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K Dedicato ad Antonella, cara amica del Diario
BY
Indice Antonella Albano pag. 2
Stefania Auci pag. 7
Federica Galetto pag. 13
Desy Giuffrè pag. 16
Giulia Marengo pag. 19
Gabriella Parisi pag. 24
Francesca Rossi pag. 30
Petra Zari pag. 32
Cristina Zavettieri pag. 35
Alessandra Zengo pag. 37
Crediti pag. 38
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Antonella Albano
Sujong La luce negli occhi di mamma mi chiama. Le tocco il braccio. Si spegne quando mi guarda. Sento qualcosa che si spezza, qui dentro. Ritiro la mano e mi siedo vicino e guardo ciò che la illumina. Il piccolo viso di Minjong è perfetto. A mamma non importa la rabbia di papà, quando lui non c'è. I maschi verranno, sussurra a occhi bassi. Ora un calore viene da lei mentre allatta, la luce riscalda. Io non ci sono lì dentro: mi metto vicino per prenderne un po', ma mi duole qualcosa che non so. Una mano si sporge, mamma è contenta che non le chiedo niente, mentre il suo latte invisibile ripaga la luce che Minjong le accende negli occhi. La carezza leggera fa salire l'acqua ai miei occhi: perché brucia così? Piano piano seduta vicino, metto la testa sulla sua gamba, sperando che non mi cacci. Guardo, la luce brilla lontana lontana e io ho freddo. Hai dato da mangiare al maiale? non si sente suono di risposta, perché fa così questa figlia? Non guarda e non sorride mai. La sua grossa testa che si china mi tranquillizza. È obbediente, può andar bene per... Minjong hai indossato il vestito della festa? Bene figlia, girati. Ti farai onore alla danza dei ventagli. Vai, prima che sia tardi. Jin ha fame... figlio d'oro, aspetta il padre, vieni qui, quanto pesa questo figlio d'oro. Tu prepara il pasto, presto il padre viene, mangerete e potremo andare alla festa. Non mettere tutte le stoviglie, mangeremo in fretta per andare a vedere tua sorella. Perché abbassi gli occhi figlia, guardami mentre ti parlo. Pettinati meglio e cambiati il vestito, non dobbiamo far sfigurare Minjong. Jin, figlio, il padre arriva, vai fuori, guarda il sentiero, accoglilo così è contento. Questa figlia, che si può fare? Il viso e le spalle, sempre piegate, sì ha gli occhi di mia madre, aspetta vieni qui, guardami... la pelle delle guance è morbida, mi ricordo che rideva da piccola, era bella quando rideva. Gli occhi lacrimano ogni tanto, come adesso e mi guardano come se la stessi battendo, anche ora che le tocco il viso. Mia mamma mi batteva ogni tanto... prima che... Dovremo prendere una decisione, ma forse, ancora no. Vai a cambiarti. La ragazza è forte, moglie. Meglio lei che la seconda, che ha bisogno della dote fra pochi anni. Non si lamenterà e non ci farà fare cattiva figura. Perché mi guardi così, donna? Tu hai sempre parlato di matrimonio per Minjong, non per la prima figlia. Non è questo forse che intendevi? Per te pure è stato così. Non andartene mentre ti parlo. E non voltarmi le spalle. Il momento è arrivato, è ora. Parlale tu. Non guardarmi così o ti batterò come quella volta... Lo so che lei aiuta, ma hai l'altra figlia e tu godi ancora buona salute, anche se non mi hai dato altri figli. Jin è bravo e ci renderà fieri e Minjong ti darà dei nipoti di cui occuparti. Fai alla prima figlia il pacco con i vestiti di cui avrà bisogno. Domani partirà e non voglio sentire altre parole su questo. Devo salutare il maiale. Gli daranno da mangiare... chissà se per lui sarà diverso ricevere il cibo da altri. Chi porterà l'acqua in casa? Perché mi mandano via. Non ho potuto parlare per chiedere se sono stata una figlia inutile. Forse se la madre non ce la farà con le faccende, mi verranno a riprendere. Gli occhi sembravano... come se ci fosse una luce come quella che non mi ricordo nemmeno più. Ma era una
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luce triste? O arrabbiata. Forse non sono stata brava abbastanza. Non quanto Minjong. Lei fa venire la luce negli occhi alle persone. Era bello quando voleva giocare con me. Non potrò più vederla. Ho chiesto e la madre non mi ha risposto. L'ho fatta arrabbiare forse e se ne è andata. Perché devo andare via? L'acqua che scorre dagli occhi non la devono vedere le persone, il maiale sì, a lui non dà fastidio. Non posso salutare Minjong e Jin. Non potrò più ringraziarlo per la scrittura che mi ha insegnato di nascosto. Ora che è più grande ha le sue cose da fare, aiutare il padre. Perché il padre è arrabbiato con me. Io li ho delusi. Te, no. Addio maiale, ti nutrirà qualcun altro. Io devo andare. Questa ragazza è brutta, quanto vuoi che ti dia? Se è brutta è brutta e lo vedono tutti. Che mi importa che è forte? Quanto dura, dura. Non ti darò più denaro di così. È nuova? Sì? E chi me lo dice? Vuoi essere battuto? Perché a me non costa nulla farti battere. Te la vuoi riportare e riportatela. Sai quante me ne arrivano di brutte così? E poi non è nuova. Non lasciarla là da sola che può scappare. No? Qualcuno l'ha usata sicuramente. No? Chi mi garantisce che è obbediente? La tua parola. Non ti arrabbiare o ti faccio battere. Questo è quello che ti posso dare ed è pure troppo. Qui non abbiamo bisogno di donne che puliscano, non ho bisogno di questo. Ci mancherebbe altro che le ragazze non puliscano anche. Sì vecchio, va bene, quasi quasi mi hai fatto venire il buon umore, questo è qualcosa in più per il buon umore che mi hai fatto venire. Vattene e tu vai per quella porta, sì là, Hyuri ti dirà dove mettere le tue cose. Che guardi? Vai. Il tuo vecchio se ne è andato. Ancora un altro giorno. Se la cipria potrà coprire il livido in faccia e alla luce della lampada non si vedranno i segni delle ferite dovrò tornare a lavorare. Ancora un altro giorno, se zoppico non mi faranno tornare dai signori. Se zoppico però mi spintonano, perché dicono che fingo. Non posso più stare stesa, o mi diranno che mangio a sbafo e a stare seduta mi fa male. Devo stare qui in piedi e basta. L'altro mese quella ragazza l'hanno ammazzata. Il padrone ci ha perso, ma lei è stata fortunata. Si dorme e basta dopo, chissà. Fra poco devo andare a farmi vedere da Hyuri e lei stabilirà se ho un altro giorno. Se mi azzoppassero forse non mi vorrebbero più. È perché non sono brava. Vogliono che sorrida e io non ci riesco. Hyuri ha detto che le ricordo mia nonna e che mia madre era più brava. Mia madre... lo sapeva. Per questo non mi ha salutato quel giorno. Sapeva che non sarei stata brava. Chissà Minjong... non devo pensare. Io sono come quello sgabello. La mia pelle è dura e scabra come quello sgabello. Lo sgabello sta dove lo si mette e lì ha la sua pace. Anche il mio maiale, esisteva e basta, ma lui sentiva, però. Il maiale... no, non era mio, ma lui vedeva e a volte era contento. Lo sgabello non ha bisogno di essere contento. Io devo essere come lui. Solo gli sciocchi si arrabbiano con uno sgabello. Se lo rompi poi non ce l'hai più. Sei cattivo se rompi una cosa? Sei stupido soltanto. Sì, ma se quella cosa non ti serve, ti dà soddisfazione romperla. È la cosa che è stupida non tu. Uno sgabello serve a sedersi. Io... sono rotta qui dentro e le cose rotte sono brutte e inutili. Un altro giorno, solo un altro giorno... gli sgabelli non piangono... La odiano e basta. La picchiano perché non reagisce, non è abbastanza intelligente per fingere. Che vuoi che ci faccia col fatto che l'hai pagata? È successo
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più di due anni fa! Sei abbondantemente rientrato della cifra. Come diavolo faccio a renderla più bella? Non è davvero brutta, poi... No che non lo è. Sì, d'accordo, non è bella come certe altre, ma non è quello il problema. Finché era più piccola ai clienti piaceva proprio per quello e la sua passività li eccitava. Mi ricordo che cercavano “il salice che piange”, uno di loro così la chiamava. Poi però non è più bastato: ora si arrabbiano perché non piange, perché non grida, perché non sorride. Non a tutti piace farlo con una cosa. Che ci devi guadagnare lo so, però forse c'è un altro modo. Io un'idea ce l'ho: mettiamola ad aiutare il cuoco: è obbediente e io non credo affatto che sia stupida, non come dici tu. Se le ragazze non dovessero bastare possiamo sempre richiamarla. No che non scapperà, non ha abbastanza iniziativa. Proviamoci almeno! Dimmi quando sei stato deluso dai miei suggerimenti? Se muore la prossima volta che la battono è certo che non ci potrai ricavare più niente. Sì sì, lo so, alla fine vedrai che la farai passare come una tua idea e sarai tutto fiero di te stesso. Sì perdonami, non battermi. Va bene, la porto dal cuoco allora. La gente fa una sacco di rumore, ride, parla, contratta. Io sono come l'aria che passa vicino e nessuno la vede, devo solo non guardarli. Devo solo seguire il cuoco. Non devo perderlo. L'altro giorno mi ha battuta perché mi ero persa. Non so perché, ma sembrava disperato quando finalmente l'ho visto fra la folla, e poi si è infuriato quando si è accorto di me. Ridevano tutti e poi ha smesso di darmele. Devo stare attenta e tenere il sacco aperto quando deve metterci le cose che compra. E non guardare in faccia nessuno. Ma i bambini sono belli, sui fianchi delle mamme. Le ragazze eleganti guardano da lontano mentre le serve fanno la spesa. Sarebbe stato bello fare la serva di Minjong, ma l'avrei fatta sfigurare e mamma mi avrebbe guardato male. No, no così è meglio: meglio il cuoco che si infuria e mi batte che mamma che mi guarda con quegli occhi. Non ci devo pensare a loro, perché poi mi confondo e non sto attenta. Chissà il padre... No, ecco l'anatra nel sacco. Devo stare attenta. Mi spingono e non mi vedono. Che bello camminare al sole. Speriamo che oggi il cuoco sia troppo indaffarato per... mi piace quando invece mi fa cucinare un poco. Sono troppo stupida per fare la cuoca, ha detto. Chi sono quelle donne? Sono vestite stranamente... hanno gli occhi strani... Mi guardano. Perché mi guardano? Hanno una stoffa in testa. Mi sta sorridendo? Forse ce l'ha con qualcun altro. Forse è pazza, come quella ragazza nella casa, che rideva sempre e poi è sparita. Non devo guardarla. Dov'è il cuoco?? eccolo. Il sacco, vuole il sacco per metterci il riso. Sono qui, sono come il sacco, faccio quello a cui servo. In pace, sono contenta: nessuno mi guarda e mi tocca, sono come l'albero che stava nel cortile di casa... che aspettava tanto e poi i fiori lo ricoprivano... Sorella! La picchiano, quella ragazza quell'uomo la picchia! Possiamo fare qualcosa? Vedi? Ti prego Sorella... io... non credo che quello sia suo padre... non posso saperlo, sì lo so. Lo so che non possiamo intervenire... possiamo però andare a quella bancarella lì? In fondo ci serve … sì ci serve il riso, se passiamo vicino a loro, può darsi che lui la smetta... grazie Sorella! Ci guardano male, però... sì lo so, non devo parlare nella nostra lingua in presenza delle persone, scusami Sorella. Quella ragazza mi guardava come se avesse paura di me, non so perché. Però quando le ho sorriso mi è sembrato che... gli occhi le si sono riempiti di lacrime, ma
