I Fuochi di Samhain – Storie di Streghe

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I Fuochi di Samhain – Storie di Streghe è una raccolta di racconti inediti pubblicati gratuitamente in formato digitale da Speechless Magazine. Proprietà Letteraria Riservata dei rispettivi Autori. Vietata la riproduzione, anche parziale di testi ed immagini.

Speechless Magazine © 2012 www.speechlessmagazine.com redazione@speechlessmagazine.com Immagine di copertina: Victoria Francès Le immagini e le illustrazioni a corredo dei racconti sono gentile concessione dei rispettivi Autori. Cover design, impaginazione: Petra Zari © 2012 miss.claire@hotmail.it


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Prefazione di Barbara Baraldi

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Presentazione

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i viene detto che Halloween non appartiene alla nostra cultura. Niente fuochi di Samhain a illuminare il buio delle nostre campagne. Lontani i canti di spiriti e streghe sulla soglia dell’autunno.

Eppure i vecchi raccontano di fiammelle accese a illuminare le zucche disseminate nell’ombra della pianura padana. Sussurrano le nonne di Sicilia ai bimbi che non vogliono dormire. Si nun vennu li morti, nun camminanu li vivi. Solo ai bambini buoni gli spiriti porteranno cose buone da mangiare. Altrimenti (dolcetto o scherzetto?) verranno sì, ma a grattari li pedi! Di streghe è piena la tradizione italiana. I canti della fine dell’estate, il loro nero mistero, fanno parte di noi. Speechless Magazine presenta una raccolta di nove racconti dedicati alle streghe. Nove storie sulle figlie della notte, firmate da altrettanti autori italianissimi che abbiamo l’onore di ospitare nella nostra redazione. Storie che spalancano le porte su una dimensione altra, che pervade il nostro mondo senza distinzioni temporali e geografiche. Demoni venuti dall’Oriente e spiriti della neve, giovani donne chiamate all’antica vocazione della masca e famigli felinidi che vigilano su dimensioni stregonesche. Presenze benevole o minacciose che allargano lo sguardo su quel calderone ribollente di suggestioni e tradizioni conosciuto come la notte di Ognissanti. Speechless vi augura buona lettura e buon Halloween!

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Indice Prefazione di Barbara Baraldi

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Vicolo delle Sette Fate di Stefania Auci Innua di Elisabetta Bricca Horimono di Romina Casagrande La Masca di Elisa Emiliani No Hunting di Pia Ferrara La casa dal giardino fiorito di Roberto Gerilli Fino al prossimo Samhain di Giulia Marengo Le farfalle non sono per noi di Francesca Scotti Diversa di Filippo Tapparelli

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Prefazione di Barbara Baraldi

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Cos’è una strega? Letteratura e credenze popolari sono costellate di ammaliatrici, donne malvagie che rapiscono neonati e rovinano i raccolti, cospiratrici, adoratrici di antiche divinità, mutaforma che emettono urla affamate nella notte e incantatrici prigioniere dei loro stessi rituali. Una strega non è niente di tutto questo. C’è un momento dell’anno, un punto al di fuori del tempo in cui si dice che il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti si assottiglia. È l’antica festività pagana di Samhain, la notte in cui secondo la tradizione celtica veniva abbassato lo Scudo di Skathach che separa i mondi, permettendo al caos di invadere il regno dell’ordine e ai morti di camminare tra noi. Leggende e tradizioni ci hanno raggiunto fino a oggi e alcune affondano le radici in macabri rituali.

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Si pensa che l’uso di intagliare le zucche derivi dai cacciatori di teste celtici che, certi che lo spirito risiedesse nella testa, la tagliavano ai nemici e la conservavano per questa notte magica, convinti che in questo modo non potessero tornare a perseguitarli. E quale miglior rituale di protezione per i tempi moderni se non dedicarsi alla lettura di un buon libro? Quella che avete tra le mani è un’antologia di nove racconti che spaziano dal gotico al fantasy, dal noir al romance. Dimenticate vecchie megere, i cappelli a punta e i manici di scopa. Le streghe sono tra noi, sono donne sagge, donne coraggiose, studiose della natura umana dotate di straordinari talenti nella musica, nell’arte, nella danza. E nella scrittura. Una strega ha sempre una storia da raccontare, come le streghe che hanno contribuito a questa raccolta. Con parole come incantesimi per evocare emozioni.

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Vicolo delle Sette Fate di Stefania Auci

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era stato un tempo in cui noi eravamo le custodi di un potere segreto. Eravamo figlie della terra, conoscevamo il ritmo del cielo, sapevamo leggere i segni del corpo. Le donne, allora, conoscevano la forza della vita e della morte. Era una sapienza attaccata alle ossa, che impregnava la carne e si nutriva del sangue. Eravamo le Dee. Eravamo le Signore. Eravamo le Donne. Un tempo, gli esseri umani ci onoravano. Un tempo ci trattavano con rispetto, ci offrivano doni, credevano in noi. Avevano fiducia nelle nostre sorelle che avevano avuto la forza di abbracciare la propria natura, e ad esse si rivolgevano. Poi vennero uomini. Vennero con i libri, le catene e le torce. Il fuoco. Vennero per umiliarci, per violentare i corpi e spegnere le menti. Gelosi della nostra conoscenza, ci hanno umiliato e messo a morte. Spaventati dal potere nascosto nel ventre delle donne, lo hanno oltraggiato fino a renderlo un luogo impuro, privandolo della bellezza, della gioia, del piacere. Ci hanno dato la vergogna e la paura. Ci hanno privato di tutto. Avete bruciato le nostre compagne umane, le avete punite per la saggezza che apparteneva loro di diritto, avete tolto loro il potere che noi gli avevamo donato bollandolo come malefico e infame. Ci avete trasformato in esseri malvagi e poi in ricordi. In favole. In leggende. Ci avete schiacciato, voi… uomini. Il fruscio cadenzato del registratore colse i respiri affrettati, il graffiare della penna sul blocco di appunti, il rumore del caffè che montava sul fuoco, insieme alle voci lontane dei bambini che giocavano nel cortile. La donna era anziana, il viso di pietra e legno, i capelli raccolti, la veste nera a piccoli fiori stinti. Seduta al tavolo, fissava il suo interlocutore con occhi assenti, torturando l’orlo sdrucito del grembiule. «Iddri erano bieddre, bieddre chiossai di l’attrici di la televisioni… biunne, niuri, chi minni tunni chi pariano chini di latti e a ucca paria pittata cu russetto…» Il ragazzo alzò la mano per fermare il racconto. «Ricapitoliamo: erano

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No way out

Illustrazione Š Natalie Pearl Wunn Site: natspearlcreation.deviantart.com


donne bellissime, tutte diverse tra loro. E lei a che ora le vide?» La vecchia si strinse nelle spalle e masticò a vuoto, rivelando un numero consistente di fessure nelle sue arcate dentarie. «Mah, chi c’ha diri? Iò ero nica, putia a viri… sei, sett’anni? Foru iddre chi mi rissero che me patri stava turnannu da’ guerra…» Un’altra donna si mosse dietro le spalle del ragazzo. Stesso viso rotondo della vecchia, labbra sottili, un accenno di rughe sulla fronte aggrottata. «Nonna, il signore vuole sapere quando le hai viste, non quanti anni avevi». Le si avvicinò, parlandole all’orecchio. «A che ora viristi i donni?» L’anziana alzò la mano compiendo un giro circolare. «Putianu essiri… mezzannotti. Era… sì, fu prima di lui iorni di Morti, ca iò era susuta picchì vulia taliari si viniano a purtarimi macari un pupu di zuccaru». Il giovane uomo annuì, appuntando la frase su un block notes. La kefiah che portava attorno al collo si arrotolò attorno la penna ed egli dovette fermarsi per districare i nodi. «Davvero le interessano queste cose?» Alzò lo sguardo. La ragazza lo stava fissando. Una traccia labile di scherno le balenò nello sguardo, subito cancellata dalla perplessità. «È quello che faccio per il mio dipartimento. All’università, a Lettere, ci occupiamo delle tradizioni popolari. Del folklore, ecco» «E intervistate le vecchiette che non ci stanno più con la testa?» Giovanni Motisi si agitò, a disagio. «Sua nonna ha fornito una testimonianza interessante, signorina Burriesci.» La ragazza sorrise appena. «Chiamami Laura.» La sua mano accarezzò il viso rugoso dell’anziana. «Mia nonna Rosalia ha sempre creduto alle Donne di Fora e agli spiriti dei Morti, tanto che adesso sono io a preparare i doni e la tavola apparecchiata per loro alla vigilia di Ognissanti. Anche io restavo sveglia a lungo, quella notte.» Giovanni spense il registratore e ripose il block notes, osservandola in silenzio, esitante. Per esperienza, sapeva che intervistare le persone avanti negli anni per raccogliere le testimonianze su usi e costumi popolari era assai più semplice che trovare una persona giovane che ne fosse ancora a conoscenza. E che ci credesse. Laura gli indirizzò un’occhiata placida. «Dammi un secondo di tempo. A quest’ora inizia l’Italia sul Due e mia nonna vuol vederlo. » L’anziana si alzò trascinando i piedi, sorretta dalla nipote; si lasciò cadere dinanzi al televisore collocato su un vecchio mobile Singer e si rilassò contro lo schienale della poltrona, socchiudendo le palpebre. Si appisolò ancor prima del termine della sigla.

