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INTERVIEWS VERSO UN LOGOS DELLA PERCEZIONE

La ricerca di Mariangela Levita parte dalla conversione del pensiero secondo un alfabeto di elementi visivi fondamentali. Forma, colore, linea, luce, acromia, composizione sono le parti costitutive alla base del suo linguaggio artistico, in cui il rapporto con lo spazio, su qualsiasi scala, è strutturale. Tanta pluralità viene restituita dall’autrice nei termini di un lessico essenziale e complesso insieme, in cui razionalità ed emotività risuonano all’unisono.

Davide Silvioli/ Il tuo lavoro, sia su tela che su scala architettonica, dimostra sempre un impianto distintivo di forme e colori. A cosa si deve il tuo interesse verso questi apparati estetici fondamentali?

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Mariangela Levita/ Tutto proviene dalla genesi che ho nella creazione dell’opera. Parte da una visione percettiva che si manifesta attraverso il pensiero, che riflette ed elabora i contenuti del concetto che ho in esame. Questo processo mi porta a tracciare forme e a codificare colori che si armonizzano une agli altri, sia sulla superficie di una tela, che sui volumi architettonici, in micro e in macro scala in forma bidimensionale o tridimensionale rispetto allo spazio d’intervento. L’intenzione è di generare un alfabeto dell’immagine: materia, linea, colore, non colore, luce mediante una progettazione site-specific, passando dalla tela all’architettura e dall’installazione al video. L’elaborazione di ogni progetto è frutto di un’attenta analisi sui processi percettivi e sulla memoria visiva. Ciò mi ha portato nel tempo a costruire una grammatica del segno personale dove questa interpretazione del linguaggio, talvolta si presenta sotto forma di regole ferree e talvolta ne è svincolata.

DS/ In alcuni casi, si nota il richiamo a referenti riconoscibili o il ricorso a oggetti fisici. Come si inserisce questo aspetto nell’insieme della tua sperimentazione?

ML/ Rispetto alla mia visione è naturale che si conformi nel mio modus operandi una costellazione ampia di elementi diversi ed affini, necessari alla costruzione dell’opera. La loro riconoscibilità è essenziale in quanto esprime il potenziale della logica nell’applicazione e nella funzione. Prendo ad esempio l’opera Full (2022) presentata al museo d’arte moderna MAMBO di Bogotà; una scultura composta da 25 blocchi di carta bianca, formati da risme dal modulo A4 disposte sul pavimento dell’atrio del museo. La loro disposizione sequenziale permette di leggere la scritta “Full” illuminata da lampi di luce stroboscopica, che funge da segnale di allarme, in un accogliente luogo di osservazione e riflessione.

Luce, colore, forma e parola divengono spettro attivo per un percorso di percezione che possa stimolare nel “trovare l’altrove”, attraverso la preziosa materia estraniante dell’arte.

DS/ La tua ricerca, in generale, manifesta un lessico visivo in grado di dialogare con tanta storia dell’arte. Ci sono dei precedenti storicoartistici verso cui nutri un’affinità particolare?

ML/ Sono cresciuta alimentandomi d’arte e di tutte le forme di espressioni artistiche, per cui sono infiniti i riferimenti e gli ambiti che hanno, consciamente ed inconsciamente, stimolato la mia visione durante la mia crescita umana e artistica. Ho attraversato il mio tempo confrontandomi e condividendo umori, pensieri ed urgenze con tanti creativi che esplorano la loro creatività arrivando da ogni cammino della vita: studiosi, poeti, intellettuali e non della mia generazione, rapportandomi con le generazioni antecedenti e continuando a riferirmi a quelle più giovani della mia. Ho vissuto in luoghi diversi e condiviso culture e tradizioni diverse, che hanno di certo amplificato il mio bagaglio culturale ed affinato i miei interessi.

DS/ Ci sono stati dei momenti o dei passaggi che, più di altri, hanno determinato lo sviluppo del tuo linguaggio artistico durante il tuo percorso?

