Suoni e Voci nella Commedia di Dante ..è un libro fuori dal coro, nel quale l’Autore rivendica il suo diritto a leggere la poesia di Dante, liberata dal peso dell’ermeneutica e della filologia, al fine di svelare i meccanismi linguistici ed espressivi attraverso i quali la voce del poeta e quelle dei suoi personaggi si sono impresse nel testo con tracce imperiture. Un libro che offre al lettore anche non specialista una prospettiva nuova sul capolavoro di Dante, esaminato come luogo di sonorità, che sono testimonianze delle sue emozioni e delle tensioni del suo corpo. INDICE Prefazione di Nicolò Mineo Nota dell’Autore Per una lettura naïf della Commedia Introduzione Perché leggere Dante ad alta voce Capitolo primo La Commedia: un poema sonoro 1.1 Fonosfere 1.2 Voci: guarda chi parla 1.3 Orchestre dell’altro mondo: canto, musica, parola Capitolo secondo I registri e la voce 2.1 I Registri della Commedia 2.1.1 Apostrofe, rampogna, invettiva e ironia 2.2 Le voci 2.2.1 Timbri e volumi Capitolo terzo Ritmo e tensione semantica 3.1 L’istinto ritmico 3.2 Architetture: ritmo e sintassi 3.3 Inciampi, scontri e valli 3.4 Velocità, accelerazioni, frenate Capitolo quarto Misura e libertà ritmica 4.1 Il metro 4.2 Libertà di movimento: dalla camminata alla danza Capitolo quinto Echi sonori 5.1 Figure da iterazione: la rima 5.2 Altri echi: allitterazione, assonanza, consonanza 5.3 Posizione e pause Capitolo sesto Silenzi e spettacoli gestuali 6.1 Silenzi 6.2 Spettacoli gestuali
Conclusione Appendice Proposte di lettura ad alta voce Bibliografia
PERCHÉ LEGGERE LA COMMEDIA AD ALTA VOCE L’uomo che legge ad alta voce ci eleva all’altezza del libro (Daniel Pennac, Come un romanzo)
L’opera d’arte poetica è innanzitutto un atto di parole, una realizzazione della langue, insomma, un’idea realizzata non solo attraverso il linguaggio, ma sotto forma di linguaggio. Le parole, le loro combinazioni, le figure cui danno luogo, i loro suoni, sono altrettanto importanti delle cose che crediamo vogliano dire, e uno dei motivi per leggere Dante ad alta voce è proprio la sua lingua, uno strumento agile, potente, plastico, che nelle sue mani riesce spesso a farsi gesto, movimento, oggetto materiale. L’idea della parola come oggetto materiale, fatto di sostanza sonora, ci impone un’attenzione nuova e tutta particolare al materiale fonico delle parole, insomma, alla sostanza di cui le parole sono fatte, cioè ai loro suoni. Le parole, ancor più in Dante, sono strumenti per fare, oltre che per dire. Quando Dante dice, Dante fa: con le sue parole ricostruisce la storia, materializza mondi sconosciuti, fa agire persone in carne ed ossa, compie gesti, produce tensioni, dà corpo a voci, modifica lo spazio, riordina il mondo contemporaneo, ne indica una Weltanschauung. La grande forza della Commedia sta nella sua lingua: se Dante avesse scritto un trattato sugli inferi, non avrebbe certamente goduto dello stesso imperituro successo. Leggere la Commedia in silenzio sarebbe mortificarla, uccidere la sua qualità più bella e, in definitiva, non capirla come opera di poesia. Che fine farebbe la plasticità della lingua, di quelle parole che sono entrate nella nostra coscienza come cose solide, con una loro forza materiale? Ciò che chiamiamo forma del contenuto, cioè la lingua, lo stile, etc., che sarebbe la forma che dà vita alle idee, si fa contenuto della forma, la sostanza fonica, che nella scrittura della poesia si fa centro di attenzione per il poeta e nella lettura deve farsi centro di attenzione per il lettore. Scrive Richard Blackmur1 che se la scrittura non gode del beneficio del gesto è solo perché chi scrive si atteggia a stenografo; ma Dante dice mentre scrive, anzi prima dice e poi scrive, e quindi la sua scrittura tende a non perdere nulla del ritmo, della cadenza, dell’intervallo, della gestualità della voce. E’ la musica della sua poesia. E la sua poesia è musica, da cantare ad alta voce, come lo stesso poeta ci invita a fare: questa Commedia nasce per il palcoscenico e per la voce che è chiamata ad eseguire i suoi canti. Se analizziamo una sezione di un qualsiasi canto, che cosa ci troviamo, oltre a quelli che chiamiamo significati, denotazioni, riferimenti a concetti, a idee, alla realtà storica, a sistemi politici, religiosi e filosofici, sull’interpretazione dei quali generazioni di esegeti hanno dibattuto all’infinito? Che ci troviamo, oltre a questo contenuto, opinato e sempre opinabile, che a torto confondiamo spesso con la verità poetica? Innanzitutto, una massa fonica, fatta di vocali e consonanti e cioè di note e timbri, melodia e orchestrazione, che sono poi la sostanza della lingua. Se è così, cosa pretendiamo? Di cantare in silenzio la musica nella nostra testa? Potremmo farlo solo sotto minaccia: di solito, rivendichiamo 1 Richard P. Blackmur, Language as gesture, Essays in poetry, Greenwood Press, Westport, 1977 (1952), p. 12.
