinita. Il mistero della bellezza e del suo contrario restano pertanto senza risposta. VT/ Chiudiamo menzionando la sua più recente mostra personale, “Il disegno non ha
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tempo”, realizzata al MARCA di Catanzaro, che ha raccolto importanti opere e due inedite del 2021: Chlorophelia e NGC/7419. Vuole regalarci un commento su questi ultimi lavori? OG/ Non so dove inizi la realtà o dove finisca per poi trasformarsi in un “altrove” che non conosco ma che mi si è presentato con questa sigla “N.G.C. 7419”, che ho sognato più volte, e che inserendola nel pc ho scoperto appartenere a un numero di codice che la NASA dà alle costellazioni. La mia sigla del sogno è quella di Cefeo e la sua forma a matita è emblematica. Un collegamento affascinante e misterioso tra cielo e terra attraverso la grafite/diamante carbonio presente negli ammassi stellari intorno al sistema planetario della pulsar “PSR” che si trova al centro della galassia, a circa mille anni luce dal Sole. Chlorophelia è il riflesso degli alberi in inverno nella piscina del mio giardino, dipinto quando in inverno nevica e la neve si scioglie. Da questa superficie liquida emerge un serto di stelle luminose: annunciazione, danza, una costellazione di stelle? Da sinistra in senso antiorario: NELLA COSTELLAZIONE DI ORIONE (trittico, pannello centrale), 2019. Matita su tavola, 100x100 cm. DALLA BOCCA E DAL COLLO DEL FOGLIO, 1977. Matita su carta + collage, 200x140 cm. NGC/7419, 2020-21. Matita su tavola, 285x185 cm. Foto © Carlo Vannini. Per tutte courtesy dell’artista.
SPECIAL
ESPERIENZE DI EDUCAZIONE NELL’ARTE Loredana Barillaro
I
dipartimenti educazione dei musei, delle fondazioni e di tutte le istituzioni culturali focalizzate, nel caso specifico, sull’arte contemporanea, sono ormai una componente - oltre che una preziosa risorsa - imprescindibile per una pura esperienza delle collezioni permanenti, o delle mostre temporanee - per tutte le tipologie di pubblico e fasce di età - ed in cui il fattore terapeutico, nel senso più ampio del termine, può fare la differenza.
L MARIANNA BENIGNI
Marianna Benigni è Referente per la Didattica dell’Art Forum Würth Capena. Un ritratto di Marianna Benigni. Foto © Livia Granati. Courtesy Marianna Benigni.
a sfida che affronta chi si occupa di comunicare l’arte contemporanea a diverse tipologie di pubblico, è individuare i metodi e i linguaggi più appropriati, sia che ci si rivolga a visitatori appassionati o amatori, sia a qualsiasi altro utente, compreso il pubblico delle scuole o delle famiglie. Il fattore terapeutico, importante in senso generale, si fa centrale nei percorsi di arte terapia dedicati a persone con disabilità intellettiva. La missione cui tendere è porsi non solo come spazio in cui apprendere nozioni, ma, nel modo più inclusivo, come luogo che offra opportunità per confrontarsi e scoprire le proprie risorse creative. L’esperienza educativa basata sull’arte può offrire preziose chiavi di lettura per interpretare la società attuale. Se infatti la conoscenza delle manifestazioni artistiche del passato arricchisce la comprensione dei passaggi storici che hanno portato all’oggi, l’arte contemporanea innesca riflessioni sul presente e può far presagire tendenze future. Il ruolo degli operatori dei dipartimenti didattici in questo è fondamentale. Soprattutto l’arte contemporanea, spesso meno diretta nel comunicare i propri contenuti, ha bisogno di una mediazione volta a suggerire proprio quelle chiavi di lettura significative, o a stimolarne l’individuazione nel visitatore stesso. Importantissimo è il rapporto con la scuola. Le esperienze museali positive vissute in età scolare, possono essere un fattore determinante nella formazione di un pubblico consapevole e motivato in età adulta. Inoltre, l’approccio all’arte contemporanea da parte dei bambini e dei ragazzi è generalmente più libero e aperto, non condizionato da pregiudizi talvolta presenti negli adulti che, al primo impatto, non vi ritrovano quei canoni estetici cui sono abituati. Un aspetto da tener presente quando si sviluppano proposte didattiche per le scuole, è integrarle con le indicazioni nazionali dei percorsi formativi. Questo per favorire una continuità e la possibilità da parte degli insegnanti di riprendere e sviluppare in classe i temi proposti, in modo che la visita non rimanga solo un’esperienza isolata e fine a se stessa. Il lavoro di comunicazione e mediazione tra l’opera fisica e la sua densità di contenuti può avvalersi di diversi strumenti. È