ML/ Ci sono state tappe che hanno rafforzato e reso più concrete le motivazioni della mia ricerca e ritengo essere tutte le opere permanenti, concepite e realizzate negli spazi pubblici non adepti all’arte. Luoghi predisposti a funzioni vitali durante fasi fondamentali della crescita e dello sviluppo dell’individuo. Come ad esempio l’opera realizzata per il Padiglione Palermo dell’Ospedale A. Cardarelli di Napoli nel 2007 dal titolo Uno Sguardo Sospeso. Un intervento bidimensionale, di sola pittura, che si erge a scultura dove vede coinvolto il soffitto della hall d’ingresso e i due scaloni che percorrono tutti i piani dell’edificio. Spazi di passaggio per raggiungere i reparti, vissuti dai medici, infermieri, pazienti e familiari, che si trovano in quel luogo per vincere la sfida contro la malattia. Nell’opera sono così immersi nel colore. Ogni colore è giustapposto secondo un criterio che modula i sentimenti e le emozioni, generando effetti sensoriali. L’attraversamento diventa un percorso percettivo che unisce il bidimensionale con il tridimensionale, il razionale con l’irrazionale, restituendoci sensazioni lenitive alla realtà della vita in quel luogo.

DS/ Senza svelare troppo, è già possibile anticipare qualcosa in merito a progetti che ti vedono coinvolta in questo 2023?

ML/ Attualmente sono in working progress per la realizzazione di un’opera per i volumi architettonici interni della Real Fabbrica di Capodimonte, sede dell’istituto superiore A. Caselli di Napoli.

Da sinistra: UNO SGUARDO SOSPESO, 2007. Installation view, Ospedale Cardarelli, Napoli. Foto © Luciano Romano, courtesy dell’artista. OTHER-DEFINITION, 2022. Installation views, MAMBO, Bogotà. Foto © Gregorio Diaz, courtesy dell’artista e del MAMBO.

SPECIAL BLACK HISTORY MONTH. PER UNA STORIA DEGLI AFRODISCENDENTI

Loredana Barillaro/ Justin, partiamo dall’inizio, che cos’è Black History Month Florence?

Justin Randolph Thompson/ Black History Month

Florence è una rete istituzionale trasversale che porta avanti collettivamente, ogni febbraio, un programma di eventi dedicati alle culture e alle storie delle persone afrodiscendenti. Attingendo al Black History Month negli Stati Uniti fondato nel 1926 e sviluppato successivamente in Canada, Regno Unito e Germania, l’iniziativa è stata co-fondata da me e Andre Halyard in collaborazione con Andrea Mi nel 2016. Coordinata insieme alla co-direttrice Janine Gaëlle Dieudji , nelle ultime 7 edizioni abbiamo collaborato con oltre 100 istituzioni, associazioni, scuole e luoghi della musica per l’elaborazione di oltre 300 eventi co-promossi, coordinati, curati o sviluppati come gesto di collettività. Il programma del Black History Month Florence è articolato in tour, dialoghi, mostre, concerti, laboratori per bambini, film e altro ancora. Al di là delle specificità del suo contenuto, è una delle poche iniziative di base che riunisce una rete così diversificata per sostenere un programma culturale ricco e di grande impatto. La linea di fondo è riunire persone e organizzazioni attorno a un obiettivo condiviso, di espandere le percezioni appiattite delle persone e delle culture afrodiscendenti in Italia, e spingere ognuno dei collaboratori a valutare la propria missione in relazione al lavoro da svolgere.

LB/ Quali sono gli strumenti che l’iniziativa utilizza per realizzare la sua mission?

