Romanelli M. - CANTANDO COME DONNA INNAMORATA, DANTE E LA MUSICA

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Marco Romanelli Cantando come donna innamorata. Dante e la musica La critica dantesca ha accumulato nei secoli una tale massa di materiali che oggi scrivere ancora su Dante potrebbe sembrare inutile e ripetitivo. In verità non è così: come diceva Calvino, un classico è un testo che ha sempre qualcosa di nuovo da dire, e quindi un libro come la Commedia non finirà mai di rivelare ai suoi lettori prospettive nuove e interpretazioni originali. In particolare, poi, un argomento come i rapporti fra Dante e la musica resta fra i meno studiati e solo in anni recenti ha suscitato l'interesse della critica. Valeva quindi la pena occuparsene cercando di dare alla massiccia presenza di riferimenti musicali nel poema dantesco un senso complessivo che andasse oltre un ruolo puramente ornamentale per assumere una funzione strutturale. E' quanto si è appunto cercato di fare in questo libro, dimostrando come il filo conduttore che collega in una sintesi unitaria discipline diverse (poesia, filosofia, storia, teologia) e le riconduce a un disegno unitario sia proprio la musica, intesa come un metalinguaggio in grado di riassumere tutti gli altri. A CHI E' DESTINATO IL LIBRO Il libro, come del resto tutta la collana “Camminando con Dante”, si rivolge a un pubblico colto ma non necessariamente di specialisti: il linguaggio si mantiene sempre colloquiale, chiaro e con le componenti tecniche ridotte al minimo indispensabile; le citazioni da altre lingue sono tutte tradotte in italiano; niente è dato per scontato, ma ogni riferimento è accompagnato da spiegazioni e contestualizzazioni. Chiunque ami Dante troverà quindi una guida per affrontare il testo della Commedia (con ampi riferimenti anche alle opere minori) da un punto di vista originale e senz'altro interessante, vista l'importanza che la musica riveste, oggi più che mai, nella nostra vita culturale e nella nostra stessa quotidianità. Il libro si presta poi a una proficua utilizzazione in qualsiasi ordine di scuola in cui si affronti la lettura di Dante, e in particolare nei Licei Musicali e nei Conservatori. PASSI SCELTI Capitolo I Musica e poesia: una lunga storia insieme Il rapporto che lega musica e poesia è saldo fino dalle origini: pensiamo al mito archetipo di Orfeo, primo musico e insieme primo poeta, che con la forza congiunta della musica e del verso ammansiva le belve e assoggettava gli spiriti infernali. Ma, a parte la leggenda di Orfeo, gli storici della cultura sono convinti che musica e poesia abbiano sempre proceduto di pari passo, legate da un'origine senza dubbio rituale e riconducibile alle formule magiche che venivano recitate per assicurarsi il buon esito di azioni ed eventi rilevanti (la caccia, la guerra, le nascite e le morti, la fertilità, il rapporto con le forze naturali). Il canto e il ritmo, che hanno un forte potere mnemonico, servivano a tenere meglio a mente formule che potevano anche essere lunghe e complesse e, in assenza della scrittura, creare difficoltà di memorizzazione. Del resto, questo abbinamento fra musica e testo è vivo ancora oggi nell'innografia civile e religiosa e nella comunicazione di massa che, come accade con tutta evidenza nella pubblicità, ne fa largo uso a scopo mnemonico e persuasivo. E' quindi per un fine pratico e non estetico che musica e poesia si associano, e il fatto che da questa unione si siano poi sviluppate delle manifestazioni artistiche non è antropologicamente e storicamente rilevante, ma va considerato piuttosto un effetto collaterale dell'operazione. E tuttavia, per il principio dell'eterogenesi dei fini, è accaduto che proprio questo effetto collaterale non voluto e non previsto sia stato alla fine il risultato principale dell'incontro fra musica e poesia e abbia prodotto alcune delle più grandi realizzazioni artistiche della civiltà umana.


