SMALL ZINE

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ISSN 2283-9771

Magazine di arte contemporanea / Anno X N. 40 / Trimestrale free press

SMALL ZINE

Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale 70% Cosenza Aut S/CS/19/2016/C

OTTOBRE NOVEMBRE DICEMBRE 2021

Speciale

10 ANNI


SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea

SOMMARIO INTERVIEWS 4

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FORME UNICHE PER IDENTITÀ MULTIPLE Davide Monaldi - Gregorio Raspa LA LUCIDA IRONIA DELL’OVVIETÀ Christophe Constantin - Loredana Barillaro

SPECIAL 8

UN’AUTENTICA NARRAZIONE COLLETTIVA con Valentina Tebala, Gregorio Raspa, Maria Chiara Wang, Luca Cofone, Carla Sollazzo, Sabino Maria Frassà, Davide Silvioli - Loredana Barillaro

PEOPLE ART 10

FIGLIO DI ZOCCOLO Nicolas Ballario

DESIGN.ER 12

LA CONCRETA NECESSITÀ DEL PROGETTO Marco Tortoioli Ricci - Loredana Barillaro

PHOTO.&.FOOD 13

CHIAROSCURI VISIVI Andrea Tedeschi - Luca Cofone

GALLERY.ST 14

TENACIA, ARTE E PASSIONE Giorgia Lucchi Boccanera - Loredana Barillaro

SMALL TALK 15

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IL BRAILLE E IL LEGNO PER UN’ARTE INCLUSIVA Fulvio Morella - Sabino Maria Frassà TRANSITO MENTALE Massiel Leza - Maria Chiara Wang SU SUONO E MATERIA Jacopo Mazzonelli - Davide Silvioli

Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Stampa Gescom s.p.a. Viterbo Contatti e info +39 3393000574 +39 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Sabino Maria Frassà, Gregorio Raspa, Davide Silvioli, Maria Chiara Wang Con il contributo di: Nicolas Ballario © 2021 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.

In copertina Christophe Constantin MA COUVERTURE EN COUVERTURE DE SMALL ZINE, 2021 Stampa offset, 29,7x21 cm © SMALL ZINE e dell’artista


DIECI ANNI DI ARTE. BUON COMPLEANNO SMALL ZINE!

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bbene, sono passati dieci anni da quando mi venne l’idea di fondare un magazine di arte contemporanea. Dieci anni in cui ho potuto godere di centinaia di opere d’arte, conoscere un numero indefinito di artisti, critici, curatori, galleristi, collezionisti, direttori di musei, uffici stampa e un sacco di altra gente il cui ruolo sarebbe davvero difficile da incastrare in qualche etichetta. Dieci anni in cui non ho mai avuto troppe incertezze; certo qualche momento di sconforto c’è stato, com’è normale che sia; probabilmente è anche questo esitare ogni tanto che ci fa capire, forse forse, che è la volta buona, che è la cosa giusta da fare. E la cosa giusta da fare per me è SMALL ZINE. È la cosa che mi ha fatto scoprire una coerenza che non credevo di possedere. Mai un minuto mi sono pentita, mai un minuto ho pensato di aver sbagliato o di aver sprecato del tempo. Non ho mai dato una scadenza a SMALL ZINE perché ho sempre pensato che esso dovesse percorrere un tempo ed uno spazio che ne decretassero il suo crescere trimestre dopo trimestre, anno per anno. Che dovesse durare nella sua maniera di raccontare l’arte, e che dovesse farlo in modo piacevole, ma non estemporaneo o passeggero. Che dovesse essere serio ma non pedante. E un po’ anche la mia vita segue lo stesso scandire del tempo. Il tutto in un luogo di provincia, periferico, in cui la geografia di certo non aiuta e in cui sai che dovrai fare il triplo dello sforzo per essere credibile, nella consapevolezza di non dover mai cedere il passo alle lusinghe della convenienza. Lì, dove la necessità che aguzza l’ingegno te la devi inventare volta per volta, affinché il guizzo della creatività non venga mai meno. In fondo questo magazine per me è

una meravigliosa creatura, pronta a farmi gioire, ma talvolta a togliermi anche il sonno. SMALL ZINE non è solo carta e parole, ma racchiude in sé qualcosa di necessariamente umano; perché è il dato umano che vi si legge, è l’umanità che lo compone a fare la differenza, a mutare il paradigma, per mettere al centro le persone, per narrare in maniera etica l’arte e gli artisti. D’altra parte esso non esisterebbe senza le voci e le penne di chi vi scrive. Sono stati dieci anni di gavetta, e francamente non credo che la gavetta finisca, non in questo lavoro, almeno. Chi lavora, a vario titolo, nel variopinto mondo dell’arte sa che è una strada che si percorre per sempre, non c’è mai un punto d’arrivo, perché quel punto sarà sempre l’inizio di una nuova partenza. E forse non mi dispiace, perché è uno stato di cose che mi fa gioire continuamente, per ogni risultato ottenuto, per ogni artista che accetta di farsi intervistare, per tutti coloro che decidono di raccontarsi. Ho chiesto all’artista Christophe Constantin di realizzare la copertina di questo numero; è venuto fuori un progetto dadaista, ironico, lucido nella sua straniante concretezza. Uno stravagante gioco di parole in un lavoro dal sofisticato ragionamento. Sarò di parte, ma credo che il mio sia il lavoro più bello del mondo e spero che SMALL ZINE possa essere da stimolo a quanti, speriamo, vorranno intraprenderlo. È l’entusiasmo, è l’adrenalina, è il bisogno impellente di fare questo lavoro. È il bisogno di fare SMALL ZINE.

Loredana Barillaro


INTERVIEWS

FORME UNICHE PER IDENTITÀ MULTIPLE Davide Monaldi

Gregorio Raspa/ La tua formazione artistica si è svolta nel campo del disegno e dell’illustrazione. Circa dieci anni fa, poi, hai deciso di orientare la tua ricerca verso la tridimensionalità concentrandoti, prevalentemente, sulla lavorazione della scultura in ceramica. Mi racconti delle necessità che hanno guidato un simile percorso? Davide Monaldi/ Ho iniziato con il disegno e per diversi anni mi sono dedicato esclusivamente a quello. Intorno al 2009 ho sentito che disegnare non mi bastava più e ho cominciato a tradurre alcuni dei miei soggetti grafici in scultura attraverso l’utilizzo della ceramica che, sin da subito, ho sentito come il materiale più adatto alla mia sensibilità. GR/ Nel corso del tempo, il tuo legame con la figura è rimasto pressoché immutato, assumendo un ruolo centrale anche in ambito scultoreo. Come è cambiato, invece, il tuo rapporto con il disegno? Che ruolo svolge quest’ultimo nella tua prassi attuale? DM/ Il disegno ha ancora un ruolo fondamentale nella progettazione delle mie sculture, anche se a volte può succedere che inizi a lavorare su un nuovo progetto senza nessuna immagine fisica di riferimento, ma seguendo solo un’intuizione che esiste nella mia mente. GR/ La produzione della ceramica, forse a causa della sua millenaria tradizione, è legata ad archetipi e stilemi predefiniti che sovente ostacolano il suo pieno e concreto sviluppo in ambito contemporaneo. In un simile contesto, la tua indagine condotta sulla materia sembra esprimere una posizione concettualmente indipendente e, per certi versi, inedita. Pensi che il tuo “status” di ceramista autodidatta abbia in qualche modo favorito lo sviluppo di una prospettiva di ricerca autonoma? Più in