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forse era per il dolore. Comunque quell'uomo ha smesso di farle male. Sì sorella lo so: devo coltivare il silenzio, hai ragione. Pregherò per quella ragazza. Signore, quella ragazza mi fa impazzire! Ti sono profondamente grato di averla messa ad aiutarmi, ma il pensiero che possa scappare non mi fa stare tranquillo. No, no in effetti non ha tentato di scappare, è che si distrae, si perde e io non posso stare sempre a guardarmi indietro per essere sicuro che mi stia seguendo... Non è che non mi sia utile, sì, mi obbedisce, quello che le dico più o meno lo fa, è... che è strana. Sì padrone, io ti ringrazio molto di avermi voluto alleviare la fatica, ma se... invece la mettessi ad accogliere e istruire le ragazze? No padrone ti chiedo profondamente scusa, non volevo in alcun modo offenderti e, no, non volevo dirti come sistemare i tuoi affari, abbi compassione di me che non sono molto intelligente, si sa... i cuochi... Si è rifiutata? Ha detto no? Strano, non ce la vedo... ah è rimasta lì a guardarle senza far niente? È vero, sì ricordo che ha avuto le bende in testa per un po'. La tua grande intelligenza è innegabile, Signore. Allora non c'è nulla da fare per lei. Capisco. La farò lavorare come sempre. Va bene. Ti ringrazio della tua benevolenza, signore. Madre, sorella Julianne mi tormenta per quella ragazza che ha visto al mercato, non so che fare per farla tacere e lavorare tranquilla. Ha addirittura cercato informazioni su di lei: lo sa Madre che è quella di noi che conosce meglio la lingua. Che devo fare con lei? Capisco che voglia far bene, ma allora la santa obbedienza dov'è? Le parli Lei, santa Madre... La ragazza? Sì certo, sorella Julianne ha saputo che è la serva di una di quelle case là, Madre, e forse non è solo la serva... quanti anni ha? Non lo so, è molto giovane, ma ha lo sguardo come spento, mentre quell'uomo la picchiava sembrava quasi non accorgersene, come fosse abituata. Sorella Julianne continua a dire che dobbiamo salvarla, ma a me è sembrato che avesse paura di noi, addirittura. Sì Madre, grazie, le mando sorella Julianne, così le parla lei, certo. Grazie Madre. Sia lode all'Altissimo. Cosa ci faccio qui? che cosa vorranno da me, queste donne straniere? Ho paura. Mi porteranno via. Con i loro veli neri. Non mi hanno fatto niente e mi portano da mangiare, ma la donna anziana è venuta a comprarmi dal padrone. Ora mi porteranno lontano nel luogo da dove sono venute? E quella giovane, che sorride: non mi posso fidare. Quando gli uomini mi sorridevano poi succedeva che... ridevano a farmi piangere. Scommettevano fra loro chi mi avrebbe fatto piangere prima. E se mi sorridevano, prima o dopo... prima o dopo un demone li prendeva e mi odiavano. Se almeno mi lasciassero stare qui... Eccola, mi chiama. Perché mi vede? Perché non è come gli altri? Se mi tocca, grido. Capisce quello che penso, vuole che vada con lei. Ci sono dei pacchi. Vuole che la aiuti. Vuole che li porti. È una trappola e se sbaglio mi picchierà. Non fa niente. Li porto. Io faccio le cose come lo sgabello che sopporta il peso, come il mio maiale che aspetta di morire, come l'albero del giardino che aspetta il fiore e i fulmini. I pacchi non sono pesanti, sono grandi. Come è vuoto questo posto! E silenzioso. Rompe i pacchi. Non ha paura che la battano? Forse si deve fare così. Sono delle statue. Come quelle del tempio... sono strane però! C'è un uomo con le vesti lunghe, una donna e su uno sgabello della paglia e lì … che cosa si mette? Un bambino? Che strani capelli. Gialli come il sole. E la donna? Ha la stoffa in testa, come queste signore. È la mamma del bambino. Però lui è piccolo perché non lo tiene in braccio? Lei è tanto bella e ha gli occhi come le signore, tondi, non come i miei. Però a guardarla bene, ce li ha un po' come
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i miei. Lui è il padre, ma sta indietro a guardare. Perché fa così? Cosa guarda? Forse perché il figlio è maschio e non una sventurata femmina. Lui è contento. Ha ragione perché il bambino è bello. La donna ha negli occhi la luce che aveva la mamma quando guardava Minjong. Ha ragione è bello questo bambino, anche se ha i capelli gialli: ha uno sguardo così bello... ma perché la Signora con la stoffa azzurra non lo tiene in braccio? perché i bambini sono felici quando le mamme li tengono in braccio! Felici come gli alberi quando arrivano i fiori. Posso stare qui ancora? Non mi picchiano se sto qui. La signora che mi ha portato qui mi sorride, di nuovo. Spero che non sia matta come quella ragazza e... mi dice con la mano che posso restare qui. È una trappola? Mi picchieranno? Non fa niente, si sta bene qui. Qui si può stare a guardare. La mamma è felice e ha negli occhi la luce mentre guarda suo figlio e il bambino è felice anche lui. I suoi occhi non mi fanno paura... - Mamma! - Figlio mio! La vedo. Ha il cuore ferito. - Lo vedi come è bella? Soffre da tanto... - Sì, sanguina di dolore, ma non c'è nessuna maledizione dentro di lei. È Tua vero? È sempre stata Tua. Posso farmi aiutare da lei a tenerti? Lo sai che mi fa un po' male la schiena... - Lo so. So anche che vuoi spingermi a fare qualcosa che io voglio già fare. Per lei hanno sanguinato le mie ferite e le sue ferite hanno sanguinato per me. Anche se non lo sapeva. È in braccio a lei che voglio andare. Sujong? Mi prendi in braccio? - Vieni piccina, la schiena ti pesa lo so, appoggiati a me. Lo reggiamo insieme, vedi? È felice mio figlio in braccio a te. Sorride e ti guarda. E anch'io ti vedo, Sujong, figlia d'oro. Stai qui sul mio cuore, insieme lo teniamo e lui così, felice fra le tue braccia, potrà dormire un po'. La luce negli occhi del bambino mi scalda il cuore e sono nuova, come in braccio a mia mamma. Questa mamma bellissima mi guarda come faceva la mia. Me lo ricordo ora. Le sue braccia mi sostengono e il suo tocco non mi fa paura. Tengo lui come tenevo Jin quando era piccolo. E c'è tutto nei suoi occhi: c'è la mia mamma che piange di gioia alla mia nascita e mio padre che sorride. C'è l'albero coi fiori rosa e il maiale che scodinzolava a vedermi. C'è tanto dolore, il suo, terribile, quello di tutti, tutto il mio. Tutta la mia solitudine e la mia nostalgia. E va tutto bene, perché era tutto per lui. Lui mi tocca la guancia e nulla è andato perso: io sono Sujong, l'amata. E sono felice. Qui. Ora. E per sempre.
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Stefania Auci
L'angelo della morte No che non si può. Ferie? Nemmeno a parlarne. Una vacanzina piccola? Mai. Lavoro, lavoro e lavoro. Vada che per noi il tempo non esiste, ma alla lunga anche l’eternità ha il suo peso. E poi con l’incarico che mi è toccato, c’è poco da stare allegri: è logorante, ammettiamolo. Avrei bisogno di staccare un po’ di trovare nuovo entusiasmo. Chi sono? Un ostetrico dell’anima. Aiuto le anime a nascere a nuova vita. No, non quella terrena: quella eterna. So che è una cosa splendida ma molte creature non lo sanno: piangono, si lacerano, soffrono e solo dopo un po’ comprendono che la vita vera, è infinitamente più semplice e serena, e che le cose di prima non hanno più importanza. Io accompagno la morte. Molti esseri umani credono che non ci sia altro “dopo”, che sia una questione di biologia e di proteine ma non è così. Ciò che gli uomini lasciano dietro di sé… amori, rabbia, dolore, son ciò che li contraddistingue. Rappresentalo l’essenza della vita, quella che vibra per le persone che si amano, che si emoziona per la bellezza dell’alba o si arrabbia per le ingiustizie. C’è un mondo invisibile di cui pochi intuiscono l’esistenza. Alcuni lo conoscono – o pensano di conoscerlo – attraverso la religione, altri con la filosofia. Non immaginano che basterebbe aprire il proprio cuore, lasciare che l’energia della vita fluisca attraverso di loro. Che l’immenso è lì, e basterebbe spingere la porta per entrare. Va bene, chiedo troppo. Il Principale me lo rimprovera sempre. Comunque sono arrivato. È un ospedale come molti altri. I luoghi di sofferenza si assomigliano tutti: hanno un’aura grigia, densa, impregnata di rimpianto e amarezza. Ogni anima che nasce alla vita eterna ha una luce particolare. Cambia per ogni essere vivente e ciascuno di noi ostetrici la riconosce per istinto. Questa in particolare è di un rosso vivido, luminosa come un rubino. Pulsa ancora, segno che è attaccata al corpo e produce un suono malinconico, una sorta di canto. Conosco queste sensazioni: vuol dire che appartiene a una persona che ha molto amato e che non è pronta a lasciare questo mondo, che vuole restare. Oltrepasso un’infermiera in cuffia e camice bianco, proseguo per il corridoio guardando attorno con curiosità. C’è un cielo grigio di neve e gelo, fuori. In un angolo accanto alla finestra
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qualcuno ha addobbato un albero con luci e festoni. Una stella argentata splende in cima, illuminata dal riflesso di lampadine colorate. Sono pacchiane e chiassose, ma danno un po’ di colore a quest’ambiente livido dove predomina uno slavato azzurro polvere. Mi fermo dinanzi una porta:l’anima è lì. Potrei attraversarla e fare in fretta ciò che devo, ma qualcosa mi trattiene. Parole. Provo un’emozione diversa dalla noia o dall’indifferenza con cui solitamente porto avanti il mio compito. La morte umana è così maledettamente simile a se stessa. Devo vedere, capire. Il corri doio è deserto. Prendo una forma um ana, si mile a quell a dell’infermiera che ho oltrepassato poco fa. È una strana sensazione sentirmi imprigionata in un corpo limitato e pesante. Le mie mani sono calde, la stoffa sfrega contro la pelle, i miei movimenti sono limitati. Avverto l’odore della malattia, quel misto di sudore, urina e disinfettante che rappresenta l’aspetto concreto dell’aura di ciò che percepisco in spirito. Non riesco più a udire quelle parole, ma il mondo è assai più concreto e luminoso. Anche quelle luci che prima sembravano sguaiate, mi appaiono come stelle sperdute in un cielo dal colore sbagliato. Metto la mano sulla porta, la apro. Ed entro. L’uomo non si voltò quando udì la porta richiudersi. Teneva le mani intrecciate a quelle di una donna stesa nel letto, dall’aria sofferente. Lei doveva esser stata giovane: aveva la pelle del viso tirata sugli zigomi pallidi, le palpebre socchiuse, i capelli – pochi – raccolti in una coda sfilacciata. Lui si voltò a guardare l’infermiera. “È lei di turno, oggi?” La donna annuì senza rispondere, con gli occhi fissi sul quel viso affilato e immobile. “Beh, qualcuno deve pur esserlo” considerò l’uomo, volgendo lo sguardo alla mano intrecciata alla sua. “Non è un bel modo per passare il Natale, ma sempre migliore di quello di mia moglie” commentò a mezza voce. L’infermiera annuì di nuovo. Aveva occhi chiari pieni di compassione, ma quello sguardo non mise l’uomo in imbarazzo. Anzi. Stuzzicò la sua voglia di parlare, come se quella sconosciuta potesse capirlo. Come se potesse consolarlo. “L’anno scorso io e Alice abbiamo preparato l’albero in giardino. E due giorni prima di Natale lo abbiamo trovato coperto di neve… era nevicato così tanto che le lampade si scorgevano a malapena.” Sorrise, gli occhi lontani, persi in quella scena felice. “Poi lei ha iniziato ad avvertire nausee e crampi al ventre. Per alcuni giorni abbiamo pensato persino che fosse incinta… ma non era così.” L’uomo deglutì, mentre l’ombra del sorriso veniva cancellata da una consapevolezza amara. “Non ce la fa più. Lo vedo… lo sento. La mia Alice è stanca di lottare.” Le prese la mano, appoggiandola sul petto e le sfiorò il viso con una carezza. “Lo so che sta male, ma… non posso lasciarla andare. Non ci riesco.”
