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GENNAIO FEBBRAIO MARZO 2023 Poste Italiane S.p.A. –Spedizione in abbonamento postale 70% Cosenza Aut S/CS/19/2016/C ISSN 2283-9771 Magazine di arte contemporanea / Anno XII N. 45 / Trimestrale free press SMALL ZINE

SOMMARIO

TALENT TALENT

3 REALTÀ E FANTASIA SI TENDONO LA MANO

Dante Cannatella

- Elisabetta Roncati

INTERVIEWS

4 DAL FILO AL MONDO

Giulia Nelli

- Sabino Maria Frassà

6 DI STORIE E ALTRI REBUS

Agnese Guido

- Gregorio Raspa

8 VERSO UN LOGOS DELLA PERCEZIONE

Mariangela Levita

- Davide Silvioli

SPECIAL

10 BLACK HISTORY MONTH.

PER UNA STORIA DEGLI AFRODISCENDENTI con Justin Randolph Thompson

- Loredana Barillaro

PEOPLE ART

12 LA CURATELA COME PROGETTO PER LA REALTÀ

Lucrezia Calabrò Visconti DESIGN.ER 14 IL TUTTO SI TRASFORMA Angelo Minisci

- Loredana Barillaro

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Magazine di arte contemporanea

Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro

l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it

Editore BOX ART & CO. Redazione

Via Giuseppe De Nittis 8* 50142 Firenze *in attesa di cambio sede

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Hanno collaborato: Sabino Maria Frassà, Gregorio Raspa, Elisabetta Roncati, Davide Silvioli, Carla Sollazzo, Valentina Tebala

Con il contributo di: Lucrezia Calabrò Visconti

© 2023 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati senza l’autorizzazione dell’Editore.

Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.

In copertina Agnese Guido HELLO MOTO, I’M A SIMPLE MAN, 2019 Gouache su carta, 31x24 cm. Courtesy dell’artista

GALLERY.
ST 15 IL MIO LAVORO. QUEL CHE SONO Umberto Di Marino
SMALL TALK 16 LA PITTURA I SUONI E LE COSE Francesco Lauretta - Valentina Tebala 17 LUOGHI ONIRICI
Mesa Capella - Loredana Barillaro 18 TRADIZIONE E PROVOCAZIONE Calì
Carla Sollazzo
- Loredana Barillaro
Pablo
-

Accostarsi al lavoro di Dante Cannatella, indagare e studiare le sue composizioni equivale ad essere catapultati nell’atmosfera della parte più profonda e, a tratti, rurale degli Stati Uniti d’America. Ed è curioso farlo attraverso gli occhi di un giovane artista classe 1992 dal nome e cognome che ricordano l’Italia. Cannatella è nato a New Orleans, città principale dello stato della Louisiana, patria del Jazz, crogiolo di culture e di ispirazioni trasportate lungo il corso del Mississippi e sospinte dai venti del Golfo del Messico. Città ricca di mistero, simbolo al tempo stesso di libertà e cruda segregazione. Nelle pennellate di Dante, nel suo segno fortemente gestuale si riflette la ciclica storia fatta di costruzione e distruzione, spesso dovuta a catastrofi atmosferiche, della sua città natale. Un panorama dalle forti contraddizioni non solo sociali, ma anche ambientali, in cui è l’elemento naturale, il paesaggio a reclamare prepotentemente lo spazio che gli spetta, a scapito dell’urbanizzazione che avanza. Ecco così apparire nelle opere dell’artista confini tra esterno ed interno sfumati, scene di vite sempre in bilico tra mille incertezze. Di solito i temi delle composizioni di

Cannatella si basano su esperienze personali, su ricordi e sogni racchiusi in un orizzonte fittizio da cui emergono grazie ad una deriva espressionista che, a volte, cede il passo all’astrazione. Particolari sono anche i suoi sfondi: giallo acido, rosa fangoso, blu e grigio. Tonalità perfette per rendere l’immagine di scenari surreali.

Dante lavora molto le superfici che si caricano di densa materia, quasi a catturare le potenti forze della natura con cui si è confrontato nella prima parte della sua esperienza di vita. Si è poi spostato a New York, dove ha conseguito un MFA presso l’Hunter College e tutt’ora risiede.

Il legame lavorativo con l’Italia è scaturito prima dalla partecipazione alla collettiva “Night Owl” presso la galleria MASSIMODECARLO (spazio virtuale) e poi grazie all’intenso lavoro di ricerca di giovani talenti svolto da Tube Culture Hall. Nello spazio espositivo della realtà milanese, in Piazza XXV Aprile, si sono potute ammirare dal vivo, per la prima volta in Italia, due sue opere, all’interno della collettiva “SOMEWHERE IN TIME”, a cura di Sabrina Andres. The distribution of favor e St. Sebastian sono entrambe

ispirate al Polittico della Misericordia di Piero della Francesca. La prima raffigura la Vergine Maria che stende il mantello sui fedeli in segno di protezione. Nella seconda si staglia invece una figura a gambe divaricate e braccia incrociate, priva dei tratti distintivi che donano espressività al viso. Sottili frecce penetrano il suo corpo a ricordo del martirio del Santo cristiano, ma anche delle sofferenze dei cittadini di New Orleans a causa del terribile uragano Katrina. Ancora una volta una figura misteriosa immersa in uno scenario surreale che delinea un mondo pervaso da disintegrazione, innocenza, crimine e punizione.

Un universo onirico o forse no: sempre più spesso la nostra realtà quotidiana supera la fantasia e purtroppo non in senso positivo.

TALENT TALENT
REALTÀ E FANTASIA SI TENDONO LA MANO
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Dante Cannatella - Elisabetta Roncati Da sinistra: THE DISTRIBUTION OF FAVOR. Olio su tela, 92x54 cm. ST. SEBASTIAN, Olio su tela, 66x54 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

INTERVIEWS DAL FILO AL MONDO

“Ho capito che il gesto dello strappo era per me in qualche misura liberatorio; mi consentiva di riflettere sul mio stato d’animo del momento e di concentrarmi sul messaggio che volevo esprimere.”

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Giulia Nelli - Sabino Maria Frassà

Giulia Nelli ha vinto la 9° edizione del Premio Cramum con Madre terra. L’opera racconta l’identità individuale quale frutto del complesso intreccio di legami con gli altri da sé e di tutto ciò che ci circonda e lega. L’artista impiega in quest’opera e nella maggior parte dei casi i collant: li smembra e li trasforma, fino quasi a non permettere più di identificare il filo con cui sono stati fatti. Un lavoro di continua costruzione nella - e a partire - dalla distruzione, che abbiamo approfondito con l’artista.

Sabino Maria Frassà/ Le prime calze opera d’arte: come sei arrivata a questo materiale?

Giulia Nelli/ Il mio primo incontro con i collant è stato casuale ed è avvenuto in un periodo in cui stavo sperimentando molteplici materiali, dai foil alle colle viniliche. Ciò che mi ha colpito è stato fin da subito non la calza in sé, quanto la forma delle smagliature dei collant usati, ormai da gettare via.

SMF/ Che ruolo ha nella tua arte questo riutilizzo, quasi riciclo, di uno scarto?

GN/ I miei lavori nascono da subito con materiale usato, ma solo dopo la collaborazione con Elly Calze ho potuto utilizzare sempre collant di scarto anche per opere molto grandi. Il fatto che il materiale sia di riciclo è importante per sottolineare come ogni attività umana determini un impatto inevitabile sull’ambiente, ovvero sulla

collettività e quindi sull’individuo. L’utilizzo di materiale di scarto è divenuto così indispensabile per realizzare il mio progetto Humus, che intende mettere in evidenza l’insostenibilità dei nostri attuali stili di vita.

