ISSN 2283-9771
Magazine di arte contemporanea / Anno VI N. 24 / Trimestrale free press
SMALL ZINE
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OTTOBRE NOVEMBRE DICEMBRE 2017
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SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea
OMMARIO
TALENT TALENT 3
UN PENSIERO STORICO E METAFORICO Francesco Arena - Gregorio Raspa
INTERVIEWS 4
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“LAND ART SATELLITARE” Max Serradifalco - Maria Chiara Wang LʼIMPORTANZA DI UN CIELO AZZURRO Andrea Tonellotto - Loredana Barillaro NEL LUOGO DELLʼENUNCIAZIONE Elena Bellantoni - Gregorio Raspa
SPECIAL 10
ARTE & PSICOLOGIA con Stefano Ferrari, Micla Petrelli, Mona Lisa Tina - Loredana Barillaro
PEOPLE ART 12
UNA CORAGGIOSA CERTEZZA Giulia Ponziani
SHOWCASE 14
JONATHAN TEGELAARS a cura di Pasquale De Sensi
SMALL TALK 16
ASINUS IN CATHEDRA Giulio Vesprini - Maria Chiara Wang
SHOW REVIEWS 17
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ANIME. DI LUOGO IN LUOGO MAMbo - Bologna - Valentina Tebala ENCHANTED NATURE Palazzo Mora - Venezia - Anna de Fazio Siciliano
Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info 3393000574 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Valentina Tebala, Maria Chiara Wang, Gregorio Raspa, Pasquale De Sensi, Anna de Fazio Siciliano Con il contributo di: Giulia Ponziani © 2017 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.
In copertina Jonathan Tegelaars, RECUPERARE ARMONICHE RUBATE, 2016. Collage, 25x32 cm. (part.) Courtesy dellʼartista.
TALENT TALENT
UN PENSIERO STORICO E METAFORICO Francesco Arena
- Gregorio Raspa
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operativo basato sul rigore e sull’esattezza dei suoi meccanismi di oggettivazione. L’intento di una siffatta prassi scultorea è quello di ridurre in forme minimali strutture epistemologiche complesse; cristallizzare la coscienza storica di un evento nella processualità che conduce alla sua trasposizione. In quest’ottica, ciò che residua dalla manipolazione cognitiva e materiale di quanto in uso all’artista è da intendersi come la sublimazione di un’esegesi personale condotta sovrapponendo visioni solipsistiche e riferimenti testuali. Oggetto dell’analisi sono perlopiù episodi - dagli aspetti controversi o lungamente dibattuti - inerenti la recente storia italiana e il senso di ambiguità che sovente accompagna la loro narrazione. Si pensi, ad esempio, ad un lavoro come 3,24 mq (2004) - che tra i primi mise in luce l’artista presso il grande pubblico - rifacimento ambientale della cella in cui si consumò la prigionia di Aldo Moro, o la serie di lavori - tra cui 92 centimetri su oggetti (2009) o 19,45 metri di metallo (2009) - dedicati alla funesta vicenda dell’anarchico Giuseppe Pinelli. In tutti questi casi la trasformazione del fatto storico in appunto visivo produce l’inevitabile caduta del senso comune, il ribaltamento dei canonici sistemi di lettura e comprensione degli eventi. Come ideale funzione interpolante di numerosi apparati simbolici, il lavoro di Arena traccia, per ogni scenario rappresentato, una nuova curva di significato destinata ad infondere nel fruitore effetti talvolta destabilizzanti, talaltra sorprendentemente rivelatori.
rancesco Arena affronta fenomeni di rilevanza storica e sociale utilizzando una personale sensibilità ermeneutica. Per mezzo di dispositivi dotati di potenzialità espressive sintetiche, egli mette in scena una ri-rappresentazione metaforica degli eventi. Sintonizzato sulla frequenza di una modalità semiotica ibrida, fa ciò attingendo da un repertorio formale costruito con il sostegno di solidi presupposti documentali. Il suo linguaggio accosta - con l’approccio combinatorio tipico della tradizione concettuale - stimoli visivi eterogenei; interseca codici e stilemi ricorrendo agli strumenti di una progettualità misurata ed intimamente razionale. La qualificazione spaziale dei suoi lavori sfrutta le infinite possibilità offerte da una corporeità mutevole, sviluppata in un intervallo compreso tra la severità di una presenza grave e l’incedere di una progressiva smaterializzazione. Se in Massa sepolta - l’installazione ambientale con cui l’artista ha preso parte alla Biennale di Venezia del 2013 - a colpire è senz’altro la monumentalità dell’intervento - composto da quattro torri alte 6,8 metri ciascuna - in altri lavori, come Corner (2013) o Metro quadro con un anno di vento (2015), invece, egli pone interesse sull’entità del vuoto e sulle sue complementari potenzialità “costruttive”. Nondimeno, al netto di ogni specificità legata alla sua composizione, tutta l’opera di Arena sembra instaurare con l’ambiente circostante un imprescindibile rapporto di dipendenza e reciprocità. Ed è proprio la dialettica spazio/opera ad orientare - forse più di ogni altra variabile - l’insieme delle scelte di natura espositiva e teorica adottate, di volta in volta, dall’autore pugliese. Sintomatico, a tal proposito, appare anche il frequente e sofisticato utilizzo nel lavoro in esame di corrispondenze numeriche e di grandezze metriche fondamentali come l’altezza, la distanza, l’stensione o il peso: parametri costitutivi di un approccio concettuale ed
Da sinistra: AUTORITRATTO (OMAGGIO AD ALIGHIERO), 2016. Bronzo, incenso, 185x32x32 cm. Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano. Foto Roberto Marossi. LOST HORIZON, 2016. Pietra nero Marocco, libri, 32,5x16x157 cm. Courtesy Sprovieri, London. Foto Sebastiano Pellion di Persano.
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INTERVIEWS
“LAND ART SATELLITARE” Max Serradifalco
- Maria Chiara Wang
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sicuramente ho degli strumenti: computer, smartphone, internet. Mi prendo molto tempo per riflettere prima di realizzare una nuova serie fotografica. La maggior parte delle volte inizia tutto da un input non cercato, arrivato casualmente, poi indago interiormente il mio pensiero, i miei valori. Cerco di viaggiare tutte le volte che posso, mi piace riflettere su nuove idee durante uno spostamento in treno o in aereo. Visito mostre, leggo, cerco di captare segnali spontanei, perché nulla accade per caso, e annoto appunti. Sarà la stratificazione di questi appunti a condurmi alle serie fotografiche che realizzerò in futuro. Ad esempio, ricordo che per arrivare all’idea di voler creare le bandiere satellitari della serie All Colors of the World impiegai più di un anno e tutto ebbe inizio visitando una collettiva fotografica sul viaggio nel Mediterraneo dei migranti africani presso la Fondazione Forma di Milano.
orse è arrivato il momento di fermarsi un attimo a riflettere sulla direzione collettiva che stiamo prendendo come genere umano, se stiamo usando la nostra intelligenza per inventare un futuro di benessere condiviso o se siamo solo artefici di un declino.”
