SMALL ZINE

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ISSN 2283-9771

Magazine di arte contemporanea / Anno X N. 39 / Trimestrale free press

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LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE 2021


SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea

SOMMARIO TALENT TALENT 3

LA DRAMMATICA BELLEZZA DELLA MUFFA TTOZOI - Sabino Maria Frassà

INTERVIEWS 4

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EPIFANIE DEL QUOTIDIANO Giulio Catelli - Gregorio Raspa TRA CONFLITTO E FALLIMENTO Arcangelo Sassolino - Davide Silvioli TEMPO, ERRORE, CASUALITÀ Giulio Bensasson - Loredana Barillaro UNA FAVOLA SOSPESA Marco Bettio - Carla Sollazzo

SPECIAL 12

LE FORME DELLA DIPLOMAZIA CULTURALE con Bruno Bolfo, Gaetano Castellini Curiel - Loredana Barillaro

PEOPLE ART 14

LE CARTOGRAFIE DEL TALENTO Giulio Verago

DESIGN.ER 16

IL MIO RACCONTO DELLA MATERIA Duccio Maria Gambi - Loredana Barillaro

GALLERY.ST 17

IL MIO LAVORO COME STILE DI VITA Giulia Biafore - Loredana Barillaro

SMALL TALK 18

LO STUDIO DELL’INVISIBILE Vale Palmi - Maria Chiara Wang

Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Stampa Gescom s.p.a. Viterbo Contatti e info +39 3393000574 +39 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Sabino Maria Frassà, Gregorio Raspa, Davide Silvioli, Carla Sollazzo, Maria Chiara Wang Con il contributo di: Giulio Verago © 2021 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista. In copertina Giulio Bensasson LOSING CONTROL, 2021 (part.) Installazione ambientale legno, acrilico, gesso sintetico. 142x352x10,5 cm Foto © Carlo Romano Courtesy Fondazione Pastificio Cerere


TALENT TALENT

LA DRAMMATICA BELLEZZA DELLA MUFFA TTOZOI

- Sabino Maria Frassà

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a natura sbalordisce spesso l’essere umano, anche quando si manifesta impetuosa, tragica e persino mortale: come non rimanere ipnotizzati di fronte al mare in tempesta? Questa drammatica ambivalenza vita-morte della natura è alla base della ricerca dei TTOZOI, duo artistico italiano di Avellino protagonisti della mostra “Fiori invisibili” al Gaggenau DesignElementi di Roma dal 5 luglio. I TTOZOI realizzano quadri attraverso l’impiego di ciò che solitamente viene considerato nemico dell’arte e sinonimo di qualcosa andato a male, la muffa. Gli artisti sono i registi dell’opera d’arte, perché il vero protagonista e pittore rimane la natura, che si manifesta sulle tele in tutta la sua inimitabile complessità e irripetibilità. Pertanto, sebbene i TTOZOI partano dall’arte informale del dopoguerra, la loro è un’arte processuale in cui il gesto artistico in senso squisitamente maieutico completa e guida la natura nel manifestarsi, a ben pensarci possiamo persino dire che i quadri in gran parte si autodeterminino e che con essi abbia luogo un’epifania della natura. Gli artisti si “limitano” a determinare le condizioni affinché la vita possa partire, fiorire e lasciare traccia sulle tele. L’essere umano non può che rimanere umile narratore tanto della bellezza quanto dell’intima fragilità della natura di cui fa parte. Del resto, proprietà di tutti gli esseri viventi non è solo l’esistere, ma anche il morire, dimensione che i TTOZOI non negano, ma che includono in tutte le opere: la vita di qualsiasi essere vivente termina senza che ciò neghi o sminuisca il senso stesso di ciò che è stato e che non è più. Capiamo così il perché i quadri dei TTOZOI registrino il passaggio di una vita, piuttosto che svelare il segreto dell’esistenza; tale segreto non può che rimanere celato all’interno delle teche in cui “crescono” le opere in seguito al gesto performativo originario degli artisti. Le tele rimangono a lungo chiuse e imperscrutabili persino agli occhi degli artisti, dal momento che, se fossero aperte, la vita custodita all’interno, verrebbe meno. L’opera d’arte prende forma così soltanto quando il processo vitale si è compiuto. Infatti all’interno delle teche si trova, infine, la storia di una fioritura tanto impetuosa quanto ormai irrimediabilmente passata. Gli artisti solo a questo punto intervengono “scavando” nei resti di quel che rimane di questa invisibile fioritura, facendone emergere le impronte e le radici. Come gli archeologi a Pompei i TTOZOI con il loro “scavo” danno forma e donano eternità a ciò che è stato pieno di vita. Le loro opere finiscono così per essere un ritratto dell’effimera bellezza della nostra esistenza. Del resto da sempre e per sempre ogni nuova vita si nutre più o meno consapevolmente delle tracce del passato, che assimila, fa proprie, per riuscire infine a fiorire in qualcosa di imprevedibilmente nuovo, da lasciare e donare a chi ancora non è. Questa è la magia dell’arte dei TTOZOI: scavare nell’invisibilità per far emergere i fiori invisibili di ieri, oggi e domani.

Dall’alto: Opere dal ciclo TT, in mostra al Gaggenau DesignElementi di Roma. Per entrambe courtesy degli artisti.

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INTERVIEWS

EPIFANIE DEL QUOTIDIANO Giulio Catelli

- Gregorio Raspa

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ella citazione e nel rinvio a riferimenti letterari avverto il rischio del compiacimento come intralcio al libero sentire. Stabilire riferimenti e modelli potrebbe portare il peso di un moralismo, e di un canone, da cui cerco invece di sfuggire.”

Gregorio Raspa/ Osservando il tuo lavoro mi viene da pensare ad un certo “languore esistenziale”, tipico di molta pittura della tradizione italiana ed europea della prima metà del secolo scorso. In esso ritrovo i segni di una solida consapevolezza storica, maturata - immagino - assimilando la lezione di maestri come De Pisis, Morandi, Pirandello o Vuillard - solo per citarne alcuni a te idealmente vicini. A tal proposito, quali sono i riferimenti che hanno realmente influito sulla tua formazione?

per quella che viene definita pittura “espansa” che invece, nella maggioranza dei casi, risulta “ridotta”, immiserita, posta sul piano di una simulazione scenografica. Quanto ai valori tradizionali della pittura, non si tratta in realtà di un insieme compatto e rassicurante. Penso che la tradizione porti con sé i segni di tutte le relazioni e le contraddizioni generate nel continuo tentativo di rinnovare le immagini fiaccate dalle consuetudini. Ne sono testimonianza le diramazioni di gusto da un secolo a un altro, da paese a paese e, non da ultimo, i considerevoli scarti stilistici ed espressivi interni all’opera di molti pittori che amo. Per fare degli esempi notevoli: Constable, Renoir, Hockney mostrano nel loro lavoro un serrato sforzo di articolare poetiche, riesaminare nel tempo gerarchie e riferimenti. Questo svolgimento, aperto e inaspettato, di quella che chiamiamo “tradizione” (che è cosa molto diversa dai parametri contemporanei di “riconoscibilità stilistica”, di “originalità” o di “cifra”) stimola lo sguardo e guida la mia azione nel presente.

Giulio Catelli/ La tendenza al sentimento, e una certa propensione a rimestare ricordi e situazioni, mi portano a quel “languore esistenziale” di cui parli, che poi confluisce nel mio lavoro. Se questa disposizione ombrosa arriva al punto di frenare slanci ed entusiasmi, la mia “fiaccherella malinconica” ha almeno la virtù di una tensione antiretorica. I primi riferimenti artistici sono stati i miei familiari: i nonni pittori da entrambe le parti, mio padre scultore e mia madre disegnatrice e illustratrice. L’amore più antico è invece Morandi. Un amore precoce, divenuto un po’ tossico nella prima giovinezza, che ora ha ripreso una veste meno esclusiva e prescrittiva. Ai nomi che hai fatto, aggiungerei quelli di Ruggero Savinio e Alberto Gianquinto. Quest’ultimo, a suo tempo, mi rimproverò “d’essermi bevuto un po’ troppe bottiglie del bolognese”.