almeno il diritto di fischiettarla piano piano, di mormorarla, in sordina, che, appunto, non significa sorda del tutto. E poi? Oltre queste vocali e consonanti, ci sono accenti, metri, ritmi, cioè la vita. E che facciamo col ritmo? Diciamo al nostro cuore di battere in silenzio? Reprimiamo il naturale istinto a muovere il nostro corpo al ritmo che ci suggeriscono le parole del testo? E i gesti che Dante ci invita a disegnare nello spazio aereo che circonda noi e lui? Uno spazio che improvvisamente si dilata, dall’inferno ove Caron dimonio raccoglie le anime, all’aperta campagna d’autunno con gli alberi che perdono le foglie. In questo movimento di improvvisa dilatazione dello spazio che facciamo? Diciamo al nostro corpo di star fermo? Leghiamo le nostre mani? Che fine farebbero questi gesti in una lettura silenziosa? Scomparirebbero e con essi il testo e la vita che lo anima. E il tono, l’intonazione che in tanti contesti è addirittura più importante del significato che spesso solo apparentemente il materiale fonico veicola? Che fine farebbe il tono in una lettura silenziosa? L’intonazione indica la direzione della nostra tensione (alto, basso, a plateau). E il volume? Non pensate che le variazioni di volume, che usiamo istintivamente nel nostro quotidiano eloquio, siano fondamentali per rendere idee, atmosfera, sentimenti, timbri, ruoli, etc.? Concordiamo con Eco quando considera “un errore moderno credere che la poesia sia cosa per intellettuali raffinati: è la più popolare delle arti, ed è nata per essere recitata a voce alta e mandata a memoria, altrimenti ditemi voi perché mai avrebbe dovuto usare artifici mnemotecnici come il piede, il metro o la rima”.2 Forse, tanta poesia moderna, che rifugge da piedi e rime, più diretta all’intelletto che al sentimento, può anche essere gustata silenziosamente attraverso l’occhio, specialmente la poesia figurata che con i suoi lay-out si rivolge in prima istanza alla vista; ma non si può leggere la Commedia senza farla passare dalla bocca; se siamo attenti e pazienti, una lettura silente ci consentirà di apprezzare tutto l’ordito della composizione, la potenza delle immagini evocate, la perizia delle costruzioni sintattiche e degli schemi metrici, il pensiero, le idee politiche e filosofiche del suo autore, ma la vera sostanza dell’opera rimarrà fuori dalla nostra portata. Come ci ricorda Osip Mandel’štam, “l’arte del dire ci deforma il viso, ne solca la quiete, ne turba la maschera”; e in questo “dire”, “la bocca fa il suo dovere; il sorriso dà impulso al verso; intelligenti e gaie, le labbra splendono di un rosso vivo; la lingua si stringe fiduciosa al palato” 3. E’ il corpo che, nel dire, partecipa della sostanza della poesia, seguendone l’impulso musicale e cinesico, le movenze, le articolazioni, il suono, la melodia, i timbri, i ritmi. E’ questa la materia di cui è fatta la poesia e attraverso questa materia il poeta produce l’atto della significazione. La poesia è fatta di parole e le parole di suoni (fonemi); pensare che questi suoni siano secondari e che possano semplicemente essere richiamati nella nostra mente (nella lettura silente) è come immaginare una sinfonia di Beethoven o guardarne la partitura senza farla passare dalle nostre orecchie. D’altra parte, leggere a voce alta Dante solo per farci sentire dai nostri interlocutori, con voce non chalante, disimpegnata, tanto per “provare il microfono”, è come ascoltare la stessa sinfonia suonata dal carillon che occhieggia sul nostro comò. Al lettore accorto (informed reader)4, che riconosce, per lunga frequentazione, per averli sentiti, i segnali che nella scrittura suggeriscono gli indugi dell’anima, le scalfitture vocali dell’ira, le intonazioni delicate del sentimento amoroso, i ritmi leggeri dell’immagine che si dilata nello spazio, gli staccati del movimento brusco e sforzato, sarà forse possibile godere del testo anche in modalità silenziosa, come capita all’esperto direttore d’orchestra davanti ad una partitura musicale; ma è nell’esecuzione vocale che il mondo sonoro del testo riemerge alla vita, è nell’intervento orchestrale che il direttore d’orchestra ritrova melodie e ritmi, pause e brusche accelerazioni, il delicato e fluido incedere dell’oboe e il tormentato graffio del violoncello. 2 Umberto Eco, “Recitare Dante”, in Roberto Benigni, Il mio Dante, Einaudi, Torino, 2008, p. 8. 3 Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante, Il Melangolo, Genova, 1994, pp. 46-47. 4 Per il concetto di “informed reader”, cfr. Stanley Fish, Surprised by Sin: The Reader in Paradise Lost, St. Martin’s Press, New York, 1997 (1977).