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Laura fece cenno allo studioso di seguirla nel tinello. La stanza era piccola, pulita e ingombra di mobili graffiati da anni di uso. Una luce pastosa proveniva da una porta finestra che un tempo era stata di un bel verde scuro, ma che adesso mostrava venature scavate nel legno vecchio. Sul balconcino che dava su un cortile, simile a mille altri del centro storico di Palermo, c’erano fili di ferro ingombri di panni stesi. L’odore del sapone di Marsiglia si mescolava a quello del pesce che qualcuno stava cucinando al piano inferiore e al vago sentore di spazzatura, portato a folate dal vento. «Ecco il caffè», disse la ragazza chiudendo la porta finestra. Giovanni annuì. La osservò mentre si affaccendava attorno al tavolo. Due tazzine spaiate, zucchero, un pacchetto di Oro Saiwa. «Mia nonna mangia poco, ormai. Non ho molto altro da offrire», si scusò. Si sedettero. Le occhiate che si lanciavano erano caute, contegnose. «Queste cose fanno parte della mia vita. Sin da bambina ho ascoltato le storie di mia nonna, sulle Donni di fora e sulle magare», esordì, rispondendo all’ennesimo sguardo curiosi di Giovanni. Sollevò il volto e solo in quel momento il ragazzo notò quel viso dalla bellezza antica e gli occhi azzurri. «Vivi con lei?» domandò. Laura assentì con un mezzo sorriso. «Da poco. È anziana ormai e non è più prudente lasciarla da sola.» Rise piano e Giovanni si trovò a pensare che era davvero una bella ragazza. Laura aveva continuato a parlare, lanciandogli occhiate oblique. «Spesso al mattino mi trovo i capelli acconciati e intrecciati. Ho sempre pensato che fosse mia nonna, che lo faccia per evitare di alzarmi tutta arruffata, ma lei nega», rise, scuotendo la testa. Lunghe ciocche nere le scivolarono sul collo. Giovanni morse un biscotto. «Un vero e proprio caso di trizzi di fata», commentò con un pizzico di ironia. «E delle donne mi sai dire nulla?» Laura non rispose subito. Lo stava studiando con cura, tenendo il viso appoggiato sulla mano. Un sorriso impercettibile le aleggiava sul volto. «Le belle signure non sono cose di cui ci si dovrebbe curare, Giovanni. Sono pericolose», rispose alla fine. Lo studioso corrugò la fronte. «Perché?» chiese. «Le belle donne della tradizione popolare siciliana sono entità benefiche che aiutano gli esseri umani. Spiriti benevoli.» Laura scosse la testa. «Non solo.» Giovanni avvertì una sorta di fastidio epidermico per quella frase. «Le donne di fora sono ascrivibili alla tradizione delle fate e degli spiriti silvani. È stata la Controriforma a trasformare queste figure nelle streghe che volano e fanno malefici. Nei racconti popolari, le Signure sono sempre benefiche e trasmettono il loro sapere alle donne», spiegò con tono saccente.

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E che diamine! Studiava tradizioni popolari da anni; stava per prendere il dottorato e non sarebbe stata certo quella ragazzetta a mettere in dubbio i suoi studi. Era irritante. Di colpo, Laura si alzò. Sparecchiò il tavolo con gesti veloci, scrutandolo in tralice con un mezzo sorriso. Giovanni fu infastidito da quello sguardo sibillino. Raccattò la borsa da terra. «Credo che sia il momento di andar via. Grazie per il caffè e… la disponibilità.» Laura si voltò, appoggiandosi al lavandino smaltato. «Non hai chiesto a mia nonna dove ha visto la danza delle donni di fora», disse. Giovanni si fermò, colto di sorpresa. Tirò fuori gli appunti, li lesse in fretta. Nulla. La ragazza continuava osservarlo con quello sguardo profondo, mitigato dal sorriso che le addolciva i lineamenti. Gli venne accanto. Mise la mano sugli appunti e Giovanni fu costretto ad alzare gli occhi. «Domani sera sarà la vigilia di Ognissanti, uno dei giorni in cui i donni appaiono agli esseri umani. Lo sai, no?» «Sì. È il momento in cui ai morti è permesso mettersi in contatto con i vivi.» Il ricordo degli studi condotti a Dublino, durante l’Erasmus, gli regalarono un brivido di nostalgia. Le immagini del cortile dell’Università affollato di studenti erano vivide nella sua memoria, sebbene fossero passati quanto… tre anni? Sì. Tre anni proprio in quel mese. Ricordò la festa di Halloween trascorsa andando in giro per i cimiteri insieme ai suoi compagni di corso, ubriacandosi fino a cadere sulle lapidi dei cimiteri, blaterando invocazioni agli spiriti dei morti in un gaelico improvvisato che aveva fatto sganasciare i suoi colleghi irlandesi. Quasi senza accorgersene, la parola Samhain arrivò alle labbra, trasformandosi in un sussurro. «I cancelli del mondo degli spiriti si aprono ed essi possono confondersi con gli umani.» Laura gli sorrise piegando appena gli angoli delle labbra. Lo indirizzò verso lo stretto corridoio che portava all’uscita. «Vieni con me domani notte. Ti porterò nel luogo dove mia nonna vide le fate. Ci sono delle magare che si riuniscono ogni anno per salutare i donni di fora. A meno che non abbia impegni con i tuoi amici per festeggiare Halloween…» Giovanni inchiodò sulla soglia, a occhi spalancati. «In effetti avrei un appuntamento con degli amici in birreria, ma nulla che non possa disdire. Delle magare? Sul serio?» «Sì. Maghe, o come vuoi chiamarle.» Laura mosse le mani in un gesto distratto. «Si ritiene che questo luogo sia particolarmente propizio per chiedere oracoli ai morti. Conosci i nimmi?»

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L’uomo annuì. «Le preghiere per invocare i defunti e chiedere loro notizie sul futuro. La mia tesi di laurea è stata proprio su questo.» «Bene. Gli esseri, gli spiriti dei morti, domani notte risponderanno alle invocazioni, insieme con le Donni.» «E dove sarebbe questo posto?», domandò Giovanni, sollevando la borsa sulla spalla. Lo sguardo si era acceso e una luce di curiosità, ben più che sorpresa, gli illuminava il volto. Laura aprì la porta di casa. Una ventata d’aria fresca si intrufolò tra di loro, invadendo l’ingresso. «Poco lontano da qui, in un vecchio cortile. Mia nonna mi ha portato lì, quando ero molto piccola, a interrogare gli esseri per un problema di salute che avevo. Sa come sono le persone anziane: non si fidano dei medici e credono qualcuno t’abbia lanciato un maleficio… Come fu, fu, non importa. Da allora, ho sempre assistito le sensitive che si riuniscono la notte di ogni 31 ottobre.» «Ma…» L’uomo si portò le dita alle labbra, incerto. «Credi sia una buona idea? Voglio dire, so che le persone che esercitano quest’attività non gradiscono intrusioni e io… beh, io vorrei filmare le invocazioni, insomma… si tratta di un evento straordinario, di cui vi sono pochissime testimonianze…» La ragazza mise la mano su quella di lui, appoggiata allo stipite, e la strinse. Gli sorrise, lanciandogli uno sguardo attraverso le palpebre socchiuse, simili a quelle di una gatta. «Lascia fare a me. Ci vediamo domani sera.» Giovanni rispose alla stretta. Per tutto il giorno successivo, Giovanni galleggiò in una sorta di piacevole incertezza. Trovare delle magare, che agivano insieme per invocare gli esseri, in un luogo che era in cui la gente del popolo aveva immaginato per secoli di vedere le donni di fora, era un’occasione straordinaria. Le bone signure erano gli spiriti che accompagnavano le streghe umane durante i sabba, così come si leggeva nei processi dell’Inquisizione. Ma, a differenza delle anime dei defunti o dei numi della casa, avevano perso quasi del tutto la loro importanza nel pantheon popolare siciliano. Appuntò queste considerazioni sul proprio laptop tenendo d’occhio l’icona di Messenger, nella speranza di riuscire a trovare un paio di colleghi con cui discutere del materiale che aveva raccolto quel mattino. Nulla. “Poco male”, pensò. “La prossima settimana scriverò una relazione e porterò tutto in dipartimento. Sarà l’occasione buona per chiedere al professore del concorso di specializzazione…” Palermo è un ventre gravido. Ha accolto genti che provenivano dal mare e dalla terra: i colonizzatori, i pirati, gli invasori. Ha accettato la loro

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violenza e li ha resi suoi figli. Ha permesso che gli uomini della sua stessa terra la sfregiassero con ferite di cemento, ha consentito che le strappassero via la memoria distruggendo le vestigia della storia. Palermo tutto sopporta. Le sue strade sono nastri grigi affollati da cingalesi, pakistani, magrebini, cinesi, indiani, palermitani. Palermo è un ventre aperto e accogliente in cui ogni civiltà, ogni popolo lascia il suo seme. Palermo è la mia casa. Mentre cammino in questa stradina, la memoria si riempie di immagini. Donne che qui sono vissute, visi di bimbi che correvano scalzi sui ciottoli, che ho visto crescere, diventare adulti e invecchiare fino a che le loro ossa non sono divenute polvere. Noi siamo rimaste qui, nonostante tutto, nonostante la nostra saggezza venisse dimenticata. I nostri corpi, quelli che il fuoco e il tempo non hanno distrutto, sono diventati soffi di vento imprigionati tra le pareti di una città morta. Perché Palermo è viva, ma è anche morta. E talvolta, come in un dagherrotipo, queste città si sovrappongono. Coesistono, per un breve istante. I cancelli si aprono. La forza, il potere tornano a noi, e fluiscono nelle ancora una volta nelle vene aride. Come stanotte. Dinanzi a me vedo un uomo camminare sicuro. Ha una borsa a tracolla, una sciarpa attorno al collo. Accanto a lui, una donna si muove, gli parla. Ridono. I lampioni gialli disegnano sagome sulle mura dei palazzi un tempo lussuosi e ora fatiscenti. Riesco a sentire il vento freddo, presago di pioggia, che fa ondeggiare i cespugli di erbacce cresciuti tra gli interstizi dei mattoni, sui balconi, oltre le finestre di case disabitate da decenni. C’è una vita giovane e forte tra loro. Posso sentirla, ne annuso l’odore di sangue, e carne, e sudore. Giovannni parcheggiò la moto poco distante dalla casa di Laura. Con il buio, i cavi elettrici — che penzolavano dai cornicioni come vene strappate — e le chiazze d’intonaco sbrecciato sulle facciate degli edifici sembravano le macchie di una misteriosa lebbra. Gli edifici puzzavano di vecchio e di curry, di sapone e di frutta andata a male. Laura lo stava aspettando nell’androne del palazzo illuminato da una lampadina morente. Aveva una sciarpa attorno al collo che le copriva il capo. «Brr! Fa freddino stasera…» commentò Giovanni. «Decisamente.» Laura si incamminò per il vicolo dal selciato di pietra affiancandolo. Ogni tanto lanciava sguardi dietro le sue spalle. Un gatto sgusciò tra le ruote di una