SMF/ Il tuo lavoro sembra stia evolvendo nello spazio. In che modo si sta evolvendo il tuo gesto artistico?

GN/ Ho capito che il gesto dello strappo era per me in qualche misura liberatorio; mi consentiva di riflettere sul mio stato d’animo del momento e di concentrarmi sul messaggio che volevo esprimere. Arrivavo al filo, che è l’essenza della materia, che non veniva da me distrutta ma solo “riportata” all’origine. Il mio è però sempre un gesto di liberazione consapevole, mai di nichilistica distruzione. Con il passare del tempo ho perciò voluto imparare a calibrare la forza, a controllare la gestualità e a lavorare un materiale che, per quanto molto

duttile, risulta anche molto delicato e imprevedibile se la smagliatura non viene gestita bene. Negli ultimi lavori lo strappo e lo smembramento lasciano spazio a un’azione di ricostruzione della materia: cucio e assemblo pezzi diversi di collant lasciati integri nella loro fisicità per dare maggiore matericità al lavoro. Il risultato è uno straordinario gioco di vuoti e di pieni e un movimento di forme leggero e allo stesso tempo molto intenso. Il prossimo passaggio sarà perciò portare questo mio gesto di pieni-vuoti nello spazio e alle persone, per cercare di chiudere un percorso che va dal filo al mondo.

Da sinistra: LA PIENEZZA DELLA SEMPLICITÀ. VORTICE D’INFINITO. Per entrambe courtesy dell’artista.

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INTERVIEWS DI STORIE E ALTRI REBUS

Agnese Guido - Gregorio Raspa

Gregorio Raspa/ Nel tuo lavoro libere associazioni di ascendenza freudiana e psichedeliche figure di matrice underground si saldano fra loro generando uno spazio visivo che integra la realtà fisica muovendosi in parallelo a essa, forzando i suoi simboli, esasperando le sue logiche. Come nasce un simile linguaggio?

Agnese Guido/ Il mio lavoro è una sorta di scrittura, un dialogo, una relazione tra dentro e fuori. È un modo per far entrare il mondo esterno tanto quanto far uscire un mondo interiore. È questo scambio che genera l’opera, figlia di una relazione intuitiva scaturita prima da una qualche forma di esperienza, poi da un metodo di trasposizione. In quest’ottica, la rappresentazione è, per me, sempre un insieme aperto: tutto ciò che scelgo di rappresentare risulta incline a nuovi percorsi associativi.

GR/ Mi piacerebbe approfondire il tuo metodo di lavoro e conoscere gli stimoli e i riferimenti che, in principio, alimentano il tuo composito sostrato teorico e iconografico. Me ne parli?

AG/ Raccogliere e accogliere la suggestione è un aspetto fondamentale del mio lavoro. In questi anni ho creato una mia personale iconografia ed elaborato un insieme di codici e simboli attingendo da fonti differenti: la storia dell’arte, il continuo flusso di immagini prodotto da internet e altri svariati stimoli visivi, musicali o letterari. Mi definisco spesso una carta assorbente che crea giochi di parole, allegorie sintomatiche e metaboliche.

GR/ La tua pittura presenta una vocazione narrativa esplicita, esercitata per mezzo di un flusso inesauribile di interazioni

segniche, la messa in scena di enigmatici racconti dell’assurdo e trovate dalle implicazioni psicoanalitiche. In questo contesto, proponi situazioni differenti, spaziando dai temi di critica sociale a quelli di carattere introspettivo, senza apparentemente prediligere un focus d’indagine specifico. È realmente così?

AG/ Il mio lavoro è tematicamente molto fluido, ma in effetti i temi di carattere introspettivo e di critica sociale - o, meglio, di osservazione e cronaca sociale - sono quelli che prediligo, in quanto sono intersecati e filtrati dalla mia esperienza. Ogni lavoro è, per me, una sorta di autoritratto allo specchio. Un po’ come nel celebre racconto di Calvino Lo specchio, il bersaglio, in cui l’autore studia l’immagine riflessa di sé e, incuriosito dal rovescio di ogni cosa, cerca di prendere effettiva coscienza della propria collocazione nel mondo.

GR/ Figure dall’aspetto inquieto e disturbanti ambientazioni notturne contribuiscono, all’interno delle tue opere, alla costruzione di un senso più generale di sorprendente ironia, se non di caustico umorismo. Mi racconti come nell’ambito della tua pratica pittorica si sviluppa una simile dimensione espressiva?

AG/ L’umorismo ha spesso qualcosa di cattivo e crudele, è rivelatore, cela la verità mostrandola più nuda possibile, ma è appunto divertente. È uno strumento - al pari dei giochi di parole e dei doppi sensi - che mi offre la possibilità di narrare a più livelli. È interessante trovare nell’arte o nella mitologia il senso dell’umorismo. In esso puoi sentire un coinvolgimento immediato che trascende il tempo. Penso che la vita stessa sia tragicomica, e mi piace che lo sia.

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GR/ In un lavoro come il tuo, che guarda con evidente interesse alla lezione surrealista e lavora sul potere evocativo delle immagini, che ruolo hanno l’inconscio e il sogno?

AG/ La lezione surrealista più importante è, per me, quella di Magritte, il surrealista più celebrale e poetico. Penso che egli fosse poco interessato ai sogni e più attento alla percezione della realtà e alla relazione tra l’immagine e la parola. Per quanto riguarda me, non dipingo mai i sogni, ma l’inconscio influenza spesso le mie scelte.

GR/ E la memoria, soprattutto autobiografica? Alcuni tuoi soggetti - come i floppy disk, le audiocassette o vecchi dispositivi mobili Motorolasembrerebbero intimamente connessi ad una visione nostalgica del passato.

AG/ Nel tempo ho creato un sito archeologico personale e generazionale.

Gli oggetti che citi sono posti alle origini dei dispositivi che quotidianamente usiamo. Mi interessa il rapporto con gli oggetti in generale, anche se non legati al passato. Di recente, ad esempio, ho dipinto un dispenser di igienizzante, delle automobili, dei libri, delle lavatrici, dei distributori d’acqua. La mia è una sorta di mappatura del quotidiano: mi ci muovo dentro e mi fermo a raccogliere ogni sassolino.

GR/ La rappresentazione antropomorfa degli oggetti è uno degli elementi caratterizzanti del codice linguistico da te impiegato, oltre che in ambito pittorico, anche in quello scultoreo, soprattutto per mezzo di singolari ceramiche policrome. Mi parleresti nello specifico di quest’ultima tipologia di lavori e del ruolo che essa ricopre nell’economia complessiva del tuo percorso artistico?

AG/ Il divario tra oggetti ed esseri umani è sfumato e malleabile. Spesso, affronto il tema dei sentimenti umani proprio per mezzo degli oggetti. Questo espediente mi garantisce un certo distacco dai temi trattati e, al tempo stesso, mi offre la possibilità di aggiungere significati inediti alla mia rappresentazione, che derivano dall’esplicazione del particolare legame instaurato con l’oggetto o dalla reinterpretazione della sua destinazione d’uso. Nella ceramica mi interessa molto la superficie, che diventa il luogo della narrazione. Il soggetto modellato è lo sfondo della storia ed è anche il titolo. È, insieme, inizio e fine.

GR/ Nell’ampio repertorio simbolico che caratterizza la tua ricerca ricorre con frequenza, tra le altre, l’immagine iconica della “sigaretta” - presente in numerosi dipinti e, non di rado, designata come soggetto principale della singola rappresentazione. Quale valore attribuisci a tale elemento? Cosa ti spinge alla sua continua e caleidoscopica riproduzione?