E’ nel momento dell’esecuzione vocale che la grana della voce è in grado restituire all’orecchio il tripudio di echi, di note e di registri della Commedia, dal grugnito di Minosse all’estasi di Bernardo, dalla solenne austerità vocale di Catone alle rime sboccate di Malebolge. Questo baccanale sonoro si sostiene su linee melodiche, ora leggere e filanti, ore aspre e zoppicanti; su registri e serbatoi lessicali, ora melodici, ora aspri e consonantici; sui ritmi, ora danzanti e confortevoli del metro, ora ingarbugliati e tesi allo spasimo del gioco consonantico delle plosive e delle geminate; sui volumi, ora delicati e mormorati del Purgatorio, ora violenti e sboccati dell’Inferno. E’ tutto un universo di sospiri e di grida, di pacata conversazione e di imprecazioni, di immagini di gaudio e di disperazione, di gesti carezzevoli e di gesti osceni. E’ sufficiente mettere a confronto l’esecuzione lieve, quasi un adagio, del canto I del Purgatorio con il precipitato tutto ingorghi e scatti consonantici del canto XXI dei barattieri o del canto XXV dei ladri nell’Inferno, per apprezzare il contrasto fra le due modalità, quella ariosa della contemplazione e quella ferrigna e aguzza dell’azione. E non si creda che questo contrasto stridente si palesi solo tra le diverse cantiche, a ragione del diverso atteggiamento del poeta nei confronti della materia trattata e della diversa atmosfera in cui sono collocati gli eventi. Tutt’altro: nell’Inferno, Dante trascorre dalla gestualità lieve del bacio “tutto tremante” di Paolo (V) a quella dirompente del peto di Barbariccia (XXI), dal tenero pianto di Cavalcante (X) al beffardo e sconcio “gesto della fica” di Vanni Fucci (XXV); dalla leggerezza aerea delle “colombe dal disio chiamate” (V) alla rapidità ferina del “serpente con sei piè” (XXV), dal tono delicato delle gru che “van cantando lor lai” (V) alla grossolana avidità del “cane ch’abbaiando agogna” (VI), dal lento volteggiare delle foglie in autunno (III) al veloce scoccare della saetta (VIII). Siamo perfettamente coscienti che non è sufficiente il livello fonologico del testo a veicolare queste emozioni e che è il significato a tenere la direzione dei nostri sentimenti; ma quando materiale fonologico e significato vanno insieme, non possiamo che gioirne e assaporare la soddisfazione di trovarci davanti a un testo che è vero anche sotto il profilo sonoro: sostanza del contenuto e sostanza della forma vanno insieme e si sostengono vicendevolmente. Si tratta di una forma di rinforzo semantico che il livello fonologico opera sul livello denotativo, che l’elemento musicale della lingua opera sul significato delle parole. Per questa ragione, è indispensabile che il testo scritto passi dalla bocca per essere riarticolato sotto il profilo sonoro. La Commedia è anche narrazione, summa culturale e filosofica del Medioevo, ma resta fondamentalmente poesia che – scrive Mineo – “è quel che si dimentica troppo spesso quando si tratta di uno dei più grandi capolavori d’arte del mondo occidentale.”5 La Commedia è, dunque, innanzitutto opera poetica in sommo grado e come tale vive in una dimensione sospesa tra la parola e la musica, tra il dire e il cantare.6 In questo territorio, Dante, tra i più musicali dei nostri poeti, è maestro, un musicista d’avanguardia che, ancor prima che nascesse l’idea di orchestra, scriveva già partiture per più voci e più strumenti. E’ ancora Mandel’štam a suggerire la grandezza di Dante musicista: “Immaginare il poema dantesco sotto forma di narrazione o, addirittura di una voce che si stende su un’unica linea, è un modo assolutamente sbagliato di figurarselo. Molto tempo prima di Bach, e in un’età in cui non si costruivano ancora i grandi organi monumentali […] l’Alighieri costruì, entro lo spazio verbale, un organo di potenza smisurata, e già si deliziava di tutti i suoi possibili registri e ne gonfiava i mantici, e lo faceva mugghiare e tubare da tutte le sue canne” 7. Sono questi registri e timbri, intonazioni, volumi e ritmi, che dobbiamo cercare quando ci proponiamo di leggere la Commedia, perché su questi eventi sonori le parole prendono forma e trasmettono la loro sostanza quando le pronunceremo ad alta voce. 5 Nicolò Mineo, Saggi e letture per Dante, Salvatore Sciacca Editore, Roma, 2008, p. 75. 6 Dante, De vulgari eloquentia, in Tutte le opere, Newton Compton, Roma, 2007, II, iv. La poesia “nihil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita”. 7 Osip Mandel’štam, op. cit., p. 64.
