VALENTE D. - "Il mio" Inferno di Dante

Page 1

Domenico Valente “Il mio”

INFERNO DI DANTE Libera interpretazione romanzata della prima Cantica della “Commedia”

con alcune note introduttive, a cura del prof. Filippo Ungaro e illustrazioni di Francesco Porcelli

1


“Il mio” Inferno di Dante di Domenico Valente

Ne “Il mio” Inferno di Dante” l’autore propone ad un pubblico vasto ed eterogeneo una rivisitazione dell’Inferno dantesco, che, pur rispettando il testo originale, si presenta , invece, con lo stile moderno e scorrevole del romanzo. E’ un testo tanto utile per lo studio quanto piacevole per lo svago.

Dalla prefazione del prof. Filippo Ungaro

… Già in “Aranuthon” Domenico Valente aveva descritto, in riferimento alle profondità sotterranee del superbo Maniero Svevo tranese (sec. XIII), un interminabile e ristretto cunicolo ( quasi una dantesca “natural burella”), lungo il quale i protagonisti del “thriller”, al termine di un lungo viaggio nelle tenebre dell’inconscio, finalmente rivedono la luce, come Dante e Virgilio, “Sulle tracce del passato” (ibidem, cap. XV, pag. 162). Qualcosa di “dantesco”, dunque, già si annunciava nel finale di “Aranuthon”, epiteto alternativo di quel Lucifero, principe degli angeli ribelli a Dio, ch’è confitto al centro della voragine infernale, visitata dall’Alighieri e da lui descritta con versi di forte tempra poetica e scultorea potenza. In Domenico Valente è nata così, quasi per un impulso congeniale alla sua indole, incline a cogliere le misteriose risonanze metapsichiche che scandiscono il ritmo quotidiano dell’immaginare, l’idea di raffigurare un suo “viaggio” nell’aldilà, alla riscoperta di un cammino che, compiuto dall’Alighieri agli albori del sec.XIV, possa liberare l’umanità da ogni fallace vincolo terreno, permettendole di purificarsi ed elevarsi alla visione di Colui “…che move il sole e l’altre stelle” (cfr. il “Paradiso”, XXXIII, v. 145). Il titolo dell’opera (“«Il mio»/ Inferno di Dante / Libera interpretazione romanzata della prima Cantica della “Commedia””) chiarisce, “per se solum”, il fine dell’autore, che desidera dare vita concreta alle sue “percezioni” dell’oltretomba, già esternatesi in “Aranuthon”, mediante una versione “libera”, sotto forma di romanzo, e, al contempo, fedele al vigoroso “Inferno” del “Sommo Poeta”, gloria vera d’Italia. Né questa costituisce l’unica finalità dell’opera, in quanto Domenico Valente, acuto interprete dei desideri e delle istanze delle nuove generazioni, vuole rendere più agevole ai giovani la conoscenza della prima Cantica, poiché l’opera, pur 2


composta in versi di “alto sentire”, presenta terzine di difficile comprensione per i lettori dei nostri tempi, pervasi da altri linguaggi e diverse forme di comunicazione. … L’opera non presenta, e volutamente, citazioni dottrinali, estremi bibliografici o saggi critici relativi al Poeta dell’Arno, poiché intende essere solo un ideale documento, in prosa scorrevole ed adatta alle giovani generazioni, del viaggio novello di Domenico Valente (peraltro, emulo e fido epigono di Dante), il quale è andato, implicitamente, alla ricerca dei veri valori del buon vivere quotidiano, “condicio sine qua” la natura dell’uomo precipita nei meandri del male, simbolicamente ambientato nel baratro di un “Inferno” senza speranza.

Capitolo Primo La fuga “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, chè la diritta via era smarrita. Ah quanto a dir qual era è cosa dura…” (Inferno, I, vv. 1-4) L’alba, nell’eterna battaglia contro l’ostile oscurità, aveva appena cominciato a primeggiare, rischiarandosi flebilmente sul vivido paesaggio fiorentino, allungandosi, con le sue luminescenti spire, fino alla signorile dimora ove risiedeva Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante. Quella notte Dante, alle prese con alcune epistole da indirizzare ai fidati sostenitori della lotta contro gli inossidabili “guelfi neri”, si lasciò consumare dalla fatica, abbandonandosi tra le braccia di Morfeo, chino sul desco, inondato dell’inchiostro fuoriuscito dal calamaio, inavvertitamente rovesciato. “Signore, svegliatevi! Signore, dovete mettervi in salvo! I neri stanno mettendo a ferro e fuoco la città.”, urlò Niccolò, il fido domestico, percorrendo le scale di gran lena. Dante, nell’udire quelle esortazioni, proiettato improvvisamente in quella convulsa realtà, si destò quasi incredulo e, quando i suoi occhi incrociarono quelli atterriti di Niccolò, non esitò un solo istante. “Moglie…, figlioli, levatevi dai vostri giacigli, presto!”, urlò fremente, attraversando le stanze ove dormivano. “Mio signore, quale sventura sta investendo la nostra casata?”, domandò, trepidante, la sua consorte, Gemma. 3


“Siamo in pericolo! I neri hanno ripreso il controllo di Firenze. Il minor castigo cui incorreremmo sarebbe la prigionia. Dovete fuggire con i vostri figli!”, le riferì, preoccupato. “Fuggire! Mah…! Cosa giammai sarà di voi, mio signore?”, domandò la moglie, con gli occhi rigonfi, in procinto di versare lacrime. “Non angosciatevi. Saprò cavarmela!”, le riferì, deciso. “Eccomi, padre! Sono pronto!”, accorse Jacopo, loro primogenito, seguito dai più piccoli Pietro e Antonia, ammutoliti per lo sconcerto. “Figliolo…”, disse Dante, nel rivolgersi a quel temerario di Jacopo, che impugnava con fermezza un pugnale appena sottratto dall’armeria, “apprezzo il tuo coraggio e il tuo attaccamento alla nobile causa che ci contrappone ai più spregiudicati guelfi neri, ma sarai più utile a tua madre e ai tuoi fratelli proteggendoli durante la fuga”. “Ma…, padre!”, mugugnò il giovane. “Taci e mostrami obbedienza!”, lo redarguì Dante. “Non abbiamo più tempo da perdere!”, disse, spingendo i più piccoli tra le braccia della madre. “E, adesso, andate!”, intimò loro, sostenuto da Niccolò già pronto, con viveri e mezzi di fortuna, a scortarli oltre i confini dell’inospitale Firenze. Non appena la sua famiglia ebbe varcato la soglia della porta di servizio, guadagnando sicura salvezza, Dante, furioso come una saetta, si precipitò nel suo studiolo preoccupato di recuperare le missive scritte di proprio pugno, distruggendole tra le fiamme di un improvvisato falò, eliminando, così, il rischio di rivelare imprudentemente ai “neri” il nome dei “guelfi bianchi”, destinatari di quelle stesse epistole. Indi, armato di un affilato stiletto e di un vibrante acciaro, si precipitò in strada, unendosi al manipolo di “bianchi”, i quali tentarono una sofferta resistenza, soffocata immediatamente dai “neri”, meglio organizzati e sostenuti dai numerosi alleati inviati dal papato, preoccupato di annientare lo strapotere di quella fazione ostile alle ingerenze della Chiesa nelle attività politiche ed economiche della città. “Dante andate via! Fate salva almeno la vostra vita.”, gli riferì Aurelmo, impegnato nel contenere quella rappresaglia, non appena si avvide della sua presenza. “Non se ne parla nemmeno!”, replicò Dante. “Sono troppi! Non potremo resistere a lungo.”, bofonchiò Aurelmo, precipitandosi a sostegno di un “bianco”, impegnato in un combattimento senza tregua contro due “neri” indemoniati. “Allontanatevi! Vi prego, andate via!”, ritornò a reclamare Aurelmo, dopo che ebbero abbattuto quegli avversari e fatta salva la pelle di quel compagno di fazione. “No! Non sono disposto ad abbandonare la mia terra senza averle donato il mio sangue.”, replicò Dante, sempre più determinato nelle proprie intenzioni. “Quali idiozie raccontate!?”, lo biasimò l’altro. “I nostri uomini si stanno piegando, uno ad uno, come grano al fortunale, e voi siete qui a sostenere stoicamente le vostre ragioni? Non è cosa!Inviterò tutti alla resa!”, sostenne Aurelmo.