AG/ È la parte istintuale, viziosa, legata sia al principio del piacere che al senso della morte. È la mia “Coscienza di Zeno”. Per me è un simbolo di libero arbitrio, una riflessione sul rapporto con le dipendenze o la responsabilità, la metafora di un discorso vasto e complesso che mi affascina molto e mi fa pensare ad uno dei miei film preferiti: The Addiction di Abel Ferrara.

GR/ Secondo Harald Szeemann “l’utopia di ogni creatore di immagini [consiste nel] trasferire il proprio mondo nel colore perché questo sopravviva”. La tua personale utopia, invece, qual è?

AG/ Non saprei. La parola “utopia” non mi attira particolarmente, ma quando un artista crea un mondo, questo sopravvive, in un modo o nell’altro, soprattutto se viene capito e condiviso.

Da sinistra: DUEMILAVENTI, 2020. Argilla, acrilico, spray, 33x20x11 cm. MAPPA EMOTIVA DEL TARDO CAPITALISMO, 2020. Gouache su carta, 140x200 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

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“Èinteressante trovare nell’arte o nella mitologia il senso dell’umorismo. In esso puoi sentire un coinvolgimento immediato che trascende il tempo. Penso che la vita stessa sia tragicomica, e mi piace che lo sia.”

INTERVIEWS VERSO UN LOGOS DELLA PERCEZIONE

La ricerca di Mariangela Levita parte dalla conversione del pensiero secondo un alfabeto di elementi visivi fondamentali. Forma, colore, linea, luce, acromia, composizione sono le parti costitutive alla base del suo linguaggio artistico, in cui il rapporto con lo spazio, su qualsiasi scala, è strutturale. Tanta pluralità viene restituita dall’autrice nei termini di un lessico essenziale e complesso insieme, in cui razionalità ed emotività risuonano all’unisono.

Davide Silvioli/ Il tuo lavoro, sia su tela che su scala architettonica, dimostra sempre un impianto distintivo di forme e colori. A cosa si deve il tuo interesse verso questi apparati estetici fondamentali?

Mariangela Levita/ Tutto proviene dalla genesi che ho nella creazione dell’opera. Parte da una visione percettiva che si manifesta attraverso il pensiero,

che riflette ed elabora i contenuti del concetto che ho in esame. Questo processo mi porta a tracciare forme e a codificare colori che si armonizzano une agli altri, sia sulla superficie di una tela, che sui volumi architettonici, in micro e in macro scala in forma bidimensionale o tridimensionale rispetto allo spazio d’intervento. L’intenzione è di generare un alfabeto dell’immagine: materia, linea, colore, non colore, luce mediante una progettazione site-specific, passando dalla tela all’architettura e dall’installazione al video. L’elaborazione di ogni progetto è frutto di un’attenta analisi sui processi percettivi e sulla memoria visiva. Ciò mi ha portato nel tempo a costruire una grammatica del segno personale dove questa interpretazione del linguaggio, talvolta si presenta sotto forma di regole ferree e talvolta ne è svincolata.

DS/ In alcuni casi, si nota il richiamo a referenti riconoscibili o il ricorso a oggetti fisici. Come si inserisce questo aspetto

nell’insieme della tua sperimentazione?

ML/ Rispetto alla mia visione è naturale che si conformi nel mio modus operandi una costellazione ampia di elementi diversi ed affini, necessari alla costruzione dell’opera. La loro riconoscibilità è essenziale in quanto esprime il potenziale della logica nell’applicazione e nella funzione. Prendo ad esempio l’opera Full (2022) presentata al museo d’arte moderna MAMBO di Bogotà; una scultura composta da 25 blocchi di carta bianca, formati da risme dal modulo A4 disposte sul pavimento dell’atrio del museo. La loro disposizione sequenziale permette di leggere la scritta “Full” illuminata da lampi di luce stroboscopica, che funge da segnale di allarme, in un accogliente luogo di osservazione e riflessione.

Luce, colore, forma e parola divengono spettro attivo per un percorso di percezione che possa stimolare nel “trovare l’altrove”, attraverso la preziosa materia estraniante dell’arte.

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Mariangela Levita - Davide Silvioli

DS/ La tua ricerca, in generale, manifesta un lessico visivo in grado di dialogare con tanta storia dell’arte. Ci sono dei precedenti storicoartistici verso cui nutri un’affinità particolare?

ML/ Sono cresciuta alimentandomi d’arte e di tutte le forme di espressioni artistiche, per cui sono infiniti i riferimenti e gli ambiti che hanno, consciamente ed inconsciamente, stimolato la mia visione durante la mia crescita umana e artistica. Ho attraversato il mio tempo confrontandomi e condividendo umori, pensieri ed urgenze con tanti creativi che esplorano la loro creatività arrivando da ogni cammino della vita: studiosi, poeti, intellettuali e non della mia generazione, rapportandomi con le generazioni antecedenti e continuando a riferirmi a quelle più giovani della mia. Ho vissuto in luoghi diversi e condiviso culture e tradizioni diverse, che hanno di certo amplificato il mio bagaglio culturale ed affinato i miei interessi.

DS/ Ci sono stati dei momenti o dei passaggi che, più di altri, hanno determinato lo sviluppo del tuo linguaggio artistico durante il tuo percorso?

ML/ Ci sono state tappe che hanno rafforzato e reso più concrete le motivazioni della mia ricerca e ritengo essere tutte le opere permanenti, concepite e realizzate negli spazi pubblici non adepti all’arte. Luoghi predisposti a funzioni vitali durante fasi fondamentali della crescita e dello sviluppo dell’individuo. Come ad esempio l’opera realizzata per il Padiglione Palermo dell’Ospedale A. Cardarelli di Napoli

nel 2007 dal titolo Uno Sguardo Sospeso. Un intervento bidimensionale, di sola pittura, che si erge a scultura dove vede coinvolto il soffitto della hall d’ingresso e i due scaloni che percorrono tutti i piani dell’edificio. Spazi di passaggio per raggiungere i reparti, vissuti dai medici, infermieri, pazienti e familiari, che si trovano in quel luogo per vincere la sfida contro la malattia. Nell’opera sono così immersi nel colore. Ogni colore è giustapposto secondo un criterio che modula i sentimenti e le emozioni, generando effetti sensoriali. L’attraversamento diventa un percorso percettivo che unisce il bidimensionale con il tridimensionale, il razionale con l’irrazionale, restituendoci sensazioni lenitive alla realtà della vita in quel luogo.

DS/ Senza svelare troppo, è già possibile anticipare qualcosa in merito a progetti che ti vedono coinvolta in questo 2023?

ML/ Attualmente sono in working progress per la realizzazione di un’opera per i volumi architettonici interni della Real Fabbrica di Capodimonte, sede dell’istituto superiore A. Caselli di Napoli.

Da sinistra: UNO SGUARDO SOSPESO, 2007. Installation view, Ospedale Cardarelli, Napoli. Foto © Luciano Romano, courtesy dell’artista. OTHER-DEFINITION, 2022. Installation views, MAMBO, Bogotà. Foto © Gregorio Diaz, courtesy dell’artista e del MAMBO.

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“Luce, colore, forma e parola divengono spettro attivo per un percorso di percezione che possa stimolare nel “trovare l’altrove”, attraverso la preziosa materia estraniante dell’arte.”

SPECIAL BLACK HISTORY MONTH. PER UNA STORIA DEGLI AFRODISCENDENTI

con Justin Randolph Thompson
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Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Justin, partiamo dall’inizio, che cos’è Black History Month Florence?