JRT/ Gli strumenti di base utilizzati da Black History Month per portare avanti la sua missione riguardano l’evocazione di un senso di corresponsabilità per offrire una narrazione storica ampliata e per riconoscere le numerose omissioni che posizionano l’Italia dove si trova attualmente rispetto al proprio passato. L’iniziativa è resa possibile dai nostri numerosi partner che migliorano e sviluppano il proprio programma, includendo ogni anno almeno un evento allineato o rilevante per il lavoro del Black History Month Florence. Questo inserimento di contenuti critici offre l’opportunità di riconsiderare eventi che sono già importanti all’interno dell’offerta dei singoli partner e migliorarli con ulteriori livelli di significato e contestualizzazione forniti da altri eventi che si trovano all’interno dello stesso programma. Il lavoro è ancorato a un’opportunità per connettersi e per promuovere un senso di comunità per i protagonisti degli eventi, il pubblico, che è condiviso tra le sedi, e per i partner stessi nel riunirsi e formare alleanze.

LB/ The Recovery Plan negli spazi di SRISA a Firenze è un luogo di ricerca proprio attorno alla storia e alle vicende degli afrodiscendenti. Me ne parli?

JRT/ Il Recovery Plan nasce nel 2019 dall’esigenza collettiva di avere uno spazio tutto nostro, non solo per il lavoro che l’iniziativa portava avanti, ma anche in risposta a una richiesta di spazio lanciata da diverse figure autorevoli nelle comunità che rappresentiamo, inclusi Pape Diaw e Andy Ndukuba. A partire dal 2017 avevamo iniziato lo sviluppo di piattaforme di ricerca che occupassero e valorizzassero il nostro lavoro nei periodi dell’anno che si estendevano oltre febbraio. Il riconoscimento del grande bisogno non solo di ricerca, ma anche di strategie alternative che riconoscessero i limiti dei quadri accademici tipicamente impiegati dai ricercatori, ci ha spinto verso lo sviluppo di modelli che si sono evoluti nelle nostre piattaforme di ricerca. La prima piattaforma è stata creata in collaborazione con Villa Romana intorno al ruolo degli archivi nella cura dei documenti che parlavano della storia del continente africano in relazione all’Italia. Black Archive Alliance aveva una premessa simile a Black History Month Florence, quella di riunire archivi e collezioni che promuovono collettivamente una visione cruciale del passato afrodiscendente. Murate Art District ora ospita una residenza a lungo termine a sostegno della ricerca in corso di Black Archive Alliance. Il Recovery Plan è stato uno sviluppo naturale della crescita delle piattaforme di ricerca che ha portato con sé una complessità sempre più difficile da narrare. Non trovando uno spazio attraverso il Comune di Firenze ci siamo spostati verso il settore privato e The Recovery Plan è stato aperto per la prima volta all’interno della galleria della Fondazione Biagiotti Progetto Arte in Via delle Belle Donne nel mese di luglio del 2019. In quel periodo il nostro spazio era una realtà. Nel dialogo con curatori come Simone Frangi è emersa l’idea di fare di The Recovery Plan un progetto nomade pop up. Ne abbiamo fatto iterazioni al Museo MAGA di Gallarate e all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, portando due o tre delle nostre piattaforme alla volta in questi spazi. L’apertura del nostro centro presso SRISA nel settembre del 2021 è stato un punto di svolta in termini di possibilità di lavorare in modo più conciso sullo sviluppo delle piattaforme. Lo spazio è un incubatore e un banco di prova per il lavoro che viene poi esportato e condiviso in vari progetti curatoriali realizzati dal nostro collettivo BHMF (Black History Monday-Friday). SRISA ha ospitato le riunioni del nostro team sin dall’inizio del Black History Month Florence e il centro ha costituito un legame fondamentale nell’espansione della missione di SRISA fornendo allo stesso tempo a studenti, scuole, ricercatori, attivisti e associazioni lo spazio per riunirsi e pensare circondati dal lavoro che centra la nerezza. La Galleria dello spazio si è trasformata in una delle nostre piattaforme più vivaci, ancorata alla ricerca di artisti contemporanei afrodiscendenti che hanno preso parte a residenze internazionali in Italia.

LB/ Più in generale qual è la situazione nel panorama nazionale?