Maria Chiara Wang/ Max, come nascono la passione per la fotografia paesaggistica, l’amore per la Terra, il desiderio di rendere la tua arte portavoce anche di messaggi ambientalisti? Max Serradifalco/ Sono sempre stato innamorato della natura, ma probabilmente l’aver trascorso ogni estate della mia infanzia tra gli agrumeti della campagna palermitana deve avere influito. Il resto è avvenuto gradualmente. Osservare mio padre nel suo laboratorio di fotolito e l’essere successivamente divenuto grafico - con l’avvento dei primi sistemi computerizzati - hanno fatto sì che il mio occhio si allenasse alle immagini. Da lì il passaggio alla fotografia paesaggistica e poi artistica è stato breve. L’impegno ambientalista è qualcosa che cresce insieme a me, desidero che la mia passione per la Terra si trasformi in qualcosa di più grande.
MCW/ Sei anche un viaggiatore reale oltre che virtuale? Hai visitato qualche posto che hai immortalato dal satellite? Se si, qual è stato l’impatto? Quali sensazioni hai provato “dal vivo”? MS/ Nel 2011, quando iniziai questa sperimentazione, avevo raggiunto la consapevolezza di non essere libero, mi sentivo schiavo di un sistema che non mi realizzava abbastanza. Il tempo per viaggiare era davvero limitato, ciò nonostante ero riuscito a visitare, oltre l’Italia, l’Andalusia, la Provenza, il Canada, New York, Berlino. Adesso sono molto più libero e felice, anche se al momento i miei spostamenti sono quasi sempre collegati all’attività artistica. Nel 2014 andai alla ricerca di un luogo fotografato con il satellite nella laguna veneta.
MCW/ Puoi parlarmi del tuo metodo di lavoro? MS/ Se intendi come realizzo le mie fotografie, posso dirti che sono degli screenshot. Non ho un metodo ben definito, 4
Art in Web Landascape Photography, alle correnti artistiche famose in e-ART-h, alla cartografia antropomorfa nella serie Earth Portrait, quali le prossime?
L’intenzione originaria era quella di andare a prelevare un campione di terra: avevo un’idea che ho poi abbandonato perché non userò mai la manualità (desidero che l’espressione artistica dei miei lavori sia guidata dalla spontaneità creativa della natura). Presi un battello di buon mattino per raggiungere Punta Sabbioni e proseguii in mountain bike per un paio d’ore verificando la mia posizione con il gps dello smartphone. È rimasto il ricordo di un’esperienza magnifica! Una sensazione tra l’esplorazione, la meraviglia e la gioia di vivere.
MS/ Nei miei pensieri attualmente non c’è una nuova serie satellitare. L’ultima l’ho presentata in questi giorni: 38° Parallelo, ovvero il giro del mondo in una fotografia di 9 m x 20 cm, isolare per mettere in evidenza. Come dice Franco Fontana: l’arte dell’artista e la sua missione sono quelle di rendere visibile l’invisibile. Nei miei prossimi lavori vorrei indagare sullo spazio da una prospettiva nuova, ma è ancora presto per parlarne. Nel frattempo amplierò le serie esistenti.
MCW/ Leggendo i tuoi cataloghi noto un’importante attenzione anche al linguaggio utilizzato. Fai uso di “giochi di parole” e di metalinguaggio, sovrapponi piani formali e concettuali per “visioni” aumentate sia nelle immagini che nei testi. Da dove deriva e che ruolo assegni a questa inclinazione?
MCW/ Alla vigilia degli “-anta” hai già fatto un bilancio della tua carriera artistica? MS/ No, mi sembra presto. La mia carriera artistica è iniziata in età adulta. Dieci anni fa ero solo un appassionato di fotografia paesaggistica, sei anni fa inventai la Web Landscape Photography e solo tre anni fa decisi di intraprendere seriamente la carriera artistica, abbandonando il mestiere di grafico. Se volessi fare un bilancio degli ultimi tre anni, direi che sono stati impegnativi nel riuscire a finanziare gli eventi, piacevoli ed entusiasmanti nella sperimentazione. Aver letto articoli in otto lingue differenti che parlano delle mie sperimentazioni artistiche mi rende molto felice perché significa che forse mi sto impegnando bene per una causa che mi sta a cuore: riuscire a far crescere il più possibile il messaggio che la Terra va amata e rispettata come un’opera d’arte!
MS/ Cos’è la realtà? Cos’è il tempo? Basta cambiare punto di vista perché tutto assuma un ulteriore significato. Credo che molti affascinanti aspetti della vita sulla Terra siano ancora da scoprire, non sappiamo neppure noi stessi cosa siamo realmente o qual è il senso della nostra vita. Forse è arrivato il momento - da specie più intelligente del pianeta - di fermarsi un attimo a riflettere sulla direzione collettiva che stiamo prendendo come genere umano, se stiamo usando la nostra intelligenza per inventare un futuro di benessere condiviso o se siamo solo artefici di un declino. Tutti abbiamo compreso che il progresso guidato dal capitalismo ci sta conducendo a una forma egoistica di vita che non può portarci alla vera felicità, pertanto il ruolo che ha questa mia inclinazione potrebbe essere un desiderio di indagare oltre il senso della realtà conosciuta, e il tutto si riflette sicuramente nei miei lavori, nel mio pensiero. MCW/ Come nasce, con che finalità, che progetti ha in cantiere il “neo” collettivo Gruppo d’Arte Fotografico Satellitare? MS/ Il Gruppo d’Arte Fotografico Satellitare nasce dal mio impegno. Ho deciso di contattare gli altri artisti quando ho scoperto di non essere stato il solo ad indagare sul mondo dalla prospettiva satellitare tramite i canali Google. Quasi contemporaneamente, tra il 2009 e il 2011, Jenny Odell da San Francisco, io da Palermo, Federico Winer da Buenos Aires, David Thomas Smith da Dublino, Stephen Lund da Victoria e Carloalberto Treccani da Brescia abbiamo sperimentato modi particolari e personali di osservazione e raffigurazione del paesaggio attraverso il medium satellitare. I nostri lavori invitano alla riflessione sulla reale necessità di riconsiderare il nostro approccio alla Terra. La prima mostra “SpacEarth” curata da Maurizio Marco Tozzi, realizzata presso la galleria LABottega di Pietrasanta è stato solo il primo passo, adesso dobbiamo presentare il gruppo ai curatori internazionali, programmare nuove esposizioni. Spero possa un giorno diventare un importante movimento artistico, che parli della Terra nella modernità del nostro secolo. MCW/ Che tipo di consenso/interesse/mercato ha la Web Landscape Art in Italia rispetto all’estero? MS/ Nella maggior parte dei casi, in Italia sono io a cercare contatti, stringere collaborazioni che condurranno a creare esposizioni e di conseguenza “mercato” per la mia arte. L’interesse, il consenso riscontrato dai visitatori è sempre stato ampio a qualsiasi livello. All’estero avviene esattamente il contrario, mi dedico solo ad essere presente nel migliore dei modi su internet e di tanto in tanto mi arriva una email da qualcuno che è rimasto affascinato dalla mia arte e mi propone una collaborazione. È arrivata così la pubblicazione sul libro “Behance” di Adobe, le diverse collaborazioni con Saatchi Art, la presenza su quotidiani nazionali in Cina, Olanda, Usa e il progetto più recente di Samsung “The Frame”.
