Massimo Desideri
Il volto nascosto di Dante Anticattolicesimo ed enigmi nella “Commedia�
SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI Il volto nascosto di Dante, oltre che essere un libro controcorrente, poiché concentra l’attenzione su aspetti finora poco indagati dell’autore della Commedia (anticattolicesimo, protagonismo di figure “docenti” femminili in materia di dogmi di fede e di teologia, elementi di cultura ebraica e islamica nel poema, suggestioni esoteriche ed iniziatiche), intende cercare di spiegare il “codice” comunicativo, molte volte “enigmatico”, accuratamente studiato da Dante per lanciare ai suoi selezionati lettori un messaggio dirompente e trasgressivo di profondo rinnovamento morale, politico e religioso. Caratteristica de Il volto nascosto è la “comoda” possibilità di una lettura a sé stante, cioè autonoma e non sistematica né continuativa, dei capitoli del libro, ciascuno dei quali verte su temi specifici: ciò che rende adatto il volume sia a un utilizzo scolastico per la costruzione di singole unità didattiche, sia ad approfondimento di determinate curiosità nell’ambito delle allegorie dantesche e della cultura medioevale. Allo scopo di illustrare le intenzioni di cui sopra, si propongono - come particolarmente significativi - stralci dai seguenti capitoli: 2 (sull’invenzione di Beatrice); 3 (sull’eterodossia di Dante rispetto al cattolicesimo); 8 (sulle influenze ebraiche e islamiche nella Commedia); 13 (sull’importanza dei numeri nel poema); 16 (sul valore universale dei meriti intellettuali, culturali e artistici); 28 (sulla trasgressività ideologica dell’esaltazione dantesca di alcune figure femminili); 32 (sulla rappresentazione di Dante-personaggio - nella terza cantica soprattutto- come “nuovo Gesù”); Conclusioni (sull’aspetto innovativo della posizione dantesca poco evidenziato dagli studi critici); appendice E (sull’eretico ruolo sapienziale delle “donne di Paradiso” in materia di fede e di teologia).
Indice Il volto nascosto di Dante Premessa, p. 4 1 - I quattro sensi delle «scritture», p. 7 2 - L’invenzione di Beatrice: la straordinaria frottola del Boccaccio, il «mirabile burlone Certaldese», p. 8 3 - Pitagorismo ed esoterismo, p. 9 4 - Il mistero del «codice Beatrice», p. 13 5 - Dante “templare”: linee di una lettura eterodossa dell’opera dantesca, p. 16
6 - Un problema procedurale: i “Fedeli d’Amore”, club di amici poeti o setta esoterica? p. 22 7 - L’«iniziazione» di Dante ai “Fedeli d’Amore”: la Vita Nuova, p. 27 8 - Una questione ancora aperta e dibattuta: la cultura ebraica e islamica nell’opera dantesca, p. 32 9 - Il pellegrinaggio, percorso fisico e metafisico dell’uomo del Medioevo alla ricerca di Dio, p. 40 10 - La Divina Commedia: matrice e “summa” della cultura europea, p. 46
11 - La Divina Commedia: il titolo, l’impianto strutturale e simbolico, p. 49 12 - «Nel mezzo del cammin di nostra vita», p. 54 13 - Il simbolismo numerico della Commedia, p. 59 14 - Le allegorie del primo canto dell’Inferno, p. 66 15 - Due parole di riflessione “nel mezzo del nostro cammino”, p. 76 16 - Il «nobile castello» illuminato degli «spiriti magni», p. 79 17 - Tra profezie e altri busillis, p. 84 18 - Il Veglio di Creta, p. 87 19 - Il poeta delle “vere meraviglie”, p. 91 20 - Ulisse, il “fratello” di Dante, p. 100 21 - «Vexilla regis prodeunt inferni»: al cospetto di Lucifero, p. 115 22 - L’arrivo sulla spiaggia del Purgatorio: l’enigmatica figura di Catone Uticense, p. 123 23 - Il rito dell’angelo guardiano, p. 142 24 - I tre sogni di Dante, p. 146 25 - Il messaggio politico di Dante nel Purgatorio e nel Paradiso, p. 153 26 - Nella divina foresta dell’Eden, p. 160 27 - La profezia della “nuova” Beatrice, p. 168 28 - Donne di Paradiso, p. 177 29 - Dante, “vaso” d’Apollo e prescelto di Dio, p. 187 30 - Beatrice, il motore di Dante, p. 192 31 - Dietro le “luci” del Paradiso dantesco, p. 197 32 - Dante e la maschera del “novello Messia”, p. 204 Conclusioni, p. 209 Per saperne di più… A - Il fascino occulto del numero nove, p. 212 B - L’enigma del Sator, p. 213 C - La superbia di Dante, p. 215
D - Publio Papinio Stazio, un altro “strano” accompagnatore di Dante, p. 216 E- Le “culture” di Dante e il ruolo sapienziale delle “donne di Paradiso” nella Commedia, p. 217 Biografia essenziale di Dante, p. 222 Sinossi della Commedia di Dante, p. 226 Bibliografia “esoterica” dantesca, p. 232
In memoria dei 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri
Premessa Difficile trovare al mondo un autore che, più di Dante, abbia suscitato ammirazione, interesse e suggestioni, e per di più in personalità artistiche o comuni delle più diverse origini e appartenenti ai tempi più lontani fra loro. Quest’anno ricorrono i 750 anni dalla nascita del poeta: manifestazioni, dibattiti culturali e celebrazioni si susseguono un po’ ovunque, in Italia ma non solo. L’attenzione degli studiosi e del pubblico si concentra specialmente sull’opera sua più grande, che da sempre fornisce spunti e suggestioni, certo non esauriti né esauribili per adesso. Si può dire che, fin dalla prima diffusione della Commedia, ha preso avvio e non s’è mai interrotto fino ad oggi un incessante lavoro di studio, di approfondimento e di interpretazione, evidentemente suscitato dallo straordinario impianto, artistico e spirituale, del viaggio ultraterreno immaginato dalla mente del Poeta. È, dunque, ben comprensibile come un poema così ricco e composito, ancora tanto attuale e stupefacente, per la profondità e universalità delle sue riflessioni senza tempo, sia stato oggetto di analisi anche molto distanti e contrastanti fra loro: d’altronde, è stato lo stesso Dante a definire la Commedia un’opera polisema, dotata cioè di più “livelli” di significato, di cui il livello letterale è quello di più immediata comprensione, ma anche il più superficiale.
Un’opera polisema non significa, però, che sia o debba necessariamente essere un’opera ambigua, se non altro perché dovrebbe risultare chiaro e inequivocabile il suo messaggio, almeno nell’intento di Dante, a chi possieda la giusta dose di conoscenze per decodificarlo. Tuttavia, è per altri versi inevitabile che, laddove il suo significato non sia immediatamente scoperto perché il suo autore l’ha volutamente velato, gli interpreti finiscano per avere opinioni diverse circa la sua interpretazione. Naturalmente, è scontato dirlo ma non inutile ricordarlo, avendo cura di attenersi a chiavi di lettura e a spiegazioni plausibili: perché, trascurando solidi appigli rispetto all’opera stessa, il rischio è sempre quello dell’arbitrio e della lettura eccessivamente personalistica o “mistificante”. Una delle figure chiave della Commedia, ma, ancor prima, della Vita Nuova e, nonostante lo sembri di meno, anche del Convivio, è quella di Beatrice, strumento interpretativo indispensabile del messaggio dantesco: di questa, che molti studiosi intendono donna vera, o di questa “Cosa”, come molti altri la giudicano, e cioè pura forma allegorico-simbolica, esclusivo “altro da sé”, una miriade di esegeti sparsi per il mondo ha fornito, nel corso del tempo, chiavi di lettura diverse, riducibili, però, sostanzialmente a due grandi gruppi. Chi, pur non negandone il valore simbolico o il “mascheramento” da parte di Dante, ne presuppone in ogni caso l’esistenza storica - nella fattispecie con l’identificarla in Bice di Folco Portinari -, e chi, invece, afferma si tratti solo di una pura astrazione metaforica, né più né meno affiancabile, anche se di più complessa costruzione, alle figure femminili cantate dagli altri poeti del cosiddetto circolo stilnovistico-esoterico dei Fedeli d’Amore. All’interno di questi due ampi schieramenti c’è una grande varietà di posizioni, di cui cercherò di fornire solo le linee portanti significative, per non ridurre il lavoro che propongo a una semplice quanto sterile elencazione di opinioni. Perciò, alle interpretazioni “esoteriche” di Beatrice e dell’opera dantesca in genere, se non sarà riservato uno spazio informativo esclusivo, gliene sarà assicurato uno adeguato e il più possibile esauriente, almeno utile a farsi di quelle interpretazioni un’idea corretta: anche perché, pure altre figure di donna (Matelda, Piccarda) assumono nella Commedia un ruolo rilevante in ambito di magistero di fede, di sicuro sorprendente - e meritevole di indagini più accurate - se si considera la riduttiva opinione nei confronti dell’universo femminile tipica dell’età medioevale. Nella tradizione religiosa cristiana, per esempio, Dante poteva trovare solo in alcuni Vangeli apocrifi figure femminili come quella di Maria Maddalena, che avessero una qualche importanza in questo senso. Va detto che in un mio precedente saggio ho già affrontato il tema della figura di Beatrice, la donna ispiratrice di Dante, la “donna della mente” e del cuore del poeta, sposando, però, decisamente la tesi della sua storicità e, insieme, della sua funzione simbolica (tesi che, peraltro, continua ad essere profondamente la mia). Ritengo però che, pur conservando la mia opinione (che ho altrove motivato e che qui ribadisco), onestà intellettuale, completezza d’informazione e rispetto delle idee altrui impongano anche l’illustrazione dell’altro schieramento, di quello cioè che vede non solo in Beatrice bensì pure nel complesso dell’opera di Dante, specialmente nella Commedia, un grande messaggio “occulto”, massonico o rosacrociano ante litteram, un “codice”, insomma, riservato solo a pochi iniziati, gli unici in grado, possedendone la “chiave”, di interpretarlo correttamente. Cosa costoro pensino non solo della figura di Beatrice, tutt’altro che identificabile, secondo loro, in una donna reale, ma anche della complessa struttura della Commedia, dei suoi simboli e dei suoi significati più reconditi, sarà tema non secondario di questo saggio. D’altra parte, chi voglia, all’opposto, accostarsi ad opere di esclusiva impostazione esoterica in materia di studi danteschi, non ha che l’imbarazzo della scelta, dato che ne esistono già molte organizzate secondo un’ottica interpretativa di questo tipo. Tuttavia, io penso che un obiettivo più ambizioso, ma non impossibile da raggiungere, possa essere quello di conciliare e confrontare i risultati raggiunti dalle interpretazioni esoteriche delle figure e delle rappresentazioni dantesche nel poema con quelli di altra ispirazione di studi: in tal modo, a
mio parere, si evita il rischio di escludere una lettura a beneficio di un’altra, trascurando - con un rifiuto pregiudiziale a seconda dello “schieramento” prescelto - possibilità più ampie e complete di approfondimento e di comprensione del messaggio di Dante. Oggi, invece, un’analisi accurata, che tenga conto di contributi di diversa provenienza, dunque più attenta e matura - e meno “di parte” -, s’impone di necessità: comprendere il significato, oltre che della figura di Beatrice, pure di altre figure femminili, di riti, e di altri simboli o rappresentazioni tuttora enigmatiche del poema, può riuscire meglio se si ha l’umiltà e l’intelligenza di “ascoltare” più voci (“italianisti” o “esoteristi” che ci si riconosca), se non altro per amor di completezza: l’unico requisito indispensabile rimane, naturalmente, quello di non sparar fandonie campate in aria e, dunque, l’attendibilità e verificabilità delle proprie conclusioni. Anche perché viviamo un’epoca in cui un po’ di sana curiosità intellettuale non può che farci bene: e non c’è nulla di male, secondo me, se, per suscitarla, fermo restando il rispetto del testo, si cerchi di sondare, della Commedia di Dante, così “antica” ma tuttora così “moderna” e attuale, pure prospettive divergenti dalle interpretazioni più note trasmesse dalla scuola e da letture canoniche ormai standardizzate. D’altronde, il nostro tempo, a partire specialmente dai primi decenni del Novecento, sembra molto sensibile - e non solo in ambito dichiaratamente esoterico - al tema dell’enigma e del mistero, che si cela perfino dietro le più comuni e innocue apparenze. Ne viene fuori, perciò, questo lavoro che, rigorosamente fedele ai testi danteschi, indaga quanto più accuratamente e fondatamente possibile le fonti cui il poeta attinse, rielaborandole poi e “riusandole” per i suoi messaggi, sia quelli essoterici, cioè accessibili a un più vasto pubblico, sia quelli esoterici, ovvero quelli riservati a lettori in grado di coglierne anche le sfumature più segrete, comprese le più trasgressive e ideologicamente più ardite o, addirittura, eterodosse. Di fronte all’impegno, arduo ma sempre affascinante, di affrontare una lettura più approfondita dell’opera di Dante, come quella che qui si tenta e di cui si forniscono le coordinate per ulteriori riflessioni, spetta a noi dotarci di adeguati strumenti interpretativi, che ci mettano in grado di distinguere - nei contributi dei diversi esegeti - il plausibile dall’improponibile, per poter cogliere al massimo grado il significato e i messaggi del poema dantesco. Sempre coscienti, in ogni caso, che anche una cosiddetta “lettura anarchica” della Commedia ovvero intrapresa solo con gli strumenti passionali di chi voglia provare ad “emozionarsi” al cospetto di figure e personaggi ormai immortali come quelli del poema dantesco -, non tolga comunque nulla al fascino secolare di una delle opere d’arte più grandi di tutti i tempi. Senza però, nello stesso tempo, mai dimenticare che pure il “massimo grado” di comprensione a noi possibile difficilmente esaurisce tutti i livelli interpretativi ipotizzabili, “nascosti” dal poeta «sotto ‘l velame de li versi strani». Maggio 2015
MD ………………………………………………………………………………………………………… …………………………………………………….. 2. L’invenzione di Beatrice: la straordinaria frottola del Boccaccio, il «mirabile burlone Certaldese» Uno dei più convinti assertori novecenteschi dell’inesistenza di Beatrice non è un critico letterario, ma un geologo, chimico, paleontologo, biologo e botanico, docente presso l’Università di Pavia e autore di importanti opere scientifiche, cultore di Dante in privato, il professore fiorentino Paolo Vinassa de Regny (1871-1957), che, nel 1956, pubblicò un testo molto particolare, Dante e il simbolismo pitagorico (ristampato nel 1988 e più recentemente con un altro titolo), frutto di lunghe e approfondite ricerche, e tutto imperniato sul valore esoterico del numero all’interno della Divina Commedia.
Il professore, pur professandosi cattolico, è così visceralmente convinto delle sue ragioni - peraltro ben sapientemente documentate - da dimenticare quanto la sua fede raccomandi di aver compassione dei semplici di spirito, tra cui finiscono per trovarsi coloro che (grossolanamente, secondo lui) credono alla reale esistenza di Beatrice: su questi poveri babbei, tra i quali anch’io mi annovero, egli scarica senza pietà una sequela di apprezzamenti a dir poco umilianti. Persuaso (come René Guénon e altri) che i Fedeli d’Amore, gli stilnovisti fiorentini, altro non fossero che una vera e propria setta esoterica, sostiene che il massimo responsabile dell’identificazione di Beatrice con Bice Portinari sia Giovanni Boccaccio. L’autore del Decameron, essendo né più né meno che un fedele d’Amore attardato, avrebbe, nel suo Trattatello su Dante, mascherato la realtà delle cose con l’invenzione, per noi sempliciotti che l’abbiamo bevuta, della Beatrice Portinari, figlia di Folco, per la quale l’Alighieri, nella Vita Nuova, dice di aver perso la testa fin da ragazzino. ………………………………………………………………………………………………………… ………………………………. Assolutamente ridicolo, quindi, secondo questa linea interpretativa, vedere in Beatrice effettivamente la glorificazione di Bice Portinari, ovvero della signora Bardi, essendo lei stata la consorte, come si sa, di Simone de’ Bardi; del quale poi, si dice per inciso, non si crede all’inspiegabile silenzio vedendosi la moglie così apertamente circuita dagli insinuanti versi del “noto” poeta Dante Alighieri. A parte queste ultime considerazioni da gossip cittadino d’altri tempi, di cui non abbiamo cronache e per cui si potrebbero ben intuire spiegazioni poetiche, o immaginarne altre realistiche ma di difficile verificabilità oggi, rimane pur fermo un punto sulla questione: se noi togliamo alla figura di Beatrice e ai molti passi della Commedia che la riguardano la innegabile componente emozionale e sentimentale di cui il poeta l’ha circonfusa e mettiamo in primo piano, fino a farne il protagonista, l’aspetto allegorico, numerologico, ovvero generalmente simbolico, facilmente possiamo leggere la Commedia (ma anche la Vita Nuova) come un poema dal messaggio esoterico, misterico ed iniziatico. Resta da vedere se questa sia un’operazione non solo lecita, ma opportuna per la migliore ed esauriente comprensione dell’opera del nostro maggiore poeta. ………………………………………………………. Per quanto mi riguarda, nonostante le opinioni di studiosi pur autorevoli, che Beatrice nella realtà storica non sia mai esistita, non lo credo; [poiché] che una “Beatrice” di Dante sia esistita davvero ce lo dice lui stesso con riferimenti - secondo me - oggettivi (peraltro coincidenti proprio con quelli della “storica” Beatrice Portinari), e non mi pare sia il caso di dubitarne più di tanto: di alcune evidenze, diciamo così, umane, e poi trasformate in poetiche, circa la realtà di Beatrice darò conto più avanti trattando dei simboli della Commedia; mentre altre, dichiaratamente motivate dal poeta, si trovano nel Convivio, specialmente nel secondo e terzo trattato, che possono considerarsi in un certo qual modo il prosieguo della Vita Nuova, prima opera organica giovanile di Dante, senza dubbio allegorica, ma ispirata con ogni evidenza da un autentico sentimento d’amore. …………………………………………………
5. Dante “templare”: linee di una lettura eterodossa dell’opera dantesca Ancora oggi………rimane significativo il numero degli studiosi che vedono nell’opera dantesca, soprattutto nella Commedia, e non solo nella figura di Beatrice, un “codice” segreto, che vuole dire ben più di quello che comunemente si crede che dica. Una tappa importante in questo indirizzo di studi è costituito dal breve ma famoso saggio L’esoterismo di Dante del francese René Guénon (1886-1951), pubblicato la prima volta nel 1925, ma che rimane tuttora un “classico” di quel genere di interpretazione. ……………………………………..