JRT/ Il panorama nazionale in relazione alle persone e alle culture afrodiscendenti è ampio ma inesplorato a causa del controllo istituzionale che sembra aver bisogno di ulteriore pressione e supporto per sviluppare sensibilità che si estendano oltre i quadri limitati che emarginano queste storie e i professionisti contemporanei. Il contesto italiano in relazione alla cultura contemporanea è caratterizzato da una generale mancanza di supporto e interesse. Le istituzioni in difficoltà, con fondi carenti e personale in numero insufficiente, cadono preda di scorciatoie che sono dannose per l’intera rete e sistema culturale, creando divisioni, poiché molti lottano per le poche risorse disponibili, il più delle volte rivolgendosi al settore privato per sopravvivere. I giovani talentuosi del Paese stanno partendo in massa per opportunità oltre i confini nazionali e la mancanza di occasioni - unita alla tendenza a svalutare la contemporaneità, favorendo la spinta turistica attorno alla venerazione di un’idea costruita sul passato italiano - rende il terreno pieno di ostacoli. Allo stesso tempo, gli slittamenti e le aperture tipiche di questo ambiente sono opportunità per sviluppare nuove strategie di promozione e cura della cultura, nuovi modi di modellare le missioni storiche che evidenziano l’incompletezza della narrazione anche dei periodi più ricercati della storia della cultura italiana. In questo ambito, il lavoro di The Recovery Plan e il lavoro di formazione di rete con obiettivi condivisi è fondamentale, non solo per la sopravvivenza delle pratiche contemporanee in Italia, ma anche per la lotta per la rilevanza in una visione del mondo sempre fluttuante e sempre più consapevole dei suoi limiti.

*Traduzione dall’inglese a cura della Redazione.

Il mio percorso nel mondo dell’arte inizia con un incontro che credo accomuni molte delle persone che oggi lavorano in questo ambito, ovvero quello con l’arte per come viene filtrata dall’educazione secondaria in un contesto provinciale. Nella mancanza di esposizione alla cultura contemporanea caratteristica della provincia italiana - e nella bassa considerazione del lavoro artistico, altrettanto caratteristica del nostro paese in generale - la responsabilità che ricade su chi insegna in questi contesti è davvero enorme. Nel mio caso, incontrare una professoressa di storia dell’arte che ci spronava a viaggiare per esplorare il contemporaneo è stato di un’importanza incalcolabile. Può sembrare forse secondario da raccontare in questo contesto, ma altrettanto incalcolabile è stato, a livello personale, crescere in una famiglia di donne che per scelta o per necessità hanno portato avanti la loro vita da sole, lavorando instancabilmente per mantenere la propria indipendenza. Ho realizzato solo più tardi che, pur nella loro durezza, le loro esperienze sono state esempi fondamentali per immaginare il mio percorso, per sentirmi legittimata ad ampliare il mio sguardo verso orizzonti

Lucrezia Calabrò Visconti

che non sarebbe stato strutturalmente possibile incrociare altrimenti, e che spesso restano possibilità inesplorate per persone che non hanno avuto accesso alla stessa storia.