GR/ Il tuo lavoro spazia oggi nel territorio eroico dei soggetti “semplici”. La tua pittura si nutre di ciò che spesso è trascurato dai più, valorizzando immagini e visioni tratte dalla quotidianità. Come è nata l’idea di porre al centro della tua poetica l’ordinario? GC/ Non saprei se questa scelta sia eroica. Ho una preferenza per le immagini semplici. La pittura, come anche la poesia, si può fare con poco: il paesaggio dalla finestra dello studio, un ragazzo intravisto nella metro, un pic-nic. I miei non sono dipinti realizzati per restituire solo un soggetto (che pure ha la sua importanza), ma per rendere un modo di sentire e di vedere il reale.

GR/ La tua ricerca è intimamente legata ai valori e agli strumenti “tradizionali” della pittura. Come vivi il rapporto con altri media e discipline? GC/ Quando so di amici pittori che si misurano con altri media sento un apprezzabile fremito dei baffi. Ho persino delle riserve 4


GR/ Nel tuo caso, la scelta del soggetto sembra suggerire l’esistenza di un nesso di causalità diretto tra i fatti della vita e i motivi dell’arte. Quanto conta l’esperienza autobiografica nell’economia complessiva della tua ricerca pittorica? GC/ I miei soggetti nascono da piccole epifanie del quotidiano, oppure rimandano a spazi e situazioni rivisitati nella memoria. Ne risulta una dimensione autobiografica, suggerita o più dichiarata, come nel caso recente della piccola serie dei doppi ritratti col mio compagno Andrea. Coinvolgendo nel lavoro i fatti della vita, metto alla prova generi, iconografie, stilemi. Rifletto a mio modo su un’attualità della pittura. Il tempo privato e “istantaneo”, quindi attuale e inattuale insieme, scompiglia e rimescola le categorie, le gerarchie espressive legate ai soggetti. Agita i residui simbolici, le concezioni idealistiche, al contempo comode e soffocanti. GR/ In una poetica come la tua, elaborata sul dato reale e sul vissuto, che ruolo hanno il sogno, il fantastico, la suggestione letteraria? GC/ Nella citazione e nel rinvio a riferimenti letterari avverto il rischio del compiacimento come intralcio al libero sentire. Stabilire riferimenti e modelli potrebbe portare il peso di un moralismo, e di un canone, da cui cerco invece di sfuggire. Certo, è inevitabile che altre suggestioni collaborino sottotraccia

nell’economia generale del lavoro, ma se infine queste emergono, rimangono sullo sfondo, non sono premeditate. Più che il fantastico, è la fantasticheria ad affascinarmi: lo sguardo trasognato, l’affidarsi all’immaginazione, alle malìe delle associazioni visive. Questo, tanto nel compiersi del quadro, quanto nel godimento della pittura in genere. GR/ Mi interessa molto il tuo modo di osservare e ritrarre le azioni e i comportamenti umani. Alcuni dipinti da te realizzati negli ultimi anni - come, ad esempio, Dopo Pranzo (2018), Ragazzi che vanno a scuola (2018), In Giardino (2019) o La Partita (2019) - hanno in comune un’identità lirica e furtiva. Mi racconti di queste opere e della loro genesi, apparentemente estemporanea? GC/ I dipinti con i ragazzi impegnati nelle partitelle di calcio, o negli spostamenti tra casa e scuola, provengono dalle mie esperienze di supplente alle medie. In questi quadri nati da un impulso di simpatia e, se vuoi, di tenerezza, c’è la volontà di soffermarsi sul tema dell’adolescenza. Negli altri quadri che citavi, invece, dipingo le vacanze, la libertà dagli impegni, il rapporto con il paesaggio. Vi figurano ragazzi immersi nella natura, “arcadi debosciati” in atmosfere campestri. GR/ Una parte importante della tua produzione antecedente al 2018 è dedicata alla pittura paesaggistica. Con

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questi lavori hai pienamente sviluppato la tua azione linguistica, conducendola verso una piena maturità. Cosa resta, oggi, di quell’esperienza? Consideri possibile - o necessario - un suo ulteriore approfondimento in futuro? GC/ Il paesaggio è rimasto, anche a guidare, credo, una dinamica complessiva fra gli elementi e gli spazi dell’immagine. Ho lavorato en plein air proprio perché sentivo di voler sviluppare un linguaggio, estenderlo, rodare una consapevolezza dei mezzi espressivi. A dirla tutta, non sono poi molto cambiate le motivazioni di base del mio lavoro. La pittura è un banco di prova e, nonostante mi senta un poco scaltrito, oggi avverto ancora più forte di dover precisare, mettere a fuoco, di studiare. Per questo il paesaggio occupa ancora un significato di intenso contatto con la realtà. Il bisogno di una perspicuità dello sguardo, che assume il senso più ampio di una fedeltà a se stessi. Da sinistra in senso orario: IL GIARDINO DI LUDOVICO, 2018. Olio su tela, 160x130 cm. RAGAZZO CON LO ZAINO, 2017. Olio su tela su tavola, 30x24 cm. LE NÉCESSAIRE, 2018. Olio su carta, 35x25 cm. Per tutte courtesy dell’artista.


INTERVIEWS

TRA CONFLITTO E FALLIMENTO Arcangelo Sassolino

- Davide Silvioli

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a ricerca di Arcangelo Sassolino si risolve in sculture denotabili per la convivenza di soluzioni tecniche diversificate e poste in rapporti d’opposizione, determinando un continuo esercizio di sopraffazione fra un elemento e l’altro. Ne derivano operazioni in cui le componenti materiali confliggono fra loro, nel vivo di un’antitesi silenziosa, che spinge l’arte fino all’orlo del fallimento. Ora, leggiamo dalle sue parole i caratteri della sua ricerca. Davide Silvioli/ Da dove deriva il tuo particolare approccio ai materiali? Arcangelo Sassolino/ Il Veneto ha subito in un tempo relativamente breve un’urbanizzazione piuttosto sregolata, a volte mi pare di viaggiare dentro ad un film in cui si sfiora il delirio creativo. È un immaginario composto da cemento, acciaio, asfalto, attrezzature meccaniche di ogni genere, architetture mediocri, mi rimbalza spesso addosso una visione pop nostrana piuttosto sgangherata. Accanto a questo il Veneto è anche un luogo di eccellenze, pieno di aziende straordinarie, una rete produttiva in cui si trova di tutto. Questa duplice dimensione costituisce da una parte un terreno fertile per la mia ricerca, un autentico humus visivo da cui non posso sfuggire perché a questi luoghi appartengo, dall’altra mi dà la possibilità di trovare i mezzi tecnici per fare ogni tipo di sperimentazione. Credo che proprio questo immaginario abbia condizionato molto la mia ricerca verso materiali tanto differenti e tecnicamente articolati. DS/ Nel tuo lavoro sussiste una sorta di incessante e vicendevole tentativo di sopraffazione fra un elemento e l’altro. Come si inserisce questo aspetto nella tua ricerca?

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ella mia pratica cerco costantemente uno scontro tra materiali diversi. Mi interessa il “potenzialmente distruttivo”, porto il lavoro a muoversi sul crinale del cedimento.”

