SMALL ZINE

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ISSN 2283-9771

Magazine di arte contemporanea / Anno VIII N. 31 / Trimestrale free press

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LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE 2019


SOMMARIO TALENT TALENT 3

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INTERROGARE LA VISIONE Jorge Macchi - Martina Lolli DESTINI IN TRANSITO Hao Wang - Gregorio Raspa OLTRE L’IMMAGINE Francesco Ciavaglioli - Davide Silvioli

INTERVIEWS 6

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KALEIDOSCOPIC ROOMS Giusy Pirrotta - Valentina Tebala LA TRACCIA DEL TEMPO Fabio Presti - Erika Lacava DARE CORPO AL LINGUAGGIO Chrischa Oswald - Martina Lolli

SPECIAL 12

IL VERO E IL FALSO NEL CONTEMPORANEO con Angela Saltarelli, Chiara Casarin - Loredana Barillaro

PEOPLE ART 14

ACROBATICO, INVOLUTO, SPREZZANTE Milovan Farronato

DESIGN.ER 16

LA CURIOSITÀ COME CERTEZZA Serena Confalonieri - Loredana Barillaro

PHOTO.&.FOOD 17

TUTTA L’ARTE IN UN PIATTO Davide Luciano - Loredana Barillaro

SMALL TALK 18

TRA IL SOGNO E LA REALTÀ Gianluca Capozzi - Carla Sollazzo

FREE SPACE TRA ANTICO E CONTEMPORANEO ● Il linguaggio di Nello Petrucci riletto alla luce delle riflessioni di Settis e Bauman - Anna de Fazio Siciliano

SMALL ZINE Magazine di arte contemporanea Direttore Responsabile ed Editoriale Loredana Barillaro l.barillaro@smallzine.it Redazione Luca Cofone l.cofone@smallzine.it Stampa: Gescom s.p.a. Viterbo Editore BOX ART & CO. Redazione Via della Repubblica, 115 87041 Acri (Cs) Iscrizione R.O.C. n. 26215 del 10/02/2016 Legge 62/2001 art. 16 Contatti e info 3393000574 3384452930 info@smallzine.it www.smallzine.it Hanno collaborato: Anna de Fazio Siciliano, Erika Lacava, Martina Lolli, Gregorio Raspa, Davide Silvioli, Carla Sollazzo, Valentina Tebala Con il contributo di: Milovan Farronato © 2019 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi pubblicati, senza l’autorizzazione dell’Editore. Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quelle della direzione della rivista.

In copertina Chrischa Oswald UNTITLED, 2019. Progetto in corso, (part.) Courtesy dellʼartista


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INTERROGARE LA VISIONE Jorge Macchi

- Martina Lolli

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poi rielaborata dal fruitore incaricato di sceneggiare un mondo o rivela il suo essere fittizia. E in diversi progetti l’artista lavora con immagini simmetriche e duplici, dove la somiglianza è sovvertimento della narrazione (Doppelgänger N.8, 2004-2005), o con dittici come Vidas Paralelas (1996) dove opere gemelle ribaltano la logica del caso, mostrando due rotture fortuite che appaiono l’una come la perfetta copia dell’altra. Macchi gioca con il simulacro suggerendo che la vista - l’ancora verso l’oggettività e la fermezza del reale - infine annega nell’impossibilità di una distinzione perfetta (La catedral sumergida, 2010). Nel 2005 rappresenta l’Argentina alla 51. Biennale di Venezia e, fra gli altri, realizza un intervento site-specific presso l’Oratorio di San Filippo Neri intitolato La Ascension. Si tratta di un tappeto elastico che riprende la forma e la grandezza dell’affresco barocco del soffitto dove è raffigurata la scena dell’assunzione della Vergine. Con un oggetto che duplica la dimensione dell’icona soprastante, l’artista crea un passaggio narrativo che la rende umana nella possibilità che dona al fruitore di una sopraelevazione fisica. Ma nel creare questo ponte verso l’assunzione, non fa che innescare un cortocircuito fra il reale e il fittizio, l’umano e il divino: la realtà e l’immagine. E allora qual è la differenza fra la vista e la visione?

orge Macchi, portegno classe 1963, non ama l’etichetta di arte concettuale. Infatti le sue opere, che vivono di un’essenzialità raffinata, sono visioni raggrumate nella landa estetica minimale che le supporta e che le mette in risalto alla coscienza del fruitore. Visioni fatte di acrilico, acquerello o legno, Macchi utilizza i materiali più disparati per arredare un mondo delle meraviglie che interroga lo sguardo e che si lascia permeare attraverso una focale sfocata o eccezionalmente esatta: poco importa il movimento del nostro occhio; ciò che davvero conta è la messa a fuoco della coscienza, lo scarto minimo della percezione che raggiunge e sa di giocare con le regole di un’altra dimensione, dove tutto è virtuale e senza peso. Macchi mette in scena la leggerezza di apparizioni che si donano e si sottraggono allo stesso tempo, verità aletheia che interroga senza far domande. Il fruitore, dinanzi alle opere dell’artista argentino, gioca completando la sensibilità di uno spazio immaginario di cui Macchi ha donato il primo accenno, attraverso visioni che implodono nel puntinismo cromatico della loro materia (Suspension Points 03, 2018) o si sfaldano, per far emergere la struttura di linee che le compongono (Present 01, 2018). Macchi crea dei vuoti di senso che lo spettatore colma con il gioco dell’intelligenza e dell’immaginazione; costruisce delle verità celate, un universo sotteso e sospeso che attende di essere percepito come un’immagine pura (2018 (Model)). Con Hotel, opera del 2007, l’artista mette in scena degli input visivi che lo spettatore incontra come sogni lucidi che assumono una consistenza nel momento in cui vengono captati, mentre nell’installazione La Noche de los museos (2016) - come Hotel in mostra alla Galleria Continua di San Gimignano fino allo scorso gennaio per la personale dell’artista “Suspension Points” - le quattro immagini sferiche disegnate da tappeti di lana colorata divengono dei trompe-l’oeil, sfidati dalle luci spot che letteralmente vi giacciono sopra. Nella ricerca di Macchi ogni immagine ha una natura doppia, poiché l’immagine che l’artista propone è

LA NOCHE DE LOS MUSEOS, 2016. Tappeto in lana e luci spot, 554x665 cm. Foto © Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana.