Milo-Padova, 2014-2015
1.2 Voci: guarda Chi parla Il viaggio di Dante attraverso i tre regni ultraterreni è stato variamente definito come visione onirica, metaforico pellegrinaggio di devozione (comunissimi nel Medioevo), itinerario di elevazione spirituale dal peccato alla salvezza, un viaggio allegorico, simbolico, analogico, e, per tanti aspetti, una prima forma di bildungsroman8. Di un viaggio, comunque, si tratta, che poggia su una solida struttura narrativa, precise coordinate spazio-temporali e scansione degli eventi (come fosse un diario di bordo), nel corso del quale il viaggiatore è al tempo stesso protagonista di un percorso di crescita spirituale, ma anche, a un livello più letterale, un osservatore che “vede, ode, parla”9. E’ quest’ultima dimensione più “naïf”, come la chiama Borges, il livello “letterale”, che qui ci interessa: chi incontra materialmente Dante nel corso del suo viaggio? chi parla? quali voci sentiamo o ci fa sentire Dante/personaggio? come suonano queste voci? quali sono le caratteristiche fisiche di queste voci che Dante/poeta tende a recuperare per il lettore attraverso la sua scrittura? da quali elementi del testo possiamo inferire queste caratteristiche? Nel corso del suo pellegrinaggio, Dante vede migliaia (forse più) di anime, ne nomina qualche centinaio, ne mette a fuoco con incontri ravvicinati una cinquantina, ma solo di una parte di esse ci restituisce le parole. In questa prospettiva, le parti della Commedia che ci intrigano di più sono le c.d. mimetiche, cioè gli interventi dialogici, gli atti di parole dei personaggi, la presa diretta. Non siamo qui in condizione di ripercorrere e definire tutti gli atti di parole della Commedia, né è questo l’obiettivo di queste note; proveremo perciò, in via preliminare, a delineare gruppi di voci per tipologia di personaggi. Di un primo gruppo di voci, che sono anche le prime a rivelarsi in ogni cantica, fanno parte gli attori protagonisti, cioè il pellegrino (Dante/personaggio) e le sue guide: Virgilio, Beatrice, San Bernardo. Cominciamo con Dante. Negli scambi dialogici in cui è coinvolto, parla o con le sue guide (Virgilio soprattutto) o con le anime dei personaggi che incontra. In relazione alla tensione emotiva provocata dal contesto, la sua voce, ora è piana, priva di perturbamenti emotivi, tesa al ragionamento su questioni contingenti o su disquisizioni morali e teologiche affrontate con le sue guide; ora è percorsa da tremore o dal pianto provocati da sollecitazioni emotive, come la paura: […] “Fa che tu m’abbracce” (Inf. XVII, 93)
pronuncia quasi in un sibilo, appena montato in groppa a Gerione, tremante per la paura, così come trema il malato di febbre quartana. In questa occasione, il poeta generosamente ci fornisce tutti gli elementi per ricostruire la sua voce: il tremore e la vergogna, la paura e la rassegnazione che confliggono tra di loro al punto che “la voce non venne / com’io credetti” (92-93); oppure, dall’ansia: “Omè, maestro, che è quel chi’ veggio?”, diss’io, “deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.” (Inf. XXI, 127-129)
8 In questo senso, Mineo, quando dice che il viaggio “provoca modificazioni nell’esistenza e nella coscienza di chi lo ha compiuto”. Nicolò Mineo, Dante, Laterza, Bari, 1971, p. 165. 9 Ibid.