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L’infermiera avanzò sino a sfiorare la pediera del letto. Dallo sguardo scaturiva una strana dolcezza, una comprensione che l’uomo non aveva mai scorto nei suoi colleghi o nei medici. “L’ama molto” disse lei sottovoce. Era il tono di un’affermazione ma suonava come una domanda. “Sì.” Adesso che sono qui comprendo perché quest’anima è così luminosa. È una goccia sospesa tra lo sterno e la gola di questa donna. Trema, tende verso l’alto, ma non può staccarsi dal corpo. Il suo è il rosso del sangue, ed è calda, viva come una fiamma. È legata a quest’uomo che la veglia, che le stringe la mano come se volesse darle la propria vita per prolungare la sua, e in un certo senso lo fa. Se non fosse il suo amore a tenerla qui, sarebbe già andata via. È dell’anima di Alice, la voce che sento. Parla con l’uomo che l’ama e che non può sentirla, ed è un canto, una carezza, una consolazione. Non soffrire più, amore mio. Non smetterò mai di amarti, sarò sempre con te. Il tempo che ci è stato concesso è stato poco, ma prezioso. Ma adesso non posso più sopportare il tuo dolore: mi fa male, è una catena che mi impedisce di andare via. L’infermiera si mosse con leggerezza. L’uomo notò che teneva i capelli chiarissimi raccolti in una sorta di treccia sul capo da cui sfuggivano alcune ciocche vaporose, simili a un’aureola. “E lei? È stata incastrata qui per Natale o ha chiesto di fare questo turno?” Non che gli importasse sul serio. Voleva spezzare quella tensione che gravava nella stanza e sul suo petto, ricordarsi che esisteva una vita al di là di delle mura azzurre e dell’infusore che pigolava in un angolo. Continuò a parlare senza attendere una risposta. “Io non ho nessuno che mi aspetti a casa: la mia famiglia vive in un’altra città, e così anche quella di mia moglie. È Natale, non ha senso che anche altri stiano qui a star male. Io e Alice non abbiamo avuto figli… abbiamo tentato a lungo, poi abbiamo deciso di smettere. A marzo saranno…” Si fermò. Un groppo alla gola gli impediva di parlare e dovette respirare a fondo per continuare. “Sarebbero stati dodici anni.” “Stare in coppia è una missione” considerò l’infermiera dopo una manciata di secondi. “È dura sopportarsi… no?” L’uomo si strinse nelle spalle. “Non più che lavorare in fabbrica, o un hospice come questo. Se si decide in libertà di fare un dato mestiere, o di avere un figlio o di vivere con una persona, non è un sacrificio.” Fece una pausa, mentre le parole ristagnavano nella stanza. “Lei non ha forse scelto di fare questo mestiere?” La donna parve sorpresa da quella domanda. Abbozzò un sorriso, poi arricciò il naso con una smorfia infantile. “Oh, beh… mi è toccato… credo.” Si guardò attorno. Nello sguardo azzurro c’era una strana perplessità.
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Dico io. Il Principale ha un senso dell’umorismo bastardo. Volevo riposare, e lo sapeva. Mi manda sulla terra… occhei, accettiamo, è il mio compito. Mi manda in questa stanza dove un uomo sta soffrendo perché la sua compagna di vita sta per nascere a vita nuova… e mi sento fare delle domande sulla mia, di esistenza? Io non ho scelto di essere un ostetrico dell’anima. Avrei voluto essere un custode, che assiste i viventi dal momento in cui nascono e che li aiutano nelle difficoltà… a proposito, non vedo i custodi di questi due. Vorrei sapere che fine hanno fatto. Beh, sporgerò denuncia: mica si possono lasciare gli umani in difficoltà così, senza una parola… saranno su qualche nuvola a suonarsi l’arpa a vicenda! Soprattutto quello di Alice: dovrebbe essere qui, fare il passaggio di consegne con me e invece chissà dove sarà! Eh, erano belli i tempi in cui noi ostetrici scendevamo a frotte in questo piano della realtà: legioni intere, ranghi serrati e via. Zac. Veloce e pulito: centinaia di migliaia di vite nascevano all’eternità in pochi istanti. Con i custodi ce la sbrogliavamo dopo, con calma, senza passaggi di consegne e scartoffie. Ma carestie e pestilenze sono diminuite; le guerre continuano ad andare alla grande e anche i terremoti non scherzano, ma non mietono più decine di vittime al minuto. Vanno ancora forte gli attentati e gli assalti, ma non ci chiamano più a legioni come una volta. Adesso bisogna sporcarsi le mani: venire giù, staccare l’anima dal corpo, portarla alla luce. No, non è affatto bello. Il dolore ti contamina ti lascia addosso una stanchezza difficile da metabolizzare. E so già che quello di oggi sarà un intervento che non dimenticherò facilmente. Fuori, la gente si salutava scambiandosi abbracci e auguri. L’infermiera allungò il collo e sbirciò fuori dalla finestra: poco distante c’era un parco dove i bambini giocavano a palle di neve. Alcuni adulti si avvicinavano ridendo, altri proseguivano per la strada affollata. Era la mattina del giorno di Natale e c’era una strana energia nell’aria, che sapeva di affetto e di allegria. L’uomo seguì il suo sguardo, poi tornò a fissare la moglie. “Buon Natale, amore mio” bisbigliò, tornando a rivolgersi alla moglie. Le prese la mano e la baciò, piano. “Questa è la festa che preferisci, vero? Mi spiace di non averti preso alcun regalo, ma non ho voluto lasciarti un attimo, ed è questo che importa.” Sollevò la testa. Gli occhi erano privi di lacrime. C’era qualcosa che andava oltre la sofferenza e la paura. “Se potessi… vorrei un minuto di vita in più con lei. Solo questo” sussurrò, con le labbra contro le sue dita. “Vorrei poterle dire che ha reso la mia vita degna di essere vissuta… vedere di nuovo il suo sguardo innamorato, farle capire che l’amerò sempre.” Era una preghiera? Sul viso delicato dell’infermiera comparve una ruga decisa. Studiò a lungo l’uomo, poi, senza una parola, pose la mano sul petto di Alice. No. Adesso decido io, accidenti. Sono un ostetrico della vita, giusto? Posso decidere quando raccogliere un’anima.
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Ha chiesto un minuto e lo avrà. Ama questa donna più di se stesso: nei millenni di vita che ho trascorso, ho incontrato poche volte un amore così intenso. È Natale e per gli esseri umani, questo è un momento di gioia, di rinascita, di ricchezza interiore. Questa donna nascerà a nuova vita, ma prima avrà modo di ascoltare ciò che quest’uomo prova per lei. Posso farlo, è in mio potere. Porterò di nuovo l’anima nel corpo, quel tanto che basterà perché entrambi possano dirsi addio ed essere in pace. E se il Principale si incavola, gliene dico quattro. “Ehi…” L’uomo si voltò di scatto, rendendosi conto di esser rimasto solo. Alice lo stava guardando, gli occhi spalancati e lucidi, le labbra stirate in un sorriso storto. Corse vicino a lei, incapace di credere a ciò che stava accadendo. “Tesoro” disse, scostandole i capelli dalla fronte con una carezza premurosa. “Come stai?” Era incredulo. I medici avevano detto che non si sarebbe più svegliata, che il suo cuore avrebbe cessato di battere senza che lei riprendesse conoscenza. E invece era lì, lucida, con gli occhi spalancati… “Sono stata meglio. È mattina?” La voce di lei era lo spettro di ciò che era stata, ma per il marito era il canto più dolce che potesse desiderare. “È il giorno di Natale, amore mio.” Appoggio la propria fronte sulla sua. “Buon Natale.” Alice chiuse gli occhi inspirando il profumo della sua pelle. Era un odore buono, ma ormai lo percepiva con difficoltà. La chemio aveva bruciato le terminazioni nervose e probabilmente quell’aroma di limone era solo il ricordo dell’odore… ma era forte, così rassicurante. Era ciò di cui aveva bisogno. Gli prese la mano. “Ho paura.” Lui la strinse. Forte. Poteva contare le sue ossa, sentire il sangue che pulsava nelle vene. “Io sono con te. Non ti lascio sola. Io ti amo.” Nel petto di Alice qualcosa si sciolse. Era calore, era luce, era tranquillità. “Anche io.” La testa divenne pesante, gli occhi si offuscarono e si appoggiò al suo braccio. “Non te ne andare. Abbracciami.” L’uomo capì. Si rannicchiò accanto a lei, circondandola con le braccia, mentre sentiva il suo respiro diventare lento e pesante. “È Natale, e c’è la neve. La gente corre per strada e i bambini stanno giocando al parco, quello dove ci sedevamo d’estate ad ascoltare la musica e a prendere il gelato. Fa freddo fuori, ma il cielo è terso. Le nuvole sono sparite, il sole si riflette sulla neve che è bianca… così bianca, e soffice, come piace a te…” Le baciò la fronte mentre la gola era serrata da una morsa così forte che gli impediva quasi di
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parlare. “Ti ricordi l’anno scorso, quando abbiamo trovato il nostro albero di Natale coperto di neve? Ecco, pensa a questo, amore adorato, alla nostra casa. E io ricorderò il tuo sorriso, la cioccolata calda che abbiamo bevuto sul divano, la tua faccia da bambina felice… e quanto ti amo. E ti amerò per sempre.”
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Federica Galetto
La gioia della neve Oltre il vetro le aiuole sommerse di bianco luccicore si disegnavano, come drappi poggiati sui petali caduti, le corolle invecchiate, i grumi di terra scura. Rimpiangevo il minuto precedente l’arrivo della neve, perché ancora era limpido il cielo e nessuna nube ostile incombeva sul giorno. Ora le cortine di fiocchi vorticavano veloci e faceva un freddo intriso di vuoto, proprio come quando da bambina camminavo sul bordo del marciapiede che portava alla scuola nelle mattine d’inverno. Era stato come allora: all’improvviso l’azzurro aveva preso il volo e nubi scure si erano accalcate sulle case e sulle vie; poco dopo la neve era arrivata silenziosa, senza preavviso, muta nel passare, fatta d’eterni attimi la sua discesa. A quel punto, ogni volta, mi sentivo come sollevare dall’aria pulita che mi sferzava il viso e mi veniva voglia di cioccolata calda, di pane e marmellata, di fuoco scricchiolante nel camino. In genere non potevo permettermi certi lussi, la neve arrivava quando voleva, e quando voleva se ne andava, lasciandomi sempre impreparata all’evento. Capivo, dopo molti anni, quanto fosse magica la forza del gelo. Da bambini tutto si dà per scontato, si vive come se niente fosse mai vissuto prima e la dolcezza della scoperta, della meraviglia splendono come stelle negli occhi. La casa dei miei genitori aveva una grande sala da pranzo, le finestre alte e grandi versavano sul giardino e sull’orto che ora apparivano come lenzuoli stesi ad asciugare, rigidi di grigi e pieghe biancastre, con sotto il corpo della vita dormiente e placida. Il Natale era alle porte, c’era odore di spezie e di mele cotte al forno, di vischio e bacche rosse, di legna consumata, ardente nella stufa. Da quando avevo divorziato neanche il Natale mi sembrava più lo stesso; e non lo era. Avevo perduto l’istinto per la bellezza dei dettagli, la volontà di pregare, il desiderio di scartare e fare regali, di addobbare l’abete o solo di preparare il vino caldo con i chiodi di garofano. Non riuscivo a stare seduta accanto al fuoco, nè a distinguere quell’attimo in cui la mente sola, armoniosamente elucubra sogni. Non sognavo più. E neppure l’odore pungente della luce livida mi quietava e guardavo passare la tramontana di fiocchi gelati con le mani incapaci di volontà. Un tempo avrei voluto afferrarli, uno ad uno, mi sarei eccitata nel sorprenderli cadere sul mio palmo, interrompendone la naturale discesa. Ero diventata come quel ramo di fico laggiù, nel fondo dell’orto di mio padre, un debole ramo piegato prossimo a spezzarsi sotto il peso della neve. Ma se la neve aveva un peso, ben sapevo che aveva anche una sua leggerezza immortale. I boschi intorno alla casa, zittiti dal turbinare della tormenta, cigolavano sotto un velo di ghiaccio volante; non si udivano voci né canti d’uccelli, né
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movimenti di talpe e roditori o scoiattoli sui rami. Tutto giaceva in una morte apparente. Era la mia morte apparente che si mescolava al silenzio di quella neve senza tempo e mi sentivo nel cuore un brivido di timore, un soffio di caduta, una perdizione irrinunciabile. A undici anni caddi da quel fico scorticandomi un gomito e una coscia. Mio padre si irritò molto per l’accaduto, si era sempre raccomandato affinchè non salissi mai sul fico, perché era un albero traditore, apparentemente robusto e possente ma terribilmente fragile sotto il peso di un corpo. Idealmente caduta, di nuovo, ricordai i graffi brucianti sentendoli sulla pelle come allora e poggiata la guancia sulla tenda di velluto liscio color dell’albicocca matura scorsi d’un tratto una spirale correre sotto la finestra, girare su se stessa, divincolarsi dal banco di terra piantumato a bulbi di narciso, curvare e fermarsi in un cumulo di neve luccicante. Prendendo forma, la spirale si raccolse a cono. Al centro di quel cono si inerpicò una foglia verde, un croco neonato, e un piccolo nuovo germoglio laterale forzò il muro di freddo. Era un solo germoglio di croco, l’unico visibile. I segni avevano sempre avuto potere su di me. Ogni volta ne raccoglievo qualcuno, sapendo che avrebbe portato una nuova linfa e un nuovo presagio nella mia vita. Del croco non avrei voluto curarmi, proprio non mi pareva interessante scovare con la coda dell’occhio un minuscolo insignificante punto verde emerso dal bianco manto nevoso. O forse tentava la mia mente di volerlo, possederlo, attirarlo per non farlo fuggire via lontano, nell’oscurità del sonno? Il debutto di quella sorpresa mi ingentilì lo spirito. Non avrei voluto, ma così fu. Accettai di addobbare lo scalone dell’ingresso, mia madre non ne aveva il tempo indaffarata com’era a preparare dolci. Mi trovai così al bivio fra la discesa e la salita, impettita ai piedi di quella robusta scalinata su cui da bambina scivolavo, con i piedi a martello e il fondoschiena sul mancorrente. Dalla finestrella del pianerottolo vedevo scendere grandi sfere impazzite, soffiate da un vento bizzarro e impaziente, mentre il volant della tendina di cotone oscillava impercettibilmente. Presi a fare festoni con rami di pino, e ad ogni mazzetto legavo un fiocco rosso di raso, una pallina e alternando anche qualche pigna. Erano rametti di pino del vicino, li aveva raccolti e portati davanti alla nostra porta, infagottati in un telo di iuta, dopo aver potato il suo albero, diventato così imponente da impedire la vista sui boschi circostanti. Lavorai alacremente per tre ore. La luce era diventata cupa, spessa, quasi impenetrabile. Una coltre di nebbia fitta si era formata all’orizzonte e avanzava verso la nostra casa, camminando su piedi di ghiaccio e terra, così velocemente da far paura. Ma chissà perché, quella neve poderosa non mi inquietava e la percepivo ora in tutta la sua lievità e bellezza. Ebbi la netta sensazione che ci fossero gli Angeli a sospingere quel manto argenteo e che fossero giunti fin qui per salvarmi. Ebbi un’ intuizione, finalmente un briciolo d’allusione all’ignoto, all’insondabile, al magico della vita. Corsi alla finestra del salotto buono, scrutai le mille tessere di ghiaccio dell’aria e accesi il camino, le candele rosse, i lumi di mia nonna buonanima, conservati sul buffet di noce. E fu luce limpida.