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DESTINI IN TRANSITO Hao Wang

n sincretismo colto e visionario caratterizza, più di ogni altro aspetto tecnico, l’opera del giovane artista cinese Hao Wang, culturalmente maturato introiettando una sensibilità - tematica e simbolica - di matrice mitteleuropea. Egli, ricorrendo ai codici e agli strumenti tipici della pittura astratta, realizza una figurazione concepita con l’intento di dar sostanza agli umori di una società alle prese con le paure, le speranze e le illusioni più antiche. Attraverso una poetica incline al favolistico e al surreale, egli formalizza la sua personale riflessione condotta sull’ineluttabilità del destino umano e mette in scena una psichedelica e inquieta visione delle dinamiche connesse all’esistenza. Nei dipinti di Hao Wang riconosciamo tanto gli eventi effimeri della quotidianità ordinaria, quanto quelli decisivi prodotti in risposta alle sfide più drammatiche. Immersi all’interno di paesaggi indefiniti, e impegnati in azioni non sempre decifrabili, gli enigmatici protagonisti delle sue opere veicolano, per mezzo delle vicende ritratte, un’immagine inedita della realtà, offrendo allo spettatore il simulacro metaforico e visuale - di una narrazione potenzialmente universale. In tal senso, le silhouette di Hao Wang altro non sono che le immancabili figure

- Gregorio Raspa

centrali di una rappresentazione in cui il soggetto ha ormai perso la sua funzione descrittiva. Esse appaiono come il simbolo di un’umanità in transito, la declinazione allegorica di un universo anestetizzato da attimi irripetibili e fugaci. Nelle sue opere, il potere immaginifico della pittura suggerisce letture e traiettorie inedite degli scenari descritti, dettando le istruzioni per un nuovo sguardo sul mondo, abbagliato da tinte acide e audaci accostamenti cromatici. In tutti i lavori dell’artista cinese l’utilizzo anarchico e prepotente del colore accompagna un segno pittorico ampio, impresso sul supporto con velocità e ricercata approssimazione, evocando uno stile neoespressionista, emotivamente coinvolgente. Nelle sue tele un naturalismo ribelle e ancestrale dialoga a distanza con i rumori della metropoli e gli affanni della produttività. Ed è facile scorgere nell’atmosfera allucinata e vagamente esotica delle ambientazioni da lui pensate l’identità di un linguaggio che si ispira all’attualità quotidiana e, attraverso la reinvenzione di quest’ultima, recupera temi e strutture formali tipici della tradizione artistica e letteraria europea. Immediatamente riconoscibili, a tal proposito, appaiono i riferimenti - più o meno consapevoli - al lavoro dei Nuovi Selvaggi tedeschi, alla 4

pittura di Peter Doig e all’intimismo romantico e decadente di Caspar David Friedrich citato, ad esempio, nella grande tela Rovine (2018) e, più in generale, assunto a modello nella formula costruttiva del rapporto uomo-natura affrontato in molti altri lavori. Più sotterranei e suggestivi appaiono, invece, i potenziali rimandi ai classici della poesia e della narrazione internazionale, da Rilke a Borges, indirettamente chiamati in causa dal nostro artista nel titolo “Stranger Shores” scelto per la sua ultima mostra italiana - non a caso mutuato dall’antologia di saggi letterari composti da John Maxwell Coetzee. Il denso e strutturato campionario di fonti sopra accennato senz’altro non esaurisce i riferimenti utilizzati da Hao Wang per dar corpo e sostanza alla sua ricerca pittorica. Esso semplicemente testimonia l’indiscutibile capacità di questo artista di coniugare elementi culturali high and low, di ibridare linguaggi e contenuti eterogenei, affiancando all’impostazione classica dei temi e delle scelte simboliche un sincero orientamento postmoderno. BARCA D’OCA BLU, 2017. Olio su tela, 100×150 cm. Courtesy dell’artista e Studio d’arte Cannaviello, Milano.


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OLTRE L’IMMAGINE Francesco Ciavaglioli

- Davide Silvioli

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enigmatica (o straniante) distanza fra la familiarità del soggetto raffigurato, spesso caratterizzato da una resa piuttosto rarefatta, e i sofisticati mezzi di riproduzione che vi sono alla base della genesi. Affrontando tali argomentazioni in occasione di “Fremo Immagine”, sua personale conclusasi lo scorso aprile presso la Fondazione Pastificio Cerere di Roma a cura di Saverio Verini, l’artista ha dichiarato: “la banalità dei miei soggetti è decisamente voluta, poiché credo che un immaginario quotidiano sia la chiave per una contemplazione libera”. Questi sono ottenuti dalla ripetizione e sovrapposizione, per mezzo di proiezione, spolvero o carta copiativa, di singoli elementi fotografici che si stratificano restituendo, infine, una parvenza figurativa accompagnata da una latente e non sottostimabile evanescenza. Con tali accenti, l’investigazione di Francesco Ciavaglioli, particolarmente problematica nei riguardi dei nuovi media, invita a ragionare sull’identità fittizia che sta assumendo l’immagine nell’attuale scenario artistico e sociale conseguente al passaggio da codice (statico) a software (mobile), sottendendo simmetrie con alcune riflessioni sulla tematica elaborate da teorici quali Harun Farocki (Operational images, 2003), Hito Steyerl (The poor image, 2009), Ingrid Hoelzl e Rémi Marie (Softimage, 2015), inserendo così la sua ricerca in un alveo disciplinare proprio del nostro tempo e futuribile.

n antichità, sottolineandone la funzione didattico-didascalica, venivano chiamate biblia pauperum ma oggi, nell’attuale società ipermediatica ad alto consumo visivo, le immagini hanno perso una riconoscibilità univoca assumendo contorni sempre più indefinibili. Ciò nello svolgersi di un presente storico consegnato al sovraesposto, dove la replicabilità di un’immagine all’infinito offerta dal digitale senza perdita di qualità nei confronti della “matrice” originaria ha creato, progressivamente, un’inflazione visiva senza precedenti che, simultaneamente, ne ha causato una generalizzata perdita d’incisività. La ricerca di Francesco Ciavaglioli va a toccare questo aspetto della tanta visualità che quotidianamente ci circonda, riflettendo sulla sua riproducibilità, sulle relative possibilità di senso e sulle sue modalità comunicative. Procedendo su tale linea d’indagine, l’artista ricorre all’immagine, a volte, come un pretesto per evidenziare l’effetto di processi seriali, altre, come esito di un metodo già di per sé significativo. Concentrato sui risvolti più capillari della medialità, l’autore sceglie - come egli stesso afferma - “di allontanare le immagini da se stesse per poterle emancipare da una funzione puramente rappresentativa e farne affiorare il potere evocativo”. Dunque, sottrarre il dato immaginale da ogni eteronomia, per qualificare il procedimento che la genera, i suoi risultati e i relativi scarti. L’interprete, manifestando così un atteggiamento critico nei riguardi del metodo, ne verifica i passaggi fino a risolvere la raffigurazione, mai definitivamente, nell’instabilità e nella sospensione derivante dall’interazione di verosomiglianza, mimesi e virtualità. Prevalentemente, le sue realizzazioni ritraggono scenari naturali ottenuti dalla reiterazione - in maniera quasi modulare - di un elemento stilistico specifico istituendo, nel fruitore, un senso di

FREMO IMMAGINE, 2019. Veduta dell’installazione. Fondazione Pastificio Cerere, Roma. Courtesy dell’artista.