- Gregorio Raspa

generale, come ti rapporti con la tradizione e con la storia dell’arte? DM/ Pur avendo fatto studi artistici mi considero un autodidatta. Ho sempre sofferto la scuola in generale e ho sviluppato il mio linguaggio in completa autonomia. La tradizione dell’arte fa parte di me. Con essa mi relaziono quotidianamente, anche in maniera inconscia, ma quando lavoro cerco di fare semplicemente quello che mi diverte e mi fa stare bene. GR/ In un lavoro come il tuo, sempre in bilico tra gioco e sperimentazione, tra pensiero astratto e reale, tra leggerezza e profondità, che ruolo ha l’ironia? DM/ Non posso negare che l’ironia abbia un ruolo importante. È il mezzo che utilizzo per attrarre l’interesse dell’osservatore spingendolo a guardare la realtà da una prospettiva diversa. GR/ Tema ricorrente della tua produzione è l’autoritratto. Nel tempo hai realizzato opere come, ad esempio, Selfportrait from another planet (2017), Autoritratto con cappello (2018), Selfportrait as Carmen Miranda (2020), Me and my multiple personalities having a party (2020). Come nascono simili lavori? Quali sono gli stimoli che alimentano una così ampia e spiazzante galleria di maschere? DM/ Mi piace lavorare con immagini iconiche e reinterpretarle attraverso il filtro delle mie esperienze personali. Utilizzo degli alter ego per parlare di sensazioni intime nelle quali anche altre persone possono riconoscersi. La mia quotidianità, la vita di tutti i giorni con i suoi simboli, sono i focus della mia ricerca e spesso utilizzo immagini universali proprio per esprimere la mia intimità. 4


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a tradizione dell’arte fa parte di me. Con essa mi relaziono quotidianamente, anche in maniera inconscia, ma quando lavoro cerco di fare semplicemente quello che mi diverte e mi fa stare bene.”

GR/ Dei trucioli, degli elastici, dei chewing gum o un mazzo di chiavi. In alcuni tuoi lavori, sembri ricercare la mimesi del reale attraverso la riproduzione di oggetti semplici, di uso comune. Secondo una certa visione filosofica “solo ciò che è vero può essere falsificato”. Nel tuo caso, che significato assume l’esercizio della “falsificazione”? DM/ Non mi interessa la riproduzione fedele dell’oggetto in sé. Attraverso la traduzione scultorea voglio dare dignità a piccoli oggetti che trovo interessanti. Alcuni di questi sono da considerarsi come veri e propri autoritratti, come nel caso dello zerbino o della copia delle mie chiavi di casa. Se tutto si esaurisse nella semplice traduzione plastica di oggetti banali, scelti a caso, l’operazione non avrebbe, a mio parere, molto senso. Gli elementi che attentamente decido di tradurre in scultura spesso sono, nelle mie intenzioni, delle metafore di una specifica condizione o uno sguardo dentro il mio universo personale. GR/ Il tuo è un linguaggio incline alla narrazione. Molti tuoi lavori suggeriscono trame possibili o alludono a storie, forse, incompiute. Quanto conta l’immaginario nella tua poetica? DM/ Moltissimo. È da questo aspetto in particolare che si evince il mio passato da disegnatore. Mi piace creare storie intorno ai miei personaggi riproponendoli spesso in progetti successivi, facendo in modo che non si esauriscano in un singolo lavoro. GR/ Nella tua produzione più recente

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mi sembra di scorgere le tracce di una complessità progettuale sempre più alta e gli effetti di un interesse, via via crescente, per le possibilità spaziali offerte da lavori installativi e ambientali. Più nello specifico, quali sono, oggi, le sfide che alimentano la tua ricerca? DM/ Mi interessa cercare nuove soluzioni compositive ed installative per i miei progetti. Sto cercando anche di sperimentare altri materiali da integrare con la ceramica rendendo così la mia ricerca più complessa e ricca di sfaccettature. In questo percorso, l’elemento figurativo rimarrà sempre presente ma il mio obbiettivo è di reinterpretarlo ogni volta in maniera inaspettata. Da sinistra: ME AND MY MULTIPLE PERSONALITIES HAVING A PARTY, 2020. Ceramica smaltata, 70x29x10 cm. ROGER, 2020. Ceramica smaltata, dimensioni reali. Per entrambe foto © Daniele Ragazzi, courtesy dell’artista e Studio Sales di Norberto Ruggeri.


INTERVIEWS

LA LUCIDA IRONIA DELL’OVVIETÀ Christophe Constantin

- Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Christophe, iniziamo dalla straordinaria opera che hai realizzato appositamente per la copertina di questo speciale numero di SMALL ZINE. Cosa puoi dirci?

questa radicalità, come poter andare talmente lontano nell’astrattismo e nel concetto di pittura da potermi permettere di non fare quasi niente, devo ammettere che con questo progetto mi sono superato.

Christophe Constantin/ Mi piace interrogarmi sul supporto delle mie opere (o sul loro contenitore), quali siano le sue caratteristiche, il suo senso e come appropriarsene integrandolo al dispositivo dell’opera. Con Ma couverture en couverture de SMALL ZINE (la mia coperta in copertina), ho deciso di fare un gesto totalmente dadaista; infatti, con questa ripetizione di parole, sottolineo il paradosso semantico e significante; la stessa parola con il tempo ha preso due sensi diversi, da un lato significa coprire nel senso di nascondere o proteggere, dall’altro (che in Italiano sarebbe la copertina) è una copertura mediatica, che fa vedere, che mette in avanti. Mi ha fatto sorridere, l’ho trovato uno spunto di riflessione interessante e un buon modo per interrogare il supporto copertina, in linea con le mie interrogazioni sulla pittura. Ho immaginato me stesso dire alla mia famiglia o ai miei amici: “Mi hanno chiesto di fare la copertina di una rivista, vuoi vedere la mia copertina?” e di mostrare la foto della mia coperta monocromatica appesa al muro come un quadro. Per me, questo modo di trasformare un oggetto in dipinto, è la pittura per eccellenza, Rauschenberg con my Bed, l’aveva ben capito, anche se devo dire che si era pure stancato di dipingerlo. Dunque io credo che una coperta appesa al muro inglobi già quello che io considero i fondamenti della pittura: superficie e colore. In realtà ho una grande predilezione per il monocromo, per tanto tempo mi sono chiesto come poter raggiungere

LB/ Ovvietà, straniamento, sorpresa. Possono essere questi i sintomi e, al contempo, gli effetti della tua ricerca?

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CC/ L’ovvietà è sempre un ottimo punto di partenza, soprattutto quando si cerca di rappresentare qualcosa che tutti possono riconoscere, una sorta di universalità. Tento di raffigurare il mondo di oggi in contrapposizione con la spettacolarità in cui siamo immersi tutti i giorni e, al contrario, ne presento la banalità. Da questo processo si arriva allo straniamento che lo spettatore può percepire, con i miei gesti interrogo l’arte, la sua storia e il suo ruolo; anche queste sono domande scontate, ma la storia dell’arte è un racconto, e quindi, la sua definizione è in perpetuo mutamento. Nel contesto in cui viviamo oggi, spettacolarizzato come una grande opera, l’arte deve diventare una finestra sulla realtà. Non mi piacciono le metafore, cerco una certa concretezza che riporti lo spettatore nella sua quotidianità. La sorpresa è una speranza che mi pongo sempre con i miei lavori, spero di continuare a sorprendere il pubblico, di averlo già sorpreso e, se così non fosse, sono sicuro di averlo fatto almeno ridere. Credo che quest’ultimo aspetto sia già un buon modo per integrare i fruitori nel dispositivo di un’opera. Una volta abbattuto questo muro si può iniziare a riflettere sul senso profondo dell’opera e sulla stratificazione concettuale che contiene.