Nel saggio Guénon accentua l’interpretazione allegorica e anagogica dell’opera dantesca, mettendola in relazione con diverse tradizioni esoteriche e, in particolare, col templarismo. ……[…]………………..Per sostenere con prove secondo lui inconfutabili l’appartenenza di Dante a organizzazioni di tipo iniziatico, Guénon ci informa che presso il Museo di Vienna (o, forse, voleva dire “Vienne”, in Francia) si trovano due medaglie: una raffigura un’effigie di Dante, l’altra quella del pittore Pietro da Pisa; sul rovescio di entrambe sono incise le lettere F.S.K.I.P.F.T., che egli, correggendo in parte Aroux, interpreta come Fidei Sanctae Kadosch, Imperialis Principatus, Frater Templarius1. La conclusione per il Guénon più evidente è che Dante fosse uno dei capi della società segreta detta della Fede Santa (che nasconde, sotto la “maschera” poetico-simbolica stilnovistica, i “Fedeli d’Amore”), un Ordine Terziario di affiliazione templare, i cui dignitari portavano l’appellativo di “Kadosch”, parola ebraica che significa “santo” o “consacrato” (titolo rimasto ancora oggi negli alti gradi della Massoneria). Non è certo un caso, allora, secondo Guénon, che Dante prenda, come guida finale nel Paradiso, proprio San Bernardo di Chiaravalle, l’ispiratore della Regola dei Templari. Altre “prove” del carattere iniziatico (o “pre-massonico”) della Divina Commedia lo studioso francese trova nella struttura dei cieli che Dante attraversa, organizzati, a suo dire, come “gerarchie spirituali”, cioè come veri e propri gradi d’iniziazione, che troverebbero una singolare concordanza anche in certe teorie della Kabbala ebraica. …………………………………………………………………………. Nel resto del saggio l’autore s’impegna ad approfondire i rapporti tra il viaggio di Dante e quelli presenti in altre culture, come per esempio quella islamica; altri argomenti trattati nel libro sono i “mondi” dell’universo dantesco, rapportati, con qualche discutibile forzatura, alla tradizione indiana, il numerismo simbolico del poema (argomenti, questi ultimi, che riprenderò in seguito) e, soprattutto, la teoria dei “cicli cosmici”. Per quanto riguarda questo tema, che costituisce il penultimo capitolo del breve saggio, il Guénon si occupa in esso di definire la cronologia del viaggio ultraterreno di Dante: con una complicata numerologia astronomica e matematica, lo studioso sostiene che la data del viaggio descritto nella Commedia, il 1300, più che semplicemente collocarsi “nel mezzo del cammin” della vita di Dante uomo, si situa nel “grande anno” (che cade alla metà di un ciclo completo della precessione degli equinozi), ossia nel momento temporale che gli antichi consideravano come equidistante fra due successivi rinnovamenti del mondo. ……………………………………………………………………………… Il viaggio di Dante si compie secondo l’asse spirituale del mondo; da lì soltanto, infatti, si possono considerare tutte le cose in modo permanente, poiché si è sottratti se stessi al cambiamento, e se ne può avere per conseguenza una veduta sintetica e totale» (op. cit., p. 67). Altro “partigiano” del presunto templarismo di Dante è l’inglese Robert L. John, che, nel suo Dante templare (1987), pur ribadendo l’ortodossia del poeta fiorentino, torna a evidenziare la posizione risolutamente antipapale (in quanto “antitemporalista”) di lui. La novità dell’analisi proposta dallo studioso inglese è data dal fatto che egli, pur riprendendo la tesi già del Rossetti e del Valli dei “Fedeli d’Amore” come setta segreta e quella di Guénon che fa di Dante un templare, sintetizza le due interpretazioni: per lui i “Fedeli d’Amore” sono i Templari stessi che, perseguitati e ormai costretti a una occhiuta prudenza sia nelle parole sia nei loro scritti,
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Però Guénon, non avendo esaminato di persona le medaglie, non poteva sapere che quella che porta la testa di Dante non è originale: è Luigi Valli a chiarirlo, dopo averle visionate direttamente («…il recto e il verso sono stati messi insieme posteriormente con due mezze medaglie di carattere e di stile diversissimo, non sono incisi insieme: chiunque lo vede a colpo d’occhio. Quindi le lettere non si riferiscono a Dante, almeno in origine. Si tratta di una medaglia del Pisanello di cui il verso contenente le lettere fu da qualcuno posteriormente applicato al recto di una medaglia dantesca…»). Allora, per il Valli, le lettere, più plausibilmente, significano: Fides, Spes, Karitas, Justitia, Prudentia, Fortitudo, Temperantia. Sarebbero, cioè, le iniziali delle sette virtù.
dopo i sanguinosi processi del 1307-12 a loro carico voluti dal re di Francia Filippo il Bello, ricorrono, per tutelarsi, a un simbolismo e a un parlar figurato sempre più esasperato. Franco Galletti, invece, nella sua monografia La “Philosophia perennis” nel pensiero di Dante (uscita sui numeri 2 e 3 di “Perennia Verba” del 1997), sposa decisamente le tesi di Guénon, evidenziando specialmente i “segni” della tradizione esoterica e di quella greco-romana nella poesia dantesca. L’inesauribile vitalità e poliedricità dell’opera di Dante non finisce più di stupire, e ancora oggi ne arrivano sempre ulteriori dimostrazioni. […] Svoltato il secolo ed entrati nel XXI dell’era cristiana, ……. non è venuta meno la curiosità di studiare il Dante segreto: sicché la bibliografia in tal senso continua ad arricchirsi. ……………………..Probabilmente, il motivo è da ricercarsi nell’impulso spiritualistico che percorse la società e la cultura europee in seguito alla crisi del secolo dei «lumi»: per cui, anche Dante, che fino al Settecento, generalmente, non godette della stima e della popolarità dopo di esso sempre crescenti, conobbe da quel momento un universale ritorno di interesse; e pure per quegli aspetti “segreti”, misteriosi e allusivi, di molti passaggi e personaggi, della Commedia specialmente, che senza dubbio costituiscono, insieme alla inimitabile forma poetica, una delle componenti essenziali dell’opera dantesca e del messaggio filosofico-culturale con essa lasciato all’umanità. Sicché, paradossalmente, la grande cura “razionale” e “scientifica” (numerologica e simbolica), con cui Dante avrebbe costruito il codice misterioso-iniziatico della sua opera maggiore (ma anche della Vita Nuova), è stata sottoposta alla vivisezione di uno stuolo di esegeti otto-novecenteschi di orientamento esoterico, che si sono impegnati a decodificare quel codice, proprio grazie all’imporsi, nella filosofia e nella cultura post-illuministica, di quello spirito “irrazionalistico” tipico del XIX, ma poi ancor di più del XX secolo (a quanto pare tuttora perdurante nel XXI appena iniziato). ………………..Però, bisogna stare attenti, come avverte Umberto Eco nell’introduzione all’interessante (comunque) volume L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante (a cura di Maria Pia Pozzato), a non innamorarsi, volendo indagare l’esoterismo di Dante, più dell’esoterismo che di Dante. Insomma, non dobbiamo esagerare, pur considerando l’innegabile base simbolica e numerologica della Commedia, a cercare e trovare in essa (o credere d’aver trovato) anche quello che non c’è. Perché, ci fa riflettere Eco, una volta attivato il meccanismo “analogico”, il passo dall’analogia al complotto e al segreto è breve, e un segreto ne chiama un altro. …………………………………… Dante fu……un personaggio “fastidioso”, fuori dal coro, il cui pensiero non è, né era, lui ancor vivo, facilmente “istituzionalizzabile”; dunque, non ci si può rifiutare di pensare che lui abbia potuto “mascherare” le sue idee più “pericolose”, attivando fantasiose, raffinate e criptiche forme letterarie di autodifesa. D’altra parte, rimandando a più avanti considerazioni sulla scelta già “eversiva” di scrivere la sua opera principale in lingua volgare italiana e non in latino, il suo pensiero politico e filosofico non era certo in linea con quello considerato del tutto ortodosso dalla Chiesa e dall’élite culturale ufficiale. Si pensi solo al fatto che, a pochi anni dalla morte del poeta, il cardinale francese Bertrando del Poggetto (nipote del papa Giovanni XXII) ottenne di far bruciare pubblicamente il De Monarchia; spingendosi poi tanto oltre da manifestare l’intenzione di far disseppellire la salma del suo autore per mandarla anch’essa sul rogo (paradossale che Dante abbia corso il rischio di finire sul rogo da morto dopo essere riuscito ad evitarlo da vivo).
La cosa fu poi scongiurata per un pelo solo perché a perorare la causa dell’illustre defunto accorsero a Bologna, dove il cardinale si trovava, sia il nuovo signore di Ravenna, Ostasio da Polenta (successore di Guido Novello, amico e protettore di Dante negli ultimi anni d’esilio) sia il cavaliere fiorentino Guido della Tosa. …………………………………………………… E senza dubbio Dante qualche fastidio, ideologicamente, dovette pur darlo, anche senza mai arrivare a mettere in discussione i dogmi della fede: si pensi solo alla cosiddetta “teoria dei due Soli” (Papato e Impero), esposta nel III libro della Monarchia, secondo la quale i due poteri erano non solo ugualmente necessari al genere umano, ma anche autonomi l’uno dall’altro, ed equipollenti, perché derivanti direttamente da Dio, Questa teoria si scontrava frontalmente con quella teocratica della Chiesa, ribadita dalla bolla di Bonifacio VIII Unam Sanctam del 1302, che stabiliva dogmaticamente l’assoluta supremazia del Papato su ogni potestà terrena. Niente di strano, perciò, che il De Monarchia fosse condannato sotto il pontificato di Giovanni XXII, salito al soglio di Pietro nel 1316; dà più da riflettere, invece, che l’opera fosse tolta dall’Index librorum prohibitorum (“Indice dei libri proibiti” ai buoni cattolici) solo nel 1881 (ma forse non più di tanto, se pensiamo che Galilei è stato riabilitato dalla Chiesa solo da papa Giovanni Paolo II). ……………………………………………………… Ben vengano, perciò, nuovi “paradigmi” in evoluzione, nuove “esegesi”, nuove “chiavi di lettura” dell’opera dantesca e “Danti” finora rimasti ignoti o poco indagati: l’importante è che essi, per riuscire sorprendenti, non risultino arbitrari, ma siano sempre documentati, rispettosi del testo, dell’autore, della sua personalità e dei rapporti col suo tempo. ………………………………………………………… 8. Una questione ancora aperta e dibattuta: la cultura ebraica e islamica nell’opera dantesca Intorno ai problemi interpretativi delle “vere” intenzioni dei due trattati, che definiscono il pensiero filosofico e linguistico di Dante in vista dell’opera maggiore, cioè il Convivio e del De vulgari eloquentia - dei quali non è opportuno qui entrare, per non dilatare troppo il nostro specifico discorso centrato sulla Commedia specialmente - sono annose e ancora attuali le dispute tra gli studiosi: soprattutto a proposito del dibattito culturale e d’idee estraneo al mondo cristiano, la cui conoscenza il poeta fa solo intuire, ma che traspare chiaramente ad un attento esame di entrambi gli studi danteschi. Non pare, infatti, azzardato affermare - dato che sul problema linguistico e sulla buona opinione verso la “doppia verità” (di ragione e di fede) di Averroè le loro idee coincidono -, che Dante quanto meno fosse al corrente dei fondamenti del pensiero di uno dei maggiori esperti in epoca medievale della Qabbalah (il complesso delle dottrine tradizionali esoteriche e mistiche ebraiche relative a Dio e all’universo, in genere corrispondente alla Torah): vale a dire di Abramo Abulafia, nome italianizzato di Abraham ben Samuel Abulafia, singolare figura di filosofo e mistico spagnolo di origini e cultura ebraiche. E così molti interpreti moderni di Dante si sono impegnati a trovare prove, più o meno discutibili, in tal senso, specialmente considerando il fatto che Abulafia, a un certo punto della sua vita, venne effettivamente in Italia, precisamente a Roma nel 1260, e ancora, dopo un po’ di tempo trascorso a Barcellona, nel 1280 ancora a Roma, stavolta con l’audace idea, rivelatasi più che altro bizzarra e rischiosa, di convertire il papa al giudaismo. E gli andò bene che al pontefice Niccolò III prendesse un colpo apoplettico al momento giusto, se no per lui era già pronto il rogo, mentre se la cavò con sole quattro settimane di carcere, dopodiché fu liberato. ………………………………………………………………………………….
Sicuramente, però, la relazione più “rischiosa” per uno scrittore cattolico del Medioevo, molto più di quella con la cultura ebraica, era senza dubbio un dichiarato rapporto col mondo islamico. È un po’ una questione di lana caprina, per la verità, perché solo uno che, anche all’epoca, volesse essere cieco poteva non vedere quali fitti rapporti intercorressero necessariamente, verso la fine del Duecento, tra due grossi centri d’irradiazione della cultura araba, come la Sicilia in Italia e la Castiglia in Spagna (sede della famosa scuola di traduttori di Toledo), e il resto dell’Europa cristiana. D’altra parte, la cultura islamica, in questo periodo, vive la fase del suo massimo splendore, che si riflette nell’azione intellettuale di due singolari figure di sovrani, ambedue in rapporto durante la loro infanzia col mondo islamico e mediatori tra due mondi solo apparentemente del tutto contrapposti: si tratta di Federico II (1194-1250), “italiano” di nascita (Jesi), ma di stirpe germanica, re di Sicilia e Imperatore (spesso in aperto conflitto con la Chiesa del suo tempo), e di Alfonso X il Savio (1221-1284), nativo di Toledo. Dietro loro impulso nacquero, nei territori da loro governati, scuole di traduzione, specialmente dall’arabo in latino, che presto assunsero grande fama e importanza; è attraverso la traduzione latina che Dante viene a conoscenza dei testi arabi. Ma quali testi? Testi integralmente conosciuti ed effettivamente letti dal poeta, seppure in traduzione latina, o testi solo riassunto di altri testi o riguardanti un episodio specifico, o “testi” da lui acquisiti solo per trasmissione orale? Di tutte queste diverse possibilità di accesso di Dante a testi arabi (come, per esempio, il racconto del viaggio di Maometto nell’aldilà o l’Etica Nicomachea di Aristotele contenuta in un compendio arabo tradotto in latino) abbiamo riscontri abbastanza sicuri. Sono passati quasi cent’anni da quando, nel 1919, uscì il famoso libro di Miguel Asín Palacios, La escatología musulmana en la Divina Comedia, che suscitò subito molto interesse, e anche molto clamore. Nell’ancor più famoso testo, che ho già citato, L’esoterismo di Dante, di Guénon, a proposito del libro dello studioso spagnolo, accolto comunque da molti - compreso lo stesso Guénon - con parecchie riserve, a un certo punto si legge: «Don Miguel Asín Palacios ha mostrato i molteplici rapporti esistenti…fra la Divina Commedia (senza parlare di certi passaggi della Vita Nuova e del Convivio), da una parte, e, d’altra parte, il Kitâb elisrâ (“Libro del Viaggio notturno”) e le Futûhât el-Mekkiyah (“Rivelazioni della Mecca”) di Mohyiddin ibn Arabi, opere anteriori di ottanta anni circa…[…]». ………………………………………………. …….Don Miguel si compiace, magari esagerando un po’ gli “effetti speciali”, di mostrarci un Dante “musulmano”, se non altro profondo conoscitore dell’escatologia islamica e delle sue intime corrispondenze con quella cristiana: tanto da adombrare un’immagine singolare e inedita del poeta della Commedia, che ne esce come l’improbabile apostolo di un sincretismo religioso davvero sui generis. Guénon rileva giustamente che Dante non può aver conosciuto in modo diretto l’opera di Mohyiddin ibn Arabi, come sembra farci intendere lo studioso spagnolo: piuttosto, più che all’intermediazione di Brunetto Latini, il maestro di Dante che aveva soggiornato qualche tempo in Spagna, Guénon pensa agli Ordini iniziatici dell’Islam, emanazione del pensiero di Mohyiddin, e agli Ordini di Cavalleria occidentali (fra cui i Templari, particolarmente attivi in Terrasanta) come al legame più probabile fra l’Oriente e l’Occidente. Dunque, questa potrebbe essere la via di trasmissione “sottotraccia” tra Mohyiddin ibn Arabi e Dante nel caso specifico dell’architettura infernale della Commedia, cui Asín Palacios fa riferimento; mentre altri studiosi si richiamano pure a “somiglianze” con tradizioni persiane e indiane (ma sul tema dei viaggi letterari oltremondani ritornerò più avanti).