AS/ Secondo Eraclito il conflitto è il padre di tutte le cose e se ci pensi pervade la nostra vita in ogni sua forma: sociale, economica, politica, sentimentale. Nella mia pratica cerco costantemente uno scontro tra materiali diversi. Mi interessa il “potenzialmente distruttivo”, porto il lavoro a muoversi sul crinale del cedimento. È come innescare un conto alla rovescia dentro la scultura, è un tentativo di declinare l’inafferrabile fattore del tempo in termini di durata fisica. Che sia uno pneumatico compresso da tiranti in acciaio o una pietra posta sopra una lastra di vetro, cerco di innescare una costante tensione interna alla scultura. La possibilità di un cedimento improvviso credo sia un riferimento alla nostra precaria condizione esistenziale. 6


DS/ Le tue opere sono impostate su rapporti fisici fra materiali, ponendone in rilievo le reciprocità di azione e reazione. Si potrebbe affermare, quindi, che nel tuo lavoro scopi esclusivamente formali sono subordinati a questioni di contenuto? AS/ Dopo lo sconfinato bagaglio classico che abbiamo, dopo le rivoluzioni e le avanguardie del Novecento, per me continuare a lavorare ancora sulla forma è un vicolo chiuso. Costruisco macchine e congegni con l’intenzione di svelare un potenziale che è intrinseco nella natura di ogni materiale. È lo stesso metodo seguito in alcuni ambiti scientifici in cui si studia sempre più a fondo la composizione delle molecole, degli atomi, delle cellule. Sottopongo materiali diversi a processi che contemplano la pressione, l’accelerazione, la gravità, la velocità, il calore, l’attrito. Nel loro solido essere inanimato anche una pietra, una bottiglia di vetro, una trave di legno, una tanica di plastica o una lastra di acciaio custodiscono una loro specifica cifra, hanno un proprio tempo di reazione, un suono, a volte un profumo, conservano qualcosa di imprevedibile e possono essere portatori di metafore riconducibili all’uomo. DS/ Pur considerando l’autonomia della tua ricerca, ci sono linguaggi o artisti della storia, del passato o della contemporaneità verso cui ti senti affine? AS/ Ci sono decine e decine di artisti sparpagliati nella storia che amo, indubbiamente lavoro dentro ad una traccia storica italiana che passa attraverso il futurismo, l’informale, l’arte povera. Anselmo e Kounellis, tanto per fare un esempio, in modo diverso mi hanno influenzato molto ma ci sono artisti come Maurizio Cattelan o Jordan Wolfson, che usano un linguaggio diversissimo dal mio e che stimo altrettanto. Di certo non si può sfuggire dalle proprie

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radici e il confronto con quello che ti ha preceduto è fondamentale per cercare di costruire qualcosa di proprio. Ritengo, comunque, che a un certo punto un artista si debba smarcare da tutto, l’unico modo per provare a dire qualcosa che abbia un minimo di senso è quello di incamminarsi in un percorso il più possibile proprio. Bisogna uscire da ciò che è rassicurante, bisogna per forza sconfinare. DS/ Tenendo conto dell’alto grado di interdisciplinarità del tuo lavoro, capace di intersecare la fisica, la meccanica e la filosofia, dove ti sta conducendo la sperimentazione? AS/ Un tema che mi interessa moltissimo in questa fase è la velocità, ad esempio, la sto applicando, in declinazioni diverse, ad alcuni lavori. Nel tempo ho capito che avere delle intuizioni non basta, bisogna portarle all’estremo perché diventino credibili da un punto di vista estetico. È il motivo per cui cerco sempre nuove alleanze con aziende nei più svariati settori e collaboro con ingegneri e tecnici specializzati in un campo particolare. Sento che i progetti che si stanno concretizzando, nei prossimi anni saranno decisivi. Da sinistra: DAMNATIO MEMORIAE, 2016. ELISA, 2012. Per entrambe courtesy dell’artista.


INTERVIEWS

TEMPO, ERRORE, CASUALITÀ Giulio Bensasson

- Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Giulio, nella mostra LOSING CONTROL in corso sino alla fine di luglio alla Fondazione Pastificio Cerere di Roma analizzi, in maniera forte, il tema della “perdita del controllo” e di ciò che ne deriva. Me ne parli? Giulio Bensasson/ Più che di analisi parlerei di osservazione. Mi sono dovuto confrontare con due spazi completamente opposti: un locale sotterraneo, che porta sui muri i segni dell’abbandono e dello scorrere del tempo, e un white cube pulito e asettico. Il progetto espositivo, pensato con la curatrice Francesca Ceccherini, è un percorso fatto di contrapposizioni e illusioni nato appunto dall’osservazione del contesto di intervento. Ho deciso quindi di amplificare i contrasti propri di questi ambienti, cercando di ribaltare contesto e contenuto: nel sotterraneo spazio Molini ho eretto delle strutture che mitizzano (fino al grottesco) la pulizia e il controllo che esercitiamo sulle superfici del nostro quotidiano; mentre nel cubo bianco della Fondazione è esposto un lavoro che celebra la mancanza del controllo sull’opera d’arte. Ho immaginato l’atto del pulire e del detergere come rituale di eliminazione dell’errore, del pensiero disturbante, del memento mori. Un ridicolo tentativo di recuperare qualcosa che costantemente sfugge, o di riappropriarsi di ciò che non si è mai avuto. Mentre dall’altra parte volevo rendere evidente quanto lo scorrere del tempo, con i suoi rovinosi effetti sull’immagine, potesse essere anche creatore di bellezza. 8

LB/ Come sei riuscito a capire quali sarebbero stati gli strumenti giusti per realizzare e rendere fruibile globalmente un concetto così complesso, quasi ossimorico, in fondo se sleghiamo le due parole, “perdita” e “controllo” possono connotarsi l’una come l’opposto dell’altra. GB/ È un nodo molto intricato della nostra vita, e parlarne in termini assoluti sarebbe stato impossibile, ho tentato di focalizzare la ricerca su elementi concreti che potessero aiutarmi a palesare una serie di contraddizioni. Perdere il controllo è un’azione che può sembrare passiva: non riuscire a controllare o a trattenere e quindi uscire da una regola prestabilita. Parlare di perdita però implica un possesso, il che, in questo caso, risulta ai miei occhi molto comico: viviamo nell’illusione - più o meno consapevole - di poter controllare completamente il flusso di eventi e fenomeni in cui ci muoviamo, di avere il controllo, pertanto ci risulta difficile - se non impossibile accettare gli aspetti più incontrollabili e inevitabili del nostro esistere. In tal senso il dialogo con lo spazio si è rivelato fondamentale, un ambiente in cui il controllo non è più esercitato ha suggerito un intervento di controllo (ridicolmente ossessivo) da parte mia; d’altra parte le diapositive di Non so dove, non so quando, esposte al piano di sopra, suggeriscono un’intenzionale perdita di controllo, che capovolge la questione mostrandone altri aspetti. Nel complesso direi quindi che gli strumenti per formalizzare l’idea erano già in seno allo spazio e ai miei lavori precedenti.


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o immaginato l’atto del pulire e del detergere come rituale di eliminazione dell’errore, del pensiero disturbante, del memento mori. Un ridicolo tentativo di recuperare qualcosa che costantemente sfugge, o di riappropriarsi di ciò che non si è mai avuto.”