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D’improvviso le tende si mossero vibrando come un respiro, le fiammelle tremule s’inarcarono, ondeggiando fluirono in un rivolo di fumo. Il paesaggio là fuori s’inondò di trasparenza e gioia, come quando una volta, presa dallo stupore, tenendomi ferma alla maniglia della porta di quella stessa stanza, presi a rincorrere con lo sguardo impietrito la risalita di uno scricciolo sull’abete, dopo che aveva saltato la siepe di biancospino, l’arbusto fiorito in pieno inverno protagonista delle leggende a me più care. Nell’Abbazia di Glastonbury ve ne sono molti, ricordati anche dal verso di Tennyson: “To Glastonbury, where the winter thorn blossoms at Christmas, mindful of our Lord” “A Glastonbury, dove la spina d’inverno fiorisce a Natale, memore di nostro Signore” “Buon Natale” dissi sottovoce. Fuori cadeva la neve e la sua gioia brillava. Di nuovo, nel mio cuore.
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Desy Giuffré
Bitter Blood Come petali vermigli cadenti, le gocce di sangue stillavano sul soffice tappeto di neve. Non era il dolore quello che la impauriva, ma l’essere consapevole di ciò che stava per compiere. Il vento soffiava tra i suoi capelli il triste canto della morte, note stonate in conflitto con i cori natalizi che animavano le strade principali della città. Gretel atteggiò le labbra in un sorriso di sconfitta, lasciando che il suo sguardo cadesse stanco in quella linea netta che segnava il confine tra il buio del vicolo in cui si era nascosta e il colorato mondo a festa che si apprestava a gioire del prossimo rintocco della mezzanotte. Il Cacciatore aveva mirato fin troppo bene e, adesso che le forze iniziavano a venirle meno, riusciva a capire quale macabro e terrificante significato si celasse dietro la parola sete. Con le vene dilaniate dal fuoco nero che iniziava a macchiarle la pelle, la mezzosangue spalancò gli occhi quasi spiritati, alla ricerca di una fonte che placasse i tormenti causati dalla profonda ferita al petto. Il piccolo ma affilato coltello d’argento, che il Cacciatore le aveva lanciato addosso, era quasi riuscito a sfondarle il cuore, e il fiotto di sangue diveniva sempre più copioso. Il giovane giustiziere della notte non poteva certo immaginare di aver dato vita ad una macchina assassina, colpendo Gretel. Il suo essere per metà vampiro si era risvegliato, inducendola a ricercare la sua unica fonte di sopravvivenza: il sangue. Doveva bere, e subito, se morire non era nei suoi programmi per quel Natale. Dei passi leggeri risuonarono sempre più vicini. I suoi sensi si accesero, espandendosi come un elastico che sta per spezzarsi. Finché un visino tondo e accaldato non fece capolino dall’angolo della strada, mostrandole un sorriso birichino e ruffiano. <<Gli adulti stanno accendendo un enorme falò in fondo alla strada per festeggiare la mezzanotte. Perché non ti unisci a noi, invece di startene qui tutta sola? Ci saranno canti e caramelle!>>. Concluse la bambina dai codini biondi. L’aroma intenso del suo sangue le diede alla testa. Non aveva mai bevuto prima di allora, né tanto meno ucciso qualcuno per doverlo fare. Ma era vittima della parte oscura che aveva sempre albergato in lei, unico regalo lasciatole dal padre succhiasangue che sua madre aveva avuto la malsana idea di amare. Il terrore della fine imminente stava risvegliando il suo istinto di sopravvivenza. I suoi occhi riflessero il loro bagliore di sete in quelli dell’ignara vittima. Il flusso del veleno iniziava a pervaderle la gola; era pronta per dire addio alla sua anima.
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<<Fermati!>>. La voce cava e carica di sgomento del Cacciatore fece trasalire Gretel e spaventare la bambina, la quale fuggì via correndo al richiamo del gruppo di adulti di cui prima parlava. <<Non sapevo… non potevo sapere che tu fossi per metà umana. L’ho capito soltanto alla vista del tuo sangue, e dopo aver sentito il suo sapore amaro. Non avrei mai voluto…>> Nessuna lacrima illuminava i profondi occhi neri del giovane che le si era stagliato di fronte, ma in essi Gretel riuscì a specchiarsi e a vedersi come mai prima di allora. Rabbia e gioia, sete di sangue e di libertà, un epicentro di emozioni che temette di non poter reggere per molto. <<È troppo tardi, ormai. Hai infranto l’unica speranza che ho sempre cercato di mantenere intatta, in tutto questo tempo. Il vampiro che è in me si è svegliato… si è svegliato!>> Gridò la ragazza, cadendo in ginocchio e facendo alzare in una nuvola bianca i fiocchi di neve ammonticchiati attorno a lei. Un varco di disperazione si era aperto, insieme alla ferita, nel suo petto. Poi, i deboli raggi della luna, che osservava ogni cosa dall’alto di quel vicolo stretto e freddo, smisero di donare luce alla sua vista. Alzò il volto bianco e contratto dalla sofferenza, e si ritrovò a pochi centimetri da quello del Cacciatore, adesso chino su lei e talmente vicino da poterla inebriare con il profumo acre della sua pelle e l’odore caldo e pungente del sangue che gli batteva nelle vene. <<Mordimi. Bevi il mio sangue. Te lo devo… è l’unico modo per riscattare il mio errore>>. Gretel non riuscì quasi a respirare per lo stupore causatole dalle parole dello sconosciuto. Avrebbe voluto trovare la forza di ringraziarlo, di esprimere la sua ammirazione per il gesto coraggioso che era pronto a fare, pur di rimediare allo sbaglio involontario compiuto. Ma non era più in grado neanche di muovere un arto, così riuscì soltanto a dire: <<Se non dovessi fermarmi… finisci la tua opera, Cacciatore>>. Lui annuì silenziosamente, prima di risponderle: <<So che non sarò costretto a farlo>>. Fu così che Gretel conobbe il sapore del sangue. Per ogni sorso ampiamente aspirato dai denti affondati nella carne dell’affascinante sconosciuto, sentì un’energia pura e ineguagliabile scorrerle dentro, dalla gola fino al centro del cuore. L’ampia mano di lui afferrò i suoi capelli d’ebano in un gesto di avvertimento, perché la mezzosangue potesse capire di non andare oltre, di dover arrestare la sua sete. Tutto, attorno a lei, si accese di una nuova forza, quasi sovrumana. Persino i canti natalizi in lontananza risuonavano nelle sue orecchie in note alte e veloci. Ma ci riuscì. Si fermò in tempo. E tornò in sé, accorgendosi di fare ancora parte del mondo che sin dalla nascita aveva deciso di accoglierla soltanto per metà. Il viso affilato, profonde ombre scure sotto gli occhi sorridenti, il Cacciatore cinse tra le sue braccia Gretel, soffiandole tra i capelli: <<Non avrei mai pensato di trascorrere questa Vigilia tra i morsi di un vampiro.>> Ridacchiò a stento. <<Avevi altri progetti più entusiasmanti?>>. Rispose Gretel, ricambiando l’abbraccio timidamente. <<Grazie. Questa notte hai salvato una vita.>> Finì di
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dirgli, prima che le lacrime strozzassero le sue parole. <<È Natale.>> Ribatté lui, al suono delle campane in festa. Non vi era bisogno di aggiungere altro: entrambi sapevano che da quel momento in poi, le loro vite sarebbero rimaste legate per sempre da un vincolo che va al di là di qualsiasi ragione. Candidi fiocchi di neve scesero lentamente sui loro volti, in una danza gentile che accompagnò le note del Bianco Natal espanse nell’aria fredda della notte.
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Giulia Marengo
Il Natale che vorrei La luce che piove dalle alte finestre della sala del consiglio è pallida e lattiginosa, intessuta di gelo. Fuori, si respira un’atmosfera sospesa, titubante, che sospira di neve e di ghiaccio. Rabbrividisco e mi stringo le falde del mantello di morbido velluto, nero come il peccato, che mi cinge le spalle. Anche se la stanza è calda, e un fuoco vivace danza nel camino, sotto al mantello indosso solo un abito leggero di seta bianca, e l’inverno tedesco mi ammanta la pelle di brividi. Sono rinchiusa in questa stanza da ore, per esaminare tutti i provvedimenti che Menno, il viceré, ha elaborato per il nuovo anno. E poi ci sono i documenti da ratificare, le lamentele a cui prestare orecchio, le richieste da onorare. Ho dovuto imparare a domare la mia naturale impazienza, e l’unico segno esteriore del mio desiderio d’evasione è il ritmico tamburellare contro la gamba della poltrona del piede calzato nella morbida pianella. Mentre Menno continua a parlare, incurante della mia disattenzione, il mio sguardo vaga altrove, soffermandosi brevemente sulle persone sedute intorno al tavolo ovale. Se oggi sono qui, in questa sala, a svolgere il compito che mi spetta per diritto di nascita, lo devo a tutti loro. Molte volte ho tentato di esprimere la mia gratitudine, ma le risposte che ricevo più spesso sono una voce gentile e una scrollata di spalle. «Abbiamo fatto solo il nostro dovere», ripetono. Dal mio punto di vista, hanno rischiato tutto per una giovanissima sconosciuta, mettendo il destino di tutti loro nelle mie mani inesperte. Balder e suo figlio Matthias siedono l’uno accanto all’altro, le teste vicine chine su una cartina della città. La rassomiglianza fra loro è impressionante, tanto da strapparmi un sorriso. Christoph, il vecchio consigliere, ascolta Menno con aria corrucciata. Ma Christoph ha sempre quell’espressione, a prescindere dall’oggetto della discussione. Nei mesi passati, ho scoperto che dietro l’aspetto decrepito si cela una mente ancora affilata come la lama di uno stiletto. Indugio, sfiorando con le dita pigre del mio Dominio i suoi pensieri. Come immaginavo, la sua mente tradisce il suo passato militare, organizzata come il piano di battaglia di un generale. Le altre sedie sono vuote. Melusine, per una volta, si è astenuta dal partecipare, e in silenzio tiro un piccolo sospiro di sollievo. Quella donna ha fatto del rendermi la vita un inferno la sua crociata, e ogni minuto strappato alla sua sgradevole compagnia è da considerare raro quanto prezioso. Infine, i miei occhi si posano di nuovo sulla persona che calamita irrimediabilmente la metà dei miei sguardi. Jan è in piedi, di spalle, e osserva pensoso il panorama fuori dalla finestra. Tiene le mani allacciate dietro la schiena, e le lunghe dita aggraziate da musicista accarezzano piano le nocche. Come spesso accade, veste di blu, un morbido maglione di cachemire indossato sopra pantaloni di
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lana grigia. Da quando gli ho detto che il colore gli dona, raramente indossa altre tinte. Anche l’aura del suo Dominio della Materia mi appare di un lucente blu elettrico, serico ed elegante. La mia Ombra sembra percepire il mio tocco, perché si volta appena, un angolo delle labbra sollevato in un mezzo sorriso. Come sempre, quando incrocio i suoi occhi color caramello, il mio cuore perde un battito. Il fatto che non possiamo mostrare in pubblico il sentimento che ci lega non lo rende in alcun modo meno intenso. Anche se Melusine non è presente per controllare che nulla di più di un educato rapporto di cortesia intercorra fra me e la mia Ombra, questo distacco forzato mi fa soffrire. Jan e io siamo seeleverwandte, anime gemelle, legate dal filo indissolubile del karma, ed essere così vicini, ma allo stesso tempo separati da un baratro fatto di convenzioni sociali e ruoli e… «…Kaiserin?» Sobbalzo, distogliendo di scatto l’attenzione di Jan e voltandomi verso Menno. Mi rendo conto che il viceré deve aver chiesto la mia opinione su qualcosa di importante, perché tutti i presenti mi stanno osservando arrossire. «Chiedo scusa, Menno», abbozzo, cercando di non suonare troppo sorpresa. Di che cosa diamine stavano parlando? Matthias, nascondendo un sogghigno, si allunga attraverso il tavolo per far scivolare verso di me un foglio. Colgo la parola «Natale». Ah. Naturalmente. Essere la Voce del Dominio e Kaiserin del Gemeinschaft, oltre alla responsabilità di governare la comunità di changeling di tutta la Germania, significa che a soli vent’anni ho dovuto dire addio a ogni istante di vita privata. Sono costantemente circondata da gente, che mi aiuta, certo, ma anche che mi giudica e mi controlla, giorno dopo giorno. Persino durante le festività, quelle ore che fino a un anno fa avrei dedicato ai miei genitori adottivi, e alle persone care, adesso sono diventate un affare di Stato. Niente Natale in famiglia, per me. Non mi sveglierò accanto all’uomo che amo, e non scarteremo assieme i regali, rannicchiati accanto all’albero decorato con i biscotti di panpepato. Naturalmente, il mio disappunto resta ben celato sotto un’espressione di composto interesse. Getto un’occhiata veloce all’elenco di appuntamenti natalizi. Incontro con il viceré della comunità italiana. Colloquio formale con il Consiglio. Cena di beneficenza. Ballo in maschera. Trattenere una smorfia mi riesce sempre più difficile, considerando quanto più facilmente resterebbero piene le casse del Gemeinschaft se ognuno se ne stesse a casa propria. Eppure, a quanto pare un governante deve talvolta concedere anche all’apparenza. «D’accordo», mormoro. Allungo una mano, e Menno mi porge il sigillo, che affondo con attenzione nella ceralacca bollente. La testa di lupo, simbolo del Kaiser, adorna ora il programma per le festività, rendendolo ufficiale. Va bene, ora è troppo. Sono chiusa qui da ore, e non ne posso più. Allontanando i fogli mi alzo, quasi saltando giù dalla sedia, e tutti gli astanti imitano il mio movimento.