Quello che, però, è innegabile - perché documentabile - è la conoscenza dantesca, attraverso traduzioni e altri strumenti informativi indiretti, del quadro d’insieme della storia culturale arabo-latina del proprio tempo (un esempio di questa “connessione” culturale può già essere, per esempio, la “teoria della luce” dei mistici arabi presente nella Summa theologica di S. Tommaso, che è una della basi della Commedia). Maria Corti, che s’è molto occupata del rapporto di Dante con la cultura islamica, tra le diverse possibilità “concrete” di accesso dantesco ai testi arabi ne evidenzia tre, che sono degne d’attenzione in quanto più rispettose di dati di fatto che fondate su illazioni, magari plausibili, queste ultime, ma non sempre poi riscontrabili nella realtà. La prima di queste possibilità è quella che la studiosa definisce dell’ interdiscorsività: si tratta del fenomeno della diffusione, sia in forma scritta sia orale, di parole, concetti o racconti di origine araba, che ormai circolavano normalmente fra chi si esprimeva in italiano o leggeva il latino (è lo stesso fenomeno odierno della diffusione di parole ed espressioni inglesi nell’italiano attuale). Possiamo dare pressoché per certo, poi, in secondo luogo, che Dante abbia avuto cognizione - probabilmente attraverso un riassunto o attraverso un racconto orale - di un testo, fra i tanti che ne giravano, in cui si raccontava il viaggio oltremondano di Maometto: è l’altro fenomeno di diffusione di un testo di origine araba, il fenomeno che la Corti definisce dell’intertestualità (cioè, la rete di relazioni che un singolo testo rivela di avere in comune con altri testi similari, di un certo autore - più o meno noto - o di autori e modelli letterari precedenti o contemporanei). C’è, infine, una terza possibilità, quella più vantaggiosa e sicura, ovvero quella della certezza dell’acquisizione di un testo come fonte diretta da parte di Dante: se si riesce a provare che Dante, storicamente e culturalmente, può aver avuto accesso diretto a un certo testo, in una traduzione latina che corrisponde precisamente a quel certo testo arabo, che corrisponde a sua volta, tematicamente, col testo dantesco, si può dare per scontato che il poeta conoscesse senza altri intermediari e precisamente proprio quel testo. E quel testo può essere considerato, perciò, una sua fonte diretta con una pressoché assoluta sicurezza. Specialmente, poi, se si riscontrano anche corrispondenze formali, terminologiche, e, inoltre, concettuali e perfino di sequenza ordinata di dati e notizie. Una prima “prova”, abbastanza intrigante, del primo processo di comunicazione, senz’altro indiretta ma altamente plausibile, quella dell’interdiscorsività, ci è fornita, per esempio, da uno degli episodi più famosi dell’intera Divina Commedia: l’episodio del viaggio di Ulisse e del suo tragico epilogo, narrato da Dante nel canto XXVI dell’Inferno. Pare proprio che, dato a Dante quel che è di Dante, e cioè l’invenzione dell’audace azzardo di Ulisse di sfidare il mare aperto oltre le Colonne d’Ercole spinto dall’irrefrenabile impulso della curiositas di conoscere, l’idea in sé del divieto di superare quel limite (geograficamente lo Stretto di Gibilterra) non appartenga né alla tradizione greca né a quella latina - come spiega la Corti in un suo lavoro -, ma che se ne trovi traccia solo negli antichi geografi arabi e ispanici. E che, quindi, solo dalla rivisitazione di queste ultime fonti (benché secondo acquisizioni non comprovabili “direttamente”) Dante abbia potuto attingerla. In un poemetto anonimo di fine secolo XIII, per esempio, dal titolo Mare amoroso, si fa chiaro riferimento a detto divieto collegato a una statua di Maometto (distrutta, secondo fonti arabe, insieme alle “colonne d’Ercole”, dall’ammiraglio Alî ibn-Isâ ibn-Mainoun nel 1145 durante la guerra contro Cadice): " E se potesse avere una barchetta tal com fu quella che donò Merlino... ch’andassi sanza remi e sanza vela altressì ben per terra com per acqua... intrerei con voi in quella barchetta,
e mai non finirei d’andar per mare infin ch’i’ mi vedrei oltre quel braccio che fie chiamato il braccio di Saufi ch’ha scritto in su la man «Nimo ci passi», per ciò che di qua mai non torna chi di là passa”. Il poemetto, i cui contenuti possiamo dare per noti a Dante, visto che il suo sonetto dedicato a Guido Cavalcanti, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, attesta specifici riferimenti alla barchetta («in un vasel ch’ad ogni vento per mare andasse»), a Merlino e all’andar per mare con la donna amata, dice, a un certo punto, da parte dell’uomo e del suo desiderio di lei: “non cesserei di navigare, finché non mi vedessi giunto al braccio, che fu chiamato il braccio di Saphis, che porta scritto sulla mano Nessuno passi oltre, poiché non ritorna mai di qua chi passa al di là”. A proposito della parola e del divieto che essa significa in lingua araba ci informa Guido delle Colonne, che, in un passo della sua Historia destructionis Troiae, scrive: «Quello luogo ove le predette colonne d’Ercole sono fitte, s’appella in lingua saracina Saphis, ed è il luogo ove più oltre non si puote ire per tornare». Quanto al braccio, si dà evidentemente per nota l’esistenza di una statua di Maometto col braccio sinistro teso indietro in direzione dello stretto, come a dire, secondo i geografi arabi, “No, non devi passare”; “Torna da dove sei venuto”; oppure “Non andare oltre” (l’arabismo saphy indica, infatti, “divieto”). La ricostruzione dell’intero complesso architettonico si trova in due studi francesi di fine Ottocento, secondo i quali la statua di Maometto (in ottone, alta un po’ più di due metri e mezzo, con lunga barba e mantello dorato sulle spalle: inganno per l’ammiraglio che la credeva tutta d’oro) poggiava su un’alta costruzione sormontata da un lastrone di marmo bianco. Oltre a questo tema del “divieto”, acquisito da Dante per tramiti arabo-spagnoli, a proposito del personaggio di Ulisse sono attestate altre rielaborazioni: come quella del naufragio, per esempio. Nemmeno la rappresentazione di esso è del tutto invenzione di Dante, visto che se ne ritrovano cenni già nel geografo greco antico Strabone (60 a. C.-20 d.C.): semmai - ed è qui il “riuso” originale da parte sua - , è interessante notare come il poeta abbia collegato il divieto di “andare oltre” e il conseguente naufragio di Ulisse quale meritata punizione dell’eroe da parte di Dio a causa della trasgressione al divieto stesso. È folle il volo di Ulisse, perché intrapreso, con sola umana presunzione intellettuale di conoscenza, senza l’assenso di Dio; legittimo il volo di Dante, invece, nuovo Ulisse, ma “adeguatamente pentito” del suo precedente, eccessivo orgoglio di seguace di “filosofiche verità” e teso ora a solcare il mare inviolato verso Dio grazie alla divina “Beatrice” e alla Grazia che glielo permette. Dante “contamina”, dunque, e reinventa, ma conosce e “riusa”, alludendovi, anche fonti eterodosse: di Ulisse, d’altra parte, oltre al tema del naufragio, c’era già, nella cultura arabo-ispana, pure quello che ne fa un eroe, quasi scienziato-vittima ante litteram di esso, del desiderio di conoscenza (una prerogativa fondamentale che Dante associa al “suo” Ulisse, scolpita dal genio del poeta della Commedia nella celeberrima conclusione dell’allocuzione ai suoi compagni per convincerli a seguirlo: «Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza», Inf., XXVI, vv. 119-120). ………………………………………………………………. Tuttavia, il segno più sicuro di rapporto tra Dante e il mondo islamico è la prova, certo da lui non “confessabile” ma ormai difficilmente confutabile, della sua diretta conoscenza e ispirazione (almeno per l’Inferno) a quella vera e propria fonte araba della Commedia, che è il cosiddetto Libro della Scala. [………] Si conosce tutto l’iter, che portò questo testo in Occidente: scritto in arabo nel corso del secolo VIII, fu prima tradotto in castigliano (presso la “Scuola di traduttori di Toledo”), poi dal
castigliano in latino e, successivamente, in francese antico da un esule toscano, tale Bonaventura da Siena. Costui, divenuto notaio di Alfonso il Savio, conobbe Brunetto Latini (il maestro di Dante), arrivato a Toledo all’incirca tra il 1259 e il 1260. La Corti segue le tracce del Libro in diversi codici, contenenti anche altri testi islamici, fatti tradurre nel 1141 dall’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, e presto diffusi in Europa; e verifica altre occorrenze di un riassunto del medesimo testo, che arriva verso la fine del XIII secolo, in dono, fino al papa Nicola IV. La fonte diretta di Dante, però, non è tanto questo riassunto, quanto proprio il testo originale tradotto in latino: troppe sono, infatti, le concrete e cruente descrizioni contenute nell’inferno musulmano lì descritte e riprese puntualmente da Dante, che evidentemente ne rimase colpito, per ritenere possa trattarsi solo di casuali coincidenze. Si può affermare con sicurezza che l’Inferno di Dante sia ispirato al Libro della Scala: il poeta riprende l’immagine della Città di Dite dal testo arabo, il lessico, molte immagini (es.: la “metamorfosi” dei ladri in serpenti e parecchie altre pene mutuate da quelle del Libro), la metafora del “seminare” per i diffusori (seminator) di scandalo e scisma (anche se ne interpreta in forme straordinariamente originali gli spunti, specialmente quando gli serve introdurre modifiche significative, come, p. es., sulla figura di Maometto). Per di più, se ciò non bastasse, viene anche evidenziato come Dante, similmente al gusto tipico dei testi arabi, istituisca significativi rapporti di analogia tra pena, peccato e parte del corpo con cui è stato commesso (il famoso contrappasso); mentre, in genere, nei testi occidentali similari, le pene risultano applicate in modo più indifferenziato. Che, poi, per il Paradiso (il “Purgatorio” per l’Islam non esiste) Dante si comporti diversamente, dato che aspetti sostanziali dell’Eden musulmano, troppo realisticamente umani (piaceri, belle donne, ecc.) non trovano corrispondenza con quello cristiano, è perfettamente comprensibile. ……………………………………………………… In ogni caso, molti punti di contatto la Corti trova tra il Libro e la Commedia anche per lo stesso Paradiso dantesco (tolti quegli aspetti che ho precisato prima), sicché si può ben dire che tra i due testi ci siano più somiglianze che differenze: basti citare le descrizioni di Dio come “luce” e quelle degli angeli; o l’indubbia “similarità” tra la scala usata da Maometto all’inizio del suo viaggio per salire dalla terra al cielo della luna, risplendente di angeli luminosi, e la scala di Giacobbe, di cui Dante si serve per salire alla settima cornice del Paradiso Terrestre. Tutto questo sembra davvero più che sufficiente ad accreditare il Libro della Scala come fonte diretta di Dante nella Commedia: mentre somiglianze più generali, indirette, anche se davvero sorprendenti, potrebbero rinvenirsi pure, in merito al mondo aldilà, all’interno di tradizioni tra loro pur molto distanti (ma non è il caso, qui, di impelagarsi più di tanto nell’argomentazione di Guénon a proposito di una sostanziale «unità della dottrina contenuta in tutte le tradizioni», compresa - ci informa lo studioso circa l’opinione di alcuni - l’influenza indiana. [Guénon, L’esoterismo di Dante, op. cit., p. 46]). ……………………………………………………………. In ultima analisi, a questo punto, tralasciando altri ulteriori interventi di studiosi circa il vero o presunto “islamismo” di Dante, una parola definitiva più concreta, in quanto fondata su dati reali, circa l’annoso problema della “diretta conoscenza sì, diretta conoscenza no” del Libro della Scala da parte del poeta, sembra fornirla il contributo più nuovo: quello che ha preso la forma di un saggio titolato Dante, la sua biblioteca e lo studio di Bologna (edito da Antenore, Roma-Padova, 2014), a firma di Luciano Gargan, professore dell’Università di Padova, docente di Filologia medievale e umanistica. Il “sicuro” trait d’union tra Dante e il Libro della Scala di Maometto sarebbe, secondo il professore, la chiesa di San Domenico, a Bologna: lì, durante il suo soggiorno nella città emiliana,
nell’importante biblioteca della basilica dei frati domenicani, il Poeta sarebbe venuto in contatto con il Libro, il misterioso e anonimo testo escatologico arabo spagnolo che, sviluppando un passo del Corano, racconta la storia del viaggio di Maometto nell’aldilà. ……………………………………………………………………. Il saggio di Gargan, fin qui non aggiungendo però nulla di nuovo, fa notare poi come la stretta affinità tematica e formale fra la versione latina del testo arabo e l’originale abbia indotto alcuni studiosi (tra cui cita i già noti Miguel Asìn Palacios, Enrico Cerulli, Maria Corti, Anna Longoni, Raffaele Donnarumma) a considerare, chi più chi meno, il Libro della Scala fra le fonti dirette della Commedia dantesca: dal che si avvalorerebbe l’ipotesi di un Dante influenzato dall’escatologia musulmana. Teoria, quest’ultima, puntualmente e fieramente avversata da altri dantisti, che la pensano al contrario. A questo punto Gargan si riserva il colpo a sorpresa, quella che, a suo dire, può considerarsi la “prova regina”, per usare un’espressione da indagine poliziesca, destinata a mettere la parola “fine” all’eterna questione. Il professore ha trovato traccia, in un atto di donazione del 1312, custodito in una pergamena dell’Archivio di Stato di Bologna, di un elenco di libri regalati da un certo frate Ugolino al proprio convento, in cui si fa menzione del controverso testo contenente il Libro della Scala di Maometto. D’altra parte, la cosa ha la sua rilevanza, dato che questo frate Ugolino, anche se se ne sa poco o niente, non era un Pinco Pallino qualunque nell’importante complesso della basilica di S. Domenico, avendo ricoperto, all’inizio del Trecento, il prestigioso incarico di arcarius, cioè di “guardiano” della celebre arca sepolcrale di San Domenico, opera eseguita nel 1267, per la chiesa bolognese, da Nicola Pisano e dalla sua bottega. Dunque, frate Ugolino, proprio nell’arco di anni, in cui Dante, con ogni probabilità, frequentò gli ambienti universitari e di studio di Bologna, avrebbe arricchito di questo libro la biblioteca dei domenicani, già molto fornita dei più importanti testi teologici e filosofici: un frate quanto meno singolare, e molto “aperto”, se «voluit frater Hugolinus predictus quod huic donationi adderetur liber qui dicitur Scala Mahometti... » (“volle il predetto frate Ugolino che a questa donazione fosse aggiunto il libro che si intitola Scala di Maometto…”), come si legge fra i quattordici testi dell’elenco notarile in questione rinvenuto nell’Archivio di Stato. Lo studioso, per sottolineare la giusta rilevanza della sua scoperta, nota che il Libro della Scala di Maometto, presente fra i libri donati da fra’ Ugolino, «non è menzionato in nessun altro inventario di biblioteca medievale». È questo, allora, l’anello mancante, la prova certa che Dante abbia visionato direttamente il Libro della Scala proprio a Bologna? ……………………………………………………………….
13. Il simbolismo numerico della Commedia [….] Chi…..pone l’accento sull’impianto occulto del poema dantesco insiste (e stavolta avendone tutte le ragioni) sulle stupefacenti corrispondenze matematiche con cui il suo autore lo ha costruito: né - dicono i più convinti interpreti esoterici di Dante - poteva essere altrimenti, dato che i Templari (tra cui essi decisamente lo annoverano) si richiamavano ad una precisa visione, che era anche quella di San Bernardo, secondo cui Dio si manifesta in modo “matematico”, attraverso peso, misura, e numeri. Sicché conoscere il segreto dei numeri significa conoscere il segreto di Dio (questa idea notano ancora quegli interpreti di cui sopra - risale a Pitagora, e costituisce la base dell’esoterismo massonico, così come di quello rosacrociano e templare).