Da sinistra: CHINA EARTH FLAG (USA, ARABIA SAUDITA), 2016. E-ART-H 8 ITALIA, 2015. Per entrambe courtesy dellʼartista.
MCW/ Nella tua arte ci sono molte contaminazioni: dalla Land 5
INTERVIEWS
LʼIMPORTANZA DI UN CIELO AZZURRO Andrea Tonellotto
- Loredana Barillaro
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l piacere di camminare senza meta, guardandomi attorno, registrando quello che mi fa dire “eccola, questa è la foto”, è ancora la regola principale che muove il mio lavoro.”
Loredana Barillaro/ Dimmi Andrea, perché hai deciso di fotografare con la Polaroid? Forse perché si pone a metà fra il passato recente della fotografia ed un presente “digitale” in cui Instagram è concettualmente e formalmente vicino? Andrea Tonellotto/ Il motivo principale per cui ho iniziato ad utilizzare la Polaroid è sicuramente per i colori e l’atmosfera che potevo ottenere con le pellicole Artistic TZ, le adoravo. Una volta assuefatto al “metodo polaroid”, ho iniziato ad apprezzare il fatto che dopo aver inquadrato e scattato, il risultato fosse subito pronto, finito ed inalterabile in postproduzione; e questo fa si che ogni foto diventi una sfida davvero intrigante. Senza contare che ogni volta sono
sorpreso dalla magia della foto che pian piano compare dal nulla. Non ultimo, in un’epoca in cui tutto, o quasi, è fatto in serie e replicabile, apprezzo l’unicità e la non riproducibilità dello scatto, che per me è un valore aggiunto alla sfida, e al risultato, ovviamente. LB/ A cosa richiamano il rigore e il minimalismo delle tue ambientazioni? AT/ Il rigore e il minimalismo delle mie ambientazioni e composizioni vengono da quello che i miei occhi - e la mia testa - vorrebbero vedere in ogni città, odio la confusione, le auto, il disordine. Fin da bambino architettura e arte hanno sempre attirato la mia attenzione, e certamente i quadri di pittori come De Chirico, 6
Sironi, Depero, Mondrian o Hopper per citarne qualcuno - o il razionalismo in architettura, hanno dato un senso compiuto a quello che mi girava per la testa. Forme geometriche, linee nette, abbinamenti di colori, luci ed ombre hanno sempre acceso e stuzzicato la mia fantasia. LB/ Cos’è che ti colpisce di un luogo, come scegli gli angoli e i dettagli da “registrare” e cos’è che può differenziare, agli occhi di chi osserva, una serie dall’altra? AT/ Sono attratto dai recuperi architettonici di vecchie fabbriche o vecchi quartieri e anche le zone industriali delle città mi hanno dato molti spunti.
Ma, molto spesso, cammino senza una meta precisa e guardo, l’importante è che ci sia il cielo azzurro e un bel sole, naturalmente il contesto deve essere affine a quello che sto cercando. Per quanto riguarda la differenziazione delle mie serie di foto, i miei ultimi lavori, come silent movie, red and blue, black and red, black and green e paper and sky, sono visibilmente diversi dagli altri, essendo una ricerca su forme e colori, molto cruda e realizzata in molti casi con set autocostruiti. Per quanto riguarda le altre serie, invece, è un mio obiettivo cercare di renderle tutte visivamente affini in quanto ognuna è concepita come un quartiere che, sommato agli altri, va a formare una città ideale - intesa proprio nel senso letterale del termine e non come “risultato a cui ambire” - in continua espansione. LB/ L’effetto che emerge dai tuoi scatti è di un’atmosfera estremamente rarefatta e di una pacatezza elegante e preziosa, quasi dai toni pastello. Stabilisci, dunque, il risultato che dovrai ottenere, cercando di condizionarlo, o ti affidi alle “capacità” della macchina? AT/ Assolutamente cerco di condizionare il risultato. Le pellicole istantanee che uso sono molto sensibili, ad esempio, alla temperatura e all’umidità esterne, per cui, in base al risultato che voglio ottenere - e conoscendole ormai abbastanza bene - decido quando andare a fotografare. Chiaramente, trattandosi di pellicole istantanee, la componente “imprevedibilità” è sempre ben presente, e questo è allo stesso tempo fastidioso e avvincente, diciamo fastidiosamente avvincente; succede che il riflesso dovuto ad un’infiltrazione di luce rovini il risultato finale di uno scatto, ma succede anche che il riflesso cada proprio nel posto giusto, dando alla foto quel tocco caratteristico che diventa il punctum dell’opera. LB/ Raccontami un po’ la genesi del tuo percorso…
Da sinistra in senso orario: LONELINESS #1. Composizione di 4 impossible project. PISCINA COMUNALE #2. Pellicola impossible project. SILENT MOVIE #77. Pellicola impossible project. Per tutte courtesy Heillandi Gallery, Lugano.