Justin Randolph Thompson/ Black History Month

Florence è una rete istituzionale trasversale che porta avanti collettivamente, ogni febbraio, un programma di eventi dedicati alle culture e alle storie delle persone afrodiscendenti. Attingendo al Black History Month negli Stati Uniti fondato nel 1926 e sviluppato successivamente in Canada, Regno Unito e Germania, l’iniziativa è stata co-fondata da me e Andre Halyard in collaborazione con Andrea Mi nel 2016. Coordinata insieme alla co-direttrice Janine Gaëlle Dieudji , nelle ultime 7 edizioni abbiamo collaborato con oltre 100 istituzioni, associazioni, scuole e luoghi della musica per l’elaborazione di oltre 300 eventi co-promossi, coordinati, curati o sviluppati come gesto di collettività. Il programma del Black History Month Florence è articolato in tour, dialoghi, mostre, concerti, laboratori per bambini, film e altro ancora. Al di là delle specificità del suo contenuto, è una delle poche iniziative di base che riunisce una rete così diversificata per sostenere un programma culturale ricco e di grande impatto. La linea di fondo è riunire persone e organizzazioni attorno a un obiettivo condiviso, di espandere le percezioni appiattite delle persone e delle culture afrodiscendenti in Italia, e spingere ognuno dei collaboratori a valutare la propria missione in relazione al lavoro da svolgere.

LB/ Quali sono gli strumenti che l’iniziativa utilizza per realizzare la sua mission?

JRT/ Gli strumenti di base utilizzati da Black History Month per portare avanti la sua missione riguardano l’evocazione di un senso di corresponsabilità per offrire una narrazione storica ampliata e per riconoscere le numerose omissioni che posizionano l’Italia dove si trova attualmente rispetto al proprio passato. L’iniziativa è resa possibile dai nostri numerosi partner che migliorano e sviluppano il proprio programma, includendo ogni anno almeno un evento allineato o rilevante per il lavoro del Black History Month Florence. Questo inserimento di contenuti critici offre l’opportunità di riconsiderare eventi che sono già importanti all’interno dell’offerta dei singoli partner e migliorarli con ulteriori livelli di significato e contestualizzazione forniti da altri eventi che si trovano all’interno dello stesso programma. Il lavoro è ancorato a un’opportunità per connettersi e per promuovere un senso di comunità per i protagonisti degli eventi, il pubblico, che è condiviso tra le sedi, e per i partner stessi nel riunirsi e formare alleanze.

LB/ The Recovery Plan negli spazi di SRISA a Firenze è un luogo di ricerca proprio attorno alla storia e alle vicende degli afrodiscendenti. Me ne parli?

JRT/ Il Recovery Plan nasce nel 2019 dall’esigenza collettiva di avere uno spazio tutto nostro, non solo per il lavoro che l’iniziativa portava avanti, ma anche in risposta a una richiesta di spazio lanciata da diverse figure autorevoli nelle comunità che rappresentiamo, inclusi Pape Diaw e Andy Ndukuba. A partire dal 2017 avevamo iniziato lo sviluppo di piattaforme di ricerca che occupassero e valorizzassero il nostro lavoro nei periodi dell’anno che si estendevano oltre febbraio. Il riconoscimento del grande bisogno non solo di ricerca, ma anche di strategie alternative che riconoscessero i limiti dei quadri accademici tipicamente impiegati dai ricercatori, ci ha spinto verso lo sviluppo di modelli che si sono evoluti nelle nostre piattaforme di ricerca. La prima piattaforma è stata creata in collaborazione con Villa Romana intorno al ruolo degli archivi nella cura dei documenti che parlavano della storia del continente africano in relazione all’Italia. Black Archive Alliance aveva una premessa simile a Black History Month Florence, quella di riunire archivi e collezioni che promuovono collettivamente una visione cruciale

del passato afrodiscendente. Murate Art District ora ospita una residenza a lungo termine a sostegno della ricerca in corso di Black Archive Alliance. Il Recovery Plan è stato uno sviluppo naturale della crescita delle piattaforme di ricerca che ha portato con sé una complessità sempre più difficile da narrare. Non trovando uno spazio attraverso il Comune di Firenze ci siamo spostati verso il settore privato e The Recovery Plan è stato aperto per la prima volta all’interno della galleria della Fondazione Biagiotti Progetto Arte in Via delle Belle Donne nel mese di luglio del 2019. In quel periodo il nostro spazio era una realtà. Nel dialogo con curatori come Simone Frangi è emersa l’idea di fare di The Recovery Plan un progetto nomade pop up. Ne abbiamo fatto iterazioni al Museo MAGA di Gallarate e all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, portando due o tre delle nostre piattaforme alla volta in questi spazi. L’apertura del nostro centro presso SRISA nel settembre del 2021 è stato un punto di svolta in termini di possibilità di lavorare in modo più conciso sullo sviluppo delle piattaforme. Lo spazio è un incubatore e un banco di prova per il lavoro che viene poi esportato e condiviso in vari progetti curatoriali realizzati dal nostro collettivo BHMF (Black History Monday-Friday). SRISA ha ospitato le riunioni del nostro team sin dall’inizio del Black History Month Florence e il centro ha costituito un legame fondamentale nell’espansione della missione di SRISA fornendo allo stesso tempo a studenti, scuole, ricercatori, attivisti e associazioni lo spazio per riunirsi e pensare circondati dal lavoro che centra la nerezza. La Galleria dello spazio si è trasformata in una delle nostre piattaforme più vivaci, ancorata alla ricerca di artisti contemporanei afrodiscendenti che hanno preso parte a residenze internazionali in Italia.

LB/ Più in generale qual è la situazione nel panorama nazionale?

JRT/ Il panorama nazionale in relazione alle persone e alle culture afrodiscendenti è ampio ma inesplorato a causa del controllo istituzionale che sembra aver bisogno di ulteriore pressione e supporto per sviluppare sensibilità che si estendano oltre i quadri limitati che emarginano queste storie e i professionisti contemporanei. Il contesto italiano in relazione alla cultura contemporanea è caratterizzato da una generale mancanza di supporto e interesse. Le istituzioni in difficoltà, con fondi carenti e personale in numero insufficiente, cadono preda di scorciatoie che sono dannose per l’intera rete e sistema culturale, creando divisioni, poiché molti lottano per le poche risorse disponibili, il più delle volte rivolgendosi al settore privato per sopravvivere. I giovani talentuosi del Paese stanno partendo in massa per opportunità oltre i confini nazionali e la mancanza di occasioni - unita alla tendenza a svalutare la contemporaneità, favorendo la spinta turistica attorno alla venerazione di un’idea costruita sul passato italiano - rende il terreno pieno di ostacoli. Allo stesso tempo, gli slittamenti e le aperture tipiche di questo ambiente sono opportunità per sviluppare nuove strategie di promozione e cura della cultura, nuovi modi di modellare le missioni storiche che evidenziano l’incompletezza della narrazione anche dei periodi più ricercati della storia della cultura italiana. In questo ambito, il lavoro di The Recovery Plan e il lavoro di formazione di rete con obiettivi condivisi è fondamentale, non solo per la sopravvivenza delle pratiche contemporanee in Italia, ma anche per la lotta per la rilevanza in una visione del mondo sempre fluttuante e sempre più consapevole dei suoi limiti.

*Traduzione dall’inglese a cura della Redazione.

SPECIAL 11
Justin Randolph Thompson è Co-fondatore di Black History Month Florence. A sinistra, dall’alto: THE RECOVERY PLAN - BLACK ARCHIVE ALLIANCE. Foto © Bradly Dever Treadaway. Barthélémy Toguo, VIAGGIO IMMAGINARIO, 2018. Murate Art District. Per entrambe © Justin Randolph Thompson e BHMF.