esclama Dante ansioso, a monosillabi, con un soffio di voce bassa e sussurrata, quando intuisce che i diavoli sono lì per loro, per scortarli verso la sesta bolgia. Ma la voce di Dante/personaggio conosce tutte le corde dell’emotività, vibra in sintonia con ogni sentimento umano: dalla commozione, nell’incontro con Casella (“ma a te com’è tanta ora tolta?”, Purg. II, 93), o con Francesca (“Oh lasso, quanti dolci pensier […]”, Inf. V, 112-113); all’incanto e meraviglia alla vista di Matelda (“Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore / ti scaldi […], Purg. XXVIII, 43); dall’ira nel dialogo con Nicolò III (“Deh, or mi dì: quanto tesoro volle”, Inf. XIX, 90; “però ti sta, ché tu se’ ben punito”, ivi, 97); al turbamento amoroso, con conseguente accelerazione del battito cardiaco, per Beatrice (“Men che dramma / di sangue m’è rimaso che non tremi: / conosco i segni de l’antica fiamma”, Purg. XXX, 46-48)10. Le voci di Virgilio, Beatrice e San Bernardo, le guide di Dante, proprio per il loro stato di anime e la loro funzione di maestri, sono solitamente meno attraversate dalle emozioni e, perciò, generalmente più pacate. Negli scambi dialogici in cui è coinvolto Virgilio, in un solo caso abbiamo notato una perturbazione vocale provocata da frustrazione e profonda costernazione: “Chi m’ha negate le dolenti case!” (Ivi, VIII, 120)
esclama Virgilio, con gli occhi bassi e sospirando, dopo aver scoperto che gli è stato negato l’ingresso nella città di Dite; qui, i connotati emotivi sono quelli della tristezza, i cui correlati psicofisiologici sono: basso volume, lentezza dell’eloquio, tono discendente (non interrogativo), scarsa o assente gestualità, immobilità dei muscoli del volto. Qui, Virgilio è depresso, non è arrabbiato come in altre situazioni. A parte le sue arrabbiature, nei confronti di Pluto (“Taci, maledetto lupo!”, Inf. VII, 8), o di Capaneo (“O Capaneo, in ciò che non s’ammorza”, ivi, XVI, 61), o dello stesso Dante che si attarda compiaciuto a guardarsi lo spettacolo della rissa fra il greco Sinone e Mastro Adamo (“Or pur mira / che per poco che teco non mi risso!”, ivi, XXX, 131-132); e la rampogna di Beatrice (Par. XXIX, 115-126)11, queste voci, assieme a quelle di molti tra i beati e le anime del Purgatorio, sono le meno perturbate emotivamente. Le emozioni, che sono alla base delle tensioni psicofisiologiche, e che si manifestano in una modificazione della tensione muscolare del corpo in genere e della muscolatura dell’apparato fonatorio, in particolare, sono fenomeni più frequenti nei personaggi che mantengono un più stretto rapporto con la loro vita terrena; e, quindi, soprattutto per questo, si presentano più frequenti nella prima cantica e con frequenza decrescente nelle altre due. Un secondo gruppo di voci comprende i guardiani, più numerosi all’inferno, meno nel purgatorio, inesistenti nel paradiso. Le voci che più decisamente marcano la fonosfera degli ambienti che Dante attraversa, e che con maggior forza si imprimono nella mente del lettore, sono le voci dei guardiani e dei custodi dell’inferno, da Caronte traghettatore a Minosse, da Cerbero a Pluto, a Flegiàs. Per quanto aspre, dissonanti, roche, le voci di Caronte, Minosse e Flegiàs hanno dell’umano, mentre quelle di Cerbero (che non parla ma “caninamente latra”) e di Pluto (che parla un linguaggio infernale incomprensibile) sono voci decisamente animalesche. Caronte grida e minaccia: “Guai a voi anime prave! / Non isperate mai veder lo cielo” (Inf. III, 84-85); ma al tempo stesso generosamente consiglia a Dante “altra via” e “altro legno” per attraversare l’Acheronte. La sua voce arriva stentorea, improvvisa, violenta, a squarciare il background sonoro di pianti, lamenti e sospiri degli ignavi, ma resta pur sempre una voce umana che trae forza e severità dalla sua ascendenza mitologica. Caronte è “un vecchio, bianco per antico 10 Il tono dello stupore, una condizione emotiva molto frequente nel Paradiso, è quasi sempre raccontato (nella diegesi) perché Beatrice, che gli legge nel pensiero, sempre precede con le sue risposte le domande di Dante, che, quindi, spesso non trovano formulazione; tranne, nel canto XXXI, appena Beatrice scompare: “Ov’è ella?” (64), chiede il poeta stupito e preoccupato a San Bernardo. 11 Cfr. 2.1.1
