Francesco Memo
Tre inviti alla lettura. Baudelaire, Tolstoj, Kafka. Prefazione di Giovanni Morelli
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Francesco Memo
Tre inviti alla lettura. Baudelaire, Tolstoj, Kafka.
A cura di Mirko Visentin Prefazione di Giovanni Morelli
Presentazione Presentando un volume che raccoglie una serie di strumenti di avvicinamento alla lettura, siamo orgogliosi di rendere omaggio ad uno studioso che ha intrecciato costantemente con l’Ente Provinciale il proprio percorso culturale e professionale. L’ha fatto fin da quando, adolescente, aveva scelto i corsi formativi offerti dalla Provincia qualificandosi nell’area della comunicazione grafica, diplomandosi poi come tecnico e suggellando con una laurea in Lettere a Venezia la sua ricerca di competenze nelle scienze umane. Un iter formativo coerente, arricchito con una brillante tesi sulla storia della musica, attraverso una lunga e intenzionale cura delle capacità riflessive, riconsegnando il pensiero alla sua naturale funzione di strumento di civiltà e di nuova e continua umanizzazione. Il nostro autore ha messo subito a frutto queste conoscenze in una rigorosa e costante ricerca di strumenti culturali utili, funzionali ad avvicinare il maggior numero di persone ad una competenza mentale in grado di affrontare i problemi di una diffusa frammentazione dei saperi e dell’esperienza psicologica e sociale. Francesco Memo è sempre stato assillato da questa sfida di un’educazione alla libertà, intesa come riscatto non solo dall’ignoranza del non sapere, ma soprattutto dal non saper pensare e dal non saper pensare insieme. In questa ricerca-intervento si colloca il suo soggiorno in Bolivia, uno tra i paesi più poveri dell’America latina, attraverso una coerente testimonianza in prima persona e sul campo di cosa significa fare una rivoluzione positiva: una lotta in cui non esiste un nemico da sconfiggere perché tutte le energie vengono indirizzate il più possibile a una soluzione condivisa. Francesco da sempre ha tradotto in comportamenti coerenti il presupposto secondo il quale una mente è tanto più affascinante quanto più sa essere costruttiva. E lo ha fatto con quella sensibilità “eccessiva” di chi ha una bella mente, ardita fino a pensare l’impensabile, su rotte mai affrontate. La Provincia di Treviso ha potuto fruire di questa vibrante sensibilità valorizzando l’impegno del dottor Memo all’interno delle attività proprie dell’Ente, come ad esempio i servizi per l’impiego, dove le parole cessano di essere in disparte rispetto alle cose e ai problemi, dove la concretezza delle soluzioni è d’obbligo, dove il senso deve essere messo in condizione di significare attraverso il lavoro.
Ora questo volume ha l’occasione di far conoscere ad un pubblico più vasto, soprattutto ad un pubblico di giovani come l’autore, l’impegno di uno studioso che ha dato il meglio di sé allo scopo di rendere più intelligibile un oggetto già di per sé significante, di illuminarne meglio le articolazioni, di capire come un testo, un’opera, un messaggio, si costruisce e agisce su di noi. Leonardo Muraro Presidente della Provincia di Treviso
Prefazione Due erano i tratti che più rendevano interessante la personalità espressa, dichiarata, di Francesco Memo. Entrambi suscitati da una inesauribile vocazione al ‘mestiere’ appassionato della lettura. Una disposizione vagabonda a leggere tutto di tutto, accogliendo nella prospettiva del viaggio intellettuale le più variegate suggestioni analogiche, le assonanze, le rime concettuali, le dilatazioni dei messaggi recepiti. Per contro una altrettanto bruciante disposizione ad investire nei dettagli della avventura conoscitiva una volontà di approfondimento, quasi di trivellamento geologico degli stati del pensiero, della emozione, della sensibilità ricevuta dai testi. Fra le righe, sopra le righe, sotto le righe. Questo cimento appassionato fra due pulsioni influenti e contrastanti portava Memo in zone impervie del lavoro di lettura, cui aggiungeva prove manifeste della fruttuosa autoanalisi del processo innescato. Ricordo la mia apprensione quando nel prestigioso lavoro della sua tesi in musicologia lo vidi quasi sprofondare fra poche righe del Doktor Faustus manniano alla ricerca temeraria di una immaginaria biografia del padre di un eroe immaginario: Adrian. Si trattava di un nuovo genere letterario? Si trattava di una scommessa fatale con la fantasia di un genio? Si trattava di una esplorazione nei regni di un immaginario collettivo alla ricerca di una realtà che la pur potente immaginazione di Mann non era riuscita a focalizzare, sotto la identificazione del suo personaggio? Lavoro del lettore, quello di Francesco Memo, sempre sul piano di essere sopraffatto dalla coscienza di un desiderio di approfondimento esteso ad infinite esperienze reali ed eventuali di contatto con testi (molti, moltissimi, forse insostenibilmente molti) chiusi, ermeticamente proibiti, ad una totale possibile comprensione, sviluppata in ogni stato, gradiente, della loro concezione (segreta). Ritrovo, in questo specimen di inviti alla lettura, proposta di condivisione della sua possibile offerta ai giovani, una suggestiva allegoria della lettura ansiosa della nera profondità del dettaglio oltre l’ostacolo materiale della esistenza, una allegoria che Memo recepisce dall’aura dello spleen baudelairiano: «È sera. Le finestre illuminate punteggiano le strade e i viali. Chi guarda da fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quante ne vede chi guarda [da] una finestra chiusa. È sempre di là da un vetro, la vita». L’immagine allegorica, l’apologo è forte, eloquente. Molto ci dice di
questa passione del lavoro di lettura di Francesco, qui mirabilmente esemplificato nelle tre occasioni su cui instrada un pubblico ideale di giovani generosi: Kafka, Tolstoj, Baudelaire. Un lavoro spossante, magnanimo, incessante, sovraccaricato dalle responsabilità della ideazione auto-organizzata, opposto agli ostacoli chiaroveggenti della finestra emblematicamente chiusa della ragion prima dei testi, delle opere, dei capolavori. Un lavoro al cui sfinimento Francesco Memo ci consegna la testimonianza della autenticità della sua rigorosa esperienza e il ricordo rispettoso del suo meritato riposo. Giovanni Morelli
Nota del curatore I tre Inviti alla lettura pubblicati in questo volume furono scritti, in origine, per accompagnare l’edizione separata di tre opere: una selezione dello Spleen di Parigi di Baudelaire, La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj e La metamorfosi di Kafka. I tre libri dovevano inaugurare una collana di classici ideata e curata da Francesco Memo per la Editorial Don Bosco (casa editrice Salesiana in Bolivia, con la quale Francesco aveva già collaborato per la pubblicazione delle Lettere a una professoressa di Don Lorenzo Milani, nel ), e rivolta agli studenti delle scuole superiori boliviane. Lo scopo era quello di far circolare tra gli studenti una serie di classici della letteratura mondiale ancora poco conosciuti nel loro paese, corredati di note al testo e introdotti da un testo critico. Il progetto non andò mai in porto, da un lato a causa di problemi legati ai diritti d’autore sulle traduzioni delle opere, dall’altro per la scomparsa prematura di Francesco, il quale lasciò comunque finito e pronto per la stampa il materiale per le prime tre uscite. Materiale che si è rivelato interessante anche al di là del contesto in cui era stato pensato e prodotto, e che viene quindi oggi pubblicato ad uso dei “nostri” giovani studenti, grazie al contributo della Provincia di Treviso, seppure in una veste diversa dal progetto iniziale. Infatti la soluzione adottata per questo libro è stata quella di pubblicare assieme, e slegate dai rispettivi testi di riferimento, le sole introduzioni scritte da Francesco (re-intitolate Inviti alla lettura), e questo in considerazione del fatto che per il lettore italiano le tre opere sono facilmente reperibili, in diverse edizioni, e a prezzi accessibili. In una lettera del febbraio indirizzata alla redazione della Editorial Don Bosco, Francesco dà alcune indicazioni alle quali mi sembra giusto infine accennare, sia per onestà intellettuale, sia per una migliore comprensione della “struttura” dell’invito alla lettura. Innanzi tutto, Francesco suggeriva di inaugurare la Escolastica (questo doveva essere il nome della collana) con La metamorfosi di Kafka, a cui far seguire La morte di Ivan Il’ič. Il materiale per il terzo volume (quello su Baudelaire) era all’epoca ancora ad uno stato embrionale, quasi di idea. Noi qui abbiamo deciso di presentare i tre inviti in ordine cronologico, in base al periodo di attività dell’autore, invertendo quindi l’ordine pensato da Francesco (non Kafka, Tolstoj, Baudelaire ma Baudelaire, Tolstoj, Kafka).
In secondo luogo, Francesco suggeriva di stampare all’interno di ognuno dei libri della collana «una carta geografica dell’Europa politica, con solo i nomi delle nazioni e delle maggiori città, capitali e poco più. Il senso è quello di dare un luogo d’origine alle storie che vengono pubblicate». Questo chiaramente perché non era e non è così scontato, per i giovani studenti boliviani, collocare città come Parigi, Praga, San Pietroburgo, mentre lo stesso non si può dire per i giovani studenti italiani (e se così non fosse, si conta sul fatto che quasi tutti possiedono un atlante o hanno la possibilità di accedere a internet). Infine, riguardo alla struttura degli Inviti, Francesco pensò di dividerli in tre livelli, indicati ognuno da un numero romano stampato a margine del testo. Ad ogni livello corrisponde, nelle intenzioni di Francesco, un grado di difficoltà crescente. Così, il primo livello (che comprende un profilo biografico dell’autore e un riassunto dell’opera presentata) ben si adatta agli studenti dei primi anni delle superiori, anche dal punto di vista della scrittura (semplice, diretta); il secondo livello contiene «un approfondimento sulle condizioni storiche e sociali e una descrizione del movimento letterario in cui si situa l’opera pubblicata», e idealmente è indirizzato agli studenti delle ultime classi delle superiori; il terzo e ultimo livello si rivolge a studenti universitari, docenti e intellettuali, e sarà quindi «più facilmente comprensibile al lettore che avesse già letto l’opera e ora si trovasse col problema di confrontarsi, o più modestamente di trovare se non un significato definitivo, almeno alcuni spunti fondamentali per una comprensione matura dell’opera stessa». Il terzo livello si chiude quindi con uno «strumento di apertura» (come lo definisce Francesco stesso), ovvero un saggio bibliografico, il quale rimanda non solo alle opere dell’autore, ma anche a libri che, oltre a essere in rapporto col testo scelto, sono importanti per se stessi. Mirko Visentin
Invito alla lettura di
Charles Baudelaire Lo spleen di Parigi
I
. La vita e le opere L’infanzia Charles Baudelaire nasce a Parigi, in rue Hautefeuille, il aprile . Il padre Joseph-François Baudelaire, prete e poi pittore e alto funzionario del senato, ha ormai sessantadue anni. La madre, Caroline Archimbaut Dufays, ne ha solo ventotto. Non passano che pochi anni e il vecchio padre muore (). La madre è affettuosa e piena di cure. Insegna al figlio a leggere. Il piccolo Charles è felice: la madre è tutta per lui. Dalla primavera del , un nuovo ospite frequenta però la loro casa: è l’ufficiale Aupick. L’ novembre dello stesso anno, Caroline e Jacques Aupick (già promosso cavaliere di Saint-Louis) si sposano. Per Charles, Aupick è certo un padre più “naturale” per età, tuttavia il matrimonio e la competizione per l’affetto della madre sono per lui un trauma. L’intraprendente patrigno, uomo distintosi negli studi, amante dell’ordine, pieno di rispetto per l’autorità dello Stato e con tanto bisogno di partecipare alla vita sociale, è all’inizio di una inarrestabile carriera. Lo studio e la rottura con la famiglia È il quando Aupick viene promosso alla carica di capo di stato maggiore e trasferito a Lione. Lì nel gennaio del lo raggiungono la moglie e il figliastro, che inizia a frequentare il Collège Royal. Per Charles sono quattro anni di nostalgia. I rapporti tra i familiari sono buoni, ma al piccolo Baudelaire Lione non piace: non ci sono i lunghi viali e i negozi di Parigi. Nel Aupick è promosso colonnello. Un anno dopo la famiglia ritorna a Parigi e nel marzo del Charles inizia a frequentare, ormai sedicenne, il Collège Louis-le-Grand. Piuttosto disinteressato e scarso nelle materie scientifiche (matematica e fisica), egli si distingue per gli ottimi versi scritti in latino. È il aprile del quando, a causa di un biglietto passatogli da un compagno e che egli si rifiuta di consegnare al docente, viene espulso dal collegio. Terminerà gli studi lo stesso anno come frequentante esterno. Nell’autunno dello stesso anno comunica al patrigno che non continuerà gli studi di diritto. I rapporti familiari si fanno più tesi. Charles
Charles Baudelaire • Lo spleen di Parigi
vive sperperando denaro, che non si preoccupa di chiedere ripetutamente alla famiglia. Ha ormai vent’anni () quando il patrigno, per porre fine ad una sua compromettente relazione con Sarah, una prostituta, lo obbliga a partire per un viaggio nelle Indie. Arrivato però presso l’attuale isola di Saint-Denis-de-la-Réunion (a largo delle coste del Madagascar) si rifiuta di proseguire e fa quindi ritorno in Francia. Gli anni della dispersione È il e Charles, tornato a Parigi, entra in possesso dell’eredità paterna. Prende alloggio nella Ile Saint-Louis, dove abiterà per due anni. Tra le tante frequentazioni, conosce lo scrittore Victor Hugo e il fotografo Nadar. Inizia la relazione con la mulatta Jeanne Duval, con la quale vivrà per più di quindici anni, nonostante i frequenti litigi e le rotture. Scrive poesie che verranno pubblicate molti anni dopo. I forti debiti contratti con un mercante d’arte nell’anno incrinano e compromettono però, anche per il futuro, la sua stabilità finanziaria. Un anno dopo, la madre si rivolge al tribunale affinché Charles sia interdetto dal patrimonio paterno. Un tutore amministrerà per lui il denaro. Assillato dai debiti è costretto a ripetuti traslochi e a chiedere insistentemente denaro alla stessa madre. Sono gli anni delle fiere internazionali. Dentro vasti edifici in vetro si raccolgono merci e stranezze d’ogni tipo. Assieme alle tante opere d’arte e alle piante esotiche, anche esseri umani dai tratti “selvaggi” vengono esposti alla curiosità dei visitatori. Baudelaire scrive Salon de 1845, rivelandosi un brillante critico d’arte. È solo l’anno dopo però, nel Salon de 1846, che egli definisce la sua idea di critica estetica. Per essere giusta, per avere cioè la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, ossia fatta di un punto di vista esclusivo, ma dal punto di vista che apre il più vasto orizzonte.