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vecchia Fiat abbandonata, seguito da un altro, precipitandosi nel buio. Aumentò il passo, costringendo Giovanni a procedere più in fretta. «Pensavo… stasera, dopo il rito, ti andrebbe di andare a bere una cosa?» chiese lui, abbozzando un sorriso. «Una birra. Magari qua vicino?» «Vedremo se resterà il tempo», borbottò la ragazza attraverso la sciarpa. «Non poniamo limiti alla sorte. Da questa parte.» Con un’ultima occhiata al vicolo deserto, Laura s’infilò in un portoncino che dava su un cortile angusto, circondato da muri privi di finestre, dall’aria così malmessa da sembrare sul punto di crollare. Il buio li inghiottì. Era un’oscurità solida, avvolgente e spugnosa. Giovanni avvertì l’eccitazione che si concentrava nello stomaco. Quella serata poteva davvero essere memorabile. Attraversarono un corridoio che puzzava di muffa, poi un altro piccolo vicolo. Di colpo, l’entusiasmo dell’uomo fu assalito da un timore antico, che gli lambì la schiena risalendo lungo il collo, come se mani di gelo lo avessero sfiorato. Respirò a bocca socchiusa, le mani sul petto, la fronte bagnata di sudore come se avesse fatto una lunga corsa. Il freddo era divenuto così forte che il respiro gli si condensò in piccole nuvole di vapore. Il giovane sollevò gli occhi verso il cielo notturno, alla ricerca d’aria. Le stelle splendevano limpide nel blu della notte, tanto luminose da sembrare persino più vicine. L’aria era limpida. Il buio era assoluto. «Dove siamo?» boccheggiò Giovanni. «Un vecchio cortile. Un residuo della Palermo Normanna.» Laura era dinanzi a lui, a pochi passi da una grata di ferro. Poggiò una mano sulla maniglia ed essa, crepitando, si aprì. «Siamo dietro il Vicolo delle sette fate.» Facendosi forza, Giovanni la seguì. Superò la grata e si trovò in uno spiazzo di forma irregolare, impossibile da vedere dalla strada. In un angolo, c’era un edificio di pietra, con le finestre ad arco ogivale. Il tempo e l’incuria lo avevano artigliato e adesso un ponteggio lo avvolgeva in una gabbia che gli impediva di crollare a terra. Laura la indicò alzando un braccio. «Quella è la torre delle sette fate. Erano donni di fora che vivevano qui fino a pochi decenni fa. Ricompensavano i visitatori che si accostavano a esse con deferenza, ma che punivano con la perdita della ricchezza o della salute chi le ingiuriava o mancava loro di rispetto.» La voce della ragazza era piena di malinconia. Parole struggenti, cariche di rimpianto. Giovanni si voltò per chiederle a cosa si riferisse ma fu assalito da un violento capogiro. Il malessere divenne prepotente. Gli bruciò le viscere, frantumò le ossa, strappò la voce. Si aggrappò alla cancellata mentre lo zaino crollava a terra. «Laura… aiuto», mormorò in tono strozzato. Cadde in ginocchio,

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chiedendosi affannosamente cosa stesse accadendo. Dalla sua gola proruppe un gemito. Giovanni pensò di aver urlato ma il suo fu un lamento flebile. Dinanzi a lui apparvero due piedi racchiusi in stivali di cuoio. Una mano gli afferrò il collo, costringendolo ad alzare la testa. A guardare. Sagome di luce opaca danzavano attraverso i muri dell’antica torre. Giovanni scorse la loro forma alla finestra, oltre le mura sbrecciate. Scendevano fluttuando nel buio, simili a fantasmi. Qualcosa, un brandello di lucidità che rimaneva ancora abbarbicato alla mente dell’uomo, gli impediva di distogliere lo sguardo. Gli spiriti, o qualunque cosa fossero, avevano acquistato corpo e voce. Donne. Bellissime. Lunghi capelli che fluttuavano fino a terra, abiti di luce, mani sottili e affusolate, seni voluttuosi, labbra piene. «Vi ho portato un dono, sorelle.» Laura aveva tolto la sciarpa che le copriva il viso, si era sfilato il soprabito. Aveva sciolto i capelli. La sua veste era nera e lucente, i capelli lambivano il pavimento di pietra. La pelle chiara sembrava traslucida. Guardò Giovanni. E Giovanni urlò. Qualcuno afferrò il giovane per i capelli e lo trascinò fino al centro del cortile. Lui cercò di divincolarsi, di lottare, ma i talloni scivolavano sul selciato; le mani erano prive di forza. Il corpo non rispondeva più al cervello, o a ciò che ne rimaneva. Guardò in alto, cercando di comprendere chi lo aveva assalito. Una donna lo stava bloccando. Aveva mani gelide che sembravano di fumo, in cui si scorgevano le ossa in trasparenza, e gli stessi occhi cerulei di Laura. Giovanni si dibatté terrorizzato, e annaspò nel vuoto tentando di agguantare le vesti delle donne che si erano avvicinate. Adesso i loro volti non sembravano più così belli. Erano affilati, consunti, famelici. Spettri di carne. La mano che lo teneva prigioniero si aprì. Egli compì un balzo in avanti, sbattendo il viso contro il selciato. Alle sue spalle, si levò un coro di risa. Provò a rialzarsi, ci riuscì quasi, sfiorò le sbarre della porta chiusa. Il cancello era arrugginito. La serratura era marcia, bloccata da anni. Avvertì il contatto gelido di mani sconosciute sul corpo e qualcuno — qualcosa — lo costrinse a girarsi sul dorso. Sopra di lui, sette visi, splendidi e mostruosi. Quella che aveva conosciuto come Laura si chinò, sfiorandolo con i lunghi

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capelli neri. Profumava di fiori e di marcio. Sollevò gli occhi verso il cielo e parlò, carezzandogli il viso. «C’è stato un tempo in cui, in notte come queste, avremmo condotto le nostre sorelle presso i castagni, volando insieme a loro. Avremmo gustato ogni genere di delizia. Uomini con cui giacere, conoscenza, ricchezza e bellezza… Donavamo loro tutto.» La voce si affievolì fino a divenire un sussurro. «E poi… è cambiato tutto. Ci avete dato la caccia, ci avete distrutto. Siamo state dimenticate. Relegate in un cantuccio del passato, oggetto di studio per un patetico omuncolo come te. In pochi ormai credono alla nostra presenza, come quell’umana che tutti credono mia nonna. È stata una delle ultime magare a incontrarci e a servirci, fin che ha potuto. Ma ormai il suo tempo sta per scadere e noi non avremo più nessuno che ci nutra e ci veneri.» L’uomo spalancò gli occhi. Ricordò. Doni votivi per ingraziare le donni di fora. Animali, cibo sulla tavola imbandita per la notte dei morti. Le vite dei propri nemici. Mani avvinghiarono il corpo di Giovanni. Unghie simili ad artigli lacerarono i suoi abiti graffiandogli la pelle, facendolo sanguinare. Sopra di lui, Laura sorrise. Un sorriso ferino, affamato. Si sedette a cavalcioni schiacciandogli il petto nudo. Giovanni si sentì soffocare. Le gambe della donna lo stringevano, le mani gli comprimevano lo sterno. «Sai cosa facevamo agli increduli, Giovanni? A chi osava spiare i nostri riti?» sussurrò Laura, labbra contro labbra, lisciandogli il viso con le lunghe dita acuminate. «Tu non sei più incredulo, adesso, vero? Non siamo più un elemento di studio.» La carezza divenne insinuante. Le dita gli accarezzarono il petto, scivolarono sul collo, solleticandogli il pomo d’Adamo, scosso dai singhiozzi. «Sai cosa facevano le donne di fora a chi scopriva i loro segreti?» L’uomo annuì. Aveva gli occhi colmi di lacrime. «Ti prego…» sussurrò. Laura lanciò uno sguardo alle sorelle. Quella che li aveva seguiti sfiorò i capelli di Giovanni con gesti teneri, come una madre con il proprio bambino. Lo circondavano sussurrando frasi sconnesse, simili a una nenia, sfiorandogli il corpo nudo. «Tu sei il primo, dopo tanto, tanto tempo. Noi abbiamo bisogno di te», gli mormorò suadente. «Le belle signore hanno bisogno di un uomo per vivere… e per godere.» Si chinò a sfiorargli le labbra con un bacio. Sapeva di gelo e di muffa, di fumo e legna bruciata. Poi gli afferrò la gola, e strinse. Forte.

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Innua* di Elisabetta Bricca

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I

nuit seppe di essere morta nel momento in cui il pugnale d’osso le trafisse il cuore.

