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© 2008 Edizioni del Vento c.p.405 – 30016 Jesolo Lido (VE) info@edizionidelvento.it ISBN: 978-88-89890-23-3
BONACCIA 1
MOZZICONI Sei storie di Monica Nardozi fumettate da Eugenia Monti
GERTRUDE
Gertrude
– Hai visto? Dio santo è orrenda. – Qualcuno le dovrebbe proibire di vestirsi così. – Mah, secondo me dovrebbero spostarla di là, negli uffici: non si può piazzare Godzilla a contatto con il pubblico! – Dico io, ma non si guarda allo specchio prima di uscire di casa? – Magari evita, per istinto di sopravvivenza. – Cattiva che sei, ah ah ah, ma hai visto come le si attacca alle cosce quella gonna plissettata? – Be’, dico io, santo buon senso, ma lo vedi o non lo vedi che hai un sedere come una portaerei, niente, se ne va in giro fasciata con il taffetà, roba da non crederci. – Certa gente non si rende conto. – Ma perché? – dice poi Luisa, quella più giovane di tutte e con la fica più frequentata dell’emisfero nord. – Vi è mai capitato di fare il turno successivo al suo e occupare il suo sportello? Abbassa un poco il tono della voce. – Mi è successo ieri, giuro su mia madre che stavo per rimettere: il vetro, Gesù, lo dovevate vedere, lercio, trivellato di sputi rappresi, così fitti ma fitti che dall’altra parte dello sportello non si vedeva più niente. – Oh mio dio. – Madonna santa. – Che schifo. – Sto per vomitare. – Ciao, io vado. A domani.
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Ho detto poi io, che erano già dieci minuti che ero lì e quasi quasi mi ero anche divertita. In fondo è simpatico partecipare ai pettegolezzi e se esserne la protagonista è l’unico modo, pazienza: bisogna pur sapersi adattare. Queste sono le mie colleghe della banca Biocredit.
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Ok. Cominciamo. Mi chiamo Gertrude come la monaca e vi dico subito che alla fine del racconto muoio, così, per onestà intellettuale. E perché odio in genere alimentare false speranze. Comunque. Se guardate in questo momento attraverso le mura del mio appartamento, per la precisione nella mia stanza da letto, potete percepire da subito una sorta di atmosfera afosa da pollution notturne. Nella stanza, poi, c’è una donna logora stesa accanto a nessuno. Ecco, quella donna che a prima vista vi fa un certo effetto, quell’effetto lì, quello che state provando, un misto tra la compassione e la ripugnanza, insomma, quella donna sono proprio io. E sono in quella posizione perché mi sono appena piastricciata tra le gambe, in qualche modo bisogna pur fare se la natura ci ha privato arbitrariamente della possibilità di espletare comodamente l’atto sessuale con persona fisica. E dico questo non a caso e non a caso sono single da 42 anni e sola da sempre (perché è praticamente la stessa cosa che dire single, ma con maggiore franchezza), perché sono aberrante nell’aspetto e arida quanto insipida nell’animo. Soffro dei più classici dimorfismi da 6 gennaio: naso uncinato-prominente e mento arcuato, una composizione somatica inattendibile che ha l’effetto ottico fuorviante di rendere il mio volto privo di bocca o quasi, bocca che in effetti si riduce a una minimale fessura, il più delle volte umida a causa di una salivazione abbondante e continua e difficile da controllare per via di un antico malcurato accavallamento della dentizione se-
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condaria sommata ai denti da latte mai scomparsi del tutto. In sostanza ho quasi il doppio dei denti di un essere umano qualunque e per ovvie ragioni fatico a scandire le parole insaporendole tra l’altro di simpatici riccioli di bava a flussi irregolari, comunemente definiti sputi. La mia vita è una merda, cioè: è quello che è, ma in linea di massima è una merda. Eppure non mi lamento. Di certo avrei le mie buone ragioni per farlo visto che oltre alla trasfigurazione facciale, a metterci un carico da novanta sulla presentabilità del mio aspetto c’è anche quella portaerei di cui sopra (il mio culo) nella fattispecie rotoli di materiale organico molle e semovente, abbarbicato attorno all’attaccatura del bacino e delle anche. Un ammasso di materiale biologico avvinghiato alla mia struttura ossea in una composizione improbabile che desta stupore tra la gente comune. L’immagine che ne risulta è quella di una grave e rarissima malformazione fisica o, se vogliamo, quella di un organismo umanoide innestato a un complesso biolipidico extraterrestre e parassitario, fusosi con la mia spirale di dna non si capisce bene perché, né percome. Insomma, questo culo alieno mi trasborda fin sotto le ginocchia per poi scomparire misteriosamente all’altezza della tibia fino a culminare su due spilli appuntiti e troppo sottili che poi sono le mie caviglie. Lo so da me che sono uno strano animale, per questo non mi urtano quelli che me lo fanno notare, è più che legittimo. L’indiscrezione umana non conosce limiti e a volte è più che naturale che così sia. Perciò, amen. Comunque. Se non altro, ora che mi avete trovato stesa sul talamo solitario, la settimana lavorativa si è appena conclusa. Sono andata via dal lavoro un quarto alle sei, le mie colleghe mi hanno ben bene insultata sparlando del mio abbigliamento della mia salivazione del mio aspetto. Niente di nuovo.
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È una prassi. Quando non sono loro a prendermi per i fondelli è il direttore che, in virtù della sua posizione di potere, si prende la libertà di spararmele in faccia certe cattiverie a differenza delle sportelliste che invece rivelano ogni giorno che passa di avere sempre più la faccia come il culo. Come il mio di culo, però. Ecco, dunque, una volta a casa, espletati gli ultimi bisogni fisiologici, da lì a poco si sarebbe aperta la solita deprimente agghiacciante disperata organizzazione del mio weekend. Come ogni sabato degli ultimi dieci anni faccio finta di pianificare il tempo libero dal lavoro, apro l’agendina degli appuntamenti, lascio scorrere la rubrica del cellulare per vedere se c’è qualcuno con cui uscire per una pizza o un cinema. Compiuto il rituale dell’hai visto mai che durante la notte sia arrivato da un altro pianeta un numero di telefono libero bello e disponibile ad accompagnarsi con la mostruosità fatta persona, mi preparo per andare da Rossella Fiaschetti, unica amica che io abbia nel raggio di settemila chilometri. Amica si fa per dire, dal momento che il nostro rapporto risulta completamente sbilanciato ignorando lei del tutto le mie vicende personali, mentre le nostre conversazioni vertono sempre sullo stesso trito malsano noiosissimo argomento: i suoi ripetuti non che fallimentari tentativi di suicidio. Io ascolto e lei parla, io ammutolisco e lei parla, io sbadiglio e lei parla, io lacrimo dalla noia e lei continua a parlare finché non arriva suo marito e alle 20:36 sono già in strada ad aspettare l’unico autobus che va fin laggiù, in quella desolatissima periferia che è il suo luogo di domicilio.
Mi racconta di digiuni da supereroe, due tre settimane senza ingurgitare neppure una foglia di lattuga, astinenze sferzanti dall’acqua e da ogni liquido biologicamente metabolizzabile, perciò so benissimo che il caffè lo avrebbe riposto nell’angolo più remoto della cucina aspettando che marcisse assieme a tutte le altre cose che negli anni precedenti le avevo portato e che lo zucchero lo avrebbe vuotato nel cesso non appena fossi andata via in quanto catalogato, nella sua personalissima lista nera, come alimento altamente sovversivo e perciò stesso pericoloso.
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– Scusa, ma non riuscivo a alzarmi, sono sotto un treno. – Lo vedo. Due giri di copertone le sfondano lo sguardo al ritmo di contrazioni di palpebra rapidissime. Più ominide che donna mi fa accomodare questa volta direttamente nella stanza da letto, trascinandosi come un cadavere riesumato. – Gaetanino oggi non è andato al lavoro. L’inflessione della voce lascia presagire futuri imminenti tentativi di avvelenamento indotto. – Oggi si è dato malato, ora è uscito a fare una partita a tresette, tra poco torna per la cena, mi porta quel pollo lercio della rosticceria che glielo infilerei su per il culo. La stagione estiva rende questa donna ancora più penosa di me nei suoi tentativi di bardare la calura insopportabile e insana della metropoli. Una canottiera bisunta le si appende su per le clavicole rinsecchite, la pelle è crespa di un giallo squamoso. Ai piedi del letto una bacinella ricolma di fanghiglia motosa color vinaccia-topo. – Rossella, ancora! Lo sai che poi stai male. – Gaetanino lo voleva fare, oggi c’aveva lo schiribizzo. Me l’ha detto mentre cagava dopo pranzo, me lo ha annunciato capito? Che dovevo fare? Rossella Fiaschetti è un’infermiera professionale, lavora nel reparto malattie infettive dello Spallanzani. Traffica tutto il tempo con malati terminali che intuba da ogni orifizio, a cui ciuccia il sangue, a cui sottrae immoralmente e senza vergogna dosi massicce di medicinali dai costi proibitivi e siringoni usa e getta di cui si serve metodicamente ogni volta che suo marito la costringe a scopare. Lei si tira il sangue in quantità industriali 20 minuti prima di consumare l’atto sessuale. Per stordirsi. Per perdere i sensi.
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Ma la cosa più agghiacciante (come se la pratica di tirarsi il sangue fosse poco) è che una volta riempita la siringa, in un’ulteriore manovra degna di internamento Rossella Fiaschetti ripone il liquido vitale in una bacinella di plastica. Gode la pazza, ma non certamente per l’amplesso perversamente aggirato. In effetti mi ha confessato di provare un certo appagamento, lo stesso calore addominale ogni volta che si trova a osservare la bacinella rossa amorevolmente riposta in un angolo ai piedi del letto. Preferisce questo tipo di soddisfazione da svenamento a un orgasmo coniugale. Ce l’avessi io un uomo in casa, che se pure cesso quanto lo può essere Gaetanino, me ne servirei fino all’usura. Comunque. A guardare quella bacinella mi sento ardere come una vampata nello stomaco.
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Credo si tratti di un sentimento ambivalente: ribrezzo e conforto allo stesso tempo. Mi appaga l’idea che al mondo possano esserci persone come Rossella Fiaschetti che con ogni probabilità stanno molto ma molto ma molto peggio di me.
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Così mi trattengo altre due minuti e poi mi dileguo, scompaginando per intero i piani della serata. Non è facile né agevole per una persona di una certa stazza aspettare in piedi all’angolo di una via un autobus che non arriva mai. I miei piedi sono simili a due mignon farciti con burro e crema alle mandorle. Fatico a stare in equilibrio per più di dieci minuti, la massa corporea è penosamente sbilanciata ora in avanti sotto la spinta gravitazionale dell’attrito terra tette, ora indietro per effetto dello stesso fenomeno nella versione posteriore terra culo. Ma finalmente dopo circa trentadue minuti di lacrimazione adiposa sotto entrambi i plantari riesco a salire sull’autobus, naturalmente strapieno, naturalmente asfissiante, naturalmente claustrofobico. Faccio tutto il tragitto in piedi arrabattandomi per non schiacciare la vecchietta che mi gongola sotto l’ombelico e il bambino bengalese con mamma imburcata che con il passeggino e le buste della spesa e un aggeggio strano tipo mazza da biliardo ma completamente di metallo cromato, cerca di proteggere suo figlio dalle sterzate dell’autista che pare guidare una diligenza impazzita lungo le sconfinate praterie della Maremma maiala piuttosto che questo normalissimo autobus di linea. Ad ogni frenata i miei fianchi elargiscono a destra e a manca scosse di assestamento sismico. I passeggeri mi guardano male, cioè mi guardano come in genere mi guardano tutti. Leggo nei loro occhi sempre la stessa espressione contrita e raccolta a cercare di capire che razza di cosa io sia o che diavolo di malattia possa avere una che dalla cinta in su è piuttosto normale, se non fosse per la trasfigurazione facciale, mentre dalla vita in giù si dipana come un canotto della Marina mercantile, un canotto turgido con i piedini che in realtà più che camminare sembrano scorrere come certe rotelline da trolley. Comunque. Scendo alla mia fermata con estrema difficoltà, divincolando-
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mi nel complesso fangoso dei sudori della gente di serie c che al sabato sera non va in centro con la macchina figa ma viene deportata come merce avariata da un angolo all’altro della più insalubre periferia della città. Sono le 19:43 quando, mentre tento di raggiungere il mio appartamento in via Palmiro Togliatti 1259 alla velocità di un bradipo, all’improvviso vengo speronata alle spalle dalla corsa disperata di un maghrebino il quale, fuggendo convulsamente da qualcosa di assolutamente pericoloso a giudicare dall’impeto della galoppata, volgendo lo sguardo all’indietro per misurare forse la distanza di sicurezza che lo distacca dal suo aguzzino, ha tragicamente trovato sulla sua rotta una nave da crociera: me. La collisione è impressionante, l’impatto con il mio culo ha per il giovane maghrebino l’effetto di un’esplosione nucleare. Così, voltandomi, vedo questo pover’uomo spiattellato contro il cemento che in un deciso quanto sofferto colpo di reni è già in piedi e poi subito di nuovo in corsa lasciando nell’aria lo strascico aspro delle sue secrezioni condensate in sudore e adrenalina e senso di pericolo a fottere. Il maghrebino è quasi scomparso che, come un gatto randagio dal cassonetto, sbuca da dietro l’angolo dell’orrendo stabile popolare un secondo ragazzo che falca incarognito alle sue costole con qualche secondo di ritardo e qualche metro abbondante di svantaggio. Mi passa accanto anche lui, senza neppure accorgersi della mia presenza, strascicandosi appresso, nella velocità della sua scia, i miei capelli radi e le pieghe della gonna a balzi di taffetà. A terra è rimasta una ferraglia nero lucida della grandezza di un boomerang, della compattezza di un trapano Blackandecker, scivolata via dalla giacca del maghrebino e abbandonata inerme, predisposta a essere raccolta. Mi avvicino osservandola dall’alto della mia stazza: una l rovesciata. Quella che dovrebbe essere la stanghetta più corta pare proprio un manico,
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mentre quella più lunga sembra una canna sulla quale spunta impizzato un mirino e nel punto di congiunzione delle due al centro dell’angolo retto, un grilletto avvolto da un anello spesso e bombato. Mi dico che beh, sembra proprio una pistola e ancora, dopo averla messa nella borsetta, mentre la porto a casa, considerandone il peso e la consistenza mi vado ripetendo che sembra proprio una pistola. Finché non arrivo nella mia stanza e la lascio scivolare sul letto aspettando che rimbalzi un poco sotto l’urto soffice del materasso. In effetti è proprio una pistola. Mentre ceno con la faccia alla tv e le mani nel piatto penso a come saranno le mie giornate ora che nella mia vita ha fatto irruzione una pistola. Di tanto in tanto aspettando il timer del forno a microonde mi affaccio di là, la guardo placida riposare tra le mie lenzuola e quasi riconosco nella linea ritta della canna e nel gonfiore morbido dell’impugnatura una disonesta traccia di piacere, di attrazione sensuale. Mi attizza, sì, quell’arnese mi attizza come un legno secco tra le fiamme. Di notte lascio che dorma con me, la poggio sul cuscino accanto al mio e prima di prendere sonno, in quella fase di rilassamento in cui gli avvenimenti della giornata ci scorrono in rassegna stampa sulla fronte, ogni tanto allungo lo sguardo assottigliandolo tra le fessure delle palpebre per spiarla, per accertarmi che ci sia, che non svanisca nel nulla, ingoiata dal buio, dal buco nero della mia solitudine.