Salta subito agli occhi come il numero di gran lunga più ricorrente nel poema dantesco sia il tre (coi suoi multipli): per esempio, le fiere cui il poeta, appena fuori dalla selva, deve far fronte sono tre. Ma, più in generale, sono tre anche le cantiche in cui è suddiviso il poema (Inferno, Purgatorio, Paradiso); e ciascun regno dell’oltretomba, corrispondente a ciascuna cantica, è diviso, a sua volta, in nove cerchi l’Inferno, in nove cornici il Purgatorio, in nove cieli il Paradiso. Il numero complessivo dei canti della Commedia è novantanove (altro multiplo del tre), trentatré per ogni cantica, anche se i canti del poema sono, in effetti, cento: ma il fatto è che il primo canto dell’Inferno serve da introduzione a tutta l’opera e, dunque, non rientra nel computo. Ogni canto, poi, pur prevedendo un numero complessivo variabile di versi, è formato da una successione “incatenata” di strofe in terzine (strofe, cioè, di tre versi endecasillabi). Veniamo a sapere, fin dall’avvio dell’azione della Commedia, che tre sono le donne benedette (Beatrice, S. Lucia e la Madonna) incaricate dal Cielo di aiutarlo a ritrovare la via della salvezza, sottraendolo a quella della perdizione. E, ancora, tre sono le guide del Dante-personaggio pellegrino: prima Virgilio (nell’Inferno e nel Purgatorio), poi Beatrice (nel Paradiso), infine S. Bernardo (che lo accompagna fino all’Empireo, alla visione di Dio). Possiamo continuare, notando come siano, ancora, tre le gole del cane-demonio Cerbero, custode del terzo cerchio dell’inferno, dove pagano la pena della loro colpa i golosi; come siano tre le facce di Lucifero nel fondo della voragine infernale; come tre siano i gradini sulla sommità dei quali si trova l’angelo guardiano del purgatorio; o come, nel Paradiso, S. Pietro compia tre giri intorno a Beatrice prima di interrogare Dante sulla virtù teologale della fede. Le ragioni di questa costante ricorrenza del numero tre sono sia filosofiche sia religiose. ………………………………………………………………………………… Ma non è solo il tre a scandire il simbolismo numerico della Commedia: Dante mostra di possedere con sicurezza le leggi dell’armonia, in cui il numero e il gusto “geometrico” rivestono un ruolo preponderante. Già secondo Pitagora, aspetti matematici e geometrici, chiaramente individuabili nel cosmo, erano rintracciabili anche nella musica, arte armonica per eccellenza: dunque, la concezione del mondo pitagorico era tutt’uno col concetto di armonia universale, che si fondava su principi musicali. D’altra parte c’è un legame stretto tra musica e poesia fin dalle origini: canto e ritmo, che seguono precise e ricorrenti scansioni (o “unità ritmiche”) e che certamente favoriscono la memorizzazione, venivano utilizzati per ricordare meglio formule e invocazioni rituali. Con l’andar del tempo e con l’evolversi della civiltà, il linguaggio musicale e quello poetico sono andati separandosi e acquisendo una loro autonomia (nella poesia occidentale delle origini, per esempio, la lirica provenzale, recitata con accompagnamento musicale [la chanson, “canzone”, da canto], quando poi passò in Italia, vide il divorzio fra musica e poesia [inizio del XIII secolo]). Tuttavia, la poesia - dalle origini ai giorni nostri - ha mantenuto la sua stretta parentela con la musica, nel senso che essa, per la migliore trasmissione e arricchimento “polisemico” del proprio messaggio, si serve del valore “musicale” delle parole (v. le rime, le assonanze, le onomatopee e altre “figure” di suono). Fin dall’Alto Medioevo, trattatisti come Severino Boezio, Cassiodoro e Isidoro di Siviglia, noti a Dante, si rifanno alle concezioni pitagoriche in materia di musica e di armonia; e, d’altronde, la musica è una delle Arti liberali del Quadrivium, insieme ad Aritmetica, Geometria e Astronomia. E la musica fa parte delle scienze dei numeri applicati, anzi, fra le altre, è la più importante delle arti, in quanto fonte di conoscenza universale e strumento di decifrazione del cosmo e del suo ordine. Risulta, allora, evidente come la struttura della Divina Commedia, eccezionalmente armonica e precisa, risponda appieno, oltre che al numerismo pitagorico, anche alle teorie di Boezio, che dalle idee del filosofo greco prendeva spunto: il tre e il dieci, i due numeri più importanti per la mistica medievale, l’uno simbolo della Trinità, l’altro simbolo della perfezione, sono i fondamenti
“armonici” e regolatori dell’intera architettura del poema (abbiamo già visto la ricorrenza del “tre” e dei suoi multipli nel poema, il quale è costituito da “cento” canti totali, e cento è multiplo del 10). Numerosissimi sono, nel corso dell’intera Commedia, gli artifici “musicali” del poeta, che - da esperto conoscitore della lirica provenzale e da importante componente del circolo dei “Fedeli d’Amore” - ben sapientemente utilizza le possibilità fonosimboliche, ovvero “musicali” e “aritmetiche”, delle parole e delle loro associazioni (specialmente le figure retoriche che ricordavo poco sopra: tra le altre, soprattutto, la terzina incatenata con lo schema di rime ABA BCB CDC DED, ecc.). …………………………………………………………………. Tornando, ora, però, più specificamente a quella che è la “scienza” di base, su cui si fondano le norme regolatrici dell’armonia e della musica, e cioè l’aritmetica, i numeri, teniamo presente che, a parte il tre e il nove, dei quali prima s’è detto, il già prima citato Benini rileva come anche altri numeri abbiano per il poeta un valore simbolico indubitabile. Il sette, cui pure ho già fatto cenno, è, per esempio, un numero “sacro” in molte tradizioni culturali, e anche Dante se ne serve per le sette divisioni del Purgatorio, ma pure per i sette “pianeti” del Paradiso, e altre occorrenze, come quella a proposito delle sette arti liberali. Quanto al numero otto, anch’esso ha un notevole valore simbolico sia nella tradizione cristiana tardo antica sia in quella medioevale: lo spiega, con sintetici ma precisi riferimenti, Massimo Troiani (Il numero otto come simbolo di perfezione nella cultura cristiana tardo antica e medioevale, in Scholia, n. 1 - Anno 6 - 2004), che, nella stretta correlazione medioevale tra aritmetica e geometria, individua nell’ottagono la «figura geometrica che maggiormente si avvicina a quella del cerchio» (ivi, p. 28). Se il quadrato è la figura geometrica dell’uomo (indicando l’orientamento di lui nello spazio), il cerchio è la figura geometrica perfetta (tanto che l’arte medioevale suole rappresentare Cristo e Santi con aureola circolare e i viventi con un disco quadrato intorno al volto). Ed ecco, allora, che l’ottagono, figura “intermedia” tra quadrato e cerchio, indica l’aspirazione umana al divino: sicché il battistero, nel quale «l’uomo entra a far parte della fede, è spesso di forma ottagonale». …………………………………………………………………….. Passando ad altri numeri simbolici, un ruolo importante riveste il 22, per alcune ragioni di cui qui ometto i particolari, ma anche per il fatto di essere multiplo dell’11, un numero ricorrente nel simbolismo di certe organizzazioni iniziatiche: cosa che attira particolarmente gli interpreti esoterici di Dante. A parte l’ovvia constatazione che le terzine dantesche della Commedia sono composte da endecasillabi, il “classico” verso di undici sillabe, l’11, oltre che nel 22 (tra l’altro, numero delle lettere dell’alfabeto ebraico), è anche contenuto esattamente nel suo altro multiplo 33, numero degli anni della vita terrena di Cristo (per non citare altri decisamente più “pericolosi” riferimenti, come ulteriori multipli dell’11, quali il 66, per esempio [valore numerico, in arabo, del nome di Allah], o il 99 [numero dei principali attributi divini nella tradizione islamica]). Se poi, come qualcuno di recente ha fatto, andiamo a considerare l’insieme dei versi della Commedia, si scopre che essi sono in totale 14233 (la somma delle cui cifre dà 13) e che il verso n. 1618 (considerato numero aureo nella dottrina esoterica) si trova al verso 13 del tredicesimo canto del poema. Da cui si deduce che anche il numero 13 è un altro numero particolarmente importante per i Templari (come nota lo studioso inglese Robert L. John in Dante templare. Una nuova interpretazione della Commedia): 13 sono, in effetti, i membri di un capitolo templare e gli elettori del Gran Maestro. E 13 sono proprio i personaggi dell’Inferno che si fanno riconoscere dichiarando il loro nome; 13 quelli riconosciuti per mezzo di perifrasi; 13 quelli individuati senza avere particolari segni di riconoscimento. Quando poi, nel canto IV dell’Inferno (di cui mi occuperò a parte più avanti), Dante giunge
al «nobile castello», vengono nominati 39 personaggi (e 39 è multiplo del 13. 13 per 3=39). Tredici sono, ancora, le anime che Dante incontra nel luogo dell’inferno detto Malebolge; e anche nel Purgatorio sono citati 13 angeli, così come sono proprio 13 le anime menzionate nell’antipurgatorio, e 13 quelle ricordate nella valletta amena; per non dire che Dante incontra due volte 13 anime tra la valletta del Purgatorio e il Paradiso2. Passando successivamente a considerare altri numeri “simbolici” importanti, anche il 515, a ben guardare, è nella Commedia un ulteriore “misterioso” e ricorrente numero - direttamente o indirettamente -, dato che, nella somma delle cifre che lo compongono (5+1+5) dà quell’11 già prima citato fra i “segni” esoterici. E nel canto XXXIII del Purgatorio (il canto 33, appunto, si badi) il 515 (cinquecento diece e cinque) indica un inviato di Dio, un “salvatore” del mondo. Per cui, molti poi si sono industriati a “convertire” questo misterioso numero in cifre romane, secondo le quali si scriverebbe DXV (e alcuni dicono Dante abbia voluto intendere DVX, con intuitiva inversione), ma che, per de Regny (v. pag. 63 del suo più volte citato saggio) rimanda semplicemente alla scienza della Gematria. ………………………………………….. …È del tutto evidente, dopo quanto oggettivamente dimostrato, che il numerismo simbolico costituisca uno dei fondamenti stessi della Commedia dantesca: una modalità espressiva e rappresentativa, che nell’opera si fa altissima poesia e che è ad essa connaturata, vuoi per la forma mentis del poeta e del suo tempo, vuoi per obiettive necessità di “velare” verità, opinioni e proposte potenzialmente pericolose da esporre in quell’età ideologicamente e culturalmente così sospettosa. Ad ogni modo, è altrettanto manifesto come ci siano parti e passaggi del poema, in cui i riferimenti numerico-simbolici risultano più scoperti: lì, evidentemente, il poeta ha ritenuto opportuno gli giovasse una più immediata assimilazione del suo “messaggio”, beninteso sempre da parte di lettori non sprovveduti o superficiali. Uno dei più chiari esempi in tal senso mi sembra il canto XXX del Purgatorio: e lo è sia in sé, sia per la sua collocazione nel poema. Infatti, prima di tutto è agevole notare come il canto XXX, già nel “numero” che lo contraddistingue, il 30, sia evocativo, in quanto 30 è il prodotto di 10, numero di perfezione, e di 3, numero della Trinità (perfetto in Dio, in quanto uno e trino): ma non è questo il punto decisivo, in quanto la stessa cosa si potrebbe dire per i canti XXX delle altre due cantiche. Il canto XXX del Purgatorio significa “qualcosa” in più: è, difatti, il sessantaquattresimo dei cento canti del poema (e anche 6+4 fa 10): dunque, è preceduto da 63 canti (6+3=9) ed è seguito da altri 36 (e 3+6 dà sempre 9). È inoltre composto di 145 versi (e, ancora, la somma delle tre cifre di questo numero fa di nuovo 10: 1+4+5=10). Insomma, il canto XXX è il punto di svolta simbolica della Commedia; e non è un caso che proprio in questo canto Dante si unisca, ancora più che nella Vita Nuova, a Beatrice, sia lei stata fatta di carne e d’ossa o sia, come vogliono molti interpreti soprattutto esoterici del poeta, solo una pura immagine simbolica, la “donna della mente” di lui. Se, infatti, Beatrice, fin dai tempi della Vita Nuova, è associata da Dante al numero trinitario, cioè al numero 9, “multiplo” del tre, in questo passaggio cruciale dell’opera, egli intende segnalare anche simbolicamente, attraverso richiami “numerici”, la centralità di lei. 2 Chi sostiene il “templarismo” di Dante ha, d’altronde, anche altre frecce al suo arco: e ricorda come, ancora, la guida che il poeta si sceglie per l’ultima ascensione all’Empireo, verso la visione di Dio, in Paradiso, sia proprio San Bernardo di Chiaravalle, il monaco cistercense che, dopo una prima fugace perplessità, scrisse la regola dei Cavalieri Templari. E aggiunge che i simboli della croce e dell’aquila, simboli del papato e dell’impero, sono molto ricorrenti nella sua opera: non sarà, così, un caso se un’aquila sormontata da una croce e da due stelle fosse presente nel sigillo del Gran Maestro Templare. Né che il Papa Clemente V, colui che condannò i Templari, sia nella Divina Commedia particolarmente attaccato.
In questo canto del Purgatorio Dante si fa nominare esplicitamente da Beatrice (ed è l’unica citazione del nome di Dante in tutto il poema) al verso 55 di esso (e 5+5 fa, per l’appunto, 10), mentre la donna pronuncia il proprio nome, rafforzato dall’anadiplosi3 («Ben son, ben son Beatrice»), al verso 73 (e anche 7+3 fa 10), collocato al «centro» del canto (che è, appunto, di 145 versi), dato che il verso 73 è preceduto da 72 versi, e seguito da altri 72 (7+2=9). ……………………………………………………………….. D’altronde, non deve stupire questa vera e propria “attrazione” di Dante per il numero, dato che come ho già in precedenza più volte affermato - il Medioevo è molto attento ai rapporti armonici e alle precise relazioni fra le cose, fondati su segni numerici, geometrici e quantitativi, nei quali gli uomini di quel tempo vedevano l’impronta dell’ordine divino. È sul numero, e le sue combinazioni, che nel Medioevo si riteneva Dio avesse “organizzato” l’ordine del cosmo, quello della natura e della società (da qui l’importanza della numerologia e la considerazione medioevale dell’astrologia come “scienza”). ………………………………………………………………………………. ……………………………………..
16. Il «nobile castello» illuminato degli «spiriti magni» Tra le tante questioni controverse dell’Inferno dantesco, una riguarda l’identificazione del personaggio misterioso dell’antinferno, componente della larga schiera degli ignavi, definito con la perifrasi «colui che fece per viltade il gran rifiuto» (Inferno, III, vv. 59-60). L’ipotesi prevalente è che si tratti del papa Celestino V, l’unico pontefice “dimissionario” della storia (Dante non poteva certo prevedere che nel 2013 si sarebbe “dimesso” anche un altro papa, Benedetto XVI, benché tempi, circostanze, modalità e status conservato di Papa Emerito da parte di Ratzinger siano radicalmente diversi): il poeta mostra sdegno per questa figura, come, in generale, per coloro che non scelgono, che rimangono neutrali per mancanza di coraggio e di determinazione. C’è pure - ma in minor compagnia - chi lo identifica con Ponzio Pilato, che cedette alle pressioni del sinedrio e della folla ai danni dell’innocente Gesù; chi ci vede Filippo il Bello (definito «novo Pilato»), che non protesse Bonifacio VIII dall’offesa di Anagni; chi, ma in sempre minor numero, altri personaggi vari (Romolo Augustolo, Vieri de’ Cerchi, ecc.). Questione, questa, ininfluente ai fini del nostro discorso, poiché qui il concetto sostanziale è chiaro: sia che si tratti di Celestino V, sia che si tratti di Ponzio Pilato o di altri, Dante condanna sul piano etico chi non compia una scelta decisa. Ben più importante, invece, il messaggio ideologico - prima che filosofico e artistico sotteso alla rappresentazione del “nobile castello” del canto IV. Per darne conto, e comprenderne meglio tutte le implicazioni, si rende necessario aggiungere alcune considerazioni sul “modo” con cui il poeta costruisce la “scena” di questo canto dell’Inferno e presenta i personaggi che la animano. Risvegliatosi dallo svenimento della fine del canto precedente, Dante si ritrova sul bordo dell’oscura cavità infernale, nella quale Virgilio, turbato pure lui, lo invita a scendere. Entrano nel primo cerchio dell’abisso, dove il pellegrino, per prima cosa, ode i sospiri delle «turbe…d’infanti e di femmine e di viri» che lì si trovano. È Virgilio a dare a Dante una prima spiegazione di quel martirio non-martirio particolare, fatto solo di dolore interiore e di rimpianti: si tratta di gente condannata a stare in quel luogo non per aver commesso peccati, ma perché non ha ricevuto il battesimo, essendo vissuta prima del cristianesimo, e perché non ha adorato comunque Dio nel modo dovuto. Di costoro - gli dice Virgilio - faccio parte anch’io. 3 Figura retorica che consiste nella ripetizione della parola o del concetto su cui si vuole concentrare l’attenzione.