Col tempo i due linguaggi si sono separati e hanno acquistato una loro specifica autonomia. Quando è avvenuta questa separazione? Secondo alcuni studiosi (per esempio Gianfranco Contini) il divorzio fra musica e poesia si verifica nella letteratura italiana già all'inizio del XIII secolo. A parere di altri, invece, il testo poetico continua a essere musicato fino a epoche molto più tarde, e senza dubbio ancora nell'età di Dante. Le testimonianze dantesche sembrerebbero inclinare verso questa seconda ipotesi: già nella Vita Nova (XII) troviamo che Amore prescrive al poeta di non inviare a Beatrice le sue parole nude, ma di rivestirle di musica così da raggiungere la donna amata in modo meno diretto e più delicato: “Queste parole fa' che siano quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei immediatamente, che non è degno; e no le mandare in parte sanza me, ove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che farà mestiere”. C'è poi, oltre al celebre episodio di Casella (Purg.II, 106-114) di cui parleremo più avanti, l'episodio di una stanza di canzone che Dante invia all'amico musico Lippo de' Bardi con la richiesta di rivestirla di note, paragonandola a una “pulcella nuda / che vien di dietro a me sì vergognosa, / ch'a torno gir non osa, / perch'ella non ha vesta in che si chiuda; / e prego il gentil cor che 'n te riposa / che la rivesta e tegnala per druda” (Rime, XLVIII). Ma la testimonianza più esplicita del fatto che Dante destinava le sue poesie a essere armonizzate ed eseguite musicalmente sembra essere quella offerta dal De Vulgari Eloquentia là dove si affronta il tema della canzone: “Cantio nichil aliud esse videtur quam actio completa dictantis verba modulationi armonizata” dice il esto, ossia: “La canzone non è altro che l'opera compiuta da chi compone con arte parole armonizzate destinate a essere modulate musicalmente” (II,8); e più avanti (II,10): “Dicimus ergo quod omnis stantia ad quandam odam recipiendam armonizata est” (“Affermo quindi che ogni stanza di canzone è costruita per ricevere una certa melodia”). E infine, Dante dimostra di avere piena coscienza dello strettissimo rapporto fra la poesia e la musica quando, sempre nel De Vulgari Eloquentia (II,4) dichiara che la poesia “nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita” (“La poesia non è altro che una finzione costruita con la retorica e con la musica”). Capitolo II La teoria e la pratica della musica nel Medioevo Sbaglia chi pensa che il Medioevo sia stato un epoca priva di cultura musicale, con l'eccezione del canto gregoriano e delle rozze cantilene popolari. Del resto, si tratta di un errore di giudizio che non si limita alla musica ma riguarda il complesso della civiltà medievale che ancora oggi, nonostante il lavoro di studio e divulgazione di una verità diversa da parte degli storici, viene percepita nell'immaginario collettivo come un'epoca di barbarie. Poco importa che il Medioevo sia stato, al contrario, una delle epoche più luminose della storia, l'epoca di Tommaso d'Aquino, di Giotto, di dante, delle grandi cattedrali, delle università, dell'impero carolingio, della rinascita delle città, dei primi contatti, drammatici ma anche fecondi, dell'occidente col mondo islamico; poco importa che l'età medievalesegni l'apparizione dell'economia moderna, dei mercanti, dei grandi commerci, delle banche e del credito, delle corporazioni e delle gilde, tutte realtà sconosciute al mondo antico; al di là di tutto, resta il pregiudizio delle “tenebre del medioevo”, luogo comune tanto falso quanto difficile da sfatare. Per quanto in particolare riguarda la musica, basterebbe consultare il monumentale catalogo di Edmond De Coussemaker (Scriptores de musica medii aevi, 1876) che nei suoi quattro volumi raccoglie i testi di oltre quattrocento studiosi di scienza musicale vissuti mel Medioevo per comprendere con quanta attenzione, passione e dottrina la cultura medievale si occupò di musica, facendone uno degli elementi essenziali della formazione intellettuale. Infatti la Musica, insieme alla Matematica, alla Geometria e all'Astronomia, faceva parte delle “Arti del Quadrivio” che insieme a Grammatica, Retorica e Dialettica (le “Arti del Trivio”) costituivano le sette “Arti liberali”, cioè il sistema di conoscenze su cui si fondava la cultura medievale.