4


“No! Sarebbe un grave errore! Ci cattureranno tutti e ci condanneranno alla forca. Bruceranno le nostre case e allontaneranno le nostre famiglie dalla loro terra. Non fatelo!”, gli intimò. “Attenti voi due! Guardatevi alle spalle!”, intervenne un “bianco”, nell’osservare un nemico brandire la spada contro l’inconsapevole Dante. Aurelmo, accolse prontamente l’invito di quel gregario, frapponendosi tra Dante, colto di sorpresa, e l’avversario. L’azione del rivale, però, fu talmente veloce e decisa da sfuggire al contrapporsi della lama da lui impugnata, trapassandolo al fianco. Aurelmo, sebbene piegato alla bramosia della morte, con un’ultima energica reazione, guidò la sua spada contro l’addome dell’avversario, che rovinò agonizzante al suolo. “Aurelmo, non temete. Vi starò vicino! Non permetterò che la morte vi rapisca.”, gli riferì Dante, precipitandosi al suo fianco. “Non preoccupatevi di me!”, accennò Aurelmo, con un filo di voce. “Salvatevi! Fuggite da questo luogo ostile. Fate che il mio sacrificio non risulti vano.”, pronunciò, infine, congedandosi dal mondo terreno con un’espressione fiera disegnata in volto. Dante, affranto e addolorato, si lasciò catturare dall’immagine di quell’eroica figura distesa sul terreno, la cui ardimentosa azione gli aveva salvato la vita e cui mai avrebbe potuto ringraziare. Mesto, osservò il sangue liberarsi da quella ferita mortale e conquistare lembi di quel terreno ingrato, padre di una guerra fratricida, capace di negare, con assoluta leggerezza, quanto donato prima faticosamente. E, trascinato nell’abisso dei vorticosi pensieri e delle contrastanti emozioni, che si avvilupparono alle sue carni, rendendolo pressoché inerme, ebbe giusto il tempo di levare lo sguardo per accorgersi, con sommo rammarico, del sopraggiungere di un drappello di “bianchi” che, abbandonate le armi, si diede a precipitosa fuga, evitando l’avanzata di un fiume di nemici che, come la più violenta delle pestilenze, mieteva vittime senza piegarsi al perdono. “Ritirata! Ritirata!”, urlarono trepidanti gli ultimi supersiti tra i “guelfi bianchi”. “Uccidiamolo tutti!”, tuonò la reboante masnada di “guelfi neri” che, durante l’inarrestabile avanzare, alimentato da cieco odio e sconfinata violenza, incendiava le abitazioni appartenute ai “bianchi”, impedendo alle famiglie ivi rifugiatesi di scampare all’agonia del rogo, e quando queste comunque vi riuscivano nulla potevano contro i loro spietati acciari. Di tutte le guerre intestine che avevano violato il fervore di Firenze questa aveva assunto dei connotati terribili: ai “guelfi neri”, nella continua contrapposizione ai “bianchi” in merito alla gestione del territorio, non bastava più il solo imporre la propria egemonia sugli sconfitti ma, piuttosto, porre in essere una spietata caccia all’uomo ad oltranza. Braccato dagli inseguitori, Dante, che sentiva le gambe flettere per la stanchezza, e i polmoni tormentargli il costato per l’immane sforzo, riuscì a far perdere le proprie tracce inabissandosi nelle fredde acque dell’Arno, alle cui correnti, ormai provato dall’estenuante fuga, non riuscì ad opporsi e dalle quali non sarebbe più riemerso se non grazie al fortunato passaggio di un tronco in galleggiamento, al 5


quale si aggrappò, lasciandosi trasportare verso ignote distanze, mentre gli arti erano tormentati dal suo immane sforzo. Quando, ai margini di una secca, quell’estenuante viaggio ebbe termine, il sole, già timido e poco generoso durante quel periodo dell’anno, aveva da poco cominciato a cedere il passo alle insaziabili tenebre, che lembo dopo lembo, stavamo risucchiando impunemente in sé i meravigliosi colori del tramonto che, rischiarandosi negli occhi del superstite, avevano accesso in lui la fiamma della speranza e della salvezza. Dante, dopo un immane sforzo, accompagnato da dolorosi mugugni, riuscì a malapena a mettersi in piedi ma, non appena provò a muovere qualche passo per guadagnare i margini della riva, sentì il cuore pulsare incontrollato, le tempie tamburellare, lo sguardo confondersi e i sensi venire meno improvvisamente: scampato alla violenza del nemico ma non a quello della fatica, cadde esanime, abbandonato a se stesso, fino al successivo albore. Bagnato dalla fresca brina mattutina, Dante si destò dallo stato di semicoscienza nel quale era caduto e, con lo sguardo ancora incerto, osservò il cielo rischiararsi lentamente e mostrare un paesaggio a lui completamente sconosciuto: una piccola radura di forma circolare abbracciata dagli imponenti alberi di una foresta, fitta e imperscrutabile, gli si palesava sorprendentemente innanzi, celando ai suoi occhi sgomenti ogni altra via. “Quale brutto scherzo del bizzarro destino è mai questo?”, si domandò, incredulo. Si girò su stesso per osservare meglio quel luogo: nulla lo riconduceva all’esperienza vissuta il giorno precedente. Lo sguardo cadde istintivamente sulle vesti fradice, ancora incollate al proprio corpo, e, nel sollevare un lembo della manica, osservò l’avambraccio ferito e tumefatto a causa dello sforzo immane compiuto nel reggersi a quel tronco alla deriva. “Cosa ne sarà stato delle perigliose acque dell’Arno? Cosa ne è stato di quel tronco che mi ha tratto in salvo, arenandosi su quella secca?”, si domandò, incapace di accettare quella strana realtà. Trascorse diverso tempo assorto nei propri pensieri, incapace di prendere una decisione, fin quando, stanco del suo stesso tentennare, terrorizzato dall’irreale silenzio di quel luogo, decise, comunque, d’inoltrarsi in quella selva dall’aspetto oltremodo ostile, i cui alberi, dal fusto enorme e slanciato, e dalle rigogliose fronde, possedevano radici lunghe e nodose che, estendendosi nervosamente sul terreno, rendevano lento e difficile l’incerto cammino, già ostacolato dalla tenue luminosità, che sporadicamente filtrava da qualche squarcio nella vegetazione, rendendo quel tetro paesaggio davvero terrificante. E il terrore cresceva ogni volta che Dante, tradito dallo scalpitare del cuore, incendiato dalle paure che in sé covava, e dal vacillare della mente, incapace di donargli un barlume di serenità, riconosceva, tra i colori grigi o quelli scuri come la pece di quel paesaggio, le silenti figure di enormi mostri dagli occhi cavi e dalle torve espressioni, figlie del suo affanno e del proprio tormento. Vagò! Vagò senza mai violare i confini di quel luogo. S’incamminò guidato dalle braccia protese in avanti, percependo, così, gli ostacoli che di volta in volta si frapponevano al suo avanzare. Cadde! Ruzzolò più volte sul terreno ispido, provocandosi ecchimosi ed escoriazioni. Fu prigioniero! Lo fu di una radice che, come una mano spuntata dalle viscere della terra, si avvinghiò alla caviglia 6