La rivolta popolare e i debiti Parigi, febbraio . Una manifestazione per la riforma elettorale viene attaccata dalla polizia. Esasperata dalla grave crisi economica, la popolazione insorge a favore dei dimostranti. Dopo due giorni di violenti scontri, il popolo è padrone della città. Deposto il re, è proclamata la Repubblica. I primi interventi sono a favore dei disoccupati,
per l’estensione del voto alla popolazione povera e per l’abolizione della schiavitù nelle colonie. In quei giorni di rivolta, tra le barricate alzate dal popolo nelle strette vie di Parigi, c’era anche Baudelaire. Armato di fucile, gridava «bisogna ammazzare il generale Aupick»: il padre. Al di là dei rapporti familiari, era proprio il piccolo borghese diventato potente il primo nemico e traditore degli ideali popolari di libertà e uguaglianza. L’attività letteraria non si ferma. Baudelaire inizia a tradurre i racconti di Edgar Allan Poe, che negli incubi borghesi scrutava già una psiche oscura. Collabora sempre più frequentemente a riviste e giornali con saggi critici. Con il colpo di stato di Luigi Bonaparte del e la restaurazione imperiale, Baudelaire prende comodamente le distanze dalla politica. La borghesia inizia a celebrare i propri splendori, ma per Baudelaire, che a quella stessa classe appartiene, sono anni difficili. I creditori sono così aggressivi che egli, per fuggire loro, cambia domicilio persino sei volte in un mese (). Con la sua emarginazione cresce anche la sua rabbia per un sistema sociale che premia le persone di modesti e accomodanti desideri, senza alcuna vera qualità. E contro il fratello scrive: «Preferisco le persone malvagie, che sanno quello che fanno, alle brave persone ottuse» (). Con I fiori del male Non passano che pochi giorni dalla pubblicazione de I fiori del male ( giugno ), perché le copie siano ritirate, bandite dal commercio con l’accusa di oscenità. Il processo si chiude con un’ammenda di franchi e la soppressione di sei poesie dal testo pubblicato. I fiori del male sono uno specchio di fronte al quale la buona società non vuole riconoscersi. Dedicata al proprio nemico, la raccolta di poesie denuncia l’«avarizia» che fa tutto piccolo. I «caparbi peccati» e i «fiacchi pentimenti». L’illusione che «vili lacrime lavino ogni colpa». La società di cui scrive è quella che sente «amabili i rimorsi» e che tutto annega nella più superficiale «sciocchezza». Mascherata dal tipico dinamismo borghese, è la noia che abita il volto di questa umanità malata. «La noia, frutto della triste indifferenza», come scrive Baudelaire. Da tempo questa classe sociale aveva chiuso gli occhi di fronte al peggio. Assieme alle gallerie illuminate a gas con le loro ricche vetrine, l’Ot
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tocento fu il secolo della prima selvaggia aggressione alle risorse naturali e del più crudele sfruttamento del lavoro infantile. «Città amante del piacere fino all’atrocità, guarda!», scrive Baudelaire indicando agli agiati cittadini un cieco, per un tragico e impossibile autoriconoscimento. Come in un’eterna stagione di fioritura, la ricchezza economica mostra le sue “buone maniere”, sempre più spensierate, sempre più violente. E in ogni sciocchezza, un fiore del male. «Io lo so», scrive Baudelaire, «che il dolore è la sola nobiltà che mai la terra e l’inferno morderanno.» La fuga e il silenzio Il aprile muore il patrigno Jacques Aupick. I rapporti con la madre migliorano. Di questo periodo sono alcune delle lettere più disperate di Charles a lei inviate. Si aggravano nel frattempo anche le sue condizioni di salute. La sifilide contratta a diciotto anni è ormai nel suo stadio più avanzato. Charles combatte il dolore con l’oppio. Sono del I paradisi artificiali. Le difficili condizioni economiche e forse la precarietà del lavoro legato esclusivamente alla scrittura, spingono Baudelaire a candidarsi in qualità di docente per l’Accademia. La sua proposta però dà scandalo ed egli, passati pochi mesi, si ritira. Stanco e moralmente deluso, intraprende un viaggio in Belgio con nuovi progetti letterari (). Anche lì però non trova fortuna: le sue conferenze sull’arte riscuotono un modesto successo e un minuto compenso. Dagli appunti di viaggio in quel paese usciranno Povero Belgio e Amoenitates belgicae, pubblicati postumi. Tra il e il lavora ad altre traduzioni dai racconti di Poe. Ora la malattia si manifesta con nausea e vertigini. È però ancora la drammatica situazione finanziaria a determinare le sue scelte, costringendolo a chiedere un nuovo prestito alla madre. È il : escono I relitti. Nel marzo dello stesso anno, nella chiesa di Saint-Loup a Namur, lo sorprende un attacco di paralisi e afasia (un disturbo alla facoltà di parlare). Passano tre mesi e mezzo. La madre va a prendere Charles in Belgio e lo riporta a Parigi, dove viene ricoverato. Dopo le prime illusioni, ogni cura si mostra inutile. Paralizzato, per i medici ormai demente, egli è completamente incapace di parlare. Un amico scrive di lui: Continuò fino agli ultimi giorni a interessarsi ai colloqui che si tenevano
ai piedi del suo letto, senza prendervi parte se non con lievi cenni del capo e delle palpebre. In qualsiasi momento si rivolgesse lo sguardo verso di lui, si ritrovava il suo occhio intelligente e attento, benché offuscato da un’espressione di tristezza infinita.
Charles Baudelaire muore il agosto del .
. Lo spleen di Parigi Per un libro fatto di singole pagine, di brani indipendenti l’uno dall’altro, il riassunto è quasi una contraddizione. Un racconto tuttavia si mostra. È una mattina quando il narratore, svegliatosi triste e annoiato, apre la finestra. Tra la folla e l’aria sudicia, dalla strada sale il grido stridente del vetraio. Il narratore lo chiama, lo invita a salire. Giunto al sesto piano attraverso una stretta scala ed esposta tutta la sua mercanzia, il vetraio si sente rispondere crudelmente: «Ma come? Non avete vetri colorati? [...] Vetri che facciano vedere più bella la vita!». Mentre per strada una moltitudine di persone scorre annoiata verso infiniti appuntamenti, nei viali dei giardini pubblici sono l’ambizione delusa e i desideri perduti a passeggiare. Evitata la vuota e chiassosa gioia dei ricchi, il narratore si lascia attrarre da chi è debole, orfano. È in questi parchi che, negli occhi di una povera vedova, si possono leggere le vicende dell’amore ingannato, della dedizione ignorata e di tutte le pene umilianti sopportate in silenzio. Costrette a lesinare anche sul proprio dolore. Quanta solitudine negli occhi di queste donne abbandonate. Non parlano con nessuno per giorni, e poi sorridono per il passaggio di una banda musicale. La grande festa popolare è poco distante. Tra i giochi e le bancarelle, il narratore vede un vecchio e malconcio attore. Accasciato per terra, egli ha rinunciato a vivere. Il narratore vorrebbe gettargli due monete d’elemosina, ma improvvisamente la folla accalcata lo trascina via. Tiratosi in disparte e raggiunto un quartiere tranquillo, dietro l’infer Lo spleen di Parigi (o Piccoli poemi in prosa) raccoglie una serie di prose pubblicate da Baudelaire in riviste e giornali tra il e il . (N.d.C.)
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riata di un ampio giardino, il narratore vede un bambino ben vestito, pulito. Il lusso e la spensieratezza rendono tutto grazioso. Un giocattolo nuovo e colorato gli giace accanto, abbandonato. Sulla strada, di qua dell’inferriata, c’è un altro bambino, sporco, gracile, di cui solo un occhio imparziale saprebbe vederne la bellezza. Egli mostra il suo giocattolo al bambino ricco: un topo vivo. Separati dall’inferriata, ridono i bambini. Con che strano capriccio la vita dispensa i suoi doni! Accade che il potere di attirare la fortuna sia dato all’unico erede di una famiglia molto ricca, totalmente sprovvisto di carità. E che l’amore per la bellezza e la forza poetica per esprimerla siano dati al figlio di un cavapietre, così povero che non potrà mai soddisfare i bisogni di un’anima sensibile. Un dono doloroso, per chi la osserva passeggiare tra le strade sporche del suo povero quartiere, è quello della bella Dorotea. Essa ha avuto in dono la generosità. Un dono difficile da scorgere, nell’ancheggiare dei suoi passi a piedi scalzi, nei tratti maliziosi di una donna il cui piacere di essere ammirata supera l’orgoglio della libertà. Dorotea vende il suo corpo. Lo fa per riscattare la sorellina di undici anni, già sfruttata da un padrone troppo avaro. Dorotea è ingenua e sognatrice, chiede agli ufficiali che la cercano se a teatro le signore ci vadano a piedi scalzi, ma forse già sente l’umiliazione a cui la sua vita è costretta. Com’è amaro il riflesso del ricco negli occhi del povero. La povertà è umiliata ovunque. Nelle vetrine dei caffè, che si mostrano in tutto il loro splendore, incoscienti. Nel gesto di chi, per carità, dà una moneta falsa al mendicante, convinto di procurarsi il paradiso. È sera. Le finestre illuminate punteggiano le strade e i viali. «Chi guarda da fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quante ne vede chi guarda una finestra chiusa.» È sempre di là d’un vetro la vita.
II
. Decadentismo
Condizioni storiche e sociali Nei primi cinquant’anni dell’Ottocento, in Europa si assistette allo sviluppo economico in senso capitalistico della società. Dapprima fu
l’organizzazione della produzione agricola a cambiare. Le terre demaniali e comunali, dove prima ogni contadino aveva il diritto di far pascolare i propri animali e di raccogliere legna, furono privatizzate. Ovunque si alzavano le recinzioni per delimitare la proprietà. Ai vincoli che prima legavano il contadino alla terra e al suo possessore, si sostituì il lavoro salariato. L’applicazione di nuove tecniche agricole e l’utilizzo di moderne attrezzature meccaniche intensificavano la produzione, ma riducevano il bisogno di manodopera. Tanti contadini rimasero senza lavoro, dando così inizio alla massiccia migrazione dei disoccupati verso la città. Il salariato non riguardava però solo i contadini. L’economia capitalistica stava ridisegnando completamente il mondo del lavoro. Le varie categorie di lavoratori indipendenti andavano progressivamente estinguendosi. Sarebbero rimasti i detentori del capitale da una parte e la manodopera dall’altra. Certo, la produzione industriale rese disponibile una maggiore quantità di beni alimentari, ma la crescita demografica che ne seguì aveva il volto amaro. Ora l’industria e le nuove tecnologie consentivano la costruzione di nuove strutture edilizie, vestiti più confortevoli e migliori condizioni igieniche. Ma questo benessere era solo potenziale. In pratica, per la gran parte del popolo nulla di ciò era alla sua portata. Mai anzi le condizioni umane furono peggiori. In stretti spazi recintati, quando non in piccole e umide stanze, a ridosso delle mura degli edifici industriali o in sobborghi desolati, vivevano ammassate centinaia di famiglie operaie. Vivevano di scarsa nutrizione, nell’assoluta mancanza di servizi igienici e a contatto con i più tossici prodotti di scarico industriale. Il misero stipendio dei padri era calcolato in modo che in famiglia ci fosse bisogno anche del lavoro dei figli. L’infamia dell’Ottocento. Alle cinque del mattino, i bambini erano fuori del cancello delle fabbriche tessili. Avrebbero lavorato per quindici, anche diciassette ore, e mangiato una sola volta, ogni giorno ad un’ora diversa. Il cibo non sapeva di nulla, perché la lanugine che c’era nell’aria della fabbrica soffocava i loro polmoni, e quando non riuscivano ad espellerla sputando, venivano loro somministrati dei farmaci che provocavano il vomito. Annodavano i fili rotti dalle filatrici meccaniche, spazzavano il cotone rimasto a terra e pulivano i motori. In fabbrica, non c’era che la forza per garantire la produzione. E a picchiare i figli erano i padri, perché non li bastonassero più forte i sorveglianti, che su quelle bastonate guadagnavano il loro salario.