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«Signori.» Il tono è lo stesso che uso sempre con i consiglieri, calmo e posato. Dentro sto fremendo d'impazienza. «Ci aggiorniamo a domattina. Ho un terribile mal di testa, e vorrei riposare». Il volto di Matthias si tinge immediatamente di preoccupazione, ma lo rassicuro con una strizzata d'occhio da dietro le spalle di Menno. Jan è immediatamente al mio fianco, aprendo la porta per lasciarmi uscire. Passando accanto a lui, non posso fare a meno di inalare profondamente quel profumo di cannella e qualcos'altro che lo contraddistingue. Ma non mi è concesso soffermarmi, e quindi affretto il passo, diretta verso i miei appartamenti. Non appena metto piede nel corridoio, accanto a me si materializzano due enormi sagome grigie. Geri e Freki, i lupi del Kaiser, mi proteggono tanto quanto Jan, e la sola vista delle grosse bestie è in grado di incutere sincero terrore nell'animo dei più. Ma io non posso fare a meno di dare una grattatina dietro alle orecchie di Freki, mentre suo fratello mi rivolge uno sguardo adorante. I lupi obbediscono solo alla Voce del Dominio, e con me sono arrendevoli come cuccioli. Il tragitto lungo il corridoio, e poi giù per le scale, trascorre in silenzio. Sono nervosa, ma credo che nessuno, a parte la mia Ombra, sia in grado di percepirlo. Sono diventata molto brava a celare i miei pensieri. Per un momento spero di riuscire a raggiungere le mie stanze senza intoppi, ma ahimè, davanti alla porta mi attende Lea, la madre di Matthias. Da quando sono ascesa allo scranno del Dominio la donna, che ricorda con tenerezza mia madre, ha preso a cuore il compito di istruirmi sulle leggende e sul passato della comunità. Così, mentre le mattinate le trascorro in compagnia di Menno, china su trattati di economia, bilanci, e aspetti sociopolitici, il pomeriggio è appannaggio di Lea, che racconta per ore con voce gentile. Ma non questo pomeriggio. «Perdonami, Lea, ma non me la sento di continuare. Ho un cerchio alla testa, e preferirei stendermi al buio per qualche ora», le annuncio, alzando un palmo in segno di scuse. La donna è immediatamente al mio fianco, e appoggia una mano fresca sulla mia fronte, scostando la frangetta bionda. «Fammi sentire. Non sembra che tu abbia la febbre. Ma sì, è meglio che tu riposi. Vuoi che ti tenga compagnia?» Assolutamente no. «No, ti ringrazio. Dormirò un po'». La madre di Matthias tentenna, poi cede con un sospiro. «Va bene. Ma manda a chiamare se ti occorre qualcosa». La ringrazio con un sorriso. Potrò anche essere la Voce del Dominio e il capo supremo della comunità, ma Lea continuerà sempre a trattarmi come una nipote preferita. Sulla soglia, mi volto verso Jan. «A più tardi», mormoro. I suoi occhi lampeggiano, d'un tratto più scuri. Si passa una mano sulla corta barba bionda, un gesto che ripete spesso. «A più tardi». La porta non si è ancora rinchiusa alle mie spalle, che il mantello casca a terra con un fruscio. Attraverso di corsa il vestibolo, scalciando via le pianelle, e mi precipito verso la stanza da letto. L'abito in seta segue lo stesso destino del mantello
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mentre mi tuffo a frugare nei cassetti. Un maglione rosso, a collo alto. Un paio di jeans. Stivali di camoscio. La seconda fase è più difficile, perché io padroneggio il Dominio del Pensiero, e i meccanismi del Dominio del Corpo mi sfuggono per la maggior parte. Osservo con attenzione la mia immagine nello specchio. I capelli biondi e lisci, che sfiorano le spalle, si allungano lentamente e si fanno più scuri. Al posto della frangia, adesso un ciuffo ricade sulla tempia. E gli occhi, quegli occhi un po' nocciola e un po' verde bosco che mi piacciono tanto, ora mi restituiscono uno sguardo plumbeo come le nuvole fuori dalla finestra. Mantenere l'illusione è difficile, e chi mi conosce non tarderebbe molto a riconoscermi. Ma a un'ispezione sommaria potrei passare per una sconosciuta. In un turbine, lancio l'iPhone nella borsa e mi imbacucco stretta nel mio piumino grigio. Un basco dello stesso colore mi nasconde i capelli, la cui acconciatura mi lascia ancora vagamente perplessa. Ma tant'è. La porta a vetri si apre con un sospiro sommesso, e il profumo di gelsomino che cresce nel giardino d'inverno di mia madre mi accarezza suadente. Non ho tempo però per indugiare fra i petali bianchi, così mi inoltro nel cortile. Dall'altro lato, una porticina occhieggia quasi nascosta. Ho dovuto pressoché corrompere Matthias per convincerlo ad aprire quell'anfratto per me. Un cigolio, e mentre la porta si richiude alle mie spalle l'oscurità mi inghiotte. Le mie dita tremano quando sfioro l'interruttore, e mi lancio giù per le scale di corsa. Non guardo la stanza che si apre sulla mia sinistra, la ignoro completamente – devo farlo, o sarò perduta. Ora sto fuggendo, il fiato corto, lungo il corridoio e su per i gradini dall'altra parte. Non riesco a respirare. E' stata una cattiva idea. Non dovevo tornare qui, Jan aveva ragione. Non voglio pensare, non posso, non posso... Esplodo in strada, grata che la serratura ceda docile sotto le mie mani, e impiego qualche istante a ricompormi. Una singola goccia di sudore gelato rotola giù per le mie vertebre. E poi i ricordi svaniscono, e un primo, timido fiocco di neve mi bacia la punta del naso. Affretto il passo, e in pochi minuti sto correndo ancora, giù per Breite Straße, scansando i passanti. Mi lancio, la sciarpa che si tende alle mie spalle, attraverso Hohe Straße, e ancora oltre. Solo quando raggiungo la grande Domplatz mi fermo di botto, ansante. La chiesa, la più alta e maestosa d'Europa, domina la piazza, sfidando con i pinnacoli aggraziati il cielo gravido di neve. Al suo cospetto, centinaia di persone gremiscono il selciato. Sorrido come una bambina, portando le mani al volto per scaldare un poco le guance intirizzite. Mi riempio gli occhi di quel grandioso spettacolo che ho assaporato ogni Natale della mia vita. Mille e mille luci dorate si arrotolano e palpitano attorno alle bancarelle del mercatino, cariche di decorazioni e dolciumi. Il profumo speziato di glühwine, il vino caldo, mi inebria, e allargo le braccia, girando lentamente su me stessa.
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Dalla borsa proviene il pigolio di un sms. «Ma quanto sei bella?», scrive Jan. Mi mordo un labbro, voltandomi a cercarlo fra la folla. Ed eccolo lì. Avanza verso di me con passo deciso, le mani affondate nelle tasche del giubbotto di pelle. Al collo porta una sciarpa turchese, e so che quando la toglierà ci saranno decine di piccoli pelucchi dello stesso colore attaccati ai suoi abiti. I capelli corti, color biondo scuro, sono un po' scompigliati, e l'espressione è seria, concentrata. Un sorriso sale a illuminare gli occhi color caramello e li contorna di piccole rughe di ilarità. Non posso farne a meno. Gli corro incontro e gli getto le braccia al collo, stringendomi forte contro di lui. Sono senza fiato, e sento una risata rotolare fra noi. Mi scosta un poco, per osservarmi con aria critica. «I capelli scuri ti donano», osserva. Poi sospira. «Ah, Lexie, davvero non so come hai fatto a convincermi». Gli offro un sorriso ribaldo. «Tutto è lecito...» «... in amore e in guerra, lo so», conclude. «Andiamo, stellina». Mi afferra la mano, e anche attraverso i guanti la consueta sensazione di vertigine, di instabilità, mi mozza il fiato per un momento. Lentamente, ci incamminiamo verso il mercatino. L'aria si è fatta più fredda, e ora centinaia di fiocchi leggeri danzano timidamente, scherzando con i cappotti dei turisti. Davanti a Früh am Dom, il celebre locale, si è raccolto un capannello di avventori, e all'orecchio mi giungono le note del violino di un artista di strada. Riconoscere la melodia è facile. «I'm dreaming of a white Christmas, just like the ones I used to know...» La limpida voce di contralto mi strappa un sorriso. In coda per una tazza di glühwine, stretta a Jan e respirando il suo profumo, mi rendo improvvisamente conto di sentirmi felice. Io sono Alexandra, Voce del Dominio. Sono Kaiserin del Gemeinschaft di Colonia e capo supremo della comunità dei changeling. Domattina, al mio ritorno, mi attendono fastose celebrazioni, e interminabili incontri con le più elevate personalità della comunità. Ma oggi, la mia identità celata dal potere del mio Dominio, sono solamente Lexie, una ragazza come tante, mano nella mano con l'uomo che ama. Trascorrere il Natale al suo fianco mi è negato da mille crudeli ragioni. Eppure ora, in questo giorno qualunque, che non è quello giusto, finalmente sto vivendo il Natale che vorrei.
