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LUOGHI ONIRICI

Pablo Mesa Capella a fondere l’ironia - tratto che perseguo sempre - con il dramma di cui questi oggetti sono impregnati, intervenendo su di loro con l’incisione di un mantra che dovrebbe servire a interrogare l’osservatore.

LB/ Raccontami un po’ qual è stato il percorso che ti ha portato ad essere un artista, quando è iniziato?

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Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Pablo, le tue opere sembrano oscillare fra mondi fantastici ed elementi che, al contrario, richiamano scenari oscuri come la guerra, me ne parli?

Pablo Mesa Capella/ Nella mia ricerca non mi sono mai preoccupato di avere una sorta di uniformità stilistica; mi sono piuttosto concentrato sulle urgenze che di volta in volta mi venivano - e vengono - suggerite dalla situazione nella quale vivo. È così che ho iniziato a condurre ricerche parallele che si alternano, si sovrappongono oppure si fondono. Nella serie di lavori Natura onirica racchiudo sotto campane di vetro il racconto di un’ipotetica memoria di cui gli oggetti sono portatori con una narrazione che unisce passato e presente. In altre serie, come quella legata ai cimeli militari, provo

PMC/ Nella risposta precedente accennavo all’unione di poetico e politico. Si tratta di qualcosa che porto con me a partire dalla mia formazione nel mondo del teatro. Proprio il teatro mi ha suggerito l’importanza della convivenza fra piani diversi all’interno di un unico discorso. È stato così quasi naturale passare dal palcoscenico teatrale a un palcoscenico più piccolo - quello dei miei lavori - in cui si perde l’effimero del tempo della rappresentazione teatrale e ci si rapporta a chi osserva in modo diverso.

LB/ Tu e il mondo dell’arte contemporanea in Italia: rapporti, distanze, assonanze.

PMC/ Devo dire che arrivato in Italia dalla Spagna mi sono trovato a mio agio. Qui ci sono tante opportunità, apertura, voglia di confronto e non ho faticato a entrare in un certo circuito che consente di esporre e di far vedere il proprio lavoro. Credo anche che il collezionismo sia aperto, pronto a confrontarsi con gli artisti e disposto a dare delle opportunità. Viviamo in una dimensione europea in cui però continuano a sopravvivere dei piccoli campanilismi ma che sembrano essere fatti al contrario: gli italiani parlano male del loro mondo dell’arte, i francesi del loro, e via dicendo, senza accorgersi che siamo tutti, bene o male, su una stessa barca globale della quale dobbiamo certo preoccuparci, ma non troppo. In fondo, basta lavorare seriamente e concentrarsi su quello che ciascuno ritiene essere la propria impellenza.

LB/ Alcune tue opere sono costruite all’interno di teche in cui sembra quasi possano muoversi, svilupparsi ed osservare, a loro volta, il mondo che dall’esterno le scruta. Chi e cosa vive in questi mondi?

PMC/ Come dicevo, in questi lavori c’è un gioco tra ciò che accade nell’opera e ciò che accade in chi la osserva. Dentro le campane di vetro racchiudo una storia che nasce dall’ipotetica memoria degli oggetti che vi sono all’interno ma, allo stesso tempo, provo a sollecitare l’osservatore, costringendolo a cercare dettagli, a soffermarsi su piccoli elementi, sperando di sollecitare la sua fantasia ma anche la sua memoria.

È così che tento di far diventare universale un oggetto che avrebbe altrimenti un significato soltanto per me.

Da sinistra: NON PERDERE MAI UN SECONDO, 2022. Tecnica mista, 40x45 cm. MY WAR, YOUR WAR, MAKE..., 2020. Elmetto delle SS tedesche, Seconda Guerra Mondiale, incisione su metallo. Per entrambe courtesy dell’artsita.

“Ero e sono ossessionata dalla consapevolezza che la stessa realtà possa essere rappresentata da incompiutezza, allontanamento dai formalismi e fragilità, elementi essenziali del nostro tempo.”

Carla Sollazzo/ Raccontami, come hai scelto il nome d’arte “Calì”?

Calì/ Lo stupore per la bellezza e l’ordine della natura, e di conseguenza il suo rimando ad un Creatore, sono sempre stati fonte di innumerevoli quesiti sull’origine delle cose. Con il tempo, ho capito che tutto è correlato, da profondi legami così come da reciproche provocazioni, e sono giunta alla mia intima conclusione che un “buon Dio” si nasconde sempre dietro la “verità” dell’arte. Ho letto molti manoscritti sacri e di tutte le figure mi incuriosisce quella di Kalì, dea induista della distruzione e della rinascita; proprio come un’opera d’arte, che si distrugge nel momento in cui si crea, rinasce sotto vesti immortali per l’umanità ma muore per il suo creatore. Il mio nome d’arte, tramutato in Calì, nasce da questa figura mitica, che riesce a far convivere la bellezza della vita e la realtà della morte, con la consapevolezza che l’una non può esistere senza l’altra e viceversa.

CS/ Estetica, colori e tradizione pittorica: qual è il processo che ti ha portata a fondere questi tre elementi?

C/ L’allontanamento dal figurativo arriva nella mia ricerca in modo naturale ma graduale. La figura cominciava ad opprimermi e non mi consentiva di esprimere pienamente la mia attività interiore, frutto di elaborati processi. Rivelatore fu l’approccio ad un testo di Dubuffet, pubblicato nel 1946, Prospectus aut amateurs de tout genre, che mi catapultò in una nuova coscienza del reale, mossa dalle Avanguardie. Con questa idea di riscatto nasce la mia propensione all’Informale e all’Astratto, quel richiamo repentino che mi porta all’origine dell’atto creativo, spesso impuro ed informe, contraddittorio e problematico. Ero e sono ossessionata dalla consapevolezza che la stessa realtà possa essere rappresentata da incompiutezza, allontanamento dai formalismi e fragilità, elementi essenziali del nostro tempo; un tempo in cui le mie opere nascondono quello che non vediamo più, per rappresentare spazi senza un suono e senza una storia. Mi piace pensare che su una superficie piana ci si avvicini grazie alla potenza del colore; una visione di verità per contrastare questa innaturale infatuazione per “l’abbandono”. Raccontare diventa un atto di coraggio, questa è la mia idea di contemporaneità.

CS/ In occasione della tua ultima personale, lo scorso agosto, hai reso omaggio a Christo, “impacchettando” parte del contesto espositivo; qual era il messaggio?

C/ Credo fortemente che dai grandi Maestri si attinga sempre e che, con attenta ciclicità, ripetuta in forma consapevole, si possa tramandare il testimone, ovvero raccontare il proprio tempo. L’omaggio a Christo - e a JeanneClaude - nasce dalla necessità di far capire che l’arte contemporanea è ovunque; “impacchettare” parte del contesto espositivo è un puro omaggio a quelli che considero i pionieri di immense opere. L’intento era quello di “censurare” l’elemento visivo del quotidiano, per far capire al fruitore che nulla è scontato, soprattutto la bellezza, e in quello specifico contesto, la bellezza degli alberi di ulivo in pieno centro cittadino.

CS/ Progetti e visioni future?

C/ Per il 2023 ho diversi progetti in cantiere che mi vedranno in Italia e oltre; metterò in atto una visione più che personale sul futuro dell’arte in generale, che mai come in questo secolo si pone interrogativi, speranze e paure.

Da sinistra: METRONOMO. Tecnica mista su tela, 80x100 cm. SOCIETÀ BABELE. Cemento e tecnica del graffito polistrato di Montemurro, 150x200 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

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