E fin qui, verrebbe da dire, niente da eccepire: chi non è cristiano, nel medioevale inferno dantesco merita di stare, non certo altrove. Mentre parla, Virgilio continua a camminare accanto a Dante, attraversando un’altra “selva”, stavolta di «spiriti spessi», una moltitudine, cioè, di anime. Ma, a un tratto, Dante scorge da lontano «un foco / ch’emisperio di tenebre vincia», Inf., IV, 68-69 (“una luce che illuminava [vinceva, diradava] le tenebre formando un semicerchio”). Ed è proprio la luce la particolarità che più colpisce: il poeta, non potendo collocare nel Paradiso cristiano, per evidenti motivi, eminenti personalità intellettuali pagane, costruisce per loro un locus amoenus, in cui, vinte le tenebre tutte intorno, esse “vivono”, isolate e privilegiate rispetto alle altre anime che abitano il Limbo. A un primo colpo d’occhio, Dante s’avvede, ancora un po’ da lontano, «ch’orrevol gente possedea quel loco» (IV, v. 72), “che gente degna d’onore abitava in quel luogo”. Al che chiede a Virgilio chi siano, con un’apostrofe, in cui compare ancora la parola chiave di questo passo del canto IV dell’Inferno, “onore” («O tu ch’onori scïenzïa e arte, / questi chi son c’hanno cotanta onranza, / che dal modo de li altri li diparte?» [“O tu, che onori la sapienza e l’arte, chi sono costoro che si mostrano tanto meritevoli di onore [onranza, “onoranza, onore”] da distinguersi dagli altri [spiriti del Limbo]?). E lui risponde: «L’onrata nominanza / che di lor suona sù ne la tua vita, / grazïa acquista in ciel che sì li avanza», Inf., IV, vv.76-78 (“La fama degna d’onore, di cui godono su, nel mondo terreno, fa loro acquisire in cielo i meriti che così li pongono innanzi agli altri”). Dunque, c’è un altro modo, secondo Dante, oltre a quello canonico stabilito dalla religione cristiana, per meritare un “trattamento di favore” nel mondo ultraterreno da lui costruito nella Commedia in base ai comandamenti e alle norme di comportamento da essa prescritti: ed è quello di essere “spirito magno”, poeta, filosofo, scienziato, ma anche personaggio in genere virtuoso e magnanimo. A un certo punto, si ode un invito alla lode per Virgilio: «Onorate l’altissimo poeta; / l’ombra sua torna, ch’era dipartita», vv. 80-81 (“Onorate l’altissimo poeta; l’anima sua, che s’era allontanata, ritorna fra noi”). Ancora, dunque, un richiamo all’onore, una parola per la quale Dante, già nel De vulgari eloquentia, fa un’eccezione, salvandola dalla condanna che infligge ai termini foneticamente da rifiutare in quanto in latino comincianti con l’aspirata h: ma, per honore, ne consente l’uso nel volgare illustre a causa del valore etico di cui questa parola è portatrice. Insomma, Virgilio è “poeta” e come tale - benché non cristiano - merita onore e gloria, anche nell’oltretomba cristiano: e quattro poeti illustri e sommi del passato pagano sono i primi a farsi incontro a Dante e Virgilio. Si tratta di Omero, «poeta sovrano», di Orazio «satiro» (in quanto autore della Satire, opera etica per cui Dante lo esalta), di Ovidio e di Lucano: i quattro poeti che Dante ritiene i maggiori dell’antichità. Il quinto della schiera è lo stesso Virgilio: e Dante? Dante rivela che, a un certo punto, dopo un breve “parlottare” fra loro, cui Virgilio s’era avvicinato, si vide chiamare e farsi segno di grande “onore”, perché essi lo invitano presso di sé, «sì ch’io fui sesto tra cotanto senno» (IV, v. 102), “fui il sesto tra poeti così sapienti”. Pietro, il figlio di Dante, nel suo commento alla Commedia, dice, a proposito di questo passaggio, che il padre compie un atto di umiltà nel collocarsi al sesto posto dopo questi grandi nel passato: ma la cosa sta diversamente, di sicuro. Intanto, l’umiltà è una virtù certamente cristiana, ma non ha luogo, né senso tra gli “spiriti magni”, specialmente tra i “poeti”: del resto, Dante, pochi versi prima, aveva già spiegato come fosse “giusto”, addirittura doveroso, esaltare Virgilio in quanto “poeta” (v. IV, vv. 9193); poi, qui Dante dichiara, indirettamente, di sentirsi prosecutore della grande tradizione
poetica del passato (come dire: dopo “loro cinque” vengo io; in mezzo, niente); infine, va ricordato (si veda il precedente capitolo sulla numerologia) quanto e perché fosse simbolicamente importante il numero sei, cui adesso il poeta associa se stesso (per esempio, per considerare la positività di questo numero, basterebbe ricordare come, delle ore canoniche antiche, la sesta corrisponda al “mezzogiorno”, il centro del giorno; o come l’espressione corrente rimettersi in sesto sia diventata d’uso comune per intendere che le cose “stanno rimettendosi a posto”, ecc.). È improprio, perciò, parlare di “umiltà”: Dante, in quanto “poeta”, è consapevole del proprio ruolo e della propria grandezza. Già sappiamo quale alta funzione Dante assegni all’arte e alla poesia, ma non sarà inutile richiamarne ancora le ragioni principali: il poeta non è semplicemente un “tecnico” nell’arte di comporre versi, ma è un “creatore” di mondi prima di lui inesistenti, quasi alla stregua di un “dio” (dal greco πoίησις [“poièsis”], da πoιεῖν [“poièin”], ‘fare’, ‘creare’, deriva la parola “poeta”). “Creatore” è, dunque, il poeta, “partecipe” del divino. Ma non solo: proprio per questa sua vicinanza a Dio, il poeta non può che essere tramite di “verità”, seppure con licenza di velarla sotto la piacevolezza della “bella menzogna”, ovvero delle gradevoli forme del linguaggio poetico. Rimane il fatto che la poesia è anche strumento di conoscenza, non solo, dunque, di diletto. Ed è a questa forma di poesia “alta” che Dante si richiama: ad opere “nuove” come la Commedia spetta il compito di continuare la tradizione formativa e conoscitiva già della poesia classica. Lo scrittore “nuovo” Dante, perciò, è investito di una missione sacrale, avendo il dovere di accompagnare gli uomini verso un “sapere rinnovato”, cui si impongono strumenti, conoscenze e metodi comunicativi “nuovi”. Ecco, allora, il senso pieno del saluto e dell’esaltazione degli “spiriti magni” del Limbo quando vedono tornare tra loro Virgilio (che li ha lasciati temporaneamente per andare a soccorrere Dante). «Onorate l’altissimo poeta; l’ombra sua torna ch’era dipartita» [Inf., IV, vv. 80-81 ]), essi dicono a una voce: a quel punto Virgilio, pur essendo privato del Paradiso a causa del suo essere pagano, tuttavia dice a Dante che, onorandolo solo come poeta - e non come uomo “difettoso” del Dio vero -, i suoi “colleghi” fanno bene. «Però che ciascun meco si convene / nel nome che sonò la voce sola, / fannomi onore, e di ciò fanno bene» (“Poiché ciascuno di loro condivide con me il nome di poeta, detto prima da una sola voce, mi rendono onore, e in ciò fanno bene”). Come dire che l’onore e la lode al poeta - che non è uno come gli altri in quanto “divino creatore” sono “atti dovuti” e legittimi riconoscimenti dei suoi meriti. È, viceversa, comprensibile come, in altre occasioni, Dante non neghi, però, che questa alta coscienza di sé come “intellettuale” sia comunque riprovevole in ottica cristiana: in questo senso, ad esempio, si potrebbe leggere l’insidia per lui costituita dalla lince del canto iniziale del poema, plausibilmente interpretabile proprio come allegoria del “peccato” di presunzione per il sapere mondano; o, più avanti, nel Paradiso terrestre, l’aspro rimprovero di Beatrice, che lo strapazza ben bene per questa sua “debolezza” di ricercare la gloria e l’eccellenza poetica. Tuttavia, nel canto IV dell’Inferno l’apparato simbolico è particolarmente accurato, straordinariamente ricco e, soprattutto, pervaso dalla evidente partecipazione emotiva di Dante: la «bella scola» di Omero, il poeta «segnor de l’altissimo canto / che sovra li altri com’aquila vola» (v. 95-96), procede per un poco, «parlando cose che ‘l tacere è bello» (discutendo di cose che ora Dante non ritiene opportuno raccontare “pubblicamente”), verso la “luce”, finché giunge «al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello. / Questo passammo come terra dura; / per sette porte intrai con questi savi: / giugnemmo in prato di fresca verdura» [IV, 106-111]
(“ai piedi di un nobile castello, circondato da sette cerchia di alte mura, difeso intorno da un bel fiumicello. Noi lo attraversammo come fosse terra asciutta; con questi saggi passai per sette porte: giungemmo in un prato di fresca erba”). È, questa, una rappresentazione stupefacente, nel senso che non sembra proprio di essere, comunque, all’inferno (Limbo, d’accordo, ma sempre di un luogo già sotterraneo si tratta): invece, Dante ci delinea non un luogo di punizione o di particolare sofferenza, ma un luogo “eccezionale” perché illuminato, dove vede un gruppo di «grand’ombre», che «sembianz’avevan né trista né lieta»; poi, all’interno del castello, sull’erba viva e fresca, ci dice che «genti v’eran con occhi tardi e gravi, / di grande autorità ne’ lor sembianti: / parlavan rado, con voci soavi» (vv. 112-14). Ovvero: i grandi poeti del passato, pur compresi della loro alta dignità, si mostrano pensosi, manifestando un atteggiamento né triste né lieto, in quanto, consapevoli della propria attuale condizione spirituale, sanno che non potranno mai vedere Dio e, quindi, sono eternamente dispiaciuti per questo. Tornati dentro il castello, accompagnando Dante e Virgilio, si uniscono poi agli altri “spiriti magni”, tipicamente raffigurati dal poeta secondo il profilo del saggio com’era ricavato dall’Etica Nicomachea di Aristotele e ripreso nel Medioevo (sguardo lento e severo, autorevoli nell’aspetto; di parole misurate e “rade”, e dall’espressione dolce e controllata). Dante, in un posto “aperto”, luminoso e sopraelevato, può spaziare con la vista sugli “spiriti magni”, sui megalopsychòi (quelli dalla “grande anima”, i “magnanimi”): cosa che, al solo ripensarci, dice, «in me stesso m’essalto» (v. 120). Il poeta è “esaltato” dalla vista dei “grandi”: come non avvertire che questa esaltazione è frutto della sua condivisione spirituale con loro? Non sfugga, anche qui, la base numerologica, dunque altamente simbolica, della rappresentazione: non entrerò in dettagli particolari, ma accennerò solo all’essenziale, che meglio ci può servire a capire l’impianto allegorico che presiede al messaggio del poeta ai suoi lettori. Il significato simbolico generale è abbastanza chiaro e intuitivo: già i commentatori antichi interpretavano il “castello” (costruzione tipicamente medioevale, con le sue cerchie di mura, il fiumicello posto a difesa, grande e nobile alla pari dei suoi ospiti) come allegoria della filosofia, della scienza umana e della magnanimità, di fatto non precluso ai pagani e ai non cristiani in genere (vi risiede anche il musulmano Saladino), tanto da essere dimora non solo di poeti, letterati o famosi filosofi, ma anche di scienziati, medici, guerrieri, eroi e donne di eccelsa virtù; oltre a ciò il “castello”, in quanto edificio fortificato, è anche possibile immagine evocatrice di “difesa”, difesa contro i vizi e l’ignoranza, che ne rimangono esclusi. Quanto ai modelli, quello prevalente è l’Eneide di Virgilio, precisamente riguardo ad alcune immagini e situazioni del libro VI; tuttavia, sono più le differenze che le somiglianze tra gli abitanti dei Campi Elisi virgiliani (Eneide, VI, vv. 638 sgg.) e quelli del “nobile castello” dantesco. Semmai, le difficoltà cominciano, quando si passi a voler rendere ragione di specifici particolari. Dante dice che il castello è circondato da sette cerchia di mura, è difeso da un «bel fiumicello», che loro (lui e gli altri cinque poeti) attraversano come si trattasse di solido terreno; questo “fiumicello” è generalmente inteso come la disposizione alla sapienza da parte dei sei poeti. In compagnia di «questi savi», Dante passa poi attraverso sette porte - evidentemente ciascuna per ogni cerchia di mura -, finché non giunge in uno spazio aperto, interno al castello, costituito da un «prato di fresca verdura». Il numero “sette”, numero magico-sacrale, richiama molti simboli religiosi, ma non solo: forse, Dante vuole evocare i sette doni dello Spirito Santo (sapienza, consiglio, intelletto, fortezza, scienza, pietà, timor di Dio), oppure i sette sacramenti (battesimo, confermazione o cresima, eucaristia o comunione, riconciliazione o confessione, unzione degli infermi, ordine sacro, matrimonio).
O forse alludere, più laicamente, secondo altri antichi interpreti, alle sette “arti liberali” (quelle del Trivio [Grammatica, Dialettica, Retorica] e quelle del Quadrivio [Aritmetica, Musica, Geometria, Astronomia]); anche perché, già nel Convivio (II, XIII-XIV), aveva istituito una precisa corrispondenza tra queste Arti e i primi sette cieli del Paradiso (Luna-Grammatica; MercurioDialettica, Venere-Retorica, Sole-Aritmetica, Marte-Musica, Giove-Geometria, SaturnoAstronomia). Però, secondo la cabala medioevale, a sette assommavano pure le quattro virtù cardinali (giustizia, fortezza, prudenza e temperanza) più le tre cardinali (fede, speranza e carità); e sette erano anche i vizi capitali, che erano già stati gli “abiti del male” di Aristotele (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia). Altre cose dicono Pietro di Dante (per cui le sette porte sarebbero le sette parti della filosofia), e poi in età umanistica Cristoforo Landino (per il quale le porte sarebbero invece le virtù erette a difesa della fama: quattro morali [o “cardinali”: le già citate giustizia, fortezza, prudenza e temperanza] più tre intellettuali [intelligenza, scienza e sapienza]). Visto che la parola definitiva sulla corretta interpretazione del passo potrebbe darcela solo lo stesso Dante, meglio degli antichi procedono stavolta, a mio parere, i commentatori moderni, che fanno meno distinguo e vedono nel “castello”, in generale, la sede della nobiltà e della magnanimità dello spirito: simile condizione interiore, che si consegue per mezzo della pratica delle virtù morali e intellettuali, spiega la superiorità di quelle anime dal poeta così splendidamente isolate nel loro privilegiato ed esclusivo “fortino”. A questo punto, la migliore interpretazione di partenza del numero “sette” rimarrebbe quella del Landino: quanto alle porte, esse sarebbero solo il naturale passaggio da una cerchia di mura a un’altra, mentre il “fiumicello”, attraversato come se d’acqua non fosse ma di «terra dura», resta ragionevolmente interpretato come la sapienza (di cui gli spiriti magni sono i più alti rappresentanti), che costituisce strumento formidabile per superare qualsiasi ostacolo e per accedere alla conoscenza e all’onore, cioè al giusto riconoscimento dei meriti dei “magnanimi” da parte degli altri uomini. Il “castello” è dimora nobile per eccellenza, dunque evidente allegoria di aristocrazia intellettuale, ma non solo: come accennavo prima, al suo interno “vivono”, nella loro eterna condivisione da “grandi dello spirito”, personaggi eminenti del mondo classico (da Elettra, madre di Dardano, capostipite della stirpe troiana, a Ettore, a Giulio Cesare, un personaggio storico), personaggi eroici del Lazio antico (Camilla, figlia del re dei Volsci, Pantasilea, Latino, re del Lazio prima della venuta di Enea, Lavinia, sua figlia e terza sposa di Enea), importanti personaggi romani e latini storici (L. G. Bruto, capo della ribellione contro l’ultimo re di Roma, Lucrezia, Giulia, figlia di Cesare, Marzia, moglie di Catone Uticense, Cornelia, figlia di Scipione e madre dei Gracchi), ma anche un personaggio storico “anomalo”, non cristiano, quale Salh-ad-Din (1138-1193), conosciuto come il Saladino, molto ammirato da Dante per le sue virtù cavalleresche. Né solo la presenza tra i “grandi spiriti” degni d’ammirazione di un principe musulmano può stupire, ma anche quella della stessa romana Lucrezia, la matrona che preferì suicidarsi, per l’oltraggio subito, dopo essere stata violentata da Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo: ciò che avrebbe provocato la decisiva rivolta antimonarchica a Roma. Una “suicida” e un “musulmano” nel nobile castello di Dante: il poeta, di fronte alla magnanimità, alla lealtà, all’integrità morale e all’onestà, abbatte ogni barriera di regole prestabilite, di sesso e di religione. E c’è chi ancora oggi lo considera un conservatore, oltretutto senza spiegare molto che cosa mai Dante conservi di così retrogrado che non dovrebbe essere conservato: molto occorre ancora studiare per conoscere davvero, a quanto pare, il massimo dei nostri poeti. A maggior ragione, allora, nel suo esclusivo “castello” Dante, alzando «un poco più le ciglia», a evidente dimostrazione della posizione sopraelevata rispetto a sé e agli altri - e, dunque, di superiorità -, vede finalmente «’l maestro di color che sanno» (v. 131), il filosofo più venerato,
Aristotele, e, accanto a lui, Socrate e Platone; e poi nota i filosofi “presocratici”, Democrito, Diogene, Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone… Dante sta stilando il suo personale catalogo di coloro che hanno fatto la storia del pensiero; cui aggiunge altri “pilastri” di altre discipline, come i mitici poeti Orfeo e Lino, e poi gli effettivamente “esistiti” Cicerone, Seneca, e poi matematici, astronomi e medici, come Euclide, Ippocrate, Galeno, altro celebre medico dell’antichità, e Ibn-Sina (980-1037), detto Avicenna, medico e filosofo arabo. E, a dimostrazione di quanto Dante conoscesse pensatori “infedeli”, vede, ancora, il più celebre studioso arabo, Ibn-Rushd (126-198), detto Averroè, autore del famoso commento ad Aristotele, testo giudicato eretico dalla Chiesa, ma col quale, come vedremo ancora meglio più avanti, il poeta è non poche volte d’accordo (d’altronde, “averroista” era pure ritenuto il “primo amico” di Dante, Guido Cavalcanti). E se ancora ci fosse bisogno di un’altra “prova”, seppure indiretta, dell’eterodossia di Dante - che però io preferisco chiamare autonomia di pensiero -, basterebbe riflettere sulle due lodi in questo canto rivolte la prima a Virgilio (v. 80: «Onorate l’altissimo poeta») e la seconda allo stesso Dante (v. 100: «e più d’onore ancora assai mi fenno»). Infatti, nella versione latina del musulmano Libro della Scala - che in precedenza abbiamo dimostrato essere da Dante conosciuto -, viene narrato un “onore” simile, tributato a Maometto nel tempio di Gerusalemme da parte dei profeti biblici (IV, 10; dove compare il verbo honorare e due volte il sostantivo “onore”). Fin qui, grosso modo, gli italianisti, mentre qualcosa di più notano, in questo canto, gli studiosi del Dante “ermetico”: intanto che la somma dei personaggi nominati è 39 (e 39 è multiplo del 13, un numero “caro” al mondo dei Templari) e poi che il “castello” è la sede della dottrina occulta, conoscibile solo passando per i “sette gradi” (le Arti del Trivio e del Quadrivio), le cui scienze Dante associa ai sette pianeti. Inoltre, i protagonisti, gli spiriti magni, mostrano - a loro dire - caratteri particolarmente “mercuriali”: sono sì nel Limbo, ma pur sempre all’Inferno; eppure sono gli unici a non subire alcun martirio e a trovarsi in una condizione privilegiata (e infatti Dante conosceva, dall’Odissea, la caratteristica di Mercurio di essere ακάκηα (acàcheta [“confortatore”, “benefico”]). D’altra parte, il numero progressivo del canto che li “ospita”, il quattro, è numero ermetico per antonomasia e quattro sono anche i poeti, personificazione di Hermes 4, incontrati da Dante, che rappresentano la poesia dei “misteri”: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, i poeti dell’Aquila, quelli che hanno cantato Troia e l’Impero. A questi non è un caso che Dante associ prima Virgilio, nel Medioevo ritenuto poeta-mago e veggente, e poi anche se stesso, a formare il “sei” («sì ch’io fui sesto tra cotanto senno»), numero che viene diviso alla fine del canto (v. 148: «la sesta compagnia in due si scema» [“il gruppo dei sei si divide in due”]), a voler alludere anche al “tre”, altro numero “mercuriale”. Non meno importante la “scenografia”, rilevano gli studiosi esoterici, cioè il luogo aperto, luminoso e alto, il “prato verde”, il verde smalto, segno - dicono - della successione dei colori della Grande Opera Alchemica, nella quale però è predominante proprio il verde, segno di animazione e di vegetazione della materia. Per cui, questo prato di fresca verdura, che è una specie di copia dei Campi Elisi dell’Eneide virgiliana, non è solo un omaggio, bensì anche un richiamo alle virtù di “psicopompo” del Virgiliomago a beneficio del Dante-personaggio. Per di più, al di là di questo, viene messa in luce la sottile allusione dantesca di una certa corrispondenza fra la struttura del Purgatorio e questa del “nobile castello”: lì il grande Oceano insuperabile e proibito (segno di ciò l’esito nefasto del folle volo di Ulisse) impedisce l’approdo di chi non deve alla montagna sacra, qui, in questo Limbo, un “fiumicello”, ma traversabile solo da 4 L’inizio del canto IV allude «a una precisa fase della prassi ermetica, il passaggio dal sonno al risveglio, dalla morte iniziatica alla vita…[e] le quattro figure che accolgono Dante sono la personificazione delle valenze di Hermes» (Minguzzi, cit., pp. 137-138). Si sa, infatti, dalla mitologia greca, che Hermes-Mercurio aveva anche il ruolo di “psicopompo”, cioè di accompagnatore e di guida dello spirito dei morti, che da lui erano aiutati a trovare la via dell’aldilà.