Potrà forse stupire il lettore moderno vedere la musica collocata accanto a discipline prettamente scientifiche come la matematica, la geometria e l'astronomia. Il fatto è che ciò che la cultura medievale intendeva per “musica” è qualcosa di molto diverso da ciò che intendiamo noi oggi. Per capire è necessario rifarsi alla tradizione pitagorica e alla sua influenza decisiva sulla teoria musicale del medioevo. Il punto essenziale di questa dottrina sta nelle parole di uno dei suoi rappresentanti più autorevoli, Filolao: “E' il numero che ci guida alla conoscenza e che ci svela tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla sarebbe comprensibile se non ci fosse il numero e la sua verità. I numeri compongono un'armonia che rende possibile la coesistenza degli opposti, l'unità del molteplice e la concordia del discordante”. Ebbene, questa armonia si rivela con particolare evidenza nella musica: gli accordi musicali che uniscono note differenti in relazioni armoniose sono definiti da precise costanti numeriche ed esprimono nel modo più evidente la possibilità di trasformare le opposizioni in un insieme ordinato e definito rigorosamente attraverso rapporti reciproci di carattere matematico. E' per questo che la musica, intesa come un sistema di relazioni equilibrate e un esatto calcolo dei rapporti fra le varie componenti di un insieme, è assunta dai pitagorici come modello e paradigma dell'intera realtà universale, ed è per questa sua natura matematica che essa ha potuto a buon diritto essere compresa fra le “Arti del Quadrivio”. Questo orientamento neopitagorico fu ripreso dalla musicologia medievale soprattutto ad opera di Severino Boezio, il cui trattato De Institutione Musica, composto intorno al 510, fu per tutto il medioevo il teso di riferimento obbligatorio per chiunque si occupasse della materia. Sulla scorta del pensiero pitagorico e platonico, per Boezio la musica è prima di tutto un esercizio della ragione, una forma di spiritualità che ci può guidare verso l'assoluto e farci comprendere la perfetta armonia dell'universo. Tre sono le forme in cui la musica si esprime: la più alta e nobile è la Musica mundana, la “musica dei mondi” che nasce dal ruotare delle sfere celesti e dall'eterno movimento della grandiosa macchina del creato: è l'armonia, inudibile dal limitato orecchio umano, che regola i movimenti del cosmo, l'alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte, della vita e della morte. La seconda forma di musica che Boezio individua e analizza e la Musica humana, presente all'interno di ciascuno di noi e formata da quella serie di accordi, equilibri, rapporti che uniscono armoniosamente mente e corpo spirito e materia, sensualità e razionalità e in cui si realizza la perfetta umanità. Infine, una terza tipologia è costituita dalla Musica instrumentalis, cioè l'esecuzione materiale di suoni mediante voci o strumenti che formano l'esperienza concreta della musica comunemente intesa, ma che si colloca intellettualmente e moralmente al livello più basso, legata com'è all'effimero piacere dei sensi che niente ha a che fare con i nobili domini della ragione. Tuttavia, nonostante questa condanna senza appello della pratica vocale e strumentale, non si deve pensare al medioevo come a un'epoca priva di musica al di fuori della sfera speculativa: al contrario, anche dalla relativa povertà dei documenti che sono giunti fino a noi, si ricava l'impressione di una grande ricchezza di esperienze musicali, di una quotidianità intrisa di musica sia nell'ambito devozionale che in quello profano. E del resto, come si spiegherebbe una così grande attenzione alla teoria se ad essa non avesse corrisposto una altrettanto intensa presenza della pratica? Capitolo III Dante fra Boezio e Casella Dunque, come abbiamo visto, la musica medievale ha un carattere bifronte: da un lato, recuperando l'antica tradizione pitagorica, si configura come pura speculazione, come un'astrazione che considera un accidente trascurabile la trasformazione dei rapporti matematici in suoni e melodie; dall'altro, però, l'esperienza musicale del medioevo dimostra anche di saper passare dalla speculazione teorica a pratiche vocali e strumentali di altissima qualità. Sarà quindi arrivato il momento di chiedersi quale fu la posizione di Dante all'interno di questa dialettica oppositiva: su quale dei due versanti si attestò il poeta? Quale delle due concezioni della musica fece propria e privilegiò nella sua formazione intellettuale?


La risposta è molto chiara e non lascia margine di equivoco: ambedue. Infatti, Dante certamente lesse e meditò il De Institutione Musica di Boezio e ne ricavò un chiaro indirizzo neopitagorico in cui la musica è percepita come scienza delle proporzioni, realizzazione di un perfetto equilibrio fra i suoni, esatto calcolo dei rapporti. E' una concezione che Dante ricava non solo da Boezio ma da tutta la musicologia medievale. Citiamo, a riscontro, una delle auctoritates fondamentali nella formazione del pensiero dantesco, Tommaso d'Aquino: “La musica” egli scrive “considera i suoni non in quanto suoni fisici, ma in quanto rapporti proporzionali definiti matematicamente. E quindi essa è un movimento ordinato di suoni regolato dalla ragione”. E' la stessa posizione che Dante esprime nel Convivio quando