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INTERVIEWS

KALEIDOSCOPIC ROOMS Giusy Pirrotta

- Valentina Tebala

Valentina Tebala/ Giusy, dopo l’Accademia a Firenze dove ti sei dedicata alla pittura, la tua formazione prosegue con un Master in Fine Art al Central Saint Martin di Londra e un Dottorato all’University for the Creative Arts, fino ad arrivare oggi a un lavoro, per diversi aspetti, multidisciplinare. Giusy Pirrotta/ Mi piace far confluire discipline come la scultura, il design del prodotto e degli interni alle arti visive, partendo dalla rielaborazione di elementi ed esperienze che appartengono al cinema. Utilizzo materiali che sono istintivamente collegati a interni domestici e che mi permettono di intervenire sul contesto architettonico, come carta da parati, mattonelle, stampe su tessuto e tendaggi, che faccio interagire con sculture che si relazionano con svariate sorgenti di luce come mini proiettori digitali, proiettori di diapositive, LED e lampadine colorate. VT/ Il dottorato in Inghilterra (il cui risultato finale si è sviluppato con la pubblicazione di una tesi e una mostra) era impiantato su un progetto che includeva i tuoi principali campi di interesse; ovvero lo studio della luce, del suo rapporto con l’oggetto scultoreo e con lo spazio espositivo, e anche dei fenomeni ottici di percezione dei colori. Come hai lavorato e con quali risultati? GP/ Moving image and the space around the frame: time-based installations and forms of experience è il titolo della pubblicazione accessibile presso la biblioteca dell’Università di Brighton e EthOS British Library. Il dottorato, di 6

matrice teorico-pratica, si è sviluppato parallelamente alla ricerca artistica personale, che nel mio caso ha compreso la sperimentazione con il film, il video, la fotografia, la ceramica e il metallo. Il progetto ha seguito l’evoluzione del mio lavoro inizialmente orientato sullo studio quasi esclusivo dell’immagine in movimento e dopo sviluppatosi attraverso l’integrazione della scultura e l’analisi dello spazio intorno allo schermo. Il focus è stato lo studio della percezione dell’immagine in movimento in relazione a diversi contesti espositivi - cinema, museo, galleria - ma anche in base al mezzo usato - film e video - e la sua relazione con la scultura e il contesto architettonico. Expanded Cinema e Filmaktion sono stati messi in relazione a trend contemporanei dove il film è usato in maniera scultorea per evidenziare lo sviluppo di un linguaggio che vede l’immagine in movimento in dialogo con lo spazio dell’installazione in maniera continua. Di forte importanza è stata l’osservazione del lavoro di Anthony McCall e l’aspetto auto-referente degli elementi che ruotano intorno allo schermo - il proiettore, il fascio di luce e lo spazio della platea - per riflettere sulla dematerializzazione dell’esperienza del film intesa come esperienza fissa dell’occhio dentro i bordi della proiezione. Ho sempre pensato ai margini dello schermo come ai limiti del nostro quadro visivo. Com’è possibile creare un’esperienza che parta dall’occhio fino a coinvolgere tutta l’estensione corporea? Tramite l’“astrazione” del fenomeno di proiezione e degli elementi che ne fanno parte, attraverso l’iper-stimolazione della visione periferica e l’esperienza pura della luce come quella prodotta nei Ganzfelds di James Turrel.


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i piace far confluire discipline come la scultura, il design del prodotto e degli interni alle arti visive, partendo dalla rielaborazione di elementi ed esperienze che appartengono al cinema.”

Come invece dare corpo alla luce attraverso la scultura mantenendo un livello di esperienza che riflette quella descritta da Tom Gunning in Cinema of Attractions? Le strategie usate da Olafur Eliasson nella messa in scena di fenomeni ottici che si rifanno a oggetti proto-cinematici mettono in relazione l’esperienza dell’installazione contemporanea allo stupore dell’era del pre-cinema. Con la mostra “Between the Glimpse and the Gaze” ho condensato queste e altre riflessioni, rielaborando lo spazio intorno alla proiezione come un luogo di transito sia del corpo che dello sguardo che si muove tra il “glimpse” - la visione fugace - e il “gaze” - la visione del dettaglio - e dove, appena entrati, si percepisce l’illusione che l’immagine in movimento continui fuori dallo schermo attraverso il pattern della carta da parati e le sculture che si trovano sia nella proiezione che nello spazio espositivo. Ho rivisitato l’oggetto lampada e l’oggetto proiettore attraverso la ceramica in modo da reinventare il mezzo stesso e la sue funzionalità, elementi spesso legati ai fenomeni di fruizione precostituiti a cui, da spettatori, siamo abituati in maniera passiva in relazione ai contesti espositivi. VT/ Il cinema o la musica sono mai state fonti di ispirazione per te? GP/ Il designer di cinema John Eberson e i suoi Teatri Atmosferici sono stati di grande influenza sulla mia ricerca. Il cinema in quel caso non era uno spazio buio dove l’esperienza era circoscritta al contenuto narrativo del film, ma un luogo dove lo sguardo si muoveva a 360°.

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Attraverso trompe l’oeil e innesti architettonici tridimensionali, Eberson realizzava scorci di città o paesaggi, mentre sul soffitto erano proiettati cieli stellati, giochi di luce e dissolvenze con il Brenograf. VT/ Con una mostra personale a Milano, negli spazi di Dimora Artica, hai di recente presentato il tuo ultimo progetto: Taixunia. Un lavoro molto articolato e in progress… GP/ Taixunia è un progetto di matrice fantastico-narrativa con contenuti legati all’antropologia sociale e la mitologia del paradiso perduto, a cui mi sto dedicando come se stessi scrivendo un racconto. È in progress nel senso che saranno inclusi elementi svariati che contribuiranno allo sviluppo della storia, come una pubblicazione, la realizzazione di ambienti, oggetti scultorei e un breve film. Da Dimora Artica ho lavorato a una “premessa” dove al momento sono presenti tre personaggi e una mappa. Da sinistra: BETWEEN THE GLIMPSE AND THE GAZE, 2017/18. Ceramiche smaltate, plexiglas, balaustre di legno, carta da parati, lampadine LED colori cangianti, mini proiettori digitali, monitor, struttura di legno. Video proiezione Botany HD video 6’10’’. Veduta parziale dell’installazione, James Hockey Gallery, UCA Farnham. Foto © Stephen White. TAIXUNIA, TESTA (PROTAGONISTA), 2019. Ceramica smaltata, lampadina colorata. Dettaglio della scultura parte dell’installazione a Dimora Artica, Milano. Foto © Giusy Pirrotta. Per entrambe courtesy dell’artista.


INTERVIEWS

LA TRACCIA DEL TEMPO Fabio Presti

- Erika Lacava

Erika Lacava/ Tele non completamente coperte o con parti grattate, carte dai bordi slabbrati, ruggine, stratificazioni. Sembra che le tue opere siano “vissute”, come se fossero nate già vecchie di secoli. Quanto è importante il tempo nelle tue opere?

materiale che rimanda alla mia infanzia sono i trasferelli e i timbri con cui a volte imprimo le date. Queste rappresentano il momento esatto di un cambiamento che costringe a misurarsi con il proprio Io, che porta a scoprire irreparabilmente il proprio destino. Insomma, per sintetizzare: le mie sono “opere materiche”, che istintivamente verrebbe voglia di toccare. Ma se dovessi scegliere il materiale che più mi caratterizza e mi affascina, è sicuramente la ruggine. La uso copiosamente e simbolicamente per sviluppare tutta la mia poetica.

Fabio Presti/ È fondamentale, nelle mie opere come nella vita di tutti noi. Il mio è un lavoro simbolico: siamo tutto quello che abbiamo vissuto, strato su strato, che va a cercare sulle superfici la traccia del tempo.

EL/Dai tralicci e dagli alberi dei primi lavori sei passato a cani, meduse, figure umane, cervi. Tutti soggetti che immergi in una sorta di brodo primordiale in cui “galleggiano”. Come nascono i tuoi soggetti e come vivono lo spazio dell’opera?