La mia formazione in ambito artistico e curatoriale è avvenuta in diversi luoghi, ma un pensiero speciale per me è sempre dedicato alla facoltà di arti visive e dello spettacolo dello IUAV, a Venezia. Lo IUAV era un luogo che coadiuvava il confronto diretto con figure che lavorano nell’ambito dell’arte contemporanea internazionale, ma che aveva anche un approccio dichiaratamente interdisciplinarepenso che i corsi di teatro e filosofia che ho seguito abbiano influito sul mio approccio curatoriale tanto quanto quelli più specificamente artistici. Lo IUAV, e la comunità che gravitava intorno all’università, mi hanno insegnato moltissimo a livello di metodologia. Una lezione che ritengo preziosa ancora oggi, ad esempio, è la tendenza a ragionare in termini di progetto, il tentativo di applicare una pratica progettuale alla realtà. “Progettare”, e questo vale per le arti visive come per molti altri ambiti della vita, significa rispondere attivamente a un contesto dato secondo un metodo sperimentale - che procede per tentativi, errori, piccole scoperte - e fondato sulla collaborazione. Anche se, nel nostro ambito, spesso questo viene di fatto invisibilizzato dalla mitizzazione della figura dell’“artista geniale”, ogni risultato è sempre frutto di un lavoro di concerto, in cui ogni persona e professionalità coinvolta è rilevante per il tutto, e in cui l’attività di chi c’è stato prima di noi ha un valore essenziale per ciò che possiamo realizzare oggi. Prendere atto di avere una agency progettuale sul mondo implica l’importanza di mettere in moto una riflessione critica sulla realtà, abbracciando la responsabilità etica dell’attività culturale. Questo è stato un orizzonte ideale a cui guardare mentre sviluppavo i miei progetti come curatrice indipendente. Nel corso degli anni ho lavorato a mostre e public programme per istituzioni di diversa scala e natura in Italia e all’estero: da progetti indipendenti legati a una cultura profondamente DIY a programmazioni pensate per istituzioni internazionali di ampio respiro. In entrambi i casi mi sono sempre sentita legata ad una tradizione che vede la curatela come una pratica che proviene più dall’esperienza della critica istituzionale che dalle discipline museali. La curatela è stata per me importante prima di tutto come esercizio di pensiero, e come attività in grado di sviluppare degli strumenti (le mostre, la scrittura, i public programme, i processi formativi e laboratoriali) attraverso cui una collettività di persone può tentare di costruire nuove forme di conoscenza, nuovi modi di guardare al mondo. Il momento di condivisione con il pubblico è poi quello in cui queste forme di conoscenza vengono esperite, testatea volte consolidate, a volte rinegoziate. È il momento in cui assumono una forma pubblica nella realtà, e quindi guadagnano un peso storiografico e un valore inevitabilmente politico. Gli ultimi anni del mio percorso professionale sono stati segnati dall’incontro di questa visione curatoriale con le posizioni che ho ricoperto all’interno delle istituzioni museali da un lato (oggi come Chief Curator di Pinacoteca Agnelli) e con la mia attività nell’associazione AWI - Art Workers Italia dall’altro. Lavorare all’interno dell’istituzione museale mi ha permesso di vedere da vicino le contraddizioni e allo stesso tempo le grandissime potenzialità dei musei come piattaforme dove esplorare e restituire le complessità del tempo in cui viviamo. In Pinacoteca questo ha significato, per il team curatoriale, costruire una nuova missione per l’istituzione, misurandosi con la complessa storia dello spazio che la ospita - l’iconica ex fabbrica FIAT del Lingottoe sfidando la visione canonica della storia dell’arte rappresentata dalla sua collezione permanente. Ciò che tentiamo di fare con le progettualità di Pinacoteca è riattivare il museo, immaginandolo come un motore che può innescare nuove riflessioni sul passato attraverso le urgenze della contemporaneità, abbracciando il ruolo civico e sociale a cui può ambire. L’attività dentro ad Art Workers Italia, la prima organizzazione nata in Italia per dare voce a chi lavora nel nostro settore, è per me un irrinunciabile e costante contrappeso al mio lavoro come curatrice. Co-fondare e fare parte di AWI in questi anni è stato un arricchimento fondamentale della persona che sono, non solo per i risultati ottenuti dall’associazione a livello di riconoscimenti e tutele per chi opera nel nostro settore, ma prima di tutto per il processo collettivo di autoformazione che mi ha permesso di fare insieme alle altre persone che operano al suo interno. Nel contesto di una riforma del lavoro nell’arte che ha un respiro di scala strutturale, l’attività tecnica e politica macroscopica che portiamo avanti con AWI coincide con l’intima emozione personale di star prendendo parte a un cambiamento culturale costruito e condiviso insieme.

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