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AT/ Ho sempre fotografato molto, all’inizio senza un filo logico, poi sempre più consapevolmente. Sono passato dal piccolo formato al piccolo formato “di classe” - Leica, che ancora uso e adoro - per poi passare al medio formato, ammaliato dalla rolleiflex 3,5F col suo formato quadrato, e dalla Hasselblad col suo rigore. Alla fine sono approdato alla Polaroid che unisce formato quadrato, colori pastello e un risultato subito pronto, per uno svogliato come me, il massimo! Ho iniziato ad esporre nel 2010, e da allora ho portato le mie foto a Roma, Milano, Marsiglia, Parigi, Praga, Los Angeles. Inoltre, sono state pubblicate su varie riviste in tutto il mondo e nel 2015 la stilista Giulia Marani ha presentato alla Milano Fashion Week “S/S 2015”, la sua collezione basata interamente sulle mie istantanee. Attualmente sono rappresentato da Heillandi Gallery di Lugano e, da quest’anno, alcune mie foto sono entrate a far parte della prestigiosa “SpallArt Collection” di Salisburgo. In tutti questi anni la mia ricerca, pur non discostandosi molto dal percorso originario, è diventata forse più grafica, e mi piace di più giocare con le forme e i colori, senza, comunque, che questo diventi un’imposizione. Il piacere di camminare senza meta, guardandomi attorno, registrando quello che mi fa dire “eccola , questa è la foto”, è ancora la regola principale che muove il mio lavoro.
INTERVIEWS
NEL LUOGO DELLʼENUNCIAZIONE Elena Bellantoni
Gregorio Raspa/ Elena, col tempo la tua pratica artistica sembra aver eletto il video come mezzo primario seppur non esclusivo - di produzione; un mezzo da te utilizzato sia come codice espressivo autonomo, sia come strumento di documentazione del tuo lavoro. Quali elementi hanno suggerito una simile scelta tecnica e/o formale? Elena Bellantoni/ Il video è uno strumento che amo perché coglie il concetto di spazio, tempo ed inquadratura presente all’interno del mio lavoro. La camera che riprende è come un occhio che svela la mia visione del mondo e delle cose, un dispositivo mai passivo. Il mio punto di vista è pienamente definito anche quando documento le performance. In tal senso, pure il montaggio che segue, seppur minimo, costruisce una narrazione visiva in cui è integralmente preservata l’immagine che intendo restituire. GR/ Spesso intervieni in prima persona nella dinamica narrativa delle tue video installazioni. Penso a lavori come Maremoto o i Giocatori. In queste opere sembra emergere
- Gregorio Raspa
una componente performativa più accentuata. Cosa differenzia realmente questi esemplari da quelli in cui, invece, rimani dietro la macchina da presa? EB/ Io lavoro sempre sulla tensione che nasce dal mio “espormi”, succede la stessa cosa anche quando “dirigo”. Lʼenunciazione del pensiero e dell’immagine sono marcatamente mie; che sia la mia figura o la pelle dell’immagine per me non c’è molta differenza. La macchina da presa è un prolungamento del mio corpo. GR/ In maniera più generale, l’approccio performativo rappresenta, sin dagli esordi, uno dei punti fermi della tua ricerca. La sua influenza emerge anche in circostanze in cui, pur utilizzando elementi linguistici e concettuali di astrazione diversa, mantieni vivo il valore dinamico dell’azione. Mi viene in mente quanto successo nel 2015 con l’installazione Parole Passeggere… EB/ Parole Passeggere è un lavoro che ho sviluppato nellʼambito di un intervento con il MAXXI. Ho deciso di installare nel porticato della Stazione 8
Ostiense di Roma, per un’intera giornata, nove macchine per scrivere Olivetti. Le persone erano invitate a sedersi e a lasciare una frase o un pensiero. Le parole hanno un corpo ed una forma, un ritmo ed un tempo, proprio come i passi; le parole passeggiano la pagina, attraversano il foglio. La scrittura incide su un pezzo di carta un percorso, quello del pensiero. GR/ Mi ha molto incuriosito l’ambizioso progetto Hala Yella addio/adios. Me ne parli? EB/ Il progetto nasce da unʼesperienza intensa che ho vissuto a Capo Horn (nella Patagonia Cilena) per un periodo di tre mesi a cavallo tra il 2012 e il 2013. In questo periodo mi sono spinta in uno dei punti più estremi dell’America Meridionale alla ricerca dellʼabuela Cristina Calderon, dichiarata patrimonio umanitario dall’UNESCO nel 2006. Lei è l’ultima di una stirpe antichissima - gli Yeghan - nativa della Terra del Fuoco. Con lei, purtroppo, scompariranno anche la sua lingua e le ultime testimonianze di una cultura millenaria.
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e parole hanno un corpo ed una forma, un ritmo ed un tempo, proprio come i passi; le parole passeggiano la pagina, attraversano il foglio. La scrittura incide su un pezzo di carta un percorso, quello del pensiero.”
GR/ Il progetto in parola contiene una chiara impronta etno-antropologica costruita grazie ad un lungo ed attento periodo di ricerca e documentazione. Più in generale, nellʼambito del tuo modus operandi, come affronti la fase di studio/preparazione di una nuova opera? EB/ L’artista è come un investigatore, mette insieme tracce per costruire nuovi percorsi, aprire scenari inattesi. Io non sono né un’antropologa né una geografa, utilizzo talvolta gli strumenti di altre discipline per arricchire il mio lavoro che resta comunque di natura poetica. Facendo ricerca ho “trovato” Cristina Calderon. Il richiamo a partire e mettermi sulle sue tracce è stato molto forte, ma non sapevo se l’avrei trovata. Avevo messo in conto anche il fallimento... GR/ Quello delle “relazioni umane” è senzʼaltro uno degli ambiti centrali della tua ricerca. Nel tuo lavoro affronti il tema ponendo particolare attenzione all’insieme degli strumenti (codici, tecniche, espressioni, etc.) generalmente impiegati nella gestione dei rapporti. In tal senso, la relazione in sé sembra solo un pretesto per indagare su aspetti più profondi legati alla comunicazione e, in ultima analisi, al linguaggio. È realmente così, o mi sbaglio? EB/ L’alterità è il nodo centrale della mia ricerca, che negli anni è cambiato e si è evoluto, passando da un discorso sull’identità ad un’apertura verso l’altro da me. “Je est un autre” - “io è un altro” - scriveva Rimbaud. L’incontro con questo altro è avvenuto nel luogo dell’enunciazione, attraverso la parola scritta e la parola data/ricevuta la relazione ha preso forma. GR/ Come in una sorta di gioco basato sulla reciprocità e il ribaltamento delle prospettive, nel tuo lavoro il dato storico, di carattere generale, incrocia spesso quello autobiografico, di natura più intima. Come avviene lʼincontro fra queste due dimensioni? EB/ “Il personale è politico” urlava un vecchio slogan degli anni della contestazione. Credo che questo sia ancora vero. Il mio lavoro emerge da un’urgenza intima e reale, ma non è necessario che siano dichiarate le motivazioni che lo muovono. In Lucciole, un lavoro del 2015 ispirato alle Lucciole di Pasolini, ho prodotto quattro dischi 33 giri in vinile in cui - con quaranta interviste - ho raccontato la storia emotiva del Belpaese tra il 1975 (anno in cui sono nata ed è morto Pasolini) e il 2015. Il mio è semplicemente un atto di coerenza e di onestà intellettuale, racconto quello che conosco. Come uno strumento incido, riscrivo, registro narrazioni, perché la storia ci attraversa... Da sinsitra: PAROLE PASSEGGERE, 2015. Performance - Installazione, Stazione Ostiense, Roma. Opera realizzata in collaborazione con il MAXXI. HALA YELLA ADDIO/ADIOS, 2013. Still da video (Elena Bellantoni e Cristina Calderon). Per entrambe courtesy dell’artista.