Il mio percorso nel mondo dell’arte inizia con un incontro che credo accomuni molte delle persone che oggi lavorano in questo ambito, ovvero quello con l’arte per come viene filtrata dall’educazione secondaria in un contesto provinciale. Nella mancanza di esposizione alla cultura contemporanea caratteristica della provincia italiana - e nella bassa considerazione del lavoro artistico, altrettanto caratteristica del nostro paese in generale - la responsabilità che ricade su chi insegna in questi contesti è davvero enorme. Nel mio caso, incontrare una professoressa di storia dell’arte che ci spronava a viaggiare per esplorare il contemporaneo è stato di un’importanza incalcolabile. Può sembrare forse secondario da raccontare in questo contesto, ma altrettanto incalcolabile è stato, a livello personale, crescere in una famiglia di donne che per scelta o per necessità hanno portato avanti la loro vita da sole, lavorando instancabilmente per mantenere la propria indipendenza. Ho realizzato solo più tardi che, pur nella loro durezza, le loro esperienze sono state esempi fondamentali per immaginare il mio percorso, per sentirmi legittimata ad ampliare il mio sguardo verso orizzonti

che non sarebbe stato strutturalmente possibile incrociare altrimenti, e che spesso restano possibilità inesplorate per persone che non hanno avuto accesso alla stessa storia.

La mia formazione in ambito artistico e curatoriale è avvenuta in diversi luoghi, ma un pensiero speciale per me è sempre dedicato alla facoltà di arti visive e dello spettacolo dello IUAV, a Venezia. Lo IUAV era un luogo che coadiuvava il confronto diretto con figure che lavorano nell’ambito dell’arte contemporanea internazionale, ma che aveva anche un approccio dichiaratamente interdisciplinarepenso che i corsi di teatro e filosofia che ho seguito abbiano influito sul mio approccio curatoriale tanto quanto quelli più specificamente artistici. Lo IUAV, e la comunità che gravitava intorno all’università, mi hanno insegnato moltissimo a livello di metodologia. Una lezione che ritengo preziosa ancora oggi, ad esempio, è la tendenza a ragionare in termini di progetto, il tentativo di applicare una pratica progettuale alla realtà. “Progettare”, e questo vale per le arti visive come per molti altri ambiti della vita, significa rispondere attivamente a un contesto dato secondo un metodo sperimentale - che procede per tentativi, errori, piccole scoperte - e fondato sulla collaborazione. Anche se, nel nostro ambito, spesso questo viene di fatto invisibilizzato dalla mitizzazione della figura dell’“artista geniale”, ogni risultato è sempre frutto di un lavoro di concerto, in cui ogni persona e professionalità coinvolta è rilevante per il tutto, e in cui l’attività di chi c’è stato prima di noi ha un valore essenziale per ciò che possiamo realizzare oggi. Prendere atto di avere una agency progettuale sul mondo implica l’importanza di mettere in moto una riflessione critica sulla realtà, abbracciando la responsabilità etica dell’attività culturale. Questo è stato un orizzonte ideale a cui guardare mentre sviluppavo i miei progetti come curatrice indipendente. Nel corso degli anni ho lavorato a mostre e public programme per istituzioni di diversa scala e natura in Italia e all’estero: da progetti indipendenti legati a una cultura profondamente DIY a programmazioni pensate per istituzioni internazionali di ampio respiro. In entrambi i casi mi sono sempre sentita legata ad una tradizione che vede la curatela come una pratica che proviene più dall’esperienza della critica istituzionale che dalle discipline museali. La curatela è stata per me importante prima di tutto come esercizio di pensiero, e come attività in grado di sviluppare degli strumenti (le mostre, la scrittura, i public programme, i processi formativi e laboratoriali) attraverso cui una collettività di persone può tentare

di costruire nuove forme di conoscenza, nuovi modi di guardare al mondo. Il momento di condivisione con il pubblico è poi quello in cui queste forme di conoscenza vengono esperite, testatea volte consolidate, a volte rinegoziate. È il momento in cui assumono una forma pubblica nella realtà, e quindi guadagnano un peso storiografico e un valore inevitabilmente politico. Gli ultimi anni del mio percorso professionale sono stati segnati dall’incontro di questa visione curatoriale con le posizioni che ho ricoperto all’interno delle istituzioni museali da un lato (oggi come Chief Curator di Pinacoteca Agnelli) e con la mia attività nell’associazione AWI - Art Workers Italia dall’altro. Lavorare all’interno dell’istituzione museale mi ha permesso di vedere da vicino le contraddizioni e allo stesso tempo le grandissime potenzialità dei musei come piattaforme dove esplorare e restituire le complessità del tempo in cui viviamo. In Pinacoteca questo ha significato, per il team curatoriale, costruire una nuova missione per l’istituzione, misurandosi con la complessa storia dello spazio che la ospita - l’iconica ex fabbrica FIAT del Lingottoe sfidando la visione canonica della storia dell’arte rappresentata dalla sua collezione permanente. Ciò che tentiamo di fare con le progettualità di Pinacoteca è riattivare il museo, immaginandolo come un motore che può innescare nuove riflessioni sul passato attraverso le urgenze della contemporaneità, abbracciando il ruolo civico e sociale a cui può ambire. L’attività dentro ad Art Workers Italia, la prima organizzazione nata in Italia per dare voce a chi lavora nel nostro settore, è per me un irrinunciabile e costante contrappeso al mio lavoro come curatrice. Co-fondare e fare parte di AWI in questi anni è stato un arricchimento fondamentale della persona che sono, non solo per i risultati ottenuti dall’associazione a livello di riconoscimenti e tutele per chi opera nel nostro settore, ma prima di tutto per il processo collettivo di autoformazione che mi ha permesso di fare insieme alle altre persone che operano al suo interno. Nel contesto di una riforma del lavoro nell’arte che ha un respiro di scala strutturale, l’attività tecnica e politica macroscopica che portiamo avanti con AWI coincide con l’intima emozione personale di star prendendo parte a un cambiamento culturale costruito e condiviso insieme.

12 PEOPLE ART
LA CURATELA COME PROGETTO PER LA REALTÀ
Lucrezia Calabrò Visconti è Chief Curator della Pinacoteca Agnelli e Co-fondatrice di AWI- Art Workers Italia. A destra: Un ritratto di Lucrezia Calabrò Visconti. Courtesy MYBOSSWAS e Pinacoteca Agnelli.
“La curatela è stata per me importante prima di tutto come esercizio di pensiero, e come attività in grado di sviluppare degli strumenti attraverso cui una collettività di persone può tentare di costruire nuove forme di conoscenza, nuovi modi di guardare al mondo.”
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DESIGN.ER IL TUTTO SI TRASFORMA

Loredana Barillaro/ Angelo, cos’è per te fare il designer, e dunque creare design?

Angelo Minisci/ Sono interessato alla sperimentazione, purché abbia sempre come riferimento il tema dell’industria (in qualche modo), dell’artigianato e dei prodotti. Mi interessa che quel prodotto sia di qualità e che possa far riflettere. L’obiettivo non è produrre nuove cose ma cercare di capire come spingere un po’ più in là la riflessione sugli oggetti. Nel tempo, tutto questo è diventato sempre più coerente con una mia idea di design che preferisce il processo e la ricerca contestuale a quella formale. La forma, in fondo, è conseguenza di un processo, cambia. Siamo inquieti e irrequieti in queste nuove complessità. Spesso più che dare soluzioni propongo o mi faccio domande possibili.

LB/ Sei Direttore del Dipartimento di Design della Libera Accademia di Belle Arti di Firenze, quanto può essere complesso, e forse anche per questo appagante, trasmettere i concetti del mestiere e formare futuri designer?

