ULTIMO

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CONTROVENTO 1



ULTIMO Storia ordinaria di guerra civile

Gianluca Costantini Saturno Carnoli Andrea Colombari


Nanni (Torquato) did 3 years with Battista And wasn’t till after Salò. Threw himself in front of a friend (Arpinati). Torquato Nanni fu 3 anni con Battisti ma fucilato fu dopo Salò. Si gettò per riparare un amico (Arpinati) ma non potè salvarlo. Ezra Pound, Cantos, 91


ULTIMO



22 aprile 1945

Malacappa Argelato















7 marzo 2005

Roma





25 aprile 2005

Bologna









5 maggio 2005

Bologna Ospedale Malpighi





















1960 Da Praga a Cuba andata e ritorno

















Giugno 2006

Roma Estate romana









Documenti



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Luigi Borghi, “Ultimo” Luigi Borghi, nome di battaglia “Ultimo”, nato l’1 luglio 1914 a Castelmaggiore. Licenza elementare, negli anni ’30 operaio, assieme alla moglie Iride Bussolari, presso la Manifattura tabacchi di Bologna. Presta servizio militare nel 1943 nei reparti sanitari. Dopo l’8 settembre passa nella Guardia nazionale repubblicana e poi nel movimento partigiano diventando comandante del distaccamento Castelmaggiore della 7 a brigata gap “Gianni Garibaldi”. Medaglia d’argento al valor militare. Nel 1951 verrà emesso nei suoi confronti un mandato di cattura per le stragi di Argelato. Rifugiato a Praga col nome di Bianchi, verrà condannato in contumacia all’ergastolo. Ritorna in Italia amnistiato nel 1962 e muore a Bologna il 13 novembre 1988. Nei primi anni ’90 così parlerà di lui Arrigo Pioppi, detto “Bill”, il suo comandante.* Sì, c’era uno nel nostro distaccamento che ne ha combinate parecchie. Era un tipaccio e continuò a sparare anche dopo. E dire che dovevamo farlo fuori noi, quando lo catturammo! Sì, perché “Ultimo” era un fascista, una guardia nazionale repubblichina che abitava a Corticella. Quando l’abbiamo catturato implorò di essere risparmiato, s’era messo a piangere. Sapeva che non * Gianfranco Stella, Rifugiati e Praga, Faenza, so.ed.e., 1993.


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l’avrebbe scampata. Ma non ce la sentimmo di giustiziarlo; un suo fratello era comunista ed un altro socialista, noi lo sapevamo. Fu messo alla prova. Ma era un disastro, non aveva coraggio, nelle nostre azioni ce lo portavamo dietro e faceva più danno che altro. Rischiò perfino di venir processato e giustiziato da noi perché finì col mettere in pericolo la nostra formazione. E anche quella volta gli andò bene. – Ci diceva – intervenne la moglie – Quand ch’us va in tal ca’ b’sogna mazè tot. Nec e gat.*

* «Quando si va nelle case bisogna amazzare tutti. Anche il gatto.»


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Torquato Nanni Nato nel 1888 a Santa Sofia (Forlì), esponente del primo socialismo romagnolo ed erede delle tradizioni anarchiche e libertarie della Romagna, Torquato Nanni subì in particolare l’influenza dell’antiparlamentarismo di Papini, Prezzolini, Oriani, Pareto, Lenin e Sorel. Fu sindaco socialista di Santa Sofia, fin dal 1912, giornalista e scrittore. Intimo amico di Mussolini direttore dell’«Avanti!», fu il suo primo biografo per «la Voce» di Prezzolini. Per il suo acceso interventismo entrò presto in conflitto col partito socialista; collaborò col «Popolo d’Italia» e mantenne rapporti con Mussolini e con Arpinati, fondatore del primo fascio bolognese. Queste relazioni, tuttavia, non lo salvarono dallo squadrismo; fu infatti perseguitato e confinato dal regime fascista, per tutto il ventennio. Dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, nell’enclave romagnola di Malacappa, assieme a Leandro Arpinati e ai fratelli Spazzoli, riprende la lotta politica attiva a fianco dell’antifascismo romagnolo e muore il giorno dopo la liberazione di Bologna tentando di salvare la vita all’amico Arpinati.


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Leandro Arpinati Nato a Civitella di Romagna nel 1892, ferroviere, prima socialista, poi anarchico individualista e interventista, Leandro Arpinati individua nella rivoluzione fascista l’unica possibilità concreta di rigenerazione sociale in Italia. Protagonista della conquista, nel 1920, di Palazzo d’Accursio, che annulla col sangue la vittoria elettorale dei socialisti, inizia una rapida carriera politica che lo porterà presto verso i più alti vertici del fascismo: podestà di Bologna, deputato e sottosegretario agli Interni. Come presidente della Federazione italiana giuoco calcio costruisce a Bologna nel 1926 il Littoriale, all’epoca il più grande stadio del mondo, e contribuisce a fare del calcio lo sport nazionale italiano. Incapace di mediazioni politiche, entra presto in conflitto col regime sulla questione del corporativismo in economia e sulla questione del clientelismo e della corruzione diffusa. Il dissidio aperto con Storace, segretario del partito, provoca nel 1934 il suo arresto e la condanna di cinque anni al confino a Lipari. Al ritorno resta in disparte presso la sua tenuta agricola modello a Malacappa. Dopo l’8 settembre rifiuta la richiesta di collaborazione di Mussolini. Ristabilisce invece i rapporti con personalità e amicizie vecchie e nuove dell’antifascismo e della resistenza


romagnola: Torquato Nanni, Tonino e Arturo Spazzoli, Silvio Corbari. Cade sotto il piombo di un commando partigiano il 22 aprile 1945, preceduto dal generoso quanto inutile sacrificio dell’amico Nanni. Di quella morte – decisa da un gruppo di partigiani che non aveva ricevuto l’ordine dal comandante della brigata né dal cln – esultarono più i fascisti degli antifascisti, perché i suoi ex camerati lo consideravano un traditore. Non è facile stabilire la sua posizione politica, perché fu sia fascista che antifascista, anche se venne ucciso dai partigiani. Da allora il suo nome vaga in una sorta di limbo della storia. Non figura negli elenchi dei caduti fascisti – se si esclude il libro di Fra Ginepro – né in quelli degli antifascisti. Il suo nome non è neppure stato incluso nelle liste degli agricoltori morti, nonostante fosse un possidente terriero. È come se non fosse mai esistito, né morto.*

* Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso (1943-1947), Roma, Sapere 2000, 1944.

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Arpinati, il romagnolo nato anarchico, cresciuto fascista e morto di nessuno Per descrivere e comprendere la personalità di Leandro Arpinati e le sue vicende fino alla tragica fine, utilizziamo parte di un intervento di Luciano Bergonzini al convegno Torquato Nanni e il movimento socialista nella Romagna toscana, organizzato dal Comune di Santa Sofia nel 1989 (Rimini, Maggiori Editore, 1997). Uno dei pochi storici della Resistenza, quasi sempre estraneo dalla retorica agiografica di partito, Luciano Bergonzini, nato nel 1920, aveva preso parte giovanissimo alla Resistenza, combattendo nelle file della 36 a brigata Garibaldi, attiva nell’Appennino emiliano-romagnolo, nella quale aveva assunto incarichi di comando. Redattore del giornale di brigata (il suo nome di battaglia da partigiano era “Stampa”), dopo la guerra aveva lavorato al «Progresso d’Italia» con Giorgio Fanti, e nel 1945-46 alla rivista «Tempi nuovi», diretta da Paolo Fortunati, tutti del gruppo di intellettuali “Antonio Labriola”. Assistente di Fortunati all’Università di Bologna dall’immediato secondo dopoguerra, era poi diventato professore ordinario di Statistica sociale. Militante del pci e poi del pds, negli anni ’50 era stato membro della segreteria bolognese del suo partito e assessore provinciale.