assimila la musica al cielo di Marte proprio in base a criteri di simmetria e proporzionalità. Ma in questo stesso passo emerge, parallelamente, anche la coscienza della natura della musica come fonte di un'emozione sensuale e quindi di uno smarrimento delle facoltà razionali: “La musica trae a sé li spiriti umani sì che quasi cessano da ogni operazione” (Convivio, II,13). E' una contraddizione che si ritrova anche in un altro dei maestri di Dante, sant'Agostino, che nel secondo capitolo delle Confessioni si mostra estremamente sensibile alla seduzione sensuale dei suoni, tanto da ricavarne un profondo turbamento spirituale. Dante dunque, pur affascinato intellettualmente dalle teorie pitagoriche e boeziane, fu ben lontano dal ripudiare la musica instrumentalis che anzi conobbe, amò e forse anche praticò, come testimonia il suo più illustre biografo, Giovanni Boccaccio, che nel Trattatello in laude di Dante scrive: “Sommamente si dilettò in suoni ed in canti nella sua giovinezza; e a ciascuno, che a que' tempi era ottimo cantatore e sonatore, fu amico ed ebbe sua usanza; ed assai cose, da questo diletto tirato, compose, le quali di piacevole e maestrevol nota a questi cotali faceva rivestire”. Fra questi amici “cantatori e sonatori” il più famoso è senz'altro Casella, che appare come anima penitente nel Canto II del Purgatorio. Su invito di Dante stesso, che ricorda i tempi felici della loro amicizia, Casella intona la canzone Amor che nella mente mi ragiona ascoltato non solo dal poeta ma anche da Virgilio e dagli altri spiriti, ammaliati dalla dolce melodia. Occorrerà l'intervento di Catone e il suo brusco rimprovero per richiamare tutti al distacco dalle cose terrene e alla necessità di non ritardare il cammino dell'espiazione. Qui dunque la musica, con il suo richiamo agli affetti e alle passioni terrene, diventa manifestazione di una grave debolezza spirituale, e tuttavia conserva inalterato tutto il suo fascino e il suo potere di seduzione, prova evidente che nell'animo di Dante convivevano sia la severa musica intellettuale di Boezio, sia la dolce seduzione della musica instrumentali: non è né una contraddizione né una debolezza teorica, ma la testimonianza che il genio dantesco era in grado di padroneggiare e armonizzare prospettive diverse con la stessa lucidità intellettuale e la stessa profondità umana. Capitolo IV La danza nella “Divina Commedia” E' sbagliato credere (anche se si tratta di un'idea molto diffusa) che che nell'ambito del cristianesimo medievale la danza sia stata bandita in quanto veicolo di immoralità: la condanna dei balli promiscui è semmai il frutto dell'ossessione sessuofobica della Controriforma ed entra a far parte del repertorio dei grandi predicatori cattolici solo dopo il Concilio di Trento. In età medievale, invece, questo pregiudizio contro il ballo è del tutto assente, se si fa eccezione per il divieto ecclesiastico di partecipare a feste e danze di natura orgiastica e di chiara ispirazione pagana, in genere sopravvivenze dei culti della fertilità. Al contrario, troviamo che per tutto il medioevo la danza non solo fu permessa dalla Chiesa, ma era addirittura praticata nelle cerimonie religiose come accompagnamento della liturgia: sono numerose le testimonianze documentali che lo attestano, a partire dal termine “presule” che indica il vescovo e che deriva da prae salire, ossia “danzare davanti”, a dimostrazione che in antico fra le prerogative del vescovo c'era anche quella di guidare la danza durante le processioni cerimoniali.


Non c'è dunque da meravigliarsi se Dante torna più volte nella Commedia a rappresentare scene di danza di cui almeno una volta (Purg.XXXI, 103-105) è lui stesso protagonista. Nonostante la sua larga diffusione, della danza medievale sappiamo piuttosto poco. I modi principali erano tre: il “ballo a tondo” come la carola, che si eseguiva disponendosi in cerchio in una sorta di girotondo; il “ballo a catena” che invece si ballava in linea di fila, come ad esempio la farandola eseguita con rapidi movimenti dei piedi e tenendosi per mano; infine il “ballo a doppio”, come la estampie (o stampita) in cui due file di danzatori si fronteggiavano avanzando e retrocedendo a passi lenti e strisciati al suolo. Oltre a questi balli, che venivano praticati negli ambienti aristocratici e di corte, c'erano poi le danze popolari di tradizione contadina come il trescone, la ridda, la giga, il saltarello, estremamente movimentati e veloci, in cui i ballerini saltavano battendo le mani senza dover rispettare particolari figure. Tornando a Dante, dobbiamo osservare che il poeta non solo apprezzò la danza intellettualmente come manifestazione visibile della felicità nella beatitudine, ma la amò anche sotto il profilo estetico, come espressione di una grazia, di una leggiadria e di una gioia di vivere tutte umane e indipendenti da significati teologici e ultramondani. Ecco un esempio tratto dal Paradiso (X, 7981): Donne mi parver, non da ballo sciolte, ma che s'arrestin tacite, ascoltando fin che le nove note hanno ricolte. Il fascino di queste aggraziate figure di fanciulle colte mentre, concluso il brano musicale sul cui ritmo hanno ballato, ascoltano assorte in un attimo di silenziosa sospensione la nuova musica prima di riprendere la danza ha un valore assoluto: non ha