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o una grande predilezione per il monocromo, per tanto tempo mi sono chiesto come poter raggiungere questa radicalità, come poter andare talmente lontano nell’astrattismo e nel concetto di pittura da potermi permettere di non fare quasi niente.”

LB/ Dimmi, da dove nascono le tue riflessioni, come si traducono in opere d’arte dall’estrema efficacia visiva e comunicativa?

a spettatore. Lo è ancora di più quando si ritrova davanti ad una cosa d’apparente banalità.

CC/ A dire il vero spesso mi arrivano dal mio vissuto, non dico dalla mia esperienza di vita o dalle mie relazioni, ma proprio da quello che vedo camminando per le strade. C’è gente che si ferma davanti alle vetrine per vedere un paio di scarpe, io mi fermo davanti al nulla per vederci un’opera. Mi piace identificarmi nella figura romantica del Flâneur, cerco di estrarre frammenti di realtà, alcune composizioni o scene che mi colpiscono per la loro assurdità o la loro banalità. Anche se, molto spesso, eseguo qualche modifica per ampliare il discorso, mi capita di trovare delle perle, che sono perfette così come le ho viste, senza il bisogno di aggiungere niente, contengono già una grande stratificazione di significati. Purtroppo il mio lato romantico è sempre in contrasto con il mio lato ironico, e credo che entrambi si possano intuire in ogni mia produzione. Forse è questa complessità, questo cinismo poetico che intriga. Ho sempre in mente un certo equilibrio quando penso ad una mia opera e, al contrario di ciò che si possa pensare, il tempo di riflessione e di progettazione è lungo; non posso dire lo stesso sulla realizzazione. In effetti, spesso nelle mie opere quello che si vede, è quello che è (o la sua rappresentazione); una volta inserito nel dispositivo ARTE, cambia solo l’occhio che il pubblico gli dona. Trovo fantastico questo scivolamento di statuto da individuo

LB/ In definitiva, quanto è dadaista il tuo contemporaneo?

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CC/ Non credo che sia il mio contemporaneo ad essere dadaista, ma è l’occhio che porto sul nostro contemporaneo che ne fa uscire queste assurdità, mi focalizzo su questi dettagli, ma possono essere osservati da tutti. Quello che io tento di fare è farli notare. In un certo modo vado un po’ contro la pratica di Duchamp (o forse oltre), non decontestualizzo l’oggetto ma ricontestualizzo lo spettatore nella sua banalità quotidiana. Lo porto a guardare il mondo in un altro modo, a porre attenzione su piccole cose e a guardarle con un occhio nuovo. Penso di avere, in quanto artista, un dovere morale in questo senso, anche se non mi piace fare il moralista, sarei totalmente fuori luogo. Credo però che dare importanza al niente, sia un atteggiamento molto attuale, ma io voglio fare di più e presentare meno di niente, ed è lì, nel niente, che sono il migliore. Sicuramente sono fuori contesto. Da sinistra: COMPOSIZIONE SENZA SENSO, 2019. Olio su tela, uniposca su plexiglas e acquerello, cartello stradale. Dimensioni variabili. Presentato durante la collettiva “From Tor bella with Love”. A cura di Porter Ducrist, Spazio In Situ, Roma. Foto © Marco De Rosa. Installation view della personale “Transit”, 2021. A cura di Maéva Besse all’Espace Graffenried, Aigle (CH). Foto © Lionel Henriod. Per entrambe courtesy dell’artista.


SPECIAL

UN’AUTENTICA NARRAZIONE COLLETTIVA Loredana Barillaro

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ome si può facilmente notare è chiaro che anche l’impostazione del nostro Special in questo numero non rispetti il solito schema, per quanto sempre molto flessibile. La coerenza sta nella pluralità di voci che si concentra su uno stesso argomento. Ho dunque voluto che insieme a me lo raccontassero anche coloro che, ad ogni uscita, lo rendono quello che è: una casa, una famiglia. Ho chiesto a Valentina, Maria Chiara, Gregorio, Davide, Carla, Sabino, Luca (coloro che costantemente sono qui e che ne sono la parte preziosa) di raccontare la loro esperienza su queste pagine, il loro sentire. Incontri, affinità, fiducia; un percorso, il nostro, in continuo divenire, fatto di rapporti consolidati che partendo dall’arte sono diventati amicizia. Un crescere insieme, uno scoprire il talento e farne tesoro. Per fortuna sono stati tutti clementi, ed è venuto fuori che mi sono commossa a mettere insieme le loro riflessioni. Eccomi dunque, non posso dirvi altro se non grazie per la vostra straordinaria bravura, professionalità ed entusiasmo; non posso che festeggiare con voi questo incredibile compleanno di SMALL ZINE!

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MALL ZINE è un piccolo grande progetto editoriale nonché una delle poche, vere e consolidate eccellenze nate e operative in Calabria nel settore dell’arte contemporanea. Ma non è tutto qui. SMALL ZINE è una realtà dinamica, radicata e tuttavia in continua evoluzione, una miscela creativa, esplosiva, resistente e resiliente (proprio come la sua instancabile e appassionata fondatrice e direttrice, Loredana Barillaro). Soprattutto SMALL ZINE è per me una “famiglia” con la quale ho avuto la fortunata occasione di lavorare a stretto contatto come collaboratrice di redazione oltre che come redattrice di contenuti, intervistando tantissimi artisti e scrivendo d’arte in assoluta libertà espressiva. Questo perché la politica e l’etica di SMALL ZINE è da sempre stata quella di sostenere e valorizzare il personale approccio metodologico di ogni collaboratore nell’osservazione e nella narrazione delle arti e degli artisti contemporanei: un importante valore aggiunto, che oggi non va assolutamente dato per scontato. A SMALL ZINE, dunque, anzi a tutti noi della “SMALL ZINE Family”, auguro altri 100 di questi anniversari. Valentina Tebala

Foto courtesy Valentina Tebala.