impedendogli di proseguire. Lottò! Lo fece aspramente, finché liberatosi da quella presa, claudicante, continuò inesorabilmente a vagare. Infine, stanco, sopraffatto dalla fame e dalla sete, certo di non avere più scampo, si lasciò cadere al suolo, sperando nel provvidenziale giungere della morte, compagna tenebrosa dei momenti nefasti. Invece, dormì! Dormì a lungo, soffocando col sonno il dolore e l’angoscia che gli attanagliavano l’animo. Non morte, quindi, ma speranza e vitale ardore, attraverso il vigore di un raggio di sole che si adagiò sul viso, lo destarono dal sonno, e al suo risveglio, ancora incredulo, ebbe modo di accorgersi che, nel suo incerto vagare, era giunto ai margini di quella terrificante selva che, violata dal calore del sole, cominciava a tingersi dei colori vividi della natura. “Libero!”, esclamò. “Sono, finalmente, libero!”, urlò. Levatosi in piedi, barcollando come un ubriaco, abbandonò quel luogo, catturato dalla luce proveniente dall’esterno. Dante, appena fuori dalla selva, restò ammaliato dalla visione di una piana, dalla rada natura, che s’inchinava ad un alto colle che, irradiato dalla luce del giorno, lambendone le pendici, lo invitava a raggiungerlo. Quindi, mosso da rinnovata energia, indifferente ai sintomi della fame e della stanchezza, s’inerpicò lungo le pendici di quel poggio dorato. Passi decisi, sostenuti da invidiabile determinazione, lo spingevano in alto, sempre più in alto, anche quando quel colle, dapprima modesto nel porgersi alla visione dell’intero paesaggio, diveniva sempre più irto e irraggiungibile quanto un massiccio montuoso. E quando lo sguardo, mosso da istintiva curiosità, volse alle sue spalle, catturato dalla visione di quella selva, che così minuta e lontana non appariva più tenebrosa e inospitale come prima, un sospiro di sollievo gli rese più gradevole quel luogo. Il suo animo, rinfrancato da quella visione, ne temprò gli arti e, ancor più determinato, ritornò ad osservare il sentiero appena intrapreso ma, con amara sorpresa, i suoi occhi sgomenti catturarono l’immagine di una lince che, movendosi veloce e leggera, mostrando le affilate zanne e raspando il terreno con gli acuminati artigli, si frappose al suo cammino, costringendolo ad indietreggiare. Dante, in preda alle spire del terrore, non esitò, e pur di non finire vittima di quel felino dalla pelle maculata, si diede a repentina fuga, ma nella concitazione di quel momento, incespicò sui suoi stessi piedi rotolando giù per il sentiero, riuscendo a frenare la rovinosa caduta, solo quando, pressoché ai piedi del colle, si aggrappò disperatamente al terreno, con la solo forza delle sole dita. Quindi, incollato con la pancia al terreno, guardò verso l’alto, speranzoso di essere scampato alla temibile belva, e, nel non scorgerne la sagoma, si sentì immediatamente rasserenato. Infine, aiutandosi con le braccia, si girò, mostrando lo sguardo al cielo limpido di primavera, ma quando lo ebbe di poco abbassato, inorridito, osservò giungere dalla sua sinistra un leone dagli occhi pregni di malvagità e le fauci spalancate, certo che la sua preda non avesse alcuna via di scampo. “Oh…, Dio! Ma dove diavolo sono finito?”, sussultò in preda al panico. Dante sentì il cuore battergli forte nel petto e la gola stringersi in un nodo che gli toglieva il respiro. “Non ho via di scampo!”, disse, nell’osservare l’aspro pendio che lo avrebbe inesorabilmente rallentato e la discesa che avrebbe, comunque, favorito quell’essere a quattro zampe. Il suo sguardo cadde nuovamente sulla belva, la cui 7


sagoma appariva più vivida ai suoi occhi, ma a sconcertarlo ancora, fino a fargli sprofondare l’animo nelle viscere, fu il sopraggiungere, dalla sua destra, di una lupa, dai fianchi scarni e dalle mammelle penzolanti, che, rabbiosa e affamata, avanzava lentamente, col mento radente il terreno, e con la bocca bavosa segnata da un ghigno raccapricciante. Colto da un ultimo istintivo gesto di sopravvivenza, Dante, assolutamente impotente di fronte alla malvagità di quelle belve assetate di sangue, si levò dal terreno, spingendosi in una disperata fuga verso quella selva ombrosa che, adesso, si dipanava innanzi ai suoi occhi quale unica fonte di salvezza. Quelle fiere, unite dalla stessa bramosia, gli erano ormai alle calcagna. Dante, certo di terminare la sua miserevole esistenza dovendo saziare il loro ventre, fu positivamente colpito dal materializzarsi innanzi a sé della silente figura di un uomo, catturato dall’osservare i segni della paura disegnata sul suo volto e dall’ascoltare le angosciose urla sprigionate dal suo animo. “Abbiate misericordia di me!”, esclamò, rivolgendosi a quell’anonimo viandante dall’evanescente figura. “Vi prego! Abbiate misericordia di me…, che siate uomo o ombra”, disse miserevolmente, non accorgendosi che, all’apparire di quella figura, quelle belve si erano improvvisamente arrestate. “Uomo…? Uomo lo fui!”, esordì quegli. “Nacqui ai tempi di Giulio Cesare da genitori mantovani e vissi sotto il dominio dell’Imperatore Augusto, in un’epoca governata da divinità false e bugiarde”. E, piuttosto che rivelargli il nome, preferendo che fosse lo stesso Dante a riconoscerlo, disse: “Fui poeta e cantai del figlio di Anchise che venne da Troia dopo che questa andò distrutta”. Poi, interrompendo il suo interessante racconto, domandò: “Ma tu perché sei ritornato nel luogo della tristezza e dell’angoscia? Non potevi risalire il dilettoso monte, fonte e ragione di salvezza?”. “Oh…, Virgilio”, replicò Dante, avendo riconosciuto in lui il sommo poeta romano, “più che il monte siete voi la mia unica fonte e ragione di salvezza”. E, nel tentativo di convincerlo ad ottenere la sua intercessione, disse: “Voi che siete orgoglio ed esempio per tutti noi, poeti, non tradite il grande amore che ho nutrito per la vostra opera. Voi siete il mio solo ed unico maestro e autore. Siete fonte dello stile che mi ha reso onore. Vi prego aiutatemi a fuggire da quelle bestie!”, esclamò, infine, tra le lacrime. E, nel voltarsi per indicarle, ebbe modo di accorgersi della presenza della sola lupa che, tra quelle fiere, pareva la più temibile. Poi, nel rivolgersi a Virgilio, disse: “Salvatemi da quella lupa che, tra tutte , è quella che più mi terrorizza!”. Il sommo poeta, mosso a compassione, gli riferì: “Se vuoi fare salva la tua vita in questo luogo selvaggio è un’altra la via che devi intraprendere. Quella bestia, che tanto temi, non lascia passare nessuno per la sua strada; la sua natura selvaggia la spinge ad uccidere e a nutrirsi delle carni delle sue vittime. Essa è insaziabile! Dopo avere mangiato, infatti, torna ad essere più affamata di prima. Molti sono gli animali come il leone e la lince con cui si accoppia, e mai smetterà di farlo, finché non sarà giunto il “veltro”, spietato cacciatore sotto le spoglie di un cane, che la inseguirà di città in città, per ogni terra e confine; una volta stanata, la ucciderà con irrefrenabile ardore e ne spedirà l’anima all’Inferno, luogo dal quale Lucifero la liberò”.