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SPECIAL
ARTE & PSICOLOGIA Loredana Barillaro
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agli albori della civiltà l’arte ha rappresentato un elemento molto importante, una di quelle “attività” raramente sconnesse dal tessuto sociale, come momento celebrativo, o di autocelebrazione, come mezzo per sottolineare un certo status, politico, culturale, religioso o come momento consolatorio. Strumento mediante cui “scollegarsi” dal grigiore della realtà o, al contrario, mezzo per sottolinearne i drammi. Oggi sembra che l’arte possa costituire anche uno strumento di cura per la psiche, ecco che si parla dunque di “Psicologia dell’arte”, una disciplina che indaga lo stretto rapporto fra la creazione artistica e la sua fruizione, in un sistema carico di emozioni... In che modo dunque avviene l’interazione fra creatività e terapia? Quali sono gli aspetti di questo particolare approccio terapeutico e il grado di sviluppo concreto di tale ambito? Quali i campi di indagine in cui la psicologia dell’arte può agire efficacemente?
STEFANO FERRARI MICLA PETRELLI MONA LISA TINA
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nsegno da molti anni all’università di Bologna una disciplina intitolata proprio “Psicologia dell’arte”. Al di là dei tanti aspetti storici, teorici e metodologici che l’incontro tra arte e psicologia mette in gioco, l’idea che l’arte e la creatività abbiano in sé un forte potenziale terapeutico è un fatto assodato. L’attività creativa (scrivere, disegnare, suonare, danzare...) è non solo liberatorio ma può rappresentare unʼefficace forma di riparazione, cioè di elaborazione e contenimento delle emozioni. È una realtà che sia gli artisti sia tutti coloro che hanno o hanno avuto il piacere di sperimentarne su di sé gli effetti sanno molto bene. Da questo punto di vista, come ho cercato di dimostrare nei miei studi, c’è la possibilità di intrecciare l’universo delle poetiche con quello della psicologia e in particolare della psicoanalisi. Ciò consente di capire meglio sia il processo creativo che quello di fruizione, dove, attraverso complicati meccanismi di identificazione, le emozioni dell’artista si rispecchiano e si intrecciano con quelle del fruitore, che può a sua volta liberare e, al tempo stesso, controllare i suoi vissuti interni. Ma oltre - e indipendentemente da questo - sono stati creati spazi specifici per una terapia relazionale (ogni vera terapia presuppone sempre la relazione) basata sull’utilizzo di specifiche tecniche artistiche: è il variegato
universo delle arti terapie, che prevede la formazione di professionisti qualificati che sappiano integrare i valori della libera creatività con il “rigore flessibile” di unʼacquisita professionalità. Proprio sul paradosso di questo ossimoro si costruisce e si gioca la formazione dell’arte terapeuta. Per quanto riguarda i diversi “campi di indagine” della psicologia dell’arte, seppure con il rischio calcolato di una qualche autoreferenzialità, mi permetto di rinviare, oltre che ai miei studi specifici su scrittura, ritratto e autoritratto, alle attività editoriali che sono nate attorno al mio insegnamento. Mi riferisco in particolare a “PsicoArt - Rivista di arte e psicologia” e alla collana dei “Quaderni di PsicoArt” pubblicazioni entrambe on line “open access”, nate nel 2010. Ricordo altresì le iniziative della IAAP - International Association for Art and Psychology, fondata da Graziella Magherini, di cui sono segretario scientifico nonché presidente della omonima sezione Emilia-Romagna. Stefano Ferrari
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Stefano Ferrari insegna “Psicologia dell’arte” nel corso di laurea Dams e nella laurea magistrale di Arti Visive allʼUniversità di Bologna.
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’esperienza estetica, oggi, non può essere intesa in una forma “esiliata” rispetto ai fenomeni della sfera culturale e sociale. Basti osservare il museo contemporaneo: tra ambiente del museo (ciò che sta all’interno della sua struttura architettonica) e ambiente esterno (ciò che sta fuori, appena oltre la soglia) si stabilisce un interscambio continuo più che una separazione o una vera e propria discontinuità. Alle categorie estetiche tradizionali (il bello, brutto, sublime, kitsch…) si aggregano forme e funzioni legate a comportamenti, azioni, gesti pubblici e privati quali l’unboring, il maverick, l’outsider, a spazi ed oggetti del consumo quotidiano di massa. Si parla da qualche tempo di “estetica diffusa”. Ora, in tale orizzonte, le pratiche artistiche raggiungono senza mediazioni l’individuo e ne richiedono il coinvolgimento, lo rendono fruitore attivo che agisce, interviene, e così modifica l’opera e, con essa, se stesso. Se l’opera produce unʼinterrogazione, se innesca una dimensione straniante, ambigua, allora l’interrogazione, lo straniameno, l’ambiguità divengono esperienze che il fruitore vive in prima persona, capaci di mettere in discussione l’identità, lo stare al mondo, il linguaggio di quel soggetto. In tale contesto e in un’ottica psicologica, se non ci limitiamo ad intendere riduttivamente l’opera come “sintomo”, il fare arte acquisisce indubbiamente una valenza terapeutica. Se ci soffermiamo a riflettere sull’importanza che assume il microsistema delle relazioni interpersonali di ciascuno di noi rispetto alle più ampie dinamiche collettive, allora vediamo che il gesto che ci rende soggetti di unʼazione creativa può innescare un percorso di acquisizione della consapevolezza di sé - attraverso la scoperta di zone ignorate, sacrificate o rimosse del proprio io - in una relazione dialogica con l’altro. “Opera” non è semplicemente l’oggetto “creato” bensì il sistema delle azioni e delle relazioni messe in campo dai soggetti coinvolti in una esperienza estetica che può modificare, anche terapeuticamente, quei soggetti. Micla Petrelli
Micla Petrelli insegna “Teoria della Percezione e Psicologia della Forma” all’Accademia di Belle Arti di Urbino.