Nel suo intervento, Bergonzini indaga l’intero percorso di Arpinati senza pregiudizi, senza stupirsi del passaggio dal sovversivismo anarchico e socialista allo squadrismo fascista, comune del resto a molti giovani, specialmente in Romagna, e senza nascondere, in seguito, la sua simpatia per l’uomo di stato e di potere così strutturalmente incapace di compromessi e mediazioni. Di Arpinati Bergonzini apprezza le caratteristiche profondamente romagnole della libertà di giudizio, della franchezza, della lealtà e soprattutto quel senso dell’amicizia che nell’enclave di Malacappa legherà quel pugno di romagnoli indissolubilmente uniti fino alla fine. Anche sulla misteriosa eliminazione di Nanni e Arpinati Bergonzini riesce a liberare da ogni responsabilità il comando e le unità periferiche del cln (Comitato di liberazione nazionale) e del partito, confessando di conoscere bene l’identità del partigiano che prese l’iniziativa, senza tuttavia svelarne ancora, dopo più di quarant’anni, l’identità. Per ricostruire la vita personale e politica di Arpinati, Bergonzini distingue tre periodi: il primo, compreso tra l’anno 1919 e la fine del maggio 1921, che è il periodo più violento, quello delle «spedizioni punitive», delle squadre armate, che precede, accompagna e segue le battaglie elettorali dell’ottobre 1920 e l’eccidio di Palazzo d’Accursio del 21 novembre 1920, fase interrotta a seguito del prevalere della posizione di Grandi tesa a ricondurre il fascismo nell’ambito di un blocco conservatore; il secondo, dal maggio 1922 al maggio 1933, che contrassegna l’ascesa di Arpinati ai più alti vertici del regime, durante il quale però, sotto l’apparenza trionfalistica, egli giungerà ad esprimere quel dissenso che gli costerà, nel 1934, dopo l’espulsione dal partito, l’arresto e la condanna al confino; il terzo che inizia a Malacappa di Argelato, tre anni dopo Lipari, durante il quale Arpinati passerà esplicitamente all’opposizione, ripren-

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dendo vecchi rapporti, del resto mai completamente interrotti, con amici di Romagna, primi tra tutti Torquato Nanni e Tonino Spazzoli; fino a stabilire contatti con personalità, dell’antifascismo e della Resistenza [...] che culminerà coi tragici fatti del 18 agosto 1944 e 22 aprile 1945.

Il 7 ottobre 1943, dopo la liberazione dal Gran Sasso e al ritorno dalla Germania, Mussolini invita Arpinati alla Rocca delle Caminate per offrirgli un ruolo di primissimo piano nella costruzione della Repubblica di Salò. Dopo il rifiuto di Arpinati, il Duce commenterà: Se non ci fossimo incontrati sarebbe probabilmente rimasto un bravo ed innocuo anarchico. Ora è liberale in ritardo di cinquant’anni. Mi dicono che treschi coi partigiani. Non so se spera qualcosa. In tal caso non ha capito niente.

Nonostante Malacappa fosse strettamente sorvegliata dai tedeschi e dai fascisti, Arpinati, assieme a Nanni, Spazzoli e ad alcuni membri dell’oss (Office of strategic services, ovvero il predecessore della cia), aveva già partecipato ad una importante missione di salvataggio di un gruppo di generali inglesi e del loro ricongiungimento col comando britannico nell’Italia meridionale. Inoltre, ancora prima del 25 luglio 1943, Arpinati aveva chiesto di incontrarsi con rappresentanti del Partito socialista, prospettando loro una sua collaborazione per una eventuale pace separata. In questo clima, Bergonzini ha potuto accertare che Arpinati si incontrò anche con Franco Franchini “Romagna”, comandante della 7 a brigata gap, operante nella zona di Argelato: “Romagna” andò insieme a Sauro Ballardini, uno studente appena sedicenne, che poi diverrà commissario del distaccamento. I


tre discussero passeggiando nel campo, dandosi all’inizio del “tu” e poi del “voi” e alla fine Arpinati offrì il suo aiuto al locale movimento di liberazione. “Romagna” rispose che l’aiuto e la solidarietà dei contadini e della popolazione erano più che sufficienti. Vistasi respinta l’offerta, Arpinati non celò il suo disappunto e disse: «Devo considerare questo rifiuto una minaccia?». Ma “Romagna” lo rassicurò: «No, non significa affatto minaccia. Anzi vi assicuro che finché io sarò il comandante, nessuno vi farà del male». Il 14 ottobre 1944, “Romagna” morì in combattimento a Sabbiuno di Castelmaggiore durante un’azione tesa a liberare un gruppo di partigiani e di civili catturati dai nazifascisti e minacciati di fucilazione.

Il 3 agosto Tonino Spazzoli torna a Malacappa, dopo due giorni di viaggio in bicicletta assieme ad un altro romagnolo, il mitico partigiano faentino Silvio Corbari, che chiese ed ottenne ospitalità per la propria famiglia contro il pericolo di rappresaglie e finanziamenti per la propria formazione. Qualche giorno dopo, il 7 agosto, i tedeschi arrestarono Tonino Spazzoli: In carcere lo sottoposero a torture perché rivelasse i nomi dei suoi compagni e la dislocazione delle formazioni partigiane. Non disse nulla e allora passarono alle atrocità: gli infilarono sottili canne sotto le unghie, lo massacrarono al volto, gli bruciarono le piante dei piedi e così continuò per giorni. Straziato com’era chiese agli amici del veleno che però non gli giunse. Come a Cornia giunse la notizia del suo arresto, Corbari riunì i suoi collaboratori per progettare un attacco al carcere, operazione resa ancor più difficile dal fatto che, dopo un’analoga azione felicemente portata a termine dai gappisti bolognesi la notte del 9 agosto, vigeva nelle carceri lo stato di allerta. Fu in questo momento che scattò la delazione che determinò la tragedia. Saputo dell’arresto di Tonino, Arpinati chiese all’avvocato Maccaferri,

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che accettò, di accompagnarlo a Gargnano, da Mussolini, in un disperato tentativo di salvare l’amico. Ma il duce non lo ricevette e all’offerta di mettersi a sua disposizione in cambio della vita di Spazzoli, Mussolini gli fece rispondere: «Nulla può essere fatto per salvare la vita di Spazzoli». All’alba del 18 agosto i nazifascisti attaccarono la “base” di Cornia cogliendo di sorpresa i partigiani, che furono sopraffatti. Corbari insieme ad altri tentò la fuga ma scivolò, ferendosi, in una scarpata, al suo fianco l’amico Adriano Casadei, mentre Arturo Spazzoli, fratello minore di Tonino, veniva raggiunto da una scarica di mitra e l’Iris Versari già ferita a una gamba, dopo aver colpito un tedesco si toglieva la vita davanti alla casa. Ora che è tutto finito, i fascisti caricano Corbari, Casadei e Spazzoli su una treggia trainata da un cavallo e durante la discesa a valle uccidono Arturo, già straziato dalle ferite. Giunti a Castrocaro, verso l’una impiccano Corbari e Casadei, poi trasportano i tre cadaveri a Forlì e qui ripetono il macabro rito appendendo i corpi inanimati ai lampioni di piazza Saffi. Il giorno dopo vi aggiungono il corpo dell’Iris, poi prelevano dal carcere Tonino Spazzoli, ridotto in condizioni pietose e a fatica lo trascinano in piazza perché possa vedere il corpo appeso del fratello minore in un ultimo, peraltro inutile, tentativo di farlo parlare, e allora lo portano a Coccolia, sulla strada di Ravenna, e qui lo fucilano.