8


Quelle affermazioni di Virgilio non fecero altro che aumentare l’angoscia di Dante. “Allora… la lupa tale non è?”, pensò inorridito. E, ancora: “Chi si celerà mai sotto le spoglie del veltro?”. “Se la natura è così selvaggia, allora, non ho più scampo?”. Virgilio, testimone dei suoi convulsi pensieri, esortato da quegli interrogativi che mai conobbero il calore del suono, disse: “Se la tua salvezza vorrai, non dovrai far altro che seguirmi. Ti mostrerò la via! Anzi, sarò io stesso a guidarti attraverso il luogo ove tutto è eterno, in cui ascolterai le urla disperate di spiriti dolenti, che stanchi delle immemori sofferenze loro inflitte, invocheranno la morte che mai li grazierà. Osserverai, ancora, coloro che accoglieranno con gioia i supplizi loro offerti perché è grazie a questo che sperano di ascendere tra le sfere dei beati. E, se vorrai ancora, ti sarà mostrato un luogo in cui sarai accompagnato da un’anima di me assai più degna. Con lei salirai in quel luogo a me interdetto perché ripudiai la legge di colui che in ogni tempo e in ogni luogo regna. Quello è il luogo in cui Egli risiede e dal quale Egli governa, ed in cui è felice chi è invitato a restare”. Quel lungo e sommesso annuncio colse di soprassalto l’ignaro Dante che, nell’apprendere del lungo viaggio da compiere attraversando le torve fiamme dell’Inferno, fino a giungere, dopo aver lasciato il Purgatorio, alle celestiali pendici del Paradiso, domandò: “Maestro che ne è stato di me? Anch’io ho abbandonato la mortale condizione di uomo?”. Virgilio lo osservò con aria compassionevole e, con un sorriso appena accennato, gli riferì: “Tu, mio discepolo, sei carne e non ancora spirito. E’ una condizione, quella, che ti guadagnerai solo col tuo pellegrinaggio”. Dante, infine, consapevole di poter contare sulla sola protezione del sommo autore, disse: “Maestro…, accetto Dio con le sue leggi e non vi biasimo. Accetto di seguirvi, senza altro domandarvi, pur di fuggire da questo luogo malvagio, certo che mi accompagnerete lì dove avete promesso di condurmi, sicché io possa giungere fino alla porta di San Pietro, lasciandomi alle spalle il respiro dei dannati”. Virgilio lo osservò in volto, carpendone la ferrea determinazione. Quindi, fece un cenno di approvazione e, nel percorrere la via della salvezza, lo invitò a seguirlo.

9


Capitolo Nono La città dolente “O cacciati del ciel, gente dispetta,” cominciò elli in su l’orribil soglia, “ond’esta oltracotanza in voi s’alletta? Perché ricalcitrate a quella voglia, a cui non può il fin mai essere mozzo, e che più volte v’ha cresciuta doglia?” (Inf., IX, vv. 91-96)

Il pallore dipinto sul volto di Dante, vittima di quelle paure che lo assalirono nell’osservare il mesto ritorno di Virgilio, si attenuò solo alla vista del volto intriso di rabbia del Maestro. Più che le rassicurazioni ricevute poco prima, quindi, furono lo sguardo severo e la truce espressione disegnata sul viso del poeta mantovano a indurlo a celare l’umile condizione in cui versava il suo miserevole animo. In preda all’imbarazzo, incapace di domandare o aggiungere altro rispetto a quello che gli era stato già riferito, lasciò che il suo sguardo si perdesse fino alle alte mura dell’oscura città, abbandonate dalla miriade di diavoli, che qualche attimo prima svettavano sulla loro sommità. Uno strano silenzio, più pesante di un macigno, rese quel torbido paesaggio più tetro e angosciante di prima; Virgilio attratto da uno strano suono, che Dante non percepì, tese l’orecchio, soffermandosi parecchio nel tentativo di comprendere quello che ai suoi occhi era negato a causa dell’oscurità e della fitta coltre caliginosa. “Eppure…, vinceremo questa battaglia”, ritornò a dire. “Salvo che….”, s’interruppe, ricredendosi, “ella ci offrì il suo aiuto”, palesò con convinzione. “L’attesa mi snerva!”, esclamò febbricitante. 10


Non ci volle molto a comprendere lo stato d’animo di Virgilio, anch’egli timoroso e sopraffatto da incessanti incertezze, soprattutto nell’ascoltare il suo ultimo parafrase, apertamente in contrasto con quanto riferito qualche istante prima. Più che l’intero parafrasare fu, piuttosto, quell’espressione tronca a destare in Dante maggiore preoccupazione, poiché il sottacere di Virgilio pareva celare una realtà assai più triste. I timori, le perplessità, le incognite che quel cammino riservava loro, indussero Dante ad osare nel domandare a Virgilio quello che spesso conviene non sapere ma che, altrettanto spesso, converrebbe conoscere per prepararsi meglio ad affrontare il proprio destino. Così, motivato da questo sentimento, domandò: “E’ accaduto mai che qualcuno, dal primo cerchio, pur consapevole di non avere alcuna speranza di salvezza, sia disceso fino a questo punto del baratro infernale?”. “E’ capitato assai di rado”, disse Virgilio, “che qualchedun altro abbia compiuto il mio stesso cammino. Vero è che, già in un’altra occasione, sono stato obbligato a discendere quaggiù da quella crudele di Eritone, nel suo accanito ricongiungere le anime ai corpi, cui erano appartenute. Ero deceduto da poco tempo quando ella mi fece entrare tra quelle mura, a recuperare un’anima condannata a restare nello stesso cerchio occupato da Giuda”. Poi, non essendogli sfuggita l’allusione di Dante nel suo sottile domandare, precisò: “Ho la certezza di ben conoscere il percorso che ci condurrà fino al punto più basso e più oscuro di questo luogo, nonché il più lontano dal Paradiso. L’unica via per giungere alla città dolente, ove non possiamo entrare senza usare la forza, è attraversare questa palude dal lezzo repellente, che ne circonda le mura per tutto il perimetro”, sostenne animatamente. Il soliloquio di Virgilio continuò per diverso tempo e, sebbene fortemente nutrito e oltremodo interessante, non riuscì a catturare del tutto l’attenzione di Dante, che si lasciò distrarre, invece, dalla visione di tre Furie infernali, levatesi improvvisamente dalla cima rovente di un’alta torre situata nella città di Dite. Femminili nell’atteggiamento, così come nelle sembianze, completamente nude e con la pelle di un rosso sangue, erano cinte in vita da verdissime idre. La visione di quelle temibili creature destò ancor più timore nell’animo dello sbigottito Dante, soprattutto quando ebbe modo di accorgersi che la loro testa era orribilmente ornata da serpentelli e ceraste. Anche Virgilio non poté non notare il sopraggiungere delle meschine servitrici della regina degli Inferi e, rivolgendosi al timoroso discepolo, disse: “Guarda…! Le feroci Erinni!”. Dante restò rapito dall’osservare quelle creature che, col loro poderoso battere d’ali, squarciavano il cielo scuro, avanzando pericolosamente nella sua direzione. E quando furono abbastanza vicine, iniziando a volteggiare minacciosamente sulle loro teste, Virgilio, gli riferì: “Quella che vedi provenire dalla tua sinistra è Megera. Quella, il cui verso sembra un pianto, invece, è Aletto. Tesifone è quella nel mezzo”, precisò, chiudendosi poi in un inspiegabilmente quanto preoccupante silenzio. Il volo di quelle creature, dalle ali scure e scevre del piumaggio, come quelle di un pipistrello, si fece improvvisamente più radente e minaccioso, tanto che il terrorizzato Dante poté leggere la malvagità imperniata nel loro truce sguardo. Poi, al fine di incutere maggior timore nell’animo dei due visitatori, le tre Furie 11