Un soffio leggero le uscì dalle labbra. Alcuni, la maggior parte, dissero che era stato il respiro della luce e che il suo spirito era salito agli Dèi. Altri videro nel cielo terso della notte una manciata di stelle raggrupparsi fino a formare il profilo di un’aquila: l’animale totem che l’aveva guidata nella sua breve vita. Ed era stata forte, Inuit. Forte e fiera come il grande uccello sacro. Quando gli spiriti dei bambini fecero sorgere l’aurora boreale, la Madre Bianca le mise al collo una collana di quarzi e un tupilak intagliato in osso di foca, poi la fece deporre su un giaciglio di pelli di yak, tra le candide braccia della terra. Esposta al vento violento e gelido, e al pallido sole, nella sua grande casa di ghiaccio, Inuit sembrava che dormisse. La gente del villaggio le fece cerchio intorno. Cominciò a intonare nenie per accompagnarne il viaggio. La Madre Bianca crollò in ginocchio tra la neve che danzava tra i colori e reclinò il capo all’indietro. Sapeva che presto sarebbero arrivati: li sentiva muoversi nell’aria gelida che le sferzava il viso come una frusta. Il ghiaccio insegna a vedere, a distinguere i contorni dell’invisibile, e la visione cominciò a prendere forma nella sua mente. Erano venuti lì. Erano venuti a prendere Inuit. La sua innua. Avrebbe dovuto lottare con lo spirito di un cacciatore, farsi guidare dalla sua vista e dal suo udito acuto per sentirli. Passi sulla neve, un sussurro sulla nuca. I Taqriaqsuit. Mahaha non avrebbe tardato. La forza arrivò. La invase con la potenza del fiume, la solidità della roccia, il fragore del lampo. Non era più la Madre. Era un grosso animale bianco e aveva lunghi artigli affilati. Lo spirito dell’orso, il suo.

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Cold Days

Illustrazione Š Tatucito Site: tatucito.deviantart.com


Lottò contro il demone dalla pelle blu e dai lunghi capelli che si attorcigliavano come spesse corde intorno ai suoi arti. Lo sconfisse, ma non riuscì a ucciderlo. Con un grido acuto, Mahaha scomparve insieme ai suoi demoni. Il respiro dell’orso bianco rallentò, così come i battiti del suo cuore. Si accucciò ai piedi di Inuit e la vegliò per tutta la notte. Sarebbero tornati di nuovo per rapire il respiro della luce e trasformarlo in qualcosa di oscuro, in qualcosa di potente e maligno che avrebbe dominato il cielo, i ghiacci e i loro spiriti. Mi chiamo Inuit e appartengo al popolo delle nevi. Alla mia nascita, fui consacrata dalla Madre Bianca al culto della Dea della Luce. Mi dissero che ero stata concepita per questo. Ero una creatura della Dea e tutta la mia vita fu destinata a servirla. Io e le mie sorelle ci svegliavamo al sorgere del sole per sacrificarle piccoli conigli bianchi e intonare canti. Trascorrevamo le giornate a intagliare amuleti e a curare la nostra gente. Eravamo le custodi della saggezza del popolo e della bianca luce che illuminava i giorni. Finché saremmo state in vita, gli Inuit avrebbero prosperato e vissuto in armonia. Finché avremmo mantenuto acceso il fuoco sacro ai piedi del gigante di ghiaccio, la Dea ci avrebbe protetto. Fu nel giorno in cui una volpe dal manto accecante mi passò davanti agli occhi, come un presagio di fuggevole innocenza, che tutto cambiò. Ero intenta a raccogliere licheni ed erica selvatica, quando Yuit mi aggredì alle spalle. Cercai di difendermi, gli graffiai il volto, ma ero solo un esile corpo nelle mani di una forza brutale. Invocai la Dea, mentre mi strappava la tunica e, allora, in un ultimo, disperato, slancio gli conficcai le dita negli occhi. Affondai con rabbia fino a sentirlo urlare, fino a sentire il sangue scorrermi caldo sulle mani. Mi gettò a terra con una spinta, fu sopra di me. Mi teneva ferma tra le sue gambe, ghignava come se non sentisse dolore. Un colpo. Poi un altro più a fondo. Il pugnale mi si piantò nel cuore.

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Yuit si chinò su di me, mi afferrò per i capelli. Non era più il suo viso quello che stavo guardando, ma quello terribile di Mahaha, il demone.

Il vento spira violento e gelido, spazza via i fiocchi di neve facendoli mulinare sul mio viso. Non ho freddo. Le pelli mi avvolgono nel loro calore. Vedo in lontananza il fuoco della Dea brillare alto e vivido, rilucere contro il ghiaccio. Il tintinnare degli amuleti che adornano le braccia della mie sorelle mi culla come la voce di una madre. L’orso, ai miei piedi, è vigile. È lì a proteggermi, lo so. Avverto un respiro sulla fronte. Il viso si fa di pietra. Vorrei aprire gli occhi, ma non posso. Dietro le palpebre socchiuse, una luce blu mi ferisce lo sguardo. Un peso grava su di me, mi striscia addosso, si srotola come un viscido serpente. Le sue spire si stringono intorno alle gambe, alle braccia, il tocco ruvido mio graffia il collo. Di colpo, spalanco gli occhi. La pelle blu di Mahaha è contro di me. Sa di umido e pesce marcio. Le pupille cieche, due globi bianchi, mi fissano immobili. Spalanca la bocca, un gorgo nero, spaventoso. I denti, piccoli e aguzzi come punte di selce, tentano di strapparmi brandelli di carne. I demoni seguaci mi sono intorno, vogliono afferrarmi. Il loro bagliore oscuro entra nel petto. Cercano l’innua, la bramano. Vogliono strapparmela dal corpo. Le membra si agitano, sobbalzano, scosse da una danza invisibile. L’orso ringhia, si solleva sulle zampe posteriori. La figura gigantesca oscura il sole. Lo spirito della Madre Bianca si stende su di me come una benedizione: mi protegge. Mahaha si ritrae, sento il suo sibilo penetrarmi tra le ossa. Le onde gelide dei suoi capelli mi sfiorano il viso. Poi, un calore divampa in me. Fiamme danzano nel mio essere e fuori, si confondono con il fuoco sacro della Dea. Divampa alto contro la purezza del cielo, vedo il mio viso riflesso tra i barbagli del colore dell’aurora. Sono Inuit. Sono la Dea. Sono la terra. Tutto è in me. Le mie sorelle alzano il canto, le loro mani si uniscono per accogliermi.

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Intrecciano amuleti tra i miei capelli e il grido dell’aquila sorge in me. Lo avverto, avverto il vigoroso battito d’ali, vedo attraverso i suoi occhi. Sono la cacciatrice. Scorgo la preda, lì davanti ai miei occhi. Sotto le dita, la pelliccia dell’orso è morbida, poi trasmuta. Sono capelli quelli che sto toccando ora: bianchi, soffici come muschio. La Madre Bianca solleva la testa e mi guarda. Nei suoi occhi c’è la risposta. Sono libera. Il mio sangue ha chiamato sangue: la testa di Yuit conficcata in un palo, spalmata di grasso di foca, balena come il succo spremuto di una bacca rossa matura. Lanciò un grido di vittoria, che si mischia alla mia risata selvaggia. Oltre il corpo, mi sollevo leggera. Raggiungo le sorelle e mi unisco alla danza. In quella notte, ci offriamo alla Dea. Il nostro potere impregna la terra come latte denso e profumato. La mia gente, il Popolo, venererà Inuit e le sue sorelle fino alla fine dei tempi. «Rasmussen, guarda qua cosa ho trovato!» L’uomo biondo, in tuta termica blu scuro, si avvicina al suo collega di spedizione. L’altro tiene nel guanto un gingillo d’osso. Rasmussen glielo prende di mano, lo solleva contro la luce del sole. Lo guarda. È un amuleto a forma d’aquila. Innua. Un bisbiglio gli solletica l’orecchio. Innua. Uno strillo acuto sopra di lui gli fa sollevare la testa. Un’aquila artica si staglia contro il cielo, fiera ed enorme lancia il suo richiamo. Rasmussen infila il gingillo nella tasca e, in silenzio, s’incammina tra la neve. Note *Innua, nella lingua degli Inuit, significa “Anima”.

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Horimono di Romina Casagrande

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I

l dottor Alan Nakagima guardò ancora una volta l’impressionante horimono. Copriva tutta la schiena del ragazzo steso sul letto metallico dell’obitorio. Luci al neon riflettevano bagliori azzurrognoli sulle piastrelle bianche, cosicché il guerriero kabuki e il rabbioso kitsune, la volpe a nove code, sembravano fluttuare abbracciati nelle acque di un mare elettrico, increspate dal ronzio delle vecchie lampade. Pensò fosse una fortuna aver accettato quel turno di lavoro. Non aveva mai visto nulla di tanto perfetto, e prezioso. I maestri horishi impiegavano anni per terminare un’opera di quelle dimensioni, e dai colori opachi – il nero era stato ricavato alla vecchia maniera, dalla fuliggine raccolta dove era stata fatta bruciare corteccia di betulla – sembrava rispettare tutte le regole dell’antica tradizione. Il tatuaggio proseguiva sul davanti, scendendo sulle spalle, fino ai gomiti, e le anche. Uno splendido munewari. La parte interna del petto, lasciata libera come un fiume di pelle candida, serviva a nascondere il disegno sotto i bordi del kimono. Ma, pensò, sarebbe stato anche un vantaggio qualora avesse deciso di scuoiare il cadavere. Il tatuaggio non si sarebbe rovinato e il taglio netto lo avrebbe preservato intatto. Era arrivato a Tokyo da soli tre mesi eppure, sorrise Alan, era sempre più convinto che quella fosse la vita che aveva desiderato da sempre. Quello di cui aveva bisogno per lasciarsi tutto alle spalle. I negozi di Ginza, le ragazze sorridenti di kabuki-cho. E ora un magnifico horimono. La sua attrazione per i tatuaggi non aveva a che fare con il Giappone. No, quella di trasferirsi era stata solo una scelta dell’ultimo momento. Non avrebbe potuto trovare nulla di più estraneo da Lisa, dal suo ricordo, nulla di più lontano dall’America in cui avevano vissuto insieme. Lisa odiava la cucina giapponese, e la musica tradizionale. I bonsai. I manga e il modo per lei strano di leggerli dall’ultima pagina. Lisa amava i suoi cavalli, il ranch in Colorado dove aveva passato l’infanzia. Correre scalza. Gli hamburger di McDonald’s. A volte si chiedeva perché avesse amato lui. Non era giapponese, non del tutto almeno, ma quella terra era pur sempre nel suo DNA.