Infine, il 22 aprile 1945, il giorno dopo la liberazione di Bologna, l’avventurosa storia dell’enclave romagnola di Malacappa si conclude tragicamente. La mattina, cominciata festosamente con scambi di fiori e sigarette con carristi americani di passaggio diretti a Cento, si concluse con l’arrivo di un gruppo di sei partigiani locali, tra cui due donne, alla ricerca di Arpinati, per sopprimerlo. Giunti sul posto, peraltro accolti con saluti, chiesero di Arpinati, che sostava all’esterno della casa in compagnia di amici e sfollati.


Lui si fece avanti e disse: «Sono io», e allora spuntarono le armi. Nanni si interpose, a braccia aperte, per proteggere l’amico, esclamando: «Ma cosa volete fare? Perché?». Avrebbe voluto parlare, spiegare, ma subito fu colpito col calcio di un fucile, poi partirono i colpi e per i due fu la fine. Perché Nanni? Nessuna autogiustificazione più o meno ideologica può essere avanzata come risposta. Tanto più che in quel momento e in quel luogo egli era certamente un ignoto ai più. Tra le molte interpretazioni date del fatto, la più vicina al vero ci sembra quella di Bruno Vailati, che attribuisce quel suo gesto all’importanza dei sentimenti. «Io sono convinto che la fine di Nanni parla di questi sentimenti. Nanni poteva tirarsi da parte, nessuno l’avrebbe toccato: ha fatto un gesto impulsivo e romagnolo come lui era.» D’altra parte, troppo lunga e tormentata era stata la comune sofferenza per impedirgli di compiere quell’atto di protezione del vecchio amico che gli è costata la vita. La sua è stata così una doppia tragedia caduta in uno di quei momenti storici di massima tensione nei quali purtroppo non c’è spazio per i dubbi, né tempo per le riflessioni e ancor meno la possibilità di imporre la razionalità dei gesti. Anche nel caso di Arpinati il discorso non è meno complesso. Nel luogo era certamente rimasto vivo e trasmesso nella memoria il ricordo degli atti di repressione da lui ispirati e svolti dalle «squadre», anche nelle campagne, prima e durante il «biennio rosso». Del resto... il 21 aprile, proprio al momento della liberazione di Bologna, il comitato di liberazione dell’Emilia Romagna e i partiti che lo componevano (Partito d’azione, Partito comunista, Partito democratico cristiano, Partito liberale, Partito repubblicano, Partito socialista), proclamavano congiuntamente in un manifesto quello che doveva essere il «dovere categorico» del momento: «violenza, arbitrio, vendetta devono essere per sempre banditi dalla nostra terra. La legge, la nuova legge dell’Italia democratica, riprende da oggi il suo impero e guida le umane azioni». Erano

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questi atti che, in quanto emanati dal cln, cioè da un organo di governo, al di là delle indicazioni di comportamento, avevano – si noti – forza di legge. Perché allora l’improvvisa incursione a Malacappa? Questa infatti fu dovuta, come si è potuto accertare, all’iniziativa di un partigiano locale che già il 3 settembre 1944, durante una manifestazione popolare antifascista per il pane e per la pace, animata dalle donne e organizzata a Bondanello di Castelmaggiore, aveva rischiato, col suo comportamento, di comprometterne l’esito e che, sebbene processato per indisciplina e ammonito da “Romagna”, non cessò in seguito di anteporre iniziative individuali a quella che doveva essere un’azione di lotta consapevole e disciplinata, tesa alla conquista della solidarietà e della partecipazione delle popolazioni delle campagne al movimento di liberazione. La tragedia di Malacappa appartiene al campo delle contraddizioni inevitabili, indica momenti in cui la guerra sfugge alla pur inesorabile legge che la governa. Non fu, come nel caso di Spazzoli, la fine di un atto programmato ora per ora. Per Nanni fu il gesto di un attimo, l’esito di uno slancio di umanità che del resto riassumeva tutta una storia di vita, esaltava i valori della solidarietà più profonda. Per Arpinati, forse, il rancore di un tempo lontano e tuttavia mai passato.


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Arpinati mio padre * Giunsero dal cancelletto verso la fabbrica, emozionati e festosi, due contadini: il papà e Nanni si misero a discorrer con loro, poi si allontanarono insieme e Mario li seguì. Erano le undici ed un quarto. – Andiamo anche noi? – chiese la Luisa. Mio padre e gli altri erano sulla cavedagna, tra la fabbrica e la rete metallica che cinta il giardino, sotto la quercia gemella a quella del cancello principale. Restammo un poco con loro ma già parlavano di raccolto e delle stalle da ripopolare. – Andiamo sull’argine, – disse la Luisa, – di lì vedremo passare i carri armati per la strada! Ci eravamo allontanate di pochi passi quando un furgoncino, venendo dalla borgata, sbucò dall’angolo della cavedagna in una nuvola di polvere. Ci fermammo per guardarlo passare. – Non sono soldati, – disse la Luisa, – sono dei partigiani... Ci passarono davanti, facemmo un gesto di saluto: il furgoncino frenò improvvisamente, ne balzarono a terra quattro uomini e due donne coperti dalla polvere come da uno spesso manto grigiastro. Erano armati di mitra, dalla cintura pendevano rivoltelle, bombe a mano, pugnali... * Giancarla Cantamessa Arpinati, Arpinati mio padre, Roma, Il Sagittario, 1968.


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Mio padre si fece loro incontro: – Dov’è Arpinati? – chiese uno di quegli uomini con voce concitata. I due contadini si allontanarono in fretta, scomparvero dietro la fabbrica. Nella cavedagna eravamo soltanto noi di fronte a quella gente. Il papà, fermo sotto la grande quercia, teneva la mano destra appoggiata sulla schiena con il palmo in fuori, il braccio sinistro abbandonato lungo il fianco. Ai suoi lati erano Mario e Nanni, la Luisa ed io a pochi passi. – Io sono Arpinati – rispose subito mio padre. Una delle donne gridò: – Dài, dài, spara... Gli uomini puntarono i mitra, la bocca di uno fu appoggiata tra le sopracciglia del papà. Mio padre scostò l’arma prendendo la canna tra il pollice e l’indice della mano sinistra, lentamente. – Aspettate un momento... – disse. Nanni, con le braccia aperte davanti a quella gente: – Ma che cosa volete fare, – disse, – perché? L’uomo che gli stava più vicino rovesciò rapidamente il mitra e gli sferrò un colpo con il calcio, sulla testa. Nanni cadde a terra. Mario si scagliò in avanti ed afferrò a due mani la canna di un mitra spingendolo con violenza contro chi lo impugnava. Intanto l’arma che il papà aveva scostato era stata riportata, con uno strappo, contro la sua fronte. Il papà drizzò un poco le spalle e non si mosse... ci fu una esplosione: mio padre cadde a terra. – Dài, dài ammazzali... – gridavano le due donne. Nanni era svenuto, a terra, uno degli uomini gli puntò il mitra dietro l’orecchio e fece fuoco. – Vieni, – disse la Luisa tirandomi per le braccia, – vieni... Continuavano a sparare sulla testa di mio padre...


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Intervista a “Drago” l’ultimo testimone Giovedì 10 febbraio 2005. Abbiamo incontrato a Casalecchio, presso la Casa della conoscenza, Vittorio Caffeo, classe 1923, di Castelmaggiore, nome di battaglia “Drago”, commissario politico e vicecomandante della 2 a brigata “Paolo”, per parlare di Luigi Borghi, responsabile dell’uccisione di Leandro Arpinati e Torquato Nanni, a Malacappa di Argelato. I capelli folti, bianchi, lucidi. C’è ancora il segno del pettine bagnato. Un segno netto: o di qua, o di là. Fischia il vento urla la bufera Scarpe rotte eppur bisogna andar Scarne, essenziali, precise. C’è ancora il senso della lotta armata nelle mani. Un senso netto: o mi ammazzi tu, o lo faccio io. A conquistare la rossa primavera Dove sorge il sol dell’avvenir Dure, irreversibili, finali. C’è ancora il colore della morte totale nelle parole. Un colore netto: o rosso vittoria, o nero sconfitta.