LB/ Tornando alla prima domanda, la perdita del controllo di sé - o di quello che ci circonda - credo sia una costante, ormai, della contemporaneità in cui il “lasciarsi andare” non sembra essere più giustificabile. A cosa può condurre, secondo te, la pressione che esercitiamo spesso su noi stessi? GB/ La struttura della nostra vita non ammette l’errore, che diventa quindi sinonimo di fallimento, e ci costringe in una costante e struggente condizione di desiderio della perfezione. L’errore - figlio della casualità e dell’imprevedibilità - è una testimonianza di perdita del controllo, ci ricorda continuamente la pochezza delle nostre capacità e delle griglie in cui inquadriamo il reale. Temere l’imperfezione credo porti alla costruzione di nuovi ostacoli entro cui confiniamo le nostre potenzialità. Bisognerebbe invece cominciare a concepire lo sbaglio, la “deviazione dalla norma”, la perdita di controllo come parte fondamentale della ricerca, perché ci avvicini alla consapevolezza dei nostri limiti, rendendoci in grado di superarli. LB/ In chiusura mi piacerebbe che tu mi raccontassi un po’ della ricerca che porti avanti, in particolare cosa puoi dirmi del lavoro Temo che mi sfugga qualcosa? Mi pare, in fondo, avvicinarsi molto al tema della mostra di Roma… GB/ Nel mio lavoro c’è spesso di fondo la decomposizione della materia, volontaria

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o casuale, ricercata o combattuta, che necessita ovviamente del tempo per rendersi evidente. Trovo che la decomposizione sia la forma di astrazione più pura, e quindi il mio gesto autoriale molte volte si deve limitare all’attesa - come nel caso di Non so dove, non so quando esposto in questa mostra - o tutt’al più nel porre l’immagine, l’oggetto o la materia nella condizione di esprimersi attraverso il suo disfacimento. In Temo che mi sfugga qualcosa ho posato dei fiori recisi su fogli di carta di cotone, li ho poi inseriti in delle buste per la conservazione dei cibi e messi sottovuoto. Nel tempo, il naturale processo di deperimento del fiore si manifesta sulla carta con i suoi fluidi colorati, lasciando come risultato finale dell’opera un sudario, macchia pittorica che testimonia un passaggio, perché è importante che rimanga qualcosa. Effettivamente i temi trattati in LOSING CONTROL ricorrono spesso in tutta la mia pratica, il problema del controllo sull’opera e sulla tecnica, o la sua negazione. Il memento mori - come pretesto per rendere evidente la nostra grottesca arroganza nei confronti della vita - il tempo, il caso e l’errore sono al centro della mostra come di tutto il mio lavoro. Da sinistra: Visori per diapositive utilizzati per NON SO DOVE, NON SO QUANDO. Foto © Carlo Romano. Courtesy Fondazione Pastificio Cerere. TEMO CHE MI SFUGGA QUALCOSA, 2017. Fiori e carta di cotone sottovuoto. Courtesy dell’artista.


INTERVIEWS

UNA FAVOLA SOSPESA Marco Bettio

- Carla Sollazzo

Carla Sollazzo/ Tre cicli pittorici: paesaggio, desiderio, animali. Come sono interconnessi tra loro? Marco Bettio/ I tre cicli pittorici sono espressione di una stessa necessità di comprendere qualcosa di me stesso attraverso la pratica del dipingere. Tre cicli coincidenti coi tre principali generi storici della pittura (Paesaggio, Ritratto e Natura Morta). Il Paesaggio è stato il primo soggetto che ho sentito appartenermi, privo di esseri umani nonostante mi sia sempre stata chiara la sensazione che qualcuno fosse appena andato via da lì lasciando qualche traccia. Un paesaggio, o più un frammento di paesaggio, apparentemente privo di una sua narrazione, ma per me luogo reale di quella grande bellezza che ha a che fare con lo spirituale, un’epifania che può manifestarsi in una roccia, una pianta, un albero, il ritmo dell’erba. Un paesaggio che non è mai un solo luogo particolare ma che contiene posti diversi, boschi, angoli che credo rappresentino quell’appartenenza che nella realtà non esiste in un luogo fisico, non avendo mai vissuto per più di quattro o cinque anni in uno stesso posto. Dipingere un paesaggio a volte penso sia un modo per mostrare a me stesso qualcosa che mi dica “ecco, vedi, sei stato qui, ricordi?”. Eppure questa pratica rappresenta anche la possibilità di realizzare ciò che realmente non c’è, né è mai stato. Quel qualcosa me lo dipingo io, andando a prenderne i pezzi dentro e attorno a me. 10

Desiderio invece è un ciclo pittorico piuttosto corposo (comprende ad oggi settanta tele) che può essere assimilato all’idea di Natura Morta. Un ciclo che continuo a pensare come a qualcosa di vicino alla preghiera o alla meditazione. Nato in un momento particolare della mia vita, prima di diventare qualcosa di pittoricamente “mio”, è stato una sorta di rito domenicale torinese tra me e la mia compagna, pittrice pure lei (Sarah Ledda). Un bisogno di riprendere in mano il nostro tempo, diversificandone momenti, valori e importanza attraverso una cosa apparentemente sciocca come i pasticcini della domenica, nel nostro caso scelti, comprati, dipinti e poi mangiati. Dipingere una di queste tele significa restituire, attraverso una testimonianza pittorica, l’esistenza di quel pasticcino e di quel momento. Vuol dire per me rimanere in contatto con qualcosa di attinente al desiderare, cercando di fare il vuoto attorno, un unico momento di pittura, un’unica sessione, una sorta di piano sequenza che deve mantenere quella concentrata tranquillità e tensione. Infine, e non per ultimo, c’è il ciclo legato agli animali, il Ritratto. Una parte del lavoro che nasce come una riflessione sull’uomo come individuo, ma soprattutto come elemento sociale. Ognuno di questi tre cicli concorre a formare la mia idea di pittura, che sento debba necessariamente rinunciare a una scelta stilistica esclusiva, per poter così rimanere fedele alla poetica e alla nostra complessità, talvolta contraddittoria, caratteristica imprescindibile dell’uomo.


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enso che una certa serenità non possa che venire dalla perdita di qualcuna delle sovrastrutture che ormai sono diventate una seconda pelle, tanto nelle relazioni quanto nella costruzione della nostra identità.”

CS/ Perché scegli di rappresentare il tema della “casa”- inteso come “pace interiore” da poter condividere - attraverso coppie di animali? MB/ Il soggetto principale delle coppie di animali è la relazione. In queste tele il concetto di cura, il prendersi cura, con l’idea quasi francescana di umanità, di servizio, nasce dal contesto sociale nel quale sono nate e, come spesso accade in pittura, il senso arriva dopo, e su quello evolve un progetto e la serie di lavori successivi. Guardando in particolare una di queste tele (Una piccola cosa politica) nell’estate del 2019, con i porti chiusi e le persone rinchiuse in una nave sequestrata, il precedente senso di quei giochi, a volte naturali e altre indotti a forza nel circo, ha come acquisito un significato altro, quasi che per mostrare all’uomo cosa questo possa o debba essere, il “fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”, l’uomo non sia sufficiente e diventi necessario l’animale per generare quello stupore essenziale. Non so se si tratti di una pace interiore, ma penso che una certa serenità non possa che venire dalla perdita di qualcuna delle sovrastrutture che ormai sono diventate una seconda pelle, tanto nelle relazioni quanto nella costruzione della nostra identità. CS/ Da dove arriva, e dove vuole arrivare, la “scimmia umana”? MB/ Nel caso dei ritratti di scimmie e dell’antropizzazione dell’animale penso che vi siano due elementi importanti da considerare. Il primo concerne lo sguardo, sia il mio, che li

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dipingo, che quello di chi osserva. Le posture di alcuni di questi soggetti rimandano per me all’idea tutta umana di preghiera, altre volte è il mondo del circo a volere che queste bestie “scimmiottino” l’uomo facendogli compiere azioni tutte “umane” come reggere un ombrellino o andare in bicicletta. Il nostro sguardo, la nostra sensibilità, ritengo generino significati e senso in queste immagini. Il secondo elemento riguarda quella sorta di transfert che proviamo nel guardare noi attraverso il nostro sguardo su di lui; quello che arriva forse dice più cose su di noi che sul soggetto dipinto. L’origine di questi lavori sulla scimmia viene da una mia difficoltà nel dipingere l’essere umano, una sorta di blocco che fa sì che ogni mio quadro possa anche considerarsi come un modo per dipingere l’uomo, senza che la sua apparenza si palesi. Gli animali, e le scimmie nello specifico (macachi e scimpanzé), offrono infine una serie di elementi che amo molto dipingere: la liquidità dello sguardo, la vaporosità del pelo, la solidità ruvida e delicata di muso e dita. Talvolta, infine, alcuni accessori che rappresentano, umanamente, una forzatura odiosa, permettono alla tela di ospitare colori e tinte preziose che ricordano, in fondo, che continuiamo a dipingere per rendere il mondo più bello, sollevando qualche domanda. Da sinistra: DESIDERIO #39 GARANTIRE UNO SPAZIO ALLA STUPIDITÀ, 2018. Olio su lino, 15x18 cm. Collezione privata, Palermo. NON FARTI MALAGRAZIA, 2020. Olio su lino, 20x30 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.