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Lisa. Si asciugò il sudore dalla fronte. E tornò a ispezionare l’horimono, la forma particolare in cui la pelle intrappolava il colore. Anche ora che le ipostasi sul collo e intorno alla nuca cominciavano ad assumere un colorito verdastro e la rigidità bloccava gli arti inferiori. Fin dai tempi dell’università aveva trovato affascinante il modo in cui la pelle genera il pigmento, la formazione spessa e irregolare dei nei che interrompe le forme lisce e perfette: il candore della superficie macchiato dall’impurità. E l’inserimento manuale di colore dall’esterno, attraverso il tatuaggio. Ma era molto tempo prima. Prima della specializzazione in anatomia patologica. Secoli prima dell’incidente di Lisa. Strinse gli occhi, bruciati dalla stanchezza. La relazione era già pronta e non trovava altro da aggiungere. Il foro di entrata del proiettile, sulla fronte, era una chiara ferita da scoppio. Un largo squarcio a forma di stella e le falangi mutilate – punizione autoinflitta dai membri della yakuza – non lasciavano molto spazio all’immaginazione. Regolamento di conti. Nessuno era venuto per riconoscere il cadavere. E Alan conosceva gente, dentro e fuori l’ospedale, che quel lavoro lo sapeva fare. In fondo scuoiare un uomo e conciare una pelle non è tanto diverso che con un qualsiasi altro animale. Impugnò il coltello a lama grossolana e sentì la pelle arrendersi docilmente, strappandosi in uno squarcio che lasciava intravedere il grasso sottostante. Chiuse la pelle nel contenitore con il terreno di lavaggio. Aveva in mente qualche nome. Gente veloce e affidabile che non avrebbe fatto storie e sapeva tenere la bocca chiusa. Non era legale, ma si trattava di un cadavere che non interessava a nessuno. Gliene erano già capitati altri di scagnozzi dello yakuza che avevano perso i favori del boss. Ed era abbastanza certo che la sua coscienza avrebbe potuto continuare a dormire sonni tranquilli. E come aveva sospettato, si addormentò in fretta quella sera. Dopo il solito whisky sulla terrazza del suo appartamento al penultimo piano di uno dei grattacieli della zona residenziale. Piccolo, ma pieno di tutto quello che serviva a uno come lui. Maxischermo per le partite dei Giants, satellitare e allacciamento internet per controllare che il mondo fosse ancora da qualche parte lì fuori, giusto per tenerlo un altro po’ lontano da sé. Jacuzzi ad angolo e spettacolare vista sul quartiere di Shinjuko che quando si illuminava di notte gli faceva quasi credere di trovarsi in una scena di Blade Ranner. Al notiziario avevano dato l’ennesimo reportage sull’incendio di Shiba.

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Il posto in cui poco prima era morto ammazzato il poveraccio che gli aveva lasciato in eredità l’horimono. Avevano mostrato le immagini delle vittime e di una donna, recuperata tre ore dopo il disastro e ricoverata all’ospedale in cui lavorava. Ustioni di terzo grado su tutto il corpo. Un bel peccato, pensò. Aveva un viso giovane e grazioso. Ma gli occhi erano tristi, spenti in un velo opaco. Come quelli di Lisa. Quando lui le aveva detto che non l’amava più. Prima dell’incidente. Poi le immagini tornarono su volti sorridenti. Mani che stringevano lanterne posandole delicatamente nel fiume mentre piccoli fuochi sospesi nell’oscurità vibrante accendevano la notte in un rincorrersi lento. A richiamare i morti, a ricordargli la via, nella festa dell’O-bon. L’horimono arrivò in una comune, anonima scatola di legno che il premuroso portiere si era preoccupato di fargli trovare davanti alla porta, proprio come gli aveva richiesto. La teca di vetro era già pronta nel lungo corridoio, adagiata sulla parete bianca illuminata da faretti dalla luce stellata, e Alan trascorse gran parte della serata a sorseggiare il suo whisky davanti alle linee vorticose del guerriero e della volpe avvinghiata alla sua schiena con fauci spalancate. Poi uscì per festeggiare al suo locale preferito di kabuki-cho. Era un cliente rispettato e le ragazze facevano a gara appena lo vedevano arrivare. Scontrose, maliziose, rettili che nascondono un cuore freddo dietro occhi fatti di fuoco. Ne scelse due. Carine, ma non da perdere la testa. Giovani, ma dallo sguardo scaltro e avido, quel che bastava per non sentirsi in colpa. Respirò l’aria umida mentre si lasciava il locale e le sue sete finte alle spalle. Ma non trovò il sollievo della frescura. La gola si era stretta in un nodo amaro che assottigliava il fiato. E il marciapiede ondeggiava sotto il suo passo incerto, ardesia che scivolava sotto i suoi piedi come le spire ambigue di un rettile, che cambiano direzione e confondono la percezione. Doveva aver esagerato con l’alcol. Anche se non era certo il tipo da non reggere qualche bicchiere di sake. Le strade erano attraversate da gente che camminava con lo sguardo abbassato, di fretta. Ragazzi alla moda seduti sui marciapiedi e turisti con macchine fotografiche e videocamere. Per un attimo, soltanto un istante, gli parve di vedere la ragazza del notiziario, quella dagli occhi tristi. Era salita su una limousine nera che gli sfrecciò accanto. Ma non riuscì a vedere attraverso i vetri oscurati e si convinse che doveva aver bevuto troppo davvero. Si buttò nel letto senza togliersi le scarpe. In un ultimo attimo di lucidità

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ringraziò il suo mal di testa, la nausea, e pensò che stordirsi portava sempre dei vantaggi. Da qualche parte, nella sua mente, si nascondeva un pensiero che lui era troppo stanco per ripescare. Un pensiero che stava bene lì dov’era, tra le alghe e le lanterne dell’O-bon che incendiavano la superficie del lago in cui cominciava a immergere lentamente i piedi. L’acqua bagnava le caviglie, stringendo le gambe in cerchi dalle dita gelide che risalivano. Abbracci pericolosi come lame. Tra le fiammelle che diradavano la nebbia, respingendola dallo specchio appena increspato, Alan visualizzò un volto. Il desiderio di avvicinarsi, di stringerla ancora, bruciò il cuore come il fuoco divampato da tutte le lanterne in un solo istante di vento. Reale, come l’ultima volta, lontana e bellissima come i sogni. Aveva uno sguardo triste, ma a un tratto sorrise, nel veloce guizzo di una volpe. Prima di scomparire di nuovo nel buio. Probabilmente si trovava all’Inferno. Dov’era giusto che fosse. Oppure si era semplicemente rotto il condizionatore. Ma il fuoco che ruggiva sulla pelle era vivo e reale. Dal centro del suo petto si irradiava lungo il corpo come un’onda che gli stringeva i polmoni in una morsa, spezzandogli il respiro ancora intorpidito dal sonno. Sbarrò gli occhi sulla scritta azzurra proiettata sul soffitto. Le 03:20. Allungò un braccio. E si accorse di essere ancora vestito. La camicia era inzuppata di sudore. Si liberò delle scarpe e slacciò i bottoni. Senza accendere la luce. Le tempie pulsavano come se il cervello stesse schizzando dalle orbite. Si massaggiò la fronte. Ma una fitta al ventre irrigidì i muscoli in uno spasmo. Si alzò di scatto mentre intorno la stanza aveva preso a galleggiare in contorni sfumati. Il dolore era più crudele. L’artiglio di una bestia nella carne. O di qualcosa. Che scavava. Barcollò fino al bagno, tenendosi ai bordi del letto e appoggiando poi il braccio sul muro freddo della parete. Si spruzzò il viso con acqua gelata. Ma il brivido non fece che rendere le fitte più crudeli e rapide. Si strinse il ventre, alzando la canottiera. Strinse le palpebre per ritrovare lucidità e si passò la mano tra i capelli, premendoli all’indietro in una carezza energica. Quel che bastava per non credere che qualcosa, nella sua carne, si stesse muovendo davvero, con il serpeggiare disordinato di un verme. Non c’era sangue. Nessuna macchia. Esaminò il piccolo buco sotto