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Quella che sarebbe stata l’età del passaggio dall’economia di sussistenza (la produzione è funzionale al consumo) a quella di mercato (la produzione è funzionale al guadagno ricavato dalla vendita), aveva i propri cuori meccanici nelle città europee, ma confini geografici ben più estesi. Materie prime e vaste aree di vendita erano condizioni indispensabili all’esistenza stessa dell’economia capitalistica. Tuttavia, i principi di libertà di scambio e di prezzo delle merci, tanto proclamati dalla ricca borghesia, trovarono la propria negazione nella politica di tassazione delle merci alle frontiere e nella pratica degli accordi segreti tra le grandi imprese per la fissazione degli stessi prezzi. Il modello della produzione infinita e dell’infinito bisogno di consumatori, mostrava già le sue contraddizioni. Se all’inizio dell’Ottocento il rapporto tra la capacità industriale e la popolazione dei vari paesi del mondo era ancora proporzionata, un secolo dopo, ormai alle porte della prima guerra mondiale, i paesi non occidentali disponevano solo del % del potenziale industriale mondiale, a fronte di una popolazione del %. Il mondo era prossimo alla fame. Il testimone deluso L’arte è spesso figlia del benessere, e qualche volta serve solo a dimenticare il resto. Sempre però, quando essa è autentica, serve a guardare la realtà senza alcuna ipocrisia. Nel corso del xix secolo, la borghesia parigina, sempre più agguerrita e ignorante, conquistava i posti migliori a teatro. Drammi veri e di maniera occupavano le serate. E nei salotti pieni di belle dame e raffinati importatori di vino, ci si intratteneva in frivolezze. Tutto doveva essere meraviglioso! Davanti a queste persone, i problemi e i tanti drammi della vita sociale semplicemente non esistevano. E quando accidentalmente se ne parlava, un annoiato disinteresse, quando non uno spirito derisorio, caratterizzavano quelle parole. Di questi luoghi e dei vizi più superficiali parla il Decadentismo. Non sempre ci si è accorti però dell’amarezza e del dolore che questa corrente letteraria esprime. Certo il poeta e lo scrittore decadente appartengono spesso alla classi sociali privilegiate. Accade così che nei loro testi è proprio la vita della ricca borghesia o della nobiltà, con tutti i loro riti e costumi, che leggiamo. Eppure, mai forse come nella descrizione del proprio mondo corrotto, esistono le condizioni per la grande arte. A dispetto di tutte le false e mi
sere autocelebrazioni tanto amate dalla nuova borghesia, l’autentica arte decadente descrive ancora il mondo del privilegio, ma per consegnarlo a se stesso e a tutta la sua inconsistenza. Molta della letteratura contemporanea a Baudelaire si proponeva di raccontare le cose nella loro realtà, oggettivamente. Il poeta decadente, che descrive la superficialità del proprio mondo e la vita vera osservata dalla finestra, è lo stato d’animo di questa condizione che tira fuori dalle cose. Attraverso un’intuizione, magari fortuita, il poeta coglie la gioia fugace o la tristezza degli uomini, la crudeltà dei discorsi frivoli, come le tante forme di dolore che passano per la strada. Così vicina all’emozione delle cose, la scrittura testimonia tutta la sua diversità dalla vita distratta nella forza di continuare a guardare. Così essa consuma il suo silenzioso tradimento. Forse mai come attorno all’esperienza biografica dello stesso Baudelaire, che si muove tra i rapporti di conoscenza e favore con nobili e potenti funzionari politici e la vita in poveri appartamenti oppresso dai debiti, prende forma la letteratura della denuncia e dell’autocoscienza critica. Mai forse un privilegiato ha pensato al povero con tanto coraggio.
. Le vetrine della povertà
III
Tra il e il , la popolazione di Parigi era quasi raddoppiata. C’erano state poi le barricate rivoluzionarie e le epidemie di colera. Molti quartieri della città erano malsani, troppo densamente popolati e pericolosi. Si trattava dello sventramento della vecchia Parigi, del quartiere delle sommosse, delle barricate, attraverso una larga strada centrale che tagliasse da parte a parte questo dedalo impraticabile.
Scriveva così, molti anni dopo, Georges-Eugène Haussmann, il principale responsabile della massiccia riedificazione di Parigi. Dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, la libertà di stampa e di associazione erano state soppresse, paralizzata ogni reale possibilità di opposizione politica. Restava Parigi, con i suoi quartieri popolari sempre
Charles Baudelaire • Lo spleen di Parigi
più abitati da operai. Quartieri che minacciavano altre rivolte. C’erano poi le nuove esigenze della borghesia arricchitasi in fretta e altrettanto frettolosa di esibire la propria ricchezza. Se la politica di Luigi Bonaparte reggeva, era proprio perché essa favoriva il feroce sviluppo industriale e le tante forme di speculazione economica. Ora Parigi era una capitale mondiale dell’industria e della finanza: doveva mostrarsi in tutta la sua grandiosità e sicurezza. L’esigenza di mettere mano alla stessa struttura urbanistica della città era evidente. È ciò che fece il prefetto Haussmann, in carica dal . La sua politica per l’estensione degli spazi abitativi si realizzò nei larghi e lunghissimi viali alberati chiamati boulevard, nelle piazze e nei parchi in cui essi conducevano, in grandi edifici d’arte e di commercio. La città vecchia divenne il centro amministrativo e religioso di Parigi. E molti dei modesti lavoratori che prima vivevano nei quartieri centrali, sfrattati dalle loro case per la demolizione, non erano più in grado di pagare gli affitti per quelle nuove lì costruite. Così la topografia della città andò sempre più differenziandosi secondo le classi sociali, e iniziò la migrazione dei più poveri verso la periferia. La vera preoccupazione di Haussmann restava tuttavia di ordine pubblico. Il suo imperativo era quello di eliminare ogni cosa che potesse favorire le insurrezioni urbane e la resistenza popolare tra le strette vie della città. Lo sventramento di interi quartieri e il loro attraversamento dai boulevard, aveva come unico e preciso fine quello di poter sopprimere qualsiasi rivolta contro l’esercito. Raggiungere in fretta i ribelli, poter sparare con mezzi a media gettata per isolare la prima linea nemica, sequestrare e condurre nelle carceri più vicine, altrettanto in fretta, gli stessi ribelli. Era questa la strategia del prefetto Haussmann. Velocità e ordine: tutto doveva poter entrare nell’invisibile pratica dell’ordinaria amministrazione urbana. La rigorosa luminosità che attraverso i lunghi viali percorreva la città, le ampie piazze e i simbolici palazzi, certo davano l’immagine della nuova e risoluta borghesia. La realtà era però un’altra, quella delle radure urbane disseminate di macerie, delle facciate spoglie, dei campanili che si alzavano solitari tra le tante rovine e delle persone che ci camminavano a fianco. In uno di questi angoli sventrati della città, tra la vetrina di un nuovo ed elegante caffè e la strada ancora piena di calcinacci, si svolge un episodio (Gli occhi dei poveri) dello Spleen di Parigi. Ecco il racconto di Baudelaire.
La sera, un po’ stanca, voleste sedervi all’angolo di un nuovo boulevard, davanti a un nuovo caffè ancora pieno di calcinacci, e che già mostrava la gloria dei suoi incompiuti splendori. Il caffè scintillava. […] Proprio davanti a noi, sulla carreggiata, se ne stava impalato un brav’uomo sulla quarantina, la faccia stanca, la barba ingrigita, che teneva per mano un bambino e reggeva sull’altro braccio un esserino troppo debole per camminare. Faceva da bambinaia, e portava i suoi figli, la sera, a prendere un po’ d’aria. Cenciosi tutti e tre. Quei tre visi erano straordinariamente seri, e quei sei occhi contemplavano e fissavano il caffè nuovo con pari ammirazione, benché con diverse sfumature a seconda dell’età. Gli occhi del padre dicevano: «Come è bello! Come è bello! Si direbbe che tutto l’oro della povera gente sia venuto a mettersi su questi muri». Gli occhi del bambino: «Come è bello! Come è bello! Ma è una casa dove possono entrare solo quelli che non sono come noi». Quanto agli occhi del più piccolo, erano troppo affascinati per esprimere qualcosa di diverso da una gioia profonda e ottusa. […] Non ero solo intenerito da quella famiglia d’occhi, ma avevo un po’ di vergogna dei nostri bicchieri e delle nostre caraffe, più grandi della nostra sete. Giravo il mio sguardo verso il vostro, mio caro amore, per leggervi il mio stesso pensiero; mi tuffavo nei vostri occhi così belli, così bizzarri e dolci, nei vostri occhi verdi, abitati dal capriccio e ispirati dalla Luna, quando mi diceste: «Questa gente, con quegli occhi spalancati come portoni, mi è insopportabile! Non potreste chiedere al maître di allontanarli da qui?»
La povertà che la distruzione di interi quartieri ha reso manifesta, non si vuole vedere. In un discorso pubblico del , «l’artista demolitore» (come si era definito lo stesso Haussmann), esprime tutto il suo odio per il popolo degli sradicati, dei senza casa. Eppure questi non erano che la conseguenza del vasto piano di espropriazioni da lui concepito, il vero volto delle tante speculazioni edilizie. Forse perché per il ricco era la testimonianza della propria colpa, il povero non doveva esserci. S’intende: non doveva comparire alla vista. Altrove non andava diversamente. Nella civilissima Inghilterra, i poveri troppo in vista su vie e piazze venivano incarcerati. In breve, la vista della povertà rovina il piacere dell’abbondanza. La ricchezza e la merce ad essa accessibile va mostrata. Ma la trasparenza che essa sogna e realizza nei palazzi delle fiere internazionali, come nelle Tutte le citazioni sono tratte da Lo spleen di Parigi (Garzanti, ), traduzione di Alfonso Berardinelli. (N.d.C.)
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vetrine di un caffè, è falsa. Per sua natura la ricchezza vuole sottrarsi, proteggersi. Essa è chiusura, oscura privazione. Fin qui tuttavia, c’è solo la colpa di un esasperato egoismo e del vizio più superficiale, forse ancora preferibile all’indifferenza. La disperazione, Baudelaire sarebbe andato a trovarla altrove, per riconoscerla nella sua forma più intima. Siamo in montagna (La torta), luogo in cui tutto è grande e necessario ciò che vi accade, lontani dalla città e dalle sue tante forme di umiliazione e crudeltà. Qui nulla fa pensare alle grandi fabbriche, ai caffè o ai viali di Haussmann. Ogni cosa è limpida, assoluta. Il narratore, stanco per il sentiero percorso e preso dal meraviglioso paesaggio, si ferma per mangiare qualcosa che aveva portato con sé. Tagliavo tranquillamente il mio pane, quando un rumore lievissimo mi fece alzare gli occhi. Davanti a me stava un piccolo essere arruffato, stracciato e nero, i cui occhi infossati, selvaggi e come imploranti divoravano il mio pezzo di pane. Lo sentii sospirare, con una voce bassa e roca, la parola: torta! Non potei impedirmi di ridere sentendo l’appellativo con cui voleva onorare il mio pane quasi del tutto privo di condimenti, e ne tagliai una bella fetta per offrirgliela. Lentamente si avvicinò, senza abbandonare con gli occhi l’oggetto della sua bramosia; poi, afferrando con la mano il pezzo di pane, subito si fece indietro frettolosamente, come se temesse che la mia offerta non fosse sincera, o che già me ne fossi pentito. Ma in quello stesso istante fu travolto da un altro piccolo selvaggio, uscito da chissà dove, e così perfettamente simile al primo che si sarebbe potuto prenderlo per il suo gemello. Rotolavano insieme a terra, disputandosi la preziosa preda, nessuno dei due volendo in nessun modo sacrificarne la metà per il proprio fratello. Il primo, esasperato, afferrò il secondo per i capelli; quest’ultimo gli addentò l’orecchio e ne sputò un brandello sanguinante imprecando in dialetto. Il legittimo proprietario della «torta» cercò di affondare i suoi piccoli artigli negli occhi dell’usurpatore; questo a sua volta applicò tutte le sue forze nel tentativo di strangolare il suo avversario con una mano, mentre con l’altra cercava di far scivolare nella propria tasca il premio della lotta. Rianimato dalla disperazione, il vinto si raddrizzò e fece ruzzolare a terra il vincitore con una testata allo stomaco. A che scopo descrivere una lotta vergognosa che in verità durò più a lungo di quanto le loro energie infantili sembravano promettere? La «torta» viaggiava da una mano all’altra, e cambiava tasca ad ogni istante; ma, ahimè, cambiava anche il suo volume e quando alla fine, estenuati, ansanti, insanguinati, si fermarono per l’impossibilità di continuare, non restava più, a dire il vero, nessun oggetto di contesa;
il pezzo di pane era scomparso, ed era sparpagliato in tante briciole del tutto indistinguibili dai granelli di sabbia a cui si mescolavano.
Dalla vetrina che separa la ricchezza dalla povertà – vetrina attraverso la quale il povero vede ciò che non può consumare e il ricco vede disturbata la propria ingordigia – al povero che battaglia col povero per un pezzo di pane ingenuamente donato, ultima vetrina dell’impotenza e della mortificazione. C’è qualcosa di particolare nel gesto del narratore, di distintivo, qualcosa che lo separa dai tanti esempi di dono riportati dalla precedente letteratura. In quel gesto non c’è nessuna larghezza, nessuna generosità ostentata, compiacimento di sé e della propria potenza. I segni della contraddizione e i sospetti sulla pratica del donare sono ben noti. Quell’imperatore romano che, gettando grano e membri maschili dalle torri del suo tempio, nutriva un popolo castrato, è solo una perfetta sintesi storica. Sono tanti gli eventi e i casi che mostrano come, dietro l’ordine della gerarchia e dell’unità del comando che dall’alto dispone di beneficenze, ci sia lo spettacolo del disordine e il piacere dell’anarchia. Casi ed eventi che mostrano come la peggiore delle crudeltà ami truccarsi proprio di generosità. Tanti sono che non basterebbe un libro o una sola disciplina scientifica per raccoglierne il senso. Qui è più importante chiedersi quale sia, assieme al vantaggio dei beni ricevuti, il prezzo che il povero destinatario dovrà pagare al donatore. Il suo accettare non è già forse un riconoscere lo stato delle cose e la sua legalità? Cattiva tolleranza, perché con la generosità che distrae e solleva dalle pene di un giorno, si dimenticano la razzia e il saccheggio, le espropriazioni e le speculazioni, l’abuso fiscale e lo sfruttamento che spesso hanno reso possibile quella stessa generosità . Ma di tutta questa cattiveria, nulla c’è nel gesto del nostro narratore. In quel riso per l’appellativo ridicolo («torta») con cui il ragazzo nomina quel semplice pezzo di pane, ciò che si potrà riconoscere è al massimo una traccia di dominanza, o forse anche la maschera della vergogna per le proprie ricche abitudini. Il narratore comunque non fa che dare con l’immediatezza che il desiderio del ragazzo e la situazione chiedevano. Il suo gesto è buono, ingenuo. Eppure le conseguenze sono drammatiche. Non è più la vetrina del caffè, che mostra e insieme nega i dolci a chi non può acquistarli, a separare il ricco dal povero. Ben più amaramente, a separare è il gesto stesso di donare, gesto che lascia il ricco dietro il vetro invisibile dell’impotenza. E attorno, il vuoto. Lo smarrimento e la devastazione a cui siamo costretti, è infatti così assordante proprio
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perché in assenza di ogni riferimento urbano, sociale. Ma sono ancora la nuova organizzazione sociale e la politica dei grandi centri economici a creare le condizioni che imbruttiscono questo gesto, compiuto tanto lontano. Ora nessuna generosità ingenua è più possibile. Peggio, la generosità superficiale è colpevole. Colpevole perché non fa che restituire la povertà alle sue stesse condizioni e perché è causa della peggiore tra le guerre, quella dei poveri. Infine, essa è sterile, perché nella lotta il dono è perduto, “spettacolarmente” distrutto. Rinunciare alla generosità non è però possibile. Un modo non umiliante per poter ancora donare, deve esistere.