AM/ Lo scopo è capire come la disciplina del design possa evolvere oltre le dinamiche generate dal pensiero moderno. Un progettare “pensante”, ma anche analizzare e ripensare sistemi molto più ampi e complessi che influenzano la produzione a livello globale.

Per me, la didattica, è un momento importante, un rapporto complesso, intenso. Più che didattica, infatti, mi piace chiamarla educazione allargata, dialogo. Partendo da un presupposto: cogliere il senso e le opportunità della cultura del progetto, e della cultura del produrre. Ma, le mie idee sono molto più radicali rispetto a quello che poi effettivamente faccio nella realtà. Le aule fisiche (e quelle virtuali degli ultimi due anni) e l’accademia sono luoghi dove le idee trovano spazio ulteriore, dove crescono perché condivise e messe in discussione. Ecco allora che, la mia frustrazione - consapevole che non si riuscirà a fare tutto ciò che uno vorrebbe nella propria carriera - si trasforma in energia, contribuisce al coraggio. Quello che mi entusiasma è provare a sfruttare le diversità che compongono la classe, quindi storie, emozioni, caratteri differenti.

È quella pluralità che mi permette di poter imparare e allo stesso tempo giocare con gli studenti, la possibilità di poter sperimentare sempre nel rispetto delle persone, delle ideologie, del credo e di tutto quello che è l’identità della persona.

LB/ Quali sono i progetti a cui hai lavorato che ricordi con entusiasmo e a cui tieni particolarmente?

AM/ Certamente tutto il lavoro dedicato all’artigianato è stata un’esperienza

intensa. Le prime esperienze con il Cristallo di Colle Val D’Elsa, ma anche il lavoro svolto per Artex Centro per l’Artigianato Artistico e Tradizionale della Toscana, e altro. Ma, a memoria di tutto questo, vorrei ricordare il lavoro per MIDA 2022, progetto sviluppato con l’azienda Savio Firmino. Un ritornare alle origini. Straordinario. Con il progetto INCLUSA fermo posta di comunità Nato nell’ambito della kermesse “Made in MIDA - L’artigianato che sarà” in occasione proprio della Mostra Internazionale dell’Artigianato di Firenze. Sei cassette della posta, identiche nella forma ma diverse per trama e disegno, che divengono metafora di una micro/ macro comunità condominiale. Ciascuna si “racconta” in maniera diversa e, a suo modo, ci “racconta” il proprietario, “abitante” di quella comunità.

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Angelo Minisci - Loredana Barillaro Angelo Minisci è Designer e Direttore del Dipartimento di Design della Libera Accademia di Belle Arti - LABA di Firenze. CHI MANGIA PANE BIANCO NON HA SOGNI. 2010. Centro Tavola, Terracotta. Courtesy Archivio Minisci Design.

GALLERY.ST IL MIO LAVORO. QUEL CHE SONO

Loredana Barillaro/ Umberto, partiamo dagli inizi, quando e perché hai deciso di intraprendere il lavoro di gallerista?

Umberto Di Marino/ Non saprei individuare il momento esatto in cui ho iniziato a fare questo lavoro, né tanto meno quando l’ho deciso. So che è quello che ho sempre fatto, e che probabilmente sempre farò. Inizialmente ho seguito una grande passione, uno slancio onnivoro e uno spirito quasi collezionistico. Alla passione è seguita la partecipazione alla vita culturale della città, poi i viaggi e la costante ricerca di una chiave di lettura di un mondo che non mi apparteneva per formazione, ma di cui subivo la bellezza e la visione. I primi passi sono stati mossi dal desiderio consapevole di entrare in contatto diretto con alcuni degli artisti che più amavo. L’attitudine è stata da subito però di rispetto, attenzione e professionalità. Non ho mai pensato a questo lavoro e a questo mondo come ad un gioco, era ed è il mio lavoro, la mia vita, quel che sono.

LB/Il rapporto con il territorio in qualche modo, e in taluni casi, può “condizionare” le scelte lavorative della galleria. Quanto hanno inciso le peculiarità del territorio sul percorso compiuto agli inizi? E oggi?

UDM/ Ho aperto la mia prima galleria a Giugliano, in Campania, periferia napoletana. Un luogo, abbandonato a se stesso dalle politiche urbanistiche, ma centrale nella sua funzione di cuore produttivo per il resto della città. Il concetto di territorio era inscindibile dal concetto di periferia, territoriale ma anche mentale, dove la modalità di pensiero si modifica e si adatta alle necessità e peculiarità intrinseche del luogo. Ho sempre vissuto i forti contorni del contesto in cui mi trovavo immerso come una fonte di ricchezza e ispirazione, trovandone poi conferma in tutti gli artisti con cui ho collaborato. Ero e sono convinto della capacità dell’arte di strappare interi territori all’anonimato e alla speculazione, trasformandoli, più o meno momentaneamente, in crocevia del pensiero globale per guardare con nuovi occhi al potenziale delle periferie. Agli inizi degli anni 2000 ho iniziato a rivedere l’organizzazione della galleria, e il risultato di questa nuova visione fu il trasferimento nel 2005 nella sede di piazza dei Martiri a Napoli, che ha restituito un ordine nelle cose e una chiarezza di visione. La grande città mi ha permesso di avviare nuove collaborazioni con artisti internazionali, catalizzando la mia attenzione su temi politici e sociali. La città mi ha poi ispirato all’evasione dai confini architettonici della galleria. In occasione dei 20 anni

di attività della galleria, per esempio, il progetto “Ten more ten”, coinvolgeva vari luoghi, come il Riot, Castel Sant’Elmo; oppure in occasione della monografica di Jota Castro, le stanze della galleria sono state solo 1 dei 5 spazi cittadini dedicati alla mostra. Alcune collaborazioni hanno dato vita a donazioni e realizzazioni di opere site specific permanenti, naturale configurazione di un dialogo. In quest’ottica rientrano esempi come Luca Francesconi alla Chiesa delle Anime del Purgatorio, l’opera di Jota Castro alla Chiesa di San Giuseppe delle Scalze a Pontecorvo, o il wall drawing di Alberto Di Fabio, permanente a Castel Sant’Elmo, o ancora la collaborazione fra Eugenio Tibaldi e il Nabilah sul litorale flegreo. Il legame con il territorio, quindi, è da sempre parte del mio modus operandi, con modalità e tempistiche diversificate nel tempo. Nonostante gli ultimi anni e il sempre maggiore disinteresse verso le istanze dell’arte, percepibile ormai ad occhio nudo, stiano mettendo a dura prova questa volontà e direzione.

LB/ Su che tipo di ricerca si concentra l’interesse della galleria Umberto Di Marino? Quali sono gli artisti con cui lavori?

UDM/ L’impostazione progettuale della galleria è nata soprattutto dall’osservazione delle dinamiche politiche e sociali dei miei luoghi. Ho sempre inteso il programma come un’estensione del mio pensiero, di ciò che più mi appassionava e mi interessava approfondire attraverso uno sguardo esterno, quello degli artisti. Dapprima un radicale interesse nel rapporto fra periferia e centro si è mano mano evoluto in un discorso rivolto all’influenza dell’arte sul paesaggio, e quindi una rilettura di un passato coloniale; il superamento di certe dicotomie tipiche del pensiero modernista; una ricerca antropologica, sociale, politica. Oggi la ricerca della mia galleria persegue tematiche come il rapporto uomo-natura, il paesaggio antropico e antropocentrico, l’essere umano in quanto misura infinitesimale del mondo che viviamo, in una sorta di nuovo umanesimo, ma viziato ed incompiuto. Attualmente lavoro con Eugenio Tibaldi, Jota Castro, Luca Francesconi, Alberto Di Fabio, Santiago Cucullu, Satoshi Hirose, Sergio Vega, Vedovamazzei, Francesco Jodice; Andrè Romao, Ana Manso, Marco Raparelli, Pedro Neves Marques; Eugenio Espinoza, Francesca Grilli e Alberto Tadiello.