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l’ombelico. E avvicinò la mano, sfiorandone i bordi con la punta dell’indice. Lo premette più a fondo, lentamente, e lo vide scomparire nella carne, avvolto dal sentore di viscere che cedevano, sfaldandosi come cera. Non sentiva male e il terrore aveva acquietato gli spasmi. Si fermò, il dito bloccato contro un nodo, un bitorzolo gelatinoso che al suo tocco scivolò più indentro con il guizzo serpentino di una coda. Alan cadde a terra. Le mani tremavano sotto la spinta di onde che annebbiavano la mente. Si aggrappò al lavandino e afferrò in fretta lo specchietto da barba. Lo avvicinò mentre il vetro si riempiva della voragine nera che aveva dilaniato il ventre. Il verme, o qualunque razza di insetto che scavava nella sua carne, si era fermato di nuovo. Soltanto un attimo prima di ricominciare a mordere e grattare per arrivare alle viscere. Il dolore lo fece crollare sulle ginocchia mentre barattoli e profumi si schiantavano in una pioggia di vetri. Afferrò la lametta, senza badare troppo al verso della lama. Senza quasi sentire il bruciore dei palmi tagliati, il pensiero pieno di un solo bisogno, di un unico grido: liberarsi della creatura. Alan Nakagima si svegliò con il sole già alto che filtrava dalle ampie vetrate, ferendo le palpebre. Non ricordava nulla, se non le immagini di un sogno, singhiozzi labili di una coscienza maltrattata da una notte senza sonno. Aveva soltanto voglia di non pensare, di riempirsi lo stomaco con un frullato, e guardare il guerriero kabuki per assicurarsi che la teca fosse ben chiusa e il suo horimono al sicuro. Quasi qualcuno potesse rubarlo, portargli via il suo tesoro prezioso. Quasi all’improvviso non contasse nient’altro. Una stupida affezione. Sorrise; una smorfia acida come stilettata gli fece digrignare i denti. Soltanto allora si accorse del liquido rosso che imbrattava le lenzuola, incrostato sulle mani e sul ventre. E ricordare fu di nuovo facile, acqua che lo trascinava nella corrente. Le sensazioni, il terrore, erano vividi come tagli incisi nella carne. Rivide le lame, sentì lo scivolare freddo delle piastrelle del bagno sotto le sue mani tremanti mentre sfiorava la pelle ripercorrendo i tagli. Lo specchio alla parete gli rimandò un’immagine in cui non si riconobbe: un fantasma insanguinato, un corpo nudo coperto di cicatrici. E lì, sul ventre dove aveva sorpreso nascondersi la creatura, i tagli sembravano disporsi con una logica coerente per comporre un numero, 116, mentre il mondo cominciava a perdere senso.

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Fu Majima, il suo assistente dell’ultimo anno, ad accoglierlo all’entrata dell’ambulatorio. Lo afferrò per la giacca e lo spinse dietro l’angolo. Era molto agitato. «Dottor Nakagima, ho provato a dirle che non si poteva! Mi sono rifiutato fino all’ultimo. Ma lei è una… una che conta», si interruppe, la voce impastata dall’imbarazzo, «e ho dovuto farglielo vedere.» «Chi, Majima? Farle vedere, chi?» «La signora della stanza 116… la sorella della signora ricoverata nella 116», si corresse, «voleva vedere il cadavere del ragazzo con l’horimono.» Le parole di Majima arrivavano attutite, coperte dall’unico suono stridente di quelle cifre, 116. Fu lo sguardo insistente del ragazzo, gli occhiali appannati dal sudore, a riportarlo alla realtà. «E tu che hai fatto?» «Ho sistemato il ragazzo, come ho potuto. In fondo a lei bastava vedere il volto, niente di più.» «Ha chiesto altro? Ha fatto domande?» Majima scosse la testa. «Bene.» Guardò verso il corridoio e sentì Majima, dietro di sé, irrigidirsi dalla paura, gli occhi fissi sulla donna che gli passava davanti in eleganti, controllate falcate. Era vestita all’occidentale, come tutte le giapponesi dalle tasche traboccanti di yen. Un rossetto corallo spiccava sulla pelle diafana, incorniciata da un drittissimo carré, nero e lucido come onde di seta. La donna si fermò, forse richiamata dallo sguardo titubante di Majima che abbassava il volto con drammatico ritardo. «È lei il dottor Nakagima?» chiese in un perfetto inglese. «Il dottore americano.» «Posso esserle utile, signora…» «Satou», disse guardandolo dritto negli occhi. Ad Alan suonava familiare. «Devo chiederle un favore, dottor Nakagima, di cui io e la mia famiglia le saremo grati. Conosciamo la discrezione di questa struttura. Mio nonno ha creato questo centro quasi mezzo secolo fa. È sempre stato fissato con la sperimentazione. E la beneficenza, certo. Il tentativo di un uomo vecchio e solo di ripulirsi la coscienza. Ma credo che lei abbia letto la targa e sappia ogni cosa.» Lui annuì. «Non voglio giornalisti né fughe di notizie. Mia sorella non sarà mai passata attraverso queste stanze e», inarcò le sopracciglia, «in alcun modo

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il suo nome dovrà essere associato a quella feccia dello yakuza. Sono contenta che quel cane sia morto. Mi scuserà, ma non ho potuto fare a meno dell’intima soddisfazione di vedere il suo cadavere.» «Nessun giornalista e nessuna voce, signora Satou». Alan tirò un sospiro di sollievo. Poteva quasi ridere dello stupido spavento che quel pappamolla di Majima gli aveva fatto prendere. La vide uscire dal retro, perfetta nel suo tailleur nero. Così simile alla donna che aveva visto salire nella limousine a kabuki-cho. Se la signora Satou poteva essere certa che non si sarebbe lasciato sfuggire le frequentazioni della sorella, sembrava che al Medical Center molti già conoscessero la bella Mizue e che le sue preoccupazioni non fossero del tutto infondate. Majima gli confermò che la ragazza della 116, come molte coetanee annoiate, si era innamorata di uno scagnozzo poco raccomandabile – che, pensò con rammarico, aveva ottimo gusto in fatto di tatuaggi… e di donne. Era stato lui a offrirle il primo speed. Poi, si sa come vanno queste cose. Noia, solitudine. Capriccio. E l’insofferente e ribelle Mizue si era trovata in squallidi alberghi a ore, come quello in cui era stata ripescata nell’incendio del quale non doveva neppure essersi accorta. Se non fosse stato il fuoco, sarebbe forse bastata la dose che si era iniettata quella sera a stroncarle il cuore. Staccato il turno, Alan decise di prendere una boccata d’aria ai giardini Gyoen. Dar da mangiare alle carpe aiutava a pensare e lo rilassava. Erano successe alcune cose strane che non quadravano e a cui non aveva alcuna voglia di dare peso. Ma come spilli nascosti nella giacca, pungevano e lo rendevano inquieto. Il sogno, lo stato assurdo in cui si era svegliato quella mattina, la coincidenza del numero. Troppo per essere nascosto sotto la semplice scusa di una sbronza. Forse c’era qualcosa di malato nella sua mente. Qualcosa che si era rotto nel momento in cui aveva saputo di Lisa, dell’incidente. E un collega gli aveva stretto le spalle – proprio come lui aveva fatto centinaia di volte con pazienti di cui si sarebbe presto dimenticato il nome – rivelandogli quello che lei non gli aveva detto. E che lui non aveva saputo ascoltare. Se lo avesse saputo, non avrebbe avuto il coraggio di parlare come quella sera. Di lasciarla. E lei non si sarebbe trovata su quella strada, uccisa a trentaquattro anni da un ragazzino ubriaco e bruciato di anfetamina. A trentaquattro anni. Incinta della loro bambina.

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Si sedette su una delle panchine del parco, dove ghiaia finissima degradava nelle anse quiete del ruscello. Il profumo di resina lo avvolgeva insieme alla carezza del basso pino, tra i colori intensi delle magnolie. Le lanterne galleggiavano sospinte dalla corrente, come nel sogno che aveva preceduto il terrore che ora si sforzava di far scivolare via. È il tatuaggio, Al. Alan si voltò in cerca della voce. Un brivido risalì la schiena fino alla nuca, condensando la tiepida aria della sera in uno schiaffo gelido. Era la voce di Lisa. L’avrebbe riconosciuta tra mille, fino alla fine dei suoi giorni. Una donna gli sorrise e si allontanò con la figlia, il piccolo lume acceso tra le mani come una stella confusa. Non mi piace quel tatuaggio, ripeté la voce. Alan scosse la testa, incapace di trattenere un mezzo sorriso. Il suo cervello stava andando in pappa. Ma parlare con lei era tutto ciò che voleva. Che desiderava in quel momento, più che mai. Fino a credere che lei fosse davvero lì e stesse parlando con lui. Che importava se stava diventando pazzo? I pazzi sono infinitamente più felici. «Non ti è mai piaciuto niente che avesse a che fare con il Giappone, Lisa», sussurrò abbassando il volto. Conosci il significato dello kitsune? «Un demone che si trasforma. A volte prende le sembianze di una bellissima donna. Ma il suo travestimento è imperfetto e capita che una delle sue nove code sbuchi da sotto le vesti per rivelare la sua natura.» Vide il meraviglioso sorriso di Lisa, i suoi occhi azzurri sotto il caschetto biondo. Come ogni volta che lui le leggeva nella mente, in una sintonia che nessuno avrebbe mai potuto spezzare. Né eguagliare. Siamo tutti intrappolati qui, Alan. Demoni e anime. E sai cosa desideriamo di più al mondo? chiese increspata dall’ansia e da qualcosa di simile a nostalgia. Alan ci pensò su. Camminare tra voi, sussurrò morbida la voce. Un respiro appena più consistente del vento che lo avvolse completamente con il profumo delle magnolie.