. Saggio bibliografico
Testi dell’autore Baudelaire pubblicò la maggior parte dei suoi scritti su riviste e giornali (tra cui i singoli brani de Lo spleen di Parigi, testo pubblicato postumo) e altri non li dette mai alle stampe. Non sono dunque molte le opere edite in volume durante la sua vita. baudelaire, Charles, Salone del 1845, . baudelaire, Charles, Salone del 1846, . baudelaire, Charles, La Fanfarlo, . baudelaire, Charles, I fiori del male, . baudelaire, Charles, I paradisi artificiali, . baudelaire, Charles, I relitti, .
Testi di riferimento culturale Per una riflessione critica generale, sia di riferimento biografico che artistico, interessante risulta l’opera del filosofo esistenzialista Sören Kierkegaard, Aut-aut (). Dietro la formale contrapposizione dei termini etica ed estetica, Kierkegaard rivela la loro continuità. La percezione estetica non è fine a se stessa. Nella sua fruizione come puro piacere,
l’arte è umiliata. È al contrario proprio nella rivelazione estetica, nella chiarezza in cui si mostrano le cose, che si realizzano le condizioni e la necessità dell’impegno etico, del dovere. Non si possono tralasciare i poemi e i racconti di Edgar Allan Poe (-), che Baudelaire lesse e continuò a tradurre per diversi anni. Racconti nei quali compare, minacciosa e perversa, l’oscura psiche dell’uomo moderno. Per la realtà economica, che Baudelaire non smise mai di vedere incarnata nelle più disperate condizioni umane, si può far riferimento al primo libro () de Il capitale di Karl Marx. Infine (per completare il quadro dei riferimenti generali), assieme alle tante figure mitologiche ad uso letterario, la Bibbia e la cultura cristiana restano per Baudelaire, nel loro capitale iconografico e contenutistico, un punto di riferimento e di dialogo, talvolta acutamente critico. Uno squarcio sulla vuotezza umana e l’arrivismo sociale, con tutto il suo carico di sfruttamento e speculazione che ben illustra lo spirito europeo del xx secolo, è il romanzo Bel-Ami (), di Guy de Maupassant. Il dramma della vita urbana e della modernità ha diverse origini. Ci sono Le fantasticherie del passeggiatore solitario () di Jean-Jacques Rousseau, che Baudelaire non amava, ma nelle quali compaiono alcune questioni care al nostro autore, tra cui quella della generosità e del dono. Come in un fiume profondo, le cose emergono un istante, per poi essere nuovamente sottratte alla vista da una corrente misteriosa. È questa La prospettiva Nevskij () di Nikolaj Gogol’ (testo solitamente raccolto nei Racconti di Pietroburgo): il racconto sulla frantumazione della vita, la strada in cui tutto è presente e nostalgico, perché imprendibile. Fondamentale è il Faust () di Wolfgang Goethe, lungo racconto drammatico dell’eroe che raccoglie in sé l’evoluzione e il destino della civiltà occidentale. Personaggio dalle tante esperienze, Faust sarà infine l’ingegnere che edificherà, con l’aiuto del diavolo e contro natura, la città moderna su una terra sottratta al mare. E infine Memorie dal sottosuolo () di Fëdor Dostoevskij, forse il documento letterario più tormentato e più significativo sulla frustrante condizione urbana e sociale dell’uomo moderno e sulla sua lotta per l’esistenza. Pare sia impossibile per l’arte non parlare del dono. Un testo che, recuperando un episodio biblico, ha però esplorato sino all’estremo la natura del dono è il dramma teatrale Salomé () di Oscar Wilde. Se Baudelaire fu il poeta della modernità, dell’armonia lirica ormai
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lacerata, estreme furono le posteriori soluzioni poetiche. Constatata la sordità sociale, la poesia canterà il silenzio con Stéphane Mallarmé (-), o tacerà per sempre nell’esperienza artistica e biografica di Arthur Rimbaud (-): Poesie e Una stagione all’Inferno ().
Invito alla lettura di
Lev Tolstoj La morte di Ivan Il’ič
I
. La vita e le opere La famiglia e la tenuta di Jàsnaja Poljanà Quarto e penultimo figlio del conte Nikolaj Il’ič Tolstoj e della principessa Maria Volkonskaja, Lev Nikolaevič Tolstoj nasce il agosto nella tenuta di Jasnaja Poljana. In una casa ricca di presenze, il piccolo Tolstoj cresce circondato d’affetto. La nutrice, i precettori russi e stranieri, i parenti e gli ospiti sono il vario e stimolante sfondo umano della sua infanzia. Fuori, alberi ed arbusti circondano la grande casa e oltre questi, i campi lavorati dai servi della gleba che si estendono a perdita d’occhio, bianchi e coperti di neve per tanti mesi l’anno. A soli due anni il piccolo conte Tolstoj perde la madre e di lui e dei suoi fratelli si prende cura la generosa Tat’jana Ergol’skaja. Anche per suo merito l’infanzia di Tolstoj fu gioiosa. Nel , dopo che la famiglia si era trasferita nella capitale Mosca, un nuovo lutto: muore il padre conte Tolstoj. Dopo un nuovo trasferimento, Tolstoj inizia a prepararsi per l’università. Lo studio e i primi racconti da Sebastopoli Nel Lev Tolstoj è ammesso alla Facoltà di Diritto, ma i suoi interessi sono rivolti allo studio della filosofia morale. Legge in questi anni autori classici come Schiller e Puškin, e il testo che segnerà di più la sua giovinezza e il suo futuro modo di porsi di fronte al mondo: Le confessioni di Jean-Jacques Rousseau, il filosofo dei diritti civili. Dal Tolstoj inizia a tenere dei Diari e sempre nello stesso anno abbandona l’università senza essersi laureato, com’era del resto frequente per i giovani nobili di quel tempo. Dopo qualche tempo passato a Pietroburgo, stanco anche dei salotti aristocratici e del gioco d’azzardo, si arruola nell’esercito. È il quando raggiunge il fratello Nikolaj, ufficiale di cavalleria, presso una guarnigione nel Caucaso. Un anno dopo finisce il suo primo romanzo, Infanzia. Per vedere la guerra, come scriverà lo stesso Tolstoj, egli chiede nel di essere trasferito in Crimea, e lì, dove è in corso il conflitto russoturco, si trova a combattere per la drammatica difesa di Sebastopoli. È in questa fortezza militare che scrive i Racconti di Sebastopoli, nei quali,
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in un mondo ancora carico di presagi eroici, prende forma l’improvvisa e cruda realtà della guerra. I viaggi e la scuola per i contadini Nel , dopo essersi congedato dall’esercito, Tolstoj parte per un viaggio in Europa. A Parigi assiste ad un’esecuzione capitale. E a Lucerna, dov’era di passaggio per la visita ai luoghi di Rousseau, assiste ad un fatto che egli stesso così racconterà: Dinanzi all’albergo Schweizerhof, dove scendono i viaggiatori più ricchi, un cantante girovago, che vive d’elemosina, per mezz’ora ha continuato a cantare e a suonare la chitarra. Circa cento persone lo ascoltavano. Tre volte il cantante ha pregato tutti i presenti che gli dessero qualcosa. Nessuno gli ha dato nulla, e molti hanno riso di lui.
Cadono in queste circostanze per Tolstoj la fiducia nella liberalità e nella ragionevolezza occidentali. La civiltà e il progresso gli sembrano solo un’illusione. In Europa torna ancora nel , per assistere il fratello maggiore Nikolaj, affetto da una grave malattia. La devastazione fisica e l’agonia provocate dalla tubercolosi mostrano a Tolstoj l’espressione più violenta della morte. In Europa Tolstoj aveva anche approfondito lo studio dei sistemi pedagogici occidentali, un problema che gli era caro da molto tempo. Nel , tornato a Jasnaja Poljana, fonda una scuola per i figli dei contadini. I suoi principi sono semplici. Ogni forma di comportamento predeterminato e obbligatorio, ogni impartire rigidamente delle nozioni, sono una costrizione alla naturale intelligenza del bambino. Ogni imposizione è violenza, abbrutimento dell’uomo e di ciò che si studia. Educare significa aiutare ogni singolo ragazzo ad esprimersi, a tirare fuori quello che già egli ha, e ad avvicinarsi secondo la sua natura alle cose. Alla necessità di aiutare a capire, fa da sfondo lo sfruttamento dei contadini e la dura realtà della terra. Nel , un editto imperiale aveva abolito la servitù della gleba, ma per Tolstoj le condizioni di vita dei contadini non erano per nulla migliorate. Così scrive: Ognuno sa che l’equa distribuzione delle terre tra i cittadini è un bene incontestabile. Perché dunque nessuno, a parte quelli che vengono presi per
folli, parla sulla stampa di questa divisione delle terre? La ragione di questo fenomeno è per me del tutto evidente. Il progresso della stampa, come dei telegrafi elettrici, è monopolio di una data classe della società e vantaggioso per gli uomini di questa classe, i quali con la parola progresso intendono solo il proprio vantaggio personale, che, di conseguenza, è sempre opposto al vantaggio del popolo.
Sono parole dure e nel , durante una sua assenza, la polizia entra e perquisisce la casa di Jasnaja Poljana. Il matrimonio e le grandi opere Nel settembre dello stesso , Tolstoj si sposa con Sof ’ia Andreevna Bers. Per lo scrittore è un grande avvenimento. Sempre tormentato dal bisogno di giustificare l’esistenza di fronte alla coscienza, Tolstoj vede nel matrimonio l’equilibrio morale tanto desiderato. Affettuosa e industriosa, Sof ’ia consente al marito le migliori condizioni per lavorare: si occupa dell’amministrazione familiare e di tutto quanto ruba attenzione al marito. Anche la scuola per i figli dei contadini viene abbandonata. Ora Tolstoj può pensare solo a scrivere. Sono questi gli anni dei due maggiori romanzi di Tolstoj: Guerra e pace (), forse la sua opera più grande, e Anna Karenina (), il romanzo della passione di una giovane donna dimentica delle convenzioni sociali, il cui destino non poteva essere che tragico. Anni di produzione intensa, artisticamente felice, ma anni non parimenti sereni. La modesta filosofia della felicità coniugale e familiare, pur sostenuta e proclamata dall’autore, lo lascia insoddisfatto. «Sono meschino e insignificante, e quel che è peggio, lo sono diventato dopo aver sposato la donna che amo», scrive nei Diari. Guerra e pace di un popolo Scritto tra e il , il grande romanzo di Tolstoj doveva raccontare degli anni travagliati del primo Ottocento, attraverso le vicende storiche ed umane di tanti personaggi. Non erano però gli eventi, per quanto fossero importanti, il soggetto del libro, ma il senso stesso della Storia e il carattere autentico del popolo russo. In una bozza del romanzo Tolstoj scriveva: Se la causa del nostro trionfo non fu il caso, ma stava nell’essenza del po
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polo russo, allora questo carattere doveva esprimersi ancora più chiaramente nell’epoca degli insuccessi e delle sconfitte.