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Ogni contrada è patria dei ribelli Ogni donna a noi dona un sospir Venticinque aprile 1945. Vittoria, e poi? Commissario politico e vicecomandante “Drago”, ergastolano “Drago”. Condannato in contumacia nel 1953. Addestrato a cavarsela. Sempre. Anche quando il destino ti tradisce. È Caffeo a dominare subito la scena: la sua è una parlata sciolta, inframezzata da acuti silenzi indagatori e da qualche battuta in dialetto, per sottolineare la mancanza assoluta di dubbi e di perplessità. Alla prima domanda: – Possiamo parlare di Luigi Borghi, di “Ultimo”? – Di chi? Ostenta una certa sordità come se non fosse un deficit, ma piuttosto la prova di una sua maggiore autonomia e distacco da noi e dagli altri. – Com’era Luigi Borghi? Cerchiamo notizie su Luigi Borghi. – Perché? – Alcuni dicono che è stato lui ad uccidere a Malacappa Leandro Arpinati e Torquato Nanni, lo stesso giorno della liberazione di Bologna. – Chi lo dice? L’ha scritto forse qualcuno? È come se ammettesse che ad uccidere Arpinati è stato proprio Borghi, ma che nessuno dovrebbe o avrebbe dovuto dirlo. Vittorio Caffeo è ancora un duro, coerente con se stesso, addestrato a difendere bene il suo ruolo in una storia che non considera ancora chiusa del tutto e a cui sente di appartenere a pieno titolo anche oggi. Dopo il mandato di cattura nel 1948 per aver partecipato nel 1945 agli eccidi della bassa bolognese, Caffeo è ricercato dalla


polizia inglese e si rifugia a Ravenna presso il garage del padre di “Bulow”, poi ripara direttamente a Praga, in esilio sino al 1959. Avevamo deciso di prenderla un po’ alla larga, ma lui si mostra lo stesso diffidente; allora tanto vale partire dalle questioni più scottanti. – Ammettiamo che sia stato Borghi. A decidere di uccidere Arpinati chi è stato? Il partito, il comando della gap, della squadra? Oppure è una decisione individuale? – Come? – Ecco adesso fa finta di non aver capito, di essere sordo. – Insomma Borghi è stato processato insieme a lei e condannato anche lui all’ergastolo per la storia dei fratelli Govoni. Chi ha deciso che andava fatta giustizia? Chi è che decideva? Lui ci guarda severissimo per qualche interminabile secondo e poi si alza in piedi e sbotta: – Decideva la popolazione! Decidevano le madri, i fratelli, i figli delle vittime... Adesso potevano udirlo anche a duecento metri di distanza. – I Govoni avevano sterminato qualche mese prima tredici compagni dopo interminabili torture... Noi, partigiani, dopo aver vinto, non potevamo mica perdere la faccia di fronte alla volontà popolare. Il partito? No, il partito non c’entra, anzi il partito era contrario. Avremmo voluto chiedergli perché ucciderli tutti e sette, i fratelli Govoni, visto che solo due erano fascisti attivi, perché anche la sorella di soli venti anni che aveva appena partorito. Ma non c’era spazio per le interruzioni... – Ricordo bene Arturo Colombi: io glielo dicevo in faccia. Lui era un politico che voleva governare i militari. Io invece ero un militare; prima marinaio e poi combattente partigiano. Vuoi sapere che cosa è stato determinante a farmi diventare partigiano? In Grecia eravamo ancorati al porto di Patrasso e isolati dai cavalli di Frisia dal resto dell’isola. I tedeschi da tre

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giorni affamavano la popolazione greca per rappresaglia e noi tutti i giorni davamo da mangiare ad un gruppo di bambini che arrivavano alla nave passando sotto i cavalli di Frisia. Una volta è arrivato un tedesco e i bambini sono scappati di corsa; soltanto il più piccolo, avrà avuto tre anni, è rimasto impigliato nel filo spinato. Il tedesco allora lo ha raggiunto e gli ha sfracassato la testa col calcio del fucile. Allora siamo intervenuti noi. Il tedesco non so se poi se l’è cavata. Il bambino l’abbiamo portato sulla nave e gli abbiamo dato quattordici punti in testa. Insomma sono diventato un partigiano combattente da soldato, senza ideologia, per una questione di giustizia e di umanità. E da militare, da partigiano ho dovuto usare anche gli strumenti politici, sociali. Prima di tutto per creare le basi, la copertura e il sostegno necessario alla clandestinità. Non come Colombi o come prima “Dario” (Ilio Barontini) che erano prima di tutto politici che usavano mezzi militari. Colombi criticava la nostra intransigenza e non voleva che facessimo giustizia semplicemente perché non era a contatto col popolo come noi.... – E a Praga com’era la vita? Borghi era sempre con te? – Guarda: io al mio peggior nemico non gli auguro di morire, gli auguro l’esilio. Io sono stato il primo a tornare nel 1959, ché Moranino non voleva. Ad aspettarmi c’era qualcuno? C’era il partito? Non c’era un cane, te lo dico io. Come se non fosse successo niente. Come se non fossi nessuno. Nessuno. E in più di dieci anni d’esilio, qualcuno ha aiutato mia mamma a tirare avanti? Lei che si era fatta tutte le sedute del processo per un mese lavorando a maglia, coperta tutti i giorni dagli insulti. Chi l’ha aiutata mia madre mentre io cercavo di sopravvivere a Praga? Nessuno! Te lo dico io, nessuno. – Ma Borghi com’era? È vero che creava dei problemi, al punto che Moranino, per liberarsene, lo manda a Cuba contrabbandandolo come un tecnico di qualcosa...? – Non lo so. Sì, lui era abbastanza irruento. Aveva fatto as-


sieme a me un corso di analisi del sottosuolo, per cercare di cambiare in meglio il lavoro che ci aveva trovato e imposto Moranino... Sì, lui partì per Cuba con la moglie ma dopo poche settimane i consulenti sovietici lo rispedirono indietro... Guarda per farti capire come eravamo stati accolti in Cecoslovacchia ti voglio raccontare un fatto. Noi eravamo obbligati, una volta alla settimana, a formare una brigata di lavoro nei campi. Era un autunno freddissimo e pioveva a dirotto e noi lavoravamo senza macchine, con le mani e con una tuta di carta, fradicia. A mezzogiorno un po’ di broda e poi si doveva tornare in mezzo al fango e alla pioggia. E allora io dico: «Cazzo! Noi siamo qui perché abbiamo ammazzato dei fascisti, mica dei bambini. Noi non ci torniamo là ad ammalarci». Arriva il fattore che comincia a gridare in quella sua lingua che ancora non capivo, ma sento bene che mi urla in faccia la parola fascisti, che è internazionale, e allora non ci vedo più. L’ho scazzottato per bene e l’ho steso, che mi hanno dovuto dividere se no andavo avanti. Dopo qualche ora arriva la polizia segreta per interrogarmi e allora gli dico che io sono qua perché ho contribuito a liberare l’Italia dai tedeschi e dai fascisti. E allora mi spiegano che lì vicino lavoravano anche dei prigionieri tedeschi e che il fattore ci aveva scambiati per loro. Hai capito? In un paese socialista trattati come dei nazisti prigionieri. Quando l’ho raccontato a D’Onofri, in un rapporto che feci più tardi, lui si commosse. Si commosse davvero. Piangeva. Appena un’ora prima Caffeo ci aveva parlato dell’esilio a Praga come «eroica partecipazione all’edificazione del socialismo» in quel paese. Prima di finire vogliamo insistere su Borghi: – È vero che Borghi era fascista e che era nella Brigata nera quando, catturato dai partigiani, per salvarsi, con l’aiuto di un fratello comunista, passò dall’altra parte? – Non lo so. L’ho sentito dire. Lui comunque durante il fa-

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scismo lavorava alla Manifattura tabacchi assieme alla moglie, e lì ci voleva la tessera sicuramente... – Che sia stato lui ad eliminare Arpinati, l’ho sentito dire anch’io. Potrebbe essere vero... Prima di andar via vuole offrirci un aperitivo nell’hotel-ristorante di fronte alla Casa della conoscenza di Casalecchio, dove è avvenuto l’incontro. Ci accoglie un altro ottantenne, anche lui ancora in gran forma, Renato Perdetti, classe 1924, albergatore. – Ecco un altro della nostra generazione. Lui era un alpino dell’armir (Armata italiana in Russia, n.d.r.). È venuto a casa a piedi. A piedi dal Don fino a Casalecchio! Diglielo Renato a questi qui che devono scrivere un libro... – È magari vero. A sò ancora stracch!