importante, ad esempio, la ricostruzione narrata di un contesto storico e sociale in cui l’artista ha operato o opera. Inoltre, laddove di un autore il visitatore può vedere un solo lavoro, è necessario integrare con la presentazione di un selezionato apparato iconografico, comprendente sia altre produzioni dello stesso artista sia opere di confronto, da mostrare magari attraverso un tablet. Per tutto il pubblico, ma particolarmente per quello dei più giovani è fondamentale stimolare le capacità interpretative abbinandole ad esperienze di produzione. Ciò avviene nei laboratori che mettono in relazione l’esplorazione mirata dei significati e delle tecniche, con una fase di rielaborazione creativa, in uno spazio dove sperimentare ed esercitare l’immaginazione. Esperienza di produzione è tanto più efficace quanto più tendente a ripercorrere modalità operative relative ad un autore o ad una specifica corrente artistica. Marianna Benigni
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E
bbene, si può parlare dunque di tipologie di pubblico? Quanto sono preziose le chiavi di lettura - così importanti per la comprensione della società in cui viviamo - che si possono acquisire mediante l’esperienza educativa basata sull’arte? Quanto conta il rapporto con la scuola? Quali sono gli strumenti necessari affinché un educatore possa riuscire in quanto “tramite” fra il lavoro di un artista e l’esperienza dell’arte?
SPECIAL
ALESSANDRA DRIOLI
I
musei del XXI secolo svolgono un ruolo fondamentale di innovazione sociale. Si configurano sempre più come luogo di relazione e rigenerazione, di inclusione e integrazione e come strumento per la costruzione di una società della conoscenza, con la ricerca costante di un coinvolgimento di tutti i pubblici. In questo senso il passaggio dalla definizione di pubblico a quella di pubblici rappresenta plasticamente il cambio di paradigma del museo contemporaneo, che vede sempre più al centro i suoi fruitori. Il linguaggio universale dell’arte legge, interpreta, indirizza, nella comprensione della società contemporanea e delle sfide da affrontare con una forza e una capacità di visione che diventano preziosissimi in un contesto complesso e in una sempre più accelerata transizione in cui per tutti noi la possibilità e capacità di decifrare e metabolizzare è di giorno in giorno più ridotta. La dimensione educativa e partecipativa dei musei assume pertanto non solo grande importanza ma si carica anche di una forte responsabilità. In questo, anche il rapporto scuola-università-museo diventa cruciale e rappresenta un terreno con ancora tante potenzialità da scoprire e sviluppare. Al Dipartimento Educativo, che per tutto quello fin qui detto deve essere in strettissima correlazione con quello curatoriale, spetta pertanto l’ambizioso e stimolante compito di far vivere a tutti i pubblici un’esperienza 11
trasformativa, con un approccio partecipativo e laboratoriale, che consenta di sviluppare un pensiero critico e costruttivo. Ad essere stimolati saranno l’abilità creativa, la dimensione emozionale e sensoriale insieme alla capacità di relazione. Alla figura professionale degli educatori viene chiesto tantissimo e dovrebbe allo stesso modo essere riconosciuto tantissimo. Di fatto, tocca a loro individuare i contenuti da mettere al centro dell’esperienza e darvi una forma, mettendo in gioco creatività, le tante metodologie già sperimentate, ma soprattutto energia e capacità empatica di coinvolgere i partecipanti nel processo e far sì che tutto quello che è stato teorizzato nella sceneggiatura di un modulo didattico si realizzi nella pratica. La Fondazione Morra Greco con il progetto EDI_Global Forum for Education and Integration ha dato vita a un hub della ricerca didattica dell’arte a livello internazionale dove c’è la possibilità di approfondire, condividere esperienze, confrontarsi e acquisire conoscenze grazie anche ad una piattaforma digitale online, ediglobalforum.org, che connette realtà di ogni parte del mondo e aperta a tutti. Il progetto EDI Global forum for Education and Integration, promuovendo per l’appunto la collaborazione attiva, la co-creazione e il rispetto per la differenza, promuove esattamente il ruolo sociale del museo come strumento di integrazione e di trasformazione per il benessere sociale, che deve formare menti creative e libere, capaci di relazionarsi con la complessità del contemporaneo. Alessandra Drioli Alessandra Drioli è Head of Programs di Fondazione Morra Greco. Un ritratto di Alessandra Drioli. Courtesy Alessandra Drioli.