più importanza che, in realtà, le donne qui raffigurate siano solo il termine di una similitudine per rappresentare gli spiriti sapienti del cielo del Sole mentre interrompono momentaneamente la loro eterna danza per permettere a uno di essi (san Tommaso) di parlare con Dante. Di fronte alla dolcezza e all'eleganza di queste immagini ogni mediazione del significato si dissolve per lasciare il posto alla concretezza di una scena a cui Dante avrà certamente assistito dal vivo e che ha lasciato impressa nella sua memoria una traccia indelebile di bellezza. Del resto, non saranno certo mancate al poeta, negli anni della sua giovinezza fiorentina, le occasioni per partecipare a feste e trattenimenti in cui musica e danza avevano la parte principale, come ad esempio le “liete brigate” che il primo giorno del mese di maggio (“Calendimaggio”) si riunivano nelle sale dei palazzi o nelle piazze per festeggiare l'arrivo della primavera: e secondo quanto racconta il Boccaccio, fu proprio durante il Calendimaggio del 1274 in occasione di una festa nel palazzo di ser Folco Portinari che Dante incontrò per la prima volta Beatrice. L'atmosfera aggraziata e gioiosa in cui si svolgono le sequenze di danza del Purgatorio e del Paradiso non poteva naturalmente illuminare i cupi scenari dell'Inferno, dove i riferimenti alla danza sono inseriti in un contesto in cui le note dominanti sono quelle del grottesco e del deforme che si sostituiscono all'eleganza e all'armonia. Si vedano, per esempio, i versi 40-42 del Canto XIV, in cui un'eterna pioggia di fuoco scende a tormentare i violenti: Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sé l'arsura fresca. La “tresca” era una danza campagnola che si ballava nella feste di villaggio con passi rapidi e saltellati simili a quelli della tarantella e viene qui utilizzata metaforicamente da Dante per dare un'idea del frenetico movimento delle mani con cui i dannati cercano di scuotere via ogni nuova fiammella (l'arsura fresca) che cade loro addosso.


Per quanto riguarda il Purgatorio, le scene di danza sono concentrate nei canti ambientati nel giardino dell'Eden, dal XXVII in avanti. La danza diventa così il motivo conduttore di tutta la lunga sequenza dell'Eden: danza Matelda, danzano le quattro donne alla sinistra del carro allegorico (le virtù cardinali), danzano le tre alla destra (le virtù teologali). Nel sereno splendore dell'Eden il corpo che per Adamo ed Eva era divenuto, dopo la caduta, motivo di vergogna e fonte di peccato, torna a essere ciò che era in origine, una sintesi di bellezza e di grazia in cui armoniosamente si uniscono il materiale e lo spirituale, e la danza ne è la più immediate e felice testimonianza. Questa riconquistata armonia subisce nel Paradiso un ulteriore affinamento: qui la danza, abbandonato ogni mimetismo corporeo, si spiritualizza fino a diventare espressione di una letizia e di una gioia ineffabili che non possono essere espressi a parole, non si possono significar per verba, e che quindi, come nello jubilus agostiniano, devono trovare strumenti alternativi per manifestarsi. La danza, con il canto, è uno di questi. Capitolo V La musica nell'Inferno E' opinione largamente accettata che l'Inferno sia privo di musica. In realtà, se consideriamo il termine “musica” nel significato che comunemente gli viene attribuito, il giudizio è indubbiamente corretto: la musica in senso proprio compare nell'Inferno una sola volta, quando il gigante Nembrot fa risuonare cupamente il suo corno (Canto XXXI, 12-13). E tuttavia, i suoni hanno nella prima cantica un ruolo essenziale e anzi, in molte occasioni sono l'unico modo di conoscenza a disposizione di Dante in un universo in cui la vista è resa inerte dalle tenebre. Si tratta però di suoni caotici, privi di ordine e di senso: una non-musica che non è il silenzio e l'assenza della musica, ma la sua perversione, la sua caricatura grottesca, la sua maligna contraffazione: è la musica diaboli, la musica del diavolo. Recita una celebre formula patristica: Satana simia Dei, “Satana è la scimmia di Dio”, cioè la sua scimmiottatura, la sua imitazione deforme: così nell'Inferno non regna il silenzio, ma la musica diaboli, miserabile parodia della celestiale musica delle sfere. E' attraverso questa aberrazione che Dante può comunicarci immediatamente la caratteristica fondamentale della dannazione, cioè la sua disarmonia, la sua perdita di sintonia con i ritmi dell'essere, il suo intimo disordine in grado di produrre solo disperate cacofonie: Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira, voci alte e fioche, e suon di man con elle (Canto III, 25-27) L'atteggiamento parodistico e caricaturale è ricorrente in tutta la cantica. Per esempio nel Canto V, quando i lamenti dei lussuriosi travolti dalla bufera infernale vengono paragonati al verso emesso dalle gru in volo (46-49): E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vid'io venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga Dunque, per descrivere le urla dei dannati sofferenti Dante usa accanto al termine guai, degradante perché usualmente riferito ai latrati animaleschi (da cui, per esempio, “guaito”), il termine lai, tratto dalla tradizione lirica in lingua d'oeil in cui indicava un lamento d'amore (celebri per esempio i lais di Maria di Francia).