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el sostenere una comunicazione con l’esterno privilegiata e differente dalle altre, il potere dell’Arte e dei suoi codici estetici dà forma e voce ad ogni espressione di pensiero. Nella comprensione delle cause o del movente che sono alla base del bisogno impellente dell’artista di creare le sue opere, la psicologia dell’arte, che si occupa in gran parte dello studio dei processi creativi dell’artista, può senz’altro esserci d’aiuto. Come sappiamo, l’opera d’arte, in quanto risultato di una serie di fattori legati non solo alla biografia e alla sensibilità estetica dell’autore, è sempre portavoce dell’impulso più vitale e misterioso dell’esistenza. Il linguaggio dell’arte nel corpo dell’opera è in grado di rivelare il segreto della sua poetica in una modalità differente rispetto al linguaggio della parola, che per le sue peculiarità non ne ha la possibilità. Per sua natura, allora, l’arte ha in sé un potere terapeutico intrinseco, sia per chi la fa, sia per chi ne fruisce, ma questo non basta e non può sostituirsi ad un percorso di consapevolezza specifico. La creatività dell’arte stimola la dimensione più attiva ed energetica dell’individuo, ma ciò non è sufficiente perché si tratta “solo” di un momento (quello che va dalla stimolazione del processo creativo alla realizzazione dell’opera). Possiamo dire invece, che la creatività e la terapia si incontrano e si supportano in modo fecondo nell’Arte Terapia, una metodologia di lavoro specifica che da più di cinquant’anni è riconosciuta, sia in Italia, sia all’estero. È nel suo particolarissimo setting che si sostengono gli equilibri psicofisici dell’individuo e la sua crescita personale, ed è in questa relazione fatta ad arte che l’opera si fa ponte di una comunicazione profonda tra il suo autore e il professionista di settore. Mona Lisa Tina
Mona Lisa Tina è artista visiva, performer e arte terapeuta.
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UNA CORAGGIOSA CERTEZZA Giulia Ponziani
PEOPLE ART
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o credo che lʼarte possa salvare il mondo solo se si riesce a ristabilire un dialogo e un confronto aperto con la gente, perché lʼarte comunica un messaggio, una visione che tracci vie di fuga dallʼapatia intellettuale.”
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ono nata a Pistoia, cresciuta a Firenze, e per qualche anno ho vissuto a Roma dove ho conseguito la laurea in Archeologia Orientale. Lʼarte mi accompagna da quando sono nata, mio nonno era un pittore legato al filone paesaggistico pistoiese del primo Novecento. Sono stata abituata fin da piccola a visitare i musei, ricordo che quando vidi il Centre Pompidou, in occasione di un viaggio con i miei zii a Parigi, provai per la prima volta quel senso di smarrimento che si ha quando tutto ciò che in quel momento dai per certo viene a mancare. Gli studi classici sono stati la premessa che mi ha portato a studiare lʼarcheologia, ed in particolare lʼarcheologia dellʼoriente, terra di ispirazione anche per tanti grandi artisti del Novecento, (penso a Yves Klein). Per incompatibilità con un sistema accademico vecchio e stanco, abbandonai il mondo antico per dedicarmi allʼarte e ai libri frequentando due master: uno in Marketing e Comunicazione in Arte e Design, lʼaltro in Editoria. Ma era appena iniziata la crisi economica, una crisi che ha piegato il mondo a suon di slogan, alibi e contraddizioni. Decisi di lasciare Roma dopo che i complimenti, le pacche sulle spalle e le promesse senza seguito cominciavano ad essere una prassi stancante e deprimente. E così scelsi di andare a vivere a Pistoia per ragioni di comodità, ma ora credo che non sia stato un caso. Ad un anno dal mio trasferimento in questa piccola 12
città, presi la decisione più difficile della mia vita. Si trattava di buttarsi nel vuoto e senza paracadute, ma lʼho fatto. Ho inaugurato lo STUDIO 38 Contemporary Art Gallery nellʼottobre 2013 con lʼidea di realizzare mostre di pittura, scultura, fotografia e grafica di artisti emergenti che avessero semplicemente qualcosa di intelligente da dire, che trasmettessero idee e visioni, senza seguire la moda, e tanto meno presunti investimenti. Volevo iniziare un percorso che si delineava come un costante lavoro di ricerca, che però partiva da zero perché non conoscevo collezionisti, non conoscevo artisti disposti a lavorare con me e soprattutto non conoscevo bene il sistema dellʼarte in Toscana avendo vissuto diversi anni a Roma, ma sono andata avanti. Ho imparato tutto quello che per adesso so strada facendo. Dai pochi interessati delle prime mostre al notevole seguito che adesso ho la fortuna di avere, di strada ne ho fatta, e tutta in salita, con tanto di scivoloni. Ho conosciuto tanti artisti e giovani critici e curatori che adesso vogliono lavorare con me, che credono in questo piccolo spazio e nelle idee che qui nascono, si condividono e si realizzano. Ho conosciuto gallerie di grande interesse, in particolare la galleria Die Mauer Arte contemporanea di Prato con la quale, oltre ad un proficuo rapporto di collaborazione, è nata anche una bella amicizia, che mi sostiene e guida in questo lavoro.
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n fattore che mi ha fortemente motivato nel progetto di realizzazione della galleria è stata la convinzione che questo sia un territorio con un potenziale immenso. A Pistoia è nato Ippolito Desideri, il primo europeo ad intraprendere un viaggio in Tibet per conoscerne la cultura. Qui sono nati artisti come Marino Marini, Gualtiero Nativi, Aldo Frosini, Fernando Melani, Gianfranco Chiavacci; architetti come Giovanni Michelucci e Adolfo Natalini, scultori come Agenore Fabbri, Jorio Vivarelli e Valerio Gelli; e fotografi come Aurelio Amendola. Qui è nata la cosiddetta Scuola di Pistoia rappresentata da Umberto Buscioni, Gianni Ruffi, Roberto Barni. Un sostrato culturale dal valore inestimabile per una città così piccola ma ricca di storia, documentata anche dalle architetture medievali del centro, che ho voluto coinvolgere in un progetto artistico diffuso. E così nel 2015 ho inaugurato “Pistoia Contemporary Arts Week End, Palazzi dʼarte”, un percorso espositivo di arti contemporanee allʼinterno di palazzi del centro storico di Pistoia. Lʼidea era nata guardando lʼandrone del palazzo dove si trova la galleria che mi ispirò la realizzazione di un evento che coinvolgesse i cittadini e creasse un connubio perfetto fra architettura antica e arti contemporanee. Questʼanno “Pistoia Contemporary Arts Week End, Palazzi dʼarte” è giunto alla terza edizione e, grazie soprattutto alla collaborazione di tre curatori, Ilaria Magni, Bärbel Reinhard e Filippo Basetti, molti sono gli artisti che hanno partecipato e calorosa è stata la risposta dei cittadini che hanno prestato i loro spazi privati per questo evento in cui credo, e su cui non smetto mai di lavorare con lʼobiettivo di crescere e coinvolgere sempre più realtà artistiche. Io credo che lʼarte possa salvare il mondo solo se si riesce a ristabilire un dialogo e un confronto aperto con la gente, perché lʼarte comunica un messaggio, una visione che tracci vie di fuga dallʼapatia intellettuale. Credo che il cammino che ho intrapreso sia ancora lungo, di progetti da realizzare ne ho ancora tanti. Ricordo che poco tempo dopo lʼapertura della galleria una signora mi disse: “hai aperto una galleria dʼarte contemporanea a Pistoia. Ci vuole coraggio”. Sì, ci vuole coraggio, e pazienza, ma non saprei fare altro con tanta passione.