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ipercorrere le fasi che hanno scandito il mio rapporto di collaborazione con SMALL ZINE vuol dire fare i conti con gli ultimi nove anni della mia vita. Anni intensi e veloci, segnati da transiti e rivoluzioni, durante i quali molto - forse tutto - è cambiato, ad eccezione, proprio, della mia costante presenza su queste pagine. Il mio primo pezzo per il Magazine venne pubblicato sul quarto numero, in distribuzione nel trimestre OttobreDicembre 2012. A quell’articolo - dedicato a Daniel Buren, per la sezione Show Reviews - ne seguirono molti altri. Oltre settanta, tra interviste e recensioni, testi monografici e di approfondimento - come lo Special del 2013 sullo stato di salute del mercato dell’arte in Italia - realizzati per il Magazine cartaceo o per i suoi spazi fruibili on-line. Animato dal desiderio di scoprire e capire, analizzare e raccontare, ho sempre scelto i contenuti dei miei testi secondo una prospettiva di ricerca personale, privilegiando l’indagine di profili emergenti e consolidate promesse. Una linea incoraggiata e sostenuta dalla Redazione che, negli anni, ha sempre accolto con fiducia e coraggio le mie proposte. Il resto è storia. Quaranta numeri pubblicati in dieci anni. Un traguardo di prestigio che certifica la bontà di un progetto editoriale che, nato dal basso, ha saputo puntare in alto, offrendo uno spazio plurale, oggi divenuto irrinunciabile, di libertà e informazione. Gregorio Raspa Foto courtesy Gregorio Raspa

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MALL ZINE è la porta di accesso al mio percorso di critico nel campo dell’arte contemporanea, la prima pedina di un domino virtuoso che, come una reazione a catena, ha innescato ulteriori collaborazioni e relazioni artistiche. SMALL ZINE è la fiducia che mi è stata accordata quando non ero ancora nessuno, è la mia prima Biennale di Venezia vista con gli occhi di addetta ai lavori, è un contatto nato online divenuto collaborazione reale e poi tradotto in un rapporto solido di stima e di Amicizia. SMALL ZINE è la forza, il coraggio e la lungimiranza di chi - Loredana Barillaro - crede in un progetto, ci investe tutto e lo fa crescere, è l’attenzione e la cura verso coloro che contribuiscono ad alimentare i contenuti di un magazine, a cui di piccolo ora resta solo il nome! Maria Chiara Wang

Foto © Massiel Leza. Courtesy Maria Chiara Wang.

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SPECIAL

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uando Loredana mi prospettò l’idea di realizzare un progetto editoriale che puntasse alla promozione dell’arte contemporanea mi sorsero molti interrogativi e molte perplessità sulla mia partecipazione. Sapevo poco di arte e poco di editoria. Iniziai a studiare le varie fasi di lavorazione editoriale partendo dalla lettura degli articoli, dalla correzione delle bozze, dai rapporti con gli artisti, copyright, carta, immagini, modalità di stampa, etc. Un mondo, quello della redazione, del tutto nuovo e affascinante, da esplorare e studiare. Far parte di una redazione è avvincente e molto gratificante, soprattutto quando si ha, poi, la rivista in mano. Ho imparato a gestire i social, fare interviste per Photo.&.Food, la sezione che mette insieme le mie passioni, l’arte e il cibo. Oggi, dieci anni dopo, nutro ancora ammirazione per le infinite sfaccettature a cui l’arte ci apre. Luca Cofone Foto © Ernestantonio Cofone.

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icordo ancora la sensazione che ho provato nello sfogliare il primo SMALL ZINE che conteneva una mia small talk: orgoglio. Sì, perché non si tratta di un semplice magazine di arte contemporanea, ma di una vera e propria opera di design. Minimal e ricercato allo stesso tempo; bello da lasciare lì, sulla scrivania dello studio; leggero nelle fattezze ma corposo nei contenuti. Con gli anni ho imparato a riconoscere lo stile di ognuno dei miei colleghi; che grande fortuna poter leggere le loro penne su SMALL ZINE! Ma, soprattutto, ho imparato ad apprezzare non solo la Direttrice, ma la donna straordinaria che porta avanti questo progetto, da tanti anni, con onestà, caparbietà, sobrietà; doti rare di questi tempi. La ringrazio per la fiducia che ha riposto in me nel tempo, per la totale libertà d’espressione che mi ha concesso e, soprattutto, per aver fatto da ponte tra me e le decine di artisti che ho avuto il piacere e l’onore di intervistare. Carla Sollazzo Foto courtesy Carla Sollazzo.

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’arte è fatta di destini incrociati. Quando incontrai sulla mia strada SMALL ZINE era esattamente il tipo di giornale d’arte che volevo leggere: fresco ed essenziale nella sua professionalità e nel rigore. È stato naturale cominciare a collaborare per fotografare insieme lo sviluppo dell’arte contemporanea italiana. Il continuare a scrivere e collaborare con Loredana è stato un modo per fissare contenuti e anche cogliere opportunità di raccontare storie di grandi artisti amici. Le mie interviste sono quindi state spesso la sintesi di anni di conoscenza per raccontare l’animo più profondo degli artisti: da Franco Mazzucchelli a Fulvio Morella (in questo numero) al bravissimo e compianto Giovanni Gastel la cui intervista è frutto di un indimenticabile pomeriggio con un calice di vino, il mio ritratto in stampa e infinite riflessioni sulla sua vita e la storia della fotografia. In fondo SMALL ZINE è come Giovanni definì in quell’occasione l’arte: una discreta continua tensione per uscire dal buio e tendere al sublime. Sabino Maria Frassà

Foto © Giovanni Gastel. Courtesy Sabino Maria Frassà.

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MALL ZINE è una delle poche realtà che mi fa ancora credere sulla possibilità effettiva di raccontare l’arte contemporanea, in modo competente e, soprattutto, autentico; lontano dalle dinamiche clientelari che, spesso, pregiudicano le scelte editoriali. Sulla base di questo concetto, riconosco in SMALL ZINE il risultato di un progetto di successo proveniente dalla cosiddetta “periferia dell’arte” che, distante dagli ambienti salottieri e dai circuiti ufficiali, grazie all’impegno e alla preparazione dei fondatori, è riuscito a strutturare, in poco tempo, un’offerta culturale e di lettura di evidente qualità, se non migliore di tanti altri attori del settore ben più blasonati, che, quasi per automatismo di classe, portano solo avanti la propria “azienda di famiglia”. Diversamente, SMALL ZINE nasce da una vocazione. Ne sono chiara dimostrazione, la crescita dell’autorevolezza dei punti di distribuzione, le ricerche artistiche di primo ordine ospitate nelle pagine della rivista e le professionalità delle penne che vi scrivono. Davide Silvioli

Foto courtesy Davide Silvioli.

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FIGLIO DI ZOCCOLO Nicolas Ballario

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hi fa il mio mestiere dunque non abbia paura di non riuscire a definirlo. Siate tutto e niente, fregatevene. Quando vi chiederanno cosa fate rispondete sono un figlio di zoccolo.”

Jep: Senta, Talia Concept parla di cose di cui ignora il significato. Io di lei, finora, ho solo fuffa impubblicabile. Se lei crede che mi lasci abbindolare da cose tipo “sono un artista non ho bisogno di spiegare”, è fuori strada. Il nostro giornale ha uno zoccolo duro di pubblico colto, che non vuole essere preso in giro. Io lavoro per lo zoccolo. Talia: Ma allora perché non mi lascia parlare del mio accidentato, sofferto, ma indispensabile percorso da artista? Jep: Ma indispensabile a chi? Santo Cielo, signora, che cos’è una vibrazione? Talia: Non lo so che cos’è una vibrazione. Jep: Non lo sa. Talia: Non lo so. Jep: Non lo sa. (Da La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino: dialogo tra Jep Gambardella e Talia Concept).