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Mentre dormo sogno Theo, Theodor Abasse Hamidou Ndione per la precisione, il ragazzo senegalese che ogni tanto, con la periodicità di una o due volte al mese, mi fotte dopo aver mangiato bevuto dormito a casa mia e aver ricevuto in prestito 50 euro per le sigarette, un prestito che ormai a rigor di calcolo dovrebbe ammontare a circa 2.350 euro. Non che sia propriamente uno gigolò, ufficialmente vende cd tarocchi all’entrata della metropolitana, ma quando viene da me dopo aver scopato dà inizio alla solita patetica solfa da morto di fame del tipo comprare sigarette affitto CD non vendo soldi pochi domani mangiare anch’io oggi bene per te, sorella, ma domani, come faccio domani, presta 50 euro io poi do. Mai visti indietro neppure 10 centesimi. Comunque. Di notte dunque sogno che Theo mi lega al letto con la faccia contro il materasso. Senza togliermi neppure le mutande mi sodomizza utilizzando come arma impropria non il suo tronchetto africano ma la mia pistola, impietosamente dura e tragicamente metallica. Il sogno si conclude con un colpo in canna che partito inaspettatamente mi spappola l’intestino forandomi le pareti dello stomaco. Mi sveglio che boccheggio con un dolore lancinante al basso ventre e una dissenteria incontenibile dovuta all’abuso di paprica e polpette di pollo della sera prima. Ma, portaerei sulla ciambella e viso contratto dalle coliche, un solo pensiero adesso mi continua a saltare in testa, rimbalzando molesto come una stupida pallina di gomma. E questo pensiero è Theo, trovarlo e portarlo a casa.
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La sveglia al quarzo segna le 21:06, ho scovato Theo nel pomeriggio. Lo sto aspettando mentre siedo ritta sul sofà, rigida come mi avessero infilato un palo su per le natiche. Non riesco a rilassarmi. Dopo averlo trovato all’angolo della strada facendomi largo tra i passanti-acquirenti piegati a 90 gradi sulla sua becera mercanzia, ho dovuto aspettare qualche minuto prima che mi riconoscesse, o forse faceva finta. Mi ci sono parata davanti oscurando i tre metri quadri della stuoia su cui erano allineati i cd e affrancandolo dal sole a picco l’ho invitato a venire. – Ok sister – mi ha detto – cenare anche, no maiale sorella. – Certo, no maiale, però ettolitri di birra sì. – No prima nove stasera ho business, capisci e no dormire, ho bus… – Hai business, va bene, a dopo, ciao. Mi ha sorriso col pollice ritto e le spalle larghe. Bello è bello, peccato che sia un figlio di puttana africana. 21:15. Arriverà per le dieci se sono fortunata, forse più tardi, non è mai puntuale, nessuno è mai puntuale in questa città, cose persone e animali, tutto segna ritardi incredibili, sfiancanti avvilenti umilianti, eppure io aspetto mantenendo la calma perché ci ho fatto il callo e perché in genere mi abituo a tutto ciò che di spiacevole e scomodo e triste mi possa capitare, perché in genere quello che mi accade se non è propriamente infelice finisce per diventarlo. Pazienza. Non appena lo faccio entrare con borsone da africano al seguito, Theodor Abasse Hamidou Ndione senza neppure salutarmi mi chiede se può lasciare la sua lurida sacca da me questa notte, che verrà a prenderla domani o dopodomani che è pericoloso sister adesso andare in giro con quella roba che il business non è stato troppo ok che deve risolvere più tardi forse e che è più tranquillo se sorella la tieni tu per un po’. Faccio finta che il business nel borsone siano calzini di spugna e acconsento.
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Si siede a tavola senza lavarsi le mani, mi guarda con gli occhi di un cane randagio, ha fame e sta aspettando che la cena gli si materializzi nel piatto. Lo servo. – Pollo, sorella? – Sì, pollo. – Oh sister, no vitello, no manzo? Poi, guardandosi furtivamente attorno. – No birra sorella? – Te la prendo subito, è ancora un po’ calda, se vuoi la metto nel freezer ancora qualche minuto. – No, bene, bene così. Tracanna la lattina tutto d’un fiato. Fa per ruttare ma si contiene, forse l’eccesso di gas gli abortisce nella gola mentre sta ingurgitando l’ultimo sorso. – Tu non mangi sister? Sono dieci minuti che è qua e già l’aria è satura fino all’esplosione di sister in eccesso. Non so perché mi chiami così, probabilmente non ricorda il mio nome. O forse per i senegalesi l’umanità intera è costituita indistintamente da sister e brother, che ne so. Lo servo ancora, riempio il piatto di patate e lattughina, di sottaceti e carciofi bolliti, di melanzane gratinate e stappo la seconda la terza la quarta lattina. Alla fine della cena Theo è sazio e brillo, sul tavolo conto nove birre di cui una ancora in corso, ma decide di abbandonarla perché guardando l’orologio sembra caricarsi di urgenza, forse pensava di sbrigarsela in un’ora invece ha già sforato abbondantemente, un quarto a mezzanotte, una donna da scopare e un business da concludere. Alzandosi da tavola mi dice di andare in camera, nel tragitto dalla cucina al letto si spoglia, dapprima si sfila la T-shirt mostrandomi il torace largo e glabro, le tracce della sua prestanza come intagliate in un tronco d’ebano, poi è la volta dei pantaloni, li getta lontano facendoli atterrare sul tappeto persiano. È in mutande mentre mi ordina di spogliarmi a mia
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volta e di voltarmi, faccia al cuscino e culo in alto, posizione canonico-pecoreccia. Obbedisco. È sempre così che succede, vuole che mi metta di spalle, forse rabbrividisce all’idea di guardarmi in faccia mentre mi penetra, forse ha paura di non farcela se invece del culo gli mostro la bocca, i doppi denti, gli occhi piccoli e vicini, il naso acuminato. Lo sento dietro di me fare un gesto veloce col quale si libera dell’ultimo indumento, sprofondo la testa nel morbido, chiudo gli occhi e lo immagino muoversi in ginocchio su gambe enormi da corridore della savana. In ultimo mi apre natiche senza cortesia e mi penetra regalandomi la percezione confusa di una sensazione orticante e calda e dolorosa e anestetizzante e asservita e eccitante e breve. Ora dorme, sprofondato tra le pieghe delle mie notti, sazio e ubriaco. Occhi pesantemente socchiusi muscoli spiegati polpaccio molle polmoni carichi di tutto l’ossigeno della terra. Penso che questo sia il momento giusto, lo penso subito senza darmi neppure il tempo di ricompormi, mentre ancora sono di spalle accovacciata come una cagna dopo il calore. Con un dito dallo smalto scrostato segno i contorni del suo cuore, percorro il torace dolcemente indugiando sulle pieghe dei pettorali lavorati a rilievo, delimito il campo d’interesse cerchiandolo a mente come se un tratto di penna stilo l’avesse davvero tracciato quel riquadro. Ora sono pronta. Con l’altra mano afferro il cuscino, Theo non si muove, non risponde ai solleciti delle mie carezze, forse sta pensando che ne voglio ancora, forse fa finta di dormire, forse dorme davvero. Il colpo risuona ovattato e mozzo nell’eco delle finestre chiuse. Ho sentito il grilletto cedere sotto le mie dita come un grissino che sta per sbriciolarsi. L’adone nero sussulta impercettibilmente dalle gambe, una piccola rana a cui si dà la scossa in laboratorio. Non è stato difficile, penso, veloce e indolore, mentre dal dorso una piena di rosso vivo si dilata a macchie irregolari
La mattina seguente mi sveglio che il sole non è ancora sorto del tutto. In quell’atmosfera irreale di luci soffuse, la casa mi appare morbida e calda e io stessa sembro addirittura più bella, in forma quasi. È proprio vero quel che si dice delle donne innamorate, delle donne appagate, che sono più belle, no? Che hanno una strana luce negli occhi, che attrae e le rende speciali. Una insolita vitalità mi scorre sottopelle, ho tante cose da fare, innanzi tutto andare da Rossella Fiaschetti prima che lei possa rientrare dal turno di notte. Mi vesto in fretta e per l’occasione indosso il mio abito più bello, quello rosso di organza con le scarpe in tinta e la borsetta pure, saluto Theo, ma prima di uscire gli porto la colazione a letto, latte, pane imburrato, marmellata e un germoglio di geranio lilla sul vassoio.
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riempiendo di sé l’incavo segnato dalla sua sagoma. Mi metto in piedi sul letto, da quella prospettiva il bianco accecante delle lenzuola e il nero del cadavere si combinano con la vinaccia del sangue in maniera impeccabile. Una passera enorme in pieno ciclo mestruale, un assorbente sconfinato ad avvolgerla e proteggerla dai segni del sanguinamento ciclico. Lo libero degli strati più inzuppati e tampono i margini del corpo con un paio di grossi asciugamani soffici e profumati, di primo bucato. È fatta. La sveglia segna le 2:45, è ora di dormire, domani ricomincia la settimana, mi metto comoda accanto al mio uomo, lo bacio sulle labbra fredde, lo abbraccio accovacciandomi sul suo petto sfondato, mi sistemo il suo braccio fiacco sulle spalle e chiudo gli occhi, sono stanca, felice. È bello coricarsi accanto all’uomo che ami. Sto per addormentarmi, domani mi aspetta una lunga giornata. – Buonanotte – gli dico. Theo non risponde.
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Scendo dall’autobus che l’orologio segna le 6:30. Il portone dello stabile è aperto, mi rallegra non dover suonare, è ancora troppo presto per qualsiasi visita e mi annoierebbe l’idea di dover aspettare minuti insostenibili prima che qualcuno si degni di farmi entrare. Al terzo piano le piante secche di Rossella Fiaschetti preparano l’atrio di un appartamento buio e lurido, dall’altra parte il torpore del sonno non ancora conclusosi mi avvolge completamente, espandendosi come un gas nervino dalle feritoie dello stipite sconquassato, privo di chiavistello. Suono, dapprima dolcemente, poi più a lungo e più volte, insistentemente, con urgenza. Sto cercando di fare in fretta. Alle 8:10 devo essere in banca. Non è che voglia insinuarmi attraverso il grido stridulo del campanello nei sogni irrisolti della casa, però lo ripeto: devo fare in fretta. – Che è? Mi dice Gaetanino guardandomi appena attraverso le palpebre incollate dalle caccole del sonno, con il membro ritto da risveglio maschile, con la faccia accartocciata da varianti modulari che vanno dall’intorpidito, allo scocciato-incazzato, al sorpreso. – Che vuoi? In effetti, che voglio? Farfuglio qualcosa di poco convincente mentre mi spingo oltre il suo ventre rigonfio per farmi strada nell’ingresso e mettere un piede e poi entrambi dentro casa. Gaetanino mi segue rintronato in cucina, la casa è avvolta nel buio più cupo, gli stipiti serrati, l’odore acre e dolciastro del fritto da rosticceria si appiccica alle pareti, alle carni, ai vestiti. – Rossella fa il turno di notte, arriva alle dieci. – Lo so – rispondo. – Dormivo, io. Scatarra a lungo nel fazzoletto, come a cacciarsi dai polmoni
Così, mentre l’autobus mi riporta al di qua della città verso la banca, penso che bene, anche questa è fatta. Mentre traballo sballottata dalla guida isterica dell’autista mi torna in mente la scena grottesca del mio culone nudo che scavalca in un solo scatto il cadavere di Gaetanino e si appresta ad andar via ballonzolando per le strade della periferia appena risvegliata a un nuovo giorno. Me la rido di cuore perché la scena è stata davvero comica, mi lasci dormire o no, mi ha detto, e io ok e poi gli ho piantato la canna in mezzo agli occhi e gli ho ordinato di spogliarsi. L’ho fatto sedere a terra con l’uccello tra le mani che ci ha messo un po’ a rianimarsi, ma che poi con me sopra ha funzionato a dovere. Mi spiace un po’ per Theo, ma Gaetanino mi voleva da sempre, glielo dovevo, d’altronde mentre lo facevamo me lo ha anche detto più volte, è ovvio, ho dovuto spronarlo ma solo perché in fondo è un timido e anche un po’ rozzo, certo con quella specie di pazza furiosa che ha accanto, quella idiota della Rossella che non sa proprio come tenersi un uomo e che si tira il sangue per non scopare. Povero Gaetanino, glielo dovevo, ha davvero sofferto troppo quest’uomo.
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quanto più moccio un esercito di fumatori sia in grado di produrre. Mi siedo sul pizzo di una sedia dalla vernice scrostata, mi guardo attorno senza riuscire a risolvermi. Da dove comincio? – Cioè – provo a dirgli – lo so che lo vuoi anche tu, però insomma, se non collabori è difficile… Niente. Paralizzata dall’indecisione, sento che mi manca l’amo, come in certi sketch delle prime trasmissioni rai in cui il comico figo aspetta che la spalla gli offra l’aggancio giusto per sparare la battuta conclusiva. Ma poi finalmente arriva. – Cazzo dici? Mi lasci dormire o no? E si gratta l’uccello.
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E poi, non appena sono venuta, giusto il tempo di rimettermi in piedi, gli ho fatto un buco grosso come un bracciale al centro della testa. Gaetanino che ancora era col culo a terra è collassato all’indietro e ha sputato ciuffetti di sangue grumoso, disseminandoli per aria come una manciatina di coriandoli. Ti ho levato a soffrire, Gaetanino, ma prima ti ho regalato una scopata come si deve.
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Va bene, ci siamo quasi, la conclusione è un epilogo più o meno prevedibile. Eccomi in banca. Ho appena timbrato il cartellino, sono le 8:15, ho occupato la mia posizione da sportellante integerrima, ho acceso il computer e fatto un bel respiro. L’orario di apertura al pubblico si avvicina a suon di falcate di lancette e minuti e quarti d’ora. Il primo a partire è il direttore. Mi appare alle spalle, immagina che non mi sia accorta della sua presenza così da potersi regalare il solito minuto di derisione con la complicità della sportellante numero 1, Luisa dalla fica larga. Dal riverbero del vetro lo vedo improvvisare gesti da simpaticone: con un palmo aperto sulla faccia simula la manipolazione di una maschera da mettere sulla mia di faccia così da nascondere le mostruosità, con l’altra mano invece si torce lo stomaco intendendo dire che il disgusto che prova per me gli ha causato un principio di vomito, così presto, di prima mattina. Chiuso il sipario sullo squallido teatrino mi viene accanto. – Buongiorno Gertrude – mi dice. – Buongiorno stronzo – rispondo, senza distogliere lo sguardo dal monitor. Un paio di secondi di mutismo segnano sulla sua faccia da porco le tracce di un infinito stupore. – Come hai detto? – Ho detto buongiorno stronzo.