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La strage di Argelato: guerra civile e lotta di classe Vengono ammazzati in diciassette. I cadaveri verranno ritrovati e disseppelliti solo sei anni dopo: su di loro nessuna ferita da arma da fuoco. È la sera dell’11 maggio del 1945: nella casa colonica del contadino Emilio Grazia di Argelato fanno irruzione alcuni partigiani della 2a brigata “Paolo” di San Pietro in Casale. Le 17 persone che si trovano dentro vengono prima interrogate a lungo, poi torturate e uccise. I loro corpi vengono scaraventati dentro a un fossato che era stato scavato dai tedeschi. Fra le vittime ci sono i sette fratelli Govoni. Dino, Marino, Emo, Giuseppe, Augusto, Primo e Ida: tutti uccisi nella stessa notte. E per quale motivo? Solo due di loro, Dino e Marino, erano stati stati attivi fascisti. I 27 partigiani coinvolti nella strage finiscono tutti alla sbarra. Il processo si apre a Bologna nel 1952, in un clima diventato ormai ostile a quelle sinistre che giusto pochi anni prima erano uscite vittoriose dalla guerra civile. Del resto la guerra fredda è alle porte. Il processo si chiude l’otto febbraio del 1953 con un esito tutto sommato positivo per i 27: sebbene riconosciuti responsabili, anche se in diversa maniera, della strage di Argelato, in pratica si trovano a rispondere della sola eliminazione del


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tenente Giacomo Malaguti. Questi non era mai stato fascista. Anzi, dopo l’armistizio dell’8 settembre aveva combattuto contro i tedeschi. Il suo omicidio arriva a causa di certi discorsi non troppo benevoli da lui fatti sull’operato di alcuni partigiani. Su queste condanne e in particolare sulla questione del delitto politico possono risultare illuminanti alcuni passi della sentenza*: In ordine alla tesi del delitto politico va preliminarmente precisato quanto segue: In una dichiarazione del cln di San Giorgio in Piano che risulta sottoscritta dal Vecchietti Felice e Lorenzoni Luigi, e cioè da due di coloro che la voce pubblica sospettava come complici della compilazione della lista di proscrizione si legge: «Si dichiara che Malaguti Giacomo non ha mai ricoperto cariche nel passato regime, ha partecipato con le truppe alleate alla liberazione dell’Italia, è un elemento buontempone e non si è mai interessato di politica. In dipendenza di ciò lo ritiene elemento moralmente e politicamente inattaccabile. Il cln deplora il fatto della sua sparizione, ed interpretando il pensiero della popolazione sangiorgese, rivolge un appello alle competenti autorità, affinché si adoprino per il ritorno di Malaguti Giacomo in famiglia». [...] Le risultanze istruttorie e dibattimentali, hanno confermato che il Malaguti fu eliminato unicamente per una frase da lui proferita confidenzialmente nel corso di una conversazione, e non per altri motivi. Circa la frase incriminata («i partigiani comanderanno ancora venti giorni») è da rilevare che qualunque cittadino e a maggior ragione un combattente della guerra di liberazione, aveva il diritto di pronunziarla, dato che la stessa era pienamente lecita, sia per la forma che per il contenuto. * Sentenza di Corte d’Assise N. 12/52 e 24/52 Reg. Gen., conservata presso l’archivio del Tribunale di Bologna.


[...] Il tenente Malaguti, pur appartenendo alla nuova generazione ed essendo cresciuto nel clima del fascismo senza aver vissuto esperienze politiche precedenti, era riuscito a comprendere l’iniquità del regime ed aveva di conseguenza scelto di combatterlo a viso aperto, in campo aperto da soldato contro soldato, versando nella lotta il proprio sangue. La guerra che il Malaguti e tanti altri italiani combatterono, chi nelle fila dell’esercito nazionale, chi nelle formazioni della resistenza e chi come semplice cittadino in un’opera silenziosa di sabotaggio del nemico e di solidarietà verso i comitati di liberazione nazionali, aveva avuto un carattere inconfondibile e una ragione fondamentale: eliminare con il fascismo ogni forma di totalitarismo politico e ripristinare nel paese le perdute libertà nonché un reggimento libero e democratico; quindi era pienamente legittimo, anche nell’immediato dopoguerra successivo alla liberazione, reagire contro qualsiasi forma di arroganza e di prepotenza, essendo giusto che i principi di libertà fossero pubblicamente affermati e difesi principalmente sul nascere. Comunque il Malaguti, più volte interrogato in merito al contenuto della sua frase dalla polizia partigiana, aveva dato anzi chiarimenti, dichiarando che in ogni caso qualsiasi suscettibilità dei partigiani era fuori luogo in quanto egli non aveva inteso minimamente offendere il loro prestigio. [...] Evidentemente quindi discende dalle sopra citate circostanze che la soppressione del Malaguti non può che definirsi lo sfogo di un risentimento personale, verso chi aveva invocato – ripetesi, nel corso di una conversazione privata – il ritorno della legge e il ripristino della normalità; sfogo che come tale non può assolutamente ritenersi rivestire gli estremi del delitto politico. Infatti delitto politico è quello commesso esclusivamente per motivi politici e non va confuso il delitto politico con il delitto comune, con pretesto politico. Invero molte volte un autentico reato comune può essere posto in essere dall’agente, in modo agevole e meno rischioso, facendo ricorso ad un pretesto politico. Ed il pretesto politico ricorre quando l’agente commette il delitto sfruttando a

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scopo meramente personale una contingente situazione politica per sfogo di risentimento o di malanimo, o per motivi di faziosità. Ci si trova allora di fronte a delitti pseudo-politici ove il fattore politico serve unicamente da pretesto per consumare degli autentici delitti comuni, occasionato e facilitato appunto dal momento eccezionale della lotta politica. La legge esige infatti che l’omicidio, per beneficiare dell’amnistia, sia stato commesso «in lotta contro il fascismo». La dizione «lotta», dopo la fine del movimento insurrezionale partigiano, non va intesa soltanto come guerra guerreggiata, come contrapposizione di forze tuttora vive, lotta fra gruppi organizzati o tra singoli individui; ma d’altro canto non può essere interpretata così estensivamente, da significare lotta di idee e di opinioni politiche, come è stato sostenuto da alcuni difensori degli imputati. [...] La diversità di pensiero, di sentimenti, di ideologie politiche stanno a significare distacco morale, ma non mai lotta. «Gli atti – anche gravi – commessi per una specie di forza di inerzia del movimento insurrezionale antifascista» di cui parla la relazione ministeriale del decreto presidenziale 22 giugno 1946 n°4, presuppongono sempre una forza contrastante da abbattere, una resistenza da vincere.