EL/ I tuoi lavori si caratterizzano proprio per gli strati di colore spessi, dalla consistenza lattiginosa e un po’ arrugginita. Quali sono i tuoi materiali d’elezione? FP/ Mi sono sempre divertito nel descrivere le mie opere con un classico “tecnica mista”, ma solo per incuriosire l’osservatore. Dopo i primi anni di sperimentazione, in cui ho usato pannelli di rame bruciati con il fuoco (vedi l’opera Monsieur Maleontè usata per la copertina di Rodeo Massacre degli Ulan Bator), ho cambiato elemento, utilizzando l’acqua. Il supporto di questo lavoro è una superfice rigida in legno ricoperta di tela, intrisa da uno strato materico di polvere di marmo. Qualche volta uso anche materassi intelati. La base iniziale bianca viene poi sporcata da acqua e ruggine e arricchita da colori acrilici. La lavorazione materica avviene strato su strato, utilizzando i dorsi delle custodie di vecchi mix tape come spatole. Un altro

FP/ Per risponderti parto dalla frase che ho pubblicato in uno dei libricini di Alberto Casiraghy: “La ruggine è una velatura che si forma su qualcosa di dimenticato… è importante dare nuove possibilità alle cose, alle persone, agli alberi”. Tutti i miei soggetti sono fortemente simbolici e trattano la condizione umana, che sia quella dei migranti, degli adolescenti, dell’essere famiglia oggi, ecc. I soggetti vengono volutamente posti al centro del quadro. Lo spazio che hanno intorno vuole essere un messaggio di forza, di centratura, di credere nelle proprie ricchezze interiori. Una speranza, uno sguardo che va oltre, una nuova possibilità. Anche i titoli delle opere spesso rafforzano questo concetto. 8


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utti i miei soggetti sono fortemente simbolici e trattano la condizione umana, che sia quella dei migranti, degli adolescenti, dell’essere famiglia oggi...”

EL/ In alcune esposizioni hai nascosto delle opere. Vuoi spiegarmi cosa sta dietro questa decisione? FP/ Il fatto di celare alcune opere riprende il concetto degli strati, del sommerso, una sorta di gioco a nascondino. Durante la mostra di apertura di Zoia - Galleria d’arte contemporanea,

a Milano, ho fatto un’installazione sitespecific intitolata Migrant box, partendo dalla serie Approdi del 2013. L’opera raffigurava una medusa ed era dipinta su un materasso appartenuto a un centro di accoglienza per richiedenti asilo, che veniva a caricarsi di tutte le emozioni che il processo del migrare porta con sé. La medusa rappresentava un migrante alla deriva, spinto dalle correnti come le imbarcazioni che approdano sulle coste di Lampedusa. Un animale orticante e in alcuni casi pericoloso per l’uomo, da temere, catturare o far sciogliere sotto la sabbia. L’installazione si arricchiva di altre piccole meduse che “approdavano” su scogli di cartone, simbolo delle valigie che i migranti portano con sé, contenenti poche e preziose cose: un cavallo a dondolo, delle vecchie scarpe, una spazzola. Tra queste povere cose erano nascoste anche le mie opere, che il visitatore doveva trovare. Sullo stesso concetto si basa l’installazione Constellations, realizzata a L’Aquila nel 2017 per la mostra “La

bellezza resta”. Qui si poteva vedere una sola opera, mentre le altre tre erano imballate e nascoste da cerchi di spray per proteggere la bellezza e la leggerezza. Su questo discorso proseguirò anche in autunno, con una personale anomala durante una mostra su Andy Warhol curata da Matteo Vanzan a Lignano Sabbiadoro, in provincia di Udine. EL/ Vuoi raccontarmi di questo progetto e delle altre tue prossime mostre? FP/ Le mie opere verranno esposte una alla volta solo per un quarto d’ora, accanto a quelle di Andy Warhol. Verranno fotografate e postate in rete, riprendendo la celebre frase del fotografo Nat Finkelstein erroneamente attribuita a Warhol: “In futuro tutti saranno famosi per 15 minuti”. Ma il progetto principale a cui sto lavorando è “nEVERMIND”, la mia prossima personale prevista per il 2020 nello spazio Heart a Vimercate, in Brianza, a cura di Simona Bartolena, per il trentesimo anniversario della musica Indie degli anni ’90.

Da sinistra: GENERALE INVERNO, 2017. Tecnica mista su materasso intelato, 80x80 cm. LOVE SONG, 2009. Tecnica mista su tela, 150x150 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

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INTERVIEWS

DARE CORPO AL LINGUAGGIO Chrischa Oswald

- Martina Lolli

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oetessa, fotografa, visual artist, Chrischa Oswald (classe 1984) porta avanti una ricerca a tutto tondo basata sull’interesse per la condizione umana e per le sue molteplici forme di comunicazione. Le sue opere, declinate nei diversi media, divengono dispositivi comunicativi che il pubblico può attivare, e luogo di pensiero metacomunicativo con l’intento di portare avanti una piccola rivoluzione: fare esperienza dell’energia scaturita dall’atto di farci carico - anche fisicamente - delle nostre idee e ideali e mostrarli al mondo. Una rivoluzione culturale che passa prima di tutto dal corpo. Abbiamo chiesto a Chrischa di raccontarci il potere della comunicazione verbale e non verbale e di come questa influenzi e venga influenzata dalla postura del corpo.

Martina Lolli/ Nel tuo lavoro utilizzi parole sia in modo concreto - come elementi dei tuoi collage poetici - che astratto, quando parli della necessità di un’espressione sincera. Qual è il potere della parola oggi, in un mondo di “visual e verbal pollution”? Chrischa Oswald/ L’inquinamento visivo e verbale odierno ci rende meno ricettivi e sensibili verso qualsiasi tipo di messaggio. Tuttavia credo che il potere delle parole sia grande - come lo è sempre stato - ma le parole sono insignificanti se sono vuote e l’intenzione dietro di esse non è “sentita” o trasmessa correttamente. Credo che la parola di per sé abbia un risvolto “sacro”, e i mantra ne sono un esempio dove anche il suono - la parola parlata, pronunciata - partecipa a questa sacralità. La parola parlata o recitata può diventare un incantesimo in quanto “incanta”

attraverso la vibrazione, l’intonazione e il ritmo. Attualmente sto leggendo un libro trovato in un mercato di Lisbona sul misticismo tibetano: una delle idee fondamentali è appunto il potere dei mantra. Ma è un potere che si sprigiona inconsciamente e quotidianamente: prendiamo le storie che ci vengono raccontate e raccontiamo a nostra volta; esse forgiano il nostro mondo e la nostra percezione di esso, per cui bisogna fare attenzione al modo in cui parliamo e a ciò che ascoltiamo. La ripetizione, come meccanismochiave dei mantra, è alla base della mia ricerca, per il suo utilizzo magico negli incantesimi, nelle preghiere, nelle canzoni e perfino negli slogan. Quanto alla parola scritta, esercita il suo fascino e non cessa di essere altrettanto potente. La letteratura - che sia prosa o poesia - ha costruito e continua a costruire nuovi mondi nella nostra immaginazione e la bellezza di tale meccanismo è che ogni mondo costruito risulta differente da quello immaginato da un altro, dato che i nostri cervelli 10

funzionano in modo diverso. Le parole sono un grande stimolo e allenamento per la nostra capacità immaginativa, così in un mondo in cui le immagini sono onnipresenti credo che la parola ci offra la libertà del “non-totalmentedefinito” - sebbene le immagini siano connesse con idee visive. Inoltre la qualità seduttiva della parola ha conservato il suo potere, se prendiamo come esempio i discorsi politici e la loro capacità di trascinare masse: il particolare utilizzo del linguaggio può creare legami fra le persone, senso di appartenenza a una comunità, ma capita che possa trattarsi di una connessione falsata che viene dall’impressione che qualcuno parli “la nostra lingua”. Tale espressione è sintomatica del fatto che il modo in cui comunichiamo - i codici che i politici utilizzano - e ciò che diciamo deciderà l’affinità che avremo con altra gente. Le parole ci uniscono e dividono allo stesso tempo: il modo in cui esprimiamo determinati pensieri nella nostra comunicazione interpersonale influenza le nostre relazioni.