Talia: Piaciuta la performance? Jep: A tratti. Quella testata violenta mi ha fatto capire molte cose. Allora, cominciamo dall’inizio. Talia: Partiamo dalla fine. Sa, Talia Concept è una gran provocatrice. Jep: Ma non sprechi energie. Ci sono cose molto più importanti che provocare me. E poi questa abitudine di parlare di sé in terza persona, sta diventando insostenibile. Dunque, cosa legge lei? Talia: Non ho bisogno di leggere, vivo di vibrazioni, spesso di natura extrasensoriale. Jep: Abbandonando per un istante l’extrasensoriale, che cosa intende lei per vibrazioni? Talia: Come si fa a spiegare con la volgarità della parola la poesia della vibrazione? Jep: E non lo so, ci provi. Talia: Io sono un’artista, non ho bisogno di spiegare un cazzo. Jep: Bene, allora scrivo “vive di vibrazioni, ma non sa che cosa sono”. Talia: Comincia a non piacermi quest’intervista. Percepisco da parte sua una conflittualità. Jep: La conflittualità come vibrazione? Talia: La conflittualità come rottura di coglioni. Parliamo dei maltrattamenti che ho subito dal fidanzato di mia madre. Jep: No. Io voglio sapere che cos’è una vibrazione. Talia: Il mio radar per intercettare il mondo. Jep: Eeeh ‘u radar… vale a dire? Talia: Lei è un rompicoglioni. Senta, siamo partiti male. Talia Concept ci tiene all’intervista con il suo giornale, ha tanti lettori. Ma lei è prevenuto. Perché non la fa parlare del suo fidanzato con il quale fa l’amore 11 volte al giorno e che è un artista concettuale mica da poco: rielabora palloni da basket con i coriandoli. Un’idea sensazionale.

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i sono mangiato la metà dello spazio di questo pezzo con questo dialogo perché vorrei risolvere un equivoco. Capiamoci: amo Sorrentino, amo quel film e questo dialogo è meraviglioso. C’è però questo malinteso che ha fatto male al mondo dell’arte contemporanea: Talia Concept non c’è e se c’è non campa d’arte. Io mi occupo di comunicazione applicata al mondo dell’arte contemporanea e quel film mi ha illuminato perché (anche se io non ho il potere di fare o disfare una festa) ciò a cui deve ambire chi fa il mio mestiere è proprio l’attenzione dello “zoccolo”. La pretesa di aprire il mondo dell’arte contemporanea al grande pubblico è, oltre che irrealizzabile, sbagliata. Irrealizzabile perché non sarà mai una disciplina di massa, se non in rarissimi casi; sbagliata perché la ricerca del consenso è l’opposto dell’arte. Non è male che in un mondo in cui tutto è superficiale, ci sia finalmente qualcosa che necessiti invece di un approccio profondo. Ecco, con le mie rubriche sui giornali e le trasmissioni in radio e tv io questo zoccolo voglio consolidarlo, certamente allargarlo, ma francamente non m’importa nulla che l’arte contemporanea cambi se stessa per poter arrivare a tutti. Negli ultimi anni tutti i direttori di museo, gli artisti, i curatori, i galleristi e i collezionisti più seri cercano il dialogo con i media e il linguaggio si è fatto più fluido e comprensibile, senza però spingersi verso la banalizzazione. Il problema di chi si occupa di comunicazione nel mondo dell’arte è la voglia di uno schieramento netto tra due opzioni. La prima è quella di fare l’eroe del popolo, parlare male di tutto e di tutti e sostenere artisti didascalici e ruffiani. La seconda è quella di rivolgersi solo agli addetti ai lavori, cercando una apparenza di nobiltà di scrittura e dialogo. Ecco invece il mondo dell’arte 10

PEOPLE ART

contemporanea è l’esatto opposto, è un mondo libero e non definito, incostante e confuso nel migliore senso del termine. È un mondo dove si prende posizione non rimanendo mai fermi. Io stesso quando mi chiedono che lavoro faccio non so cosa rispondere e ogni volta che mi chiedono “cosa scriviamo come carica?” dico “fate voi”. A seconda dei casi mi definiscono: giornalista, curatore, critico, divulgatore… La verità è che non sono nulla di tutto questo, ma non mi offendo se qualcuno decide che in quel caso io debba indossare una certa casacca rispetto a un’altra. Ho avuto la fortuna di poter vedere il mondo dell’arte sotto molti punti di vista e posso individuare alcune persone come punti di riferimento o compagni di strada: fu il direttore di Radio Radicale Massimo Bordin il primo a mettermi un microfono in mano e dirmi “parla”, insegnandomi a fare la radio; Umberto Allemandi ad avere il coraggio di darmi una rubrica sul Giornale dell’Arte quando avevo vent’anni; la mia grande amica (e ora anche socia di una piccola impresa con la quale ci divertiamo a fare mostre per bambini) Iole Siena, presidente di Arthemisia, a buttarmi nella mischia del complesso mondo dell’organizzazione e produzione di mostre; Achille Bonito Oliva a co-condurre con me la prima trasmissione dedicata interamente al contemporaneo su RadioRai; i vertici di Sky Arte Roberto Pisoni e Dino Vannini, che hanno fatto un canale che riesce a essere autorevole pur senza prendersi troppo sul serio e non banalmente didattico (cosa più unica che rara quando si parla di cultura), a mettermi davanti allo schermo; soprattutto è stato il mio grande maestro Oliviero Toscani a insegnarmi a non avere paura del futuro, a sperimentare con ogni medium, perché la cultura visiva è la vera chiave della comunicazione moderna (voi mi direte “che ce ne frega di sentire questi nomi?” e io vi rispondo “magari niente, ma per una volta che mi chiedono in un pezzo di parlare di me, lasciatemeli ringraziare). Non posso citare tutte le esperienze e ce ne sono state di molto importanti, ma il punto è che la comunicazione applicata all’arte contemporanea, sotto qualunque forma, la si può fare solo se si ha una visione totale e ravvicinata, dall’interno, del contesto di oggi. Chi fa il mio mestiere dunque non abbia paura di non riuscire a definirlo. Siate tutto e niente, fregatevene. Quando vi chiederanno cosa fate rispondete “sono un figlio di zoccolo”. Nicolas Ballario è Critico d’arte e Giornalista, Conduttore di RadioRai e Sky Arte. A destra: Un ritratto di Nicolas Ballario. Foto © Fabrizio Spucches. Courtesy Nicolas Ballario.


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DESIGN.ER

LA CONCRETA NECESSITÀ DEL PROGETTO Marco Tortoioli Ricci

- Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Marco, un designer della comunicazione non disegna oggetti. Cosa fa, allora?

LB/ Quanto è importante per il successo di un brand la realizzazione di un buon “sistema di comunicazione”? Riesci facilmente a legare l’indole artistica ad esigenze più marcatamente commerciali?

Marco Tortoioli Ricci/ In realtà ci occupiamo anche noi di oggetti, vera differenza è che sono per lo più immateriali. Il nostro “oggetto” principe è la percezione. Rendere più o meno leggibile un’informazione. Alla fine, certo, ci sono libri, allestimenti, cataloghi, manifesti, applicazioni, piattaforme digitali, grafica animata, caratteri tipografici, tutto questo è un insieme di oggetti al dunque. Ma sarebbe sbagliato limitare la descrizione del lavoro di progetto di un designer della comunicazione alla produzione di quelli che Giovanni Anceschi aveva definito “artefatti visivi”. Oggi il designer della comunicazione si trova ad operare in scenari complessi in cui gli attori con cui condividere il processo di lavoro sono tanti. Spesso prima che a progettare oggetti siamo chiamati a deciderne l’effettiva necessità, ad analizzare gli scenari all’interno del quale lo scambio di comunicazione avviene, i fattori critici che possano alternarne l’effettiva trasmissibilità, in altre parole quella che nel mio corso all’Isia di Urbino definisco “drammaturgia del progetto”.