pochi “eletti”; lì, sette le cornici di cui è fatta la montagna del Purgatorio, qui, sette gli ordini ascendenti di mura che circondano il castello degli spiriti magni; lì, sulla sommità del Purgatorio (il “Paradiso terrestre”), una “divina foresta”, verde ed eternamente fiorita, qui, nel punto più elevato del “nobile castello”, un prato di verde smalto. Insomma, sia in questo luogo privilegiato del Limbo sia in Purgatorio, una condizione “intermedia”, una “sospensione di giudizio”, a sottolineare ulteriormente la condizione di eccezionalità dei “magnanimi” del pensiero, dell’arte, della scienza, della sapienza o di una vita esemplare; e senza pregiudizio di sesso e di religione. In sintesi, per dirla con gli studiosi esoterici, sia il Purgatorio sia il Limbo degli spiriti magni alludono alla medesima situazione di sospensione/mediazione tra corporeità e spiritualità, tra scienza e sapienza, che è la tipica funzione di Mercurio-Hermes, simbolo ermetico-alchemico del “passaggio” dalla vita terrena alla vita “aldilà”. Anche se a me piace più concludere questo nostro breve ragionamento sul misterioso simbolismo del “nobile castello”, interpretandone i segni e le allusioni solamente come la decisa rivendicazione, da parte di Dante, dell’universalità e della libertà di chi non si lascia condizionare dalla religione, dal pregiudizio e dall’ideologia: sia che si tratti di un filosofo sia si tratti di un poeta sia, semplicemente, di una figura considerata esemplare e degna d’onore - mitica o storica non importa per la funzione in sé rappresentata - nell’immaginario della sua gente e/o dell’umanità in genere. Dante, per concludere, non se la sente di condannare all’inferno, secondo un giudizio di merito esclusivamente religioso, personaggi che hanno fatto e fanno la storia della cultura: essi non solo sono “ingiudicabili” secondo tale parametro, ma meritano ogni lode a prescindere da qualsiasi altro criterio che non sia quello del loro valore intellettuale e morale. Se fuori dal Paradiso cristiano devono stare5, il poeta costruisce per loro un luogo luminoso alternativo, segno che anche il giudizio di Dio prevede un’eccezione per chi la propria mente seppure in scienze “mondane” - ha saputo utilizzare in modo eccezionale: senza l’ausilio o il fine delle “virtù teologali” propriamente cristiane della fede, della speranza e della carità, ma pienamente capace di distinguersi con le sole, umane “virtù cardinali” della giustizia, della fortezza, della prudenza e della temperanza unite alle tre “intellettuali” dell’intelligenza, della scienza e della sapienza. Di fatto, qualità umane universali, apolitiche e areligiose. E questo assume un valore tanto più straordinario, se si riflette sui condizionamenti e sugli ostacoli che Dante sicuramente soffrì e si vide davanti nel suo quotidiano esercizio di pensatore e di artista, assolto, come lui fece, proprio in un tempo così straordinariamente dogmatico e intollerante sia sul piano religioso sia sul piano ideologico e politico. ……………………………………………………………. 28. Donne di Paradiso Abbiamo più volte notato come l’età medioevale sia un’età di disuguaglianze un po’ in ogni campo: sociale, politico, economico, culturale e, dunque, anche in ambito familiare, dove lo squilibrio di “genere” - per dirla con un termine attuale - tra sesso maschile e femminile si rivela macroscopico. D’altronde, fin da tempi molto remoti, compresi quelli della civiltà classica greco-latina, la donna era stata relegata in un ruolo sempre inferiore rispetto a quello dell’uomo: tutta una tradizione filosofica, culturale, sociale, ideologica, artistica - rivelava una mentalità sostanzialmente misogina, consolidata, condivisa e profondamente radicata sia nel pensiero comune collettivo sia nelle disposizioni legislative, ecclesiastiche o civili che fossero. 5 Vedremo, però, più avanti, quali e quante eccezioni lo stesso Dante prevederà per il suo Paradiso: nella terza cantica della Commedia, infatti, non mancano deroghe clamorose, per la presenza tra i beati anche di chi, a rigor di meriti cristiani, non avrebbe alcun titolo per trovarsi lì.
Dunque, occorre stare molto attenti a non considerare un dato realistico sul piano familiare e sociale la nobilitazione e la spiritualizzazione della donna ad opera della poesia colta, prima provenzale e siciliana, poi stilnovistica; per finire con la “beatificazione” dantesca di Beatrice nella Commedia. ……………………………………………………………………… Piuttosto, ci si potrebbe stupire che la sostanziale inferiorità della donna in ambito familiare e sociale perdurasse praticamente immutata dall’età antica fino a tutto il Medioevo: ma, da questo punto di vista, lo stupore dura poco, se solo pensiamo al ruolo essenzialmente negativo assegnato alla donna già dalla Bibbia e poi riconfermato in ambito cristiano. Eva è, infatti, tanto per fare un solo ma celeberrimo esempio, la tentatrice per antonomasia, il simbolo della “malignità” femminile: è più colpa sua che dell’influenzabile Adamo - indotto da lei alla disobbedienza con la complicità di quel diavolo di serpente - se Dio ha scacciato l’umanità dal Paradiso Terrestre. E, ancora, Maria Maddalena è la donna peccatrice, sebbene per un errore di interpretazione del Vangelo di Giovanni da parte di papa Gregorio Magno del 591, che la confonde con un’altra (ma la Chiesa cattolica riconobbe ufficialmente l’errore di identificazione tra Maria Maddalena, Maria di Betània, e la prostituta che lava i piedi a Cristo, pentita e poi perdonata, solo nel 1969, dopo il Concilio vaticano II); una donna che si riscatta solo grazie a Gesù (da sapere che il culto della “vera” Maddalena, redenta, comincia proprio nel Medioevo, a partire dal XII secolo). Coerentemente con questa visione ambivalente della donna nei testi sacri cristiani, anche la figura femminile più rilevante, che si impone a un certo punto come l’anti-Eva per eccellenza, e cioè la Vergine Maria (il cui culto s’avvia soprattutto tra XII e XIII secolo), simbolo assoluto di femminilità positiva, ha come condizione la maternità, ma abbinata alla “verginità”: ovvero, uno status del tutto anomalo sul piano dell’esperienza comune, che non potrebbe differenziarla di più dalla “femminilità” delle donne “normali”, che possono, così, tranquillamente essere mantenute - in quanto “semplici” femmine - nella posizione gerarchica inferiore, familiare e sociale, di cui sopra. Insomma: sul piano culturale - prescindendo totalmente dalla sacralità del suo ruolo in ambito religioso - Maria è avvertita tanto più santa non solo perché è stata scelta da Dio come madre di Gesù, ma specialmente perché è stata lasciata, nel contempo, nella sua condizione originaria di “verginità”. Il che dimostra come il cristianesimo continui a considerare la sessualità in modo negativo, specialmente se associata alla donna. Su queste basi culturali ed ideologiche, non può perciò assolutamente meravigliare che la donna medioevale fosse esclusa “naturalmente” dall’esercizio delle armi, impedita nell’accesso agli studi, universitari ma non solo, ed emarginata dalla vita pubblica, amministrativa e politica. A lei si aprivano orizzonti estremamente ristretti: il matrimonio o il monastero. Nel primo caso, la donna medioevale, in quanto moglie, poteva anche considerarsi una “regina”, ma degli spazi, chiusi e protetti a un tempo, che più le si addicevano: la camera matrimoniale, la stanza da lavoro, la cucina. Un essere “fragile” e “debole”, dunque da sorvegliare e custodire, che aveva ben scarsi motivi di avventurarsi fuori casa: e se mai avesse dovuto proprio farlo, era necessario sapere di preciso dove andasse. I suoi percorsi erano ben delineati e controllati: il lavatoio, la fontana, il forno pubblico, la chiesa la domenica. Del resto, se a lei competeva la direzione della casa, ben poco era il tempo residuo: c’era da controllare la servitù (nel caso di famiglie principesche o alto-borghesi), predisporre per il marito che rincasava - e cui lei doveva totale fedeltà - il calore del focolare, il riposo, un buon bagno caldo, la tavola servita, il letto pronto; oltre che, naturalmente, occuparsi dell’educazione dei figli. Quello che mi interessa dimostrare - con questi brevi e parziali richiami alla vita reale durante il Medioevo - è quanto sia distante il modello delle ineffabili e venerate “donne” della lirica colta (compresa la Beatrice della Commedia dantesca) rispetto alla realtà effettiva, ben dura e difficile,
delle donne “vere” e delle semplici “femmine” di quell’età storica (ma anche quanto fosse ideologicamente eversivo celebrarle). …………………………………………………………………… Nonostante questo, però - e sempre ferma restando la realtà “gerarchicamente” inferiore della condizione civile delle donne in quell’epoca -, non mi sento di negare, come fanno molti, l’esistenza storica di Beatrice, poiché Dante la sottrae coscientemente, sublimandone la figura e rendendola “immortale” attraverso lo strumento della poesia, al suo status concreto di donna per farsene un’icona. ……………………………………………………….. […] Il poeta, dopo essersene innamorato e averla prescelta sentimentalmente fin da ragazzo, la eleva su tutte le altre per “utilizzarla” come proiezione del proprio ideale di donna e, insieme, come allegoria dello straordinario “altro da sé”, che è l’immagine da lei incarnata della Teologia e della Rivelazione; e, in estrema sintesi, come l’unica in grado di essergli “divina compagna di viaggio” verso il proprio nuovo status di uomo “illuminato” dalla Verità. Beatrice è sempre stata, dunque, una “donna di paradiso”: ma anche altre figure femminili il poeta con metodo simile - ha “nobilitato” nella Commedia, facendone il preannuncio e quasi le anticipatrici del decisivo avvento di lei. Messa da parte la suggestione e il coinvolgimento emotivo per una donna come Francesca che, pur dannata all’inferno, Dante delinea con tratti chiaramente empatici - tant’è vero che è la donna più viva e vera del poema -, quasi tutti gli altri personaggi femminili della Commedia sono destinati o già si trovano in Paradiso. …………………………………………………………….. Evidentemente, l’apprendistato giovanile “stilnovistico” di Dante, imperniato sulla celebrazione e la spiritualizzazione della donna, ha inclinato, magari inconsciamente, il poeta verso un profondo rispetto e una generale idealizzazione per un certo “tipo” di universo femminile; pur tolti i generici suoi pronunciamenti misogini, da uomo, comunque, di una società medioevale intrisa di secolari pregiudizi contro le donne - e da cui era impossibile essere del tutto immuni -, nei termini che ho appena ricordato nel precedente capitolo. Di una delle figure di donna più belle dell’intero poema, per esempio, la Pia de’ Tolomei del V del Purgatorio, si tace completamente la colpa che, in ogni caso, le impedisce un immediato accesso al Paradiso, per sottolinearne, invece, la sensibilissima sollecitudine tutta femminile verso Dante: pregato sì di ricordarla, appena tornato dal suo viaggio, a chi la conobbe in vita, ma solo dopo che si sarà «riposato de la lunga via». ………………………………………………………………….. Tre donne, Francesca, Pia, Piccarda, d’animo nobile, benché dal destino ultraterreno dissimile, eppure emblematiche di una condizione comune all’universo femminile: tutte e tre vittime di violenza (la seconda, più particolarmente, di quello che oggi si definisce, con triste neologismo, femminicidio). Di tutte e tre, come s’è già visto, Beatrice è la sintesi suprema, naturalmente in un percorso “ascendente”, che vede l’amante di Paolo al polo più lontano e opposto: ma è Piccarda - se non altro per la sua collocazione paradisiaca - l’immediato antecedente femminile (e di “donna di paradiso”) di Beatrice. Come è dimostrato dal fatto che, nel suddetto canto III della terza cantica, di fronte a un dubbio teologico di Dante, è lei a rispondere direttamente, e anche lei dopo un sorriso di compatimento simile a quello riservatogli dalla stessa Beatrice in precedenza -, scambiato con gli altri suoi spiriti compagni, per la capacità di comprensione ancora scarsa di Dante, tuttora gravato dalla sua imperfezione terrena. …………………………………………………………………… E finalmente, nella foresta dell’Eden, Dante vede Matelda, il cui nome il poeta non rivela subito, ma solo nell’ultimo canto del Purgatorio (e per bocca di Beatrice, al v. 119: cifre che, sommate,
danno 11), nell’imminenza del passaggio al Paradiso celeste, “campo” di Beatrice: data la ritualità dei suoi gesti, è più semplice coglierne la funzione simbolica che non addentrarsi - come hanno voluto fare molti studiosi - nell’impresa di identificarla con qualche donna reale, che poi Dante abbia voluto idealizzare. Anche lei canta e coglie fiori (evidentemente, “segno” di vita attiva, dunque di “attuazione” di Lia); poi, più avanti, Matelda (c. XXXI) immerge Dante nel fiume Lete, come già sappiamo, il fiume che dà l’oblio dei peccati commessi; successivamente, ormai già in compagnia anche di Beatrice, e su invito di lei..., conduce Dante a bagnarsi nell’Eunoè, il fiume che restituisce la memoria del bene compiuto. ……………………………………………………………………. […] Matelda: si può davvero riuscire a capire chi si nasconda sotto le sue sembianze? Di solito Dante, per le figure-guida importanti da utilizzare come allegorie - e Matelda è una di esse - si serve di personaggi storicamente individuabili: è così per Virgilio, è così per Beatrice, così come per Stazio e, poi, per S. Bernardo. A lei il poeta affida compiti fondamentali, che in parte ci aiutano a comprenderne il significato simbolico: Matelda officia il rito di purificazione di Dante nei fiumi Lete ed Eunoè; assume un ruolo dottrinale, quando, nella seconda parte del canto, spiega al pellegrino l’origine dell’acqua e del vento nell’Eden; e come l’atmosfera, ricolma della virtù generativa della vegetazione edenica, diffonda questa virtù sulla terra, dando principio alla flora del mondo terreno. Dunque, l’origine paradisiaca del mondo vegetale è “forma” dell’ordine cosmico, in cui nulla avviene per caso, dato che rimanda alla causa prima del tutto, che è Dio. Prima di tutto, perciò, Matelda, col suo sapere, rappresenta - ma anche qui, da notare, in “forma” di donna - la felicità paradisiaca prima del peccato: è la perfetta felicità naturale, che include purezza, virtù, giustizia e amore per Dio: lei, che è vita attiva, ma più di Lia, poiché conduce Dante a Beatrice (perfetta vita contemplativa), è la felicità terrena al massimo grado, che prefigura la felicità celeste. Fin qui, e aiutandosi un po’ con quello che lei fa per Dante e quello che gli “insegna”, il significato simbolico di Matelda può considerarsi adeguatamente colto. Ma chi è quest’altra importante «bella donna» (XXVIII, 43) di Paradiso? Partiamo, per cercare di capire, da tre prospettive diverse: “come” Dante la presenta, “cosa” vuole fare di lei e “perché” la chiama Matelda. Per quanto riguarda l’ultima, darne conto è, per certi versi, abbastanza più semplice che esaminare dettagliatamente le altre due: la maggior parte dei commentatori antichi, ma anche alcuni moderni, per l’affinità del nome - unita ad altre pur documentatissime ragioni - la identifica con la contessa Matilde di Canossa (1046-1115). Uno dei più decisi assertori di questa identificazione è l’autorevole Michele Barbi che non ebbe mai esitazioni nel dichiarare Matelda «senza dubbio la contessa di Toscana»; mentre un altro celebre studioso, Bruno Nardi, non se ne lasciò persuadere, constatando che neppure i commentatori antichi (tra cui Cino da Pistoia, amico di Dante) gli sembravano abbastanza informati sui fatti della Contessa. Tra i contributi moderni, si segnala, per le ottime e articolate argomentazioni circa l’identità Matelda/Matilde di Canossa, soprattutto quello contenuto nei «Quaderni del Dipartimento di Lingue e Letterature neolatine dell’Istituto Universitario di Bergamo» (2 [1987], pp. 67-76: In favore della Gran Contessa, Capitolo VIII); ma a questo, e ad altri impostati su questa linea interpretativa, si oppongono le opinioni di chi, considerando che Matilde di Canossa (oltretutto, si dice, non bellissima) fu fautrice della Chiesa contro l’imperatore Enrico IV durante la lotta per le investiture, rigetta decisamente questa ipotesi, poiché la posizione di Dante contro il potere temporale della Chiesa e il “ghibellinismo” di lui la rendono già in partenza difficilmente sostenibile.