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«Ti amo, Lisa.» Alan sentì il sapore amaro delle lacrime rigargli le guance. Le asciugò con i pugni, strizzandosi gli occhi fino a farli bruciare. E tornò verso casa. Fece una doccia bollente e prese venti gocce di Lexotan. Ma tutto quello che gli riuscì fu di smettere di pensare a Lisa e focalizzare nella mente il volto della povera Mizue. Vittima dello stesso uomo di cui lui aveva il tatuaggio. Non era normale neppure tenere un lembo di pelle umana nel salotto, pensò in un attimo di grottesca autoironia. Ma era un dottore e, come aveva letto in una rivista a proposito dei chirurghi, una latente anima da serial killer imbrigliata in nome della scienza. Anche il ragazzo dell’horimono aveva ucciso? Probabilmente sì. E violentato. Minacciato. Spacciato droga. E ridotto ragazze deboli come Mizue a larve, allontanandole dalla loro famiglia per farle morire in uno squallido motel, soffocate da una dose di cui forse lo avevano ringraziato. Che si erano guadagnate in quale modo. Continuò a vedere il volto di Mizue, i suoi occhi sbarrati sul soffitto. E il guerriero kabuki che sorrideva tracotante. La signora Satou, nei suoi vestiti costosi. In un vortice che comprimeva il cervello. Si svegliò sudato. Brividi di freddo increspavano la pelle. E se Lisa avesse avuto ragione? Era cominciato tutto con il tatuaggio. Andò in salotto, senza badare alla sagoma scura che lo seguiva nel riflesso dei vetri. L’horimono era nella teca, illuminato dai faretti. Ma puntini bianchi si agitavano in un brulicare lattiginoso. Alan si avvicinò. Le macchioline di luce divennero occhi. Occhi che lo guardavano. Occhi di larve che divoravano la pelle. Alcune ricadevano sul bordo della teca, ammassandosi negli angoli. Era un sogno. Come quello della notte… della notte che aveva segnato le sue carni con tagli che non erano scomparsi con la luce del sole. Tagli che lo avevano legato alla donna della stanza 116. Un soffio rovente frustò l’aria e per un attimo Alan pensò fosse il momento perfetto per svegliarsi, il momento in cui nei film l’attore si ritrova nel suo letto e scopre che niente è stato reale. Le candele sulle mensole si accesero in vigorose fiammelle e proiettarono sulla parete l’ombra del guerriero e dello kitsune che nella sua mente si confondevano con il mortale abbraccio dello yakuza, chino sul corpo

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di Mizue per stringerle il polso offerto per la dose. La fiamma più alta si spense in un battito di fumo che scivolò sull’horimono, assumendo altre forme, altri contorni che lo portavano indietro nel tempo, in una zona buia da cui si era sempre guardato bene dal tornare. Erano contorni feroci e grotteschi, incomprensibilmente simili al profilo del ragazzo inginocchiato davanti al corpo senza vita di Lisa. Al suo sguardo sbiadito dal terrore mentre cercava la fuga, lontano da lì, dalla donna che aveva ucciso, lasciata a terra come un animale ferito, come un oggetto di nessun valore. Avevano litigato, quella sera lui e Lisa. E le aveva rivoltato addosso la sua frustrazione, la rabbia che si era vestita di parole senza alcun senso. Perché lui la amava. Ma lei era migliore di lui. Lo era sempre stata. E tutta quella perfezione, quella fragilità che sa farsi controllo e superiorità, lo facevano sentire minuscolo. Ora che aveva perso il lavoro, ora che il senso di colpa per averla tradita in un attimo di stupido orgoglio lo aveva trasformato in una persona in cui non si riconosceva. Un feticcio che odiava e che sbiadiva nel rimorso. Lei aveva preso le chiavi della macchina. Era uscita, senza dire più nulla, senza sbattere la porta. Silenziosa e bellissima, una cosa troppo perfetta per non scivolare via dalle sue mani incapaci di trattenere ciò che amava. Incapaci di riconoscerlo. Incapaci di proteggerlo. Alan gridò, ma non sentì nessuna voce mentre una pioggia di vetro si conficcava nelle braccia, nel petto. La teca esplose in un tuono di sangue e di rabbia coperto dalla fame cieca del fuoco che consumava l’horimono facendone cenere. Poi il silenzio. Mortale. Raggelante. In un mare lattiginoso dove ogni cosa è rimasta intrappolata, sospesa, quasi il tempo si sia fermato. Mizue guarda dalla finestra della stanza del motel. Una camera grigia che sa di muffa. Segue il ragazzo con un sorriso che stona con l’idea della bambina ingenua e fragile che se ne è fatto Alan. Sa cosa accadrà. È stata lei a volerlo, perché è così che può sopravvivere. Inclina leggermente la testa verso la rimessa, dove l’uomo vestito di nero attende, e fa un debole cenno di assenso. Il ragazzo con l’horimono è sorpreso. Non si accorge neppure che l’uomo ha una pistola e quando gliela punta alla testa, è ormai tardi.

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La ragazza sorride ancora mentre vede richiudersi i buchi lasciati dalle siringhe sul braccio, di nuovo liscio e pallido come seta. Sangue per asciugare le sue ferite. Un sacrificio, un dono agli dei, perché si dimentichino di lei e la loro distrazione le permetta ancora una volta di correre nel mondo vestendosi di carne. Ce ne saranno degli altri. Altre vite di cui potrà cibarsi, che potrà fare proprie per continuare a camminare tra i mortali. Soltanto allora si accorge dell’odore di plastica bruciata. I sensi in allerta come quelli di un animale che avverte l’odore del fuoco. Il fuoco che la intrappola, che prima le ruba il fiato e poi consuma la carne. L’incendio che non poteva prevedere, lo stesso fuoco che adesso divora Alan. Troppo presto perché il sacrificio la riporti indietro. Ma non abbastanza perché una delle sue nove code si aggrappi a lui e lo trascini con sé. Insieme, nel baratro nero. Per un nuovo dono che distragga gli dei. L’immagine di Mizue quasi scompare, dissolta tra i riflessi delle fiamme intrappolate nei mille frammenti della teca di cristallo. Il corpo di Alan si spezza, attraversato da una scossa di dolore che lui non riesce più a contrastare. Non c’è nessuna voce. Nessun volto. Né il sorriso di Lisa che gli viene incontro. Soltanto gli occhi lucenti di Mizue, che a un tratto si stringono in lame taglienti, e le fauci che si spalancano sul suo collo. Anche la ragazza della 116 sbarra gli occhi, riemergendo da un sogno che le ha tolto il respiro. Si aiuta con le braccia, per mettersi a sedere, la schiena contro il freddo poggiatesta del letto. Poi osserva le mani, volta i palmi e indugia sulla pelle liscia, bianca come gigli lì dove l’incendio aveva scavato e divorato. Socchiude gli occhi. Alan è lontano. In un mondo senza luce. Ma è a lui che deve questo piccolo miracolo.

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A volte, le anime intrappolate si ricongiungono ai loro cari. Li mettono in guardia, gli sussurrano segreti che pochi ascoltano. A volte, i demoni camminano tra i mortali. Accade. Quando non si è abbastanza furbi da riconoscere le nove code della Volpe e da ascoltare i segreti sussurrati da chi ci ha amati.

Note I nomi giapponesi ricalcano la caratteristica della lingua, dotata di maschile e neutro, priva di femminile, per cui sostantivi femminili in italiano (volpe) vengono volutamente lasciati nel loro genere originale (kitsune, yakuza). Anche la scelta di non accentare la parola sake, è dovuta alla stessa volontà di mantenersi fedeli alla lingua.

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La Masca di Elisa Emiliani

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Si dice che le streghe non possano morire senza aver passato il potere a una nuova masca

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tacchi di vernice lucida continuavano a incastrarsi tra lapidi e radici. Forse avrebbe dovuto mostrarsi impaurita. Davide, accanto a lei, certamente sarebbe stato felice di rassicurarla, risollevando allo stesso tempo il suo ego ferito. Delia però non riusciva a mostrare paura, nemmeno quando ne provava. Certo, se al posto di Davide ci fosse stato il capitano della squadra di basket avrebbe finto molto volentieri, aggrappandosi al suo braccio come una donzella indifesa. Ma non c’era. Era quello il punto. Si malediceva per essersi vestita in quel modo ridicolo, tradendo i suoi anfibi per quelle assurde decolté, con l’unico scopo di compiacere il maschio umano che stava puntando. Era stata tremendamente ingenua: il capitano non si era presentato. Né lui, né la ragazza di cui Davide era innamorato, in assoluto la più smorfiosa del triennio. Incapace di frenare i suoi pensieri, Delia immaginava la fatidica conversazione con cui Davide aveva cercato di convincere il capitano a uscire con loro. Doveva essere andata più o meno così: «Vuoi che esca con la tua amica, la notte di Halloween?» chiede il capitano strabuzzando gli occhi, per essere sicuro di aver capito bene. «Beh, sì, guarda che è carina», risponde Davide, che è imbarazzato ma non vuole darlo a vedere. Il capitano corruga le sopracciglia. È scettico. «Senti, non ti ci devi mica mettere insieme. Ti dico che è carina anche se si veste male, e soprattutto è una che la dà.» Sì, Davide doveva aver detto una cosa del genere per tentare di convincerlo. «Tu ci sei stato?» chiede il capitano. «Ma no, Delia è come una sorella.» «Allora come fai a sapere che la dà?» «Me l’ha detto lei, no?» «Uhm.»