Gertrude
Poi alzo la testa, e assieme il collo, e il braccio destro, e nella mano a pagnotta la pistola maghrebina, sulla sua faccia lo sgomento più fosco e subito dopo due fori belli spessi e tanto sangue sulla tastiera e sul vetro e a terra, lì dove è caduto senza rimbalzare, come un sacco pieno di letame. Attorno a me e al cadavere stridori in mondo diffusione. Luisa dalla fica larga si è portata le mani tra i capelli laccati, gli occhi sgranati, il bel corpicino tutto tremante. Non appena le punto gli occhi addosso fa il gesto di alzarsi e abbandonare la postazione. – No, dove vai Luisella? E prima che riesca a mettersi in piedi ho già sparato anche a lei, anche lei è caduta di spalle finendo per ammucchiarsi nella pozza di sangue sgorgata dal cranio smembrato del direttore. Con la pisola nella destra e la penna biro tra i denti scivolo delicatamente dallo sgabello girevole e comincio a passeggiare tra i box dei computer. Alla postazione numero 3 trovo Graziella che in preda a un attacco di panico non è stata capace di dileguarsi come il resto del materiale umano impiegatizio. È andata a infilarsi accovacciata come una papera sotto la scrivania, sembra stia pisciando, così mi faccio più vicina e le intimo di uscire da lì, ma lei non obbedisce ovviamente, piagnucola ovviamente, emettendo gorgoglii liquidi da intasamento delle mucose. Infilo una mano nel buco in cui si è andata a ficcare e cercando alla rinfusa l’afferro per i capelli tirandola su dalla treccia castana che le pende inclemente come una catenella dei cessi pubblici. – Oh, ma perché tanto rumore? Non siete tutti felici che abbia seccato il direttore? Urlo, per farmi sentire anche da quelli che si sono dileguati. – Forse vi spiace per Luisa? Ne dubito. Graziella, lo sai che Luisa ha scopato con tutti i vostri mariti? Tutti, anche il tuo, com’è che si chiama? Sandro, Simone… E così, tenendola come un coniglio al macello, impallino an-
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che lei, che non vuole rispondermi, non vuol dirmi neppure come si chiama quello stronzo di suo marito. La osservo accasciarsi sulle pratiche che qualcuno per quel giorno di certo non ritirerà. Subito dopo comincia una sanguinaria caccia alla volpe in cui io sono la regina d’Inghilterra e loro, più che le volpi, dei ratti schifosi da disinfestazione. – Venite dalla mamma, bambine cattive. L’ufficio è deserto, qualcuno è già uscito dalla porta posteriore, qualcuno forse a chiamare aiuto, tra poco arriveranno a prendermi. Tra poco, però, perciò non ancora. Entrambi i bagni sono chiusi da dentro. – Chi c’è? – chiedo con educazione. Dall’altra parte singhiozzi soffocati tradiscono l’ineluttabile presenza della preda. – Cinzia, sei tu? I singhiozzi si rompono in pianti: come possono essere così instabili certe donne. – Dai Cinzia, apri, non ti faccio niente, giuro. Cinzietta… Allora, ragioniamo: se apri subito ti sparo in testa così non soffri troppo, se mi fai incazzare sfondo la porta e ti riempio di pallottole fino a farti morire dissanguata, che dici? Da una delle due porte la serratura fa un paio di giri e dalla fessura dell’anta una faccetta spaurita compare, trasfigurata e supplichevole: è Rita, la più anziana. – Ti prego ti prego ti prego. Mi fa. Dio che lagna, con quel timbro acquoso e la voce ottusamente felpata. La uccido al volo senza aspettare che metta del tutto il naso fuori dalla porta. Mi è sempre stata indifferente questa Rita insulsa, così è meglio fare in fretta. Nel bagno attiguo un grido disperatissimo irrompe quasi contemporaneamente al boato dello sparo. – Cinzia, mi hai stufato, vengo a prenderti. Con due colpi fracasso la serratura, spalanco la porta e la
Gertrude
vedo seduta sul cesso, rivoli di sangue la leccano dappertutto dalle spalle alle scarpe, Cinzia è svenuta accasciandosi con le braccia penzoloni e la testa all’indietro contro la parete piastrellata. Pazienza, penso mentre le scarico altri due proiettili al torace. Faccio ancora un giro di ricognizione, per scrupolo, giusto per vedere se qualche ratto schifoso è rimasto acquattato sotto le scrivanie, ma non c’è più nessuno, almeno tre i sopravvissuti, sono usciti dal retro e ora pagheranno anni di analisi per superare il trauma del massacro. Ma forse la banca darà loro una grossa somma d’assicurazione. In fondo dovrebbero ringraziarmi, perché in questo modo usciranno dall’anonimato delle loro squallide vite, per anni racconteranno l’evento canalizzando l’attenzione su folle di uditori basiti, si guadagneranno la loro fetta di giornalisti e di visibilità televisiva nei programmi del pomeriggio in cui si dirà del mostro della banca, la donna squilibrata che ha ucciso a sangue freddo i poveri colleghi, che chi l’avrebbe mai detto, certo era strana, era affetta da qualche gravissima malformazione, ma nessuno avrebbe potuto immaginare che quella mite insulsa creatura dalla bruttezza impressionante un giorno si sarebbe trasformata nella carnefice della Biocredit, e tutto questo senza doversi neppure impegnare in iperbolici esercizi di fantasia, perché tutto questo è davvero accaduto, anzi: sta tuttora accadendo. Perciò mi rammarico di non essere riuscita a raggiungerli. Peccato. Il male non è stato estirpato del tutto. Peccato. Il marcio continuerà a gettare il suo seme nel mondo. Peccato. Lentamente mi spingo verso l’ufficio del direttore, sprofondo sulla sua bella poltrona marrone di pelle, di gnu di daino di coccodrillo di bufalo? Allargo le braccia tese dallo sforzo
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omicida lungo i braccioli, distendo le gambe e chiudo gli occhi. Dall’esterno le sirene stanno arrivando. Ora, per l’onestà intellettuale a cui accennavo prima, urge una precisazione: sebbene abbia annunciato la mia morte all’inizio di questa storia, devo ammettere, non senza rammarico, che l’unica a non schiattare in tutto questo massacro sono proprio io. Mentre le forze dell’ordine fanno irruzione nella banca, il tentativo per me di finire in questo giorno è stato vano. Mi sono portata la pistola alla tempia, ma l’ultimo colpo, quello più importante, quello decisivo, era già stato penosamente dissipato e senza preavviso, nella mia assoluta buona fede di donna brutta senza alcuna dimestichezza con le armi da fuoco. Così, svuotata della furia di vendetta, imbrattata del sangue altrui, livida per il rammarico dell’opera incompiuta, non posso che attendere inerme gli uomini dei corpi speciali. Lascio cadere la pistola maghrebina e aspetto che si schianti a terra in un dolcissimo fracasso metallico del ferro sul mattonato. Le mie mani portano i segni della morte, il mio abito è cosparso di schizzi più scuri come in un’insensata fantasia a pois rossi su un vestito rosso. Gli uomini entrano, sono alti e non finiscono mai. – Mani sulla testa – dice uno. E io penso che forse se faccio finta di reagire, forse se mi lancio a prendere la pistola che ho lasciato cadere, forse mi spareranno, forse ce la posso ancora fare, penso. Così mi allungo verso il basso. E prima ancora di riuscire a sfiorare l’arma con un dito un colpo parte davvero, raggiungendomi il fianco. Lo scossone mi fa perdere l’equilibrio tanto che rantolo come una bestia ai piedi della poltrona. Sento un pizzicore crescente sulla natica destra, ma non provo dolore, affatto, piuttosto una sensazione di caldo e umido mi pervade avvolgendomi dal ventre alle cosce. Apro gli occhi e non sono morta. Mentre mi raccolgono da terra mi incaprettano con le mani dietro la
Gertrude
schiena faticando come muli nel tentativo di tirami su. Sono stata ferita lievemente e se pure il colpo avesse avuto qualche blanda potenzialità letale, gli strati adiposi che mi circondano hanno avuto l’effetto salvifico di proteggere le mie ossa. Ok, per oggi rinuncio a morire: si vede che non è cosa, magari, magari più in là, che so, in fondo c’è sempre tempo. Mentre mi portano via, mentre cercano di issarmi sulla barella guardo l’uomo che ho di fronte. Anche lui mi guarda e io so che cosa vede in me. Vede un mostro, vede uno spietato cruento assassino. E allora penso che tutto quello che è stato a qualcosa è servito. È servito a spostare l’attenzione, almeno per un attimo. Almeno per un attimo posso essere un mostro agli occhi del mondo. E no, non solo per il mio aspetto.
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IL FRIGO
Nel mio appartamento di tre camere cucina e bagno si misurano complessivamente 5 gradi i quali diminuiscono mano a mano che ci si avvicina al frigorifero: 4 nella stanza di Clara, 3 nella stanza di Germano, 2 nel bagno e 1 nel tinello. Siamo in agosto. Sono appallottolato in posizione fetale sotto cumuli di lana e plaid, sulla pelata il berretto di flanella, ogni tanto sfiato dalle narici e mi fermo a osservare la slittata di condensa che dal mio interno si espande compatta a fendere l’aria rigida della stanza. Sono le 3:35, non riesco a dormire, per la verità ormai si dorme veramente poco in questa casa e pur serrandosi a doppia mandata oltre lo stipite della propria stanza c’è ben poco da chiudere gli occhi, della serie: chi dorme è perduto. Dal fondo della casa un rumore stridulo mi si disfa cancrenoso nel cervello, mi giro e mi rigiro avvoltolato nelle coperte e ancora quel zrzrzrzrzrzzracc. Non resisto, devo alzarmi: vado a vedere. Faccio quattro passi in direzione del cesso mentre il rumore si acuisce in modo direttamente proporzionale al mio avvicinarmi alla cucina. Ci sono. Di fronte a me il bagno. I tre gradi di differenza dalla mia camera al corridoio mi sbattono in faccia blocchi di ghiaccio a secchiate, di lato la porta della cucina chiusa, ma è una di quelle porte degli anni venti con il 60% di vetrata semitrasparente contro il 40 di compensato,
Il frigo
Giorno X
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ci vedo attraverso o meglio: intuisco. L’ombra sfuocata di ciò che si muove oltre quella porta mi blocca la circolazione, mi si rizzano i peli, più per la tensione che per il freddo, avverto la minaccia sfiatarmi contro il muso, sono all’erta, sollecitato da un’esplosione crescente di adrenalina. Siamo come nella giungla: la mia casa è diventata un campo di battaglia. Zrzrzrzrzrzzracc ancora. E ancora. E ancora. L’ombra di un cono rovesciato con al vertice un pompon spelacchiato mi fa capire che Germano sta armeggiando a qualcosa di esasperatamente definitivo. Mi guardo attorno prima di entrare, cerco un’arma: un collo di bottiglia mi viene in soccorso. Lo porto dietro la schiena e uno, e due, e tre: varco la soglia. Dall’altra parte Germano, sepolto da un piumino artico con in testa il cappello a pompon, mi guarda con occhiaie fluorescenti, il sorriso satanico, le mani tremolanti. Sul tavolo ha apparecchiato un allestimento biblico di armamenti. Trapano, cacciaviti, sega, motosega, martello medio, piccolo, grande, chiave inglese, pinza piccola, media, grande, muletto azionabile a batteria. E una faccia sfigurata dalla follia, rattrappita dal freddo, gialla di ore passate insonni e di bile impetuosa dei giorni passati.
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A questo punto, però, bisogna fare un passo indietro: sarebbe bene cominciare dall’inizio. Comincio da qua che poi è proprio l’inizio, tra le mura di questo appartamento in via De Magistris 7, angolo via Pace. Esattamente dieci giorni fa.
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Giorno I
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È martedì e Clara torna a casa tardi, come di solito le capita il martedì. Io e Germano svaccati sul divano della sua stanza tra birre pizza e fumo. La stanza di Clara è la più grande, praticamente un loft di 25 mq, tappeto persiano, divano in pelle, tv al plasma, letto ad acqua: insomma, un sogno da viverci dentro. – Allora – seduta con le spalle alla tv ci impalla la visuale – allora... L’ho comprato. – Ah... Grandiosa. – Ecco, sì... Se non mi occupassi io di queste cose... Comunque... – Quanto? – 250 più 40 di consegna. – Be’, è caro... – Cazzo! Potevi pensarci tu. – Sono cose da femmina. – Fosse per me l’avrei preso usato. – Sì, come no, così tre giorni ed eravamo punto e a capo... – 70 euro e risolvevo. – Sei un morto di fame. – No, sono oculato. – Vabbe’... Domani arriva la consegna, alle tre... Garanzia due anni, classe a+, ultima generazione, risparmio energetico. – Va bene, ma io non ci sono, domani ho il corso... Germano, tocca a te. – No no, io attacco alle 11... Impossibile.
– Vabbe’, lo recupera il portiere... Domani mattina, prima di andare via, glielo dico. Giorno II
Il frigo
Torno a casa piĂš tardi del solito, entro e mi trovo Clara e Germano alle prese con i fornelli, giulivi e brilletti alla seconda bottiglia di vino che mi salutano con un hurrĂ ! a 47 denti, mi mettono in mano un calice di rosso e mi indicano festosi il nuovo frigorifero.
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Il frigo
– Guarda – fa Clara spalancando l’anta del surgelatore – ci sono diversi scomparti per i diversi tipi di alimenti, ti consiglia come conservarli uno per uno... Guarda... Le verdure, la carne... E fa delle differenze sostanziali anche tra le verdure... Guarda... Qua le zucchine, qua i piselli... Guarda, c’è scritto... Qua le carote... – Mostragli il sotto – fa Germano. – Allora... Qua invece ci sono quattro scomparti, quello in alto è il mio, quello al centro di Germano e quello in fondo il tuo. – Perché a me quello in fondo? – Perché sei arrivato per ultimo. – Uhm... Ne rimane uno vuoto. – Sì, qui ci mettiamo le cose in comune... Eh? Che te ne pare? Non è spettacolare? Mah, tutto sommato è un frigo normale, non fosse per il design decisamente moderno: è blu con le bordature in metallo cromato, richiama nelle forme bombate uno stile anni sessanta, forse è un po’ troppo grande per tre single che stanno spesso fuori, però... La serata passa allegramente, mangiamo cibi orientali perché Clara è fissata con la multietnicità, beviamo Corvo e Nero D’Avola perché Germano è siciliano, ci congediamo con due bis di grappa della Valle di Cembra perché io sono trentino. Mi corico che sono più che brillo, davvero ubriaco. Svengo letteralmente sul letto. Alle 4:45, nel cuore della notte, un boato da sisma spacca placche tettoniche. Con i battiti galoppanti, la gola impappata dall’alcol e dal cumino, una sete sacrosanta che mi manda in fiamme la trachea, metto i piedi a terra e vado verso la cucina. Non so se quello che ho sentito sia frutto del mio sonno anfetaminico e agitato, fatto sta che ho solo voglia di attaccarmi alla bottiglia e bere di garganella un litro d’acqua. Accendo la luce e l’apparizione improvvisa di Clara seduta
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smunta sulla sedia di paglia di fronte al frigorifero mi fa accapponare la pelle e lanciare un urlo disumano. – Che cazzo fai? – Non hai sentito niente? – Perché sei lì davanti come una demente? – Un boato, tipo uno scoppio... Mi ha svegliato, veniva dalla cucina. – Sì, ha svegliato anche me, ma forse veniva da fuori... Qua è tutto a posto, mi pare... No? – Ho sentito dei rumori. – Dove? – Qui. Indica il frigo. – Dentro il frigo? – Sì, tipo passi... E casino... E cose che si ribaltano... – Dentro il frigo... Sei ancora ubriaca... Mi guarda smarrita con le occhiaie da riposo violato e stanchezza accumulata a palanche. Accidenti se è brutta, di notte è peggio, non ricordavo che fosse così spiacevole appena sveglia, in fondo ora che ci penso non l’ho mai vista appena sveglia, è quella che si alza prima di tutti. – Torna a letto, è tardi. – Hai ragione, buona notte – mi fa ricurva, con un’espressione da cubo di Rubik: forse comincia a intuire di aver confuso il sonno con la veglia. La seguo con lo sguardo dissolversi oltre il corridoio come un fruscio nel buio, mi gratto il culo a causa degli slip che non sopporto e penso che appena tornerò a letto me li sfilerò. Apro il frigo e faccio per afferrare la mia bottiglia ghiacciata leggermente frizzante: non c’è. Ma porca puttana, l’ho messa via prima di andare a letto.Vuoi vedere che quello stronzo di Germano se l’è scolata prima di me? Ma perché poi? Guardo nel suo ripiano e lui la sua acqua ce l’ha. Che stronzo. E se fosse stata Clara? No, impossibile, lei
beve solo quelle robe povere di sodio contro i buchi sul culo. No, dev’essere stato quell’infame di Germano, giuro che gliela faccio pagare, scherzo del cazzo. Prendo la sua, la tracanno quasi fino al fondo e poi ci sputo dentro. La ripongo sul ripiano e torno a letto.