SPECIAL

LE FORME DELLA DIPLOMAZIA CULTURALE

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’arte e il patrimonio culturale quali strumenti utilizzati - pare ormai in maniera consolidata - per migliorare i rapporti anche nell’ambito della politica estera fra gli Stati del mondo, connotati spesso da equilibri precari e da toni da pacificare. Si parla dunque di diplomazia culturale, a dimostrazione che l’arte possiede, in realtà, la capacità di accorciare le distanze - culturali, sociali, religiose - e appianare i conflitti, muovendosi su un piano di comprensione reciproca.

BRUNO BOLFO

Bruno Bolfo è Fondatore di Particle. Un ritratto di Bruno Bolfo. Courtesy Bruno Bolfo.

Loredana Barillaro

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oi di Particle abbiamo fatto della costruzione di relazioni attraverso il potere della condivisione di esperienze culturali il nostro credo, siamo convinti che l’arte abbia un forte potere di aggregazione e che, puntando sull’emozione data dall’appagamento estetico o sensoriale, così come sull’apprendimento e la crescita, possa portare ad aprire spiragli di dialogo anche laddove sembra non poter esistere un terreno comune. I linguaggi artistici infatti, riescono a raggiungere un pubblico molto ampio e vario, con interessi, conoscenze, età e provenienze geografiche diverse, perché giocano su valori universali, al di là delle tendenze e delle contingenze. La caratteristica principale che spesso accomuna le persone con cui ci confrontiamo non è solo una forte propensione alla curiosità, ma anche la voglia di capire e quindi una predisposizione a lasciarsi guidare per imparare, crescere, soprattutto se si proviene da una formazione tecnica o scientifica e non si è abituati ad approcciare “con poesia” la realtà di tutti i giorni. La condivisione di esperienze estetiche ha il potere di parlare alle persone, creare situazioni di riconoscimento reciproco mettendo mondi diversi in relazione nel momento stesso in cui viene trasferito un messaggio, agendo da catalizzatore sociale e da “collante”, eliminando all’istante ogni differenza. Proprio su queste fondamenta abbiamo sviluppato il nostro modello di business, che offre ad aziende, istituzioni, enti la possibilità di costruire percorsi esperienziali unici per avvicinare clienti, pubblici o trasferire valori, pur se in dialogo con comunità che non sono caratterizzate da un diretto interesse. “Fragilità”, la prima nostra esperienza phygital è stata sviluppata intorno a un tema conosciuto a tutti, la fragilità appunto, con l’obiettivo di enfatizzarne la connotazione positiva. Il progetto è supportato dall’Ambasciata Italiana a Kuala Lumpur che riconosce l’importanza della promozione dell’arte e della cultura come mezzo per affermare i valori su cui si basa la nostra identità, ma anche come terreno in cui riconoscersi e quindi rafforzare la relazione tra i due paesi. Partendo dalla sfera artistica abbiamo coinvolto altre tre comunità: quella accademico-scientifica con Culturit Bocconi, Sunway University, UniKL e lo psicologo Luca Argenton; quella economica con Venini e Royal Selangor, e quella governativa, con la partecipazione dell’Ambasciatore Maggipinto e l’Ambasciatore Castelino. Tutte le sfere hanno partecipato attivamente all’esperienza, creando momenti di discussione e confronto. A partire da un tema comune, ma declinato secondo l’esperienza personale di ciascuno, con il proprio background culturale è nato uno scambio molto florido che ha permesso alle varie parti di mettersi in gioco, ma soprattutto di farsi conoscere creando un ponte tra Italia e Malesia. Quando si parla di arte contemporanea - che è il nostro principale terreno d’azione - molto spesso ci si trova a combattere il preconcetto che la definisce come elitaria, distante e non facilmente accessibile nel suo contenuto e contesto. Per questo motivo riteniamo sia importante contestualizzare, offrire chiavi di lettura che con percorsi diversi riescano a condurre verso la comprensione e un’esperienza positiva che noi tendiamo a rendere unica e immersiva. Per fare questo abbiamo introdotto l’utilizzo di strumenti digitali all’avanguardia per amplificare e completare l’esperienza fisica, accorciando le distanze tra Italia e Malesia, così come tra imprenditoria e studenti, oppure tra politica e azienda. Coinvolgere i visitatori e l’opinione pubblica, farli sentire parte attiva e non semplice spettatori è, ora più che mai, necessario. In “Fragilità” le persone, dal semplice visitatore italiano o malese, sino ai diretti stakeholders del progetto, avevano la possibilità di diventare protagoniste, scambiare opinioni e relazionarsi tra di loro o con esponenti provenienti dalle quattro comunità coinvolte. L’arte deve portare a un arricchimento intellettuale, accrescere la capacità empatica delle persone e la condivisione: questi valori positivi costituiscono l’humus fondamentale su cui poter costruire relazioni di successo. Si tratta soltanto di trovare un punto di equilibrio, un lavoro delicato di bilanciamento che, nello stesso tempo può essere efficace come forma di diplomazia in grado di porre in relazione mondi distanti. Bruno Bolfo 12


SPECIAL

GAETANO CASTELLINI CURIEL

L

a diplomazia culturale, descritta come “lo scambio di idee, informazione, arte e altre manifestazioni culturali tra le nazioni e le loro popolazioni, ai fini di accrescerne la comprensione reciproca”1, può essere considerata come una vera e propria modalità per fare politica estera, capace di combinare ars politica e patrimonio culturale. L’essenza stessa di questa forma di diplomazia è connessa, però, al concetto più ampio di soft power, termine definito da Joseph Nye come l’abilità di “far sì che gli altri modifichino il proprio comportamento nella direzione da noi voluta, come risultato della nostra capacità di attrazione”2. Il soft power si configura quindi come un “potere morbido”, una sorta di egemonia gentile e carismatica, la cui efficacia è basata sulla capacità di attirare e influenzare gli altri attraverso strumenti di varia natura, quali la cultura, i valori morali e le idee. La capacità di utilizzare la cultura a livello diplomatico, come strumento di influenza e comunicazione politica, non è mai stata così importante come al giorno d’oggi: le rivoluzioni che caratterizzano il contesto contemporaneo, da quella economica a quella tecnologica, hanno portato a un ribaltamento delle modalità di interazione tra popoli e nazioni, e ad una crescente interconnessione tra cittadini a livello globale. Oggi, la diplomazia gioca un ruolo fondamentale, anche e soprattutto sul piano culturale, dal momento che la cultura è forse l’unico strumento che ci permette di rapportarci e dialogare con l’altro, inteso come diverso e lontano da noi, grazie ai caratteri di universalità che caratterizzano i linguaggi artistici e l’esperienza umana. L’arte, in particolare, rappresenta uno dei principali mezzi in grado di ridefinire conflitti e distanze culturali, agendo come catalizzatore di un processo di reciproca comprensione. Numerosissimi sono gli esempi, rintracciabili nella storia antica come in quella contemporanea, di casi in cui l’arte è stata utilizzata efficacemente come filo conduttore di trattative politiche o economiche: dal programma di ellenizzazione, avviato nell’Antica Grecia dopo la morte di Alessandro il Macedone, che prevedeva l’esportazione della lingua, delle idee e dei simboli propri della cultura greca verso le terre a Oriente, agli Stati Uniti, che durante la Guerra Fredda hanno promosso il jazz e l’Espressionismo astratto, simboli di individualismo e democrazia, in contrapposizione alla rigidità del realismo di stampo socialista, fino alla storia più recente dell’India che, in coda per la posizione di seconda economia globale, utilizza strumenti di soft power per affermare il proprio ruolo, politico ed economico sulla scena globale, primi fra tutti lo yoga, Bollywood, le spezie e la medicina ayurvedica. In particolare, nell’epoca attuale, i campi di applicazione della diplomazia culturale possono essere svariati e diversi: si sente, infatti, spesso parlare di sport diplomacy (USA e National Basketball Association, Cina e ping-pong diplomacy), gastro-diplomacy (India e spezie, Giappone e sushi), panda diplomacy (Cina), yoga diplomacy (India), museum diplomacy (Guggenheim Museum, Louvre Museum), che altro non sono se non declinazioni “settoriali” di una strategia diplomatica centrata sulla valorizzazione delle arti e della cultura e riconducibile a meccanismi di soft power. Se tali strategie possono rivelarsi molto efficaci in quanto contribuiscono, in maniera significativa, al dialogo interculturale e alla distensione dei rapporti internazionali, rappresentano tuttavia strategie complesse, per loro stessa natura, che necessitano di policy-maker colti, abili e attenti, capaci di decifrare e interpretare le complessità sociali, economiche e culturali, tutelando l’interesse della nazione in un contesto di equilibrio politico spesso fragile e incerto. Inoltre, l’attuazione di strategie di soft power dovrebbe essere svolta in maniera da rispettare le culture con cui si vuole dialogare e le stesse istanze politiche comunicate, in quanto espressione di valori condivisi e partecipati a livello pubblico. Gaetano Castellini Curiel