A REGOLA D’ARTE Paola Caterina Manfredi
“P
ian piano mi sono innamorata di questo mestiere, al punto da preferire la strada incognita di un ambito professionale impossibile da definire e spiegare a una madre, fluido, plasmabile, adattabile alla propria persona, mai uguale a se stesso e soprattutto sempre misterioso e da dietro le quinte.”
È
stato in Rai di Milano che ho iniziato a lavorare nell’ambito della comunicazione. Da ragazza, all’Università e forse già anche prima, volevo fare televisione. Non essere in monitor, ma dietro le quinte: volevo occuparmi di tutto ciò che rende possibile quanto appare in video e in particolare dei testi e dei programmi stessi. E non per la TV commerciale: proprio per la Rai, per il servizio pubblico, per l’istituzione. E, pare incredibile a dirsi, agli occhi di mia madre questo faceva di me una ribelle, anzi quasi una sorta di peccatrice. Mia madre era un’intellettuale, insegnava lettere al liceo
classico e aveva un’idea molto precisa dei valori culturali e sociali da perseguire con l’attività lavorativa, idea che non comprendeva certo la televisione tra le opzioni possibili per sua figlia. Comunque ho tenuto duro anche di fronte a critiche piuttosto aspre, e credo di aver fatto bene. Questa determinazione mi ha portata infatti a lavorare accanto a veri e propri maestri della comunicazione, lavorando a progetti mai banali o secondari e pian piano mi sono innamorata di questo mestiere, al punto da preferire la strada incognita di un ambito professionale impossibile da definire e spiegare a una madre, fluido, plasmabile, adattabile alla propria persona, mai uguale a se stesso e soprattutto sempre misterioso e da “dietro le quinte”, e sono approdata nel mondo delle agenzie di comunicazione. Ho quindi lavorato - come una indemoniata - per un decennio in due grandi studi milanesi di comunicazione. Il primo, generalista, operava con clienti di ogni tipo, dall’industria alla politica, dalla cultura alla sanità, tutto a livelli altissimi; nel secondo, invece, specializzato in ambito culturale, ha avuto inizio il mio percorso più radicale, iniziando la sfida di portare tutto ciò che avevo appreso nelle precedenti esperienze in un settore che sul fronte della comunicazione era molto ingenuo o poco attrezzato. È stato un periodo di grandi responsabilità e iniziai a sentire un crescente desiderio di fondare una mia agenzia, che volevo caratterizzata da un elemento allora di assoluta novità, quello dell’altissima specializzazione professionale nel settore della comunicazione per l’arte e della cultura, ma nella mia “interpretazione” e con regole che mi corrispondessero pienamente. Avevo ben chiaro in mente un aspetto del lavoro che volevo fare: la comunicazione non doveva e non poteva più essere pensata come qualcosa di diverso e successivo rispetto al progetto stesso. I contenuti e le loro modalità di comunicazione sono essenzialmente uniti. Quanto più una strategia di comunicazione è sin dall’origine intimamente connessa coll’elaborazione del progetto tanto più si rivelerà efficace. Ed essere efficace, fare davvero la differenza, era ed è il mio obiettivo. Il 1° luglio 2007 è così nato PCM Studio, prima in diverse sedi in condivisione con amici che avevano agenzie di pubblicità tradizionale o società di eventi, e poi dove siamo ora, in un cortile interno di via Farini dove si respira l’aria della Milano che fa. Tra i primi clienti ci sono stati Palazzo Grassi e Artissima, che seguo ancora oggi, e l’apertura della Reggia di Venaria, progetto “una tantum” che mi è rimasto nel cuore per la sua complessità e grandiosità. Intanto la struttura andava precisandosi, e man mano sarebbero arrivate giovani leve da far crescere 12
PEOPLE ART