Per chi ha ucciso il tenente Malaguti non è possibile applicare nessuna amnistia: il delitto non è politico, ma deriva piuttosto dal rancore personale. Diversa è la valutazione che viene fatta sugli altri omicidi. Ovvero, oltre ai fratelli Govoni, anche i possidenti Laura Emiliani, Silvio e Vincenzo Costa. Il presidente della corte, Renato Accursio, mirabilmente scrive nella sentenza: Si osserva che nella specie non può disconoscersi che il movente che spinse a tali delitti deve ricercarsi in un motivo soggettivamente politico (lotta di classe). La comprova trova fondamento nelle risultanze istruttorie e dibattimentali; nella lotta di classe


inserita nel quadro più generale della lotta di liberazione va individuato il movente principale di questi delitti. Comitati di agitazione e difesa dei contadini, emanazione dei comitati di liberazione nazionale, iniziano allora, specialmente nel bolognese, una vasta attività di proselitismo sindacale tra i mezzadri, proponendo per essi estreme rivendicazioni e cercando nel contempo di creare uno stato di intimidazione generale tra i proprietari, perché le rivendicazioni venissero acquistate senza discussione e senza reazione. E così cominciò a circolare il nuovo patto colonico che i suddetti comitati facevano recapitare ai proprietari con l’ingiunzione di corrispondere ai coloni quanto in essi previsto. [...] I suddetti proprietari cercavano indubbiamente di guadagnare tempo per vedere se la situazione si modificava e l’ordine e l’imperio della legge si ristabilisse, ma i capi non potevano tollerare certi indugi, perché altri proprietari più timorosi, di fronte a quell’esempio, avrebbero potuto tenere analogo atteggiamento che avrebbe significato per talune organizzazioni sindacali politiche perdere tempo. E gli indugi furono rotti con l’atto di forza: il delitto. [...] È vano dunque parlare di «criminalità comune» relativamente ai delitti commessi ai danni dei Costa e della professoressa Emiliani. Le azioni ai danni dei suddetti si inquadrano nel conflitto tra le classi sociali, e si concretarono nella spinta verso il conseguimento di miglioramenti economici da parte delle classi contadine: furono azioni mosse da aspirazione non egoistica, ma da finalità di precipuo interesse collettivo, ossia politico. La disciplina della mezzadria, la distribuzione delle terre ai contadini etc. sono fenomeni economico-sociali, ma anche squisitamente politici: basta considerare che la loro soluzione in un senso o nell’altro (e cioè a favore dei datori di lavoro o dei lavoratori), incide sul funzionamento della macchina statale (la polis) e sulla sua stessa struttura. Ogni attacco, dunque, anche contingente, sporadico, anche limitato nel settore e nello spazio, rivolto contro le classi possidenti,

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per una migliore distribuzione della ricchezza, acquista un carattere indiscutibilmente politico.

In questo caso quindi può essere applicata la legge voluta nel 1946 dal guardasigilli Palmiro Togliatti, che prevedeva l’amnistia per i reati a sfondo politico compiuti sia durante la guerra civile sia nei 14 mesi successivi. La sentenza arriva dopo ben 23 ore di camera di consiglio. Prendono l’ergastolo i partigiani Caffeo, Borghi, Bertuzzi e Bacini per l’uccisione di Malaguti. Il resto degli imputati, per l’uccisione delle altre vittime, se la caveranno con pene minori.


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Da Praga a Cuba andata e ritorno* Quei “qualcuno” erano i più indisciplinati, come quel Borghi, alias Bianchi, che Moranino cercherà di togliersi dai piedi spedendolo qua e là, lontano da Praga. Era un violento ma più che altro un sobillatore; era persino giunto a riunire, con neppure una decina di gregari, una banda che aspirava ad essere indipendente dalla gestione della colonia. Questa, più che altre lamentele contro di lui, spinse il pci a organizzare la visita di Dozza, il sindaco di Bologna, alla colonia ceca, nel corso della quale s’inserì la reprimenda contro il Borghi, tacciato però solo d’indisciplina. Ma Moranino non lascerà occasione per allontanare gente di quella risma. L’opportunità gli fu offerta da un annuncio di massima che il governo di Cuba, da poco tempo al potere, aveva lanciato ai paesi “fratelli”. Una sorta d’ingaggio riservato ai tecnici per la ricostruzione dell’isola di Castro. Il governo di Praga aveva passato la richiesta al capo dei fuoriusciti italiani. Moranino chiamò tutti e disse: – Otto mesi l’anno qui c’è freddo, umidità, fango, pioggia etc. Nelle Antille c’è il sole, c’è il Bacardi, ci sono le donne, oddio, – aggiungerà, – non che manchino qui, ma là sono un’altra cosa, ci hanno il pelo nero. Quindi terminò con le ultime blandizie: ottimo tabacco, le * Gianfranco Stella, Rifugiati e Praga, Faenza, so.ed.e., 1993.


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spiagge meravigliose e i... dollari del fottuto capitalismo americano. – Dunque chi vuole andare a Cuba con un contratto garantito si faccia avanti! Nasceva un problema, il compagno Fidel chiedeva tecnici specializzati, come ingegneri minerari, naturalisti, botanici, agrimensori, chimici, etc. Nessuno dei fuoriusciti s’avvicinava a quanto richiesto. Ma Moranino, pur di togliersi dai piedi il signor Bianchi e la sua banda, compilò la scheda nel modo più confacente: il mezzadro diventava perito agrario o dottore agronomo, il muratore era ingegnere o geometra, il minatore era ingegnere minerario. Aveva, insomma, aggiustato le qualifiche e vi aveva aggiunto il suo nihil obstat. Quando giunse il placet questa combriccola di “tecnici” fu accompagnata all’aeroporto di Praga con decine e decine di valige e i saluti di Moranino. Inoltre il compagno dottor Novotny salutava il compagno Fidel. Una volta giunti a Cuba i “tecnici” italiani dovettero fare i conti non con quelli di Castro, ma con i veri tecnici sovietici. E qui successe il finimondo che si concluse due settimane dopo con il ritorno dei “tecnici”, rispediti al mittente con la coda tra le gambe. Riusciranno nella mistificazione solo due italiani, un tecnico dentista ed un altro di cui non è dato sapere neppure la qualifica, meglio, il “titolo accademico”. Era questa vicenda ricordata come «la beffa di Cuba» e solleticava ilarità ogni volta che i vecchi ex partigiani se la passavano. [...] Dopo l’amnistia e il condono del 1959 che avevano dimezzato la colonia italiana, i rapporti al suo interno erano divenuti sempre più tesi. Il tempo non aveva temperato il carattere di questi ex partigiani, e le costrizioni lo avevano anzi inasprito. Le liti, i dissapori erano frequenti e le rivincite erano delle più forti, da cui venivano prevaricazioni e ingiustizie, accuse di delazione, secondo i crismi del più bieco stalinismo. A Botte-


ghe Oscure giungevano flebili e filtrati lamenti da parte di chi ancora credeva nel partito, perché ormai pochi vi credevano, dopo che la sospirata rivoluzione promessa in patria non s’era realizzata e dopo che essi stessi si erano convinti che l’economia «reazionaria e borghese» in patria stava dando pieni frutti rispetto a quella “paradisiaca” del blocco orientale. Si arrivò così al 1963 e il pci si volle affidare ad un compagno al di sopra di ogni sospetto, per regione (Bologna), per cultura (professore universitario), e per moralità di merito (non aveva avuto problemi con la lotta di liberazione e tantomeno dopo il 25 aprile). Costui era Luciano Bergonzini. Sarebbe dovuto andare in Cecoslovacchia a vedere in quale stato si trovava la colonia italiana e se fosse vero che episodi di prevaricazione erano così frequenti. Giunse a Praga e fu ospitato al consueto Hotel Pariz, ove incontrò Moranino, visitò la colonia, interrogò chi si lamentava, andò nei collettivi e pochi giorni dopo se ne tornò alla sua Bologna con la convinzione che oltre la colonia non avrebbe dovuto essere mantenuta in vita. Al comitato federale del capoluogo emiliano il professor Bergonzini riferì tutto quanto aveva sentito e visto: illegalità, prevaricazione, prepotenze, violenze fisiche, suicidi. La platea, tra cui erano alcuni giornalisti non invitati, non rimase scossa più di tanto, ma il giorno dopo il quotidiano della regione sbandierò tutta la relazione del professore e l’eco giunse fulminea a Roma, a Botteghe Oscure. Luigi Longo convocò Bergonzini e lo incaricò di sciogliere il gruppo disperato di Praga poiché nel frattempo gli avvocati del partito avrebbero cercato la soluzione per la definitiva sistemazione di quello ch’era rimasto della colonia italiana in Cecoslovacchia. Il pci, s’accordò con le forze del governo per far rimpatriare gli ultimi fuoriusciti e da qui naque l’ultima amnistia con annesso indulto, l’ultimo provvedimento che avrebbe interessato le vicende del dopo-liberazione e che porterà la data del 24