Giorno III
Il frigo
Apro gli occhi a suon di bastonate nel cervello. La sveglia strilla isterica a tempo con il pulsare dell’aorta infiammata dagli eccessi della sera prima. Bestemmio a mente perché oggi ho da fare nel pomeriggio e mi sono scordato di disattivarla. Sono le 8:30, sono in piedi nonostante abbia la mattina libera, con la vescica gonfia, mal di testa e un foro nello stomaco. Vado dritto in bagno: occupato. Faccio per mettere su un caffè quando noto appiccicato alla porta del frigo un biglietto.
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Non capisco, non ci posso arrivare alle 8:30 del mattino. Torno al mio caffè e aspetto che Germano esca appoggiandomi allo spigolo del tavolo. Viene fuori, asciugamano avvolto ai fianchi, faccia compressa. – Buongiorno – faccio, ma lui neppure mi risponde. Verso il caffè per entrambi e quando ricompare vestito da cameriere, camicia bianca e pantalone nero, gli chiedo una sigaretta. – Pure – fa lui. E me ne lancia una quasi sulla faccia. – Cos’è quello? – chiedo, rivolgendomi al biglietto. – Sì, certo, cos’è... Tracanna il caffè, arriccia il muso in una smorfia di disgusto. – Buoni i babà, no? – mi fa prima di uscire. E scompare dietro la porta. Ma che c’entra? Neppure gli ho detto dell’acqua di ieri sera, chissà se ha bevuto il mio sputo. Il pensiero di Germano che tracanna il mio catarro grumoso, ormai sgretolato dalle bollicine dell’acqua gassata, mi rilassa. Sorseggio il caffè e arriccio il naso a mia volta, cazzo che schifo, bisogna cambiarla prima o poi questa moca, ci vuole del latte ché così sa proprio di cicuta. Apro il frigo: niente latte. Eh no eh! Anche il latte no. Ma cosa gli prende a questi qua? Si sono fottuti un litro di latte comprato appena ieri. Non ci credo. E poi Germano è intollerante perciò è stata Clara senz’altro. Dopo si lamenta dei rotoli sulle chiappe, lei. Sfido, un litro di latte fatto fuori così, in una notte. Prima l’acqua poi il latte. In due anni mai successa una cosa del genere. Proprio vero che le persone non le conosci mai abbastanza.
Arrivo a casa con la cena della mensa sullo stomaco. Ho solo voglia di un digestivo, un grappino brucia budella, anzi due. È
Il frigo
Giorno IV
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tutto il giorno che penso al latte e all’acqua scippati, ho deciso di non dire niente, magari Clara o Germano confesseranno spontaneamente, forse è normale per la gente del sud che dopo un po’, quando sopraggiunge l’abitudine, certi confini vengano oltrepassati, ma almeno ditelo. Comunque non ci voglio più pensare. Entro in casa e trovo Clara intenta a frullare quintali di pere in un mixer di ultima generazione. – Ancora latte? – faccio, senza dirle ciao. Lei non risponde. – Dov’è Germano? – Che sono? La balia di Germano io? Cazzo. Acida. Sarà tutto quel latte che beve. Poi, evidentemente attirato dalle poche battute, compare Germano. – Avete mangiato? – chiedo. – Beh, l’idea era quella di infilare una pizza nel forno – fa Germano guardandosi attorno furtivo, poggiando gli occhi ora su di me ora su Clara – ma poi sono dovuto scendere e andare alla rosticceria. – Perché? Era troppo impegnativo o avevi già la pancia piena di bistecche di soia? – Come? – fa Germano. – Di bistecche di soia – dice Clara. – Bravi – aggiunge poi – non so chi dei due sia stato, ma bravi... Buona notte. E scompare con il suo litro di frullato tra le mani, sbattendo la porta. – Ma che avete? – chiedo.
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Giorno V
Faccio per entrare nella sua stanza, ma la porta è chiusa a chiave. Busso. – Tutto bene? Nessuna risposta. Insisto sulla maniglia. – Ehi, Germano, ci sei? Silenzio sepolcrale. Da quando in qua chiude a chiave la sua stanza? Che novità è questa? Sono solo in casa, Clara non è ancora tornata. Decido di svaccarmi mezz’oretta sul letto prima della cena, una birra, un giro in tv, aspetto Clara, magari lei avrà voglia di cucinare. Questa mattina ho comprato tre orate, una frittura mista, lei sciorinerà le sue verdurine succose, Germano una bottiglia di bianco: Corvo bianco, scommetto. Vado a prendermi la birra ghiacciata dal frigo, ma prima sento il bisogno di mettermi addosso una T-shirt, una camicia, un maglione, una coperta: cazzo, fa un freddo boia! Quasi quasi rinuncio alla birra e mi preparo un tè. Spalanco il frigo. No, bene, allora vada per il tè visto che la mia birra se l’è bevuta qualcun altro. Adesso basta, però. Questo è troppo. Appena arrivano gliene dico quattro, non si può andare avanti così, eccheccazzo.
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Giorno VI
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Mi sveglio completamente rattrappito. Ho dormito dodici ore, ho saltato la cena, sono praticamente svenuto sotto il piumone invernale e sento di aver sofferto il freddo come mai in vita mia. E soprattutto come mai in estate. Sono le 11 e ho mandato a puttane l’ultima lezione di regia. Sono uno scellerato, mi segheranno di certo e me lo merito, eppure la cosa non mi preoccupa. Ho solo una gran voglia di andare da quei due e spaccargli la faccia per la piega che sta prendendo questa convivenza. Ora basta..
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In bagno c’è la condensa appiccicata ai vetri, allo specchio e alle piastrelle. Vuoi vedere che Germano ha comprato un condizionatore? L’avrà installato abusivamente in camera sua. Lo sapevo, ma certo, questo freddo boia sarà di certo opera sua. Che vile, che infimo, ne abbiamo discusso una settimana, lui era l’unico a favore. Ma ora che arriva Clara... E l’avrà lasciato acceso 24 ore su 24. Che bestia, che zero senso civico. Ma ora mi sente. Vado verso la sua stanza. È ancora chiusa a chiave. Vaffanculo, ma chissenefrega, io forzo la serratura. Questa proprio non la passa liscia. Faccio quattro passi in direzione dello sgabuzzino, oltrepasso la cucina, faccio slalom tra bucce d’arancia e scorze di limone spiaccicate a terra come fossimo in una discarica. Schiaccio senza accorgermene per tempo un pomodoro marcio lasciato a imputridirsi ai piedi del tavolo. Cumuli di biancheria traboccano dalla lavatrice, la spazzatura di due giorni mi osserva coatta spurgando liquame dal fondo dei sacchetti. Io vi ammazzo tutti. Recupero ciò che mi occorre: cacciavite, martello e chiave inglese. Dopo due minuti sono nella stanza di Germano. Ad accogliermi uno scenario da bidonville. Avanzi di cibo appallottolati nell’angolo in fondo a sinistra, croste di pizza, mutande lerce e un arsenale di scatolame, pacchi di pasta, ceste di frutta, pane raffermo e pancarré ordinati in fila sulla mensola come in uno scaffale da supermercato. Manco fossimo in un bunker post nucleare. È uscito fuori di testa. – Cazzo stai facendo? Mi volto e quel che vedo mi fa sentire come un ladro d’appartamento: Germano ricurvo davanti ai miei occhi, con un coltello nelle mani e il sopracciglio ballerino, smascella mefistofelico muovendosi al rallentatore verso di me. – Ti piace entrare di nascosto nelle camere altrui? Mi è addosso. – Hai forzato la serratura! Scudiscia la lama che quasi penso mi voglia sgozzare. E forse
sta per farlo: mi caccia gli occhi negli occhi, oddio, adesso mi infilza, mi infilza...
Giorno VII Germano non ha installato nessun condizionatore. Le scorte alimentari le tiene perché anche a lui qualcuno ha preso a fottergli le cose dal frigo. E quel qualcuno non sono io. Di Clara neppure una traccia. Da due giorni ormai.
Mi sveglio di soprassalto. La sveglia segna un quarto alle due. Dalla cucina un martellamento cupo e prolungato mi fa traballare le palpebre. È un rumore sordo e ingolfato, come di tosse metallica, come di pistone ostruito. Il freddo ha smesso di congelarmi i peli del culo, mi scopro squagliato sotto il piumino d’oca, appiccicato al pigiama di flanella come una carta moschicida: soffoco, l’aria è indigeribile e spessa, boccheggio uno, due volte verso la finestra. Fuori silenzio, dormono gli uomini normali, qualche macchina ogni tanto mentre il rumore impassibile mi lamella il cervello come un richiamo di morte. Non penso più, non so più niente. Gli avanzi di tonno in scatola e fagioli borlotti hanno risposto al caldo improvviso esalandomi addosso tutta la loro serie zeta di gas da putrefazione. Non so più niente, non voglio sapere. Rimango alla finestra fino a quando le ginocchia non mi cedono. Mi accascio a terra. E forse se non sto per morire può darsi che venga colto dal sonno.
Il frigo
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Giorno IX
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Il freddo ha ripreso a crivellarmi atrocemente, più acuminato, più aggressivo: mi passa da parte a parte e mi schiaccia i polmoni. Io e Germano non ci incontriamo più. Sono sicuro che anche lui ha smesso di andare a lavoro. Sento i suoi passi spargersi a raggiera per tutto l’appartamento. Lo sento venire di notte dietro la mia porta, provare a entrare, ma ho messo su quattro lucchetti che neanche Lupin potrebbe violare. Armeggia per qualche minuto, ormai non prova neppure a chiedere se ci sono. Fa due o tre tentativi, ansimando con uno sbuffo fetido a risucchio da asmatico lercio che sembra incollarsi in faccia, asfissiante, assassino, perché io lo so che cosa vuol fare: vuole ammazzarmi come ha fatto con Clara. Clara, che fine atroce. Non ci posso pensare. Ma io lo aspetto. Ci vorrà qualche giorno, una settimana. E poi quando alla fine riuscirà a entrare io sarò qua: pronto, feroce. Sono qua che ti aspetto, mio caro coinquilino. Per spaccarti sul cranio questo cric da dodici chili, piazzartelo al centro della fronte e insistere ancora e ancora, 10 colpi 20 colpi, fino a che la tua faccia non sarà diventata poltiglia nel liquame della merda che c’è sul pavimento. E mi fermerò solo quando il tuo cervello diventerà una pappa informe e omogenea, degna di stare tra la melma della mia immondezza.
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Giorno X
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Cominciamo. Il gelo è talmente rarefatto che quasi non riusciamo a respirare. Germano si copre la bocca con una tovaglia, temo che le lame di ghiaccio mi spacchino il torace, le sento insinuarsi dentro una a una, fendermi la carne, ledermi gli organi vitali. Il primo bullone è saltato. La bestia reagisce, si lamenta, strilla latrati metallici. Via anche il secondo, comincia a vomitarci addosso un liquido putrido e indefinibile, gelido e limaccioso, aberrante. Siamo sommersi, moriremo soffocati. Germano si scansa nauseato, si rifugia in un angolo, non è più in grado di continuare. Tocca a me. Ti spacco il culo, bastardo. Nella melma dilagante riesco a vedere l’ingranaggio principe, il motore, il cuore del mostro. Ed è lì che lo voglio colpire, è lì che voglio arrivare. Incuneo un braccio all’interno del suo ventre, Germano piange di disperazione, mi prega di stare attento, mi spingo in fondo fino alla spalla, con la cesoia a doppia lama tento di entrare, di afferrare l’ingranaggio. Ci sono quasi, mi faccio spazio tra la merda organica con l’altra mano, eccomi, ci sono. E zac: spaccato! Il mostro mi risputa indietro con uno schianto da bomba all’idrogeno. L’appartamento trema. Io e Germano ci abbracciamo, sicuri che sia giunta la fine. Saltano i vetri della porta, della finestra, lo sportello ci crolla addosso, lo rinculiamo con un calcio a due. Fumo e detriti avvelenano l’aria, ma dopo qualche secondo l’esplosione ha già smesso di far vibrare le mattonelle e non appena la fuliggine si trasforma in deposito nerastro su tutto quanto, non appena l’aria si schiarisce e i polmoni riprendono a spugnare e il cuore a pompare battiti regolari, vediamo ciò che c’è da vedere, vediamo in che stato riversa il nostro appartamento, capiamo cos’è successo in questi ultimi dieci giorni.
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Il frigo
Il frigorifero ha mangiato Clara. Con ciò che rimane di lei, con i brandelli del suo corpo tra le mani, ci rimettiamo in piedi e ci avviamo esausti. Ognuno nella propria stanza.
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MARMORTO
È quasi mezz’ora che lo faccio, perché sono sfinito, assetato, fottuto di paura. Sono terrorizzato. Accanto a me un uomo. Anche lui fa il morto a galla, ma forse lui è un morto vero perché sta galleggiando a faccia in giù e dubito che in quella posizione riesca a evitare che l’acqua gli entri nel naso. Odio quella sensazione gassata al centro del cervello quando il mare ti entra nel naso: come se qualcuno ti stesse infilando su per le narici un clistere al peperoncino. Finirò umido e rigonfio e logoro e spalmabile come una carcassa di rospo vecchia di 4 giorni. Che dio mi aiuti. Sempre che dio sappia nuotare. Sono in mare aperto: davanti a me il mare, dietro di me il mare, a destra e a sinistra il mare. Solo mare. All’orizzonte rischiara l’alba. Da quella parte la mia terra, dunque: il sole sorge a est, no? Tra poco sarà giorno e il sole comincerà a picchiare forte. Nuoto in direzione del cadavere, del morto vero. Lo afferro e cerco di appendermi al suo torace come fosse una zattera, come fosse un legno resistente su cui salire e lasciar riposare le gambe e gli addominali, far rilassare il diaframma contratto dallo sforzo costante di non affondare. È un negro grosso e lungo come fosse davvero una zattera: forse potrei salirgli addosso, potrebbe sostenermi.
Marmorto
Mi chiamo Visar Zihiti e le mie dita sono diventate molli e rugose come la melma delle alghe tra gli scogli. Sto facendo il morto a galla.