e instradare verso alti standard di professionalità. Alcune di queste sono oggi collaboratrici preziose, come Federica Farci e Francesca Ceriani e sempre tutto il team di PCM è connotato da una forte idea di squadra “speciale” che proteggiamo. Nel tempo si sono aggiunti nuovi clienti, come Artcurial, di cui l’anno prossimo festeggiamo i 10 anni di presenza in Italia e di stretta collaborazione con noi, la Galleria Gagosian a Roma e tanti altri con cui condividiamo un percorso di comunicazione e crescita in un rapporto basato sul dialogo costante. Nel 2019 ho partecipato all’avventura di ICA di cui sono anche partner sostenitore dall’inizio del progetto. Stile aziendale e procedure di lavoro si sono quindi in questi anni depositati in un know how riconosciuto e riconoscibile e che ci consente di essere oggi un marchio di qualità per la comunicazione per l’arte in Italia. In parallelo all’attività di ufficio svolgo una intensa attività didattica. Ho cominciato a insegnare circa dieci anni fa alla Business School de Il Sole 24 Ore, cui si sono aggiunte nel tempo altre scuole sino all’università IULM, con grande piacere e soddisfazione personale. Sto pilotando la mia agenzia verso obiettivi sempre sfidanti che ritengo ineludibili per essere ancora all’avanguardia nel mio campo inventando sempre nuovi fronti su cui misurarsi e sperimentare. Oggi, ad esempio, tra le nuove sfide che ci siamo dati vi è quella di costruire nuovi intrecci tra il sistema italiano dell’arte e il mondo asiatico. Sono molto grata e riconoscente a tutte le persone che ho incontrato e con cui è stato possibile realizzare uno scambio e costruire qualcosa che prima non c’era. Paola Caterina Manfredi è Fondatore e Direttore di PCM Studio di Milano. A destra: Un ritratto di Paola Caterina Manfredi. Courtesy PCM Studio.
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DESIGN.ER
MEDITERRANEO E TRADIZIONE Marco Rocco
Loredana Barillaro/ Marco, la componente artigianale è molto presente nel tuo lavoro, in stretta correlazione con l’uso della ceramica. Me ne parli? Marco Rocco/ Per me l’artigianalità è importante perché è il simbolo di una mentalità e uno stile di vita che mette al centro l’uomo e i rapporti fra le persone. L’industrializzazione ci ha portato ad un raffreddamento dei rapporti sociali, alla rarefazione dei legami fra noi come esseri umani. Tornare a lavorare con le mani ci mette in contatto personalmente con l’oggetto a cui stiamo lavorando, con la materia prima. Al momento della vendita al cliente mi piace pensare che stiamo donando non solo un oggetto ma una parte di noi, del nostro tempo, del nostro affetto. LB/ Quanta mediterraneità c’è nei tuoi progetti? MR/ Molta, in realtà la mia idea è quella di creare un design che origini dal Mediterraneo e sia riconoscibile per questo. Sento che negli ultimi anni, grazie a chi come me ha studiato e ha viaggiato molto, il sud Italia e la Puglia hanno
- Loredana Barillaro
voglia di riprendersi quello che è stato tolto. Abbiamo molta tradizione e molta storia da cui attingere e per noi è come se stessimo iniziando dal punto zero, cercando di creare un nuovo vocabolario per essere di nuovo letti dal resto del mondo. LB/ Colore, geometria, minimalismo e manualità. Possono essere - questi aspetti caratterizzanti la tua visione del design? MR/ Sì, il mio design è in continua evoluzione ma cerco di seguire la via della semplicità. In realtà un oggetto è un equilibrio tra forma, colore, concetto e usabilità; questi punti creano un oggetto a volte anche complesso, quindi cerco di esprimere la mia idea nella maniera più diretta e minimalista possibile. LB/ Cos’è, secondo te, l’elemento che rende immediatamente riconoscibile la tua ricerca? MR/ Penso che i miei oggetti siano riconoscibili in quanto ironici, giocosi e colorati, mai scontati. Mi piace disegnare oggetti che vadano oltre 14
il semplice uso, che facciano leggere la realtà e la nostra quotidianità in una maniera diversa. Uno dei progetti a cui sono più affezionato è il puzzle Cook, un progetto composto da otto quadri in ceramica, ognuno con un disegno ispirato alle mie origini. Questi quadri si possono smontare trasformandosi in vasi, bicchieri, bottiglie, candelabri, brocche e piatti. Marco Rocco è Designer e Fondatore dell’omonimo Studio di Design di Grottaglie (TA). Da sinistra: OROLOGIO CINTURINO AZZURRO, 2021. Dalla serie BOTTIGLIE. Per entrambe courtesy Marco Rocco.