MTR/ Ce lo spiega il grande Gillo Dorfles nel suo L’intervallo perduto quando chiarisce come l’indispensabilità dell’opera d’arte si fondi sulla capacità di generare quella che, prendendo in prestito un termine russo, spiega come “ostranenie”. È questo che chiediamo al progetto di branding oggi, riuscire tramite la sua “architettura di sistema” a produrre meraviglia, sorpresa, rivelazione. È in virtù di questa recente esigenza che le collaborazioni di grandi corporation con il mondo della produzione artistica si sono fatte più frequenti. Molto di recente ci è capitato di lavorare con un sound artist per il progetto di una installazione in un bosco italiano per raccontare, secondo la chiave invocata da Dorfles, l’impegno di un noto marchio italiano produttore di parquet nella gestione di una filiera certificata nella lavorazione del legno. Un efficace sistema di comunicazione deve saper coprire oggi i tanti piani di relazione che un brand deve poter intrattenere con l’utente (ho smesso da tempo di usare la parola consumatore) e non mi riferisco solo alle piattaforme digitali e al mondo social. Intendo ribadire come alle imprese oggi sia richiesto di affermare energicamente quale sia la loro visione sul mondo circa molte delle sfide che ci occupano oggi, dal cambiamento climatico, alle nuove economie, il rispetto del lavoro e i diritti dei territori in cui operano e da cui traggono energia e credibilità.

LB/ Cosa vuol dire “progettare un’identità visiva”. Pare che nessun progetto o rassegna oggi possa farne a meno… MTR/ Servirebbe ben più di un’intervista per rispondere, perché dovremmo cominciare con il mettere in crisi il concetto stesso di identità. Partiamo però da un riferimento storico. Quello che oggi chiamiamo identità visiva fino a buona parte degli anni ’90 veniva riconosciuto come progetto di immagine coordinata o “corporate identity” per usare il diffuso lemma anglosassone. Dovremmo rivedere il lavoro di figure chiave come Peter Beherens o più tardi Otl Aicher. Ma c’è un episodio che più di altri spiega la ragione del passaggio al concetto di “sistema” o “ecosistema” come io preferisco definirlo. Parlo delle olimpiadi di Messico ’68 e del progetto seminale per l’identità visiva della manifestazione progettato da Lance Wyman in collaborazione con il team guidato dall’urbanista Eduardo Terrazas. Il progetto è conosciuto per la sua capacità di combinare op-art e artefatti dei nativi. Ma quell’Olimpiade fu preceduta dalla tragedia in cui sfociarono le proteste studentesche. In quell’occasione la polizia sparò ad altezza della folla e molti studenti rimasero uccisi. I protestanti usarono, reinterpretandolo, lo stesso sistema visivo della manifestazione sportiva per usarlo come simbolo della protesta. Da quel momento abbiamo capito che un sistema di identità comprende non solo quello che discende direttamente dall’azione progettuale che lo determina, ma deve saper includere anche le “appropriazioni” più o meno controllabili che le comunità a cui si rivolge possono determinare.

Marco Tortoioli Ricci è Designer della Comunicazione, Presidente di AIAP, Fondatore di Bcpt Associati, Presidente di Comodo e Docente all’Isia di Urbino e all’ABA di Perugia. Dall’alto: Frame tratto dal video RESONATING TREES girato nella foresta di Città della Pieve per il marchio Listone Giordano. Progetto premiato dalla Presidenza della Repubblica per l’innovazione nel 2020. Un ritratto di Marco Tortoioli Ricci. Foto © Simone Casetta. Per entrambe courtesy Marco Tortoioli Ricci.

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PHOTO.&.FOOD

CHIAROSCURI VISIVI Andrea Tedeschi

- Luca Cofone

Luca Cofone/ Andrea, perché realizzi foto di cibo? Cosa ti ha fatto innamorare della Food Photography? Scatti in modo “puro” o ritieni indispensabile la postproduzione? Andrea Tedeschi/ Partiamo da un fatto: amo mangiare, soprattutto mangiare bene, e scoprire prodotti, ingredienti e pietanze. Ho coniugato questa mia passione con quella per la fotografia. Ero impegnato soprattutto in ingaggi per i matrimoni, avevo voglia di cambiare e anche grazie a un corso a Milano ho trovato nuovi spunti e ispirazioni. Quanto alla postproduzione, c’è sempre. Parliamo di contrasti e colori, ma l’immagine dello scatto non deve perdere la sua autenticità. LC/ Quale rapporto pensi si debba instaurare tra il fotografo e il cibo da fotografare? Che cos’è che decidi di raccontare attraverso i tuoi scatti? AT/ Rispetto per il cibo, a 360 gradi. Per me la foto è la fine di un percorso studiato in base agli ingredienti che voglio esaltare. Guardo ricette su libri di cucina e riviste di settore, vado al mercato a scegliere le materie prime, cucino e impiatto quasi sempre io. È anche un recupero della memoria di famiglia, ripropongo piatti cucinati da mia mamma o assaggiati durante gli anni. Fra l’altro sto coinvolgendo un gruppo di amici nella realizzazione di un libro fotografico sulla base delle ricette dei ricordi. Ognuno sceglie un piatto che, per qualche motivo, porta nel cuore. Lo realizziamo a casa sua. È divertente, sarà un puzzle gastronomico-goliardico. LC/ Esperimenti visivi o immagini comunicative? Come ritieni le tue foto? Quali le forme e i colori che più attraggono il tuo occhio? AT/ Più esperimenti visivi. Ombre, chiaroscuri, accostamento di colori. Prediligo le tinte forti, sature. L’aglio rosso è una meraviglia che non ha bisogno di elaborazioni. Le forme del baccello di un pisello, o la franchezza di uno spaghetto con le vongole, nella semplicità spesso si cela la sorpresa più grande. Bisogna saperla vedere. LC/ Oltre al fondamentale impatto visivo che una foto deve suscitare, cosa fai per rendere al meglio la comunicabilità di un progetto? Quando, secondo te, una foto diventa opera d’arte? AT/ Quando presento una foto, di solito la corredo con un commento che non per forza descrive l’immagine. La foto deve parlare da sola, la frase è un corredo. Quanto all’opera d’arte, non penso sia compito dell’autore decidere se il suo scatto sia riuscito o meno. Sono gli altri a giudicare.

Andrea Tedeschi è Food Photographer. Dall’alto: UNTITLED, 2021. UN PUNTO GIALLO, 2020. Per entrambe courtesy © Andrea Tedeschi.