E proprio quella che attendeva l’uomo capace di ogni sconfitta, era la vittoria russa. L’esercito francese, con più di seicento mila uomini, iniziò la campagna di conquista della Russia nel giugno del . Il popolo russo arretrava e bruciava i raccolti per non lasciare cibo agli invasori. È settembre quando, ormai prossimi alla capitale Mosca, i due eserciti si trovano di fronte l’uno all’altro, costretti a combattere. La guerra è un grande spettacolo, a guardarla da un’altura. Ma tra le linee, di fronte al nemico, ogni piano strategico diventa inattuabile, capire il movimento della battaglia impossibile. E il gesto dell’eroe che risolve lo scontro non esiste, è falso. La Storia non si compie per volontà di un eroe. La Storia è il moto dell’umanità, un moto che è il risultato di un’infinita quantità di volontà personali. Smarrito l’insieme, il realismo di Tolstoj raggiunge la vita, raccontando dell’ufficiale che sta immobile di fronte ad una granata non ancora esplosa, o del soldato che attende ferito il suo turno di medicazione sotto un bosco di betulle. L’eroismo che ci mostra è quello comune dell’uomo in mezzo alla battaglia. La sconfitta dell’esercito invasore, che pure ha vinto anche l’ultima battaglia, e del suo famoso imperatore, è nello spirito tragico di un popolo e nella sua terra, troppo vasta. La storia della guerra è invece quella del campo di battaglia al termine dello scontro: chi ha vinto è troppo debole per restare. «Lo scopo della guerra è la strage» afferma uno dei personaggi del romanzo. Ma proprio in quel paesaggio di morte e devastazione che l’invasore non può occupare, trova la pace il popolo russo. La conversione e la fuga È il quando Tolstoj entra in quella crisi di coscienza che aprirà e determinerà la sua ultima produzione narrativa e filosofico-morale. Negli anni seguenti, fino al , l’autore si impegnerà a recuperare quella che egli stesso definisce la «fede nei padri». Studia ed interroga i vangeli, parla con i pellegrini che attraversano a piedi la Russia. Del - è il documento La confessione, un atto d’accusa dello scrittore contro se stesso e la classe aristocratica di cui fa parte. Egli rinnega tutto quanto ha compiuto e pensato fino a quel momento, aprendosi al
servizio di quel popolo semplice e lavoratore che sono i contadini, quel popolo che rende possibile la vita. In questi anni matura in Tolstoj anche il rifiuto per ogni forma di organizzazione religiosa. In Qual è la mia fede? (-), Tolstoj fonda il suo nuovo e ultimo credo sul Sermone della Montagna. «Non resisterai al male col male» diventa la linea di rifiuto, il punto di maggior coscienza e forza sulle inesauribili risorse dell’uomo integro. Tolstoj cerca una religione pratica, che migliori la vita e la convivenza degli uomini sulla terra. La sua nuova arte è quella che unisce gli uomini. I risultati sono tuttavia ben diversi. Il razionalismo portato all’estremo e una morale intollerante di tutto portano l’autore a credere in un idealistico amore universale, che non riesce a raggiungere neppure i familiari. Se ne La morte di Ivan Il’ič () Tolstoj rappresenta un universo umano sordo, nel quale penetra solo il silenzio di Dio, in Sonata a Kreutzer (-) e in Il diavolo (, ma pubblicato postumo) comprendiamo quanto rancore e quanta passione erano rimaste all’autore nella sua volontà di astratta purezza. Con l’acuirsi dell’incoerenza tra il suo credo di rinuncia e le sue reali condizioni di benessere materiale, ma senza deludere le pretese della moglie e impoverire la famiglia, dona nel tutte le sue proprietà a Sof ’ia e ai figli. Il è anche l’anno della carestia. Tolstoj si impegna materialmente e intellettualmente a favore delle persone colpite dall’improvvisa miseria. Sono questi gli anni di Resurrezione (scritto tra il e il ), il romanzo in cui Tolstoj rappresenta le ingiustizie e la violenza di un sistema sociale basato sulla repressione e il privilegio. «L’unico posto che qui in Russia convenga ad un cittadino onesto, è la prigione!», è l’intuizione che precede l’ultima e definitiva critica sociale dell’autore. È del infatti La schiavitù del nostro tempo, testo in cui, recuperando ancora una volta il pensiero di Rousseau (Origine della disuguaglianza, ), Tolstoj individua nella sottrazione della terra al popolo l’origine di ogni altra forma di schiavitù e sfruttamento. Stanco infine delle pressioni di familiari e seguaci, che si erano radunati attorno all’ormai famosa figura dello scrittore-predicatore, Tolstoj fugge di casa nella notte del ottobre del , assieme al medico e amico Dušan Makovickij. Non sarà un lungo viaggio. Dopo pochi giorni, colto da una forte febbre, egli muore nella piccola stazione ferroviaria di Astapovo.
Lev Tolstoj • La morte di Ivan Il’ič
. La morte di Ivan Il’ič Il consigliere di Corte d’Appello Ivan Il’ič è morto, legge sul quotidiano uno dei colleghi del defunto. Non ci sono illusioni da farsi. Dietro un doveroso e contenuto dolore, gli stessi colleghi ed amici già guardano ai vantaggi personali che la scomparsa del loro superiore ha reso possibili. La stessa moglie pensa a quanto potrà ricavare in denaro dal fisco per la perdita del compianto marito. A dir la verità neppure Ivan Il’ič era diverso. Tolstoj racconta la sua carriera come il procedere attento di un uomo ambizioso che ama la vita facile, comoda, sempre pronto a dimenticare amici e parenti che non siano più all’altezza dei suoi nuovi e più prestigiosi incarichi professionali. È in questa atmosfera di finzione che un giorno, accidentalmente, Ivan Il’ič cade da una scala. Lì per lì non è che un incidente di cui ridere, ma col tempo un dolore crescente viene a guastare la sua comoda vita. Durante la visita di un importante medico, Ivan Il’ič trova in questi la stessa espressione che in tribunale egli aveva per l’imputato. Scopre così che la società è indifferente. La cura prescrittagli procede a lungo, tra momenti di fiducia e sconforto, ma della vita di Ivan Il’ič non si parla. I termini della malattia restano incerti, perché non è chiaro se sia il «rene mobile» o «l’intestino cieco» a funzionare male. Sono ormai passati due mesi quando, assalito ancora una volta dai dolori, Ivan Il’ič trova la forza per dire a se stesso che non è questione di rene o altro, ma di vita o morte. Egli sta morendo. L’affermazione è violenta e con essa cade ogni finzione sociale, è smascherato ogni egoismo. Questa però non è che la conquista di Ivan Il’ič. Tutti, esattamente come prima, osservano quelle regole sociali che fanno sembrare la sua malattia una “sconvenienza”. Ed è questo, la falsità di chi gli sta attorno, a offenderlo di più. Solo Gerasim, un giovane contadino pieno di forza e di grazia, e che di lui si prende cura, lo guarda senza nascondergli la verità. Ancora incapace di ammettere la mediocrità della sua vita passata, sarà solo pochi giorni prima della morte che, guardando nella notte proprio il volto di Gerasim, egli si chiederà come avrebbe dovuto essere la sua vita, perché quella che ha vissuto, ora lo sa, è solo un inganno che mascherava la vita e la morte. Trovata la pietà, Ivan Il’ič muore in pace.
II
. Il realismo Condizioni storico-sociali e culturali Se l’Europa dell’Ottocento aveva conosciuto rivoluzioni e moti popolari, l’affermazione della classe borghese e l’industrializzazione, la Russia era rimasta un paese ad economia quasi esclusivamente agricola, il cui potere politico era ovunque simbolo di rigido mantenimento dell’ordine statale esistente. Nelle grandi città russe non c’erano ancora i quartieri malsani e improvvisamente sovrappopolati, abitati da operai di ogni età che lavoravano in condizioni disumane a favore della prima produzione capitalistica. Questo accadeva in Europa. In Russia la realtà era diversa. L’intero edificio di privilegi sociali e ricchezza si fondava sullo sfruttamento dei servi della gleba, contadini vincolati ad un fondo terriero, al cui padrone dovevano generi alimentari e prestazioni in lavoro. Anche quando, penetrate le idee di libertà e uguaglianza sociale, l’imperatore russo promosse delle riforme per evitare l’esplodere violento di una rivoluzione popolare, non fu che una beffa. Alle famiglie contadine liberate dalla servitù fu data una quantità di terra insufficiente, al prezzo poi di un riscatto economico maggiore di quanto quella terra realmente valesse. Oltre .. di vecchi debitori di lavoro divennero liberi cittadini debitori di denaro, tanto miserabili da dover vendere anche il grano per la loro sussistenza. Era la nuova povertà occidentale. Le conseguenze furono devastanti. L’impoverimento delle campagne, le centinaia di rivolte contadine represse dall’esercito regolare. La stessa nobiltà terriera russa, impoverita e incapace, non fu in grado d’investire e gestire le prime imprese industriali, che finirono per essere controllate da capitali stranieri. Questo è certo lo sfondo sociale da cui emerse e a cui guardò la narrativa realista internazionale, e ciò quasi per definizione. Non solo infatti essa credeva che l’uomo non potesse essere separato dal suo ambiente, ma si rifiutava di registrare anche solo un sentimento umano senza cercarne le cause o gli effetti nell’ambiente. Non bisogna però trascurare l’aspetto culturale. Come ha spiegato bene Erich Auerbach in Mimesis – un saggio sul realismo dall’antichità sino ai nostri giorni – affinché si confondessero in una stessa opera lo stile elevato della tragedia, con la sua pretesa e promessa di riscatto, ed un soggetto popolare, di vita quotidiana, era necessario il cristianesimo.
Lev Tolstoj • La morte di Ivan Il’ič
Solo con l’esaltazione dell’umile infatti, anche le vicende dell’operaio o la giornata del contadino acquistavano un valore umano autentico, e dunque il diritto ad una grande rappresentazione artistica. La frantumazione della vita L’uomo percepisce la realtà come un tutto continuo. I diversi sensi (vista, udito, olfatto, gusto e tatto) raccolgono le informazioni e il cervello, elaborandole assieme alla memoria delle esperienze già vissute, dà della realtà una rappresentazione compatta. Così, quando l’uomo cerca di scrivere un’esperienza da lui vissuta, scopre che l’unità e la compattezza di ciò che ha provato non è direttamente comunicabile. Per trasmettere la sua esperienza quell’uomo dovrebbe descrivercela, raccontare cioè una per una tutte le cose che quella sua esperienza hanno caratterizzato. Individuare gli elementi fondamentali di un’esperienza e scriverli significa però, questo è il punto, frantumare l’unità dell’esperienza stessa. Nei tanti bivacchi notturni degli anni di servizio militare nel Caucaso, Tolstoj esce dalla sua tenda chissà quante volte. Quella dell’accampamento notturno è una realtà che egli conosce bene. Ecco il racconto della sua esperienza tratto da Il taglio del bosco. Dopo aver bevuto in fretta un bicchiere di tè ed essermi lavato con acqua gelida, sgusciai fuori dalla tenda e andai nel parco. Era buio, c’era nebbia, e faceva freddo. I falò notturni, che rilucevano qua e là nel campo illuminando le sagome dei soldati insonnoliti sparsi all’intorno, con la loro tenue luce purpurea rendevano ancora più intenso il buio. Vicino si sentiva un cadenzato, tranquillo russare, lontano movimenti, parole e lo sferragliare di fucili della fanteria che si stava preparando a mettersi in marcia; c’era odore di fumo, di letame, di miccia e di nebbia; i brividi del mattino mi percorrevano la schiena e senza volerlo serravo i denti.
Il fuoco, la nebbia, il freddo e i corpi dei soldati sono certo gli elementi fondamentali di questa esperienza. La tecnica di questa scrittura vuole però descrivere, mostrare le cose il più realisticamente possibile. E la realtà non è fatta solo di quegli elementi fondamentali che sono l’esperienza, quelli che ci permettono di dare un senso alla realtà, ma anche da tanti altri, piccoli particolari, magari inventati o raccolti in esperienze fatte altrove. Ecco allora che ad aprire quell’immagine dell’accampamento notturno, così carica di senso, sono i gesti quotidiani
e insieme precisi del bere un tè e del lavarsi con acqua fredda. Questi elementi, di per se stessi quasi insignificanti, fanno dell’insieme qualcosa di molto simile alla realtà, di verosimile: qualcosa che avrebbe potuto avvenire esattamente così. Bisogna infatti ricordare che il romanzo è finzione: ciò che vi è scritto non è realmente accaduto. L’autore inventa. Anche quando mette insieme esperienze e particolari realmente vissuti, questi provengono da luoghi e tempi diversi. Ciò che è importante capire è che egli ricompone tutto il suo materiale così che esso possa rivelare il senso della realtà. Prima di tutto però, il realismo è un grande esercizio di osservazione e studio della vita reale e uno sforzo sempre teso ad analizzare le proprie esperienze. Una scuola dolorosa, perché prima di essere raccontata e dunque salvata, la vita deve essere sezionata.
. L’oggetto e la vita
III
Ivan Il’ič vedeva che stava morendo ed era in preda a una continua disperazione. In fondo all’anima sapeva che stava morendo, però non soltanto non s’era abituato a questa idea, ma non capiva neppure, in nessun modo poteva capire una cosa simile. L’esempio di sillogismo che aveva studiato nella Logica di Kizeveter – Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, epperò Caio è mortale – gli era per tutta la vita sembrato giusto nei riguardi di Caio, ma nient’affatto nei suoi propri. Quello era l’uomo Caio, un uomo comunque, e il discorso tornava perfettamente; ma lui Ivan Il’ič non era né Caio, né in generale un uomo, lui era un essere del tutto diverso dagli altri; lui era Vanja con la sua propria mamma […] e poi con tutte le gioie, i dolori, gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza […] Forseché Caio [...] alla scuola aveva fatto chiasso pei pasticcini? Forseché Caio era stato innamorato in quel preciso modo? Sapeva forse Caio presiedere un’udienza?
Tutte le citazioni sono tratte da La morte di Ivan Il’ič (se, ), traduzione di Tommaso Landolfi. (N.d.C.)
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È così che all’inizio del sesto capitolo Tolstoj ci presenta il dramma di Ivan Il’ič sull’incapacità di riconoscere l’altro. Il sillogismo aristotelico è semplice: poste le due proposizioni di partenza («Caio è un uomo» e «tutti gli uomini sono mortali»), se ne ricava necessariamente una terza («Caio è mortale»). Il metodo di conoscenza deduttivo resta tuttavia sterile. Ivan Il’ič non riesce proprio a concepire che anche Caio abbia avuto una madre che l’amava, che pure Caio abbia vissuto le gioie e i dolori dell’adolescenza e che pure Caio, diversamente dalla sua certo, abbia praticato una professione di cui essere fiero. “Caio è diverso da me, ma io sono come lui” è un pensiero che non lo sfiora nemmeno. Per Ivan Il’ič, il mondo è semplicemente lui stesso. Tutto ciò che non gli è “proprio”, che non è “suo” o che non è in rapporto diretto con lui, per Ivan Il’ič esiste solo idealmente, teoricamente, non ha vera vita. L’egoismo e il cinismo borghese, sempre mascherato di buona educazione e rispetto, gli impediscono un’esperienza vera. Esperienza che è sempre rapporto diretto con la vita, con una realtà necessariamente diversa da sé. Non è solo il metodo deduttivo a fallire però. Non così esplicitamente, anche se lungamente narrato assieme alla malattia del protagonista, è anche l’altro metodo aristotelico, quello induttivo o sperimentale, ad essere inefficace. Il principio è quello inverso. Se nel metodo deduttivo si “deduceva” appunto la verità sul singolo caso da degli assunti generali, in quello sperimentale si parte proprio dall’indagine del caso specifico, dell’oggetto e, una volta comprese le leggi che ne regolano l’esistenza, quelle stesse si allargano al generale. Del tipo, se conosco come è composta e si articola la mano di Caio, allora conosco come sono composte e si articolano le mani di tutti gli uomini. Detto in sintesi: la scienza sperimentale studia l’oggetto e quello che dell’oggetto non riesce a misurare e a prevedere del suo comportamento, non ha capito. Ecco come stava la faccenda per il nostro protagonista, al termine della prima visita. A Ivan Il’ič una sola questione stava a cuore: era la sua malattia grave oppure no? Ma il medico non attribuiva a questa questione il menomo peso. […] Non era quella una faccenda che riguardasse la vita stessa di Ivan Il’ič, era una contesa fra il rene mobile e l’intestino cieco.