Il fatto che siamo nel girone dei lussuriosi rende evidente l'intento parodico della scelta: l'accostamento degli armoniosi lai agli animaleschi guai ci suggerisce come la lussuria sia una degradante parodia dell'amore, la trasformazione di un sentimento nobilitante in una passione abietta degna delle bestie. Ancora una volta, la rappresentazione del male è affidata alla sua identificazione con una musicalità corrotta e deformata. Lo stesso meccanismo lo ritroviamo in azione nel Canto VII, dove gli accidiosi immersi nel fango rantolano i versi di una cantilena che Dante ironicamente chiama inno (121-126): Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, portando dentro accidioso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra” Quest'inno si gorgoglian ne la strozza , ché dir nol posson con parola integra. L'”inno” è, nella tradizione medievale, un canto corale religioso solitamente armonizzato secondo la regola gregoriana; qui, invece, le cadenze solenni della tradizione vengono sostituite da un grottesco gorgoglìo reso con scelte lessicali evocative di una condizione di ripugnante degrado (limo, fummo, belletta, gorgoglian, strozza): ancora una volta, la deformazione parodistica di una nobile esperienza musicale segnala il trionfo del male e la disperazione che nasce dal tentativo eternamente frustrato di riprodurre nell'inferno le forme perdute per sempre della bellezza e dell'armonia, sostituite da sinistre caricature: Satana simia Dei. Ma un esempio ancor più clamoroso della “non-musica” infernale si ha nel Canto XXI con il celeberrimo episodio di Barbariccia e del suo osceno segnale (136-139): Per l'argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta. L'episodio è un esempio meritatamente famoso di quanto sia flessibile e poliedrico il talento dantesco, capace di fare poesia con i materiali più disparati, dalle luminose visioni paradisiache allo scurrile peto di Barbariccia, ma, come sempre nella Commedia, il messaggio è più profondo di quel che appare. Questi versi, infatti, non sono solo la rappresentazione senza veli della sconcia volgarità del male, ma contengono una riflessione più generale sulla natura dell'inferno come assenza di ordine e di armonia. La trombetta di Barbariccia rientra infatti in quei suoni disarmonici e informi che Guido d'Arezzo chiama “indiscreti”, cioè privi di struttura interna e impossibili da analizzare: “Si dice indiscreto” scrive il grande musicologo nel Micrologus “un suono al cui interno non è possibile individuare alcun rapporto di consonanza, come accade nel riso, o nel pianto, o nel latrato di un cane o nel ruggito di un leone, mentre al contrario il suono discreto è quello che appartiene alla musica”. Dunque, una volta di più, l'inferno appare come il regno della non-musica, dei suoni “indiscreti” che si sottraggono all'analisi razionale e si risolvono nel caos e in una malvagia parodia di tutto ciò che è sacro. L'esempio forse più esplicito lo abbiamo nell'incipit dell'ultimo canto, quando Virgilio annuncia a Dante l'imminente apparizione dell'immagine spaventosa di Lucifero (XXXIV, 1-3): “Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira”, disse 'l maestro mio “se tu 'l discerni”.