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Ci provo, ma appena le mie braccia lo raggiungono lo stronzo va giù che è una bellezza. È così pesante e allo stesso tempo così leggero che non ci capisco un cazzo. Perché da solo galleggia e con me attaccato no? Ci siamo, è salito il sole. Tra un po’ sarà così ardente che la testa mi andrà a fuoco nonostante l’acqua, nonostante sia immerso in tutta questa inutile bastarda maledetta acqua. Torno a fare il morto, distendo le gambe, le braccia allargate attorno al torace, mi abbandono al cielo che schiarisce sopra i miei occhi. Neppure una nuvola, neppure un fiato, neppure un rumore. Le orecchie a fondo, sotto la superficie. Il nulla che mi avvolge è liscio e ovattato, immagino di essere nel ventre di mia madre. Siamo soli, io e mia madre, sono un piccolo girino comodo e tranquillo attaccato alla pace di questa condizione, cullato tra le pieghe delle sue viscere. Qui c’è caldo, è confortevole, è l’anticamera del paradiso, qui dentro non si è ancora, blup blup blup, questo è il liquido che mi tiene in vita, posso respirare immerso in queste acque, posso stare calmo, ho tutto il tempo per nascere, crescere, per morire annegato, buttato in mare come fossi già un cadavere. È questo quello che mi hanno fatto. Mi hanno gettato via dalla barca assieme al negro credendomi morto, assieme a lui che morto lo è davvero e galleggia placido, privo di vita e di terrore. Questo pensiero mi rigetta violento fuori dall’utero come un parto prematuro. Vengo su col fiato spezzato, annaspo e comincio a pensare che non c’è più niente a cui pensare, che sono finito, finito nel nulla, sciolto nell’orrore della morte che si fa attendere, che arriverà a breve per sfinimento, per arresto cardiaco, perché perderò i sensi e non mi accorgerò neppure di essere annegato. Con gli occhi sgusciati come biglie lucide, in questo vuoto sordo e assordante sento soltanto il martellamento impazzito del mio cuore, mi manca il fiato, non riesco a respirare, le braccia le gambe si muovono senza il mio controllo, mi piscio ad-
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dosso per l’ennesima volta, scalcio, strepito, sputo sale e parole sorde, tutt’attorno un esplosione di schizzi e fragore di acqua contro acqua, non coordino i movimenti, sono perduto, non respiro, dischiudo le labbra fino alla lussazione della mandibola come fossi solo bocca, come fossi una bocca gigante, uno schifoso inesistente animale fatto di fauci e trachea che non vuole saperne di allentare la presa, di cedere alla contrazione, mi assalgono sprazzi di cielo e di onde, fasci sfuocati e acquitrinosi, vado giù e poi riemergo e ancora giù, bevo ettolitri di veleno, l’acqua mi saturerà i polmoni, non riesco a chiudere la bocca, sono andato a fondo, sono sotto, non respiro, vengo su, non vedo un cazzo, non riesco a vedere, lacrime e acqua ovunque, gli occhi le orbite le cornee ricolmi di lacrime, soffoco, la testa mi esplode, il confine tra cielo e mare è inesistente, non è mai esistito, tutto si mischia, il cielo le acque le braccia che sbattono impazzite come prese da una scossa, un momento ancora e poi muoio, un attimo ancora di contrazione toracica, di lame nello sterno, ancora un secondo e poi questa motosega che mi sfonda il diaframma arriverà anche al cervello, urto contro il cadavere del negro, lo sento accanto a me attirato inerme dal turbinio innescato dalla follia dei miei arti che ancora non si rassegnano alla stasi, mi ci aggrappo, le mie braccia lo trivellano di colpi, quello va giù ma poi riemerge e io ancora a colpirlo fuori da ogni controllo, il mio corpo lontano, terribile, un ammasso di cellule impazzite, poi all’improvviso, piano piano, dalla bocca assieme al sale, a secchiate di getti e di schiuma, al panico, comincia ad arrivare lento e sottile uno stupido soffio di ossigeno, il diaframma inizia ad allentarsi, si sbroglia, altre due contrazioni insopportabili e poi poco a poco si rilassa, respiro, uno due tre, respiro, sempre di più, sempre meglio, avvinghiato al negro, respiro, sto respirando, aria, riesco a contorcergli i vestiti inzuppati, le mani rispondono ai comandi, le gambe rallentano le sforbiciate epilettiche di qualche attimo prima, aria.
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Respiro. Respiro. Respiro. Dio, dammi la forza di resistere, proteggi questo tuo figlio perduto, che sia fatta la tua volontĂ , ma dammi ancora una possibilitĂ , una sola, lascia che un peschereccio mi trovi, lascia che mia madre possa piangere sul mio cadavere, lasciale un corpo, dio, non abbandonare tuo figlio, non abbandonarmi. Che volevo solo andare incontro a una vita migliore.
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Blup blup blup blup blup. È passato un mese, cinque minuti, sei anni. Sono ancora qua e il morto accanto a me. L’ho spogliato della maglietta, me la sono avvolta sulla testa, ogni tanto la slaccio e la inzuppo per trovare un po’ di sollievo, il bruciore è insopportabile e il sale mi logora gli zigomi, il naso, le labbra. Le mie labbra sono carta vetro, sono le fiamme dell’inferno, punte di cristallo tagliente contro le gengive arse, contro la lingua rigonfia. Mi sfrego il viso e sulle mani spugnose lembi di pelle morta e umida e sottile come un foglio di carta velina mi rimangono appiccicati sui palmi che palmi più non sembrano ma spugne immonde imbevute di veleno e morte e morte e veleno. Immagino la scena. La scena in cui di notte quei due balordi di traghettatori mi hanno afferrato uno alle caviglie e l’altro sotto le ascelle e mi hanno dato in pasto all’agonia. Uno, due. E tre. Pupluf. Prima il negro e poi me. Mi avessero sparato un colpo alle tempie. Pupluf il negro, pupluf io. E le bestie trasportate neppure una smorfia, neppure una voce per la vita di un uomo che vale meno di quella di un cane. No, che fate? Non potete buttarli in mare: fermi! Che cazzo te ne frega? Eh? Vuoi finire pure tu a mollo? No caro, io non finisco a mollo perché forse ci finisci tu, siamo almeno cento e voi solo in due: vuoi vedere che vi facciamo il culo, eh? Sarebbe bastato un solo grido, un accenno di protesta, un fiato a mezza bocca, uno solo, una mano tesa e poi un gesto impercettibile da parte mia, un dito curvo, una smorfia della bocca per dire che no, non sono morto come il negro, sono vivo, sono solo svenuto, ma vivo, tenetemi su, tenetemi a bordo ché devo arrivare in Italia, mi aspettano, c’è mia sorella e mio padre, ci sono i soldi, c’è il lavoro, c’è Totti e Gattuso, le ville sulla costa, Briatore, i centri commerciali, le sfilate di moda, Laura Pausini, la tv che ti fa diventare un divo, la Ferrari, la gente che sorride, mi aspettano donne bellissime
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e porche, donne dalle tette enormi e culi sodi, ho vent’anni, cazzo, voglio una moglie da scopare giorno e notte sui lustrini di Buona domenica, e un campo di calcio.
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Ho aperto gli occhi che un uomo lungo e sottile e senza capelli mi sta sfondando il torace a forza di colpi. Oh, sta’ fermo: dico. Senza che nemmeno il ricordo di una parola possa uscirmi dal petto. Sputo, annaspo, soffoco di nuovo e vomito bile e acqua a gittate feroci di schiuma mischiata a sale mentre la trachea mi va in fiamme e le narici esplodono incapaci di contenere tutto il mare che ho nello stomaco. Mi mette di fianco, continuo a sputare tutti i torti all’umanità, eppure respiro e sono vivo, spalmato e senza difese sulla prua di una barca a vela. Una luce accecante come un razzo fetido mi trivella la retina e mi costringe gli occhi a una fessura balorda dalla quale non riesco a vedere un cazzo. Sento però, riesco a sentire l’uomo che mi parla nell’orecchio, sta gridando parole incomprensibili, continua e continua, forse vuole sapere se sono vivo, muovo un braccio e poi una gamba in una sorta di finto riflesso incondizionato, lo sperono lontano, l’ho colpito. Vaffanculo, non sono mica sordo: non capisco la tua lingua, stronzo di merda. Riesco a issarmi sulle chiappe, attorno a me sole e luce e legno bagnato, sento le fiamme dell’inferno sparse a raggiera sul mio viso come mi avessero marchiato a fuoco gli zigomi, la fronte, come se fossi all’interno di una maschera di plastica che cede e si piega, squagliandosi sotto il calore di una fornace. Una donna mi porge dell’acqua. Afferro la bottiglia e un’esplosione di schegge di vetro e pietre taglienti mi penetra la carne, mi sfonda le labbra, la lingua, le gengive, mastico lastre di metallo infuocato assieme al dolce dell’acqua potabile che mi dischiude le membra, mi anestetizza il palato, scende giù a gittate incontenibili, mi accarezza la trachea, mi distende i muscoli, il torace.
Sono salvo. Dio ha sollevato dalla sofferenza il suo figlio perduto.
Un urlo strozzato mi ha fatto svegliare. Come liberato dal gancio che tiene una molla, rimbalzo seduto a faccia avanti. Sfrego la fronte e lo zigomo contro il panno ruvido che mi avvolge dai piedi alle spalle. Mi sento la faccia tesa come se qualcuno mi stesse tirando dai lobi per appendermi ad asciugare. Chi ha urlato? Sono stato io? Sognavo di essere in mare aperto, ho sognato del negro, ho sognato che cercava di affondarmi per salirmi in groppa e usarmi come zattera. Esco in coperta e subito la donna con le tette a melone mi viene incontro. È sera, stanno mangiando, seduto al piccolo tavolo c’è l’uomo che mi
Marmorto
Sono sottocoperta, la donna mi cosparge di roba unta e profumata. Di tanto in tanto mi parla, dice cose incomprensibili con un tono di voce gentile e ovattato. È in costume da bagno, ha due tette rigonfie come cocomeri. Ora ha preso a imbrattarmi il volto. Lo fa lentamente, ha gli occhi chiari come quelli di Britney Spears, sembra quasi che abbia paura di farmi male, ma mi dà sollievo, dio solo sa quanto sollievo mi dà. Ora mi guarda fisso perché mi ha fatto una domanda, cerca di parlarmi in inglese, ma io non conosco l’inglese: you, do, italian, what, where, I’m italian, how? Ma non capisco un cazzo, possiamo comunicare solo guardandoci negli occhi e ora sembra proprio che abbia afferrato, che questa donna abbia capito che voglio dormire, perché mi tira sulle spalle una coperta morbida e profumata e se ne va. Devo solo chiudere gli occhi e pregare, perché a quanto pare non ho fatto la fine del negro. A proposito: e il negro? Faccio per chiamarla, per chiederle del negro, per sapere se hanno raccolto anche lui, ma poi la domanda mi muore tra le labbra, sono troppo stanco, ho bisogno di dormire un po’, giusto mezz’ora, giusto il tempo di recuperare le forze.
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ha rianimato. Vengo su guardingo e prudente, prima che gli occhi si abituino alla luce fioca di una candela. L’uomo fa segno di sedermi e mi offre una sigaretta, poco dopo la donna mi porge un piatto con dentro una pappa gialla e tocchetti rosa. Con il pollice contro il mento faccio segno che voglio bere: ho sete, ho tutta la sete del mondo. L’uomo mi parla ancora in due lingue diverse, mi dice che sono italiani: certo, genio, l’ho capito che siete italiani. La donna prova un blablabla veloce e subito dopo mi mostra il tubetto di sbobba che prima mi ha spalmato sulla faccia. Certo che voglio la tua sbobba: ho le labbra in fiamme, forse rimarrò ustionato a vita. Blabla bla blablabla. Non hanno ancora capito che non è possibile intendersi a parole, continuano a parlarmi con un tono caldo e rassicurante, con frasi piene di vocali, con le bocche sempre più aperte. Blaaablaaablaaa. Che brutta lingua che è l’italiano, che dio mi protegga. Allora l’uomo fa uno schizzo su un foglietto a quadri, disegna una barca. Che cazzo vuol dire? Lo so che siamo su una barca. E allora? Prendo il foglio e disegno anch’io una barca con tanti omini a bordo, poi il mare e tra le onde un uomo a galla, io, e uno steso, galleggiante, morto: si capisce che è il morto. Faccio due cerchi spessi attorno al morto, voglio sapere del negro, glielo passo. Loro si guardano perplessi. Gli faccio cenno con l’indice calcando forte sul cerchio che incornicia il negro: allora? L’uomo comincia a fare smorfie strane con la faccia, con le mani: indica me, la donna, poi ancora me, poi il mare. Non capisco un cazzo. Riafferra il foglio e disegna ancora. Disegna di nuovo una barca, più grande, senza vele, la rifinisce con una striscia sui bordi e scrive: sos. Mi guarda e punta l’indice verso il mare aperto, poi tracciando una lunga parabola torna a puntarlo su di me. Ripete il gesto due o tre volte: sos. Mi volto in direzione dell’orizzonte seguendo con le torsioni del collo il suo dito da là a qua, dal mare a me: sos. Poi ci arrivo.