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Gabriella Parisi
Una musica travolgente Clairion esitò davanti alla porta: aveva dimenticato il suo spartito nella sala, ma, sbirciando dentro, aveva scorto Dorelys con il suo maestro Wendell. Stavano ripetendo i passi dell’ultima lezione e la fanciulla chiedeva delucidazioni. Gli faceva uno strano effetto, quella ragazza, davvero strano. Ogni volta che la vedeva gli si formava nella mente un accordo dissonante, un’accozzaglia di note assurde che gli si imponevano prepotenti fra i pensieri; volevano uscire fuori, manifestarsi sui suoi spartiti, sul suo strumento, il clavicordo, ma erano talmente al di fuori dagli schemi della musica standard che gli si richiedeva, da risultare quasi blasfemi. Una volta aveva provato, nascosto in una vecchia sala prove dimenticata, fra strumenti scordati, ance rotte e ragnatele, a suonare quegli accordi, a scriverli sullo spartito. Il suono del clavicordo, abbandonato da chissà quanti decenni, era uscito fuori diverso da quello che Clairion aveva avuto in mente guardando Dorelys, e lo aveva fatto spaventare. Dio mio, cosa mi passa per la mente? Davvero ho questa cacofonia nel cervello? Di questo passo non supererò mai l’esame per diventare musico di Corte! E un esame si avvicinava, non quello definitivo, ma quello del Solstizio d’Inverno, una prova preliminare in cui avrebbe dovuto presentare una sua composizione, un brano che si potesse eseguire per l’Accademia dei Danzatori. Ma quando ci pensava Clairion aveva nella sua mente solo il viso di Dorelys e quegli accordi… stonati. Eppure, nemmeno gli piaceva quella ragazza… O meglio, non la guardava neppure. La prima cosa che ti insegnavano quando entravi nell’Accademia dei Musici di Corte era proprio questa: “Eseguire e non guardare. Occhi sullo spartito. I danzatori sono una razza a parte. Fate finta che parlino una lingua diversa dalla vostra, come infatti è: voi parlate con lo strumento, loro parlano con il corpo ed il movimento.” E Clairion non aveva mai guardato. Mai. Ma bastava la presenza di Dorelys per percepire quelle strane vibrazioni che evocavano la cacofonia. Ж Dorelys ascoltava nella saletta attigua alla sala prove. Quel ragazzo non si era accorto della sua presenza, ed un bizzarro senso di discrezione, o forse proprio di curiosità, l’aveva tenuta bloccata lì, con l’orecchio all’erta, pronta a cogliere suoni e rumori per scegliere il momento opportuno per defilarsi. Ma quel momento sembrava non arrivare mai. Immersa nei suoi sogni ad occhi aperti, aveva immaginato il suo esame del Solstizio d’Inverno, un assolo – esibizione piuttosto rara fra i danzatori, che di solito
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si dedicavano a danze di coppia o di formazione – in cui immaginava di eseguire dei movimenti insoliti, quasi rivoluzionari per le danze dell’Antico Regno, sinuosi, ma non volgari, animaleschi e nel contempo eleganti. Ma quando pensava ad una musica su cui eseguirli, nella sua mente c’era solo il silenzio. E adesso nella stanza accanto quei rumori – ma erano note? – la stavano facendo distrarre dalla sequenza di movimenti che immaginava. Però, che strani suoni! Non ne aveva mai uditi di simili. Forse avevano inventato un nuovo strumento? Si avvicinò alla porta e sbirciò il ragazzo che suonava. Come si chiamava? Ah, sì, Clairion. Era quello che sembrava guardarla in modo strano. O forse era proprio Clairion ad essere strano, a giudicare dalla musica che stava eseguendo al clavicordo! Dunque non era un nuovo strumento, ma un nuovo utilizzo che il ragazzo ne faceva. La musica non era bella, ma… Quelle note discordanti sembravano lanciarle un richiamo. Ripensò alla sequenza di movimenti che aveva immaginato e si rese conto che quella era la musica più adatta per eseguirli. Cominciò a provare. Piano, non doveva far rumore… Ж Clairion si era arreso: nessun’altra musica gli passava per la mente. Aveva provato a comporre altri brani, ma tutto era così scontato e banale dopo aver udito (nel suo cervello) gli accordi dissonanti che Dorelys gli ispirava. Aveva deciso: li avrebbe buttati giù e li avrebbe suonati una volta per tutte, con un gesto catartico. Poi forse si sarebbe liberato da quei suoni che lo tormentavano e sarebbe riuscito a comporre qualcosa di diverso, di più adatto. La sala prove era libera, per fortuna: tutti si erano spostati nella grande sala per la cena, anche i suoi compagni affamati per il lungo protrarsi delle prove. Gli esami erano alle porte e tutti sfruttavano il loro tempo al meglio. La cena veniva quindi servita un po’ più tardi, ed ora Clairion era certo di avere la sala tutta per sé: la stanchezza e la fame avrebbero tenuto lontani sia musici che danzatori. Seduto al clavicordo cominciò prima timidamente, poi con più coraggio a suonare il suo pensiero ricorrente, anzi, il suo pensiero ormai fisso. Quella strana musica lo aveva rapito: se qualcuno fosse entrato in quel momento, non sarebbe più riuscito a fermarsi, avrebbe continuato a suonare e probabilmente tutti lo avrebbero considerato un pazzo per il fervore con cui si agitava sui tasti producendo quelle note abbinate in maniera così assurda, così discordante, così… naturale? Ma sì, ormai per lui quella era musica, la sua musica. Sgorgava naturalmente da lui, come un ruscello sgorga dal ghiacciaio al disgelo, e allo stesso modo travolgeva tutto ciò su cui passava. L’acqua come la musica. Travolgente e sconvolgente.
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PATABUM! CRASH! Che c’è? Che è successo? Chi c’è? Un rumore dalla saletta accanto interruppe il corso della musica. Clairion, turbato, si fermò con le mani a pochi centimetri dalla tastiera, immobile, lo sguardo verso la saletta. Dorelys, rossa di vergogna, attraversò di corsa la sala prove, senza neanche alzare lo sguardo su Clairion, senza un minimo cenno di saluto o di scusa. Aveva origliato la sua musica e si sentiva come se lo avesse spiato mentre si spogliava nella sua stanza. Peggio, perché ascoltando quella musica che non era destinata alle sue orecchie, aveva visto la sua anima nuda, non il suo corpo. Ж La Commissione era pronta. Clairion entrò rassegnato nella sala. Aveva provato a comporre qualcosa di diverso, ma i suoi pensieri erano galvanizzati da quei nuovi suoni e qualsiasi brano cominciasse ad intonare, mantenendo una melodia più standard, presto veniva risucchiato come in un gorgo verso lo stile che quella danzatrice, Dorelys, gli ispirava. Lei era lì, lo sapeva, l’aveva vista mentre entrava nella sala dell’esame, seduta fra le altre danzatrici, curiosa di sentire le composizioni che, forse, in futuro avrebbe potuto danzare. Ma sulla sua certo non nutriva alcuna curiosità: lo aveva già ascoltato ed era fuggita via, confusa e forse disgustata. Sedette davanti al clavicordo ed iniziò ad accennare la sua composizione senza convinzione, sicuro di non riuscire a passare l’esame. Poi, come sempre gli succedeva quando entrava nella sua musica, gli accordi e le note gli presero la mano, trasportandolo nel loro vortice irresistibile. Gli esaminatori lo guardavano allibiti: non riuscivano a credere alle loro orecchie, non avevano mai udito niente di simile. Alcuni addirittura cercarono di non ascoltarlo più, manifestando apertamente il loro disprezzo per quella melodia così poco conforme agli standard richiesti. Clairion arrivò stremato in fondo al brano. Sapeva che non avrebbe mai passato l’esame, tuttavia era certo che quella musica fosse la sua nuova strada, l’unica che vedeva davanti a sé. Il consulto durò molto più del previsto. «Entrate, allievo musico Clairion.» lo chiamò il custode della Confraternita. Il Gran Maestro si schiarì la voce, guardandolo con aria grave. «Allievo Clairion,» esordì. «Oggi abbiamo inteso una musica che non si può neanche definire tale, un’accozzaglia di suoni e rumori che aveva meno melodia del verso di un animale. Speriamo, nel vostro interesse, ed in quello di tutta la Storia della Musica dell’Antico Regno, che non vi sogniate di riproporre mai più niente di simile.»
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«Tuttavia,» intervenne sollecito il maestro Gandal, colui che aveva istruito Clairion, l’unico che si era battuto per l’allievo in merito all’esito dell’esame. Il Gran Maestro lo guardò torvo, seccato dall’interruzione. «Tuttavia,» si affrettò ad aggiungere, sperando di non venire più interrotto. «Il vostro valore di esecutore, ed i risultati dei precedenti esami, ci spingono a darvi un’ulteriore possibilità. Ottimo esecutore, ma pessimo compositore, ahimè. Ci auguriamo pertanto che, fino a quando il vostro gusto per l’armonia non si sia affinato, vi limitiate ad eseguire. Il vostro esame è stato appena sufficiente, dunque, ma, per ora, potrete rimanere a studiare nell’Accademia.» Clairion non sapeva se essere soddisfatto o disperato per quell’esito. Ж La commissione aveva decretato: appena sufficiente. Dorelys aveva provato i suoi movimenti sinuosi su altre musiche, diverse da quella di Clairion, ma sui brani standard la sua danza appariva ridicola, oppure troppo sensuale, inadatta ad una fanciulla della sua età. Alla fine aveva scelto un classico ed aveva limitato i suoi movimenti, che così erano apparsi poco fluidi e per niente spontanei. Wendell, il suo maestro, non era stato affatto soddisfatto dal risultato. «Sembravi legata, Dorelys! E sembrava che avessi dimenticato tutto ciò che abbiamo studiato. L’equilibrio è importante, lo so, ma non devi aver paura di esagerare e, se possibile, anche di cadere. Le tue doti sono evidenti, ma devi tirare fuori ciò che hai dentro di te, senza trattenerti.» Dorelys lo ascoltò, consapevole della veridicità di ciò che diceva il suo insegnante. Aveva avuto paura di osare, paura di mettere in pratica qualcosa di nuovo, di diverso. Al contrario di Clairion. Lo ammirava per la sua scelta. Aveva eseguito la sua musica nonostante sapesse che era troppo innovativa, troppo diversa. Avrebbe voluto farglielo sapere, ma musici e danzatori non oltrepassavano mai quella linea immaginaria; eppure temeva che, se qualcuno non avesse espresso a Clairion il suo apprezzamento, il ragazzo avrebbe abbandonato quello stile musicale così insolito, ma anche così ipnotico, e Dorelys avrebbe voluto invece danzare ancora su quelle note… Ж Caro Diario, la festa del Solstizio ieri sera è stata molto diversa da come l’avevo immaginata. Per prima cosa… i risultati degli esami non sono stati quelli che avrei voluto… Beh, lo sai, sono una fifona, e non ho voluto rischiare. E poi la musica che avevo scelto non mi ispirava proprio!