PHOTO.&.FOOD
L’ELEGANZA DELLE IMMAGINI Yulia Rettondini
Luca Cofone/ Conosciamoci meglio, parlami un po’ di te. Raccontami della tua passione per la fotografia, cosa ti ispira, come scegli il set da fotografare (colori, forme, atmosfere, sfondi)? Yulia Rettondini/ Mi chiamo Yulia Rettondini. Sono una fotografa di oggetti e cibo. Mi piace la fotografia d’Arte e le nature morte con un approccio minimalista. Mi piace unire la natura viva e la natura morta nelle foto, frutta, fiori, pietre, vetro e così via. Le idee e l’ispirazione le traggo dalla natura, dalla vita, dai film. Amo guardare i raggi del sole come si riflettono sugli oggetti; vorrei parlarvi di come lavoro su una tema, ad esempio ora sto lavorando su un concetto chiamato “famiglia”. Ho comprato dei meloni, e in un mercato dell’antiquariato ho acquistato un antico vaso e poi dei fiori; mi piacciono molto i fiori stagionali e ne ho sempre molti a casa e in studio con me. Ho guardato il vaso, i meloni e i fiori e subito ho capito cosa volevo fare: l’immagine di una donna con dei bambini; così ho scattato una serie di foto dedicate alla Giornata Internazionale della famiglia. Il vaso antico è una silhouette femminile, il melone è la testa, e con i fiori ho completato l’immagine, usandoli come
- Luca Cofone
capelli. In ogni mia foto c’è un significato, ed è ciò che voglio trasmettere a chi la guarda. LC/ Quand’è che ritieni che una foto sia perfetta? YR/ La foto ideale è quando la guardi e non vuoi rimuovere o cambiare nulla. LC/ Nelle tue foto spesso abbini il cibo ad elementi floreali, vuoi descrivere il messaggio che ne emerge? YR/ Grazie per aver notato questo elemento nelle mie opere. Sì, i fiori sono un’altra delle mie passioni. Sono infinitamente grata alla natura per il suo dono all’umanità. Un’infinità di varietà, con colori, forme, strutture e profumi che mi rallegrano l’umore e lo spirito. Nel mio giardino ho molti fiori e ogni anno provo a coltivare nuove specie.
che aiutano a rendere la foto perfetta per lo spettatore, il quale, ammirandola, non può nemmeno immaginare quali. Per fissare la forma dei prodotti, possiamo usare plastilina speciale, schiuma, nastro adesivo, spiedini, colla a caldo, filo d’acciaio o trasparente. Per le riprese commerciali usiamo tanti trucchi per ottenere l’effetto desiderato, poiché nella realtà i prodotti non si comporterebbero nella maniera che vogliamo. Ve ne dirò un paio. Ad esempio, la schiuma sulla birra non dura molto, e comunque non abbastanza per le riprese, quindi abbiamo bisogno di un aiuto, e lo chiediamo alla schiuma detergente per lavare i piatti. E per ottenere una mozzarella filante, quando prendiamo una fetta di pizza, possiamo usare, assieme alla mozzarella, la colla bianca. La panna montata può essere sostituita con schiuma da barba, dura molto più tempo. Esistono molti trucchi del genere, e il fotografo e lo stilista del cibo li conoscono bene.