cominciarono a fendersi il petto con gli acuminati artigli, a percuotersi violentemente con il palmo delle mani e ad emettere stridenti urla. Dante, colpito da quello stridere, penetrante più di una freccia scoccata da un arco, portò immediatamente le mani alle orecchie, lasciandosi cadere ginocchia al suolo, volgendo lo sguardo terrorizzato, disegnato su di un volto cereo e pregno di sudore, a quelle creature, dalle quali sapeva di non avere alcuno scampo. Predatrici assetate di sangue, inebriate dall’odore del terrore esalato dalla pelle della loro preda, continuarono il loro perverso gioco per lunghi attimi, fin quando Dante, ancora in preda alle spire del terrore, si levò inaspettatamente in piedi, raggiungendo rapidamente Virgilio, al quale si strinse saldamente. Il Duca sembrava assente: così parve in quegli attimi concitati al suo disperato discepolo, ma, altrettanto assente pareva essere agli occhi di quelle temibili creature, che mostravano sdegno e rancore unicamente verso quell’umano. “Che venga Medusa…, così lo faremo diventare di pietra!”, urlarono in coro, osservandolo dall’alto. “Facemmo male a non vendicare l’aggressione di Teseo!”, si rimproverarono, nell’osservare impunita la presenza negli Inferi di un altro umano, ancora mosso dall’alito della vita. Virgilio, che fino a quel momento era stato silente spettatore, riprese immediatamente in mano il controllo della situazione, e, nell’udire il minaccioso inveire delle tre Furie, animato da prorompente determinazione, rivolgendosi a Dante, disse: “Voltati e tieni gli occhi chiusi! Se Medusa, la Gorgone, dovesse improvvisamente apparire, catturando il tuo sguardo col suo, non ti sarebbe più possibile fare ritorno nel tuo mondo!”. Quindi, preoccupato per le temibili capacità di Medusa, pur essendosi tenacemente raccomandato col suo allievo, movendosi con decisione e rapidità, preferì, comunque, voltarlo all’indietro e, nel comprimere il palmo delle sue mani sul dorso di quelle di Dante, già all’altezza delle palpebre, si assicurò che continuasse ad avere gli occhi ben serrati. Dante, il cui sguardo era ben celato dalla forte pressione esercitata da Virgilio, udì provenire dalla palude, esattamente in quello stesso istante, un rumore fragoroso e terrificante, tanto da far tremare entrambe le sponde dello Stige, del tutto simile a quello prodotto dal vento impetuoso di una violenta tormenta che, abbattendosi contro la foresta, senza trovare alcun impedimento, spezza i rami degli alberi, li scaglia a terra, li trascina fuori e, col suo travolgente avanzare, sollevando nugoli di polvere, mette in fuga bestie e pastori. Virgilio, abbandonò inaspettatamente la salda presa, liberando gli occhi di Dante, al quale riferì animatamente: “Dirigi il tuo sguardo sulla superficie schiumosa dell’antica palude, nel punto in cui la coltre nebbiosa è più intensa!”. Dante seguì quel suggerimento, senza domandare. Come le rane, che all’apparire dell’ostile biscia, si disperdono nelle acque fino a trovare riparo ammucchiandosi sul solido terreno, così, Dante, ebbe modo di osservare migliaia di anime impaurite darsi alla fuga al sopraggiungere di una figura che, attraversando lo Stige, camminava sulle luride acque senza neppure bagnarsi le piante dei piedi. Durante il suo sicuro incedere, l’unica preoccupazione che lo attanagliava pareva essere solo quella di allontanare dal viso la fitta nebbia che lo avvolgeva, movendo spesso innanzi a sé la mano sinistra. 12


Ben presto, Dante ebbe modo di comprendere che quella era una Creatura Celeste, giunta in quel luogo per volere del Paradiso. Lunghi e setosi capelli dorati ne avvolgevano il volto dall’eterea bellezza, i cui tratti non lasciavano intendere alcuna meschina sessualità. Due enormi ali, dall’eburneo candore, spuntavano dalle morbidi spalle celate da una candida veste. Un’aurea evanescente ne avvolgeva la sagoma, esaltando l’impareggiabile bellezza della sua figura. “Come ho potuto mai dubitare!?”, si rimproverò, soffocando nell’animo quel pensiero che mai avrebbe avuto il coraggio di palesare al suo maestro. Poi, elettrizzato da quella visione, volse lo sguardo a Virgilio cercando un segno d’intesa. Il saggio maestro, invece, gli fece cenno di tranquillizzarsi e di chinarsi innanzi a quella celestiale presenza. L’Angelo lambì appena il terreno, senza neanche fermarsi: proseguì dritto, senza esitazioni. Al suo passaggio i due poeti si inchinarono. Dante, nell’osservarlo in viso, pensò: “Ahi…! La sua espressione mi è parsa davvero piena di sdegno”. Giunto innanzi alle mura della città di Dite, quell’Angelo, con l’aiuto di una sola verghetta, ne aprì le porte senza difficoltà. Poi, ancora ai piedi del portale, rivolgendosi agli abitanti di quel luogo, disse: “O creature cacciate dal cielo, esseri reietti, da cosa ha origine la tracotanza che serpeggia in voi? Perché mai vi opponete a quella volontà il cui fine non può essere impedito e che più di una volta ha accresciuto il vostro dolore? Quale giovamento potrete trarre nell’ostacolare il volere divino? Se ben ricordate”, disse minaccioso, nel rimembrare loro la grandezza di Dio, “il vostro Cerbero è ancora privo del pelo sul mento e sul collo”. Terminata quell’invettiva, la Creatura Celeste abbandonò quel luogo tornando indietro per le paludi, e, nel suo fugace passaggio innanzi a Dante e Virgilio, non si preoccupò nemmeno di riferire loro una sola parola: si limitò ad osservarli con l’espressione di chi ha altri più importanti e urgenti impegni da assolvere. I due poeti, allo scomparire dell’angelica Creatura, ormai risucchiata dalla coltre caliginosa, si avviarono verso la città di Dite, rassicurati dalle sante parole espresse in quell’accesa invettiva contro i demoni custodi di quel luogo. Quindi, giunti innanzi al nero portale lo attraversarono senza incontrare alcun impedimento. Dante, soffocata ogni paura, si sentì incoraggiato, nel continuare in quell’impresa, dall’ardente desiderio di conoscere quali fossero le pene inflitte, serbate ai peccatori tra le mura di quella fortezza. E, infatti, non appena furono entrati, cominciò a guardarsi attorno. Osservò, sia nel volgersi a destra che a sinistra, un’enorme pianura satura di dolore e lacerata da tormenti. Come ad Arles, ove il Rodano stagna, e come a Pola, presso il Quarnaro, che delimita l’Italia e ne bagna i confini, così apparivano lì, ovunque guardasse, salvo che per la condizione meno dignitosa, le disparate sepolture sparse tra ardenti focolai, erano divenute talmente roventi da esserlo più del ferro lavorato da un mastro ferraio. Le tombe erano tutte scoperchiate e, dal loro interno, si levavano lamenti così disperati che non potevano che appartenere ad anime sottoposte a gravi afflizioni e pesanti tormenti. In quella lugubre visione, i confini della città di Dite sembravano insuperabili. A parte le alte e fiammeggianti torri, non vi erano altre strutture, salvo i suoi custodi, dei quali, sebbene scomparsi nel nulla, avvertiva l’opprimente sguardo. 13