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Insomma, Wendell diceva che avrei potuto puntare ad una ‘A’, ed invece mi è toccata una ‘C’ striminzita! Sono delusissima, ma più da me stessa che dall’esito in sé. Invece, sapessi che coraggio quel Clairion! Ha suonato davvero quella composizione che sembrava fatta da una serie di accordi stonati. Ma lo sai che, al secondo ascolto, lo si nota molto meno? È come se diventassero ‘familiari’ all’orecchio. Mi sembrava come se quella musica fosse magica, anche se Liesel continuava a sussurrarmi: “Ma sembra un miagolio di gatti feriti!” Bah, sarò strana anch’io, ma a me piaceva! Poi, ieri sera, durante la festa, ho visto che Clairion era più abbattuto di me, poverino: ha rischiato addirittura l’espulsione, sai, per aver suonato quella musica all’esame! Lo so, lo so che non dovrei rivolgermi ai musici, se non per richiedere – seguendo l’etichetta, ovviamente – il brano che vorrei danzare, ma io volevo dire a Clairion che mi sarebbe piaciuto danzare sulla sua musica e che, anzi, se avessi fatto l’esame con il suo brano, avrei avuto sicuramente un risultato migliore. Insomma, per una volta in vita mia ho preso il coraggio a quattro mani ed ho osato! Ho approfittato del fatto che Conrad stava danzando con Leisel, ed ho fatto finta di andarmi a rinfrescare. Avevo visto che Clairion era appena uscito. L’ho seguito: era entrato nella sala prove deserta e si era seduto al clavicordo. Non credo avesse intenzione di suonare: aveva un’aria smarrita, distrutta, come se non sapesse più che fare della sua vita. Chissà cosa gli aveva detto la commissione d’esame per quella sua composizione, anche se avevo sentito che tutti i musici avevano superato la prova del Solstizio. Insomma, sono entrata e gli ho rivolto la parola. «Ciao, sono Dorelys, ti chiami Clairion, vero?» Ha alzato gli occhi su di me. Erano profondi, avvolgenti come la sua musica: dopo la prima volta che imparavi a conoscerla quasi ti risucchiava. Ed i suoi occhi mi hanno letteralmente risucchiata: non ho più avuto paura, e mi sono ritrovata a parlargli come se fosse la cosa più naturale del mondo. Clairion ha continuato a guardarmi con aria diffidente, forse temeva che volessi prendermi gioco di lui. Ma io gli ho sorriso cercando di essere rassicurante. «La prima volta che ho ascoltato la tua musica mi è sembrata… beh, strana. Non brutta, ma strana.» Clairion ha storto la bocca in una smorfia, ma non gli ho dato il tempo di ribattere. «Ma al secondo ascolto direi che è davvero notevole… beh, notevole lo era già prima… intendo dire che… mi piace!» Clairion ha sbarrato gli occhi incredulo, come se la sua musica non potesse piacere
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a nessuno, neanche a lui. «E volevo chiederti se potessi provare a suonarla di nuovo per me. Credo che sarebbe perfetta per il genere di effetto che vorrei ottenere con la mia danza.» «Senti un po’, danzatrice,» mi ha apostrofata con un’aria sprezzante, ma in cui si percepiva un fondo di dolore. «Sono stato diffidato dal comporre ed eseguire il mio genere di musica.» Un breve sospiro irritato. «E non mi va di contravvenire all’ingiunzione per un tuo capriccio.» Ancora un sospiro, questa volta lungo e sofferente. «E poi noi non dovremmo parlare. Io sono un musico. Tu una danzatrice. Stop.» «Sì, lo so, le regole… Ma tu oggi hai fatto qualcosa al di fuori dalle regole, suonando la tua musica, perché forse lo sentivi dentro di te, nel tuo cuore. Sei stato coraggioso e volevo dirti che ti ammiro per questo. Pazienza se non vorrai suonare per me…» Ho pronunciato questo discorso quasi in apnea, temendo che il coraggio mi venisse meno. A quel punto mi sono sentita molto meno spavalda, avevo una gran voglia di piangere, così mi sono girata e sono corsa via ma, giunta sulla porta, ho sentito che Clairion aveva iniziato a suonare la sua musica. Lo stava facendo per me! Il cuore mi ha fatto un balzo nel petto. Ma lo sai che mi sembrava ancora più bella? Forse è questo il suo segreto: è una musica che va ascoltata ed ascoltata ancora. Poi, nota dopo nota, comincia a travolgerti, ti chiama ipnoticamente a sé e ti chiede, anzi no, ti impone di danzare. Ed io non ho saputo resistere: ho cominciato ad eseguire tutte le figure che avrei voluto fare all’esame senza averne il coraggio. La musica mi attirava a sé, dandomi nel contempo forza, equilibrio e libertà di movimento, come non li avevo mai provati prima. Clairion mi guardava… affascinato? Non so se la mia interpretazione fosse corretta, comunque ha continuato a suonare guardando me, e non il clavicordo o lo spartito, come di solito fanno i musici. E, ad un certo punto, ci siamo accorti che non eravamo più soli: un po’ di gente era entrata nella sala, non so chi fossero tutti. Ma non credo che riuscirò mai più a dimenticare la bocca aperta di Leisel ed il sorriso compiaciuto di Wendell!
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Francesca Rossi
Le piccole avventure di una pallina di Natale Forse oggi è il gran giorno. Sento dei passi familiari che si avvicinano alla nostra scatola. Sarà davvero cosi? Siamo tutte in trepidante attesa. I passi si avvicinano. Si, qualcuno ci solleva! Ma non cosi forte! Aiuto, ROTOLO! Ecco, lo sapevo sono andata ad urtare quell’antipatica pallina rosa e presuntuosa. Solo perché è di vetro, crede di essere più bella di noi, semplici palline di plastica. Ma chi è che ha sollevato questa scatola? Ci sta sballottando di qua e di là… Mi gira la testa! E tu, odiosa pallina di vetro, che hai da guardarmi furibonda attraverso le sue insipide decorazioni dorate applicate? Sei troppo appariscente e grande. Sei grassa. E comunque non ti ho urtato di proposito, non vedi che traballiamo tutte neanche fossimo in alto mare? Questo terremoto non finisce mai? Amiche mie aggrappiamoci con i gancetti ai festoni! Perfida pallina di vetro, vicino a me dovevi metterti? Un momento: forse ci stanno posando a terra. Prepariamoci a planare sul tappeto morbido... AHI! Che tonfo! Non era il tappeto, erano mattoni! State tutte bene palline e decorazioni? Mi fa piacere sentire di nuovo il vostro allegro vociare. Quando apriranno la scatola? Pallina di vetro sei perfida! Mi hai urtato di proposito! Stai attenta, potresti romperti. Anzi, ci penso io a ridurti in mille pezzi! Mi sposto verso di te in tutta la mia rotondità, non hai scampo! Ecco che aprono la scatola! Stupida pallina, la mia vendetta è solo rimandata. Evviva ci tirano fuori! Natale è arrivato! Che bello essere di nuovo tutte qui insieme e vedere ancora i pezzi del presepe e la casa. Quanto tempo! Un anno è lungo, soprattutto quando bisogna stare zitte e buone dentro un'anonima scatola marrone in fondo ad una grande cantina scura. Passiamo il nostro tempo in un magico letargo, sognando il prossimo Natale, ma talvolta ci risvegliamo per chiedere alla scatola in che momento dell’anno siamo. La scatola è il nostro tramite con il mondo esterno. E’ lei a girare la nostra domanda alla finestra della cantina, che puntualmente risponde, grazie ai suoi occhi sul mondo là fuori. Quando inizia l’autunno cominciamo ad entrare in agitazione e dormire diventa impossibile. Ora siamo di nuovo al nostro posto, sull’albero e guardiamo il grande salone della casa. Non è cambiato nulla. In realtà sono le persone che ci appendono ai rami ad essere leggermente cambiate: la mamma ha un nuovo taglio di capelli, il papà è un po’ più vecchio dello scorso anno, la figlia è ormai una giovane e bella ragazza. Devo chiedere ai soprammobili vicino a me; sicuramente loro potranno aggiornarmi su tutte le notizie e i fatti accaduti in questi lunghi mesi. Cosa mi
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dicono? Il figlio maschio ha avuto una bimba! Meraviglioso! Allora vedremo presto la nuova arrivata! Dove è stata messa quella prepotente pallina di vetro? Ah, eccola lì, al centro dell’albero, posizione privilegiata. Come al solito. E pensare che lei è tra noi da solo un anno, mentre qui ci sono palline che hanno anche dieci anni, se non di più. Ne hanno, loro, di storie da raccontare. Per fortuna ora ognuna di noi ha il suo posto. La casa è tutta decorata con presepi in miniatura e ghirlande. Chi vedo laggiù? Oh no! Il gatto bianco! Quest’anno, poi, è più grasso del solito! Via gattaccio stai lontano da qui! Amiche mie, tranquille e tenetevi ben salde ai rami. Ecco quel nasone umido che si avvicina! No, ti prego non metterlo sulla mia faccia! Ah che schifo! Meno male, si sta allontanando. Gatto? Che fai? Dove vai? No, sotto l’albero no, ti prego, non scuoterlo! AIUTO! Ma dove sono i padroni di casa? Fermo palla di pelo, ci farai cadere tutte! In un attimo vedo il puntale blu precipitare dall’estremità dell’albero e cadere rovinosamente sul presepe. Puntale sei ferito? Sembra di no, ma il gatto vuole giocare con lui. Oh povero puntale! Lo sta facendo rotolare per terra. Finalmente è arrivata la mamma! Rimprovera quel gattaccio e che non torni mai più! La famiglia ora è riunita nel salone. Stanno apparecchiando la tavola per il cenone. Che bei momenti. Il papà, intanto, sta sistemando i regali sotto di noi. Le scatole colorate ci mostrano i loro sorrisi smaglianti. Sanno di contenere i regali desiderati. Suonano alla porta. E’ il figlio con sua moglie e la sua bambina. Tutta la famiglia è intorno alla piccola. La chiamano Eliana. Che nome dolce. Lei, però, non li guarda, perché ha già visto tutti noi. Forza presepe! Forza palline! Scintillate tutti! Lucette illuminateci come non avete mai fatto. Puntale stai un po’ più dritto. Capisco che dopo l’attentato del gatto tu sia un po’ disorientato, ma questo è il nostro momento! Eliana si avvicina. E’ in braccio a sua madre, tutta vestita di rosa, le braccine tese verso di noi. Che gioia! Vuole acchiapparci. La mamma le fa appena sfiorare la perfida pallina di vetro e mi pare di vedere anche sul volto solitamente senza espressione di quella brutta decorazione rosa, una espressione di tenerezza. Ma allora anche questa cattivona ha un cuore dentro a quella mostruosa rotondità dipinta! Eliana sfiora me ora. Che manine piccole e delicate! La piccola non vorrebbe venir via di qua, ma i nonni la chiamano. E’ ora di cena. Più tardi la vedrò scartare i suoi primi regali. Che emozione! Questa è la magia del Natale: lo sguardo innocente di un bambino e, perché no, la bellezza di noi decorazioni, anche quelle più appariscenti, che hanno ancora tanto da imparare da noi, sobrie decorazioni di plastica. E’ per questo che esistiamo: dar gioia agli occhi e colorare l’atmosfera della gioia del Natale.