Due settimane prima della sua morte, la questione per i medici era ancora la stessa. Ricominciarono le auscultazioni e i discorsi gravi […] e in luogo della que-
stione di vita o di morte che ormai stava unica davanti ad Ivan Il’ič, risortì quella del rene mobile appunto e dell’intestino cieco i quali non si comportavano come dovevano…
«Comportavano» appunto, come se fossero membri non ben educati della sociale fisiologia umana. La questione in realtà è semplice: oggettivizzata la malattia, non c’è più né malato né morte. C’è solo qualcosa che, contrariamente da quanto faceva prima e da quanto normalmente accade, funziona diversamente o, detto senza tatto, non funziona. Ciò però non è un problema perché il corretto o no funzionamento di quest’organo è solo in riferimento a se stesso. Il rapporto tra l’organo e la vita del paziente non è un problema scientifico. Si può forse misurare, dare dei valori confrontabili di questo rapporto? Certo che no! E ciò che non si misura, non è scienza. Piuttosto, e di rilevanza ben maggiore, è il corretto decorso della malattia, perché se è vero che c’è un corretto funzionamento dell’organo, c’è pure un modo, come dire, “scorretto ma tipico”, che per una deficienza nota del nostro organo porta l’intero organismo umano alla morte. Morte non già come fine della vita, ma come cessazione necessaria e prevedibile, e dunque scientifica, delle funzioni vitali. Che è ben diverso! Si pensi solo alle sofferenze del malato, sarebbero agghiaccianti se considerate come fatto individuale. Esse sono invece, nella quasi totalità dei casi e sempre in termini medici, delle manifestazioni tipiche di quello specifico male. E ciò che è tipico, che si comporta come la scienza si aspetta, è normale e dunque non colpisce. Tutto ciò pensa almeno il medico di Ivan Il’ič. Discutere poi del fatto che il malato come uomo non esista di fronte al medico, è ricadere ancora nella dinamica del metodo deduttivo e della sua inefficacia sopra descritta. Ben più generale dell’approccio etico alla cura medica, è quello socialmente riconosciuto corretto e ideale per ogni professione. Non si accorge forse Ivan Il’ič alla prima visita che il medico lo guardava come lui era solito guardare da giudice i suoi imputati? Sintetizzando, per la sua attenzione all’oggetto in se stesso e per la sua generalizzazione dei fenomeni che superano l’identità del singolo individuo, il metodo induttivo non permette quell’esperienza umana fondamentale che è l’incontro con l’altro, con un’altra vita. Dunque, è la crisi dei metodi. “Metodo” è una parola composta di origine greca, una parte della quale, odos, significa “via”. Nella sua estensione, come ha spiegato bene Heidegger nel Parmenide, “metodo” significa “restare sulla via”. Non però
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su quella predefinita della procedura burocratica o del codice morale borghese. La “via” del metodo è quella che “apre una prospettiva”, che “offre uno scorcio”, una visione di ciò che ci viene a stare di fronte. Tutt’altro che dalla “retta via”, la “via” del metodo è quella che, curvando, apre il mondo allo sguardo. Autenticamente intesa, quella del “metodo” è una via insicura, non tracciata, che ha bisogno e cerca un punto di riferimento, necessariamente esterno. E solo lì, dove si “offre uno scorcio”, ecco comparire il mondo, con le cose, gli altri. Senza questo riferimento, la vita sarebbe un sordo procedere su se stessi. Chi crede nel metodo come ripetizione di alcuni comportamenti od operazioni precise e predeterminate, resta chiuso in se stesso. La via che apre lo sguardo è invece l’unica per uscire da sé e l’unica che ci riveli a noi stessi. Per Ivan Il’ič, chiuso nelle proprie abitudini sociali, professionali e sentimentali, la “via” che apre all’altro inizia proprio con la malattia. Prima ogni cosa era «facile», «conveniente». Nessun dubbio sui suoi desideri e aspirazioni sociali, nessun dubbio sui suoi sentimenti di padre o di marito o sui suoi piaceri, nessun dubbio sulla sua condotta professionale. Certo, gli imputati avrebbero anche potuto essere innocenti o colpevoli per cause che, tuttavia, superavano la loro responsabilità di uomini, ma ciò era irrilevante: di fronte ad essi egli lasciava a parte la vita sua e quella loro per applicare, con espressione sicura, la giusta procedura giuridica. Così, non è un caso che a rivelargli il suo destino di morte, la fine stessa della sua “via” e la sua natura autentica di essere umano, sia stata l’espressione di un altro uomo. Prima di incontrare gli occhi dell’altro, Ivan Il’ič non conosceva se stesso.
5. Saggio bibliografico Testi dell’autore L’opera di Tolstoj è alquanto vasta. Un’edizione integrale in lingua russa ne conta più di novanta volumi. Anche per un più sicuro orientamento, la bibliografia qui sotto riportata raccoglie dell’autore le opere maggiori e, nel maggiore rispetto possibile dell’intera e diversa produ
zione artistica, quelle più significative. Ho operato una pratica divisione tra le opere narrative e drammatiche e quelle di genere saggistico, critico o filosofico che siano. Resta esclusa invece, perché impossibile da raccogliere, l’opera pubblicistica ed editoriale dell’autore. L’ordine seguito è quello cronologico. Opere narrative e drammatiche: tolstoj, Lev N., Infanzia, . tolstoj, Lev N., Adolescenza, . tolstoj, Lev N., Il taglio del bosco, . tolstoj, Lev N., Racconti da Sebastopoli, -. tolstoj, Lev N., Guerra e pace, -. tolstoj, Lev N., Anna Karenina, -. tolstoj, Lev N., La morte di Ivan Il’ič, . tolstoj, Lev N., La potenza delle tenebre, . tolstoj, Lev N., Il diavolo, . tolstoj, Lev N., Sonata a Kreutzer, -. tolstoj, Lev N., Resurrezione, -. Opere saggistiche: tolstoj, Lev N., Diari, -. tolstoj, Lev N., Confessione, -. tolstoj, Lev N., Qual è la mia fede?, -. tolstoj, Lev N., Che cos’è l’arte?, . tolstoj, Lev N., La schiavitù del nostro tempo, . tolstoj, Lev N., Non posso tacere, .
Testi di riferimento culturale È noto con quale atteggiamento razionale Tolstoj abbia impostato, prima ancora della sua opera letteraria, la sua analisi critica sia dell’uomo che della società. La cultura illuministica e quel grande testo autobiografico che sono Le confessioni () di Jean-Jacques Rousseau, autentico viaggio nella natura umana, furono sempre per Tolstoj un punto di riferimento intellettuale e un modo di porsi di fronte al mondo. L’ordine segue l’anno in cui le opere sono state scritte, non pubblicate. (N.d.C.)
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Quando si rifletta sul carattere descrittivo della narrativa realistica, è impossibile non pensare a quel modello di osservazione diretta della realtà che è l’indagine scientifica. L’origine delle specie () di Charles Darwin è certo, in questo senso, il testo più significativo. Rimando ad un’altra opera fondamentale dell’Ottocento europeo, Il capitale (almeno il primo libro, ) di Karl Marx, per la critica alla dinamica e ai valori del capitalismo, sistema economico tanto disprezzato da Tolstoj. Per completare il quadro di riferimento, ricordo i Vangeli (Nuovo Testamento), ai quali Tolstoj si ispirò profondamente per la ricerca dei fondamenti di una religione non mistica, ma fatta di una moralità vivibile quotidianamente. In un certo senso, per quanto siano tra loro contrastanti, è nell’insieme di questi testi lo spirito del realismo. Per un confronto col realismo dell’occidente europeo si può far riferimento ad autori quali Honoré de Balzac, in Eugénie Grandet (), e Henri Stendhal, la cui prosa di guerra fu di grande insegnamento a Tolstoj. A quest’ultimo autore si può far riferimento per Il rosso e il nero (), romanzo che mostra tutta l’inconciliabilità della passione umana con le regole e i costumi sociali. Molto amata da Tolstoj fu poi la grande epopea umana de I miserabili (), di Victor Hugo. Autentico punto di riferimento del realismo europeo, citato da Tolstoj anche nel testo qui edito, resta comunque lo scrittore Emile Zola. Tra le sue opere più famose: L’ammazzatoio () e Germinal (). Per un confronto severamente oppositivo, prova anche di come attraverso la narrativa realista siano state rappresentate diverse concezioni di vita, segnalo Con gli occhi chiusi () di Federigo Tozzi, autore la cui letteratura realista è certo tra le testimonianze critiche più drammatiche e disperanti circa la visione idilliaca del lavoro dei campi. E per la tensione morale cara al nostro autore, risolta però nell’affermazione coraggiosa della verità, tanto più poi che il dramma citato si consuma nel rapporto borghese tra marito e moglie, significativa risulta la lettura dell’opera teatrale Casa di bambola () di Henrik Ibsen. Per un confronto ed un approfondimento letterario della realtà sociale di Ivan Il’ič, il protagonista del testo qui edito, rimando a I demoni () di Fëdor Dostoevskij e all’opera drammatica di Anton Čechov Il gabbiano (). Anche questi sono autori profondamente lontani dalle posizioni di Tolstoj, tuttavia grandi nel mostrare le forme di decadenza della società russa e insieme europea della fine del secolo xix. Ancora ad un grande romanzo di Dostoevskij si può far riferimento per un confronto critico sul contenuto religioso dell’opera qui pubblica
ta. L’idiota () è forse l’opera contemporanea che più potentemente ha rappresentato la natura e il destino dell’essere cristiano. Alla tematica della morte si può far fronte da più lati. Accenno velocemente al contributo psicanalitico, peraltro tardo rispetto all’opera del nostro autore, richiamando due saggi di Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte () e Sulla precarietà (). Molto interessante invece è Morire () di Arthur Schnitzler, lucida costruzione narrativa di come l’amore di coppia si trasformi, di fronte alla morte, in abbandono e desiderio omicida. Più difficile, per la vastità del materiale, è consigliare delle letture sullo stesso tema in prospettiva filosofico-esistenziale. Un sicuro punto di riferimento, anche per una riflessione generale tra estetica ed etica in Tolstoj, può essere però l’opera del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione ().
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Invito alla lettura di
Franz Kafka La metamorfosi
I
. La vita e le opere La famiglia Franz Kafka nacque a Praga il luglio , in una casa situata al confine tra due realtà. Dietro la sua abitazione si stendeva il ghetto ebraico, con le sue vie strette e tortuose, le sinagoghe e l’antico cimitero, tutto fitto di pietre storte. Dall’ingresso principale della sua casa si raggiungeva invece in pochi minuti la piazza centrale della Città Vecchia. Lì c’erano i palazzi dei nobili e le abitazioni della borghesia più ricca. Da queste diverse realtà venivano i genitori di Franz. Hermann Kafka, il padre, proveniva da una povera famiglia di mercanti e contadini ebrei. Giovanissimo e vestito di stracci, portava fino alle fattorie più lontane la carne macellata dal padre con un carretto a mano. La madre, Julie Löwy, era invece figlia di un ricco commerciante che viveva di rendita con la famiglia in una delle case più belle di Praga. Il piccolo Franz cresceva pieno di attenzioni e per la sua educazione, come era d’uso a quel tempo nelle famiglie più ricche, i genitori assunsero nel anche una governante francese. Dopo Franz nacquero ancora le sorelle Elli (), Valli () e Ottla (), ma a parte quest’ultima, ad esse il giovane primogenito non fu mai molto legato. Gli anni dello studio Conosciuta la scuola nel , Franz credeva che non avrebbe mai superato la prima elementare. Anche per la presenza di un padre dal carattere sicuro e dai modi imperativi, Franz ebbe sempre disistima di sé. Quando il suo insegnante consigliò ai genitori di lasciarlo un anno ancora alle scuole elementari benché avesse terminato il corso di studi, non fu però a causa del suo rendimento, ma per la delicata costituzione fisica. In realtà la scuola non lo interessava molto. E di essa così scriveva, ormai adulto, in Lettera al padre: La scuola mi interessava [...] pressappoco come un impiegato di banca disonesto, che è ancora al suo posto ma trema all’idea di essere smascherato, interessa il disbrigo dei lavoretti che al momento gli competono. Così piccolo, così lontano mi sembrava tutto rispetto all’essenziale.