Giulia Ponziani dirige lo STUDIO 38 Contemporary Art Gallery di Pistoia.
A sinistra e in alto: Giulia Ponziani fotografata da Filippo Basetti. Qui a destra: veduta della galleria con Simone Ferrari, SILERE, fotografia; Carlo Colli, RECOMPOSE, opera su carta. Per tutte courtesy Giulia Ponziani.
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SHOWCASE
JONATHAN TEGELAARS | a cura di Pasquale De Sensi
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l mio lavoro nasce dalla forte influenza che le immagini producono in me. Intendo immagini nel senso più ampio possibile, l’immenso repertorio visivo di questo mondo. Cerco di esprimermi attraverso molteplici tecniche. Cambiando linguaggio e approccio, quindi materie e attrezzi, scaturiscono nuove concezioni, quindi nuove formulazioni. Questa molteplicità di idiomi è necessaria per raggiungere una verità meno parziale, approcciata e compresa da diverse angolature ed espressa attraverso diversi sentieri. Il mio lavoro è infatti centrato sui processi di creazione di queste immagini piuttosto che sull’immagine finita. È un processo complesso che si sviluppa a partire da un nucleo di fonti e suggestioni che interagiscono per produrre nuovi risultati. È una concatenazione di scelte ed azioni, in una costante messa in dubbio degli elementi in gioco. Ogni mia composizione deriva da un processo manuale. Attraverso il contatto fisico con la materia acquisto un’ulteriore conoscenza dell’oggetto, e riesco ad imprimergli la mia vitalità.
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Dallʼalto a sinistra in senso antiorario: COLLAGE SUBLUNARE, 2016. Collage, 28x31 cm. DRAGO DʼACQUA, 2015. Collage, 36x22 cm. BLUE DJINS, 2015. Collage, 20x26 cm. Per tutte courtesy dellʼartista.
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SMALL TALK
ASINUS IN CATHEDRA Giulio Vesprini
- Maria Chiara Wang
Maria Chiara Wang/ Perché hai scelto Asinus in Cathedra - espressione latina - per il tuo studio di grafica e perché la scelta di indossare la maschera di asino in certe immagini che ti ritraggono?
ora, nella mia regione, le Marche. Qui c’è una grande tradizione grafica e tipografica che, con il passare degli anni e l’evolversi della tecnologia, stiamo perdendo. Per questo dal 2012 incontro maestri tipografi in pensione o che per colpa della crisi hanno chiuso la loro attività. Ad oggi ho più di 1000 caratteri recuperati, interi alfabeti in legno ripuliti pronti a brillare ancora una volta sulla carta.
Giulio Vesprini/ Lavorare nel campo dell’arte è visto da molti - compresi i propri familiari - come “il non fare nulla” o quasi, per questo ho pensato di mostrare quello che viene comunemente definito “Asino” salire in cattedra dopo un duro lavoro e comunicare in maniera diversa, creativa e propositiva, mantenendo la stessa umiltà dell’animale rappresentato. La maschera la uso nei lavori più duri, quelli dal carico emotivo importante.
MCW/ Che valore attribuisci all’uso delle parole e delle lettere nelle tue opere, sia di urban artist che di grafico? GV/ Credo che siano fondamentali entrambe, soprattutto quando le lego alle forme dipinte sui muri. Le uso come linguaggio capace di rafforzare i segni grafici realizzati, un ulteriore input di ragionamento per chi osserva l’opera.
MCW/ Che tipo di lavori realizzi nel tuo studio?
MCW/ Come nasce l’ispirazione per un nuovo progetto? Come passi dall’idea alla sua realizzazione?
GV/ Nel mio studio realizzo principalmente lavori di progettazione grafica e stampa d’arte. La raccolta di antichi caratteri tipografici vuole essere una conservazione di antichi saperi che oggi mescolo con i recenti processi grafici. Grazie a queste macchine produco le mie stampe, monotipi composti da diverse tecniche con l’utilizzo di inchiostri tipografici. Asinus in Cathedra è anche un laboratorio itinerante che porta in giro workshop legati alla serigrafia, alla linoleografia e all’incisione.
GV/ Leggo e studio molto. Osservo il lavoro degli artisti che più amo e dei grafici che stimo. Scintille di progettazione vengono spesso dopo la visita di grandi mostre, al contatto diretto con l’opera e con il linguaggio dell’artista. Dopo una serie di informazioni teoriche e osservazioni degli spazi urbani intorno a me, entro in studio per disegnare, stampare e progettare attimi di vita vissuti prima.
MCW/ Come nasce in te il desiderio di archiviare caratteri di legno per la stampa e la necessità di salvarli dall’oblio?
CERCHIO G023, 2016. Impronte, Omaggio a S. Ferragamo, Bonito (Av). Foto Antonio Sena. Courtesy dellʼartista.
GV/ Sono interessato a difendere una certa memoria attraverso l’uso concreto di macchinari e conoscenze grafiche che, unite a espressioni artistiche più contemporanee, possano generare nuove forme di comunicazione. La mia ricerca si focalizza, per 16
SHOW REVIEWS
ANIME. DI LUOGO IN LUOGO MAMbo - Bologna
- Valentina Tebala
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quindi una distanza con il dramma”1). Invece, appartengono ai partigiani caduti a Bologna nel 1945 gli sguardi ritagliati dalle foto del Sacrario di Piazza Nettuno per l’opera Les Regards, poi confluita in uno dei progetti collaterali alla mostra, i Billboards, medesime fotografie affisse su vari impianti di cartellonistica pubblicitaria nelle periferie cittadine. Ma sui concetti di vita e morte - sfidando l’oblio inesorabile attraverso l’oggettivazione dell’assenza - Boltanski si esprime già nei celebri Monuments, sorta di reliquiari a memoria di gente qualunque. Così l’artista allestisce le sale del MAMbo ispirandosi all’architettura di una cattedrale, un ambiente immersivo in un’atmosfera spirituale sospesa: se ne varca la soglia con l’installazione Coeur in cui risuona il suo battito cardiaco alla luce fioca di una lampadina pulsante allo stesso ritmo. Al polo opposto della sala, idealmente nella posizione dell’altare, c’è Animitas (blanc) del 2017, videoproiezione costituita da un unico piano sequenza: un prato di steli metallici con boccioli di campanelli giapponesi che tintinnano al vento nel deserto di Atacama, in Cile. Un’opera poetica, di land art effimera e sublime, riproduce sulla terra arida e selvaggia una costellazione del cielo. Al centro di tale navata centrale - da cui dipartono le laterali con opere anche più storiche e note - troviamo la montagna dorata di Volver (20152017). Un cumulo luccicante di coperte isotermiche alto circa 7 metri evocante l’attuale diaspora dei migranti africani, di singole identità senza nome, a restituirne la dignità del ricordo e della memoria.