Quella città, se mai in passato avesse ospitato palazzi o qualsiasi altra forma di architettura, non era altro, da quello che adesso appariva, che un anonimo sepolcreto. Sul suo terreno, nero come la pece e solido come il granito, anonime tombe, prive di vessilli e scevre di dignità, sembravano moltiplicarsi a vista d’occhio. Da queste, del tutto prive del coperchio sepolcrale, si levavano scoppiettanti fiamme il cui divampare sembrava animato dai tormenti di ciascun dannato. La luce vibrante e irreale di quei focolai si rifletteva ovunque: sull’arido terreno, le cui zolle parevano ardere; sulla pelle di Dante, tormentato dal calore soffocante; su quello di Virgilio, la cui aura sembrava mutare continuamente colore. Le fiamme erano troppo forti e intense per lasciare intravedere cosa si celasse in quei sepolcri; Dante, mosso da insaziabile curiosità, rivolgendosi a Virgilio, disse: “Maestro, chi sono quelle genti che, seppellite in quei sepolcri, si manifestano a noi con quei dolorosi lamenti?”. “Qui sono puniti gli eresiarchi di ogni setta, con i loro seguaci. E quelle tombe ne sono piene più di quanto tu possa immaginare”, gli rispose Virgilio. “Ogni eretico è sepolto con quanti sono appartenuti alla propria setta, e le tombe che li ospitano sono più o meno roventi a seconda delle colpe di cui si sono macchiati in vita”. Ciò detto, lo invitò a seguirlo, incamminandosi lungo il sentiero che, volgendo a destra, passava di mezzo a quel luogo di supplizi, permettendo loro di raggiungere le alte mura.

14


Capitolo Dodicesimo Il Flegetonte e i Centauri nella terra del Minotauro “e ‘n su la punta della rotta lacca l’infamia di Creti era distesa, che fu concetta nella falsa vacca: e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui l’ira dentro fiacca.” (Inf., XII, vv. 11-15)

Lo scarno paesaggio, fatto di nuda roccia e solido terreno, scemando lungo difficili e quasi impraticabili pendii, volgeva lentamente all’entrata del settimo cerchio: quello in cui erano relegati alcuni dei discendenti di Adamo ed Eva, macchiatisi dei peggiori tra i peccati che Dante aveva fino a quel momento incontrato. I due arditi viaggiatori, per giungere in quell’ennesimo luogo di penitenza, si avventurarono lungo un pendio, privo di alcun praticabile sentiero, che per l’orrore causato dal profondo precipizio nel cui mezzo si sviluppava, e per quello provocato da ciò che in quel cerchio era ospitato, avrebbe spinto chiunque ad evitare di guardare al suo interno. Quell’aspra “ruina”, che si allungava verso l’orribile voragine, ricordava, per le sue caratteristiche, quella che si era generata, a causa di un terremoto o, forse, per la continua azione erosiva delle acque, dal fianco del monte che, diroccandosi, da Trento rovinò sugli argini del fiume Adige. Di quel che restava di quella montagna, dal suo vertice ai piedi, si creò uno strapiombo talmente vertiginoso che, a chiunque si fosse trovato in cima, pareva di non avere alcuna possibilità di giungere a valle: tale si mostrò, sin dalle prime battute, l’avventurosa discesa di Dante. Virgilio, grazie alla sua eterea consistenza, sembrava appena lambire il costone roccioso. Nella sua discesa, sicura e determinata, procedeva indisturbato, 15


preoccupandosi, di quando in quando, di rallentare o fermarsi ad aspettare Dante, impegnato, suo malgrado, in un lento e difficoltoso digradare gravato, soprattutto, dalla ripidezza del costone roccioso, alquanto instabile e franoso. I suoi passi si susseguivano con fare assai cauto ma, spesso, era costretto a discendere “spalle al suolo” o, altre volte ancora, ad aggrapparsi con tenacia, lambendo la roccia col viso. E, ogni volta, al più piccolo crepitio del terreno, col conseguente rotolare in basso di sassi e detriti, il cuore pareva scoppiargli nel petto e il corpo fremere incontrollato. Sebbene febbrilmente impegnato in quell’ardimentosa discesa, Dante notò, senza negare meraviglia, arrampicato lungo quello stesso costone, l’orribile custode di quel luogo: il Minotauro. Un essere concepito per mezzo di una finta vacca, figlio del disonore di cui si macchiò Creta. Alto almeno quanto due uomini, più vigoroso di maschi addestrati all’uso delle armi, quell’essere aveva il corpo umano ma la testa taurina. La pelle brunastra, su quel corpo nerboruto, era ricoperta di pelo animale, e lo era, in maniera più ampia, estesa sul torace, in prossimità dei piedi, sul dorso e sulla robusta coda. Sguardo minaccioso, narici allargate per il continuo sbuffare, sembrava sprigionare ferocia da ogni poro della sua pelle. La qual cosa, tra l’altro, trovò immediata conferma quando, il Minotauro, nello scorgere la presenza dei due visitatori, sopraffatto dall’ira, cominciò a mordersi rabbiosamente. Lo fece svariate volte, incurante del dolore che i suoi possenti incisivi gli provocavano, affondando nella callosa pelle, dalla quale si aprivano rivoli di sangue che lo tingevano immediatamente di rosso, facendolo apparire, allo sguardo già inorridito di Dante, ancora più mostruoso e terrificante di come si era precedentemente mostrato. Avrebbe ridotto i suoi arti superiori a brandelli se il saggio Virgilio non fosse intervenuto prontamente, gridandogli contro: “Credi di trovarti innanzi al ‘Duca di Atene’, che ti condusse alla morte nella tua esistenza terrena?”. Il Minotauro, nell’udire Virgilio, cessò di martoriarsi le carni. Alzò lo sguardo, ancora intriso di rabbia, e, rivolgendolo ai due inaspettati ospiti, mostrò un ghigno terrificante, liberando dalla bocca rivoli di sangue che, intrisi di bava, scivolarono languidamente sull’ispido torace. “Fatti da parte, bestia!”, gli intimò Virgilio, con tono autorevole. “Costui”, disse, indicando il suo discepolo, “non è giunto in questo luogo addestrato da tua sorella, ma solo per conoscere le vostre pene”. Nell’udire quell’ulteriore provocazione, che andò inevitabilmente ad aprire ferite che mai, in quell’animo ribelle, si sarebbero rimarginate, quell’umanoide dalle sembianze di toro sentì il furore crescere vertiginosamente, tanto che cominciò ad agitarsi come quel toro che, colpito da un fendente mortale, salta, roteando su se stesso, e si dimena convulsamente. Dante restò impietrito nell’osservare quell’inspiegabile reazione. Le parole di Virgilio, ritemprando le reminiscenze di un mesto passato, colpirono quell’essere come dardi arroventati ma, fortunatamente, la sua ira, levatasi alta come le fiamme di un indomabile incendio, gli aveva offuscato la ragione, spingendolo a tormentare se stesso, piuttosto che investire i due poeti con il suo bestiale vigore.