Franz Kafka • La metamorfosi
Con l’ammissione all’imperial regio liceo statale (), istituto superiore di lingua tedesca, Franz continua l’esperienza di una scuola severa ed arida. In particolare, il rapporto con la cultura antica si esauriva nello sterile studio delle regole grammaticali di un’altra lingua. Anche la scelta della facoltà universitaria non fu semplice. Franz avrebbe voluto studiare Filosofia, ma, come egli stesso scrisse: «A casa chiedono: “Dunque, quale scienza remunerativa?”». I genitori, come tutta la cultura borghese, concepiscono lo studio solo come possibilità di guadagno e di prestigio sociale. Sceglie così infine Giurisprudenza e si laurea nel , dopo un corso di studi faticoso e con modesti risultati. È in questi anni d’università che conosce Max Brod, l’amico con cui discuterà di letteratura e che pubblicherà le sue opere. Il lavoro d’ufficio e la scrittura Sicuro di non voler esercitare la professione d’avvocato, Franz lavora prima alle Assicurazioni Generali e dal viene assunto all’Istituto superiore di commercio. Il lavoro per Franz è una costrizione. Gli orari dell’ufficio, le povere mansioni da svolgere, tutto entra nella sua vita minacciandone il difficile equilibrio. Per non veder isterilito anche il tempo che gli rimane, egli cerca di organizzare rigidamente le sue giornate: lavorare di giorno, riposare il tardo pomeriggio e poi scrivere fino a tarda notte, talvolta fino all’alba. La situazione è difficile, ma è nello stesso che la rivista «Hyperion» pubblica Meditazione, le prime prose di Franz Kafka. Intanto i suoi superiori giudicano buone le sue capacità d’impiegato e così nel viene promosso ad un incarico di responsabilità. Il suo compito è valutare quanto siano rischiose le condizioni di lavoro a cui vengono esposti gli operai nelle fabbriche, così da poter stabilire poi la giusta polizza assicurativa. Franz si interessa alle nuove tecnologie applicate alle macchine industriali, e si impegna affinché gli operai abbiano il giusto risarcimento economico per gli infortuni subiti durante il lavoro. Infortuni spesso gravi, come l’amputazione di alcune dita o della mano intera. «Come sono modesti questi uomini. Vengono da noi supplichevoli invece di assaltare l’Istituto e fare tutto a pezzi» egli confida all’amico Max Brod. La salute non è ottima. È il e Franz comincia a scrivere i Diari, quaderni di lavoro in cui vengono raccolti dall’autore idee e appunti di vita quotidiana, brevi episodi narrativi e riflessioni su se stesso. Un anno dopo, l’incontro di Franz col teatro spoglio e intellettuale
dell’attore Jizchak Löwy, che diventerà suo amico e modello di rivolta ai valori borghesi. Il è un anno creativamente eccezionale. Franz scrive i primi capitoli de Il disperso (pubblicato poi da Brod col titolo America), La metamorfosi e La condanna. Opere letterarie nate dal bisogno di scrivere. Così, quando in quello stesso anno, a causa dell’assenza del cognato, la famiglia spinge Franz a prendersi cura degli affari di una fabbrica della quale era diventato socio per volontà del padre, egli pensa freddamente al suicidio. Il matrimonio impossibile Scrivere significa per Franz un distacco umano dal padre e dalla famiglia. Questo bisogno è così forte, così profondo nell’autore, che il progetto più grande gli sembra quello di sposarsi, fare una nuova famiglia. Così scrive nella Lettera al padre. Il matrimonio è certo una garanzia di liberazione assoluta e di indipendenza. Io avrei una famiglia, vale a dire la meta più alta che a mio avviso si possa raggiungere, una meta che tu hai raggiunto, e quindi saremo alla pari.
Ma Franz non si sposerà mai. Era il quando a casa d’amici Franz vede per la prima volta Felice Bauer. Per più di un anno i due si scrivono delle lettere, e nel giugno del , a Berlino, si fidanzano. La cosa però dura poco, Franz in luglio è già a Praga. Alla fine di quello stesso mese l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia, così inizia la prima guerra mondiale, e Franz inizia a scrivere Il processo. Tra il e il Franz e Felice si incontrano ancora e trascorrono assieme alcuni giorni di vacanza. Con Felice, Franz divide anche la lettura pubblica de La colonia penale, il racconto della tortura, dell’incisione sulla carne di una colpa che non si potrà leggere. Nel il nuovo fidanzamento, ma ancora una volta Franz lascia Felice dopo la diagnosi di una grave malattia. In Felice, Franz trova la promessa di un normale vivere quotidiano. Egli sa e scrive che con lei la sua vita troverebbe un perno, ma questo non basta a rassicurarlo. Al contrario, il matrimonio per Franz resta un pericolo, una minaccia per il suo lavoro di scrittore. Ciò che sente di dover fare sopra ogni cosa è proteggere le condizioni materiali di libertà e solitudine che gli consentono di scrivere e di vivere come estraneo
Franz Kafka • La metamorfosi
all’interno di una famiglia che, psicologicamente, non abbandonerà mai. Il processo e la vergogna Nel Franz si trasferisce in una stanza al pianterreno sulla Bilekgasse. Lì, durante i primi mesi della prima guerra mondiale, scrive Il processo. Nel romanzo l’autore racconta la vicenda di Josef K., il quale un giorno, senza che egli avesse fatto nulla di male, viene arrestato. Quello di Josef è uno strano arresto, perché non è detenuto in nessuna prigione. Non solo egli può liberamente andare al lavoro, ma le udienze processuali vengono fissate la domenica, così da non disturbare la sua attività professionale. K. non vorrebbe neppure difendersi, ma per non trascinare con sé la famiglia nel disonore, pensa ad una «memoria difensiva». La questione è però disperata perché egli non conosce la propria colpa. Nessuno gli ha detto né gli dirà mai quale legge ha violato. K. dovrebbe scrivere così un documento difensivo su tutta la propria vita, un documento che risponda a tutto e di tutto. Impossibile: il lavoro d’ufficio non gli lascia tempo e il processo si promette lungo quanto la vita. Senza mai aver visto il tribunale che doveva giudicarlo, Josef K. è infine prelevato da casa da due individui e condotto fuori città. Dopo aver assistito anche all’indecisione dei due sui modi dell’esecuzione, K. viene sgozzato con un sottile coltello da macellaio. Per tanta parte autobiografico, Il processo è tra i romanzi di Kafka quello che più di ogni altro esprime la condizione di solitudine e di impotenza umana di fronte ad una società imperscrutabile e criminale. Guardie corruttibili, ispettori presuntuosi e ottusi, cittadini egoisti, felici e seriamente impegnati a vivere nell’umiliazione, sono questi gli attori di una società in cui la cosa più pericolosa è pensare di cambiare qualcosa. Le ultime parole de Il processo sono: «era come se la vergogna dovesse sopravvivergli». Non la vergogna di sé, ma la propria vergogna per ogni cosa. La ragione umana e la bellezza soccombono ovunque le istituzioni ignorino e uccidano l’uomo. La vergogna per questa società resta. La malattia È il quando a Franz viene diagnosticata la tubercolosi polmona
re. Nei Diari aveva scritto spesso delle sue sempre peggiori condizioni di salute. La malattia Franz l’aveva attentamente scrutata, predetta, forse anche desiderata. Il matrimonio era stato per Franz un’impresa fallimentare. Negli ultimi anni della sua vita, la malattia accelera e rafforza in Franz la pulsione d’amore, attirando e al tempo stesso respingendo questo sentimento. Nel si fidanza con Julie Wohryzek, figlia di un modesto calzolaio. Il padre è fortemente contrario. È in queste circostanze che nel novembre dello stesso anno Franz scrive Lettera al padre, la testimonianza di un figlio che di fronte all’autorità paterna ha sempre sentito se stesso inabile alla vita e la propria esistenza come un dono immeritato. Riprende il lavoro, ma dopo poco più d’un mese è di nuovo costretto a smettere per ragioni di salute. Nel è a Merano, nel sanatorio in cui conosce l’intellettuale Milena Jesenská, anch’essa malata ai polmoni. Quando torna a Praga è promosso segretario. Rompe anche il fidanzamento con Julie e presto è nuovamente in sanatorio. Qui conosce Robert Klopstock, un amico che lo assisterà fino agli ultimi giorni di vita. Tornato a Praga nel , scrive il suo ultimo romanzo, Il castello e altri racconti, tra i quali Un digiunatore. In un viaggio nel Mar Baltico (), Franz conosce Dora Dymant, con la quale vivrà a Berlino dal settembre del al marzo del . Mesi di penuria a causa della crisi che seguiva la guerra, ma sereni. Sempre nel , poco dopo essere tornato a Praga, Franz è trasferito in un sanatorio presso Vienna, in realtà un ospedale per i malati terminali di modeste possibilità economiche. Egli vede quotidianamente morire persone attorno a sé. Negli ultimi tempi Franz non poteva più neppure parlare, tanto si era ingrossata la sua gola. Ai genitori scrive però di non andarlo a trovare, che il viaggio è lungo e che lui sta un po’ meglio. Ormai poco più che uno scheletro, assistito solo da Dora e da Klopstock, muore il giugno per una crisi respiratoria, dopo una lunga agonia. Franz Kafka è sepolto a Praga, assieme ai genitori Hermann e Julie. Un’unica lapide ne riporta i nomi.
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2. La metamorfosi Al risveglio, Gregorio Samsa si trova mutato in un insetto mostruoso. Attorno la realtà è quella di sempre: la sua camera di essere umano con gli oggetti della sua vita privata e quelli della sua professione. Ma egli è diverso. Ora le sue tante zampe gli si muovono davanti agli occhi ed egli è preso dai pensieri più quotidiani per il lavoro e la famiglia. Gregorio è commesso viaggiatore. Odia il proprio lavoro di venditore, ma lo fa per pagare i debiti di un’impresa familiare fallita e per mantenere la famiglia stessa. Con voce premurosa, la madre lo chiama. È tardi, deve prendere il treno. Egli vorrebbe alzarsi, ma non può, il suo corpo d’insetto è ingombrante e delicato. Vorrebbe comunicare ai familiari le sue buone intenzioni, che la sua è solo un’improvvisa indisposizione, ma le sue parole sono incomprensibili. Con la scoperta della sua nuova mostruosa natura, per Gregorio inizia un crudele processo d’abbandono e umiliazione da parte di tutti. Nella sua camera, prima tanto frequentata, più nessuno vuole entrare. Solo la sorella Grete sfida l’orrore e si prende cura di lui, portandogli quotidianamente un po’ di cibo. Gregorio si vergogna e quando lei entra si nasconde sotto il divano, anche per non renderle il lavoro più duro. Pur così diverso, la madre continua a pensarlo felice tra le sue cose e i mobili di famiglia. E quando il padre, ora più sicuro ed autoritario perché ha ripreso a lavorare, viene a sapere che Gregorio è uscito dalla stanza, gli tira con rabbia delle mele, ferendolo gravemente. Con quel mostro chiuso in casa la vita per la famiglia Samsa non è più quella di prima. Non è solo il lavoro, che ora impegna tutta la famiglia, a pesare loro, ma il sentimento che nessuno dei parenti e dei conoscenti aveva avuto mai una tale disgrazia. Di Gregorio più nessuno si prende cura. Il cibo, così come gli viene gettato la sera, viene spazzato al mattino. La sua stanza diventa il magazzino per ogni oggetto inutile, e nel muoversi tra le cose, egli si ferisce ovunque. È infine proprio la sorella Grete a dire ai suoi genitori che quell’insetto non è Gregorio, che per la famiglia è solo un dolore e che meglio sarebbe se morisse. Presente alla condanna, Gregorio ritorna nel silenzio e nell’indifferenza della famiglia in camera sua. La porta viene chiusa, sprangata. Il giorno dopo, la donna di servizio lo trova morto. Tutti più sollevati, i Samsa si concedono un giorno di vacanza. E guardando Grete, padre e madre pensano che sia ormai pronta per un felice e favorevole matrimonio.
II
. L’espressionismo Condizioni storiche e sociali Verso la fine dell’Ottocento, la forte economia e l’impiego massiccio delle nuove tecnologie industriali avevano portato gli stati europei a politiche espansionistiche che miravano al controllo di ampie aree del mondo. All’interno, l’Europa restava un continente diviso. L’equilibrio già precario tra gli stati era messo in crisi dalle stesse contraddizioni di quel violento sistema economico. Tutto avrebbe presto condotto alla prima guerra mondiale (-), con intere città distrutte dai bombardamenti, dieci milioni di morti tra soldati e civili, e la conseguente, disastrosa crisi economica. Ottimismo ed euforia erano tuttavia i sentimenti degli anni precedenti la Grande guerra. La fiducia in un modello di sviluppo basato sulla potenza produttiva era assoluta. Era l’età dell’elettricità, del petrolio e dell’acciaio. Con le stanze illuminate a giorno, il telefono e la macchina per scrivere cambiavano però solo i costumi quotidiani. L’uomo restava lo stesso: usava fino in fondo la potenza degli strumenti tecnici ed economici che aveva. Lo spirito dinamico e positivo con cui la borghesia si era socialmente imposta riscuoteva il suo successo. Ma la realtà già si mostrava in tutti i suoi contrasti. I diritti di libertà, di iniziativa personale e di libero scambio, la stessa proprietà privata, che la classe borghese dichiarava come i suoi valori fondamentali, non erano rimasti che buoni propositi. Ai programmi ideali ora si sostituiva la mistificazione, alle teorie di convivenza, le brutali repressioni “civilizzatrici”. L’incremento produttivo non nascondeva più il necessario sfruttamento, e nei dati tecnici che riassumevano i progetti industriali si andava articolando una nuova lingua, assoluta e cinica. Restava la desolazione delle tante divisioni sociali. Gli occhi dei poveri si affacciavano a vetrine sempre più ricche di merci, sempre più cieche. La guerra, l’aggressione di un nemico straniero, fu anche un modo per i singoli stati di contrastare la forza crescente di intere masse popolari che si andavano ormai da tempo organizzando nei partiti dei lavoratori. Il terrore e la disciplina furono l’ordine dentro il quale doveva perdersi la difesa dei diritti civili.
Franz Kafka • La metamorfosi
Rifiuto e bellezza In termini generali l’Espressionismo è un movimento di rifiuto dei valori e delle forme di comunicazione borghese. Rifiuto dell’utilitarismo capitalistico e dell’ottimismo che lo caratterizza. Rifiuto della razionalità scientifica, dietro alla quale esso vede celarsi un operare freddo e impersonale, pericolosa condizione della catastrofe. Rifiuto di quella forma di espressione equilibrata, composta, che ormai veniva sentita solo come qualcosa di educato e ipocrita. Il conflitto insanabile tra l’uomo e la società rende l’artista sensibile ad ogni forma di violenza, fragile, ma al tempo stesso lo rende anche testimone, responsabile di una verità che lo fa forte. Ed è questa verità che egli rappresenta. Leggendo le pagine di un autore espressionista o guardando un suo quadro, siamo improvvisamente esposti a qualcosa di violento, esplosivo. Un uomo si sveglia e si scopre mutato in un insetto mostruoso. Un paesaggio di montagna vibra di verdi e di blu innaturali. Non è la realtà, questa, almeno non sono le cose così come siamo abituati o ci aspettiamo di vedere. Ciò che viene rappresentato è la realtà intima delle cose, che è disperazione, tormento. L’urlo lacerante, perché muto, è la nuova condizione umana. Il nuovo volto della natura è quello dello sfruttamento sconsiderato e dell’indifferenza. Ma questo è ciò che stringe l’artista tra le mani. L’uomo più bello è quello segnato dal disprezzo sociale. La natura più struggente è quella dei paesaggi offesi e avvelenati. Estrema difesa, l’arte e la bellezza sono per l’espressionismo la verità che si mostra.