LC/ Nella food photography professionale ci sono degli escamotage che chi è estraneo al settore potrebbe non conoscere? E quali?
Yulia Rettondini è Food and Lifestyle Photographer.
YR/ I fotografi di cibo hanno molti segreti
PERE DI CERA, 2021. Courtesy © Yulia Rettondini.
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GALLERY.ST
L’ARTE PER LE COSE E IL MONDO Cristian Porretta
- Loredana Barillaro
Loredana Barillaro/ Cristian, qual è l’aspetto che caratterizza maggiormente il tuo lavoro di gallerista e il tuo approccio al contemporaneo? Cristian Porretta/ Innanzitutto devo dire che mi ritengo fortunato a poter svolgere un’attività che si è rivelata una vera e propria passione e che ha radicalmente cambiato il mio modo di guardare la realtà che viviamo e che ci circonda quotidianamente. Citando Marcello Rumma, uno dei grandi promotori dell’arte in questo paese, “l’unica cosa che conta è l’arte contemporanea”. Ritengo che il poter stare a contatto con gli artisti, immergersi nei loro pensieri e nelle loro capacità espressive aiuti a comprendere gli aspetti culturali, naturali e relazionali che muovono cose e persone nel mondo attuale. La galleria FABER è uno spazio di ricerca nel panorama contemporaneo. Tutti gli aspetti che riguardano il mio lavoro partono da questo concetto, non solo ricerca intesa come scouting artistico, ma anche e soprattutto come studio e crescita costante a livello personale. In questo momento storico ritengo sia giusto ed etico che lavoro, professionalità e studio tornino a essere valori imprescindibili e inscindibili, al centro di un’attività che si occupa di diffusione della cultura contemporanea e al centro dei bisogni di tutti. LB/ Che tipo di percorso hai compiuto prima di decidere di aprire la Galleria FABER? CP/ I miei studi non sono direttamente collegati all’arte. Dopo il Liceo classico mi sono laureato in Scienze Politiche; la passione per l’arte è sempre stata molto privata, legata a interessi culturali che provengono dalla mia famiglia. Poi tra il 2007 e 2008 alcuni amici, che stavano aprendo una galleria a Roma, mi proposero di collaborare alla cura del nuovo spazio espositivo. Mi sono innamorato immediatamente del lavoro e ho avuto la possibilità di fare cinque anni di gavetta preziosissima, dove ho potuto inserire le mie passate esperienze personali e professionali. Ho iniziato ad approfondire i vari aspetti del mestiere e a maturare una mia idea di proposta artistica, finché nel 2013 mia moglie e io ci siamo resi indipendenti ed è nata la galleria d’arte FABER. LB/ Quali sono gli artisti con cui lavori? Che tipo di linguaggio sperimentano? CP/ Rappresentiamo un nucleo ristretto di artisti, selezionato nel tempo con grande attenzione. Questo soddisfa una duplice esigenza, da un lato qualitativa, dall’altro la volontà di agire seguendo e curando la crescita delle singole professionalità. A prescindere dal medium che utilizzano, tutti gli artisti con cui collaboriamo hanno uno stretto legame con la materia e la sua trasformazione, pur esprimendosi attraverso ricerche e sperimentazioni diversissime tra loro. Attualmente stiamo lavorando con Roberto Ghezzi, Valerio Giacone, Manuela Giusto, Koro Ihara, Jacopo Mandich, Keisuke Matsuoka e Giulia Spernazza. “Vulnerabile” di Giulia Spernazza è stata la più recente esposizione personale in galleria, in cui l’artista ha presentato un lavoro molto installatorio e davvero intenso sulle fragilità. “Forze invisibili” di Mandich ci ha visti per parecchi mesi sviluppare una pentalogia in cui l’artista ha indagato l’interazione tra energia e materie. Alla fiera di Roma Arte in Nuvola abbiamo presentato Koro Ihara, reduce dalla vittoria del Tokyo Art Prize. Con le serie Fading, Clycling, Wormed Ihara sperimenta un linguaggio legato agli esseri viventi utilizzando i materiali in maniera davvero stupefacente. Con Ghezzi stiamo lavorando al suo progetto pluridecennale Naturografie, dove è la natura stessa, l’acqua e la terra, a creare arte, e che porteremo a Roma il prossimo anno. I prossimi eventi riguarderanno Manuela Giusto con un lavoro in fotografia sugli elementi, e Valerio Giacone, artista di cui seguo la ricerca, sempre più intima e animistica, da diversi anni. La proposta più vicina sarà in primavera: Refugees di Keisuke Matsuoka, progetto dal forte contenuto sociale, che ha richiesto più di due anni di cura e che andremo a presentare mediante esposizioni, installazioni e talk in quattro location differenti. 16
Cristian Porretta è Direttore della Galleria d’arte FABER di Roma. Dall’alto: Un ritratto di Cristian Porretta. Keisuke Matsuoka, REFUGEES, 2019. Per entrambe courtesy Cristian Porretta.