1 M.C. Cummings, Cultural Diplomacy and the United States Government: A Survey, in Cultural Diplomacy Research Series, 2009. 2 J.S. Nye, Soft Power and Cultural Diplomacy (article adapted from a speech delivered at Syracuse University Cultural Diplomacy Symposium, Sept. 20, 2009), Cultural Diplomacy, New York 2006.

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E

bbene, quanto può essere utile l’arte, quale filo conduttore di trattative politiche, economiche e non solo? Quali possono essere i campi di “attuazione” di simili strategie diplomatiche? In cui peraltro l’opinione pubblica occupa necessariamente un ruolo fondamentale e non più in discussione. Di contro, quanto può risultare complesso, ancora oggi, mettere in atto un potere gentile?

Gaetano Castellini Curiel è autore del volume Soft power e l’arte della diplomazia culturale, Le Lettere, 2021. Un ritratto di Gaetano Castellini Curiel. Courtesy Gaetano Castellini Curiel.


LE CARTOGRAFIE DEL TALENTO Giulio Verago

“N

el mio lavoro non esiste un protocollo né una linea guida buona per tutti. Esiste sicuramente qualcosa di simile a una deontologia ma il suo codice non è scolpito nella pietra, soprattutto in Italia.”

S

e avessi quel tipo di talento senza dubbio trasformerei la mia esperienza nel mondo dell’arte in una sceneggiatura. Scrivere per la macchina da presa è un’esperienza vicina alla mitopoiesi e sono convinto che l’immagine in movimento rimanga nonostante tutto tra i rimedi migliori per fare mondi. Non ho ancora capito se nel mio caso si tratterebbe di una brillante commedia degli equivoci, di una mini serie con antieroi spigolosi dallo scomodo passato, di una sit-com queer rassicurante dal vago retrogusto nonsense, del corto in bianco e nero di un mimo, di un lungo

piano sequenza di una festa o di un film di denuncia pensato per il circuito dei festival. So di essere in buona compagnia quando dico di aver assistito e interpretato scene diversissime, da Woody Allen ai Vanzina, da Pedro Almodóvar a Ken Loach, da Tarantino a Kiarostami, da Jarman a Muccino. Il passo dal sublime al grottesco - in questo mondo che chiamiamo lavoro è in fondo breve. Sono il Curatore di un programma di residenza artistica e come tale il mio spettro d’azione è diverso e in fondo complementare al curatore di mostre in senso stretto o al curatore di un museo. Ai progetti preferisco i processi, ai risultati preferisco le ricerche, alle risposte preferisco le domande, alle inaugurazioni preferisco di gran lunga le studio visit. Questione di punti di vista, di attitudini, di affinità elettive. Nel mio lavoro non esiste un protocollo né una linea guida buona per tutti. Esiste sicuramente qualcosa di simile a una deontologia ma il suo codice non è scolpito nella pietra, soprattutto in Italia. Esistono tante convenzioni e per ognuna le relative eccezioni, un sistema nato per generare e affinare significati finisce spesso per essere vittima della logica del rituale, del capro espiatorio e persino del pettegolezzo. Allontanandomi per un momento dal qui e ora della scena mi piace pensare alla carriera di un artista come a una cartografia fluviale. Mi piace pensare idealmente alla Scena indipendente e persino all’Accademia e come alla falda che non a caso è il bacino madre, è fatto generalmente di rocce con gradi diversi di permeabilità per permettere il libero fluire di tanti piccoli rivoli che imbevono il terreno. È infrastruttura del bene comune, filtra con lentezza le impurità del terreno, è parte di una ecologia dalla quale dipendiamo, ci vuole molto tempo perché si formi e la sua contaminazione è molto pericolosa, una minaccia per la vita stessa. Il talento esce dalla falda in modo più o meno spontaneo, la fonte può essere infatti sotterranea e non visibile a occhio nudo, può percorrere i primi tratti sotto superficie. Il talento può formarsi anche a prescindere dalla falda, in un altrove indefinito come un ghiacciaio che si scioglie. Ci sono carriere dalla natura torrentizia, il loro alveo inizialmente è limitato, come la loro portata. Basta un fortunale per fare di un torrente un fiume in piena in grado si tracimare rovinosamente. Come quei talenti raccolti troppo presto, quando ancora non hanno sviluppato un vocabolario. C’è chi fiuta l’affare e decide di ridurre la complessità a un certo numero di formati, imbottigliati sul posto per garantirsi un ritorno immediato. Altri talenti crescono guidati dalla 14

PEOPLE ART

gravità, se sono fortunati incontrano altri affluenti che ne aumentano la portata, scavano il loro alveo assecondando come possono il tipo di roccia dove si trovano. Deviano, curvano, non seguono mai la strada più breve. Talvolta si riducono per poi ampliarsi di nuovo. Alcuni fiumi diventano nel tempo importantissimi, capaci di dare nome e leggende ai Paesi dove scorrono. Qualche Grande Maestro del passato ci sembra come il fiume di un Canyon, ti ispira e stupisce anche se non l’hai visto di persona. I fiumi sono autenticamente spettacolari quando incontrano un salto di paradigma e allora sono capaci di una cascata, che ti fermi a osservare e consigli agli amici di andarla a visitare, perché vale la pena della camminata su per i monti. Alcune cascate sono più spettacolari di altre e vengono sfruttate turisticamente, per altre si opta per uno sfruttamento industriale, costruendoci una centrale elettrica e allora una meraviglia diventa anche una fonte di guadagno. I laghi mi sembrano i nodi in cui gli immissari convergono, si mescolano un po’, stazionano prima di riprendere il corso in altra forma, inevitabilmente cambiati. I laghi sono piccoli, sono grandi, non importa. Alcuni sono più simili agli stagni, altri vengono chiamati piccoli mari. Sono luoghi di passaggio, ricchi di vita, che visti da una prospettiva di ere geologiche hanno natura magari effimera ma essenziale, servono a bere con le loro acque dolci ma anche a irrigare e tanti ci pescano pesci da cucinarsi poi a casa. In tanti sfruttano le acque dei fiumi per i motivi più disparati, alcuni nobili altri meno. Alcuni fiumi vengono pure deviati, creando canali artificiali privi di poesia. Eppure la carta fluviale prosegue, attraversa tutti i territori che non sono ancora deserti. Talvolta attraversano la tua città e nemmeno te ne accorgi. Tutti i fiumi hanno poi una fine che dipende da tanti fattori incluso il caso e il caos, e in fondo poco importa se è un delta rigoglioso, un estuario diretto e una laguna melmosa, perché si finisce comunque sempre al mare. Giulio Verago è Curatore del programma di residenze artistiche di Viafarini a Milano. A destra: Nabuurs & Van Doorn, cutout, portrait of curator, 2019. Courtesy Giulio Verago.