16


Virgilio, invece, nell’osservare la reazione di quella creatura, urlò alla volta del suo discepolo: “Corri al varco! E’ meglio scendere adesso, approfittando del fatto ch’è in preda alla furia!”. Dante, scosso dall’intimazione del suo maestro, cominciò a discendere, muovendosi grottescamente, anche a causa dello stato di agitazione che lo tormentava. Virgilio gli fu immediatamente alle costole. Insieme, quindi, presero a digradare quel costone friabile che, al solo passaggio di Dante, pareva agitarsi sotto i piedi, a causa del proprio peso. Quell’aspra discesa, che dall’alto riservava una vista piuttosto confusa del fondo valle, sembrava interminabile. Lo sbraitare e il convulso mugugnare del Minotauro si percepivano in maniera sempre più tenue. Dante, all’ennesimo crepitare del terreno, arrestò il suo cammino e, poggiandosi ad un solido spuntone roccioso, sollevò lo sguardo, rapito dalla visione di quella creatura che, dopo tutto quel tempo, era ancora in preda ai fumi dell’ira. A Virgilio, che si trovava molto più in basso, non sfuggì l’atteggiamento del suo discepolo, il cui stato d’animo traspariva dallo sguardo spento e pensieroso, e, non appena lo ebbe raggiunto, con tono sereno e accomodante, gli domandò: “Stai pensando, forse, alla frana custodita da quella bestia irosa che ho reso innocua?”. Dante annuì. “Voglio che tu sappia”, gli riferì Virgilio, “che quella volta che discesi quaggiù, nel basso Inferno, questo pendio non era ancora franato. Ma se ben ricordo, poco prima che ‘venisse Colui’ che strappò dalle mani di Dite il glorioso bottino del cerchio superiore, il profondo abisso tremò tutto, tant’è che credetti che l’Universo fosse in preda a quell’amore che, secondo alcuni, ha più volte indotto il Mondo nel caos. Fu allora che questo vecchio costone, qui, come accadde altrove, franò. Ma guarda attentamente a valle!”, disse, poggiando una mano sulla spalla di Dante e con l’altra nell’atto di indicare il basso. “Ci stiamo avvicinando al fiume di sangue bollente, in cui sono immersi coloro i quali sono stati violenti verso il prossimo”. Nell’osservare un ampio fossato circolare, che abbracciava tutto il perimetro del settimo cerchio, come già gli aveva spiegato il suo accompagnatore, il cuore di Dante sussultò. E, nell’intimità del proprio animo, un compassionevole pensiero si levò verso quei reietti, macchiatisi di quei gravi peccati. “Oh…, cieca cupidigia! Oh… folle ira, prima muovi le nostre azioni nella vita terrena, e, poi, in tanto dolore ci immergi in quella eterna”, esternò, immerso in quell’orripilante visione. La discesa verso il fondo della valle, man mano che la frana si digradava, liberava, agli occhi increduli di Dante, un paesaggio mostruoso e sempre più terrificante. Le atroci urla di quelle anime, straziate dal ribollire del fiume di sangue, giungevano sempre più acute. Quei dannati, nel continuo dimenare gli arti o il capo, finivano spesso sotto la superficie del fiume, e, riemergendo di tanto in tanto, mostravano il proprio aspetto, straziato dal pesante supplizio. Erano davvero innumerevoli, tanto che Dante, nel continuo rincorrere con lo sguardo quello scempio di anime, ebbe modo di comprendere che davvero enormi dovevano essere le profondità di quel fiume, le cui correnti erano contenute da roccia lercia e aguzza. Ben presto, però, il suo sguardo fu catturato dalla visione, sul varco creatosi tra la 17


base del dirupo e la fossa, di alcuni Centauri, raccolti in formazione, che correvano armarti di frecce, come solevano fare sulla Terra, quando andavano a caccia. Mitologiche figure, dalla parte superiore umana e col resto del corpo dalle sembianze equine, al suo sguardo compiaciuto apparivano: fiere, come emergeva dal dignitoso portamento; forti, per l’erculee fattezze; poderose ed eleganti, come i destrieri alla cui natura, almeno in parte, appartenevano. Alla vista di quei Centauri, impegnati nel tenere lontano dalle sponde del fiume i più temerari tra quei dannati, non sfuggì la discesa dal dirupo dei due insoliti visitatori. Tutti si fermarono immediatamente, osservandoli con aria minacciosa; tre di essi, invece, si allontanarono dal manipolo, con archi e frecce già in tiro. Uno di questi gridò da lontano: “A quale supplizio venite incontro voi, che scendete dal dirupo? Ditelo da lì, ove vi trovate, o tendo contro di voi l’arco!”. Virgilio, ostentando la consueta sicurezza e determinazione, disse: “Risponderemo solo a Chirone, non appena vi saremo abbastanza vicini!”. E, con tono aspro, gli riferì ancora: “Lo sai che il tuo essere così impulsivo si ritorce sempre in tuo danno?!”. Il Centauro, non accusò bene il colpo: s’impennò sugli arti posteriori, scalpitando nervosamente con quelli anteriori, puntando, poi, il minaccioso dardo alla volta di Virgilio. Poi, ritornato a toccare il terreno con tutti e quattro gli zoccoli, cercò un cenno d’intesa dal Centauro al suo fianco che, invece, col solo cenno della mano, lo riportò alla calma. Quello pareva essere il comandante della guarnigione. Dante osservò preoccupato le bizzarrie di quel Centauro che, dopo l’intimazione a ritornare all’ordine espressa dal proprio comandante, ancora in preda ai fumi della rabbia, se ne stava con lo sguardo proteso in avanti, puntandoli minaccioso, mentre con la zampa anteriore raspava animatamente il terreno. Virgilio, nel percepire lo stato d’animo del suo discepolo, gli poggiò la mano sulla spalla, riferendogli: “Quello è Nesso, morto per la bella Deianira; egli stesso riuscì, con un astuto stratagemma, a vendicare la sua stessa morte. E quello che sta al centro, con lo sguardo abbassato, è il grande Chirone, colui il quale addestrò Achille. Quell’altro, invece, è Folo, da sempre così iracondo. Girano attorno a quel fossato in migliaia e migliaia”, disse, indicando il polverone sollevato da altri drappelli di Centauri armati di tutto punto, “colpendo con le frecce qualsiasi anima tentasse di uscire dal fiume di sangue, infierendo contro di loro con maggiore crudeltà di quella che richiederebbe la loro colpa”. Terminata la sua precisa elocuzione, Virgilio invitò il suo discepolo a seguirlo nella discesa. Giunti finalmente ai piedi del pendio i due visitatori giunsero ai cospetti dei tre Centauri. L’intimidito Dante, sovrastato dalla possente figura di quelle creature, preferì, comunque, restare alle spalle di Virgilio. Anche una parte del drappello dei Centauri, quello non impegnato nel continuo stillicidio di dardi, che sembravano inverosimilmente moltiplicarsi nelle faretre, si avvicinò agli altri tre, rimanendo, comunque, alle loro spalle. Chirone raccolse uno strale dalla faretra, armando, così, il suo arco.