LB/ Cos’è Casa Di Marino, il nuovo progetto nato proprio qualche mese fa?

UDM/ L’apertura di Casa Di Marino è il risultato della volontà di restituire una

diversa dimensione della galleria, che non sia solo uno spazio espositivo. In questo luogo il pubblico ha la possibilità di calarsi all’interno di tutti gli aspetti e le dinamiche che strutturano un’attività a conduzione familiare e una casa. Si genera così una commistione fra luoghi privati e domestici che animano la quotidianità della galleria; di fatto l’ufficio, il deposito e la biblioteca, saranno anche sala da pranzo, cucina, soggiorno. Questo comporta una forma di partecipazione diversa dei visitatori, l’atto di entrare nella sfera privata di una famiglia richiede necessariamente un approccio più interessato e sicuramente meno dispersivo, approccio che non corrisponde ad uno stravolgimento nella programmazione; infatti, manterremo le stesse tematiche, ma con tempo, nuovi punti di vista e aperture. Così come fu per la sede di Via Alabardieri, l’avventura di Casa Di Marino è iniziata con due nuove collaborazioni, Carlos Amorales e Peter Böhnisch, entrambi alla prima mostra con la galleria.

Umberto

Dall’alto: Un ritratto di Umberto Di Marino, Foto © Perottino-Piva-Peirone / Artissima. Carlos Amorales, Artists of the world, unite! 2022, exhibition view at Casa Di Marino. Foto © Danilo Donzelli Photography. Per entrambe Galleria Umberto Di Marino.

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Di Marino è Direttore dell’omonima galleria d’arte di Napoli.

SMALL TALK

LA PITTURA I SUONI E LE COSE

Francesco Lauretta - Valentina Tebala

inanzi alla tela e al mio faretto a occhio di bue, posso diventare anche paesaggio. Naturalmente, poi, sono diventato anche Pasavento, o san Gerolamo, e chissà cos’altro diventerò più avanti.”

Valentina Tebala/ Che tipo di rapporto hai con la pittura? E con il disegno?

Francesco Lauretta/ Della pittura odio la sua pratica: la noia della preparazione della tela, la noia di spremere i colori sulla palette, la noia dell’atto di dipingere. Dipingere è noioso e trovo noiosi tutti i pittori soprattutto quelli nostalgici e radicali, quelli che davanti a una figura ti dicono che lì potevi fare meglio, la sfumatura sai, potevi usare quel colore o l’altro, e così via. Invece mi diverte e mi infiamma il disegno che amo più di ogni cosa. Sono un disegnatore. Il disegno è come il mangiare e il bere, per me. E realizzerei solo disegni. Fossi un collezionista investirei sui miei disegni.

VT/ Al di là di quello che già fai o hai fatto, come o cosa vorresti dipingere?

FL/ Visto che i collezionisti preferiscono i quadri ai disegni, purtroppo, naturalmente mi tocca dipingere, e resistere. Impossibile, per me, è dire come e cosa vorrei dipingere.

Sicuramente posso farti un elenco di quei pittori che amo e nei quali si può intuire come mi piacerebbe dipingere - ma loro

dipingono tutti meglio di me - come potrei fare un elenco della pittura che non amo, assai diffusa nel nostro paese. Alcuni nomi: Louise Giovanelli. Jill Mulleady. Christina Quarles. Tschabalala Self. Avery Singer. Caroline Walker. Zadie Xa. Queste pittrici, le amo tutte. Ti risparmio quelli che non amo.

VT/ Le tue quotidiane ispirazioni (dalla musica alla filosofia…)?

FL/ Le ispirazioni accadono su un foglio di carta. Scrivo molto, quotidianamente cerco di buttare su carta o su un foglio Word, parole, pensieri, che si depositano e lentamente formano immagini che, quando posso, cerco poi di tradurre su tela o su carta, o anche con un racconto. Di libri d’arte consumo solo quelli necessari: ma i nutrimenti miei vengono da altre suggestioni e passioni. Qui un elenco di alcuni libri del 2022: Daša Drndić, Belladonna, Agustín Fernández Mallo, Trilogia della guerra, Mircea Cărtărescu, Melancolia, László Krasznahorkai, Herscht 07769, Clarice Lispector, Il lampadario, Hanya Yanagihara, Verso il paradiso, Jeff VanderMeer, Colibrì Salamandra, Aleksandar Hemon, I miei genitori/Tutto questo non ti appartiene, David Graeber, David Wengrow, L’alba di tutto, W.G. Sebald, Tessiture di sogno, Danilo Kiš, L’ultimo bastione del buon senso, William T. Vollmann, Come un’onda che sale e che scende, Susan Sontag, Contro l’interpretazione, Ian McEwan, Lo spazio dell’immaginazione, Louise Glück, Ricette per l’inverno dal collettivo, Mina Loy, The Lost Lunar Baedeker, Marija Stepanova, La guerra delle bestie e degli animali, Dimitris Lyacos, Poena Damni, Georgi Gospodinov, Lettere a Gaustìn e altre

poesie, Prime, Art’s Next Generation, Phaidon, Tiffany McDaniel, L’eclisse di Laken Cottle. Ascolti: Sarah Davachi, Two Sisters. JoVia Armstrong, The Antidote Suite. Ava Mendoza, New Spells Sault, 11. Tirzah, Colourgrade. Wu-Lu, Overgrown Interludes. Kae Tempest, The Line Is A Curve. Valentina Magaletti/Yves Chaudouët, Batterie Fragile. JJJJJerome Ellis, The Clearing. Nosaj Thing, Continua, Eric Chenaux, Say Laura, Kali Malone, Living Torch, Pan Daijing, Tissues

VT/ La dimensione performativa è fondamentale nel tuo lavoro, e a proposito di azioni che accadono, l’happening (la cui ideazione condividi con Luigi Presicce) forse più caro e noto, che si rinnova ogni martedì, è la Scuola di Santa Rosa: vorrei che ci formulassi un pensiero o un augurio.

FL/ Da alcuni anni mi sono posto davanti alla tela come personaggio. Consumo pensieri e balletti come un attore - spesso, e purtroppo - senza spettatori. Dinanzi alla tela e al mio faretto a occhio di bue, posso diventare anche paesaggio. Naturalmente, poi, sono diventato anche Pasavento, o san Gerolamo, e chissà cos’altro diventerò più avanti. E della Scuola di Santa Rosa - grande progetto artistico esteso a tutti, senza limiti - ho sempre sostenuto, a scanso di equivoci, che per me, e per Luigi, e così per chi vive questa dolcezza di libertà assoluta, è Opera. L’augurio, che poi non è, è che possiamo continuare a rinnovare l’appuntamento settimanale, di martedì, ad Aeternum.

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AL DI QUA, AL DI LÀ, 2022. Olio su tela, 80x198 cm. Courtesy dell’artista.
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LUOGHI ONIRICI

Pablo Mesa Capella

a fondere l’ironia - tratto che perseguo sempre - con il dramma di cui questi oggetti sono impregnati, intervenendo su di loro con l’incisione di un mantra che dovrebbe servire a interrogare l’osservatore.

LB/ Raccontami un po’ qual è stato il percorso che ti ha portato ad essere un artista, quando è iniziato?

Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Pablo, le tue opere sembrano oscillare fra mondi fantastici ed elementi che, al contrario, richiamano scenari oscuri come la guerra, me ne parli?