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Merda: sos. Hanno chiamato i soccorsi, hanno avvertito la capitaneria di porto, hanno avvertito la polizia, verranno a prendermi, tra poco saranno qua, mi porteranno via, mi rispediranno a casa. Maringlen, sorella mia, come faccio? Non posso tornare a casa, non posso, bastardi maledetti, mi hanno fregato, ho pagato 2.000 euro per salire su quella merda di bagnarola, non mi ci farete tornare indietro, col cazzo che ci torno. Scatto in piedi mandando all’aria il tavolo con tutti gli stupidi cocci che lo imbandiscono. A piedi nudi cammino sulle stoviglie, sulle forchette, perdo l’equilibrio ma non cado, punto una mano a terra e con un colpo di reni sono ancora su, corro come preso da una scossa elettrica, in un attimo sono a poppa. Uno due, mi butto: tre. Cazzo, non posso tornare laggiù. Mi volto e vedo l’uomo venirmi incontro. Faccio per saltare e gli intimo di non avvicinarsi. Che mi butto, giuro che mi butto se fai un altro passo brutta testa di cazzo. Pare che questo lo abbia capito: rimane fermo lì dov’è, immobile come un animale impagliato. La donna lo chiama: Roberto, Roberto... Roberto, dico anch’io, ma non so che cosa aggiungere perché non so cosa fare: sono in trappola. Guardo di nuovo il mare, è una latrina buia e orribile di olio nero e morte, mi sporgo con un piede nel vuoto, chiudo gli occhi, trattengo il fiato. E un secondo dopo sono addosso a Roberto, con una testata gli spacco il setto nasale. L’uomo ruzzola a terra contratto dal dolore, lo colpisco ancora una due tre volte, tre calci alla bocca dello stomaco, Roberto mugola in una pappa di sangue e schiuma dalla bocca, la donna urla impietrita, non sa fare altro che urlare, idiota, avrebbe potuto darmi una botta in testa con una bottiglia piuttosto che frignare. E invece devo occuparmi anche di lei. Le mollo un pugno in pieno viso, cade, l’afferro per i capelli e la scaravento sottocoperta, stramazza di faccia contro il piede del tavolo per le carte nautiche, deve aver dato una gran botta perché un suono greve rimbomba come un boato in una grotta. Ha perso i sensi, non si muove. Torno da
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Roberto che continua a contorcersi come un cetaceo arenato, lo trascino per le caviglie e scaravento anche lui di sotto. Un secondo dopo mi ritrovo a guardarli, la donna ancora svenuta e Roberto una maschera di sangue, con gli occhi sbarrati di chi non può credere che stia succedendo proprio a lui di essere fottuto da uno stronzo ripescato in mare. Li attorciglio ben bene a forma di doppio insaccato, con i polsi legati stretti e violacei a una estremità del tavolo e le caviglie alla porta del cesso. Adesso devo riflettere. Fuori, a parte il caos dovuto al ribaltamento del tavolino, tutto è calmo, tutto è ordine e silenzio. Ogni tanto mi arrivano da sotto i mugolii di Roberto che, bavaglio in bocca e naso fracassato, prova a protestare per la fine ignobile che gli è toccata, ma non mi lascio disturbare. Devo pensare, vado su e giù sul pontile, mi guardo attorno, cerco la candela tra le macerie di cibo appallottolato ovunque e plastica rotolata. Mi accendo una sigaretta e ridò vita alla fiammella che circoscrive una porzione dolce e morbida di spazio rassicurante, riesco a rilassarmi, stendo le ginocchia, aspiro e inspiro lentamente, dal naso lascio che il fumo vada a mischiarsi spedito alla luce fioca della candela, mi piace, fa un bell’effetto, mi sembra di essere in una sauna con l’asciugamano attorno ai fianchi e una cedrata da sorseggiare piano. Mi guardo attorno. Le barche a vela hanno il motore, lo so. Questa non è la prima volta che ci salgo. A Vlore, il padre di Sali d’estate faceva attraccare le barche al molo e la notte ci dava il permesso di salire a bordo per dare un’occhiata: nel caso in cui avessimo trovato qualcosa di interessante avremmo steccato in tre, ma non c’era mai niente di grande valore, robetta, qualche orologio, poca bigiotteria, creme solari... Spengo la cicca. Mi accosto al cassone dentro cui dovrebbe esserci il motore, apro e... C’è! Devo far partire questa merda e cambiare rotta, non ci devono trovare. Arriverò in un punto
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qualsiasi lungo la costa, tra gli scogli, lontano dal faro, lontano dal porto, abbandonerò la barca, a nuoto arriverò a terra e poi sarò libero. Ecco, questo è quello che devo fare. Scendo sottocoperta, afferro la carta. Roberto mi guarda nella sua maschera di sangue, gli occhi allampanati che sembrano volersi scagliare via dalla fronte e andare a passeggio. Mi fa pena. Gli svuoto una mezza bottiglia d’acqua sulla testa e piano piano, lavando via il sangue, ricompaiono le labbra e il naso, gonfio come una pera e accartocciato tutto verso sinistra. Fa impressione. Gli porgo la carta, lui non reagisce, mugola, dovrei togliergli il bavaglio ma non me la sento, comincerebbe a frignare, lo so, gli italiani non hanno fegato, sono tutti delle mezze checche con quei foulard attorno al collo e quelle facce piene di cerone. Gli indico un punto sulla carta. Siamo qua? Dico. Lui niente. Siamo qua? Minaccio, alzando il tono. Lui scuote la testa. Qua? Ancora no. Qua? No. Dove cazzo siamo allora? Non può indicarmi il punto, è legato come un salame, ma certo non faccio la stronzata di liberarlo. Mi guardo intorno e i miei occhi si poggiano sul compasso caduto a terra, incastrato in un angolo. Lo accosto alla sua faccia, ma Roberto si agita, sbuffa urla soffocate dietro il bavaglio. Non ti faccio niente, idiota, pensa che voglia infilarglielo in un occhio, perché dovrei? Imbecille. Scosto il bavaglio quanto basta per intravedere una fessura tra le sue labbra e glielo caccio in bocca, stampandogli la carta contro il muso. Ora dimmi dove siamo, dimmelo! Roberto capisce e con un colpo di mandibola segna un punto preciso nella distesa d’acqua. Ci infilzo l’aculeo del compasso e faccio per tornarmene fuori quando l’occhio mi cade sulla testa della donna che segue sballottolando il moto delle onde. Non sarà mica morta? Le tasto l’aorta. No, è viva, solo svenuta. Le scarico addosso l’altra metà della bottiglia, ma niente. Pazienza, si riprenderà. All’esterno mi studio la carta, non siamo lontani dalla costa, col motore ce la possiamo fare in un paio d’ore, però devo
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cambiare rotta, mi avvicino al timone, disinserisco il pilota automatico e... No, cazzo, devo prima accendere il motore. Ok, ci provo. Ripeto le operazioni ripassate a mente e zac, la macchina si mette in moto, è viva, funziona. Do gas e viro tutto a sinistra, la barca si piega violentemente, sembra capovolgersi, si solleva gigantesca da destra a sinistra, quasi mi rimbalza in mare, puttana, mi tengo stretto al timone, si sollevano ettolitri d’acqua, ho girato troppo in fretta, i due di sotto saranno sommersi da un’apocalisse di cianfrusaglie e tutto il resto, gli alberi si piegano, le vele toccano la superficie del mare, l’acqua entra dappertutto, ma non mi preoccupo: sono o non sono studiate a posta queste bagnarole per non ribaltarsi mai? Riprendo finalmente la rotta, la barca si riadagia tranquilla sulla superficie delle onde, fluttua e va veloce, insomma: più veloce di prima, ma non basta. Ingrano un’altra marcia, in fondo è come guidare un trattore, c’è un piccolo scatto, ma non quello che mi aspettavo. Guardo le vele spiegate: ecco perché! Bisogna arrotolarle, cazzo, non si può andare a motore con le vele spiegate, rallentano la corsa, sono inutili, le vele servono solo per il vento, per andar piano, per quelli che vanno in vacanza e non per i fuggiaschi, per i clandestini, per i disperati come me. Abbandono il timone e mi dirigo verso il fiocco. Arrotolo prima quello, perché da quanto mi ricordo è il più facile e in cinque minuti me la dovrei cavare, poi forse basta arrotolarne una sola di vela, meglio iniziare dalle cose semplici. Slaccio una cima grossa come una salsiccia tesa attorno a una specie di rullo gigantesco, do fiato alla corda e quella va, va per davvero, la vela si affloscia piano piano come un pallone forato. Con la corda tra le mani mi avvicino all’albero, devo raccogliere quel che resta della vela accasciata attorno al legno in modo che stia buona e non sia d’impiccio, mi avvicino e inizio ad arrotolare chilometri di fune e di telo umido e scivoloso. Sono a piedi nudi nel pantano di schiuma che continua a schizzare malgrado il mare sia una tavola e il cielo pieno di stelle. Perché
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cazzo si agita tanto questa barca? Cazzo, il pilota automatico. Ho lasciato il timone incustodito, la barca sballa in balia del nulla, sembra impazzita, non prende una direzione, mi pare quasi che si stia attorcigliando su se stessa, prua e poppa si librano pesanti nel cielo facendo a gara a chi arriva più in alto, mollo il fiocco e la fune e mi dirigo verso il comando. Faccio un passo e una sbuffata di schizzi e schiuma mi inzuppa dalla testa ai piedi, mi scosto dalla fronte i capelli appiccicati e salati lungo tutto il viso fino al mento, metto a fuoco il timone, devo arrivarci in fretta, la candela si è spenta da un pezzo, non vedo un cazzo, il suolo mi si scioglie sotto i piedi, scivolo ma riesco a non cadere aggrappandomi ai bordi di ferro, un rumore stridulo mi schiaccia i timpani, viene da dietro, mi aggredisce alle spalle, dietro la nuca, ho solo il tempo di voltarmi ma non di mettere a fuoco l’immenso telone bianco che mi si sta schiantando sulla faccia, mi schiaccio schiena alla ringhiera facendomi più piccolo di uno sputo ma la botta arriva lo stesso, agghiacciante, malvagia, contro lo sterno, contro il mento che rimbalza all’indietro e sbilancia il corpo e la testa al di là della protezione di metallo, piedi all’aria e testa in giù, sono in aria lungo e contratto verso il buio, un attimo che sa di millenni e poi il mare mi ingoia dalla testa, gli occhi la bocca, mi risucchia avido fino alle caviglie, mi manda giù, a fondo, lontano, nel luogo più buio della memoria, silenzio senza fiato, mi muovo a rilento, sono finito in acqua, devo riemergere in fretta, devo riprendere la barca, vengo su strozzato, sputo bile e poltiglia salata, muovo le braccia in un gesto automatico, sto nuotando, disperato, inferocito, nuotando come un pazzo, come un razzo moscio verso quella fottuta barca che sola e sbarellata si allontana a vista d’occhio, nuoto, la raggiungerò, giuro su mio padre, nuoto e nuoto, un braccio dopo l’altro seguo la scia del motore, vedo ancora l’albero maestro, lo vedo, vedo la prua, la vedo, nuoto nuoto senza badare al torace che a ogni bracciata si riempie di lame, la vedo ancora, si allontana sempre più ma-
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cinando schiuma e miglia e speranze, la vedo piccola e sempre più scura, si confonde tra pennellate di buio pesto, la scia è sempre più sommessa, è il ricordo di un manto, di un mantello sfilacciato, non la vedo più, l’ho persa, giro come una trottola su me stesso, tutt’attorno a me è buio e livido, ancora acqua, ancora sale, sono sfinito, trivellato dai crampi, mi esploderà una gamba, sento il torace spaccarsi in due come un melograno sanguinolento, mi esplode il cuore, si spappola implodendo nella gabbia toracica. Sono fottuto.
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Mi chiamo Visar Zihiti e le mie dita sono diventate molli e rugose come la melma delle alghe tra gli scogli. Sto facendo il morto a galla.
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Dunque, buongiorno a tutti. Iniziamo. (Mi scusi, può per favore aumentare di poco la luminosità? Sì, così, perfetto.) Allora. Maschio d’uomo, anni 55. Nella casa nessun rumore se non i fremiti del fischio d’inizio. È la finale, uno di quei match che fagocitano i cervelli degli individui dubbiosamente pensanti. Nel luglio opprimente dell’abitazione, il maschio d’uomo ha appena poggiato il considerevole peso della sua massa corporea su un divano di forma irregolare, in pelle blu, un pezzo vintage costato un paio di giornate di lavoro, morbido e invitante come l’antro di una bella donna. Alla destra un mobile basso, un tre piedi con una zeppa sotto il piede n. 2 per rimediare a un irritante squilibrio, difetto di fabbrica. La superficie del mobile scompare alla vista, sotto i rimasugli di un pasto consumato senza masticare. Cartone di pizza, dentro tranci semidilaniati da impronte dentarie di impeccabile precisione, posacenere ricolmo con cicche maldestre straripate oltre il perimetro consentito, (zummi qui per favore, ecco).
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Laboratorio semestrale. «Condizionamento operante: analisi qualitativa del comportamento del maschio medio italiano.» Relatore dott.ssaVera Cazzara.
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La cavia
Da qualche angolazione della stanza il gatto Micio balza sul televisore, con la sinuosità del felino aggira la foto familiare – uomo donna neonato sorridono a colpo di flash – con quel nome da intelligenze estinte Micio salta sul ventre dell’uomo, rimbalza e si accoccola sul divano vintage blu sugna-scuro. Il ventre dell’uomo, ora, vanta sull’orlo della maglietta che lo copre solo fino all’ombelico un paio d’impronte da animale domestico – che è tanto caro perché è autonomo e non sporca – oltre all’alone di sugo e olio e salsa verde e forse sperma rappreso della sera prima, quando in quella stessa posizione la compagna tv trasmetteva immagini di telefoniste nude con protesi mammarie abnormi e chiappe gommose. Tra la maglietta sconfitta e l’ombelico pronunciato, un incontenibile sottobosco di lanuginoso primo pelo grida: hurrà all’estate! È lì che un’orgogliosa comunità di batteri lavorerà all’edificazione della propria società democratica, è lì che come ogni anno, tra le pieghe dell’obesità, i padri fondatori cercheranno la loro terra promessa fino a quando il prurito insopportabile trascinerà l’uomo verso scelte obbligate dalle ditte farmaceutiche. E allora sarà il collasso di una civiltà che non soccomberà di certo senza aver combattuto. Il gatto Micio dal divano fissa il pavimento, è indeciso, crede di aver visto una preda: in realtà è l’alluce incarnito dell’uomo che flebilmente tenta di riguadagnare l’infradito scomparso pochi centimetri più in là eppure svanito, ormai, nella nebbia. L’infradito è di quelli da cineserie che stuzzicano la produzione di cattivi odori che stuzzicano l’acquisto di prodotti contro i cattivi odori che, non scomparendo, stuzzicano la consultazione del podologo che dice che un po’ di sana alimentazione e un po’ di sport e un paio di buone scarpe italiane fanno la differenza, ma quando il maschio d’uomo farà i conti sulla parcella del podologo, su quella del dietologo, sull’iscrizione alla palestra e sul prezzo delle scarpe Prada, allora deciderà di tenersi il suo fetore e con cheta complicità convivrà con il cadavere che porta a spasso sotto i
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talloni. Dalla tv gli omini che corrono perspicaci, rincorrendo la palla, stanno per fare goal. Il maschio d’uomo apre la bocca. Dapprima a fessura poi, man mano che il respiro si fa più affannoso, la spalanca del tutto. Gli incisivi superiori sono lievemente distanti l’uno dall’altro: nel mezzo un corpo estraneo a colmare l’imbarazzante vuoto – la pasta di pizza lavorata dalla secrezione salivare sa essere un ottimo collante e in più si presta perfettamente nella sua malleabile adattabilità a riempire i più svariati interstizi come le otturazioni mal riuscite. Più in profondità una lingua inerme, umida e ritratta, una lingua da coda alla vaccinara pungola con l’estremità il dente che duole, ecco, proprio in questo punto, (può zummare per favore?), ecco: vedete?
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a) trattasi di pratica masochista; b) altissima è per costui la soglia del dolore; c) eccezionalmente qualcosa nel suo cervello continua a muoversi parallelamente alla sua esistenza vegetativa.
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– Ohhhhhhhhhhhh… (Brusio in aula.) Con la punta della lingua ormai anestetizzata dagli ettolitri di birra e dalla ferocia della pizza alla diavola, senza saperne il motivo il maschio d’uomo tormenta una carie grossa come un cratere che potrebbe risolvere il problema dei parcheggi cittadini. Un piacere perverso di risposta al dolore va a sollecitare una resurrezione neuronale su cui nessuno avrebbe mai scommesso. Ed è per questo che l’uomo continua a masturbarsi la carie senza saperne il motivo. Domanda: perché mette in atto questo genere di comportamento? Secondo voi:
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(Silenzio, passano 2 minuti.) Nessuno prova a rispondere? (Mano alzata in fila 3, ultimo banco a sinistra.) Sì, lei, dica pure. – Credo che… Ecco, credo che la risposta esatta sia la c. Esattamente. Come ha intuitivamente colto la vostra compagna, la risposta è: perché eccezionalmente qualcosa nel cervello del maschio d’uomo continua a muoversi parallelamente alla sua esistenza vegetativa. Ma è una battaglia… È una battaglia… Ditelo voi: è una battaglia? – Persa in partenza! (Tutti in coro.) Bravi! Perché l’uomo decripta il messaggio e poi decide trattarsi di stimolo intestinale. E allora, come possiamo vedere, si alza a malincuore dal divano per andare in bagno ed è qui, esattamente a questo punto, che il maschio d’uomo esce dal nostro campo visivo. Dunque, a occhio e croce ricomparirà tra 5/7 minuti: nel frattempo interrompiamo la proiezione e ci concediamo una pausa. Non più di un quarto d’ora, però.
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Allora, ricominciamo. La cavia è tornata, riprendete posto in silenzio e passiamo alla seconda parte del nostro esperimento. A questo punto: (drin drin drin)... Sentite il campanello? Bene, il campanello non è altro che uno stimolo a variabile indipendente, stimolo a cui il maschio d’uomo si accingerà a rispondere. Di là dall’uscio c’è Justine, variante interveniente: 1 metro e 77 cm, 90-60-90, capelli lunghi biondo ocra, precedentemente cosparsa di sostanza oleosa che le conferisce un aspetto sudato e abbondante. Ecco, Justine è il nostro stimolo. Studiato scientificamente con materiale altamente strutturato, appositamente addestrata dal ricercatore, sta per fare il suo ingresso nella nicchia ecologica del maschio d’uomo che d’ora in poi
chiameremo reagente. E il perché lo dovreste sapere, visto che trattasi di programma dello scorso semestre. Ipotesi di lavoro: a) il reagente risponde allo stimolo erotico acconsentendo a concedere tempo e spazio alle richieste di Justine nonostante quella partita di calcio sia la cosa più importante che gli stia capitando dagli ultimi 20 anni e nonostante quella squadra di calcio rappresenti attualmente il maggior investimento emotivo del reagente; b) posto che la nostra ipotesi venga confermata possiamo elaborare la tesi seguente: lo stimolo erotico di natura interveniente determina la messa in atto di un comportamento x se y è lo stimolo suddetto e operante il condizionamento.