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e parole ci uniscono e dividono allo stesso tempo: il modo in cui esprimiamo determinati pensieri nella nostra comunicazione interpersonale influenza le nostre relazioni.”

ML/ Nella serie True parli, o meglio veicoli l’importanza della postura corretta del corpo sulla scia dell’idea che la giusta attitude formi un pensiero forte. Prendiamo ad esempio l’opera #TRUE_flags (2018), bandiere con slogan che gli spettatori sono invitati ad attivare. Ci spieghi come? CO/ Credo che l’aspetto psicologico del mondo del linguaggio sia ancora cruciale nella manipolazione o “programmazione” della nostra mente. Ma parliamo anche del linguaggio del corpo naturalmente, dal momento in cui il nostro corpo è in costante comunicazione con il nostro cervello e viceversa. Quando ho scoperto che possiamo diventare tristi a causa di una determinata postura pensavo che fosse incredibile che non siamo coscienti di ciò nella vita quotidiana. Spesso ci “sabotiamo” inconsciamente perdendo la nostra energia attraverso una posa scorretta. Trovo affascinante che siano queste piccole cose a influenzare il nostro mood e i nostri messaggi non-verbali con cui comunichiamo. Così aggiustare il nostro portamento significa essere sinceri con noi stessi, un supporto alla fiducia in noi stessi, ma allo stesso tempo riusciremmo a essere più convincenti, quando parliamo delle nostre idee. E in questo modo non saremmo tentati di seguire ciecamente i “venditori di fumo”; saremmo forti abbastanza per essere i nostri “leader” e condividere le nostre verità con il mondo. Con la mia ricerca vorrei sensibilizzare le persone a queste connessioni postura-mente e la serie #TRUE_flags è proprio per questo: andare nel mondo e marciare per le nostre speranze. Nelle bandiere suggerisco degli slogan, ma il

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pubblico può scegliere quale tag calza meglio i propri valori, quale frase o parola vogliono supportare nel mondo - quale bandiera vogliono “attivare”. Lo spazio espositivo diventa così un “test ground” per capire come ci si sente a presentare le proprie verità visibilmente. Se non hai mai partecipato a una dimostrazione potrebbe essere “esotico” ed esserci delle inibizioni a taluni livelli. Ma nel contesto performativo le persone possono fare esperienza di quanto può essere potente condividere i propri ideali. Sono anche incoraggiate a scattare foto e postarle sui social per diffondere il messaggio altrove. Le bandiere non sono fatte solo per essere guardate, ma dovrebbero ispirare la gente che le utilizza a sperimentare la potenza del comunicare le nostre verità. Il linguaggio è importante, le parole altrettanto, ma dobbiamo sentire su di noi come si traducono in azione, come dare loro corpo invece che lasciarle conchiglie vuote. Da sinistra: TRUE, 2017 . HD Video, sound, 25.50 min. #TRUE_flags, 2018. Prints on satin, golden brass bars. Flags ca. 95x60 cm, Brass bar 2 m. Per entrambe courtesy dell’artista.


SPECIAL

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IL VERO E IL FALSO NEL CONTEMPORANEO

n tempi in cui la parola fake è entrata a far parte del nostro linguaggio quotidiano, sempre più spesso si parla di fake anche nel mondo dell’arte contemporanea in virtù, talora, dell’utilizzo di media e strumenti facilmente reperibili e dunque facilmente riproducibi-

Loredana Barillaro li. Quanto si parla del fenomeno contraffazione nell’ambito del contemporaneo? Ebbene, quanto è facile incorrere nell’errore, quanto è facile scambiare un’opera d’arte autentica con il suo falso? E il mercato, come si tutela, è forse, esso stesso, causa ed effetto al contempo? Scopriamo quindi che - cifre alla mano - il dato che emerge è particolarmente allarmante. Ma scopriamo anche che i

ANGELA SALTARELLI

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i parla molto del problema della contraffazione delle opere d’arte contemporanea, trattandosi di un fenomeno piuttosto diffuso. Secondo quanto recentemente comunicato dal Comandante della Sezione Falsificazione ed Arte Contemporanea del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, nel 2018 quasi il 70% delle opere d’arte contemporanea in circolazione in Italia sarebbe stato costituito da falsi. La contraffazione delle opere d’arte contemporanea sembra, poi, un fenomeno in crescita: il valore delle opere sequestrate lo scorso anno da parte dei Carabinieri ammontava a circa 218 milioni di euro, quasi quattro volte in più rispetto al 2016. Recentemente, il mercato dell’arte contemporanea italiano è stato scosso da alcuni significativi casi di contraffazione: un centinaio di opere attribuite a Michelangelo Pistoletto sequestrate in tutta Italia, i falsi Dadamaino e De Dominicis. Un caso che ha destato particolare scalpore è stato, poi, l’esposizione di alcune opere false di Modigliani durante due mostre tenutesi rispettivamente a Genova e a Palermo. L’arte contemporanea è sicuramente la tipologia d’arte più falsificata sia per la facilità dei falsari nella riproduzione di tali opere (a differenza di quelle di arte antica), sia per la maggiore richiesta da parte del mercato. È, quindi, piuttosto facile incorrere in errore e acquistare un’opera d’arte non autentica, soprattutto qualora non venga svolta un’accurata due diligence sull’opera prima del suo acquisto. La due diligence consiste nello svolgimento di adeguati controlli in materia: di provenienza, autenticità, vincoli sull’opera e stato di conservazione della stessa. Il mercato dell’arte, pur presentando ancora molte zone grigie, sta cercando di tutelarsi contro il fenomeno della contraffazione che incide negativamente sulla fiducia dei collezionisti e sull’ingresso di nuovi possibili player. In particolare, si stanno sviluppando alcune iniziative, come il Responsible Art Market che mira a fornire linee guida e standard comuni per gli operatori e i privati al fine di garantire un corretto acquisto. Inoltre, anche la tecnologia, in particolare la blockchain, aiuterà il mercato dell’arte consentendo una maggiore tracciabilità delle transazioni e delle opere stesse.

concetti di “autentico” e “falso” appaiono sovente relativi, ossia, quando il falso diventa vero, e quando non tutto è sinonimo di tutto...

Angela Saltarelli è Avvocato specializzato in Diritto dell’arte e dei beni culturali, oltre che in tematiche ip. Collabora con lo studio Chiomenti. Un ritratto di Angela Saltarelli. Courtesy Angela Saltarelli.