18


La tensione in Dante crebbe vertiginosamente. Dal modo in cui il temibile Centauro lo puntava, sembrava, egli stesso, predestinato ramingo degli Inferi, l’unico bersaglio della sete di sangue di quella bizzarra creatura. Quando la cocca della freccia fu abbastanza vicina al viso di Chirone, tanto da comprimergli la folta barba contro la robusta mascella, dalla bocca, ormai, libera dal vigoroso gesto, si levò la sua possente voce. “Vi siete resi conto”, tuonò, rivolgendosi ai propri simili, “che quello, lì dietro, muove tutto ciò che calpesta? Non è questo che solitamente producono i piedi dei trapassati!”. Nell’udire quell’affermazione si levò un forte trambusto, esasperato soprattutto dal loro irrequieto scalpitare. Virgilio, allertato da quello stato di agitazione, avanzò prontamente verso Chirone e, assolutamente indifferente alla sua prestanza fisica, sebbene arrivasse giusto all’altezza del punto in cui la natura umana di quella creatura si congiungeva con quella animale, gli si pose innanzi, in segno di sfida. “Dunque…, è vivo!”, replicò duramente Virgilio. “Ed è a lui solo”, continuò, “che mi è stato comandato di mostrare il baratro infernale. Non è certo per diletto che lo facciamo, ma solo per necessità. Ed è dal luogo in cui si leva la lode a Dio che mi è stato commissionato questo nuovo incarico. Lui non è un ladrone, né io lo sono altresì. Ma in nome della virtù divina, per cui mi muovo attraverso quest’impervio cammino, prestaci uno dei tuoi, al cui fianco rimarremo, perché possa mostrarci il punto in cui il fiume possa essere guadato e che possa portare costui in groppa”, disse indicando Dante, “perché egli non è fatto di spirito e non è in grado di librarsi nell’etere”. Chirone, nell’ascoltare quelle parole e, soprattutto, nel comprendere le vere ragioni del viaggio di Dante negli Inferi, non mostrò alcun segno di disappunto. Anzi, volse lo sguardo alla sua destra e, rivolgendosi a Nesso, disse: “Ritorna sui tuoi passi, e fai loro da guida. Frena le velleità di qualsiasi altra schiera si frapponga al vostro cammino”. Nesso, come ogni buon soldato, osservò scrupolosamente gli ordini impartiti dal suo superiore, senza muovere alcuna obiezione, invitando, poi, quegli intrusi a seguirlo. Dante e Virgilio ripresero, quindi, il cammino con il fido accompagnatore, percorrendo in lungo il tratto di strada che costeggiava le sponde del fiume di sangue ribollente, ove si potevano chiaramente udire le stridule urla dei dannati, sottoposti a quel nuovo supplizio. Quando furono nel tratto del Flegetonte più comodo da guadare, Nesso accolse sulla sua groppa Dante che, da quell’agevole posizione, voltando lo sguardo un po’ a destra e un po’ a manca, poté meglio osservare la moltitudine di anime immerse nel sangue, fin sopra gli occhi. Nesso, nell’accorgersi dell’attenzione che il suo ospite prestava a quella schiera di dannati, disse: “Essi furono tiranni; uccisero e depredarono. E in questo luogo sono puniti per i gravi danni che produssero nella loro vita terrena. In questo fiume”, continuò, “si trovano Alessandro e il malvagio Dionisio, colui che procurò alla Sicilia un lungo periodo di dolore. Quella fronte ricoperta di capelli corvini”,

19


disse indicandola, “appartiene a Ezzelino; quello biondo, invece, è Obizzo d’Este, il quale, ad onore del vero, fu ucciso per mano del suo stesso figliastro”. Nesso fu assai prodigo e sorprendentemente disponibile nei confronti di quell’umano che, almeno in principio, aveva suscitato il proprio sdegno e quello dei compagni, ma, ciò nonostante, Dante, abituato ai favori di Virgilio, cercò istintivamente lo sguardo del suo maestro, dal quale attingere, magari, altre notizie utili ad appagare la sua incolmabile sete di sapere. Il saggio Virgilio, però, conscio che con ogni sua intromissione avrebbe potuto ferire la suscettibilità del fiero soldato, riferì al suo discepolo: “Sia lui, adesso, la tua guida. Io verrò dopo!”. Poco più tardi, Nesso arrestò il suo cammino, giusto nel punto in cui si potevano scorgere una moltitudine di genti immerse in quel bollore all’altezza della gola, segno che il livello del fiume andava via via riducendosi, e indicando, ai suoi due compagni di viaggio, un’anima che se ne stava appartata, riferì loro: “Costui trafisse nella casa di Dio colui il cui cuore, ancora oggi, si venera nei pressi del Tamigi”. Poco più oltre, invece, ebbero modo di osservare genti che emergevano dal fiume di sangue con la testa e tutto il busto. Tra questi, Dante ebbe modo di riconoscerne diversi. Così, man mano che avanzavano, il livello del fiume appariva ai loro occhi sempre più basso, fino a lambire la sola pianta degli zoccoli di Nesso. Fu esattamente quello il punto in cui quel gruppo guadò il Flegetonte e, non appena furono giunti sull’altra sponda del fiume, Dante si lasciò scivolare, con non poche difficoltà, dalla groppa del Centauro, pronto a proseguire il cammino a piedi. Finalmente sulla terraferma, Nesso, rivolgendosi a Dante, disse: “Come potrai notare, il livello del sangue bollente si abbassa progressivamente da questa parte, ma è bene che tu sappia”, disse allargando un braccio sull’altro fronte del fiume, “che dalla parte opposta il suo alveo diventa sempre più profondo e si ricongiunge al punto in cui la tirannia merita di essere punita…”. Poi, scoccata una freccia contro un dannato che aveva osato avvicinarsi troppo alla riva, tornò a riferire: “Da questa parte, la giustizia divina punisce quell’Attila, conosciuto sulla Terra quale flagello di Dio; tormenta Pirro e Sesto. Per l’eternità spreme le lacrime, alle quali apre la via il supplizio del sangue bollente, a Rinieri da Corneto e a Rinieri de’ Pazzi, a causa del terrore che imperversò nelle strade della loro città”. Detto ciò, senza neanche prodigarsi in convenevoli, voltò le spalle ai due poeti e riattraversò il fossato.

20


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.