SMALL TALK
UNA PERTURBANTE BELLEZZA Francesca Piovesan
- Sabino Maria Frassà
“C
on il mio lavoro prendo così coscienza della realtà in tutte le sue forme: cristallizzo istanti di realtà e cerco consapevolmente di dare un impossibile ordine a ciò che non può averlo. L’ordine non è per sempre.”
Sabino Maria Frassà/ Spesso hai dichiarato che il corpo è per te il primo strumento per conoscere la realtà. Cosa intendi? Francesca Piovesan/ Nella mia ricerca artistica fin dai primi autoscatti il punto di partenza è sempre stato il corpo. In particolar modo ritengo che la pelle sia un complesso e affascinante interfaccia tra me e il mondo esterno. Il mio approccio al gesto artistico è spesso istintivo: ho bisogno di fare, fare e fare per poi misurare, studiare e cercare un ordine e una forma nuova. SMF/ Body art, arte concettuale o performance? FP/ Performance e concetto sono alla base del mio modo di intendere l’arte, il corpo non è il fine ma lo strumento da cui parto per andare oltre. Se penso ad artisti che mi hanno colpito negli anni della formazione penso infatti alle fotografie performative di Francesca Woodman e alle installazioni di Norma Jeane. Per me esemplare la sua opera Potlatch 6.1 con cui realizzò del formaggio a partire dal latte materno, decontestualizzando e trasformando
il corpo al di là di esso, del suo valore funzionale e simbolico. Il corpo è solo l’inizio.
consapevolmente di dare un impossibile ordine a ciò che non può averlo. L’ordine non è per sempre.
SMF/ La tua sembra essere sempre più un’arte della contraddizione: da un lato racchiudi la morbidezza della pelle in forme squadrate, dall’altro l’equilibrio decorativo a cui arrivi unisce una bellezza eterea a una materia in trasformazione, se non addirittura in decomposizione.
SMF/ Con Aniconico sembri chiudere il cerchio e arrivare a uno di questi “istanti di realtà” creando mosaici di pelle, che celano un corpo “universale”.
FP/ La realtà è complessa e non si può schematizzare. Le mie prime opere in vetro spesso creavano inquietudine perché ricordavano la parte scheletrica e la materia corruttibile di cui siamo fatti. Altri lavori creano nello spettatore collegamenti immediati con le maschere funerarie, come la maschera di Agamennone. Io non ho mai avuto questa sensazione, ma è vero che al centro del mio lavoro c’è la continua e necessaria trasformazione della materia, persino all’interno delle opere: le immagini che creo, essendo anche organiche, continueranno a evolversi in modo imprevedibile anche dopo il mio gesto. Con il mio lavoro prendo così coscienza della realtà in tutte le sue forme: cristallizzo istanti di realtà e cerco 17
FP/ È un lavoro di cui sentivo forte la necessità. Avevo bisogno di andare al di là della figurazione a cui ero ancora legata, di trovare un nuovo ordine. Grazie a una tecnica off-camera da me usata in passato, ho scomposto il mio corpo in tasselli e l’ho ricomposto in geometrie di impressioni fotografiche “strappate” per contatto con la mia pelle. Da lontano potrebbero sembrare mosaici parietali in pietra. Solo da vicino si riconoscono nasi, orecchie, occhi. Si intuisce che non è pietra, ma pelle. Non si riconosce però il soggetto ritratto. Il risultato è una nuova immagine al di là della mia figura... al di là del corpo. Da sinistra: MEZZO BUSTO 02112021. Impronte di corpo, nastro adesivo, nitrato d’argento, carta, 74x74 cm. Veduta della mostra “S-composizioni” presso Gaggenau DesignElementi di Roma. Per entrambe courtesy dell’artista.