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DESIGN.ER

IL MIO RACCONTO DELLA MATERIA Duccio Maria Gambi

- Loredana Barillaro Loredana Barillaro/ Duccio, che “tipo” di design realizzi? Quali sono i materiali che prediligi? Duccio Maria Gambi/ Lavoro in un campo ibrido del design. Più sperimentale e più legato al fatto a mano, anzi fondato sul fatto a mano e sulla sperimentazione della materia, la funzione, l’idea stessa di oggetto funzionale. Si può chiamare collectible design ma credo che sia limitativo e riduttivo rispetto alle potenzialità di una disciplina affrontata con questi presupposti. LB/ Che margine di libertà lasci alla materia? Al contrario quanto essa viene agita dal progetto? DMG/ Quando lavoro concentrandomi sulla materia è lei stessa che guida il percorso di ricerca. Spesso il risultato, nelle mie intenzioni, vuole essere proprio un racconto del processo e della materia. Mi piace pensare che la forma sia una cristallizzazione di un’idea sulla materia e non invece la materia un mezzo per ottenere una forma. Normalmente approccio un materiale cercando di capirlo nella sua essenza, cercando di spogliarlo della sovrastruttura artificiale delle sue forme finite per fargli prendere strade e percorsi differenti. Più lavoro più mi accorgo che spesso concepiamo un materiale non per quello che è ma per la forma in cui ci è dato normalmente per tradizione e abitudine. Viviamo in un mondo disegnato, e quindi facciamo nostro il disegno della materia, più che la materia stessa. Questo forse anche a causa della sempre maggiore distanza tra i luoghi di produzione e trasformazione della materia e quelli di utilizzo. E questo inevitabilmente ci allontana dagli oggetti e dall’ecosistema. LB/ Qual è il contesto a cui il tuo lavoro fa maggiormente riferimento? DMG/ Traggo ispirazione dall’attrazione, dai moti istintivi emozionali verso un’appropriazione, attraverso il mio lavoro, di ciò che mi fa vibrare. Credo di trovare l’inizio del mio processo nei Radicali Italiani degli anni ’60 e ’70, nell’Arte Povera, nella ricerca portata avanti dal design olandese di inizio 21esimo secolo. LB/ C’è un progetto a cui sei particolarmente legato? DMG/ Sono legato a molti, che in qualche modo hanno segnato vari momenti della mia crescita. Se dovessi sceglierne uno forse ti direi la serie Sedimento. Fu la prima commissione importante (per Gherardo Felloni, attualmente Direttore Creativo di Roger Vivier) e il primo lavoro in cui sono riuscito a progettare seguendo i principi che mi interessava approcciare. Oggetti con una funzione liminale, che chiamano a sé altri oggetti invece che esserne determinati, dove si legge un processo produttivo, dove ho avuto un piacere massimo a livello di creazione del cassero e della sorpresa nell’aprirlo. Duccio Maria Gambi è Designer. Il suo Atelier ha sede a Firenze. Dall’alto: Dalla serie SEDIMENTO, per Gherardo Felloni. Un ritratto di Duccio Maria Gambi. Foto © Maddalena Fontana. Per entrambe courtesy Duccio Maria Gambi.

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GALLERY.ST

IL MIO LAVORO COME STILE DI VITA Giulia Biafore

- Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Giulia, la Galleria Studio G7, di cui sei Direttrice, è una realtà storica del panorama bolognese. Come riesci a conciliare, nel tuo lavoro, tradizione e ricerca? Giulia Biafore/ La Galleria Studio G7 è una realtà storica del panorama bolognese che ha legato la sua attività fin da subito alla ricerca e alla sperimentazione. Per questo credo di avere oggi una responsabilità che è anche una grande opportunità. La storia della galleria mi permette di lavorare con artisti storicizzati che continuano a fare ricerca e, allo stesso tempo, di proporre nuove personalità artistiche seguendo la linea concettuale che ho intrapreso. LB/ Quale vuole essere il tuo apporto al panorama artistico della città? GB/ Sono molto attenta alla città e vorrei che la città lo fosse nei confronti dell’offerta culturale contemporanea locale; credo sia fondamentale rafforzare le sinergie tra realtà pubbliche e private, perseguendo un obiettivo già avviato dal MAMbo e da Arte Fiera, i cui direttori sono sempre molto presenti e attenti a tutto ciò che si propone. LB/ Cos’è che connota il tuo lavoro di gallerista? GB/ Chiamarlo lavoro è riduttivo, forse è più uno stile di vita; l’attività offre stimoli diversi e mi piace pensarli come un humus, un insieme di fattori che definiscono un approccio e un percorso che devono avere un equilibrio. Sono molto attenta ai cambiamenti sociali e culturali e sono pronta a mettermi in gioco, a trovare nuove strategie. Lavoro a stretto contatto con gli artisti e con loro cerco di costruire un progetto che parta dalla galleria e apra a nuove opportunità. Mi affido sempre ad un curatore con il quale stringo spesso un rapporto di lungo termine; credo che all’interno del nostro sistema sia una figura fondamentale per la proposta contemporanea. Sono sempre aperta alle collaborazioni anche tra realtà diverse; attività che vadano a unire realtà differenti rappresentano opportunità per educare all’arte. LB/ Bologna è la città di una delle più importanti fiere italiane e non solo, in tal senso che rapporto hai con il mercato e che rapporto realizzi con le fiere d’arte? GB/ Le fiere sono state importanti e a mio avviso torneranno ad esserlo; il mercato risponde in galleria, ma sicuramente la fiera genera un’opportunità maggiore di contatti e nuove conoscenze. È importante sottolineare come la fiera funzioni e può funzionare solo in presenza; l’empatia e il rapporto con l’opera, sia il fine commerciale o di piacere, si può generare solo a diretto contatto con il lavoro. Altra cosa importante è conoscere il mercato, ma non farsi condurre dal mercato. La fiera è un contenitore commerciale sempre più culturale; se penso ad Arte Fiera, la scelta di limitare il numero degli artisti e coinvolgere realtà del territorio per mostre collettive all’interno dei padiglioni ha portato ad una proposta curatoriale interessante anche per noi operatori stessi. Credo molto in questo binomio, ed è lo stesso che sto portando avanti in galleria: un perché comune di concetto, che ambisca a farsi riconoscere in una identità chiara e in divenire. Giulia Biafore è Direttrice della Galleria Studio G7 di Bologna. Dall’alto: Un ritratto di Giulia Biafore. Courtesy Giulia Biafore. Letizia Cariello, FUSO ORARIO, exhibition view. Foto © Alessandro Fiamingo. Courtesy dell’artista e Galleria Studio G7.

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SMALL TALK

LO STUDIO DELL’INVISIBILE Vale Palmi

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’è chi studia l’immateriale attraverso la scienza, chi affidandosi alle religioni, chi praticando l’esoterismo, l’Arte può racchiudere tutti questi percorsi e mille altri.”