pelo” (ivi, 83), mentre Minosse è già una figura animalesca (che anticipa Cerbero e Pluto), con una coda che usa per comunicare e che ringhia come un animale, ma parla al tempo stesso. La sua voce, per quanto sorda e rauca si possa immaginare, ha un che di solenne, come solenne è il suo avvertimento a Dante: “O tu che vieni al doloroso ospizio […] guarda com’entri e di cui tu ti fide; non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!”. (Ivi, V, 16-20)
Non v’è dubbio, comunque, che la sua voce, nel momento in cui interviene, ammutolisce il sottofondo sonoro di “guai”, modifica lo spazio attorno a sé, rafforzando l’isolamento della sua figura: “disse Minòs” (ivi, 17) fa pendant con “Stavvi Minòs” (ivi, 4), sia sotto il profilo semantico (Minosse è lì ben piantato… e dice a Dante), sia sotto il profilo sonoro (attacco in battere, due verbi al passato con geminate, anteposti al soggetto, la ripetizione dello stesso). Quando la voce di Minosse si quieta per ordine di Virgilio (“Perché pur gride?”), il background sonoro gradualmente riemerge: “le dolenti note” e il muggito della “bufera infernal” riprendono il loro ruolo nella fonosfera del canto. Cerbero, abbiamo detto, non parla, latra “caninamente” con tre gole e, quindi, si presume, ad alto volume, tanto da attutire le urla dei dannati causate dall’incessante pioggia mista a grandine e neve. Non parla Cerbero, ma per lui parla Dante che, nella sua descrizione del bestiale guardiano, fa risuonare una componente rumoristica che certamente richiama le qualità della sua voce: CeRbero, fieRa cRudel e diveRsa con tRe gole caninamente latRa sovRa la gente che quivi è sommeRsa. Li occhi ha veRmigli, la baRba unta e atRa, e ‘l ventRe laRgo, e unghiate le mani; gRaffia li spiRti ed iscoia ed isquaRta. (Ivi, VI, 13-18)
Pluto parla, con voce che Dante definisce stridula e aspra (“chioccia”) e usa una lingua sconosciuta che, tuttavia, Virgilio mostra di intendere, ordinando alla bestia di tacere e consumare la sua rabbia dentro di sé12. La voce di Pluto è la cifra sonora del canto e, per quanto scompaia dopo le prime battute, aleggerà fino alla fine nella testa di Dante e del lettore, ripresa dalle zuffe fra gli avari, dall’ironico inno degli accidiosi e dalle rime aspre che il poeta usa per descrivere le due scene. Flegiàs irrompe come una saetta a interrompere il dialogo fra Dante e Virgilio, gridando “Or se’ giunta, anima fella”, ma, alla fine, non è che un bravo marinaio (“galeoto”) che fa il suo dovere, forse un poco scortese e plebeo, ma servizievole e onesto (diversamente dai diavoli di Malebolge, astuti e bugiardi). Lo stesso Virgilio non trova nulla di cui rimproverarlo e gli dice semplicemente che gli staranno fra i piedi il tempo necessario al traghettamento; e Flegiàs, pronto, li accontenta, come un tassista, avvisandoli persino quando arrivano alla “fermata giusta”: 12 L’interpretazione delle parole di Pluto (VII, 1) è oggetto di controversia, e non è questa la sede per riportarne gli esiti; noto solo che l’interpretazione più diffusa (“Pape”, espressione di meraviglia, e il resto, un’invocazione di aiuto a Satana) non concorda con l’interpretazione di Virgilio che fa riferimento non allo stupore di Pluto, ma alla sua rabbia (VII, 9). Nondimeno, resta plausibile la richiesta di aiuto a Satana. Per quanto ci riguarda ai fini di queste note, l’espressione potrebbe anche non significare nulla, essere cioè prossima alla glossolalia, e ritenere, comunque, tutta la sua forza sonora dissonante che mai avrebbe avuta se espressa in un linguaggio “umano”, e che, in apertura del canto, anticipa le rime aspre di cui il poeta farà ampio uso (-ozzi, -uffa, -occhi, -ozza).