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GALLERY.ST

TENACIA, ARTE E PASSIONE Giorgia Lucchi Boccanera

- Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Giorgia, qual è il percorso che hai compiuto e che ti ha portato ad aprire la tua galleria?
 Giorgia Lucchi Boccanera/ Dopo la laurea al Dams di Bologna, fortunatamente, ho avuto subito modo di lavorare in una galleria d’arte contemporanea. Sono sempre stata curiosa di approfondire il mondo dell’arte. Il grande entusiasmo, la passione incontenibile, lo studio e la tenacia mi hanno spinta ad un secondo passaggio come art consultant. Ricordo che avevo trasformato il mio appartamento in un luogo d’incontro per artisti e critici. La mia casa senza volerlo era diventata uno spazio espositivo: le pareti bianche arricchite di opere d’arte, una grande libreria, un divano-letto, un frigorifero, un bancone per gli aperitivi e il pavimento di legno da me ridipinto di grigio per valorizzare le sculture. Mi viene da sorridere a ripensarci!
Allora abitavo in un quartiere periferico di Trento, a fianco di un’autorimessa dismessa, diventata una foresta che ospitava auto e autobus; un posto incredibile se fossi stata a Londra! La terza tappa, ossia la decisione di aprire la mia galleria, è nata dal caso, quando il caso non esiste: un amico di lunga data aveva accompagnato una facoltosa signora trentina al mio appartamento e gli avevo suggerito di non accendere né le luci esterne al mio palazzo né quelle del giroscale, per evitare che avesse dei ripensamenti. Quello è stato l’appuntamento fondamentale che ha dato il via alla mia avventura a realizzare un sogno, che poi è diventato la mia professione.
Nel 2007 ero pronta a crescere insieme agli artisti miei coetanei (o appena usciti dalle Accademie), e a nuovi e giovani collezionisti; grazie al fatto che le gallerie che mi avevano preceduta e i musei sul territorio avevano creato un diffuso interesse per l’arte rendendola sempre meno vezzo esclusivo di un’élite.
Anche la tipologia degli spazi espositivi della prima sede era una novità per Trento. A diventare una galleria erano infatti le stanze di una casa di inizio secolo con la tipica struttura architettonica e il giardinetto, questa volta (!) in una zona residenziale.
 LB/ Boccanera Gallery è una realtà internazionale, al contempo segui molti artisti della scena trentina, cos’è che apprezzi nel linguaggio che utilizzano? GLB/ Il Trentino è un territorio che ha sempre offerto grandi talenti artistici, basti pensare a Giovanni Segantini, Tullio Garbari, Umberto Moggioli, Fortunato Depero. Come gallerista ho la fortuna di vivere in un posto fortemente intriso di culture e di storia ed è con grande soddisfazione e piacere che seguo, supporto e promuovo i “nuovi” artisti trentini, ciascuno per le forti personalità espresse nelle loro opere. In ragione della loro ricerca artistica, profonda e persistente e con le rispettive peculiarità: da una pittura altamente evocativa, ricca di spunti di riflessione (Veronica de Giovanelli), alla figurazione provocatoria e antifashion (Dido Fontana), alla ricerca tecnica così attuale sul binomio artificio-natura (Federico Seppi), fino al dinamismo del colore nella rappresentazione del mondo ordinario dei mass media (Andrea Fontanari).
 LB/ L’attenzione che poni verso artisti che lavorano nell’Est Europa sembra essere una costante del tuo lavoro, me ne parli? GLB/ Ho iniziato nel 2010 a guardare oltre i confini nazionali, avvicinandomi sempre più alla cultura dell’Est Europa con scambi sia di artisti che di curatori avviando progetti di ricerca perché sono sempre stata convinta che la ricerca di artisti capaci e impegnati ad esprimere il nuovo sia libera da vincoli territoriali. Ho osservato come in questi Paesi dell’Est e del Sud-Est Europeo sia possibile perseguire progetti di alta qualità e di respiro internazionale, liberi da vincoli precostituiti da sistema che in molti luoghi comprimono l’arte contemporanea. È stato interessante osservare lo scambio di specifiche riflessioni cariche di stimoli e di progetti legati alle diverse sensibilità e provenienze, tutti unitamente tesi all’innovazione continua e all’apertura di orizzonti artistici sperimentali. 14

Giorgia Lucchi Boccanera è Direttrice di Boccanera Gallery di Trento. Dall’alto: Un ritratto di Giorgia Lucchi Boccanera. Foto © Alessio Righi. Debora Hirsch, ATÉ AQUI, veduta della mostra, fino al 13 novembre 2021. Per entrambe courtesy Giorgia Lucchi Boccanera.


SMALL TALK

IL BRAILLE E IL LEGNO PER UN’ARTE INCLUSIVA Fulvio Morella

“H

o sempre vissuto con una certa frustrazione il non poter toccare le opere: un artista pensa e ragiona anche con le mani e perciò ho sempre voluto che le mie opere fossero toccate dal pubblico.”

Sabino Maria Frassà/ Dal 1999 realizzi opere in legno tornito. Solo da pochi anni hai però deciso di mostrarle in pubblico. Come mai? Fulvio Morella/ Nel mondo dell’arte è stato detto e fatto tanto. Secondo me è fondamentale mostrare e dire qualcosa soltanto se è veramente originale e se può far progredire il contesto in cui si opera. Il rischio di autoreferenzialità è altrimenti molto alto. SMF/ Dopo il successo di Square the Circle e Deep Oval presenti il progetto artistico Blind Wood prima da Gaggenau DesingElementi e poi all’Istituto dei Ciechi di Milano. È un progetto complesso che unisce scultura, legno, braille. Come nasce?

- Sabino Maria Frassà

FM/ Da un lungo percorso per portare l’arte a evolvere in una direzione e con un approccio realmente olistico e inclusivo. Ho sempre vissuto con una certa frustrazione il non poter toccare le opere: un artista pensa e ragiona anche con le mani e perciò ho sempre voluto che le mie opere fossero toccate dal pubblico. Blind Wood completa tale approccio “tattile”, anche se nasce dal ripensare a mie passate esperienze professionali informatiche volte all’inclusione lavorativa delle persone ipovedenti. L’approccio olistico si è quindi fuso con la dimensione di inclusione: ho così lavorato a opere che non abbiano bisogno di alcuna intermediazione per essere fruite anche da chi ha problemi di vista. SMF/ Quindi si tratta di opere per ciechi? FM/ Assolutamente no, a me non interessa creare opere per pochi. L’arte è, o dovrebbe essere per tutti, molto più democratica di quello che pensiamo e di quello che è di fatto l’arte museale oggi. Le mie opere premiano la diversità: ognuno di noi non solo percepisce, ma vive l’opera d’arte in modo unico. Così le mie opere sono quadri-scultura, caratterizzate da forme geometriche, solo apparentemente astratte. In realtà le forme sono modellate a partire dalle fattezze di oggetti reali e sono spiegate attraverso scritte in braille riportate sull’opera, che hanno anche una fondamentale funzione estetica e compositiva. Blind Wood è perciò una 15

fusione del reale nell’arte. Del resto, i confini sono propri dell’essere umano, non dell’arte che dovrebbe invece combatterli. Che senso ha lo schematizzare l’espressione artistica in arte e design? In fotografia, pittura o scultura? Spero che le mie opere siano fonte di dialogo e collaborazione: l’ottimo sarebbe che il pubblico vivesse in modo corale i miei quadri, aiutandosi gli uni con gli altri nel tentativo di viverli pienamente. SMF/ Queste opere sono quindi quadri? FM/ Sono tante cose. In tutte le mie opere emergono consapevoli riferimenti ai maestri del passato come a Vasarely e Fontana. Non a caso fulcro della mostra “Pars Construens” da Gaggenau è il fatto che l’essere umano progredisca assimilando, mai distruggendo. Per quanto riguarda l’evoluzione della pittura e dell’idea stessa del quadro come manufatto da appendere è perciò chiaro il riferimento alla rivoluzione della Bieca Decorazione dei quadri gonfiabili di Franco Mazzucchelli. Spero perciò che i miei Blind Wood possano continuare in tale direzione apportando un rivoluzionario contributo fatto di legno, braille ed esperienza tattile. Dal ciclo BLIND WOOD, in mostra da Gaggenau DesignElementi di Milano, fino al 25 febbraio 2022. Foto © Francesca Piovesan. Courtesy dell’artista.