Maria Chiara Wang/ L’Aldilà è un Angolo stretto, questo il titolo della tesi con cui hai concluso da pochi mesi il tuo percorso all’Accademia di Belle di Arti di Bologna, tesi nella quale approfondisci i temi principali della tua ricerca: Morte, Vita e Aldilà. Nella tua pratica artistica come li sviluppi? Quali sono i media che prediligi? Vale Palmi/ L’Arte è solo il medium che impiego per indagare l’Aldilà, quindi si potrebbe dire che l’Arte stessa sia il mezzo che prediligo, perché è indubbiamente il migliore per studiare l’invisibile. C’è chi studia l’immateriale attraverso la scienza, chi affidandosi alle religioni, chi praticando l’esoterismo, l’Arte può racchiudere tutti questi percorsi e mille

- Maria Chiara Wang

altri, per questo si può dire che sia lo strumento più completo. Ecco perché uso indistintamente fotografia, performance, installazione e video; un ruolo particolare, però, lo ricopre il disegno, in quanto è l’unico che può rendere visibile l’invisibile senza artifici, senza filtri, in maniera diretta e veloce connettendo l’inconscio direttamente alla mano che impugna la matita. MCW/ Tra la fine del 2020 e gli inizi del 2021 sei stata ospite della residenza promossa da Capital Project nel borgo di Colle Ameno (BO), un’iniziativa a cura di Marcello Tedesco, Silla Guerrini e Francesco di Tillo, che valore aggiunge questo tipo di esperienza al percorso di un’artista? VP/ Colle Ameno è un Luogo con una grande carica energetica. Lì ho lavorato soprattutto sul disegno, proprio perché il mio segno è una questione di Energia e sapevo che quel posto avrebbe aiutato la mia mano. Inoltre ho esplorato le valenze di Luce e Buio: verso la fine del periodo di residenza ho avuto un’illuminazione che riguarda il soggetto della Tenebra, grazie ad un’installazione con secchi di ferro zincato, l’uno oscuro l’altro luminoso, che ho concepito in un Angolo dello studio. Purtroppo è successo tardi per poterci lavorare in loco, e il progetto sta prendendo forma ora, a posteriori, 18

ma probabilmente sarebbe potuto essere concepito solo in un luogo simile. MCW/ Negli ultimi mesi hai preso parte al laboratorio teorico e pratico “Fare Arte Contemporanea” a cura di Estuario Project Space, promosso dall’Associazione Luigi Pecci di Prato, in che cosa si concretizzerà questo ulteriore capitolo della tua formazione? VP/ La mostra con Estuario inaugurerà tra poco. Come sai lo spazio di Officina Giovani (dove ha sede Estuario) nasce in un macello che ha smesso di svolgere la sua funzione egoistica e antropocentrica e sta provando a riscattarsi attraverso l’Arte. Arte e Morte sono strettamente connesse, camminano insieme, è per questo che, in uno spazio del genere, ho capito che devo fare qualcosa per i Morti e le loro energie, invece che per i Vivi, i fruitori della mostra. Costruirò un piccolo memoriale, la cui peculiarità è che non sarà un semplice monumento per ricordarli e onorarli, sarà anche questo, ma soprattutto sarà attivo, nel senso che avrà una vera e propria funzione, sarà a disposizione dei Morti, che potranno usufruirne. CADUTA DEI DOGMI (NESSUN MOTIVO DI CREDERE CHE IL PARADISO SIA IN CIELO E CHE SIA PIENO DI LUCE), 2021. Installazione di 4 stampe fotografiche in cornice di legno, 30x45 cm cad. Courtesy dell’artista.


Foto tratta dall’operazione artistica di Giacomo Zaganelli, TATTILMENTE, svoltasi presso il MARCA Open

MUSEI [e] PUBBLICI verso una rivoluzione inclusiva dei musei come spazi relazionali

Un progetto a cura di DI.CO. SERVIZI MUSEALI

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er poter affermare che le istituzioni museali abbiano attuato a pieno il cambiamento sociale che si richiede loro per essere considerate accessibili e inclusive, abbiamo ancora bisogno di tempo. Soprattutto bisogna comprendere che oltre a pretendere adeguamenti strutturali necessari, ormai introiettati, come rampe, ascensori e via dicendo, sia necessaria prima di tutto una rivoluzione di tipo culturale, che metta al primo posto non il museo e la sua collezione, ma il suo pubblico eterogeneo e i numerosi servizi e supporti di cui esso può necessitare per accedere liberamente alla fruizione. Una strada già percorsa all’estero, che fatica ancora a compiersi completamente nel nostro paese. In questo contesto, e per poter innescare questo tipo di mutamento, si colloca il progetto “DI. CO. Educazione”, cofinanziato dalla Regione Calabria (annualità 2019) appena concluso, per provare a invertire quel punto di vista museo-centrico che le istituzioni faticano a scrollarsi di dosso e che nella società contemporanea, sempre più attenta alle tematiche sociali, non ha più ragione di esistere. Un piccolo tassello, dunque, è stato posizionato nel panorama museale della città di Catanzaro, una piccola rivoluzione per il MUSMI, il MARCA e il MARCA Open, istituzioni museali per le quali l’associazione opera da diverso tempo e per cui ha disegnato l’intero programma di servizi educativi pensati per essere adatti ad ogni tipo di pubblico, con una particolare attenzione a quelle fasce di utenza per le quali la fruizione dei luoghi della cultura, per essere pienamente autonoma, necessiterebbe di appositi servizi. Alle visite e ai laboratori, condotti dalle operatrici museali Luigia Bruno e Rossella Talotta hanno partecipato l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti di Catanzaro, l’E.N.S. Ente Nazionale Sordi, Sezione provinciale di Catanzaro, SIPROIMI, il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati, gestito dalla Fondazione Città Solidale ONLUS SAI di Satriano, nonché alcuni Istituti Scolastici del territorio. Si sono svolti due talk in modalità webinar a cura della storica dell’arte Federica Longo incentrati sul ruolo e l’importanza dell’educazione museale e dell’accessibilità alla cultura. I relatori, Marco Peri, del primo webinar, Roberta Pedrini, Eleonora Tardia e Barbara Rizzo

del secondo, hanno trattato tematiche che emergono oggi con sempre maggiore urgenza, come l’accessibilità, l’inclusione, la partecipazione, la tutela attiva e la responsabilità sociale per una conoscenza più aperta ed estesa del patrimonio naturalistico e culturale. Ha aderito al progetto anche Giacomo Zaganelli, invitato a coinvolgere le comunità locali secondo pratiche relazionali e partecipative. L’artista ha coinvolto nel mese di maggio le sculture presenti nel Parco attraverso l’esperienza tattile vissuta da un gruppo di non vedenti/ipovedenti dell’UICI Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti di Catanzaro, guidati dalla curatrice Silvia Pujia. Gli utenti hanno descritto a parole, in tempo reale, l’idea/immagine mentale che ha in loro suscitato il processo conoscitivo attivato. L’esperienza di interazione è stata video-documentata in modalità presa diretta e i racconti registrati con apposita strumentazione audio alla presenza dell’artista che, da remoto, ha potuto interagire con gli utenti. I racconti sono diventati poi, in un secondo momento, l’oggetto dell’intervento dell’artista che li ha resi fruibili alla collettività in due maniere differenti: un libro d’artista, realizzato in Braille e la condivisione delle registrazioni audio in una mostra virtuale sul sito del MARCA. Il 26 giugno scorso si è svolta la serata conclusiva del progetto “DI.CO. Educazione” con l’inaugurazione del nuovo percorso accessibile del MARCA per il quale è stato progettato l’inserimento, nella collezione permanente, di appositi Qr Code e di due copie in ceramica di due sculture di Francesco Jerace, il busto in marmo Donna spagnola e il gesso Bambino scozzese con cane, realizzate dall’artista Antonio Pujia Veneziano, che serviranno a coadiuvare la fruizione tattile di vedenti e ipovedenti dotate inoltre di didascalie in Braille. Contestualmente si è tenuto un talk tra Silvia Pujia e Giorgio de Finis, già Direttore del MACRO e ora del Museo delle Periferie di Roma, durante il quale si è parlato di musei inclusivi in senso esteso e musei come spazi relazionali. Nel corso della serata è stato proiettato in anteprima il film che racconta l’esperienza di de Finis come direttore del MACRO Asilo. La documentazione dell’intero progetto, gli atti dei talk, il lavoro dell’artista e il contributo di de Finis verranno poi raccolti in una piccola collana composta da quattro pubblicazioni, edita da Magonza Editore.


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