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INTERVIEWS DI STORIE E ALTRI REBUS

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SOMMARIO

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Agnese Guido - Gregorio Raspa

Gregorio Raspa/ Nel tuo lavoro libere associazioni di ascendenza freudiana e psichedeliche figure di matrice underground si saldano fra loro generando uno spazio visivo che integra la realtà fisica muovendosi in parallelo a essa, forzando i suoi simboli, esasperando le sue logiche. Come nasce un simile linguaggio?

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Agnese Guido/ Il mio lavoro è una sorta di scrittura, un dialogo, una relazione tra dentro e fuori. È un modo per far entrare il mondo esterno tanto quanto far uscire un mondo interiore. È questo scambio che genera l’opera, figlia di una relazione intuitiva scaturita prima da una qualche forma di esperienza, poi da un metodo di trasposizione. In quest’ottica, la rappresentazione è, per me, sempre un insieme aperto: tutto ciò che scelgo di rappresentare risulta incline a nuovi percorsi associativi.

GR/ Mi piacerebbe approfondire il tuo metodo di lavoro e conoscere gli stimoli e i riferimenti che, in principio, alimentano il tuo composito sostrato teorico e iconografico. Me ne parli?

AG/ Raccogliere e accogliere la suggestione è un aspetto fondamentale del mio lavoro. In questi anni ho creato una mia personale iconografia ed elaborato un insieme di codici e simboli attingendo da fonti differenti: la storia dell’arte, il continuo flusso di immagini prodotto da internet e altri svariati stimoli visivi, musicali o letterari. Mi definisco spesso una carta assorbente che crea giochi di parole, allegorie sintomatiche e metaboliche.

GR/ La tua pittura presenta una vocazione narrativa esplicita, esercitata per mezzo di un flusso inesauribile di interazioni segniche, la messa in scena di enigmatici racconti dell’assurdo e trovate dalle implicazioni psicoanalitiche. In questo contesto, proponi situazioni differenti, spaziando dai temi di critica sociale a quelli di carattere introspettivo, senza apparentemente prediligere un focus d’indagine specifico. È realmente così?

AG/ Il mio lavoro è tematicamente molto fluido, ma in effetti i temi di carattere introspettivo e di critica sociale - o, meglio, di osservazione e cronaca sociale - sono quelli che prediligo, in quanto sono intersecati e filtrati dalla mia esperienza. Ogni lavoro è, per me, una sorta di autoritratto allo specchio. Un po’ come nel celebre racconto di Calvino Lo specchio, il bersaglio, in cui l’autore studia l’immagine riflessa di sé e, incuriosito dal rovescio di ogni cosa, cerca di prendere effettiva coscienza della propria collocazione nel mondo.

GR/ Figure dall’aspetto inquieto e disturbanti ambientazioni notturne contribuiscono, all’interno delle tue opere, alla costruzione di un senso più generale di sorprendente ironia, se non di caustico umorismo. Mi racconti come nell’ambito della tua pratica pittorica si sviluppa una simile dimensione espressiva?

AG/ L’umorismo ha spesso qualcosa di cattivo e crudele, è rivelatore, cela la verità mostrandola più nuda possibile, ma è appunto divertente. È uno strumento - al pari dei giochi di parole e dei doppi sensi - che mi offre la possibilità di narrare a più livelli. È interessante trovare nell’arte o nella mitologia il senso dell’umorismo. In esso puoi sentire un coinvolgimento immediato che trascende il tempo. Penso che la vita stessa sia tragicomica, e mi piace che lo sia.

GR/ In un lavoro come il tuo, che guarda con evidente interesse alla lezione surrealista e lavora sul potere evocativo delle immagini, che ruolo hanno l’inconscio e il sogno?

AG/ La lezione surrealista più importante è, per me, quella di Magritte, il surrealista più celebrale e poetico. Penso che egli fosse poco interessato ai sogni e più attento alla percezione della realtà e alla relazione tra l’immagine e la parola. Per quanto riguarda me, non dipingo mai i sogni, ma l’inconscio influenza spesso le mie scelte.

GR/ E la memoria, soprattutto autobiografica? Alcuni tuoi soggetti - come i floppy disk, le audiocassette o vecchi dispositivi mobili Motorolasembrerebbero intimamente connessi ad una visione nostalgica del passato.

AG/ Nel tempo ho creato un sito archeologico personale e generazionale.

Gli oggetti che citi sono posti alle origini dei dispositivi che quotidianamente usiamo. Mi interessa il rapporto con gli oggetti in generale, anche se non legati al passato. Di recente, ad esempio, ho dipinto un dispenser di igienizzante, delle automobili, dei libri, delle lavatrici, dei distributori d’acqua. La mia è una sorta di mappatura del quotidiano: mi ci muovo dentro e mi fermo a raccogliere ogni sassolino.

GR/ La rappresentazione antropomorfa degli oggetti è uno degli elementi caratterizzanti del codice linguistico da te impiegato, oltre che in ambito pittorico, anche in quello scultoreo, soprattutto per mezzo di singolari ceramiche policrome. Mi parleresti nello specifico di quest’ultima tipologia di lavori e del ruolo che essa ricopre nell’economia complessiva del tuo percorso artistico?

AG/ Il divario tra oggetti ed esseri umani è sfumato e malleabile. Spesso, affronto il tema dei sentimenti umani proprio per mezzo degli oggetti. Questo espediente mi garantisce un certo distacco dai temi trattati e, al tempo stesso, mi offre la possibilità di aggiungere significati inediti alla mia rappresentazione, che derivano dall’esplicazione del particolare legame instaurato con l’oggetto o dalla reinterpretazione della sua destinazione d’uso. Nella ceramica mi interessa molto la superficie, che diventa il luogo della narrazione. Il soggetto modellato è lo sfondo della storia ed è anche il titolo. È, insieme, inizio e fine.

GR/ Nell’ampio repertorio simbolico che caratterizza la tua ricerca ricorre con frequenza, tra le altre, l’immagine iconica della “sigaretta” - presente in numerosi dipinti e, non di rado, designata come soggetto principale della singola rappresentazione. Quale valore attribuisci a tale elemento? Cosa ti spinge alla sua continua e caleidoscopica riproduzione?

AG/ È la parte istintuale, viziosa, legata sia al principio del piacere che al senso della morte. È la mia “Coscienza di Zeno”. Per me è un simbolo di libero arbitrio, una riflessione sul rapporto con le dipendenze o la responsabilità, la metafora di un discorso vasto e complesso che mi affascina molto e mi fa pensare ad uno dei miei film preferiti: The Addiction di Abel Ferrara.

GR/ Secondo Harald Szeemann “l’utopia di ogni creatore di immagini [consiste nel] trasferire il proprio mondo nel colore perché questo sopravviva”. La tua personale utopia, invece, qual è?

AG/ Non saprei. La parola “utopia” non mi attira particolarmente, ma quando un artista crea un mondo, questo sopravvive, in un modo o nell’altro, soprattutto se viene capito e condiviso.

Da sinistra: DUEMILAVENTI, 2020. Argilla, acrilico, spray, 33x20x11 cm. MAPPA EMOTIVA DEL TARDO CAPITALISMO, 2020. Gouache su carta, 140x200 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

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