Qui la dissacrante confusione del mondo sotterraneo raggiunge il suo vertice: l'apparizione del principe delle tenebre è introdotta dalle parole con cui la liturgia celebra il simbolo della luce, la croce di Cristo: Vexilla regis prodeunt (“Avanzano le insegne del sovrano”) è infatti il primo verso dell'Inno della Santa Croce composto da Venanzio Fortunato sul finire del VI secolo. Nella versione di Virgilio, però, il verso è alterato dall'inserimento del genitivo inferni, e quindi le insegne che si scorgono non sono quelle di Cristo ma quelle del diavolo, e cioè le immense ali di pipistrello di Lucifero, mostruosa parodia della croce. La parodia musicale è dunque la metafora con cui viene rappresentata la natura complessiva dell'universo infernale, e il rovesciamento dell'Inno della Santa Croce da esaltazione delle insegne cristiane a anticipazione di quelle sataniche ne è la prova decisiva. Capitolo VI La musica nel Purgatorio Il Purgatorio è il luogo in cui l'anima si riconcilia con il corpo e il conflitto fra materiale e spirituale viene superato in una sintesi armoniosa che annulla ogni contraddizione fra la purezza dello spirito e gli impulsi passionali che si sprigionano dalla nostra natura corporea segnata dal peccato originale. Ora, è proprio la musica che prefigura già nella vita mortale il processo di purificazione attraverso cui, nelle varie forme dell'espiazione purgatoriale, viene ristabilita una nuova e stavolta eterna alleanza fra anima e corpo: quella musica che attraverso l'udito, cioè sfruttando un senso corporeo, è capace di influire sull'animo di chi la ascolta separandolo da ogni interesse materiale e che, come dice Dante nel Convivio, “trae a sé li spiriti umani (…) sì che quasi cessano da ogni operazione”. Con la musica, insomma, sensualità e spiritualità cessano di essere in opposizione e si ricompongono in una sintesi unitaria che solleva l'uomo al di là di ogni contingenza di luoghi, tempi,persone e fatti. Oltre a simboleggiare il recupero della perduta armonia fra anima e corpo, la musica nel Purgatorio ha anche un'altra importante funzione, quella cioè di rappresentare un processo dialettico di perfezionamento che conduce dai primi incerti passi degli spiriti nell'Antipurgatorio al definitivo compimento del percorso di purificazione nel Paradiso Terrestre. In altre parole, le melodie che accompagnano le anime penitenti o che le stesse anime intonano non sono una costante che fluisce uniformemente per tutti i trentatré canti del Purgatorio: esse ubbidiscono a una evoluzione che riflette la trasformazione spirituale di cui si fanno protagoniste le anime espianti, in modo tale che la musica che risuona nell'Antipurgatorio è diversa da quella del Purgatorio vero e proprio e ancora diversa da quella che Dante ode nel Paradiso Terrestre. La musica non rappresenta quindi un semplice dettaglio descrittivo o un espediente esornativo, ma un elemento di tipo strutturale ed è per questo che la presenza musicale nel Purgatorio risulta così ricca e insistita (sono esattamente trentadue le melodie udite da Dante, quasi una per canto). Tutti gli inserti musicali del Purgatorio si inseriscono infatti strutturalmente in un disegno di affinamento spirituale che culmina nel Paradiso Terrestre con la ricomposizione del canto profano eseguito da Lia e del canto sacro intonato da Matelda: prende forma così la musica humana di Boezio, cioè quell'armonia delle componenti spirituali e di quelle materiali che ripropone nel microcosmo dell'uomo la musica mundana espressione dell'armonia universale. Capitolo VII La musica nel Paradiso


Il profilo musicale del Paradiso presenta una contraddizione di fondo: buona parte delle musiche presenti nella Cantica, nello stesso momento in cui sono citate vengono anche dichiarate irriproducibili e indescrivibili perché al di là della comprensione umana. Dunque, di quale musica si parla? Ha senso parlare di una musica che va al di là delle nostre capacità di intenderla? Non equivale a parlare del silenzio e, anzi, a elevare il silenzio a massima espressione musicale? Per trovare risposta a queste domande bisogna tornare a Boezio, La musica del Paradiso corrisponde infatti a quella musica mundana che il grande filosofo e musicologo ha indicato nel De Institutione Musica come l'esperienza musicale più alta, quell'armonia cioè che nasce dal perfetto equilibrio dell'universo e delle reciproche relazioni in cui si trovano le sue componenti e che raggiunge la sua massima espressione nella “musica delle sfere”. Ora, la musica delle sfere non è percepibile dal rozzo orecchio umano, e qualora un uomo riuscisse pure a percepirla, egli non saprebbe comunque riprodurla. Dunque, se la musica paradisiaca è inaccessibile al limitato intelletto umano, per parlarne occorrerà, come dice san Paolo, tentare un'osservazione per speculum, cioè fare ricorso a una via indiretta che, partendo dalla realtà sperimentabile con i sensi, sia capace di offrire elementi parziali di comprensione del soprannaturale. La via indiretta scelta da Dante è di utilizzare quello che nel moderno linguaggio delle scienze naturali si chiama un isomorfismo, cioè, nella elegante definizione adottata dagli