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CHIARA CASARIN

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er capire cosa sia l’autenticità è necessario dare una definizione di falso. Lo si vede in controluce. In arte, diversamente da altri ambiti come ad esempio quello della numismatica, l’autenticità è il riconoscimento di una precisa relazione che l’oggetto artistico intrattiene con il suo autore. Ora generalizzerò per chiarezza ma il tema è molto denso e nel saggio L’autenticità nell’arte contemporanea, Zel Edizioni del 2015, lo affronto dettagliatamente. Se in passato gli artisti eseguivano materialmente

il loro lavoro, da circa cento anni non è più così: object trouvé, land art, arte povera etc. prevedono l’uso di materiali e oggetti preesistenti all’opera. Come si definisce dunque questa relazione? Fino a quando può essere considerata autentica un’opera eseguita da altri - non dall’artista - dove per altri intendiamo anche il caso o, perché no, Madre Natura? Definire l’autentico in arte equivale a definire l’arte ma non è vero il contrario. Ciò che non è autentico non può automaticamente essere definito non-arte. Le opere di Van Meegeren ora sono autentiche, quando le si voleva riconoscere come opere di Vermeer erano false. Le stesse! Può un concerto di Keith Jarrett essere più autentico di un concerto di Schumann solo perché il compositore lo sta eseguendo davanti a noi? Le copie che Monet eseguiva al Louvre quando era un giovane e sconosciuto pittore, ora valgono più degli originali da cui sono state tratte. Vedete dunque che la risposta non è nemmeno di tipo economico. Studiando i falsi, tutti i tipi di falsi, studiando l’auten13

ticità, in tutte le sue sfumature ho capito che il valore estetico appartiene ad entrambi, il valore storico artistico è equivalente (i falsi non sono forse sintomo del gusto di un’epoca? Infatti si falsificano solo le opere di grande successo) solo il valore economico cambia. E questa faccia della medaglia non è poi così interessante. Il fake equivale alla contraffazione. Contraffare significa ingannare volutamente, sostenere l’autenticità laddove si sa che non è così. Il fake è un problema d’intenti, non d’arte. Bisogna stare attenti alle parole!

Chiara Casarin è Direttore dei Musei Civici Bassano del Grappa. Dottore di ricerca in semiotica dell’arte, ha pubblicato L’Autenticità nell’arte contemporanea, Zel Edizioni. Un ritratto di Chiara Casarin in una delle sale dei Musei Civici Bassano del Grappa. Courtesy Chiara Casarin.


ACROBATICO, INVOLUTO, SPREZZANTE Milovan Farronato

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a memoria inconscia spesso gioca un ruolo fondamentale! Scegliere di rappresentare, dal vivo, un atto o un momento che si compie velocemente, che ha un apice e poi una quiescenza - sia che si tratti dell’erezione auto-erotica di un amico o dell’eruzione di un vulcano - causa tanto uno stato di eccitamento quanto richiede la predisposizione a una controllata concentrazione.”

otato all’ipotassi piuttosto che alla paratassi prediligo la sintesi, ma solo se prolissa di aggettivazione. Mi piace pensare di poter restituire la visione di una memoria, di un luogo, più spesso mi capita si tratti di un’opera d’arte, attraverso il registro diacronico della scrittura che avverto costantemente ostile e tuttavia mi contraccambia piacere. Amo anche credere di avere una presenza performativa, più nei silenzi e nei monologhi che nelle conversazioni. In entrambi i casi utilizzo il mezzo espressivo dell’auto-sabotaggio per divertirmi e improvvisare. Tradotto in termini spiccioli: creo un canovaccio ma mai un copione; prendo molte note sparse ma mi riduco a formalizzare una riflessione testuale nel breve volgere di poche ore o, nei casi più impegnativi, nel susseguirsi di alcune albe e altrettanti tramonti. Perché? Immagino si tratti di volersi sorprendere o di credere nella possibilità dell’errore qualificante. Cercare di confinare una predisposizione in un attimo, sullo stimolante precipizio del fallimento. Faccio un esempio al di fuori della mia pratica: la pittrice, musicista e performer, ma soprattutto pittrice inglese Celia Hempton sceglie, da tempo, di esporre le sue capacità pittoriche e cromatiche insieme alla sua idea di armonia e composizione in un processo frenetico che non è mai fortuito. La memoria inconscia spesso gioca un ruolo fondamentale! Scegliere di rappresentare, dal vivo, un atto o un momento che si compie velocemente, che ha un apice e poi una quiescenza - sia che si tratti dell’erezione auto-erotica di un amico o dell’eruzione di un vulcano - causa tanto uno stato di eccitamento quanto richiede la predisposizione a una controllata concentrazione. Una questione di climax per cui l’ultimo atto, quello risolutivo, è la punta di un iceberg di un sommerso fluttuante sempre rimesso in gioco. L’ho personalmente accompagnata in cima a Iddu (come gli Strombolani chiamano il loro vulcano) e l’ho vista compiere il gesto pittorico, sempre epico anche nella limitatezza del suo piccolo formato. Anche Nick Mauss si espone a un autosabotaggio quando realizza le sue ceramiche, nel momento in cui offre il disegno, il tratto, la grafia e il colore a un processo di cottura peculiare che potrebbe diventare l’anonimo che insieme a lui firma, a quattro mani, l’artefatto finale. “Le coincidenze vanno sempre guidate”: sosteneva Stéphane Mallarmé e io l’ho spesso citato (anche abusato). Coordinare o coreografare energie nello spazio con sforzo sprezzante senza apparenti meccanicismi o grovigli cervellotici è ciò che credo di voler raggiungere. Arriviamo quindi all’anastrofe, a quella figura retorica per cui, in base a un contratto stipulato, la licenza poetica è parte costituente, imprescindibile. La possibilità di alterare (o sabotare) il normale ordine delle parole in una frase per creare una gradita e gradevole enfasi; per incespicare la sintassi, per distogliere l’attenzione, per suggerire qualche altra possibilità di lettura o una diversa gerarchia, o una non gerarchia. “Total Anastrophes” è stato il titolo che con 14

PEOPLE ART

Runa Islam abbiamo dato all’ottava edizione del Festival che da quasi un decennio conduco per il Fiorucci Art Trust, di cui sono direttore artistico, sull’isola vulcanica di Stromboli. Uno tra i miei progetti curatoriali più noti e più scalzi; un luogo unico di potenti alchimie in cui la benevolenza e la malevolenza tendono a coincidere tanto quanto la fertilità con l’aridità di una montagna senza acqua. Un progetto in cui il backstage e lo stage sono la stessa cosa così come la prova generale è già la prima. Il titolo vocalizza la possibilità di una catastrofe in un’unica, irripetibile, emozionante convergenza di tante energie senza confini netti prestabiliti, una “strofa” alterata i cui versi vicendevolmente si subordinano e completano. Di nuovo, ipotassi in mutuo soccorso e bilanciamento. Allo stesso modo, i protagonisti Cecilia Bengolea, Alex Cecchetti, Patrizio Di Massimo, Haroon Mirza, Tobias Putrih e Osman Yousefzada, nostri autori e interpreti, si sono interfacciati e intersecati su vari piani, componendo un elaborato ma agevole sistema rizomatoso. Un’acrobazia non solo di sintassi ma anche geografica, che ci ha portati a occupare per una decina di giorni l’auditorium della Shilpakala Academy, l’Istituto di Belle Arti a Dacca, in Bangladesh, rendendo l’anastrofe vita vissuta. Per la prima volta Iddu ha viaggiato oltreoceano, il paradosso del suo magmatico mondo interiore sviscerato nella riproduzione di un immaginifico teatro nel ventre del vulcano, fatto di luci, ombre e memorie latenti. Anche il titolo della mostra che ho curato al Padiglione Italia quest’anno, in fondo, è un’anastrofe. “Né altra Né questa” è un’espressione inusuale che ne unisce e inverte altre, più logiche o ricorrenti: né questo né quello, né l’uno né l’altro. Sceglie il femminile per suggerire all’immaginazione di riempirne il vuoto sintattico con parole che, nella lingua italiana, sono spesso legate all’evocazione di una dimensione “altra” e altrove, aperta e astratta. L’abitudine a ragionare per binomi si interfaccia così con una strada che non è né qui né là. Non si trova né in questa né in un’altra via. Si contempla la possibilità di una terza scelta, quella di una realtà in cui i limiti delle contraddizioni si sorpassano.