Altri studiosi ancora pensano, allora, se proprio ci si vuole far guidare dal nome, alla mistica tedesca Matilde di Hackenborn (ca. 1241-1299), autrice di uno scritto, in cui si immagina un montePurgatorio simile a quello di Dante. Non manca nemmeno chi identifica Matelda, rimanendo “dentro” i testi danteschi, con una delle donne che accompagnano Beatrice nella Vita Nuova (XXIV, 3): in particolare, Matelda sarebbe proiezione della Giovanna di Guido Cavalcanti, quella chiamata Primavera, colei che “annuncia” Beatrice. Tanto è vero - dicono - che anche qui nella Commedia, Matelda compare nell’Eden poco prima di Beatrice (XXX, 32), quindi ne sarebbe, appunto, la prefigurazione. G. Contini, invece, pensa che Matelda sia la “donna gentile” della Vita Nuova (XXXV); nell’opera giovanile rivale di Beatrice, qui, invece, colei che la precede. Ma l’ipotesi più fantasiosa è quella di chi ha voluto leggere come allo specchio il nome della donna, cioè da destra a sinistra, che così suonerebbe “ad letam” [«alla lieta»]: ovvero colei che conduce alla donna (Beatrice) felice nella sua beatitudine. Io penso che aver sintetizzato solo alcune delle ipotesi circa il nome scelto da Dante per questa donna, che è la prima “figura” che il pellegrino vede nell’Eden, dimostri a sufficienza un fatto: non si sa che pesci prendere, dato che non si può affermare con assoluta certezza che una congettura sia del tutto meglio di un’altra. Sicché, nonostante la sicurezza pressoché assoluta delle conclusioni a favore dell’identificazione Matelda/Matilde di Canossa da parte, per esempio, pure di alcuni contributi moderni più recenti, che si dicono più di altri fondati su dati incontrovertibili, io ritengo - essendo, forse, più modesto, cauto o meno preparato di altri - di dover condividere l’onestissima, limpida posizione del poeta e letterato Arturo Graf (Atene 1848-Torino 1913), cofondatore (1883) del Giornale storico della letteratura italiana e collaboratore abituale della rivista Nuova Antologia, il quale dichiarò testualmente: «Confesso umilmente di non sapere perché Matelda si chiami Matelda». …………………………………………………………… La soluzione è l’amore; e l’amore, appunto, Matelda rappresenta. Ma l’amore di Matelda non è l’amore-passione generalmente inteso come desiderio fisico - quale, superficialmente, si sarebbe indotti a credere, poiché non è quello l’amore vero -, bensì è l’amore naturale prima del peccato originale, quello privo di malizia; è l’amore-carità. Fin qui le letture e le considerazioni fondamentali che si possono trarre solo riflettendo con una certa dose d’attenzione sul passo che riguarda Matelda: tuttavia, qualche approfondimento su questo personaggio e il suo significato come anticipatrice di Beatrice, ma soprattutto come “donna docente”, non sarà inutile. ……………………………………………………………….. In ogni caso, Matelda è figura “aiutante” di Dante-iniziato. …………………………………………. [E] soprattutto, i riti di purificazione con l’acqua, cui Matelda sottopone Dante, non potevano non impegnare gli studiosi esoterici a darne interpretazioni simboliche diverse da quelle tradizionali: i due fiumi, dall’origine comune, il Lete e l’Eunoè, vogliono significare la necessità di bere l’acqua di entrambi, affinché il nuovo insegnamento mistico (che dà la saggezza) si sovrapponga al vecchio (le massime dei profani) e dia frutti veraci. Un ulteriore segno di ripresa e superamento insieme della vita vecchia verso la nuova è visibile sempre attraverso la figura di Matelda - anche all’inizio del canto successivo, fin dal primo verso, quando il poeta evoca l’amore della lirica provenzale e stilnovistica («Cantando come donna innamorata»), ma poi - con la stessa funzione “correttiva” con cui aveva citato il salmo del canto precedente - aggiunge alle ultime parole “cantate” dalla “donna innamorata”, esteriormente profane, la citazione del verso 1 di un altro salmo (il XXXII), Beati, quorum tecta sunt peccata (“Beati coloro che vedranno coperti - cioè, perdonati - i loro peccati”).
Siamo nell’imminenza dell’arrivo di Dante di fronte alla Beatrice-giudice, di cui la sacra processione è il preludio (e delle cui ritualità ci siamo già occupati specificamente nel precedente capitolo 26): il poeta, in questo modo, si dichiarerebbe pronto al passaggio al “grado” successivo. Queste, in sintesi estrema, alcune delle possibili letture “esoteriche” dei passi allegorici, di cui abbondano i canti conclusivi del Purgatorio: in particolare dei veri e propri riti iniziatici, nei quali la protagonista è Matelda (la cui presenza si distende per quattro canti, scomparendo poi senza che il poeta ne faccia più menzione). Sull’opportunità e validità di interpretazioni di questo tipo tornerò, in breve, nel capitolo conclusivo di questo lavoro:………………………………[ma], a mio giudizio, il punto fondamentale è un altro: e riguarda il fatto, eccezionale ed ideologicamente eversivo - benché ben “mascherato”, - che Dante decida di affidare incarichi di “docenza” in materia dogmatica e teologica a donne. Come sa chi si sia anche poco accostato al problema, il ruolo delle donne nelle prime comunità cristiane ha fin da subito suscitato conflitti interni, che sono però testimoniati solo dai cosiddetti Vangeli apocrifi, quelli, cioè fondati su tradizioni gnostiche e non riconosciuti dalla Chiesa di Roma. Ora, a differenza di quanto raccomandato da S. Paolo («mulieres in ecclesia taceant» [“le donne tacciano durante l’assemblea”]), diversamente dal ruolo - dignitoso ma non fondamentale - riconosciuto alla Maddalena e ad altre figure femminili nei Vangeli canonici e in difformità dai ruoli chiave assicurati esclusivamente agli uomini dalla Chiesa di Roma, cosa fa Dante, in special modo in questi cruciali canti conclusivi del Purgatorio e per tutto il Paradiso? Assegna a donne (Matelda, poi Beatrice, ma anche, in parte, a Piccarda all’inizio della terza cantica) il compito di tenere vere e proprie lezioni di teologia e di dirimere questioni di carattere dogmatico e spirituale di straordinario rilievo; a Beatrice, addirittura, di ottenere la confessione di Dante e di amministrare il sacramento della sua penitenza (e lasciamo stare se la ritualià esercitata da Matelda e dalla stessa Beatrice si richiami, poi, anche a pratiche evidentemente esoteriche). ……………………………………. Le …“donne di Paradiso” [di Dante] sono a tutti gli effetti armi ideologiche (se si esclude l’anomala, poco significativa e tutto sommato poco riuscita figura di Cunizza da Romano [Par., c. IX]). Tanto è vero che mi stupisce come questo aspetto del significato profondo delle più rilevanti figure femminili nella Commedia sia, nella sostanza, poco affrontato e analizzato dalla critica dantesca, e lasciato all’attenzione esclusiva degli studiosi di esoterismo, con tutti i rischi annessi e connessi di un’eccessiva arbitrarietà e parzialità interpretativa. ……………………………………………………………….
32. Dante e la maschera del “novello Messia” Il poema dantesco è indubbiamente percorso da un evidente fervore profetico, ispirato alle visioni delle profezie bibliche, a quelle di Gioachino da Fiore, e ai libri di viaggi nell’aldilà, quali la Navigatio San Brandani, il Libro della scala, il Libro delle tre Scritture, e altri simili. Nella mente di Dante anche la Commedia doveva essere, fin dal principio, un “libro profetico”; e lui stesso il suo profeta. Tre sono i passaggi fondamentali, che ci è possibile cogliere in tal senso nel poema. Ecco il primo: all’inizio del suo cammino, Dante, ancora dubbioso, esterna a Virgilio le proprie perplessità sull’opportunità di intraprendere il viaggio. Nell’Eneide - libro per Dante “profetico”, come il suo autore, “preveggente” - si legge che Enea andò ancora vivo nel mondo “immortale”, cioè negli Inferi, ad incontrare il padre Anchise («corruttibile ancora, ad immortale / secolo andò, e fu sensibilmente», Inferno, II, 14-15 (“Ancora vivo [corruttibile] andò nel mondo [secolo] immortale, e ciò avvenne col corpo [sensibilmente]”). ……………………………………………………………………………………….. Dante-personaggio, ancora insicuro di sé circa il cammino che Virgilio gli ha appena prospettato di compiere, chiede alla sua guida, dopo aver richiamato i due precedenti “casi” di assunzione in cielo
ancora in anima e corpo: «Ma io perché venirvi? o chi ‘l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri ‘l crede» (Inf., II, 31-33). […] Questo preambolo serve a Dante per farsi rispondere da Virgilio che la sua “degnità” al viaggio ultraterreno è data da “chi” lo ha voluto: e cioè, come Virgilio in qualità di guida prescelta si premura di spiegargli, dalla Vergine Maria, da S. Lucia e da Beatrice. Dunque, se tre simili Donne benedette, tre “donne di paradiso”, si sono attivate per lui, non può Dante dubitare della volontà divina circa il cammino che deve affrettarsi a intraprendere come “inviato di Dio”. C’è, poi, un secondo passaggio, meno considerato, ma a mio parere ugualmente importante - o forse più del primo - circa l’evidenza dell’investitura profetica, che il poeta si attribuisce: nel quinto cerchio dell’Inferno, immersi nel fango dove si sbranano l’uno con l’altro, Dante incontra gli iracondi. Quando uno di loro, Filippo Argenti - nemico personale del poeta e della sua famiglia, a quanto riportano il Boccaccio e altre fonti -, riconosciuto sebbene tutto imbrattato di melma, riceve da Dante una violenta risposta di disprezzo e un’insultante apostrofe (Inf., VIII, 37-39), costui cerca di aggrapparsi alla barca su cui si trovano i due poeti per rovesciarla. A quel punto Virgilio, di solito molto controllato, interviene e respinge fisicamente il dannato, accompagnando il suo gesto con queste parole: «Via costà con li altri cani!», cit., 42 (“Vattene nel fango, con gli altri cani come te!”). …………………………………………………… Ma quello che è più notevole non è tanto questo pur insolito passaggio all’azione diretta in difesa “fisica” di Dante da parte di Virgilio, quanto la reazione successiva di lui. «Lo collo poi con le braccia mi cinse; / basciommi ‘l volto e disse: “Alma sdegnosa, / benedetta colei che ‘n te s’incinse!”», Inf., cit., 43-45 (“Poi mi gettò le braccia al collo; mi baciò il volto e disse: «O anima giustamente indignata, benedetta colei che fu incinta di te!»”). Quest’ultima frase è un’evidente ripresa di un passo del Vangelo di Luca (11, 27), dove si legge che una donna, mentre Gesù sta predicando, dalla folla gli grida: «Beato il grembo che ti portò e le mammelle che tu poppasti!». Non è certo difficile comprendere che qui Dante, in quanto prescelto da Dio come rappresentante del viaggio dell’umanità tutta verso la salvezza, assume tutte le connotazioni di una vera e propria figura Christi. ………………………………………………………… Ma queste profezie, quale l’una quale l’altra incomplete o non del tutto chiare, riceveranno il sigillo definitivo dall’avo di Dante, Cacciaguida (canti XV-XVII del Paradiso): è questo, di Cacciaguida, il terzo passaggio “profetico”, quello che indica allegoricamente, senza ombra di dubbio, nella persona del poeta il “nuovo Messia”, l’incaricato della missione di portare a compimento il piano avviato da Dio. Un “piano” avviato per mezzo dei primi esecutori della Sua volontà, Enea (il “politico”), S. Paolo (la “fede” cristiana) e ora da perfezionare grazie a Dante (figura di un nuovo Impero e di una nuova Chiesa). Precursori, i primi due, di quei poteri universali per Dante alla base dell’Ordine del mondo, l’Impero e il Papato (naturalmente cooperanti in modo equilibrato e corretto, come auspicato dal poeta fin dalla Monarchia e ribadito costantemente lungo tutto il corso della Commedia). Dante, insomma, è Enea e S. Paolo insieme (va colto il significato simbolico - non certo di banale autoesaltazione personale - di questa sua figura “missionaria”). Ed è da Cacciaguida, novello Anchise “cristiano”, che Dante, novello Enea (e, in più, novello S. Paolo), saprà finalmente tutta la verità. ………………………………………
Qui l’investitura di Dante ha tutto il crisma della sacralità: appena Cacciaguida s’avvede dell’arrivo del poeta nel Cielo di Marte, percorre i bracci della croce luminosa fatta di spiriti beati dove egli si trova e gli si fa innanzi per accoglierlo. ………………………………………………. Quando….lo spirito “abbassa” il registro linguistico e concettuale al livello umano di Dante, la prima espressione che il poeta intende è il ringraziamento di Cacciaguida a Dio: «Benedetto sia tu, …trino e uno, / che nel mio seme se’ tanto cortese!», Pd., XV, 47-48 (“Benedetto sia tu, Dio trino e uno, che sei tanto generoso verso la mia discendenza”). …………………………………………… […] Tanta solennità è solo un preludio alla “proclamazione” definitiva del poeta come “prescelto di Dio”: oltre le assicurazioni avute da Virgilio, con quella prima allusione indiretta al Vangelo di Luca nell’episodio di Filippo Argenti, dovrà essere ora Cacciaguida a confermarlo ufficialmente nell’alto incarico di strumento della volontà divina. E Cacciaguida, che finora aveva manifestato gioia di vederlo al suo arrivo ma che ancora non aveva rivelato a Dante chi fosse, gli si rivolge finalmente per comunicare la propria identità, però lo fa cominciando con una premessa di intonazione evangelica: è la formula decisiva. «O fronda mia in che io compiacemmi / pur aspettando, io fui la tua radice», Pd., XV, 88-89 (“O mio discendente [metafora genealogica: la fronda che discende dall’albero], in cui io mi sono compiaciuto anche solo aspettando, io fui il tuo progenitore [la tua radice]”). Nel Vangelo di Matteo ([1-9, 17]; ma v. pure Marco [1, 11] e Luca [3, 22]) si racconta l’episodio della trasfigurazione di Gesù (il cui volto brilla come il sole e le cui vesti divengono candide come la luce) davanti agli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni; appaiono anche Mosè ed Elia, che cominciano a conversare con Lui. Subito dopo, il brano evangelico continua, con questa frase: «Egli stava ancora parlando quando una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”». La citazione allusiva di Dante è chiara: Cacciaguida, come figura paterna divina, “riconosce” Dante come “figlio prediletto”, cui affidare la missione della “parola” nel mondo («Ascoltatelo», dice il Vangelo). Ora Dante è, a tutti gli effetti, la figura Christi della vita nuova promessa. ……. …………………………………………………… Naturalmente, sarebbe ridicolo sostenere che Dante, con gli episodi di Filippo Argenti e di Cacciaguida, voglia proclamarsi reincarnazione di Gesù: le allusioni evangeliche servono a “costruire” la metafora, la “maschera” del novello Messia. Ciò non toglie che Dante di sicuro fosse pienamente consapevole della dirompenza trasgressiva di un accostamento di questo tipo: semmai, quello che oggi stupisce me è che non la si evidenzi abbastanza da parte degli studiosi di Dante. Certamente, egli rivendica a sé - agli occhi di chi a noi, oggi, non è dato con precisione sapere - un ruolo guida o di un’organizzazione già costituita, oppure, come ritengo più plausibile, di un movimento ideale, di una “maggioranza fin lì troppo silenziosa” chiamata da lui al rinnovamento etico, politico e religioso del mondo. Del cristianesimo Dante vuole di certo recuperare lo spirito delle origini, rivoluzionario nella mentalità, nella gerarchia dei valori, nella sobrietà dei costumi, nei comportamenti, e intransigente nella morale: uno spirito disatteso e vilipeso dalla Chiesa dei suoi tempi, e smentito a tutti i livelli a suo giudizio - dalla società civile e politica dei rissosi comuni italiani come dagli indegni eredi del “sacro” Impero di Roma. La vicenda umana di Gesù è il simbolo universale, più alto e permanente, della coraggiosa rivolta alle storture del mondo anche a costo della vita: in questo senso il Dante-personaggio della Commedia se ne proclama sua “rinascita”. Se non altro come speranza di essa.