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gennaio 1963. Nel contempo lo stesso pci patteggerà la grazia presidenziale per Francesco Moranino così che «il simbolo della criminalità partigiana» potrà tornare in Italia definitivamente. Come contropartita il pci aveva offerto l’eleggibilità di Saragat a capo dello stato e all’Italia la provocatoria intenzione di far eleggere Franco Moretti, alias Moranino, senatore della Repubblica.


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Moranino: dallo Sten alla P38 Sul finire degli anni ’40, dopo il fallimento dell’azione legale contro gli esponenti del passato regime e della loro epurazione dai pubblici uffici, cominciarono i processi contro le illegalità commesse dai partigiani dopo la Liberazione. 466 comunisti, per lo più emiliani, per sfuggire all’arresto, con l’aiuto del Partito comunista, si rifugiarono a Praga, lasciandosi alle spalle gli episodi più cruenti della guerra civile. Pensavano, avendo vinto, di lasciare la patria ingrata per la terra promessa del socialismo e si trovarono invece obbligati a vivere inenarrabili condizioni di vita e di lavoro, durissimi controlli e provocazioni poliziesche e soprattutto l’amarezza della disillusione ideologica fino all’invasione sovietica del 1968. Ex partigiani, ex italiani, ex comunisti, ex uomini appunto, come li definisce Giuseppe Fiori in Uomini ex (Torino, Einaudi, 1993). La colonia dei comunisti emiliani a Praga era guidata da Francesco Moranino, nato a Tollegno (Vercelli) il 16 febbraio 1920, deceduto a Grugliasco (Torino) il 18 giugno 1971. Operaio tessile, nel 1940 si era iscritto al Partito comunista clandestino e già l’anno dopo era finito davanti al Tribunale speciale. Condannato a 12 anni di reclusione, Moranino fu detenuto a Civitavecchia sino alla caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943. Il tempo di tornare a casa ed eccolo a organizza-


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re, nel settembre dello stesso anno, con il nome di battaglia di “Gemisto”, le prime formazioni partigiane nel Biellese. Dopo essere stato comandante del distaccamento Garibaldi “Pisacane”, “Gemisto” assunse il comando della 50 a brigata Garibaldi che diresse sino a quando gli fu affidato l’incarico, prima di comandante e poi di commissario politico della 12 a divisione Garibaldi “Nedo”. Alla Liberazione, “Gemisto” divenne segretario della Federazione comunista biellese e valsesiana e fu quindi eletto nel 1946 deputato alla Costituente. Sottosegretario alla Difesa assieme all’altro capo partigiano Cino Moscatelli, nel terzo governo De Gasperi Moranino fu rieletto deputato nel 1948. Nel 1951 fu nominato segretario della Federazione mondiale della gioventù democratica. Nello stesso anno fu accusato dell’eliminazione controversa di sette persone (cinque partigiani e le mogli di due di loro) avvenuta nella zona partigiana controllata dalla sua formazione. Il conseguente mandato di cattura costrinse Moranino a riparare in Cecoslovacchia per sfuggire all’arresto. A Praga diresse una scuola quadri in coppia con il capo dei servizi segreti cecoslovacchi. Rieletto parlamentare nel 1953, Moranino poté tornare in Italia, ma dovette di nuovo riparare all’estero, quando una maggioranza di centrodestra votò alla Camera l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Processato in contumacia, nel 1956, “Gemisto” fu condannato all’ergastolo. Da documenti trovati dopo la caduta del comunismo risultò che quella di Praga era una scuola di sabotaggi e di guerriglia frequentata da molti comunisti italiani dell’apparato paramilitare dipendente da Secchia. Nel 1958 il presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, decretò la commutazione della pena in dieci anni di reclusione. Il provvedimento avrebbe consentito a Moranino di tornare in Italia, ma il comandante partigiano rifiutò di accettare questa riduzione di pena. Rimpatriò soltanto quando fu


ufficialmente riconosciuto che i fatti di cui era accusato erano «atti di guerra» (tra l’altro non da lui ordinati), connessi con la guerra di liberazione e quindi giuridicamente legittimi. Rientrato in Italia, Moranino fu eletto, nel 1968, senatore nel collegio di Vercelli con 38.446 voti. Nel 1970 Moranino incontrerà, nel corso di una festa partigiana del 25 aprile, i capi futuri delle Brigate rosse: Curcio, Franceschini e Mara Cagol già in clandestinità. Ma non farà in tempo a crescere quei suoi figli in arme, perché morirà nel giugno dell’anno dopo a Grugliasco (Torino) stroncato da un infarto.

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Epopea partigiana: “Ultimo” soldato e scrittore Appena prima di andare in stampa abbiamo avuto la fortuna inaspettata di incontrare “Ultimo” sotto la veste incredibile dello scrittore. Lo abbiamo rintracciato in Epopea Partigiana, una vecchia pubblicazione del 1947, a cura del cumer (Comando unico militare Emilia Romagna) e dell’anpi regionale, ricca di immagini e testimonianze sulla resistenza nelle provincie di Bologna, Imola, Forlì e Ravenna. La testimonianza di Borghi “Ultimo”, intitolato «Morte di “Romagna”», sulla fine appunto di Franco Franchini, il comandante della 7 a gap che aveva in qualche modo garantito ad Arpinati l’immunità. Il testo di “Ultimo” è notevole e lo riportiamo integralmente alla fine di questa ricerca, perché documenta molto bene come in una guerra civile, l’odio, la violenza, e la stessa inutile cultura retorica nel rappresentarli, si trasmettono tutti come un inevitabile contagio e si distribuiscono egualmente fra le parti avverse come liquidi fra vasi comunicanti. Nella notte fra il 13 e il 14 ottobre 1944, i tre gruppi del distaccamento avevano cambiato posto: passammo quindi una notte di veglia per camuffare le nuove basi. Alle ore 8 del 14 una staffetta informa “Romagna” comandante del


distaccamento che diversi compagni sono accerchiati dai nazifascisti nella casa Guernelli in via Saliceto; fra essi sono comandanti, intendenti e commissari, cioè compagni di grande responsabilità nella lotta. “Romagna”, d’accordo coi capisquadra e con tutti i gappisti, vede la necessità assoluta di combattere per salvare quelli che sono in pericolo. Consapevoli dal capo fino all’ultimo uomo del distaccamento di quale gravità sia questa impresa, ci riuniamo in una sola formazione. Ore 8.50: con “Romagna” in testa, il distaccamento, composto di 27 uomini decisi a tutto, armati di 8 mitra, 15 armi lunghe (Mauser e moschetti) una Breda 38 e diverse bombe a mano, e ben provvisti di munizioni, si avvicina al combattimento. Ore 9.05: siamo in prossimità del nemico, vediamo i briganti neri che, al rifugio (trincea antischegge) di casa Guernelli, distante circa 80 metri dalla via Saliceto, fanno lavorare sotto la minaccia dei mitra molti poveri rastrellati. L’ordine di attaccare verrà dato dal primo crepitare della mitraglia appostata di fianco al gelso all’entrata di casa Garuti. Tutto il distaccamento si dispone a semicerchio lungo il fossato della stalla della famiglia Garuti. La mitraglia comincia la sua opera. Ore 9.15: al primo colpo tutti gli uomini, con “Romagna” in testa, Balzano in un solo grido: «Avanti, compagni! A morte i briganti neri!». Questi urli, accompagnati dagli spari di tutte le armi, sorprendono e disorientano i nazifascisti, che però cominciano subito a reagire. Hanno già tra loro diversi morti. Avanziamo con una forza e un ardimento tale che siamo giunti vicino al mortaio, piazzato davanti al primo appezzamento di terreno della casa Guernelli, senza che il nemico, pur essendo forte di 12 contro 1, abbia potuto servirsene. I serpenti fascisti sono già nostri prigionieri, e a loro si aggiungono in pochi minuti i tenenti delle ingloriose Brigate nere, ma in questo attimo della battaglia il comandante “Roma-