a storia con la “s” maiuscola è conservata nei libri mentre sono le storie piccole, quelle di cui siamo noi i protagonisti, quelle che scompariranno con noi, le storie che ho voluto conservare”. Lo dichiara Christian Boltanski in conversazione con il curatore Danilo Eccher nell’agile pubblicazione edita dal MAMbo di Bologna in occasione della sua mostra antologica “Anime. Di luogo in luogo”, visitabile fino al 12 novembre 2017. Vent’anni dopo la prima personale dell’artista francese nella città felsinea presso Villa delle Rose, “Pentimenti”, e a dieci anni dalla realizzazione del grande progetto al Museo per la Memoria di Ustica in via di Saliceto. Di fatto questa significativa perfetta scansione temporale dei suoi interventi bolognesi, si intreccia naturalmente al concetto di Storia e a quello di Memoria, fondamento della ricerca artistica e poetica di Boltanski. Perché le ricorrenze che lo hanno voluto stringersi ancora al fianco di Bologna (soprattutto i 10 anni del Museo per la Memoria e i 37 anni dalla Strage di Ustica) con un progetto che va oltre la mostra disseminandosi per la città in operazioni differenti, fanno anch’esse parte di una storia del nostro paese da non dimenticare. Tuttavia a essere veicolate sono le piccole memorie, come sempre accade nella volontà del fare arte di Boltanski. La memoria privata o pubblica che, ribatte Eccher, “indica un rapporto più intimo e personale, […] misura gli accadimenti da un punto di vista soggettivo, minimale, incompleto ma prezioso”. Questo vale nel caso dell’approccio alla tragedia del DC9 Itavia con l’installazione permanente A proposito di Ustica all’interno del Museo della Memoria; oppure nel rapporto con l’Olocausto dell’installazione Le grand mur de Suisses Morts, parete di scatole di latta contrassegnate da ritratti recuperati dai necrologi svizzeri e consacrate in piccoli memoriali (“Se voglio parlare della Shoah non mostro foto storiche ma le immagini di svizzeri deceduti di recente, creando
Christian Boltanski in Instant Book_9, Edizioni MAMbo, Bologna 2017, p. 7.
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BILLBOARDS, 2017. Veduta, Bologna. Foto © Matteo Monti. Courtesy Istituzione Bologna Musei.
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SHOW REVIEWS
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ENCHANTED NATURE Palazzo Mora - Venezia
ai graffiti preistorici a quelli sui treni della metropolitana la natura è entrata da subito nell’immaginario visivo degli artisti. È dalla notte dei tempi che Arte e Natura sono intrecciate in un legame profondo, sin da quando gli artisti iniziano a leggere e interpretare l’ambiente che li circonda. Se è vero che questo intreccio risale a tempi antichissimi, oggi l’arte ha assunto una connotazione ben diversa e denuncia soprattutto l’urgenza della crisi ambientale. Nell’ambito del contemporaneo è la Land Art tra le più significative forme artistiche a dare il maggior contributo. Attraverso interventi ambientali diretti o realizzati con l’uso di elementi come tronchi d’albero, pietre, sabbia ecc. si disegnano nuovi paesaggi urbani o naturali, dando consistenza a progetti di artisti che rifiutano l’idea del museo-contenitore. Il senso di questa ricerca è ricongiungere l’opera alla natura in modo diretto o realizzare progetti dove è la natura stessa l’opera d’arte. Il sistema dell’arte, negli ultimi anni si è dimostrato sempre più sensibile a questo argomento e ha più volte sottolineato con mostre, operazioni artistiche e installazioni varie, quanto sia complesso il rapporto tra l’umanità costruttrice e il pianeta Terra.
Moltissimi sono gli artefici di queste creazioni, alcuni hanno segnato una svolta come Burri, Pistoletto, Beuys, Kounellis, Penone, e Christo. Ma c’è anche una giovane generazione di artisti ancora “sul pezzo”. Come Lorenzo Quinn (1966) che proprio negli ultimi mesi si è fatto apprezzare con Support un’opera che ha fagocitato interamente l’attenzione pubblica. Le mani gigantesche istallate a Venezia, in occasione della 54. Biennale, evidenziano con forza quanto delicata sia la storia di Venezia e la vita umana rispetto alla forza della natura in un contesto continuamente minacciato dai cambiamenti climatici. E c’è anche, sempre in Biennale ma meno noto, il lavoro di Carla Bordini Bellandi. “Enchanted Nature” è il suo progetto artistico a metà tra fotografia e arte ambientale che interseca il tema del rapporto uomo/donna-natura. Carla mette a fuoco un punto fondamentale anche attraverso un panel che si svolgerà a Venezia: quanto è invasiva la distruzione ambientale che scardina non solo le regole della natura ma produce anche impoverimento e diseguaglianze sociali? Migrazioni di massa, cambiamenti climatici, accaparramenti di territori sono fenomeni tutti annodati tra loro anche 18
- Anna de Fazio Siciliano
se apparentemente distanti. Allora è qui che fa leva l’operazione poetica dell’artista, con parole, immagini e azioni che non sono mai un attacco duro o una denuncia, ma definiscono, attraverso il gesto delicato della fotografia, i due tiranti di questo lungo legame. Gli scatti dedicati agli aspetti della natura più incontaminata mirano a sensibilizzare verso una reale tutela dellʼambiente, anzitutto perché sono foto che vivono attraverso uno sguardo più intimo e poi perché svelano aspetti nascosti e simboli, sempre in direzione del rispetto per la natura. La veridicità dell’immagine inoltre concorre a questo obiettivo, la sua ricerca infatti si fonda sullo studio dell’“errore fotografico” che esclude lʼuso del fotoritocco. Dal progetto “Enchanted Nature.” Courtesy Carla Bordini Bellandi.
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Anna Capolupo - Beatrice Squitti 21/settembre - 10/novembre 2017
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