Pablo Mesa Capella/ Nella mia ricerca non mi sono mai preoccupato di avere una sorta di uniformità stilistica; mi sono piuttosto concentrato sulle urgenze che di volta in volta mi venivano - e vengono - suggerite dalla situazione nella quale vivo. È così che ho iniziato a condurre ricerche parallele che si alternano, si sovrappongono oppure si fondono. Nella serie di lavori Natura onirica racchiudo sotto campane di vetro il racconto di un’ipotetica memoria di cui gli oggetti sono portatori con una narrazione che unisce passato e presente. In altre serie, come quella legata ai cimeli militari, provo

PMC/ Nella risposta precedente accennavo all’unione di poetico e politico. Si tratta di qualcosa che porto con me a partire dalla mia formazione nel mondo del teatro. Proprio il teatro mi ha suggerito l’importanza della convivenza fra piani diversi all’interno di un unico discorso. È stato così quasi naturale passare dal palcoscenico teatrale a un palcoscenico più piccolo - quello dei miei lavori - in cui si perde l’effimero del tempo della rappresentazione teatrale e ci si rapporta a chi osserva in modo diverso.

LB/ Tu e il mondo dell’arte contemporanea in Italia: rapporti, distanze, assonanze.

PMC/ Devo dire che arrivato in Italia dalla Spagna mi sono trovato a mio agio. Qui ci sono tante opportunità, apertura, voglia di confronto e non ho faticato a entrare in un certo circuito che consente di esporre e di far vedere il proprio lavoro. Credo anche che il collezionismo

sia aperto, pronto a confrontarsi con gli artisti e disposto a dare delle opportunità. Viviamo in una dimensione europea in cui però continuano a sopravvivere dei piccoli campanilismi ma che sembrano essere fatti al contrario: gli italiani parlano male del loro mondo dell’arte, i francesi del loro, e via dicendo, senza accorgersi che siamo tutti, bene o male, su una stessa barca globale della quale dobbiamo certo preoccuparci, ma non troppo. In fondo, basta lavorare seriamente e concentrarsi su quello che ciascuno ritiene essere la propria impellenza.

LB/ Alcune tue opere sono costruite all’interno di teche in cui sembra quasi possano muoversi, svilupparsi ed osservare, a loro volta, il mondo che dall’esterno le scruta. Chi e cosa vive in questi mondi?

PMC/ Come dicevo, in questi lavori c’è un gioco tra ciò che accade nell’opera e ciò che accade in chi la osserva. Dentro le campane di vetro racchiudo una storia che nasce dall’ipotetica memoria degli oggetti che vi sono all’interno ma, allo stesso tempo, provo a sollecitare l’osservatore, costringendolo a cercare dettagli, a soffermarsi su piccoli elementi, sperando di sollecitare la sua fantasia ma anche la sua memoria.

È così che tento di far diventare universale un oggetto che avrebbe altrimenti un significato soltanto per me.

Da sinistra: NON PERDERE MAI UN SECONDO, 2022. Tecnica mista, 40x45 cm. MY WAR, YOUR WAR, MAKE..., 2020. Elmetto delle SS tedesche, Seconda Guerra Mondiale, incisione su metallo. Per entrambe courtesy dell’artsita.

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l teatro mi ha suggerito l’importanza della convivenza fra piani diversi all’interno di un unico discorso. È stato così quasi naturale passare dal palcoscenico teatrale a un palcoscenico più piccolo.”

“Ero e sono ossessionata dalla consapevolezza che la stessa realtà possa essere rappresentata da incompiutezza, allontanamento dai formalismi e fragilità, elementi essenziali del nostro tempo.”

Carla Sollazzo/ Raccontami, come hai scelto il nome d’arte “Calì”?

Calì/ Lo stupore per la bellezza e l’ordine della natura, e di conseguenza il suo rimando ad un Creatore, sono sempre stati fonte di innumerevoli quesiti sull’origine delle cose. Con il tempo, ho capito che tutto è correlato, da profondi legami così come da reciproche provocazioni, e sono giunta alla mia intima conclusione che un “buon Dio” si nasconde sempre dietro la “verità” dell’arte. Ho letto molti manoscritti sacri e di tutte le figure mi incuriosisce quella di Kalì, dea induista della distruzione e della rinascita; proprio come un’opera d’arte, che si distrugge nel momento in cui si crea, rinasce sotto vesti immortali per l’umanità ma muore per il suo creatore. Il mio nome d’arte, tramutato in Calì, nasce da questa figura mitica, che riesce a far convivere la bellezza della vita e la realtà della morte, con la consapevolezza

che l’una non può esistere senza l’altra e viceversa.

CS/ Estetica, colori e tradizione pittorica: qual è il processo che ti ha portata a fondere questi tre elementi?

C/ L’allontanamento dal figurativo arriva nella mia ricerca in modo naturale ma graduale. La figura cominciava ad opprimermi e non mi consentiva di esprimere pienamente la mia attività interiore, frutto di elaborati processi. Rivelatore fu l’approccio ad un testo di Dubuffet, pubblicato nel 1946, Prospectus aut amateurs de tout genre, che mi catapultò in una nuova coscienza del reale, mossa dalle Avanguardie. Con questa idea di riscatto nasce la mia propensione all’Informale e all’Astratto, quel richiamo repentino che mi porta all’origine dell’atto creativo, spesso impuro ed informe, contraddittorio e problematico. Ero e sono ossessionata dalla consapevolezza che la stessa realtà possa essere rappresentata da incompiutezza, allontanamento dai formalismi e fragilità, elementi essenziali del nostro tempo; un tempo in cui le mie opere nascondono quello che non vediamo più, per rappresentare spazi senza un suono e senza una storia. Mi piace pensare che su una superficie piana ci si avvicini grazie alla potenza del colore; una visione di verità per contrastare questa innaturale infatuazione per “l’abbandono”. Raccontare diventa un atto di coraggio, questa è la mia idea di contemporaneità.

CS/ In occasione della tua ultima personale, lo scorso agosto, hai reso omaggio a Christo, “impacchettando” parte del contesto espositivo; qual era il messaggio?

C/ Credo fortemente che dai grandi Maestri si attinga sempre e che, con attenta ciclicità, ripetuta in forma consapevole, si possa tramandare il testimone, ovvero raccontare il proprio tempo. L’omaggio a Christo - e a JeanneClaude - nasce dalla necessità di far capire che l’arte contemporanea è ovunque; “impacchettare” parte del contesto espositivo è un puro omaggio a quelli che considero i pionieri di immense opere. L’intento era quello di “censurare” l’elemento visivo del quotidiano, per far capire al fruitore che nulla è scontato, soprattutto la bellezza, e in quello specifico contesto, la bellezza degli alberi di ulivo in pieno centro cittadino.

CS/ Progetti e visioni future?

C/ Per il 2023 ho diversi progetti in cantiere che mi vedranno in Italia e oltre; metterò in atto una visione più che personale sul futuro dell’arte in generale, che mai come in questo secolo si pone interrogativi, speranze e paure.

Da sinistra: METRONOMO. Tecnica mista su tela, 80x100 cm. SOCIETÀ BABELE. Cemento e tecnica del graffito polistrato di Montemurro, 150x200 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

18 TRADIZIONE E PROVOCAZIONE
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Calì - Carla Sollazzo
cramum X Bando cramum #retiforart aperto fino al 30 giugno 2023 www.amanutricresci.com/cramum/ Immagine: Copertina della X Edizione del Premio Cramum realizzata a partire dall'opera (fuori concorso) di Francesca Piovesan "Mezzobusto 02112021”, serie “Aniconico”, 2021 cramum
Se pensi che mangiare sia un'esperienza geniale, vieni da noi!! Viale Alessandro Guidoni, 168 - 50127 Firenze www.ilgenioitaliano.com - ilgenioitaliano@hotmail.it

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