III
. Responsabilità e colpa Gregorio Samsa è uno scarafaggio, e lo è perché lo scrittore descrive la realtà con gli occhi della società. In questa scelta stilistica, troviamo il segno di sottomissione più forte e insieme la risposta più distruttiva dell’uomo Kafka. Guardando a sé come ad uno scarafaggio, trascurando
ogni altra realtà che non sia quella della società in cui è cresciuto, egli sceglie e percorre sino in fondo il proprio destino, mostrandoci attraverso la sua esperienza, divenuta un atto d’accusa, la normale mostruosità di un vivere familiare e sociale che rende alieno l’essere e vede mostruoso l’uomo. È questa anche la soglia dell’arte. Nel rispetto assoluto del punto di vista della società, il personaggio e lo scrittore Kafka lasciano i suoi rappresentanti nella condizione di giustificarsi da sé. Estrema forma di coscienza, l’arte lascia infine la realtà a se stessa. Ecco alcune note narrative e biografiche di questo meraviglioso abbandono. Una mattina Gregorio Samsa si sveglia mutato in un insetto mostruoso. Impossibilitato ad alzarsi, come le tante zampine che gli si muovono davanti agli occhi vengono alla sua mente molte cose e tra queste, quasi casualmente, il debito contratto dalla famiglia per il fallimento dell’azienda che il padre gestiva prima di questo suo nuovo lavoro, che egli tanto disprezza, e della mutata situazione economica. Se il fallimento degli affari privati la famiglia Samsa lo ha già vissuto, quella che continua è la crisi economica, i debiti che – ecco la responsabilità – Gregorio è chiamato a pagare. Non poter assolvere ad essi, dover assistere ai creditori che sempre più insistentemente invadono e minacciano l’alloggio, autentico santuario borghese, sarebbe la rovina morale. Gregorio deve dunque andare al lavoro. Essere un figlio borghese modello è quanto i suoi genitori da lui silenziosamente pretendono e quanto egli stesso vuole da sé. In realtà la menzogna dilaga. A Gregorio il padre nasconde che dal fallimento dell’impresa sono avanzati dei soldi e che la situazione economica non è poi così critica. E Gregorio stesso si nasconde il disprezzo profondo che egli prova per la vita falsa e interessata dei familiari. Se di fronte alla propria disarmata coscienza egli vuole andare al lavoro, inconsciamente si è già compiuto in lui il più inappellabile dei rifiuti: da quel mostruoso parassita nessuno avrà più nulla. Eppure la generosità non ha mai imbruttito nessuno. Lo stesso bisogno di dare, di riconoscere nell’altro se stessi, anche fosse solo una traccia, è così umano. Il punto è che non basta affatto che Gregorio lavori, che cerchi di estinguere il debito familiare per senso di collaborazione o generosità. Ciò dai suoi genitori non sarebbe riconosciuto, compreso, perché partecipazione vera e generosità non sono parole che hanno un senso nel linguaggio borghese. E poi implicherebbero libertà, non potrebbero essere che il risultato di una scelta individuale. E libertà e scelta non sono possibili, tollerabili, nel piccolo universo borghese. Esse al contrario non sarebbero che il tradimento della famiglia.
Franz Kafka • La metamorfosi
Vero è che alla meraviglia di fronte ai primi guadagni di Gregorio, i genitori presto sostituiscono l’oscura abitudine. In casa Samsa, tutto deve compiersi al buio e nella menzogna: la metamorfosi come la gestione dei risparmi, che fanno del lavoro di Gregorio lo sfruttamento del figlio ad opera del padre. Quello che si legge nel racconto e che lo stesso protagonista coscientemente sente, è che egli deve lavorare e lavora per “amore” dei genitori e della sorella Grete. Ma questo “amore” poggia sul ricatto della disperazione, e a viverlo fa diventare mostri. È inquietante come tutti, in casa Samsa, si preoccupino per qualcun altro. Tutti per “amore” di qualcun altro si disperano e chiedono qualcosa. “Amore” e “disperazione” nascondono però solo l’egoismo e l’educato schiavismo psicologico borghese. Nel rifiuto profondo ed inconscio di tutto questo, si compie la metamorfosi di Gregorio. Nell’essere figlio c’è tuttavia una colpa ancora maggiore, una colpa tragica, perché è una colpa senza colpa. Come ha attentamente osservato Walter Benjamin in Franz Kafka a proposito della definizione di colpa originaria data dal nostro autore, non c’è nessuno che essa riguardi più del figlio. La colpa originaria, l’antico torto commesso dall’uomo, consiste nel rimprovero che egli fa, e da cui non desiste, che gli è stato fatto un torto, che la colpa originaria è stata commessa contro di lui.
Nel grido «su di me è stata commessa la colpa», ciò che ascoltiamo è la voce del figlio che parla nel ruolo di padre. È forse questo lo spunto per l’interpretazione più radicale e negativa della vicenda narrata ne La metamorfosi. Con la rinnovata importanza sociale del padre, ora che è fattorino, e la sua più irragionevole cattiveria nei confronti del figlio, dal racconto emerge infatti anche l’aspetto più dolente della vita di Franz Kafka. Il rapporto padre-figlio è regolato da un ritmo tragico, senza riscatto. Scrive Franz in Lettera al padre. Nessuno ha passato quello che ho passato io! Come può capirlo oggi un figlio? In circostanze diverse questi racconti avrebbero potuto essere un eccellente metodo educativo, un incoraggiamento e uno sprone a superare sofferenze e privazioni simili alle tue, ma non era certo questo che volevi, la situazione era cambiata grazie, per l’appunto, ai risultati delle tue fatiche, e noi non avevamo l’opportunità di distinguerci come avevi fatto tu. Una simi-
le possibilità si sarebbe realizzata solo con la violenza e il sovvertimento, non so, fuggendo di casa […]. Ma non era certo questo il tuo desiderio, l’avresti definito ingratitudine, stravaganza, disubbidienza, tradimento, follia.
Non c’è alcuna soluzione positiva. La famiglia è un circolo di ipocrisia e sfruttamento, di soggezione e condanna, ma uscirvi significherebbe tradirla, disobbedire al padre. Gregorio e così anche Franz, che dalla dipendenza psicologica della famiglia non si liberò mai, resistono nel proprio ruolo. Al ripetersi della colpa di padre in figlio, non c’è infatti che la soluzione totale dell’uomo che resta figlio, che vivendo fino in fondo questo suo ruolo, consuma ed estingue il torto subito. Non tradisce la famiglia, il figlio, non compie nessuna stravaganza. Ubbidisce invece così severamente da rendere evidente su di sé tutta la mostruosità di quella violenza mascherata d’amore. E lascia infine ciascuno a se stesso. La vicenda della famiglia Samsa è anche la storia di una estinzione. Invisibile dietro a tutta la positività e la serenità ritrovata dopo la morte di Gregorio, proprio nel promettersi di quel felice matrimonio a cui sembra far da garanzia la giovane bellezza di Grete, è l’estinzione della famiglia che si consuma. Non ci saranno discendenti di nome Samsa. Dietro al suicidio accettato di Gregorio, si nasconde l’omicidio infinito della discendenza negata. Lasciandosi morire, accettando la condanna a morte espressa dalla sorella, Gregorio lascia la vita desiderata ai parenti, ma uccide quella futura.
. Saggio bibliografico
Testi dell’autore Per il loro notevole numero, la brevità e la loro frequente incompiutezza, non è facile dare un elenco completo delle opere di Franz Kafka. Ho segnalato singolarmente alcuni racconti molto significativi e le raccolte di questi fatte dall’autore. In ordine cronologico: L’ordine segue l’anno in cui le opere sono state scritte, non pubblicate. Basterà qui ricordare che Il processo, Il castello, Diari e Lettera al padre uscirono postumi. (N.d.C.)
Franz Kafka • La metamorfosi
kafka, Franz, Contemplazione (o Meditazione) . kafka, Franz, Diari, -. kafka, Franz, La condanna, . kafka, Franz, La metamorfosi, . kafka, Franz, Il fuochista, . kafka, Franz, Il processo, . kafka, Franz, Nella colonia penale, . kafka, Franz, Un medico di campagna, . kafka, Franz, Lettera al padre, . kafka, Franz, Il castello, . kafka, Franz, Un digiunatore, . Testi di riferimento culturale Fondamentali, per un approccio critico alla cultura borghese, sono i testi del filosofo e umanista tedesco Friedrich Nietzsche. Tra tutti ricordo La nascita della tragedia (), sulla bellezza come trasfigurazione del dolore; Così parlò Zarathustra (), l’opera che mostrò la miseria di ogni morale e la superò nella fiducia di un uomo vasto; Ecce homo (), l’autobiografia della cura. Sia in termini di critica generale ai costumi borghesi, che per La metamorfosi, molto interessante potrebbe risultare una critica di prospettiva psicanalitica. Tra le grandi opere del tempo, ci sono infatti gli studi e le pubblicazioni di Sigmund Freud. Particolarmente utile per il rapporto tra l’onirico e la realtà, L’interpretazione dei sogni, edita nel . All’opera dello stesso autore si può far riferimento per altri due temi fondamentali. Quello del rapporto conflittuale col padre, trattato in Totem e tabù (). E quello ancor più importante della pericolosa mostruosità. In un saggio del dal titolo difficilmente traducibile (l’originale è Das Umheimlich si potrebbe tradurre con Il perturbante, ma letteralmente il titolo tedesco significa “non-familiare”), Freud scopre il rapporto tra l’angoscia e la realtà familiare borghese: ad essere “perturbante” non è ciò che non abbiamo mai conosciuto, ma al contrario ciò che conosciamo benissimo, che ci è familiare, ma abbiamo rimosso dalla nostra coscienza, nascosto a noi stessi, e che improvvisamente ci compare di fronte. Pure interessante, in questo stesso percorso analitico, anche perché costruito su riferimenti ad esperienze di vari scrittori, è il testo Il doppio () di Otto Rank, allievo dello stesso Freud. Venendo alla letteratura. Per una rappresentazione del mondo bor
ghese si può far riferimento al grande romanzo familiare I Buddenbrook (), di Thomas Mann. Una critica feroce ai costumi piccolo borghesi è invece lo stimolo letterario di August Strindberg, autore svedese amato da Kafka e considerato nell’area di lingua tedesca un vero precursore dell’espressionismo. Della sua vastissima opera, anche in relazione al ruolo del protagonista del testo qui edito, ricordo Il figlio della serva (). Nel vasto orizzonte artistico espressionista, evidenzio la drammatica opera poetica di Georg Trakl (-): De profundis, Sebastiano in sogno, L’autunno del solitario, Rivelazione e caduta. Per l’assurdità lacerante e lo scioglimento del confine tra finzione e realtà, due aspetti fortemente presenti nell’opera kafkiana, evidenzio poi la produzione artistica di Luigi Pirandello, in particolare il dramma teatrale Sei personaggi in cerca d’autore (). Non possono infine essere dimenticate almeno due tra le grandi opere letterarie di Fëdor Dostoevskij, l’autore che l’intera Europa stava leggendo all’inizio della prima guerra mondiale: I demoni (), ritratto di una società terrorista e restauratrice, e I fratelli Karamazov (), che con l’opera qui pubblicata hanno in comune l’insolubile e criminale rapporto tra padri e figli. Non ultimo, l’Antico testamento, testo a cui l’opera di Kafka, nel bene come nel male, resta legata.
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Nota biografica Francesco Memo nasce a Venezia nel novembre del . Dopo la maturità tecnica si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università Ca’ Foscari di Venezia laureandosi brillantemente nel con una tesi di estetica sul Doktor Faustus di Thomas Mann. Studioso appassionato e acuto osservatore di ogni forma e movimento d’arte, si è dedicato con particolare attenzione allo studio della letteratura e della filosofia. Si è occupato inoltre di scienze naturali – in special modo del paesaggio alpino e lagunare – e di problematiche relative all’inserimento di cittadini extracomunitari nella società veneta. Nel marzo del , all’età di trentatré anni, ha posto fine alla sua vita gettandosi da un viadotto. Di Francesco, nel , l’associazione Diapason&Naima di Quarto d’Altino ha pubblicato la favola Etaera nivea, disponibile gratuitamente presso la sede dell’associazione oppure scaricabile dalla pagina www.mimisol.it/edizioni.
Indice Presentazione Prefazione Nota del curatore
Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi . La vita e le opere . Lo spleen di Parigi . Decadentismo . Le vetrine della povertà . Saggio bibliografico
Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič . La vita e le opere . La morte di Ivan Il’ič . Il realismo . L’oggetto e la vita . Saggio bibliografico
Franz Kafka, La metamorfosi . La vita e le opere . La metamorfosi . L’espressionismo . Responsabilità e colpa . Saggio bibliografico
Nota biografica
«Ritrovo, in questo specimen di inviti alla lettura, proposta di condivisione della sua possibile offerta ai giovani, una suggestiva allegoria della lettura ansiosa della nera profondità del dettaglio oltre l’ostacolo materiale della esistenza, una allegoria che Memo recepisce dall’aura dello spleen beudelairiano: “... è sera. le finestre illuminate punteggiano le strade e i viali. Chi guarda da fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quante ne vede chi guarda [da] una finestra chiusa. È sempre di là da un vetro, la vita...”.» Dalla prefazione di Giovanni Morelli
Copia gratuita