SMALL TALK

TRANSITO MENTALE Massiel Leza

“L

’erotismo è il modo di osservare le cose. È una componente naturale e centrale dell’essere umano che ritrovo in tutto. È uno sguardo innato con cui mi relaziono da quando ero piccola.”

Maria Chiara Wang/ L’identità è uno dei temi centrali della tua poetica: da dove nasce l’interesse per questo argomento e come lo sviluppi nelle tue opere? Massiel Leza/ Parte tutto da me: sono una bambina che voleva cambiare sesso, ma che ha avuto paura di intraprendere il percorso del vero cambiamento. Il transito di cui parlo nei miei lavori è un transito mentale che vivo ogni qualvolta cambio d’immagine (per l’appunto mentalmente) per assumere un aspetto o un carattere diverso, per diventare chi ho bisogno di essere; ciò accade nella vita quotidiana e si amplifica nell’atto sessuale. Cambio ogni giorno e gli autoritratti sono la traduzione pittorica dei volti con cui mi identifico di volta in volta. Citando il filosofo spagnolo

- Maria Chiara Wang

Paul Preciado, ho deciso di restare una “bio-donna”, una persona transitale, nogender, lontana da qualsiasi definizione di genere imposta dalla nostra società.

incontro sessuale, ma che nasce anche nel semplice desiderio di una lettura priva di sovrastrutture come quella dei versi di Jairo Anibal Niño.

MCW/ Un altro soggetto ricorrente nella tua produzione artistica è quello erotico: in che modo e misura le tue origini incidono nella sua trattazione e da che prospettiva lo affronti?

MCW/ Digitale e analogico: in che rapporto sono nella tua ricerca?

ML/ L’erotismo è il modo di osservare le cose. È una componente naturale e centrale dell’essere umano che ritrovo in tutto. È uno sguardo innato con cui mi relaziono da quando ero piccola grazie ad una madre, la mia, che mi ha sempre parlato senza tabù e che mi ha lasciato vivere anche la sessualità apertamente e liberamente. In alcune opere - come nella serie fotografica Eros(o) - stempero la pornografia, la denaturalizzo, rendendola più nebulosa e astratta, riducendola alla sua essenza epidermica, in altre - come nei disegni del ciclo Misteri Lussuriosi le immagini sono più dirette ed esplicite in aperta polemica con una Istituzione che ha sempre censurato questo aspetto. L’erotico è, inoltre, la perfezione, quella che, a livello poetico ad esempio, trova il suo apice nei versi di Patrizia Valduga, che riesce a tradurre in rima le sensazioni che preludono o che accompagnano un 16

ML/ Nasco come artista analogica, dipingendo inizialmente con la pittura a olio. Solo nel 2017, in occasione del mio Erasmus a Bologna, mi sono avvicinata all’acquerello, tecnica più complicata che mi ha richiesto un intero anno di pratica quotidiana prima di raggiungere il livello accademico desiderato e di potermi concedere quegli errori intenzionali (le sbavature) che mi consentono di trattare i temi del transito e del movimento. Il digitale, invece, è entrato nel mio lavoro durante il lockdown quando mi è stata donata una tavoletta grafica. Da quel momento in poi ho cominciato a mixare le due tecniche: a volte dipingo degli acquerelli che poi scannerizzo e rielaboro digitalmente, altre volte, solo sul piccolo formato, intervengo sulla stampa dell’autoritratto creato a video diluendone l’inchiostro. AUTORITRATTO, 2019. Acquerello su carta Fabriano 600 g. Fronte e retro, 50x70 cm. Courtesy dell’artista.


SMALL TALK

SU SUONO E MATERIA Jacopo Mazzonelli

“I

l suono, organizzato o meno che sia, è un fenomeno totalizzante: pur essendo trasparente, il suono “tocca”. Il mio lavoro cerca la fonte, ossia il gesto che lo rende possibile.”

- Davide Silvioli

e curiosità per la sperimentazione. Ma non solo. Andando indietro nel tempo, anche di molto, troviamo elementi di interesse musicale in Pitagora, Keplero, Platone, Goethe e Tolomeo, solo per citarne alcuni. Per riprendere la tua domanda, probabilmente in passato abbiamo avuto a che fare più con i rapporti tra arte e musica. Oggi possiamo invece parlare di relazioni tra visibile e udibile, tra suono e materia, tra palpabile e impalpabile. DS/ Rispetto ai mezzi, ai materiali, all’estetica e alle intenzioni, quali sono le costanti del tuo lavoro?

Davide Silvioli/ Lo studio del rapporto fra arte e musica ha determinato, in passato, l’evoluzione della ricerca artistica. Cosa vedi, oggi, nell’approfondimento di questo binomio? Jacopo Mazzonelli/ Oggi assistiamo sicuramente ad un ulteriore incremento delle relazioni tra le diverse discipline del contemporaneo, e i pubblici specialistici delle stesse mostrano grande disponibilità

JM/ Sono sempre stato un fanatico di Glenn Gould, il pianista canadese celebre per le sue interpretazioni inconfondibili e irriverenti del repertorio pianistico e per la sua intelligenza acuta e pungente. Fin da piccolo ho collezionato le sue registrazioni, i suoi scritti, i vinili e qualunque cosa lo riguardasse. Poi, un giorno, ho rivisto una sua videoregistrazione e ho spento l’audio. Da quel momento ho messo sostanzialmente a fuoco la mia ricerca. Il suono, organizzato o meno che sia, è un fenomeno totalizzante: pur essendo trasparente, il suono “tocca”. Il mio lavoro cerca la fonte, ossia il gesto che lo rende possibile. 17

DS/ Attraverso quali nuove direzioni operative ti sta portando la sperimentazione? JM/ Negli ultimi anni ho recuperato il mio rapporto con lo strumento musicale. Ho prodotto, in collaborazione con il compositore Matteo Franceschini, una serie di performance. Dal punto di vista visivo, ho ripreso l’utilizzo del colore e focalizzato la ricerca sui materiali che dialogano e interagiscono con il suono, come ad esempio i velluti da sipario, la struttura dei pannelli fonoassorbenti, le tavole lignee che compongono la tavola armonica di un pianoforte. Parallelamente sto elaborando un progetto di più ampio respiro, che coinvolga direttamente lo spettatore. Come i sette pianoforti (ABCDEFG, 20162017) si pongono a metà strada tra opera d’arte silenziosa e strumento musicale vero e proprio, immagino un nuovo progetto nel quale l’opera si completa attraverso la presenza del corpo umano. ANTIPIANO, 2021. Tasti di pianoforte, acciaio, feltro, 8x59x18 cm. Courtesy dell’artista e Galleria Studio G7, Bologna.


stefano cescon con l'opera honey box panel #1420 (2020) è l’artista vincitore dell’viii edizione del premio cramum per l’arte in italia a cura di sabino maria frassà in occasione dell’apertura della mostra internazionale (la) natura (e’) morta? villa mirabello, milano



Shozo Shimamoto a cura di Italo

Tomassoni

19 settembre 2021 - 9 gennaio 2022

Foto :Fabio Donato - Progetto grafico: Pasquale Napolitano

Via del Campanile 13, Foligno (PG) +39 3408678214 areaistituzionale@fondazionecarifol.it


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