“Usciteci – gridò – qui è l’intrata” (Ivi, VIII, 81)
Nel Purgatorio, troviamo due guardiani, l’uno, umano, Catone l’Uticense, il “veglio solo”, nobile e venerando (“Lunga la barba e di pel bianco mista”, Purg. I, 34); l’altro, divino, l’Angelo posto alla porta del Purgatorio con una spada fiammeggiante in mano (IX). Dai versi di Dante, emerge un Catone severo, austero, che incute reverenza (“degno di tanta reverenza in vista”, Ivi, 32), il cui viso, adornato di lunga barba e lunghi capelli bianchi, è segnato da “quattro luci sante” che colpiscono la vista del poeta “come ‘l sole fosse davante”, ivi 39). Anche la voce di Catone appare subito severa, ferma, decisa e, sotto il profilo timbrico, piena, armoniosa, profonda, vibrante (con tante armoniche): Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte che sempre nera fa la valle inferna? (Purg. I, 43-45)
e poi, dopo la spiegazione di Virgilio, quando dà il suo assenso al prosieguo del viaggio: Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d’un giunco schietto e che li lavi ‘l viso, sì ch’ogne sucidume quindi stinghe; ché non si converria, l’occhio sorpriso d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo ministro, ch’è di quei di paradiso. (Ivi, 94-99)
L’Angelo, nel canto IX, appare più statico, deliberatamente più sfumato ed etereo, senza attributi umani, trattandosi di una figura divina, e, quindi, al tempo stesso, più inconsistente. La stessa impressione provoca la sua voce: “Dite costinci: che volete voi? […] Guardate che ‘l venir su non vi nòi” (Purg. IX, 85-87); e, poco oltre, appena Virgilio accenna a Beatrice: “Ed ella i passi vostri bene avanzi”, ricominciò il cortese portinaio: “Venite dunque a’ nostri gradi innanzi”. (Ivi, IX, 91-93)
Lo scambio dialogico, che riprende la struttura di quello con Catone, appare qui più scontato, meccanico, privo di emozioni ed è ovvio che si tratta di una scelta “ideologica” di Dante, il quale tende a spogliare i beati e gli Angeli da sentimenti e debolezze umane. Nessuna incrinatura nella voce e quella che, a giudizio di molti, appare come “profonda dolcezza e gentilezza” 13, assente in Catone, può anche apparire come neutrale freddezza da formulario: *”Che volete voi? parola d’ordine Beatrice… Bene, procedete pure!”. Se momentaneamente mettiamo da parte l’armamentario critico-esegetico sulla superiore spiritualità del Paradiso nel viaggio salvifico di Dante e, da lettori ingenui, proviamo con cautela e prudenza a collocare su un’ideale scala di empatia i due personaggi, Catone, pur nella sua austerità, riesce più “simpatico”, suscita più partecipazione umana14; e crediamo che Dante lo sapesse15. Il gruppo decisamente più cospicuo di voci nelle tre cantiche è naturalmente quello delle anime che popolano i tre regni. In questo gruppo, possiamo, con qualche approssimazione, distinguere tra 13 Anna Maria Chiavacci Leonardi, op. cit., Purgatorio, p. 162, nota 91.
voci a misura d’uomo e voci a misura di bestia; non potendo esaminare tutte le voci che nel viaggio si offrono al nostro udito di lettori, per ragioni di spazio e per sfuggire alla pedanteria degli elenchi, proveremo a fare qualche esempio. Cominciamo da una delle voci più coinvolgenti, più calde e appassionate, di tutta l’opera, la voce della donna innamorata che ancora arde di passione amorosa, un sentimento che Dante ben conosce: la voce di Francesca. Da quali elementi possiamo inferire il suo tipo di voce e le sue caratteristiche sonore, quelle che tecnicamente si definiscono “qualità della voce”? Innanzitutto dalla conoscenza dello stato d’animo del personaggio e, quindi, dal tipo di emozione che dà colore, intonazione e ritmo al discorso parlato; poi, dal materiale sonoro della selezione lessicale operata dal poeta e dalle rime che, in grazia della loro posizione privilegiata, maggiormente concorrono alla sonorità del discorso poetico. Dall’apostrofe (“O animal grazïoso e benigno”) e dal prologo della storia (“Siede la terra…”), la voce di Francesca, calma, rilassata e sciolta, dal verso 100 al verso 107 si fa progressivamente più incerta e a tratti franta, come dimostra la sintassi breve e sincopata delle terzine. Nella seconda parte del suo racconto, la voce di Francesca presenta un’incrinatura, ed è lo stesso Dante a suggerirla: se vuoi che io riporti alla memoria i fatti e li esprima con la mia voce – dice Francesca – “dirò come colui che piange e dice” (Inf. V, 126). Da questo momento, fino alla fine, la voce di Francesca sarà scossa dal pianto che, non solo interferisce sulla fluidità del discorso, che può richiedere brusche frenate (per prendere fiato) e accelerazioni successive, ma