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gna”, che è sempre innanzi a tutti, viene colpito al fianco: continua ad avanzare trascinandosi sulle ginocchia. Nuovamente ferito, pur costretto a strisciare sul terreno, non abbandona la lotta e mantenendosi in testa seguita a far fuoco, pone in fuga i briganti neri e infligge loro gravi perdite. Eliminato quello che lo ha colpito, io, Franco ed altri sette, corriamo a soccorrere “Romagna”. Mi ricordo ancora come se fosse adesso: gli levai il pastrano, gli sfibbiai la cintura, gli alzai il maglione, e potei vedere la ferita che grondava sangue come un rubinetto. Ebbi un momento di grande, indimenticabile dolore, perché prevedevo quello che avvenne poi, lasciai però altri compagni ad occuparsi di “Romagna”, in quattro lo portarono in una posizione di protezione. La battaglia continua, la mitraglia è ora piazzata in mezzo alla strada. Con Giorgio Zanichelli, che aveva preso il comando della squadra, essendomi io fermato per il tragico incidente accaduto al comandante “Romagna”, ci occupiamo di tre prigionieri catturati da pochi minuti: io guardo Giorgio e nello sguardo scambiato ci comprendiamo perfettamente. I tre prigionieri, un tenente, una donna e un milite, sono eliminati. Il tenente aveva una pistola nascosta nella piegatura del collo del pastrano. Anche le donne al seguito delle brigate nere! Quanta gloria! Intanto capisquadra e uomini di punta facevano a gara per il bottino di eliminazione dei nazifascisti. Fra “Bill”, “Napoli”, Giorgio Cerri, Franco, io e “Romagna”, prima della ferita si raggiungevano buone cifre. Ore 9.30: la battaglia ha un attimo di sosta, e liberati i compagni accerchiati pensiamo a “Romagna”. Ci impadroniamo di una macchina Fiat 500, che è tra la casa e la stalla Guernelli, occupate da noi per pochi minuti e vi mettiamo “Romagna”, in condizioni preoccupanti per la grave ferita. La macchina è quella del criminale Giovetti, che intanto è nascosto ferito in una stanza della casa insieme ad alcuni dei suoi che però non osano sparare benché in posizione di favore. “Gerri” e “Bill” sono destinati di tentare al più


presto il trasporto di “Romagna” in ospedale. Io e “Napoli” proteggiamo dall’esterno la macchina fin sulla strada di San Marino, poi questa prosegue verso Bentivoglio, ma poco prima di arrivarci “Romagna”, dissanguato, muore. Al ritorno dei due compagni che avevano assistito alla sua morte, sapemmo da “Bill” le sue ultime parole: «“Bill”, io ho ancora poco da vivere. Saluta e difendi il mio bimbo e la sua mamma, e dì a tutti i compagni del distaccamento che continuino a combattere. Sono sicuro di avere trasmesso in loro la mia volontà e la mia fede di partigiano combattente». E poi spirò. Noi in mezzo a un campo di granoturco, con le armi in pugno, quelle armi, 6 mitra e alcune pistole, strappate ai nazifascisti, giurammo fede al nostro dovere indicato dal comandante.

† (n.d.e.)

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Amici... Anni ’20. Arpinati con Mussolini.


... e veri amici. Aprile 1944. Da sx: Torquato Nanni, Leandro Arpinati, Tonino Spazzoli.



Note bibliografiche Giancarla Arpinati, Malacappa. Diario di una ragazza. 19431945, Bologna, Il Mulino, 2004. Giancarla Cantamessa Arpinati, Arpinati mio padre, Roma, Il Sagittario, 1968. Luciano Bergonzini, «Gli ultimi giorni di Arpinati e Nanni a Malacappa» in Torquato Nanni e il movimento socialista nella Romagna toscana, Rimini, Maggioli, 1987. Francesco Bertocchi, «La leadership di Leandro Arpinati a Bologna dal 1921 al 1933: la figura di un gerarca anomalo», tesi di laurea in Storia contemporanea, relatrice Maria Serena Piretti, Università degli Studi di Bologna, 1996. Mario Borghi “Ultimo”, «Morte di Romagna», in Epopea Partigiana, a cura del cumer e anpi, Bologna, Sper, 1947. Venerio Cattani, Rappresaglia: vita e morte di Leandro Arpinati e Torquato Nanni, gli amici-nemici di Benito Mussolini, Venezia, Marsilio, 1997. Giuseppe Fiori, Uomini ex, Torino, Einaudi, 1993. Mauro Grimaldi, Leandro Arpinati: un anarchico alla corte di Mussolini, Roma, Società stampa sportiva, 1999. Agostino Iraci, Arpinati l’oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970. Torquato Nanni, Leandro Arpinati e il fascismo bolognese, Bologna, Zanichelli, 1925.

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Nazario Sauro Onofri, Il triangolo rosso (1943-1947), Roma, Sapere 2000, 1994. Marco Sacchetti, «Leandro Arpinati: un fascista diverso, (18921945): ascesa e caduta del gerarca che disse no a Mussolini», tesi di laurea, relatore Luigi Pucci, Università degli Studi di Bologna, 1997-1998. Gianfranco Stella, Rifugiati e Praga, Faenza, so.ed.e., 1993. Tribunale di Bologna, Sentenza di Corte d’Assise N. 12/52 e 24/52 Reg. Gen.


Indice

Ultimo

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Documenti Luigi Borghi, “Ultimo” Torquato Nanni Leandro Arpinati Arpinati, il romagnolo nato anarchico, cresciuto fascista

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e morto di nessuno Arpinati mio padre Intervista a “Drago”, l’ultimo testimone La strage di Argelato: guerra civile e lotta di classe Da Praga a Cuba andata e ritorno Moranino: dallo Sten alla p38 Epopea partigiana: “Ultimo”, soldato e scrittore

Note bibliografiche

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Rosa dei venti

Carattere: questo libro è stato composto con due caratteri: un American Typewriter per i titoli e un Garamond per i testi. Il primo si rifà “nostalgicamente” a quello delle vecchie macchine da scrivere; il secondo – riconosciuto come uno dei migliori caratteri da stampa mai incisi – trae ispirazione dal modello più antico dei caratteri da stampa (sviluppatosi specialmente in Italia tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento) ma viene perfezionato a Parigi, nella prima metà del xvi secolo, dallo stampatore Claude Garamond (1480-1561). Carta: il volume è stato stampato su carta Cambridge da 140 gr/mq delle cartiere Pigna Progetto grafico e impaginazione: Mirko Visentin (www.mimisol.it). Stampa: finito di stampare nel mese di settembre 2007 per conto di Edizioni del Vento presso Arti Grafiche Zoppelli dal 1853 s.r.l., Dosson di Casier (TV).


N° 100 copie firmate dagli autori. Copia n°




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