Milovan Farronato è Direttore e Curatore del Fiorucci Art Trust di Londra, per cui ha ideato il Festival Volcano Extravaganza, e Curatore del Padiglione Italia alla 58. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. A destra: Milovan Farronato in un ritratto di © Giovanna Silva. Courtesy Milovan Farronato.


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DESIGN.ER

LA CURIOSITÀ COME CERTEZZA Serena Confalonieri

- Loredana Barillaro

sembrano più fantasiosi ci sono sempre una regola e un metodo che permettono di farli “funzionare” sia a livello tecnico che estetico. Loredana Barillaro/ Serena, quando e perché hai deciso di fare la designer? Serena Confalonieri/ Non è stata esattamente una decisione che ho preso, sono sempre stata attratta, fin da piccola, dal disegno, dall’architettura e dalla moda. Dopo il liceo ho frequentato per due anni la facoltà di Architettura al Politecnico di Milano, per poi spostarmi alla Facoltà di Design che proprio in quegli anni si stava rinnovando con specifici indirizzi di studio. Lì ho studiato Interior Design.

LB/ I tuoi campi di interesse: quali sono le basi da cui sei partita, cos’è che ispira i tuoi progetti? SC/ Mi interessano le culture diverse dalle nostre, le culture tribali, i gesti essenziali, i colori, i rituali, i segni primitivi. Credo che l’utilizzo di forme e segni legati alle radici dell’uomo possano naturalmente creare oggetti con cui possiamo facilmente relazionarci e stabilire un legame emotivo. LB/ Il design è più utilità o bellezza?

LB/ Cosa ti dà il tuo lavoro e cosa offri a chi sceglie i tuoi progetti?

SC/ La funzionalità e la semplicità generano la bellezza.

SC/ È un lavoro che, pur essendo molto creativo, necessita di metodo. L’approccio progettuale è la base fondamentale, un approccio rigoroso può essere applicato in tutti i campi della progettazione e permette di non sbagliare. Anche nei progetti che

LB/Un “prodotto” di design può essere per tutti? Come il design entra nel quotidiano delle persone? SC/ Il prodotto di design deve essere per tutti. Un cavatappi è per tutti, una sedia 16

è per tutti. Design non vuol dire necessariamente che un oggetto debba essere costoso. Il design anonimo da cui siamo circondati è la forma più perfetta di design: la molletta del bucato, le graffette, gli utensili da lavoro sono la sintesi perfetta del concetto di design. Oggi la necessità di offerta spinta dal mercato deve essere più varia, per cui si lavora su tutte le possibili varianti di oggetti già esistenti, avvicinando i tempi e le modalità del design a quelli della moda. LB/ Infine, cosa fa di te una designer? SC/ Ti rispondo con una frase di Achille Castiglioni: “Se non sei curioso lascia perdere”.

Serena Confalonieri è Designer e Art Director.

Da sinistra: Serena Confalonieri in un ritratto di © Sara Magni. Dalla collezione ARABESQUE, 2019. Vasi in vetro, auto-prodotti. Foto © Andrea Agrati. Per entrambe courtesy Serena Confalonieri.


PHOTO.&.FOOD

TUTTA L’ARTE IN UN PIATTO Davide Luciano

- Loredana Barillaro

Loredana Barillaro/ Davide, le tue foto hanno un carattere estremamente pop, sono accattivanti e molto vivaci; cos’è che decidi di sottolineare del cibo, il mero aspetto estetico o anche altro?

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uando ho deciso di fare del cibo la mia carriera, volevo che fosse divertente, colorato e giocoso. Mi avvicino a ogni ripresa come a una tela bianca e voglio che l’estetica e l’aspetto che cerco di raggiungere ruotino soltanto intorno al cibo.”

Davide Luciano/ Il cibo è anche una mia passione e crescere in una famiglia italiana ha fatto sì che diventasse ben presto un argomento di conversazione. Quando ho deciso di fare del cibo la mia carriera, volevo che fosse divertente, colorato e giocoso. Mi avvicino a ogni ripresa come a una tela bianca e voglio che l’estetica e l’aspetto che cerco di raggiungere ruotino soltanto intorno al cibo. Sono orgoglioso del processo di creazione che metto in atto, ciò che desidero è creare contenuti originali che suscitino nello spettatore un’emozione (e, si spera, anche la fame!). LB/ Quanto ti senti cultore del bello, sei più artista o fotografo? La bellezza dei tuoi scatti fa sì che si possano definire in fondo, delle vere e proprie opere d’arte, “invitanti” e affascinanti… DL/ Grazie per il complimento. Mi piace 17

pensare a me stesso come a un artista che usa la fotografia come medium. L’epoca in cui viviamo ci “costringe” a navigare costantemente nei social media, per cui siamo bombardati ogni giorno da troppe immagini, è per questo che tendo a creare lavori che abbiano un aspetto memorabile e possano catturare l’attenzione dello spettatore. LB/ Si potrebbe chiedere a un fotografo “cosa metti nel piatto?”. DL/ Che dire, mi piace mangiare, sono italiano! E sono un grande sostenitore della semplicità, penso che dei buoni ingredienti siano l’unica cosa che davvero importi.

Davide Luciano è Artista e Fotografo di cibo.

Da sinistra: CLING WRAP, SLICED FRUITS. BROCCOLINI, OLIVE OIL, LONGSTREAM. Per entrambe courtesy Davide Luciano.


SMALL TALK

TRA IL SOGNO E LA REALTÀ Gianluca Capozzi

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a mattina rappresenta un passaggio tra il mondo onirico e quello reale; il risveglio è inteso come parte di un vissuto molto vicino alla psichedelia...”