SMALL TALK
CREARE PARTENDO DAL DISTRUGGERE Luca Zarattini
“M
i piace pensare al suono come se fosse colore, e al colore come se fosse suono, senza che l’uno prevalga sull’altro.”
- Carla Sollazzo
convivono nella mia pratica o, meglio, nella mia vita, più o meno da sempre e più o meno parallelamente. Ho sempre avuto grossi problemi nell’impormi a priori delle etichette. CS/ Di recente hai parlato di un “conflitto tra l’inevitabile influenza della tradizione e la voglia di contemporaneità”; conflitto risolto o costantemente irrisolvibile?
Carla Sollazzo/ Da cosa/dove nasce la tua esigenza artistica (musica e pittura)? Luca Zarattini/ Esigenza è il termine appropriato! Non so dire di preciso da cosa o da dove nasca questa necessità; quel che è certo, è che ha per me una funzione catartica. In più, è l’unico modo di cui sono capace per dare forma concreta al tempo. CS/ Prima pittore o prima musicista? LZ/ Mi piace pensare al suono come se fosse colore, e al colore come se fosse suono, senza che l’uno prevalga sull’altro. L’essere pittore e l’essere musicista
LZ/ Penso che questa condizione conflittuale tra tradizione e contemporaneità sia un po’ la costante del mio lavoro. Non ci sono ricette date per un’eventuale risoluzione: mi piace pensarlo come un discorso aperto, in una certa misura interessante poiché irrisolvibile. CS/ Un artista o più artisti? A chi ti sei ispirato prima di diventare “Luca Zarattini musicista/pittore”? LZ/ Sono tanti e di tanti ambiti differenti gli artisti che mi hanno influenzato e che continuano a farlo, anche se sono convinto che le mie più grandi ispirazioni derivino dalle esperienze dirette del mio vivere. Spesso, anche la natura e i suoi meccanismi sono per me grande fonte di ispirazione. 18
CS/ Dipinti come puzzle, dove i pezzi sono in costante sottrazione/addizione; ci racconti com’è nata questa tecnica? LZ/ I dipinti per me non sono un gioco, un puzzle. Neppure una tecnica. Mi sono avvicinato a questa modalità pittorica in modo casuale, almeno all’inizio: accorgendomi della forza che può acquisire l’immagine composta da vari e differenti frammenti pittorici accostati tra loro in modo più o meno intenzionale, alla fine ho fatto di questa scoperta la mia ricerca. Mi piace pensare che l’opera finale si comporti con le stesse funzioni di una pianta infestante: aggredendo, durante il proprio sviluppo, lo spazio espositivo che andrà ad occupare. CS/ Arte Contemporanea uguale a...? LZ/ Una pizza con melanzane, speck, tonno, capperi, uovo, pomodoro, cozze, olive, salame piccante, mozzarella di bufala, cetriolini, gamberetti; condita con olio piccante e ornata con una bella candelina di compleanno. Accesa. FIGURE IN A LANDSCAPE, 2021. Tecnica mista su tela, 150x200 cm. Courtesy dell’artista.
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FIAT LUX Oggi l’arte può essere il nuovo Braille e dare luce alla realtà che dobbiamo imparare a vivere pienamente... guardando, toccando e gustando tutto ciò che ci circonda.
Fulvio Morella
Fulvio Morella, FIAT LUX, 2021. Multiplo d’Artista in cioccolato e braille, realizzato per Cramum in collaborazione con Guido Castagna.