La cavia
Ma procediamo con l’esperimento. Il reagente apre la porta e alla visione di Justine fa un rimbalzo rumoroso all’indietro preso dallo sconcerto e dalla straordinarietà della circostanza: alla sua porta una donna bella, procace e bagnata. Lo stimolo interveniente procede secondo il metodo (alzi l’audio, per favore).
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Ora vi è una prima risposta istintiva: il reagente si sta grattando le chiappe. Potrebbe indicare uno stato d’ansia, una somatizzazione da prurito, un fastidio dovuto all’intrusione o anche un primo esito che ci porta verso la nostra conclusione, ossia: eccitamento crescente. Butta un occhio al televisore: il fatto di aver intravisto il break pubblicitario lo tranquillizza e così lascia entrare Justine. Che caldo! Mi offriresti qualcosa da bere? Lo stimolo passa sapientemente dal Lei al Tu e malgrado lo scenario sia abbastanza raccapricciante si stende comoda sul divano: è una professionista. – Ohhhhhhhhhhh... (Brusio in aula.) Il reagente la raggiunge con in mano una lattina di birra dozzinale. La porge continuandosi a grattare le chiappe e il ventre villoso. Dalla tv intanto il match riprende. Ti spiace se mi riposo un po’? Ho lasciato l’auto a due chilometri da qui... Il reagente guarda la partita. Lo stimolo insiste. Posso rimanere a guardare un po’ di TV? Qui con te? Con la mano gli fa cenno di sedersi. Il reagente, quanto mai confuso, versa della birra in un bicchiere e poi beve dalla lattina, fa un lungo sorso, espelle gas rumoreggiando e forse non volendo, perché subito chiede scusa. Figurati, anche a me piace ruttare. Ti spiace se mi metto più comoda? Justine si è appena sfilata la maglietta rimanendo a petto nudo, statuario, enorme. Il reagente le si siede accanto, secerne sudore e con riferimento a Pavlov possiamo notare che la salivazione è triplicata: guardate i rivoli di bava scivolare sul mento. Come potete vedere il reagente è quasi completamente preso dall’imminente soddisfacimento dello stimolo. Dalla tv, intanto, un fischio indica un calcio di rigore. Il reagente subisce una lieve torsione del collo, ma non guarda del tutto, non ha
La cavia
perso di vista lo stimolo erotico, perciò impercettibilmente deconcentrato continua il moto d’accostamento e si appresta a soddisfare il bisogno indotto. Justine apre la bocca invitandolo a baciarla, si lecca goduriosamente le labbra, il reagente è lì a 5 centimetri dall’afferrare quel seno trasbordante, con le braccia flesse e il pollice in opposizione prontamente incoraggiato, è a 4 cm, è a 3, è a 2, a 1... (lo inquadri bene, ora, sì) Afferrato!
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La squadra ha appena segnato: il reagente molla la presa e salta ritto in piedi sconquassando treppiedi bicchieri cocci di lattine vuote cicche cartoni di pizza. Si riversa sull’apparecchio con tutto il peso della sua mole, lo abbraccia urlando di piacere in un orgasmo tra i più sensazionali. Entrambi cadono, reagente e tv, l’accozzaglia apparecchio-reagente comincia a rantolarsi, l’urlo non si è affatto placato, il maschio d’uomo continua a esplodere nel più immenso godimento sensoriale che mai mai mai gli sia stato concesso. (Silenzio di ghiaccio in aula.) Come vedete il nostro stimolo ha fallito. (Il silenzio diviene tombale.) La nostra tesi è confutata. – Ohhhhhhhhhhhhhh... (Brusio in aula.) – Noooooooooooooo... (Esclamazioni di stupore e amarezza.) – Perchééééééééééé... (Scene di panico, l’isteria collettiva pervade l’uditorio, qualcuno piange, qualcun altro si torce i capelli, altri piegati si tappano gli occhi e la bocca.) Su, su: non dovete abbattervi. La scienza rinasce dalle sue stesse ceneri. Ogni teoria è vera fino a prova contraria. Bisogna saper accettare le sconfitte. La ricerca sul campo e il metodo sperimentale ci avvertono sui rischi a cui uno scienziato audace va incontro. E questi rischi sono anche l’amarezza della sconfitta, del tornare sui propri passi, sul riformulare nuovi quesiti, porre nuovi interrogativi. Ecco, interrogarci: perché e dove abbiamo sbagliato? Cari studenti, a voi che siete animati dalle migliori intenzioni oggi posso dirvi dall’alto della mia esperienza che ciò in cui abbiamo sbagliato, ciò che non abbiamo visto o che non abbiamo voluto vedere è stato... (il silenzio dell’uditorio è tale che quasi lo si può toccare) ... l’aver sopravvalutato la figa. – Ohhhhhhh... – Noooooooo... A conclusione dell’esperimento, dunque, vale questa legge.
La cavia
Per il maschio medio italiano niente vince sul gioco del calcio, neppure la figa. La lezione è finita.
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DANTE E IL GATTO
Dante e il gatto
Se c’era una cosa che Dante non sopportava, quella cosa era essere guardato dal gatto mentre vomitava. E quella sera il gatto lo stava guardando. Se c’era una cosa che il gatto non sopportava, quella cosa era guardare Dante che vomitava, con la testa nella tazza e le ginocchia sul freddo delle mattonelle. Dante non riusciva a capire perché quel gatto se lo dovesse ritrovare fra le palle, non era neppure suo, sempre a fare quel gruf continuo, a stargli agganasciato alle caviglie, a massaggiarlo con i polpastrelli, ma che cazzo voleva quel gatto? Questo si chiedeva Dante mentre svuotava lo sciacquone per la terza volta. Ma che cazzo sta facendo? si chiedeva invece il gatto, che Dante in quella posizione lo aveva già visto, ma ancora non era riuscito a capire esattamente che cosa fosse quello stare abbracciato alla tazza per così tanto tempo. Al gatto il tipo lì non gli era mai stato particolarmente simpatico, anzi. Non faceva mai colazione e mai che lasciasse a pranzo qualche briciola nel piatto. Poi puzzava di fogliame decomposto e muschio marcio. Intanto Dante, quando ormai aveva rivoltato per ben sette volte l’interno del suo stomaco nella cloaca, valutò l’equilibrio sulle gambe e capì che poteva ricomporsi infilando la cresta fucsia sotto l’acqua corrente. Serata letale. Nella testa gli rimbombavano ancora i tamburi del Ghana e la musica house, mentre dalla gola una lastra di filo spinato sembrava mandargli in fiamme ogni tentativo di deglutire.
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Dante pensò che era giunta l’ora di coricarsi. Sperava solo che il mondo attorno a lui si sarebbe fermato e che lo stomaco avrebbe smesso pacificamente di secernere succhi gastrici perforanti. Ma il gatto continuava a guardarlo. Com’era entrato in bagno non lo ricordava, ma del resto un gatto sgattaiola per antonomasia, per cui vai a capire. E poi che cazzo di quesiti da ubriaco. Che gliene poteva fottere a lui, alle 5 del mattino, di come era entrato quel gatto. Lui doveva solo andare a dormire. E subito. Da parte sua il gatto aveva sperato di raccogliere da quel vomito qualcosa di buono perché quella sera nessuno si era ricordato di riempirgli la ciotola e il latte avanzato dal mattino ormai si era fatto ricotta. D’altra parte la roba che era venuta su dalla bocca di Dante era qualcosa di veramente nauseabondo e neppure il più sfigato dei gatti randagi, forse, avrebbe accettato mai di sleccare. Così, appena la porta si aprì, il gatto sgusciò via verso la cuccia che poi consisteva in un panno vecchio buttato in un angolo, mica cuscini e cesti come quelli che si vedono in tv. Dante fece ancora una pisciatina prima di andare letto, ma non appena ebbe varcato la soglia della sua stanza si sorprese, cioè, più che sorprendersi fu come se gli avessero dato una craniata sulle gengive perché si accorse che non era solo, che tra le lenzuola era possibile ravvisare la presenza calda e opprimente di un essere dai capelli blu e bullone nel sopracciglio. Bestemmiò per questo e forse per tanto altro, cordialmente tra sé e sé senza che lei se ne potesse accorgere perché quella balorda creatura russava già e almeno, pensò Dante, non gli sarebbe toccato di scoparla. Ne fu rincuorato: in fondo a quell’ora e dopo una tale collassata, non ce l’avrebbe proprio fatta. Vabbe’, dormiamo con la signorina chicazzosei, pensò Dante. E prima di prendere sonno tirò su la coperta per vagliare la qualità della mercanzia che si era ritrovato nel letto. Chissà, ma-
Dante e il gatto
gari la mattina dopo, a forze riacquistate, una ripassata gliela si poteva anche dare, ma ciò che vide gli fece giurare che non avrebbe mai più portato a casa alcunché in preda allo sballo, perché a giudicare dalle dimensioni e dalla pelliccia dell’essere ciò che si era caricato dal rave non era esattamente quello che si suole definire un fiorellino. Non fosse per le tette, pensò Dante, potrebbe trattarsi anche di un maschio, di unoYeti, del Cugino Itt. Nello stesso istante il gatto, riverso in quel metro quadro freddo e lercio che era la sua cuccia, formulò questo pensiero: Che bello sarebbe dormire sul morbido, anche nel letto del puzzone muschiato, perché no?, ma poi chiuse gli occhi felini e si addormentò. Quella notte Dante fece un sogno. Raro, perché Dante in genere non sognava. Però quella notte sognò.
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Dante si piega e come fa per allacciare la prima fibbia, un auto decappottabile guidata da un gatto in camicia floreale e pelo al vento lo investe rovinosamente scaraventandolo tre metri più avanti. Dante sente una stilettata lancinante al basso ventre, è lì sulla carreggiata col sapore dolciastro del sangue nelle gengive e sciami nel cervello. Si accorge di sputare budella dalla bocca, di non vedere più un cazzo tanto rigonfi di sangue e lacrime sono i suoi occhi quando un secondo dopo l’auto lo sfrittella definitivamente, passandogli addosso a tutta velocità.
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La sua carcassa esplode in frantumi organici di poltiglia rosa-confetto, le viscere sparse sul ciglio della strada, la testa fracassata. Dante è finito spalmato e appiccicato al bitume proprio come un gatto morto sull’asfalto. E il gatto, che sente il botto, poi la frenata, torna indietro di qualche metro: allungando il collo vede Dante spappolato a terra, con le interiora che gli si traghettano dalla bocca al culo e sangue dappertutto.
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Quando Dante si svegliò nel cuore della notte aveva le palpitazioni a duemila e in bocca ancora il sapore del sangue e dell’asfalto. Accanto a sé c’era sempre la ragazza scimmia, le coperte sembravano aver assorbito tutta l’umidità di una fogna, il primate femmina russava che era una meraviglia e l’aria si era fatta irrespirabile. Provò schifo per il fetore e l’estraneità di quel corpo, per la lingua ferrosa e rigonfia come fosse davvero un pezzo di pancreas venutogli fuori dalle viscere, per il martellamento pneumatico che le anfetamine e l’acido continuavano a pistare nel suo cervello bruciato, per quel cazzo di sogno di morte e di gatto che aveva appena fatto. Un senso gelatinoso di disagio e muffa e sapidità bituminosa agli angoli della bocca lo fece balzare giù dal letto. Colto da una devastante scarica diarroica fece appena in tempo a raggiungere il cesso. Dio che carcassa d’uomo, pensò Dante, mentre coliche ancestrali lo facevano accartocciare su se stesso e sulla tazza, a ritmo regolare di una contrazione ogni due secondi. Era turbato dal quel sogno del cazzo. Cosa poteva significare? Sua madre, a sud, diceva sempre che i sogni significano cose, che bisogna interpretarli. E se fosse stata una premonizione? Una specie di stronzo avvertimento, del tipo: il gatto ti porterà alla morte. Certo, bisognava interpretare. Morte e gatto. Non sarebbe morto investito: altrimenti sai che cazzo di interpretazione, pensò, così è prendere alla lettera, nah. Però. Morte e gatto. Dante pensava. E pensava. Ma che cazzo voleva quel gatto? Poi, verso l’ultima fetosa spruzzata, l’illuminazione. Quel gatto era posseduto. Era il demonio in persona e lo aveva preso di mira, perché lui era pace&love, perché lui era sì uno sballone però era un buono, perché lui... Ecco, cazzo dio, perché lui era un profeta!
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Ma come aveva fatto a non pensarci prima? Lui era un profeta: Dante, il profeta del terzo millennio. Le allucinazioni che aveva avuto, i viaggi fatti in stato di trans, i milioni di messaggi divini che avevano tentato di mandargli in tutti questi anni e che lui da gran coglione non aveva mai decriptato. Lui era il profeta del suo tempo, i testi sacri sarebbero stati riscritti grazie a lui. Il profeta Dante 21,4,56. Assieme a Isaia e Giona e Giacobbe e Sandokan e Ken Shiro. Pulitosi il culo schizzò in piedi gridando. – Signore, sia fatta la tua volontà! Si guardò allo specchio e in un nanosecondo capì tutto quello che c’era da capire. La sua missione. Lui: fattosi strumento nelle mani di dio. La donna-scimmia: un inviato celeste. Il gatto: il diavolo tentatore, lurida carogna che si insinuava nei sogni per indurlo al male, al tormento. E allora gli quadrarono anche le coliche, i mal di testa, la collassata e poi le seccate all’università, le manganellate prese dai fascisti, le corna di Kira, insomma: tutta la sofferenza fisica, il dolore che avrebbe portato come una croce sul suo corpo perché questo era il sacrificio che dio gli aveva chiesto. Passare attraverso il tormento della carne per compiere la propria missione. Schiacciare Satana, sconfiggerlo nel giorno del giudizio. Adesso era tutto chiaro, Dante avrebbe reso questo servigio all’umanità. Andò a cercare Satana carogna, ignobile creatura, sinistra sembianza, spregevole baro. Lo trovò accartocciato tra i suoi miserabili stracci a forma di cuccia. Una palla disfatta di bambagia: respirava appena, senza fare neppure uno strepito, un minimo gesto. Sembrava morto. Così, senza soffermarsi a guardarlo più di tanto, perché si sa che il demonio è ingannevole e ti raggira se abbassi la guardia, lo prese e lo infilò in un sacchetto di plastica, di quelli della spesa. Fece un doppio nodo e lo gettò nell’angolo.
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Mentre tornava a letto sentiva che le forze del male già abbandonavano quella casa. Il rumore della plastica stropicciata nel tentativo demoniaco di liberarsene era musica celestiale per le sue orecchie. Fece due passi attorno al letto. Dante aveva mondato l’umanità dal peccato originale. Dante aveva inflitto agli inferi una di quelle botte che ci avrebbero pensato due volte prima di rimandare quassù qualcun altro. Dante, adesso, aspettava altre indicazioni: da oggi in poi le avrebbe aspettate in sogno, perché aveva capito che quello era il tramite che dio aveva scelto per comunicare con lui. Dopo un paio di tiri al mozzicone incartapecorito di una sigaretta, abbandonata là chissà quando, si infilò sotto le coperte riappacificato col mondo, osservò l’angelo che aveva accanto e lo accarezzò invaso dalla grazia di dio. Dante avrebbe fatto un altro sogno ora, forse un sogno di giubilo con le trombe e gli angeli a cantar vittoria: a celebrare la sua opera santa, compiutasi in quella notte per l’umanità.