introduce perturbamenti sulla linea melodica e sul timbro. Insomma, non “si dice” così come “si piange e dice”: i muscoli fonatori evidenziano un comportamento diverso dal normale (neutrale) e, in particolare, la glottide tende a una costrizione di vario grado che produce, ora una voce stridente (laringalizzazione), ora una voce mormorata (glottide più rilassata), ora una voce di gola, accompagnata da sospiri, con moderata nasalità16. Non è questo il luogo per approfondire questioni di fonetica acustica e di fisiologia della voce; tuttavia, per una più completa degustazione del testo, non possiamo ignorare la qualità della voce di un personaggio in un dato contesto, specialmente quando è l’autore stesso a suggerirci la presenza di un perturbamento. “La qualità della voce, come importante veicolo di informazione sulle caratteristiche fisiche, psicologiche e sociali del parlante, ha un ruolo semiotico vitale nell’interazione verbale”17. Naturalmente, noi non conosciamo la voce di Francesca, né nelle sue modalità neutrali, né nelle sue modalità emotivamente perturbate; tuttavia, sappiamo che si tratta di una giovane donna, di buona estrazione sociale e buona cultura (che legge narrativa contemporanea), che piange per una profonda passione amorosa troncata in modo violento (“e ‘l modo ancor m’offende”). Possiamo inferire da queste informazioni, da una sintassi piana, ma a tratti franta, da “eccellenza de’ vocaboli” che “circondano colui che parla di una cotal soavità” 18, dalle rime levigate e dolci, un’impressione della voce, non della Francesca storica, ma della Francesca di Dante? Probabilmente, possiamo o, quanto meno, possiamo dire come questa voce non può essere: non sarà né stridula né acuta, né rauca né nasale (se non per quel perturbamento introdotto dal pianto), 14 Per la verità questo avviene per tutti i personaggi della Commedia che meglio conservano o richiamano il loro temperamento umano, sia nell’Inferno (Francesca, Farinata, Ulisse, Ugolino, etc.), sia nel Paradiso (Cunizza, Pier Damiano, San Pietro, etc.). 15 Se così non fosse, quale spiegazione potremmo dare all’uso deliberato di rime aspre da parte dell’Angelo nella scena delle chiavi che, ci si perdoni l’ardire, sembra tutta scritta in chiave comica e riduce ulteriormente lo spessore e la dignità del divino portiere? Cfr. Purg. IX, 121-129; cfr. infra, nota 12. 16 Cfr. John Laver, The phonetic description of voice quality, Cambridge University Press, London, 1980, pp. 146-147. 17 Ivi, p. 2 (T.d.A). 18 De Vulgari Eloquentia, op. cit., II, iv e vii.
non sarà sicura e altisonante (come quella di Farinata), né ansiosa (come quella di Cavalcante), non sarà sguaiata né userà alti volumi (come farà Vanni Fucci). Quante di queste informazioni potremo tradurre nella lettura ad alta voce, non sappiamo, ma il lettore informato, che ha fatto sue queste riflessioni, saprà infondere al testo, anche senza accorgersene, l’intonazione e il movimento giusti per far emergere dal testo e riportare fra di noi la figura di Francesca. La voce di Francesca, in particolare per la delicatezza dei suoi volumi e per la profondità timbrica, pur nella distinzione fra voce maschile e voce femminile, ci suggerisce l’accostamento con un’altra voce, quella di Brunetto Latini. Se escludiamo la rampogna di Brunetto contro Firenze (Inf. XV, 61-78), troviamo che non solo la tensione emotiva, ma anche la struttura sintattica dei due incontri è speculare: nel canto V è Dante che apostrofa Paolo e Francesca perché si fermino a parlare con lui (“O anime affannate, / venite a noi parlar, s’altri non niega”, ivi, V, 80-81), nel canto XV è Brunetto che apostrofa Dante perché possa un poco accompagnarsi a lui: “O figliuol mio, non ti dispiaccia / se Brunetto Latino un poco teco…”, ivi, XV, 31-32). E ancora: nel canto V, Francesca esprime il suo rammarico di non poter essere utile a Dante (“se fosse amico il re dell’universo / noi pregheremmo lui de la tua pace”, ivi, V, 91-92); nel canto XV, Brunetto esprime lo stesso rammarico, facendo uso della medesima struttura sintattica e del medesimo schema ritmico: “e s’io non fossi sì per tempo morto […] dato t’avrei a l’opera conforto”, ivi, XV, 58-60). Anche lo sfondo emotivo dei due incontri, prodotto da sentimenti di tristezza e di nostalgia per la vita terrena, è comune ai due personaggi e produce perturbamenti simili nelle loro voci, a tratti spezzate dalla commozione. Si tratta di echi semantici e sonori potentissimi che accostano situazioni e personaggi apparentemente diversi, bruciano distanze fisiche e psicologiche, e danno unità sentimentale e musicale all’opera. …………………………….