epistemologi, quel processo in cui si verifica una trasformazione che conferma l'informazione. Schematizzando: un soggetto A, portatore dell'informazione X, si trasforma in un soggetto B portatore dell'informazione X1, la quale corrisponde parzialmente a X. “Parzialmente”, si noti bene, perché secondo la teoria dell'informazione ogni volta che avviene un trasferimento da un emittente a un destinatario una parte dell'informazione stessa si perde. Si tratta insomma di un fenomeno per cui due soggetti diversi conservano in comune una parte dell'informazione originaria pur mantenendo la loro fondamentale estraneità reciproca. Ebbene, l'isomorfismo assunto da Dante per rappresentare la musica sovrumana del Paradiso è la polifonia: il passaggio dalle melodie unisone dominanti nel Purgatorio alle armonie polifoniche del Paradiso configura appunto un isomorfismo perché la polifonia, pur senza essere in grado di riprodurre la musica paradisiaca nei suoi aspetti fattuali, ne riproduce con buona approssimazione le strutture formali, quali la perfezione degli equilibri e dei rapporti reciproci, la concordia e l'armonia dei diversi, la capacità di ciascuna delle parti di conservare la propria soggettività e, al tempo stesso, di integrarsi con il tutto. Insomma, l'isomorfismo che replica la musica mundana attraverso la musica polifonica conserva invariato un quantum di informazione che permette una parziale comprensione di ciò che altrimenti resterebbe inaccessibile alle nostre limitate capacità intellettuali. La musica, dunque, diventa l'unica possibilità di parlare dell'ineffabile, e l'armonizzazione polifonica si propone come isomorfismo dell'armonia delle sfere: nel canto di esordio del Paradiso il v.78, con l'armonia che temperi e discerni, esprime con la massima precisione la natura polifonica della musica celestiale udita da Dante. I verbi “temperare” e “discernere” indicano infatti due operazioni tipiche della polifonia: con il primo si allude all'accordo di suoni diversi in un insieme armonioso, con il secondo si specifica che i suoni emessi dalle sfere sono diversi fra loro e conservano questa differenza restando discreti, cioè singolarmente distinguibili pur all'nterno dell'insieme unitario rappresentato dall'accordo polifonico. Come abbiamo già osservato nel secondo capitolo, Dante conosceva i princìpi della polifonia che, elaborati in Francia dalla scuola di Notre Dame (XII secolo), ai suoi tempi cominciavano a diffondersi anche in Italia e in particolar modo a Firenze: una competenza, la sua, che lo colloca in una posizione di avanguardia, dato che il cantus planus unisono di tradizione gregoriana era ancora largamente dominante e le prime codificazioni delle tecniche polifoniche faranno la loro apparizione da noi solo a partire dalla seconda metà del Duecento.


La competenza polifonica di Dante emerge da numerosi passi del Paradiso, come quando, per esempio, nel Canto X (139-148) il cerchio glorioso dei dodici spiriti sapienti inizia cantando un movimento rotatorio paragonato a quello degli ingranaggi di un orologio: Indi, come orologio che ne chiami ne l'ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l'ami, che l'una parte e l'altra tira e urge, tin tin sonando con sì dolce nota, che 'l ben disposto spirto d'amor turge; così vid'io la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra e in dolcezza ch'esser non po' nota se non colà dove gioir s'insempra. La similitudine, con l'immagine dell'orologio, è vivacissima e di estrema originalità, ma quello che colpisce dal punto di vista musicale è che qui la descrizione del canto dei beati si presenta come una tipica esecuzione polifonica in cui ogni voce entra in un rapporto di accordo armonico con le altre (render voce a voce in tempra), con una tale dolcezza che non si può concepire se non in cielo dove regna la gioia eterna (e in dolcezza ch'esser non po' nota / se non colà dove gioir s'insempra). Insomma, siamo davanti a un'armonia indescrivibile che solo la polifonia, attraverso un procedimento isomorfico, può parzialmente evocare. Il punto di maggior complessità raggiunto dall'isomorfismo polifonico applicato alla rappresentazione dell'armonia celeste si ha nel Canto XXVIII, quando i cori angelici glorificano Dio intonando un perpetuo Osanna (115-120): L'altro ternaro, che così germoglia in questa primavera sempiterna che notturno Ariete non dispoglia, perpetualmente “Osanna” sberna con tre melode, che suonano in tree ordini di letizia onde s'interna. Il ternaro che rifulge nell'eterna primavera celeste è una delle tre terne da cui è formato ciascuno dei tre ordini angelici descritti da Dante. Sono dunque nove cori, ognuno dei quali canta un “Osanna” con una melodia diversa, così che ne risulta una grandiosa polifonia a nove voci unita a un corrispondente movimento rotatorio di tutti i Cori intorno a un punto centrale in cui risplende la visione di Dio: ancora una volta, la complessità dell'intreccio di suoni, di luci e di movimenti è tale che l'intelletto umano può tentarne una parziale rappresentazione non direttamente ma solo attraverso l'isomorfismo delle strutture polifoniche.



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