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Alla sesta ora di volo l’hostess dai capelli giallo stoppa gli venne accanto felpata con quella sua faccia da rotocalco e un sorriso da abbattere a pallettoni. – Caffè tè succo acqua un drink? Samuel Cassini, violoncellista di anni 52, iscritto al Torneo nazionale di scacchi, ricco, belloccio e con un giusto giro di trippa attorno alla vita, aveva una gran sete, ma non avrebbe accettato nulla da una donna così, con quella divisa da crocerossina porca, neppure se per contrappasso il giudizio divino lo avesse costretto a volare per l’eternità. Lui, che odiava volare e odiava quella compagnia aerea con tutta la bile che l’organismo umano sia capace di produrre, fin dal momento in cui Ilaria era precipitata a New York e non era mai più tornata, costringendolo a traversate farsesche e attese interminabili e code da rabbrividire e check-in ansiogeni e ore dilatate e nervi a fior di palle e tutto questo e altro ancora – tipo stitichezza, tipo scombussolamento umorale da fuso orario, tipo insonnia e principio di emorroidi – per dormire poi solo due stupide e infruttuose notti a settimana nello stesso letto. Un rigurgito di rabbia repressa mista a un cocente avvilimento stavano preparando le sue corde vocali all’emissione del più brusco e incivile rifiuto che uno come Samuel Cassini, violoncellista di anni 52, avrebbe potuto pronunciare e che poteva suonare come: la prego di non disturbarmi ulteriormente, oppure: la smetta di importunarmi, o ancora: questo volo mi sarebbe più gradito se, per cortesia, potesse togliersi dai piedi, quando tutt’a un tratto l’hostess con ancora in faccia l’espressione cartonata
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del siamo qui per voi cadde all’indietro supina sconquassando i ripiani del carrello e cacciando un urlo stupefatto come fosse stata sorpresa a rubare caramelle a un bambino. Che diavolo... Appena il tempo di girarsi a guardare che una valanga opprimente di urla e grida e tafferugli di corpi che urtano impazziti l’uno contro l’altro investì Samuel Cassini, violoncellista di anni 52, schiacciandolo con le spalle al sedile. Un uomo aveva preso l’hostess alle spalle: un uomo piccolo e scuro, con in volto l’espressione contratta di chi abbia chiamato a raccolta tutte le energie prima del gesto, quell’uomo piccolo e scuro stava trascinando a fatica l’hostess per il biondo platino dei capelli. Accanto alla cabina dei comandi la tirò su afferrandola per il collo, lei stramazzava come un epilettico in piena crisi colpito dall’alta tensione, lui si arrabattava per trattenerla e sembrava facesse una fatica boia perché la sua statura era quel che era mentre la donna era bella piazzata sui suoi 180, 185 centimetri. Finalmente poi l’uomo parlò, ma il frastuono era talmente denso e il panico così impanicato che il suo dire risultò muto. Così rese più grave il timbro scavalcando in un’intonazione unica il delirio collettivo. – Zitti, state zitti! Con un calcio costrinse l’ostaggio in ginocchio. – Silenzio, voglio assoluto silenzio o le faccio saltare il cervello! Le aveva puntato una pistola alla nuca sciorinando l’arma con la pomposità di un direttore d’orchestra alle prese con un manipolo di sordi. Gli animi si raggelarono all’istante. Qualche singhiozzo dal fondo e un paio di invocazioni al cielo fu tutto ciò che restava, come uno strascico agonizzante dello sconquasso di prima. Ma l’hostess a quella intimidazione che le strozzava il respiro e le contorceva i capelli e la rendeva cianotica, non trattenne lo sfogo e irruppe in un urlo brutale e disperato. Tentò di svincolarsi e per un momento sembrò quasi che ce la facesse a
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togliersi dal tiro di quell’uomo, ma invece poi cadde a faccia in avanti che nessuno se lo aspettava, rotolandosi afflosciata perché lui, il dirottatore, aveva cercato di trattenerla, ma: Questa puttana ha più forza di una bufala e allora di riflesso aveva schiacciato il grilletto e il proiettile l’aveva perforata di lato sul viso facendole saltare la mandibola. Un brandello polposo di carne e denti e sangue girò su se stesso un paio di volte abbondanti e poi mordace come un ceffone calibrato finì di schianto sulla faccia di un bambino che malgrado fosse avvinghiato alle tette della mamma non sarebbe stato al sicuro perché da parte sua, la mamma, alla vista di quell’orrore lo aveva scaraventato lontano e aveva preso a ululare come una capra scannata, i nervi tesi si erano ormai smagliati del tutto e ora lei era a cavalcioni sui sedili, convinta forse di aver trovato una via di fuga scavalcando le teste degli altri passeggeri nel tentativo folle di andare dove la ragione non poteva intervenire. E il dirottatore, com’era plausibile e come anche Samuel Cassini, violoncellista di anni 52, aveva pronosticato, sparò anche a lei e lei cadde accasciata sul busto pietrificato di un anziano signore che sarebbe morto di arresto cardiaco se non fosse stato soffocato subito dal peso di lei. Sventrato dall’eco del secondo sparo Samuel Cassini, violoncellista di anni 52, aveva raccolto le ginocchia al petto infilando la testa tra le gambe fino al collo, i piedi sospesi come se qualcosa di veramente ributtante stesse strisciando sotto il sedile. Quella cosa era la donna che gli era seduta accanto, si era lanciata lì sotto, con le mani sulla nuca, assottigliandosi come una carta velina. E intanto piagnucolava e anche tutti gli altri avevano ricominciato a urlare e a ripararsi come potevano, mentre lui a occhi serrati batteva i denti come quando si nascondeva da sua madre che poi lo trovava sempre e lo gonfiava di botte e allora capì che anche adesso lo avrebbe trovato e sarebbe morto con una pallottola nella vescica che nel frattempo si era rilasciata senza nessun pudore e perciò si pisciò addosso e pisciò addosso alla donna che aveva sotto il culo, senza ritegno e
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senza scuse. Nel mentre che Samuel Cassini, violoncellista di anni 52, pisciava sulla faccia di una donna dai capelli rossi in una circostanza che non aveva niente a che fare con le serate scambiste e i privé dei dopo concerto, qualcuno un po’ più in là aveva preso a vomitare. Tempo un attimo perché il dirottatore individuasse la fila e il posto che subito si precipitò in quella direzione scavalcando l’hostess agonizzante, stesa al suolo con la mezza faccia in una pozza e mezzo culo scoperto per via della gonna che le si era increspata fin sulle chiappe. Era come saldata al suolo, pareva davvero morta, non fosse stato per quel flebile gesto del piede che la faceva arrancare sul pavimento, riflesso involontario probabilmente. Intanto il dirottatore, con un balzo da gatto selvatico, si era accomodato in groppa alla schiena del tizio che continuava a vomitare poltiglie dense di incerta pigmentazione. All’improvviso un eroe, o forse il cazzone di turno, si alzò dal proprio posto con l’intento di colpirlo alle spalle usando come arma il bagaglio a mano che aveva con sé. Misera fine toccò anche a lui, tanto che riuscì a fare appena due passi tra i fiati corti dei passeggeri più muti di un cadavere e in meno di un attimo era già cadavere lui stesso: una prima pallottola lo aveva raggiunto passandolo da parte a parte all’altezza della spalla e una seconda gli aveva fatto esplodere la faccia mandando in fumo anche l’ultimo miraggio di salvezza. Ma non era certo finita qua. Samuel Cassini, violoncellista di anni 52, lo sapeva bene che il peggio doveva ancora arrivare e infatti da quell’assurda posizione il dirottatore iniziò un discorso che, anche a volerci mettere tutta la buona volontà e la giusta concentrazione, non aveva né capo né coda e che faceva più o meno così. – Che terrore non essere padroni del proprio destino, eh? Com’è dipendere da uno che può annullarti da un momento all’altro, eh? Com’è? Ora è il mio turno. Ora sì. Ora voglio il mio posto. Al sole. Gridava in testa al ragazzo da cui ora si faceva portare avanti
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e indietro per il corridoio. Vaneggiando in una sorta di spaventoso delirio onnipotente. E poi scese. E mostrò sotto la maglia una cintura di esplosivo. Con la quale avrebbe fatto saltare tutti in aria. Se non gli fosse stato concesso. Di. E poi esplose. Prima che potesse finire il concetto, la cintura: esplose. E Samuel Cassini, violoncellista di anni 52 che già lo sapeva che per lui sarebbe finita male, ebbe appena il tempo di guardare in faccia i suoi compagni di sventura uno per uno. E loro fecero lo stesso mentre il dirottatore si scomponeva pezzo per pezzo come un omino dei lego risucchiato nella voragine che l’esplosione aveva aperto nell’aereo, tranciandolo a metà. I sedili schizzavano via ordinati, in fila. Plim, plim, plim. Via come ai saldi: il b53, il b34, il b67, l’a51, l’a43... Ma qualcuno rimaneva ancora incollato, di alcuni passeggeri erano rimaste attaccate ai sedili svariate metà che non avevano ancora ceduto: un busto legato alla cintura si separava malvolentieri dal resto del corpo che si era involato appena qualche minuto prima. Così come la donna su cui Samuel Cassini, violoncellista di anni 52, aveva pisciato: lei era sgusciata via subito. In tutta sincerità avrebbe potuto trattenerla, ma a che pro? Tra qualche secondo la cintura a cui era allacciato avrebbe ceduto o avrebbe ceduto il sedile intero, proprio come quello davanti al suo che si era staccato appena adesso portando con sé una donna a cui non erano rimaste neppure le braccia per trattenersi. Guardò giù per un istante, vide l’oceano. L’aereo precipitava facendo una stupida gara di discesa contro il vuoto, frammenti di lamiera e brandelli di corpi erano già arrivati a schiantarsi sull’acqua con l’effetto di un’offensiva aerea che abbia sbagliato bersaglio, che stia sparando a vuoto. A quella velocità e a quella distanza la superficie del mare increspata dal tripudio di detriti doveva essere tagliente come una falce, un brivido ghiacciato gli risalì nitido dalla schiena.
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Fenomeni da baraccone vergognosamente ancora vivi come lo è Samuel Cassini, violoncellista di anni 52, prima di troncarsi in quel modo così tragico e ridicolo e disperato che solo lui può vedere, che lo rimbalza senza complicità né sguardi né clemenza: un brutto affare di carne, legato a un sedile, curvo, increspato, riflesso tra le onde. È un aborto nel mentre prima della fine. Stampate sulla faccia può rintracciare le pieghe di un vecchiume anticipato. E più si dilata il tempo dell’impatto, più quelle pieghe diventano strade, gli innumerevoli chilometri che in una vita sola ha percorso, dal basso verso l’alto, da sinistra a desta, in tondo, in diagonale, mai al centro di niente. Decentrato nell’ora della sua morte e per sempre. Anzi no: scentrato, questa è la parola giusta. Samuel Cassini, violoncellista di anni 52, a due millesimi di secondo prima della fine decide che è scentrato ciò che è stato di lui nell’arco di tempo che dall’alba lo ha condotto al tramonto. Arco come varco tra idiozia e abitudine. Come parco di speranze tossiche. Come Marco, amante di Ilaria. Come l’orco che ha mangiato i suoi figli. Al centro vi è solo un principio di disperazione che gli preme sulla nuca come un chiodo arrugginito. Per tutto il tempo che ci vorrà pensa. Perché questo stato di cose sospese, pesanti come lacrime di metallo, interrompa la propria fissità. Perché fingerò di aver capito il senso della vita. Perché si muore una volta sola e non lo si può fare ignari. Ecco dunque il perché di molte cose. Perché Ilaria è andata via, perché non le ha mai leccato la figa, perché non è mai stato un solista, perché suo padre è morto impiccato, perché l’unica donna che ha amato non lo ha mai saputo, perché ha sempre preferito la pallavolo al calcio. Perché di questo e perché di quello. E intanto va giù, lentamente fluttua nei cunicoli fumosi del proprio sguardo. È soddisfatto, ma più che soddisfatto: è appagato.
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Perché? Provateci voi a vivere 52 anni seduti sui chiodi arrugginiti. La morte è l’esito più glorioso per chi è inadatto alla vita. Finalmente è il suo momento. Non i concerti, non la prima scopata, non la casa al mare, non la Ferrari. Mai stato più protagonista di adesso. Riflettori, drizzatevi in un punto di sutura tra dolore e godimento. Mondo, guardami. Radioso e denso come una postilla di saggezza. Riflettori, illuminatemi. Mondo, applaudi. Io. Ero. Samuel Cassini, violoncellista di anni 52.
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INDICE
Gertrude Il frigo Marmorto La cavia Dante e il gatto Kamikaze
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Rosa dei venti Prodotto e realizzato per Edizioni del Vento da Spazio Sputnik (www.spaziosputnik.it). Editing Editing e sceneggiatura a cura di Roberto Tossani (testi) e Nicola Ferrarese (disegni). Grafica Progetto grafico e impaginazione a cura di Mirko Visentin. Carattere Questo libro è stato composto con due caratteri progettati nel 1927 dallo scultore, incisore e artista inglese Eric Gill: il bastone Gill Sans (carattere derivato in buona parte da quello disegnato nel 1916 da Edward Johnston, in collaborazione con Gill, per la segnaletica della metropolitana di Londra) usato per frontespizio e titoli, e l’aggraziato Perpetua (il cui stile si rifà alle iscrizioni tombali inglesi del xvii e xviii secolo) per il corpo dei testi. Carta Il volume è stato stampato su carta Fedrigoni Arcoprint Edizioni avoriata da 120 gr/mq. Stampa Finito di stampare nel mese di settembre 2008 presso Arti Grafiche Zoppelli dal 1853 s.r.l., Dosson di Casier (tv) per conto di Edizioni del Vento. Booktrailer www.youtube.com/edizionidelvento (a cura di Spazio Sputnik).
Metà agosto 2008, in redazione, 40 gradi, assenza d’aria. Mirko: «Oi, Nick, io ho finito: 144 pagine giuste giuste. Non ci sono ringraziamenti, vero? Anche perché non ci starebbero...» Nicola: «No, no: niente ringraziamenti stavolta...»
Mozziconi
Telefono: «Driiiiin! Driiiiin!» Nicola: «Pronto! Sì, ciao Monica, dimmi...» Monica: «Senti Nicolé, nel libro ringrazierei Claudio Melissari che mi ha appoggiato sempre, Roberto Tossani che mi ha scovata sul web e guidata, Giulio Mozzi che attraverso il suo blog mi ha permesso di essere scovata da Roberto Tossani, i miei cari genitori che mi hanno trasmesso questa pungente intelligenza e questo immenso talento narrativo, Romina che mi ha sempre detto “vai vai vai” senza mai specificare bene dove, l’amica Valentina che è fonte di grande ispirazione, Marco con cui condivido la bastarda condizione di “giovane esordiente” e tutti gli altri a cui ho rubato tratti di personalità... e a quanti si riconosceranno nei protagonisti dei racconti dico una cosa: passatevi una mano sulla coscienza e non fatemi causa, ma soprattutto comprate il mio libro. Eh, che dici Nicolé?» Nicola (tra sé): « » Nicola: «Sì, sì... va benissimo... tranquilla...»
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Nicola (preoccupato) via sms: «Ehi, Genia, per caso hai qualche ringraziamento da inserire nel libro?» Eugenia: «Mmm... Io avrei troppe persone da ringraziare, quindi non ringrazio nessuno». Nicola (sollevato): «Fìuuu! – Mirko fa’ sto pdf che ndemo in stampa!»