Certo, un messaggio di tale entità e di tale radicale capovolgimento della prassi corrente - sia etica sia politica sia, soprattutto, religiosa - richiedeva, non avendo speranza di essere accessibile a tutti nell’immediato a causa specialmente dell’iniquità e immaturità dei tempi, una rigida selezione dei destinatari. Dante è stato “condannato” dalle circostanze della sua esistenza e dalla realtà dell’epoca sua ad essere “esoterico” e a nascondersi «sotto ‘l velame de li versi strani»: tuttavia, è almeno riuscito, in questo modo, ad evitare il rogo, che ha stroncato con violenza il dissenso di altri, e ad annunciare seppure, in quel momento, solo “a chi avesse orecchie per intendere” - il proprio progetto di una palingenesi possibile. Resta da vedere quanto anche noi, oggi, di quel progetto e di quel messaggio senza tempo riusciamo a comprendere e quanto ne penetriamo fino in fondo il significato e il potente anelito di libertà e di autonomia di giudizio, che va ben oltre le nostre categorie mentali - di giusto, di bello, di onesto, di morale o amorale, di attuale o inattuale, di ortodosso o eterodosso, di universale o contingente - con cui continuiamo ad accostarci al testo del poema dantesco, perseverando spesso a spiegarlo coi parametri mentali che ci fanno ogni volta più comodo. Un Dante “addomesticato” ai nostri fini non è Dante, ma un altro, cui noi, con una lettura distorta e unilaterale, abbiamo voluto imporre un’ulteriore “maschera”, ma posticcia, non sua; una maschera ben diversa da quella che egli stesso - poeticamente e allegoricamente - aveva di proposito deciso di indossare per spingerci a scorgere, sotto di essa, il vero volto di lui. Conclusioni
A conclusione del nostro discorso, fatto più per suscitare domande e spingere a letture più attente di Dante che non per dare risposte definitive, potremmo sbrigarcela come molti pur eminenti italianisti di fronte alle tante indubbie contraddizioni della Commedia. Con l’affermare cioè, come fa per esempio Luigi Pietrobono a proposito di un passo controverso del Purgatorio, che ci «sono domande che non conviene fare»; oppure, come sostengono altri, che non è utile andare a cercare di indagare certe espressioni misteriose, poiché il fascino della poesia è maggiore proprio là dove non consente una totale decifrazione di sé. Ed è vero che la seduzione secolare della Commedia dantesca sui lettori di ogni tempo e di ogni luogo si fonda soprattutto sulle straordinarie invenzioni poetiche, sulla stupefacente creatività e sul prodigioso talento linguistico del suo autore; ma è anche sicuro che certe incoerenze, o “ambiguità” - soprattutto in materia religiosa e filosofica -, volute o accidentali che siano, contribuiscono almeno in egual misura ad accrescere l’interesse per il poema di Dante dal Trecento a oggi (un interesse che ha da poco - 2015 - celebrato i 750 dalla nascita del Poeta). ……………………………………………… Vediamo, dunque, di arrivare a dire quello che è pur possibile dire delle volute ambiguità, delle antinomie del poema dantesco, che di solito sfuggono o ci si lascia sfuggire a una lettura scolastica necessariamente riduttiva e divulgativa -, ovvero quando ci si contenti di una comprensione solo poco più che letterale o politically correct di esso, come suol dirsi. Hanno ragione, per esempio, gli studiosi esoterici, quando sottolineano che la discrepanza maggiore della Commedia si rileva in ambito religioso, tra quello che si può definire il parere (la forma) e quello che è l’essere (la sostanza) del poema: di fatto, è sicuramente più gnostico che in armonia con l’ortodossia cristiana cercare Dio, viaggiando nell’Aldilà non solo in spirito ma anche col proprio corpo (prerogativa, secondo il dogma, solo di Cristo e di Maria); e anche “trasumanare”, “indiarsi”, compenetrarsi cioè con la natura divina, neppure questo è “cristiano”, ma piuttosto proprio dell’ermetismo - in particolare dell’ermetismo alchemico della “trasmutazione” -, che prevede l’immortalità fisica e la divinizzazione. E anche la concezione dantesca sul rapporto tra fede e ragione, tra filosofia e teologia sembra richiamare quella di Scoto Eriugena - il pensatore monaco irlandese, altomedioevale, eretico ancora
per la Chiesa dei tempi di Dante e solo recentemente riabilitato -, che assegna una certa preminenza alla ragione umana e considera fondamentale il libero arbitrio dell’uomo; così come ritiene le Sacre Scritture scritte in un linguaggio allegorico che si deve interpretare, ma riconoscendone intanto l’intima struttura razionale. ………………………………………………………………………… Per ciò che concerne, poi, un altro aspetto della “libertà di pensiero” di Dante sul piano culturale, basta considerare l’evidente esaltazione di poeti pagani, fondata esclusivamente su criteri di merito, per nulla condizionati da riserve di tipo religioso: mettendo da parte Virgilio, in qualche modo “cristianizzato”, nel privilegiato nobile castello degli “spiriti magni” si trovano Omero, Ovidio, Lucano, l’epicureo Orazio, ma anche il musulmano «Averroís, che ‘l gran comento feo» (“Averroè, che fece il gran commento [di Aristotele]”); senza dimenticare la “promozione” - inspiegabile sulla base della dottrina cristiana - di Catone, pagano e suicida, a custode del Purgatorio - mentre altri suicidi sono all’Inferno -, e il fatto che sia Apollo, il dio pagano della poesia classica, l’ispiratore del Paradiso. E, ancora, nello stesso Paradiso, accanto alle lodi certo “dovute” a S. Tommaso trova però posto anche l’esaltazione dell’avversario Sigieri di Brabante, che non solo non dovrebbe affatto stare in Paradiso, ma che è collocato dal poeta proprio accanto al santo di Aquino: Sigieri, l’averroista condannato come eretico, che, invece, per Dante, «silogizzò invidïosi veri», Pd., X, 138 (“dimostrò per mezzo di sillogismi verità che gli procurarono invidie”). Né stupisce di meno che anche un’altra figura controversa, Gioacchino da Fiore, iniziatore di un movimento ereticale, si trovi, beato, accanto a S. Bonaventura; di altri personaggi ancora, elevati al premio paradisiaco in base a criteri discutibili, ovvero a prescindere da meriti strettamente correlati alla religione, ho già ampiamente discusso in precedenza (v. Giustiniano, per esempio). Simili posizioni difficilmente conciliabili col cattolicesimo, e non riducibili a una polemica soltanto anticlericale, si saldano poi indissolubilmente al “ghibellinismo” di Dante, che pur nella sua fervente aspirazione a una autentica Riforma morale della Chiesa, non riesce mai ad evitare di teorizzare la sostanziale subordinazione del Papato all’Impero (si veda la vera e propria “sacralizzazione” di Arrigo VII, che ha già uno scranno pronto in Paradiso, nella Candida Rosa dei beati; e i continui attacchi ai Pontefici, certamente censurabili per le loro ingerenze politiche e l’eccessiva cura dei propri interessi terreni e familiari, ma che non dovrebbero vedere messa in discussione da un cattolico - se Dante lo fosse - la loro autorità e la legittimità a promulgare atti vincolanti per i credenti). Insomma, pare evidente che, sul piano ideologico e religioso, la Commedia mostri di avere molti punti di contatto con opere di impianto neoplatonico ed ermetico: da certe ritualità - che abbiamo ampiamente esaminato - alle componenti del racconto vero e proprio. Analizzando, per esempio, anche solo la cosiddetta “fabula”, o trama che dir si voglia, ovvero l’espediente stesso del “viaggio”, e le “sequenze narrative” che lo compongono, cioè il risveglio dal “sonno” nella selva, gli “ostacoli” al cammino, la figura soprannaturale “aiutante” lungo una strada “altra”, l’itinerario del personaggio protagonista ancora vivo attraverso il mondo ultraterreno, ci si rende conto che si tratta di una vera e propria esperienza iniziatica finalizzata alla “gnosi” (o conoscenza). ………………………………………………. Di per sé, il mito del viaggio come “rito” iniziatico è frequente già nella poesia classica: il viaggio di Ulisse; la discesa nell’Ade di Orfeo alla ricerca di Euridice (mito narrato da Virgilio nelle Georgiche e da Ovidio nelle Metamorfosi); l’impresa degli Argonauti alla ricerca del Vello d’Oro; la discesa di Enea agli Inferi. Si tratta, però, di possibili antecedenti, ma non di veri e propri modelli della Commedia. Diverso il caso del De Nuptiis Philologiae et Mercurii, romanzo neoplatonico di Marziano Capella: come già specificamente illustrato in precedenza sul conto di quest’opera particolare, qui i rituali, le finalità e anche la tendenza a “mascherare” il messaggio autentico rivelano affinità più evidenti col
poema dantesco; e sintonie ancora maggiori bisogna riconoscere che è possibile ritrovare in un’opera esplicitamente ermetica come il Pimandro, raccolta di piccoli trattati attribuiti a Ermete Trismegisto. ……………………………………………………………………. Ma non voglio esagerare, insistendo troppo esclusivamente sulle componenti ideologico-filosofiche ed esoteriche indubbiamente presenti nella Commedia, perché di esse si è trattato abbastanza diffusamente nei trentadue capitoli precedenti. Quello che c’è da ribadire con forza è piuttosto l’eccezionalità dell’opera di Dante, il cui fascino e la cui secolare universalità si fondano soprattutto sulla capacità unica del suo autore di fare autentica e altissima poesia su argomenti che, in altra forma, certo sarebbero riusciti a coinvolgerci emotivamente molto meno, non avrebbero toccato le corde più sensibili di tutti noi col richiamo continuo e profondo a valori e sentimenti così condivisi da tutti e non avrebbero segnato allo stesso modo tutta la cultura occidentale, e non solo. In breve, il miracolo della Commedia è l’equilibrio perfetto tra poesia e filosofia, tra ideologia e inesauribile fantasia nel creare un linguaggio artistico nuovo, fatto di immagini e di rappresentazioni dal significato, più che ambiguo e sfuggente, davvero polisemico (nell’accezione dantesca del termine); un linguaggio tale da richiedere, senza mai ingenerare stanchezza nel fruitore, uno sforzo interpretativo autonomo e un rinnovamento continuo del patto di complicità stabilito fin dal primo verso con i lettori (questo il senso dei molti “appelli” a chi legge sparsi all’interno dell’opera). Alla fine, perciò, sottovalutare o negare che, vuoi per esigenze del suo spirito, vuoi soprattutto per oggettivi condizionamenti del suo tempo, Dante ci parli “nascosto” e ci testimoni “copertamente” di voler essere un poeta e un pensatore libero e laico prima che cristiano, o meglio un cristiano esoterico prima che un cattolico, o, tutt’al più, un cattolico riformista a costo di non essere cattolico affatto, questo sarebbe come tradire il messaggio più profondo e durevole dell’autore della Commedia. Questo libro vorrebbe essere lo spunto - mi prendo almeno la licenza di sperarlo - per riflettere e approfondire aspetti del pensiero e dell’arte dantesca, che vengono di solito sottaciuti in nome di una lettura addomesticata e più in linea, ancora oggi, con quel conformismo e quella distorsione utilitaristica delle idee, pure così chiaramente e strenuamente disprezzati e combattuti dal grande esule fiorentino.
Per saperne di più… ……………………………….. E - Le “culture” di Dante e il ruolo sapienziale delle “donne di Paradiso” nella Commedia …………………………………………………………………………….. […] Matelda è una “donna di sapienza”. A quanto pare, non solo l’opinione di S. Paolo sull’opportunità del “silenzio delle donne” è qui da Dante disattesa, ma anche completamente capovolto il ruolo di esse, che, con Beatrice specialmente, assumono una centralità - in materia di fede e di sapienza teologica - del tutto anomala e che non ha uguali in altri autori dell’epoca. Quali possono essere stati, se ce ne sono stati, i testi di riferimento cui Dante può essersi ispirato per riservare un tale “privilegio” nella Commedia alle sue “donne-teologhe”? Ma è anche possibile - e non sarebbe la prima volta nel poema - che una scelta così eccezionale sia del tutto originale e che, effettivamente, il poeta abbia voluto, con l’abituale forza dirompente delle sue opinioni, scardinare
pregiudizi secolari e servirsi di personaggi femminili sapienziali per imprimere maggiore efficacia rappresentativa alla sua polemica ideologica, etica e religiosa. […] Un’ipotesi plausibile potrebbe essere quella di ritenere che Dante abbia avuto modo di venire a conoscenza - magari in maniera parziale o indiretta - dell’esistenza dei cosiddetti Vangeli apocrifi; e che, dunque, nel suo immaginario abbia potuto agire, se non, appunto, un’influenza diretta, il ricordo almeno dell’importanza data ad alcune figure femminili in taluni di quei testi, dei quali - o anche solo di alcuni dei quali - il poeta, di sicuro sensibile ai linguaggi allusivi dei messaggi esoterici, può ben essersi servito. In questi testi, di tradizione gnostica orientale, il ruolo delle donne non è certamente secondario. Prendiamo come esempio di donna “di primo piano” nella storia religiosa cristiana - seppure di una storia religiosa cristiana per molti discutibile o “spuria” - una delle figure più controverse al riguardo, quella di Maria Maddalena: lei è stata, secondo il Nuovo Testamento (ne parlano pure tutti e quattro gli evangelisti canonici), una delle più importanti e devote discepole di Gesù; tanto è vero che è venerata come santa dalla Chiesa cattolica (sua festa è il 22 luglio).
Secondo la tradizione evangelica, la Maddalena era una delle tre Marie che accompagnarono Gesù in occasione del suo ultimo viaggio a Gerusalemme (Matteo, 27:55; Marco, 15:40-41; Luca, 23:5556); fu testimone della crocifissione, e fu presente anche alla morte e alla deposizione di Gesù. Per di più, secondo alcuni Vangeli, fu anche la prima testimone oculare e colei che annunciò per prima la Sua resurrezione: «Nel giorno dopo il sabato, Maria Maddalena si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro... Maria Maddalena andò subito ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva detto» (Giovanni 20,1;20,18). Le cose per Maria cominciano a complicarsi, quando, scambiata per la peccatrice e l’adultera salvata da Gesù dalla lapidazione (di cui parla Giovanni, 8:1-11), la sua figura viene “macchiata” da colpe sessuali (anche se poi l’equivoco - come ho già detto all’inizio del capitolo 28 - venne chiarito, sebbene solo nel 1969). Dunque, ciò che nei Vangeli canonici viene fatto balenare - ovvero, la rilevanza della presenza della Maddalena accanto a Gesù -, è esplicitamente manifesto in quelli apocrifi, cioè quelli - lo ricordo che la Chiesa non riconosce come autentici. ………………………………………………………… Si ha notizia di diversi Vangeli apocrifi, soprattutto opera di scrittori gnostici (cioè di quegli scrittori che si rifanno a quel complesso di dottrine riconducibili a sètte religiose esoteriche risalenti alla prima età cristiana [I-III sec.]): di alcuni di essi, letti a volte in modo errato, si sono serviti scrittori e registi cinematografici per allestire opere “sensazionalistiche”, in cui si dava per sicuro il presunto matrimonio, addirittura, tra Gesù e la Maddalena o si millantavano altre “scoperte” similari. […] Ma, tolte di mezzo le speculazioni a fini commerciali, che qui non interessano, vista l’importanza della figura femminile di Maria di Magdala (o Maddalena), quello che si può solo intuire - a causa di un’evidente reticenza - nei Vangeli canonici a proposito dell’ingombrante presenza di alcuni personaggi, in particolare donne, e ancora più in particolare della Maddalena, accanto a Gesù, si ricava esplicitamente riportato negli apocrifi: che su questo specifico tema appaiono molto verosimili e utili a comprendere meglio ciò di cui ci stiamo occupando. ………………………………………… Non è difficile… immaginare le ragioni dell’aperta contrapposizione di questi ambienti gnostici orientali alla Chiesa di Roma sul ruolo della donna all’interno della comunità e del culto cristiano; esso risulta, infatti, in netto contrasto con la speciale ammonizione di S. Paolo, che ho già ricordato («mulieres in ecclesia taceant» [“le donne tacciano durante l’assemblea”]). Invece, all’interno di quel testo gnostico gli interlocutori di Gesù sono i suoi discepoli, ma anche quattro discepole, con pari dignità: Maria, madre di Gesù, Salomè, Marta e Maria Maddalena. Maria, la Madre di Gesù, interviene tre volte (capitoli 59, 61, 62), Salomè altre tre volte (capitoli 54, 58 e 145) e Marta quattro (capitoli 38, 57, 73 e 80). Ma Maria Maddalena interviene, in questioni sempre molto importanti, ben sessantasette volte.
Gesù la loda spesso e lei arriva persino ad intercedere presso di lui, quando i discepoli non capiscono bene qualche passaggio (capitolo 94). All’interno del Pistis Sophia, Maria Maddalena è sposa e sacerdotessa di Gesù, e come tale a lei spetta di simboleggiare la conoscenza (gnosi). Nella Commedia di Dante, ben più di Matelda - comunque anch’ella “scienziata” di fede -, è Beatrice la “donna-teologa”, la “Sapienza” (Sophia) teologica; come, nel Vangelo apocrifo di Maria, la Maddalena “sa” (di «tutti i misteri di quelli dell’alto») più degli stessi Apostoli. La Commedia è appaiata dal suo autore a una “scrittura di fede”: non è solo “bella menzogna” poetica, ma anche reale cammino del poeta-pellegrino-umanità verso la Grazia divina. Dicevo, nel capitolo iniziale di questo libro, di come Dante elevi la cosiddetta allegoria dei poeti al rango dell’allegoria dei teologi: nel Paradiso, dove l’autore definisce l’opera sua il «poema sacro / al quale ha posto mano cielo e terra» (Pd., XXV, 1-2), il cerchio si chiude. La Commedia non è solo opera umana, ma anche divina (vi «ha posto mano cielo e terra»): Dantepersonaggio supera l’esame su fede, speranza e carità, le tre virtù teologali (cui lo sottopongono S. Pietro, S. Giacomo e S. Giovanni), e, dunque, il poema acquisisce legittimamente il diritto a diventare da opera poetica opera di “vera fede”. Bene dice Singleton che il viaggio dantesco è «vero perché è vero il sacro poema, voluto da Dio per significare il viaggio che ciascun cristiano nella sua vita terrena deve intraprendere per raggiungere la salvezza». Pertanto, la Commedia è a Dante ispirata da Dio: «Io non Enëa, io non Paulo sono» (Inf., II, 32) aveva detto a Virgilio il poeta ancora dubbioso sulla possibilità del suo viaggio nel mondo ultraterreno, ritenendosene indegno, a differenza dei due appena nominati che, come lui, sono ammessi in cielo da vivi; l’uno “segno” della gloria di Roma voluta da Dio, l’altro del trionfo promesso alla Cristianità. Ora Dante “sa” che è l’uno e l’altro insieme. E se Dante, uomo “nuovo” inviato divino, nella Commedia, come gli autori dei Vangeli apocrifi, dà a Matelda prima, poi soprattutto a Beatrice e, in parte, a Piccarda, voce in capitolo in materia di magistero di fede, questo è voluto da Dio. Un’intenzione comunicativa del genere, d’altronde, Dante aveva già manifestato nella Vita Nuova, facendo di Beatrice, a tutti gli effetti, una figura Christi (“prefigurazione di Cristo”). La Commedia, come “nuova” scrittura di fede, ha perciò in alcune figure femminili-cardine (la Vergine Maria, S. Lucia, Beatrice, e, in sottordine, Matelda e Piccarda) il proprio insostituibile fondamento: e questo intento, seppure molto ben nascosto sotto la “maschera” della poesia, è l’aspetto più rivoluzionario ed eversivo del poema dantesco, in quanto, in questo, la Chiesa è ancora oggi molto restia ad aperture decisive. Tuttavia, rivoluzionario o trasgressivo, come ripeto, non significa “eretico”: Dante, abilmente, rivendica una radicale Riforma etica della Chiesa (e della politica), senza mettere in discussione i dogmi di fede, ma chiamando a farsene vettore trainante e protagonista primario pure l’universo femminile. Si può dire che questo non sia anche profondamente cristiano? Certamente no: ma che Dante fosse - e sia - un autore “scomodo”, eterodosso o, perlomeno, molto indipendente nel pensiero (anche se i più vogliono farlo “ortodosso” per forza), questo sì, possiamo di sicuro affermarlo. A meno di non voler chiudere gli occhi e leggere la Commedia più sul solo piano letterale e allegorico che non anche su quello “anagogico”, cioè il più profondo e “segreto”: cosa che, invece, Dante stesso ci invita chiaramente a fare, se ne siamo capaci, nell’Epistola a Cangrande della Scala, oltre che in più d’un appello al lettore sparso lungo il poema.