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Petra Zari
Il fiocco di neve Bianca rabbrividì, accartocciandosi come una foglia d'Autunno. Avvertiva il tremore della propria pelle a contatto con l'alito del gelo. Al buio, spronò le mani infreddolite e reticenti alla ricerca delle coperte. Fatica inutile: non v'era traccia né di queste, né del letto su cui rammentava di essersi addormentata poco prima. <<Ma cosa diamine...?!>> tentò, arrestandosi a metà frase sorpresa di non aver udito il suono della propria voce. <<Sono senza voce, maledizione!>> riprovò senza alcun miglioramento, e istintivamente portò una mano alla gola, scoprendo poco sotto il profilo esagonale di quello che ipotizzò essere... un ciondolo? Possibile che stesse sognando? Decisamente qualcosa era cambiato dal più recente ricordo. Era rientrata a casa stanchissima, reduce dall'ultimo caotico giorno di lavoro prima delle ferie natalizie, e aveva cenato con un tè e pochi biscotti, senza neanche accendere la TV. Dopo una doccia caldissima, era riuscita a recuperare le energie necessarie per leggere l'ora e mezza successiva, sotto lo sguardo attento e, dopo poco, del tutto assente del gatto, che l'aveva convinta, infine, della piacevole attrattiva di una dormita ristoratrice. Un tremito la riscosse dai suoi pensieri, riconducendola al presente. Se quello era un sogno doveva averne la prova! Lanciò letteralmente il braccio alla sua destra nel vuoto alla ricerca dell'interruttore dell'abat-jour e, come sospettava, non era in camera. Stava sognando e in quel momento risolse di aprire gli occhi trovando quel po' di luce che si era inconsapevolmente preclusa sino a quel momento. <<Dove sono finita con la mente...?!>> pensò, vista l'inutilità della sua voce. Mise a fuoco la vista nella densa luminosità che l'avvolgeva come una nebbia di brughiera, e distinse alcune sagome in lontananza senza comprenderne la forma finita. Ridusse lo sguardo alla prossimità delle sue membra ormai prive di sensibilità al tatto e, distesa su quella coltre morbida e gelata, ne capì finalmente la natura affondando una mano nella neve. Balzò in piedi in preda allo stupore, trovando con insolita difficoltà l'equilibrio. Un momento dopo, prese a frizionarsi fortemente le mani sulle braccia intorpidite; si stupì della reattività del proprio corpo, sebbene si sentisse molto più simile ad un ghiacciolo che ad una creatura a sangue caldo. Fu sufficiente quel pensiero per farle notare che, in effetti, il suo abito in quel momento aveva qualcosa in comune con il ghiaccio: indossava un body color dell'argento, con maniche a mezzo gomito finite a fiore di calla, un ampio tutù composto da strati di candido tulle che facevano campana alle sue esili, ancora tremanti, caviglie, al cui vertice un paio di pattini argentati rifrangevano scomposti, in una posa ben poco elegante, le sue impronte sulla neve. <<Una ballerina? No, sono una pattinatrice!>> esclamò incurante dell'esito afono. <<Ma io non so pattinare! Che senso ha questo sogno? E, soprattutto, come
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diamine funzionano questi “cosi”?>> <<Blanche! Mia cara, si può sapere che stai facendo laggiù, da sola?!>> una voce maschile, dal timbro profondo e perentorio, la spaventò e, quasi fosse possibile farlo di nuovo, la congelò come una statua. Non ebbe il coraggio di voltarsi verso l'origine di quella stessa paura. Si limitò a restare in ascolto trattenendo a fatica il respiro, sebbene dalle proprie labbra non uscisse traccia di vapore. Non sentiva nemmeno il tipico ritmo del battito cardiaco acuito dalla paura, percepiva soltanto lo scricchiolio della neve sotto le lame tremanti ed un regolare, insolito rumore simile ad uno sfregare, che aumentava velocemente di volume. Una luce d'argento le piroettò attorno, quasi fosse la scia di una bacchetta magica, scompigliandole degl'inaspettati lunghi capelli bruni sul viso. In preda al panico liberò gli occhi dalle ciocche ribelli, voltandosi in fretta e aspettandosi di svenire. E quasi accadde, quando al posto di un essere sovrannaturale dalle sembianze indefinite, scorse un ragazzo dai grandi occhi bruni scrutarla come si fa' con una fetta di dolce muffita! Bianca deglutì, incerta se urlare senza emettere suono o svenire, quando si rese conto che lui era decisamente l'equivalente di un Principe delle Favole, munito di pattini, invece che del cavallo! <<Blanche...ti senti bene cara? Hai l'aspetto di una scampata al rapimento di Bigfoot!>> le chiese il giovane <<“C-co-cosa?!>> ribatté Bianca, improvvisamente padrona della propria voce <<C-chi diamine sei tu? Io chi...? Dove sono? Insomma, sto sognando, vero?>> chiese, ritrovando anche le parole. <<Chi sei? Se stai sognando? Per Santa, Blanche, stai delirando! Sei caduta forse. Ricordi di aver sbattuto o perso i sensi? Stai... stai bene?>> ribatté il ragazzo. Bianca lo guardò come se fosse la prima volta, i suoi occhi scuri dilatati in uno sguardo preoccupato, illuminavano un volto regolare, dai lineamenti perfetti, così perfetti da sembrare disegnati. <<Blanche! Mi stai ascoltando?>> la scosse prendendole assieme gli avambracci che le pendevano, ora assenti, lungo i fianchi. <<S-sto bene... grazie Seth.>> si scoprì a dire, certa di non aver pronunciato quel nome a caso e, cosa ben più strana, di averne una chiara e improvvisa memoria a riguardo. Seth rilasciò un poco la stretta e fece scivolare le mani sui polsi di Bianca in una carezza; occhi e labbra si distesero in un sorriso di sollievo che lei imitò quasi inconsapevolmente. Abbassò lo sguardo intimidita da quell'improvvisa confidenza e vide finalmente il ciondolo a forma di fiocco di neve brillare al raccordo perfetto delle clavicole. Ora ricordava ogni cosa, ricordava Seth. Lo conosceva, sapeva chi era e... si fidava ciecamente di lui. Cercò di ricordare il disorientamento di qualche istante prima, ma non vi riuscì; avvertì, piuttosto, l'urgenza di agire, di fare qualcosa cui sentiva di non potersi sottrarre. Seth parve non accorgersi di quel suo smarrimento, l'avvolse in un abbraccio inatteso e le sussurrò all'orecchio
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<<Sei pronta per riprendere, cara?>> lei, senza pensare rispose <<Certo.>> L'istante dopo si librò al suo fianco, scivolando sul ghiaccio come se fosse nata con i pattini ai piedi. Veloci, decisi, uniti in una sincronia perfetta, raggiunsero il centro di una pista circolare, confinante su un lato con un edificio che riconobbe essere quella sagoma indefinita in precedenza, ora chiaramente una casetta coloratissima, col tetto carico di neve ed il comignolo occupato da un sorridente Babbo Natale col sacco a spalla. Bianca, no... Blanche, questo era il suo nome, salutò con un cenno della mano il buon vecchio Santa che le sorrise amabile. Si schiarì la voce, puntò gli occhi in quelli di Seth e disse decisa <<Sei pronto per il prossimo ballo?>> Egli si sciolse nel suo sorriso migliore, rispondendo con un cenno della testa e appuntando la posa d'inizio. Una musica metallica, eppure armoniosa e bellissima, raggiunse ogni fibra dei due giovani, trasformando per l'ennesima volta quell'emozione in danza. Guidati dalle note del motivo natalizio, la coppia disegnò ampi giri sul ghiaccio, tracciando forme perfette e ricalcandone le scie all'infinito. <<Biacaaaa!!! Gaddaa!! Gaddaaaa!!!>> Bianca si destò di soprassalto e quasi cadde dal letto per lo spavento. Scivolò di lato, sedendosi sul parquet della propria camera, illuminata dalla luce dell'abat-jour, cercando di ripristinare l'equilibrio tra sogno e realtà. Il gatto le passò sotto le ginocchia, allungandosi in cerca di una moina. Ella cedette soprappensiero e... <<Zia Biacaaaa gaddda chìì!!!>> Julia, la sua nipotina di 4 anni, piombò in camera urlante, senza alcuna pietà per i suoi timpani appena destati, correndole incontro con qualcosa stretto fra le due manine protese. Un lento sospiro fu essenziale per il duro ritorno alla realtà materiale. <<Julia, ti prego, abbassa la voce, sono qui!>> disse ancora sospirando. <<Vorrei sapere cosa direbbe mio fratello se sua figlia lo svegliasse in questo modo ogni mattina. Tzé!>> aggiunse a denti stretti. <<Gadda ccìa! Gadda il-legalo della nonna!>> continuò la bimba senza abbassare di un decibel il tono di voce. <<Cosa... cos'è? Fammi vedere cosa ti ha regalato la nonna, ma non urlare. Capito?>> Julia parve capire, perché ammutolì, restando immobile in piedi davanti a lei, con le piccole braccia ancora tese a mostrarle il regalo. Solo adesso, Bianca riuscì a metterlo a fuoco e impallidì. Era un carillon fatto a palla di neve, al centro della sfera di vetro il paesaggio le era ormai noto: una casetta coloratissima, Babbo Natale sul comignolo e una coppia di pattinatori compivano giri perfetti sul finto stagno ghiacciato sulle note di “White Christmas” rabbrividì, come a quel risveglio, domandandosi quanto fosse vero quel sogno. Un attimo dopo Julia, sbattendo incredula gli occhioni ammirata, esclamò: <<Cìaa, per piacele, mi pretti la collana co' fioccco di neve?>>
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Cristina Zavettieri
Hipnotic Sapevo che si sentiva preda di una trappola, ma avevo offuscato la sua mente e i suoi ricordi. Era una droga inizialmente gradevole. E man mano che gli entrava nelle vene e nell’anima diventava ipnotica come i miei occhi azzurri e gelidi e il mio respiro silenzioso. Tutto per lui non aveva inizio, non aveva fine, preda di un tormento che la sua stessa volontà non poteva spezzare. E l’unica colpevole ero io. L’avevo voluto solo per me, e con lui i suoi baci e le carezze fugaci. Tuttavia, la passione non andava mai scemando. Negli attimi d’amore era rara quanto appagante. Cosa bisogna fare per potersi sentire sinceramente amati? In nome di quel sentimento sì perfetto, ma effimero e malato, ho macchiato il mio futuro ed il suo. Prigioniera di un amore, in un modo diverso dal suo. Siamo reclusi nel tempo, in uno spazio esistito da millenni. Se a quegli Dèi nei quali non credo più non importa niente di noi, allora non avrebbe senso lasciarlo libero nel mondo a cui appartiene, e potrei essere io a cullarlo, ad offrirmi nel cercare e dare amore. Ogni giorno passavo dinanzi la sua cella e aspettavo il momento. L'attimo nel quale si trovava imprigionato tra la disperazione e l’agonia. Mi bastava solo una goccia per farlo vivere. Una sola, minuscola goccia e le mie dita fremevano per toccare quel viso. Non un bacio, non una carezza. Solo la pozione è in grado di ridestarlo dal suo eterno dolore. L’avevo rubato a colei che amava, gli avevo donato la vita eterna, l’amore di cui ero capace e con esso il crudele egoismo che sono sempre stata in grado di far sbocciare. I miei passi rimbombavano lungo il corridoio di fredda pietra, il mio abito scuro frusciava sul pavimento, un selciato decorato dai più variopinti, morbidi e pregiati tappeti. Il mio profumo richiamava i suoi carcerieri, alti, perfetti, oscuri come la loro signora. Come me, loro erano parte della maga che li aveva trasformati in fiere senza paura. Al mio cospetto quei fedeli servitori arretrarono, scomparendo senza aver udito alcun sospiro dalla mie labbra vermiglie. Raggiunsi quella cella di vetro di cui lui non sapeva l’esistenza, e fu allora che provai l’impulso di raggiungerlo e accoccolarmi fra le sue braccia.
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Era nel sonno che il suo viso assumeva sembianze perfette, quasi angeliche. Quante e quante volte lo scoprivo invece chino, con la testa fra le mani e i polpastrelli stretti, conficcati nelle tempie, e gli occhi chiusi, mentre combatteva strenuamente con quei ricordi che volevano riemergere e che solo la mia pozione era in grado di nascondere? Accadeva troppo spesso, nonostante fosse rinchiuso da secoli in mio potere. Sapevo bene che sarebbe andato via. Ero certa che si sarebbe dimenticato di me, ed allora, io sarei impazzita vagando per la terra. Ho amato molti uomini astuti, belli, avventurosi, guerrieri come Ulisse. Questa volta, però, ero caduta preda dell’amore. Quel sentimento celebrato nei versi, nei racconti, nelle liete novelle, nelle case di ogni essere umano degno di cantar quella parola sulla sua bocca. Sapevo, comunque, che l’avrei liberato, poiché in Circe albergava ancora un po’ di umanità. Il vero amore, infatti, non può abbracciare l’egoismo.
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Alessandra Zengo
Dalla tomba con amore In superficie, fiocchi di neve scendevano lievi a coprire il suolo inaridito dal gelo dell'inverno. Le decorazioni natalizie impreziosivano le abitazioni avvolte da un manto bianco e delicato. "Ti amo" sussurrai "Per sempre". Inalai un odore di terra, lievemente marcescente. Non vi badai. Ero immersa in una bolla di felicità. Nessuna risposta. Un silenzio innaturale mi circondava. Mani scheletriche si appoggiarono ai lati del mio viso. L'oscurità mi circondava, soffocante. Trattenni il respiro. Rabbrividii. Allungai le mani fino a toccare un viso putrefatto. Lembi di pelle si attaccarono ai miei palmi. Gridai. Spalancai gli occhi, terrorizzata. Gocce di sudore freddo mi imperlavano il viso contratto in una smorfia di disgusto. Non riuscivo a scorgere alcunché. Era stato solo un sogno. Un incubo. Spire di inquietudine e disagio serpeggiavano nel mio corpo ancora scosso dalla paura. Emisi un sospiro. Feci per alzarmi, quando capii che qualcosa mi sovrastava. Le mie mani grattarono una superficie liscia che mi imprigionava. La realtà mi colpì come un pugno nello stomaco. Ero stata sepolta viva. Cominciai a battere colpi frenetici. Inutilmente. Le unghie si spezzarono. Sottili rivoli di sangue dipinsero di rosso le mie mani. Un gemito roco uscì flebile dalle mie labbra tremanti. Il tempo scorreva. Imperturbabile alle mie sofferenze, alla mia paura claustrofobica che soffocava ogni pensiero razionale, ogni altra sensazione. All'improvviso una lama di luce spezzò l'oscurità che mi circondava in un abbraccio soffocante. Un fiocco di neve accarezzò la mia guancia solcata da lacrime salate intrise d'impotenza. Un senso di sollievo cominciò a penetrarmi nella mente. Ero salva. La mia visuale fu offuscata da una figura familiare. Stefano. Uno zombie. Che veniva a reclamare la sua amante perduta e rinata. La sua bocca famelica scattò verso il mio collo esposto. Il mio sogno d'amore infranto, la sua fama saziata. Poco dopo, le mie carni straziate giacevano sullo scheletro ligneo della mia bara. Senza accorgermene ciocche di capelli cominciavano a staccarsi. Un velo nero, intricato e sottile, si appoggiò senza rumore sul soffice cuscino. Le mie pelle cominciava progressivamente a morire. La rinascita era vicina. Il mio involucro mortale non era ancora pronto a rassegnarsi alla definitiva dissoluzione.
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Crediti Questo ebook rilasciato gratuitamente per tutti i lettori del blog Diario di Pensieri Persi è stato creato in occasione del Natale 2011. I racconti contenuti in questo ebook sono opera inedita e proprietà esclusiva dei rispettivi autori, che ne hanno concesso la fruibilità al blog cui collaborano Diario di Pensieri Persi. Ne è vietata la riproduzione anche parziale, tutti i diritti sono riservati, per qualsiasi uso di questi testi s'invitano gli interessati a contattare il blog o gli autori per l'autorizzazione, grazie. La cover design e l’impaginazione di questo ebook sono opera di Petra Zari alias per Diario di Pensieri Persi (MissClaireDesign ©2011-12 - miss.claire@hotmail.it)
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