Carla Sollazzo/ Gianluca, quali sono i riferimenti artistici riscontrabili nel tuo stile? Gianluca Capozzi/ Mi piacciono tutte le forme d’arte, ma guardo soprattutto alla pittura e al disegno, del passato e del presente. I miei preferiti, tra i pittori, sono Gerhard Richter, Wilhelm Sasnal e Michaël Borremans. Ma non ci sono riferimenti artistici diretti nei miei dipinti; credo che la pittura sia una continua sperimentazione. CS/ Da cosa parti per realizzare le tue opere (dalla forma, dal soggetto... ) e da cosa trai ispirazione? GC/ Parto dal disegno, delle mie emozioni e di quello che mi circonda. L’osservazione

- Carla Sollazzo

della natura è centrale nel mio lavoro. Dalla pittura - studiandone il segno e il colore e i suoi confini estremi di possibilità rappresentativa - al video, come prolungamento della stessa, come esplosione addizionata di musica e movimento; la musica è una delle mie principali fonti di ispirazione. Poi ci sono dei film che hanno personaggi e ambientazioni particolarmente interessanti, specialmente quelli meno recenti; così come pure le fotografie. Mi attrae anche il pensiero magico sudamericano e quello orientale, in relazione alle nuove scoperte della fisica quantistica. Un nonsense pervaso di significati ancestrali. Mi ispira tutto ciò che può diventare parte della realtà e non solo la sua mera rappresentazione. CS/ C’è un’opera in particolare che consideri come la tua prima opera d’arte riuscita? Perché? GC/ Sì, il mio primo dipinto, realizzato all’età di quattro anni; in quel momento ho capito quale sarebbe stata la strada che dovevo/volevo percorrere. CS/ In Psychedelic breakfast with friends - un acrilico su tela realizzato di recente - perché scegli di raffigurare 18

questo preciso momento della giornata, la colazione, e perché la immagini “psichedelica”? CG/ La mattina rappresenta un passaggio tra il mondo onirico e quello reale; il risveglio è inteso come parte di un vissuto molto vicino alla psichedelia, un viaggio dove la realtà viene allargata da una coscienza più ampia, alterata rispetto all’ordinario e lontana dal mondo logico razionale. È anche un riferimento a un celebre brano dei Pink Floyd. CS/ Oggi, in quale direzione si sta volgendo la tua sperimentazione? GC/ La mia sperimentazione è direzionata verso un’indagine sulle nuove scoperte della fisica quantistica, che ci mostrano come la realtà sia formata e creata da chi osserva; quindi, non è la realtà che forma la coscienza, ma la coscienza che forma la realtà. Sto studiando anche il legame che può intercorrere tra la scienza e la religione, il pensiero dei grandi filosofi, il pensiero andino e quello orientale. PSYCHEDELIC BREAKFAST WITH FRIENDS, 2019. Acrilico su tela, 80x120 cm. Courtesy dell’artista.


FREE SPACE TRA ANTICO E CONTEMPORANEO Il linguaggio di Nello Petrucci riletto alla luce delle riflessioni di Settis e Bauman

- Anna de Fazio Siciliano

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rispetto agli altri che costellano il nostro vasto panorama artistico nazionale. Nelle sue opere più riuscite, riesce a rinegoziarne il senso mentre contemporaneamente, in modo più o meno inconscio, valorizza la testimonianza della pittura antica. I lavori di Petrucci quindi riproducono una necessità, ancora persistente in certa arte contemporanea, che corrisponde a quella di rielaborare l’immagine classica attraverso i propri linguaggi, con i suoi propri mezzi, dal manifesto strappato, alle passate di lucido, dagli inserti cinematografici alle colate di colore in verticale. È quindi piuttosto sintomatico che avvenga questo mèlange di metodo e contenuto ancora nella nostra era del multimediale, un’età detta da Zygmunt Bauman “postcontemporanea”. Se il senso dell’arte postmoderna, come sostiene ancora Bauman, che è il più influente intellettuale del secondo ’900, “sta nello spalancare le porte del senso” allora l’arte, dice ne Il disagio della postmodernità, deve anche essere “una forza critica e liberatoria - e può esserlo - soltanto nella misura in cui l’artista”- di oggi, crea un pensiero visivo per cui, sia l’artista stesso che lo spettatore - “devono, volenti o nolenti, prendere parte al processo di comprensioneinterpretazione-creazione di senso”. E tutto ciò può succedere se l’arte si libera dal condizionamento “della tirannia del consenso generale”, che non può altro che limitare quando non paralizzare. Petrucci con la sua poetica, attiva un processo paradigmatico perché la sua produzione non insegue stilemi o linguaggi più adatti al mercato, si svincola dalle mode dei suoi anni, è artista libero da ogni compromesso. Anche dal dato temporale. Ecco perché la sua pittura non deve essere del tutto intellegibile né ascrivibile a un illustre passato come quello di Roma, e neppure a un linguaggio connotato come quello di Mimmo Rotella, o al linguaggio del cinema, perché, e lo sosteneva già Novalis a inizio ’800: “l’antichità (qualunque essa sia) non ci è data in consegna per sé. Non è lì a portata di mano, al contrario, tocca proprio a noi saperla evocare”.

n quel saggio mirabile del 2004 che è Il futuro del classico, Salvatore Settis ribadisce come oggi piuttosto che evocare un passato illustre, le citazioni dell’antico nell’arte contemporanea, “sono spesso profondamente sconcertanti perché sottolinea - prelevano dal tessuto della narrazione antica, per trapiantarle in ambiti troppo diversi”. Così molte delle opere dell’arte postcontemporanea che cercano un dialogo vicino alle istanze dell’antico, sembrano più ricalcare un mero citazionismo dove la “nuova” opera creata è piuttosto l’esito della scomposizione dell’antico in frammenti decontestualizzati, frammenti sempre pronti al riuso o, tutt’al più, a rimontaggi alquanto arbitrari. Sul filo di questa suggestione accesa da Settis viene da chiedersi quale sia l’atteggiamento nei confronti dell’antico di un artista come Nello Petrucci. Nato sulle rovine di Pompei, Petrucci non può restare sordo alle sirene dell’antico, e questo sebbene abbia compiuto un lungo viaggio di andata e ritorno costruendo anche, tra le altre, una metafora artistica tra questa e una delle metropoli più spiazzanti del pianeta, la città di New York. Del suo lavoro infatti ciò che più risulta interessante consiste in quel farsi ponte tra due città, due luoghi e due secoli del tutto distanti tra loro. Ma viene spontaneo da chiedersi se il suo lavoro deve per forza trovare nel passato un termine di confronto. Deve accostare all’antico le sue opere così moderne? Opere che peraltro rappresentano tra gli esiti più brillanti di un linguaggio già noto come il decollage. Deve ad ogni costo riappropriarsi introiettando una lontana traccia mnestica emersa da quei frammenti antichi? Che gli stili della pittura romana siano nati all’ombra del Vesuvio è ben noto, che siano stati quelli i luoghi dove un passato sconosciuto è stato ricomposto con le scoperte di fine ’700, è altrettanto pacifico. Lì, passo a passo, è l’intero repertorio iconografico della pittura romana che è tornato alla luce. E questo passato incalza in tutta la storia dell’arte e Petrucci lo rivive ogni giorno, ce l’ha impresso nel DNA. Tuttavia sempre quotidianamente, con la cura che merita, lo rimpasta nel suo laboratorio creativo “costringendolo” alle emergenze dell’attualità dell’arte. Petrucci è artista che vive il presente e lo agita nei suoi processi artistici. Allora è la modalità con cui riesce a ricomporre questo legame che lo fa distinguere

OPERA 2019, dalla mostra “Over the Sky”, Ambasciata USA, giugno 2019. Foto © Claudio Cascone. Courtesy dell’artista e Società Contempy S.r.l.


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