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Black Cat

Illustrazione Š Abigail Larson Site: www.abigaillarson.com


Delia sorrise, tornando a concentrarsi sulla notte, le lapidi e la luna. Era vero, era “una che la dava”. E con questo? La verginità era un concetto sopravvalutato, nonché un problema da lei abbondantemente superato. Il capitano era carino ma un po’ scialbo, biondo. Un principe azzurro. Quasi sicuramente un verginello. Rise, incapace di trattenere la convulsione che le premeva sulla gola. Ne risultò un suono strozzato. «Sei inquietante, lo sai? Perché ridevi, si può sapere?» chiese Davide. Delia abbassò lo sguardo. «Niente», rispose, ma il ricordo del pensiero la fece sorridere di nuovo. «Dai, Delia, smettila. Non mi sembra che ci sia molto da ridere», bofonchiò afflitto. Stava di nuovo contando sulle dita, con espressione drammatica, il numero di volte che una ragazza gli aveva dato buca. Delia sghignazzò: «Dovresti essere contento, no?» Davide le lanciò uno sguardo perplesso: «Di cosa, scusa?» «Che ti bastino le dita delle mani!» scherzò Delia, schivando il ceffone amichevole in arrivo. Era innamorato cotto di quella cretina da circa un anno. Lei non lo aveva mai guardato, nemmeno per sbaglio, perché quelle come lei erano molto brave a non lasciarsi scappare neanche uno sguardo casuale che potesse incoraggiare un pretendente indesiderato. Se pensava all’entusiasmo di Davide per quella serata le si stringeva il cuore. Lei, al contrario, non era mai stata entusiasta del “progetto Halloween” e in quel momento voleva solo tornarsene a casa. I piani di seduzione erano falliti ancora prima di essere messi in pratica e da tutta quella storia aveva guadagnato solo un gran male ai piedi. Mentre passeggiavano tra le tombe, Davide iniziò a dare segni di ripresa profondendosi in dettagli storici circa i roghi, le torture e le impiccagioni delle streghe sepolte nel piccolo cimitero. Il suo argomento preferito. Delia si fermò accanto a una lapide molto consunta, su cui non si leggeva più l’iscrizione. Si chiese quanto fosse vecchia, quanti anni servissero al tempo per cancellare un nome inciso nella roccia. Sempre che ci fosse mai stato un nome. Era una pietra grigia e rugosa, asciutta. Non appena la toccò, le narici si riempirono di un odore selvatico, come di legno marcio e terra bagnata mischiata al puzzo di carogna in decomposizione. Trattenne un conato di vomito e si rialzò, cercando Davide. Si voltò di centottanta gradi e lo vide arretrare circospetto, il volto deformato dal terrore. Delia si toccò la faccia per accertarsi di non essere diventata un mostro, poi un prurito alle scapole la costrinse a voltarsi. Sulla lapide c’era un enorme gatto nero dal pelo irsuto, la coda che si

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muoveva nervosamente a destra e a sinistra, gli occhi di fuoco puntati su di lei. In quel momento aveva paura, ma non mosse un muscolo. Quando il gatto prese a soffiare e urlare furiosamente Davide fuggì senza voltarsi indietro. Lei, invece, rimase. Agli occhi di Delia la bestia sembrava crescere sempre di più e sempre più in fretta. Il tempo rallentò. In cielo una luna pallida si mostrava a tratti fra le coltri di nubi. Era una delle prime notti fredde dell’anno e Delia rabbrividì. O l’animale stava davvero crescendo, o la lapide su cui era appollaiato stava rimpicciolendo a vista d’occhio. Cercò di arretrare di un passo, ma i tacchi erano piantati a terra e gli occhi non volevano distogliersi dallo spettacolo innaturale a cui stavano assistendo. Il gatto aveva acquistato le dimensioni di un lupo ed era sceso dalla lapide. I versi che emetteva assomigliavano più a grida umane che a miagolii, mentre la pelliccia nera si ritraeva lasciando spazio a pelle e capelli. Prima che riuscisse a muovere un passo, di fronte a lei, al posto di un gatto, trovò una donna giovane e brutta. Si riscosse dal torpore inebetito che l’aveva avvolta e guardò freneticamente a destra e a sinistra, avanti e indietro. «Cosa cerchi?» sentì chiedere alla donna, che giaceva nuda di fronte a lei senza mostrare alcun imbarazzo. “Il gatto” pensò Delia. “Sono sicura che prima qui ci fosse un gatto gigantesco”, ma non disse nulla. Sentiva la mente sfuggirle. “Sono impazzita”, pensò, “ma come faccio a esserne sicura? Forse la pazzia è proprio questo: non essere sicuri. Magari sono pazza, magari no, e non saprò mai più riconoscere la differenza.” Prese a ridere ma le pareti della laringe si richiusero su se stesse e rischiò di strozzarsi. Tossì. La donna nuda, senza neanche un filo di pelle d’oca, l’aspettava paziente. “La donna è il gatto”, le suggerì una vocina che giungeva da un angolo sperduto del cervello. Aveva sempre desiderato un gatto, una volta ne aveva avuti tre, ma solo per un breve periodo. Sua zia aveva un grosso gatto di campagna che le portava topi morti in dono. “La donna è il gatto”, si disse. Fu come la rivelazione di un dormiente che viene strappato al sonno di soprassalto. I suoi occhi ripresero a scrutare quello che decise di accettare come il mondo reale. La donna, il cimitero, la notte, Halloween. «Eri un gatto.»

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La donna sorrise. «Sono Micilina», disse, «un tempo masca di Pocapaglia.» Aveva dei capelli neri lunghi e sporchi, il naso storto e gli occhi infossati. La pelle era liscia ma di un colore grigiastro e sul viso era talmente tesa da mostrare il teschio. Delia sgranò gli occhi. «Quella Micilina?» chiese. Quando la donna annuì, Delia fu percorsa da un brivido che la scosse come un giunco. Tutti conoscevano quella storia, si studiava a scuola, a catechismo e alla sagra della burnia c’era tutti gli anni una rievocazione del processo. Michelina, detta Micilina, era venuta da fuori e aveva preso a fare magie e dispetti a tutti. Il diavolo era il suo compagno, quando toccava un bambino lo deformava e se ti guardava ti gettava il malocchio. In combutta col demonio aveva ucciso suo marito, poi era stata processata, interrogata, impiccata e bruciata. Era circa il 1500. «Mi dispiace che ti abbiano impiccata», disse Delia, un po’ perché lo pensava davvero e un po’ perché aveva paura. La donna soffiò come un gatto e Delia fece un salto. L’aveva sempre molto toccata la storia della strega. Sua zia diceva che era solo una povera erborista con un marito sbadato che si era rotto il collo cadendo da un albero. Ai tempi dell’inquisizione era sufficiente per essere processata come strega. I suoi genitori, invece, credevano che fosse davvero in combutta col demonio. Strega o meno, a Delia la figura di Micilina aveva sempre suscitato simpatia. Certo, vederla in carne e ossa era ben diverso, faceva paura, ma Delia era anche morbosamente curiosa. Decise di tacere, tuttavia, perché non sapeva come la strega avrebbe potuto reagire. Micilina smise di soffiare e prese a leccarsi un braccio, poi l’altro. «Essere impiccati», disse infine. «Il mio corpo è morto in quel momento, era molto stanco e sofferente, è stato quasi bello.» Delia deglutì. «Ma la mia anima non è morta, perché non hanno permesso a nessuna di avvicinarmisi. C’è mancato poco che riuscissi a toccare una bambina, ma mi è scappata.» Delia doveva avere un’espressione beota sulla faccia, perché Micilina sbuffò. «Non sono riuscita a passare il mio potere, capisci?» Delia scosse il capo, timorosa. «Una masca non può morire, se non ha passato il suo potere. Capisci ora? Il mio corpo è bruciato, ma la mia anima vive nel corpo del gatto e non potrà mai morire se non troverò una strega a cui passare il mio potere.»

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Così dicendo, Micilina si alzò lentamente, i capelli che le coprivano il volto e i seni, e mosse alcuni passi in direzione di Delia. La ragazza sentì il cuore che batteva all’impazzata e temette di avere un infarto. La strega si avvicinava con un’espressione estatica in volto, tendendo la mano. Non ricordava come avesse fatto, ma era riuscita a muovere le gambe e correva a rotta di collo verso l’entrata del piccolo cimitero. Caracollò fuori aggrappandosi al cancello sgangherato di ferro battuto. Il suo motorino era ancora lì, ma soprattutto c’era Davide. L’aveva aspettata per tutto quel tempo. Nel vedere il suo viso dolce provò un miscuglio di sollievo e imbarazzo che le fece girare la testa. Lui le corse incontro: «Stai bene?» Delia gli prese la mano continuando a lanciare occhiate al cancello. «Sì, sto bene, allora andiamo a casa tua?» chiese, iniziando a tirarlo verso il suo vecchio Gilera e sperando con tutto il cuore che non s’ingolfasse. Davide la seguì, ma era indispettito. «Si può sapere cosa stavi combinando lì dentro?» Delia gli passò il casco e infilò il suo. Le tremavano le mani. Che cosa avrebbe dovuto rispondergli? Se avesse detto la verità l’avrebbe presa per pazza. Doveva mentire. «Niente, il gatto è scappato e mentre aspettavo che tornassi indietro ho fumato una sigaretta. Certo che sei fifone! Possiamo andare adesso? Guida tu, dai.» Poteva avvertire l’espressione perplessa di Davide sotto il casco, ma in quel momento voleva solo allontanarsi dal cimitero, dalla strega e dalle sue mani scheletriche. «Allora perché sei uscita di corsa, scusa?» «Te lo racconto a casa», ringhiò Delia, spingendolo sul motorino. Il vento e la stradina di campagna non erano piacevoli come aveva sperato poco prima, le mani continuavano a tremarle e sotto la giacca sudava freddo. Aggrappata alla schiena di Davide scrutava le tenebre appena scalfite dai piccoli fari e tendeva le orecchie cercando inutilmente di udire qualcosa oltre al rumore del motore a due tempi. Arrivarono al vialetto d’ingresso senza che quasi se ne rendesse conto. Quella di Davide era una vecchia casa contadina ristrutturata come villetta, che sorgeva da un giardino ben curato. Non aveva nulla della casa di campagna, se non la posizione, ma era molto accogliente e i genitori di Davide erano fuori per qualche giorno, quindi era tutta per loro. Lasciarono fuori il motorino ed entrarono nell’aria calda dell’ingresso;

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passarono dal salotto per prendere il rum e dalla cucina per il succo di pera, poi scesero in tavernetta. Dopo i primi due bicchierini Delia si sentiva meglio e si dedicò con impegno ad accendere il fuoco, concentrandosi sulla buona riuscita dell’operazione e dimenticando il gatto e la strega. Davide continuava a parlare della sua bella decantandone le virtù. Com’era raffinata, di classe, ma anche intelligente e sensibile. Delia aveva voglia di vomitare, ma ci bevve su e non fece commenti. Si buttò sul divano e fissò le fiamme che consumavano il legno con un lavorio ipnotico. Tutto a un tratto nella brace le sembrò d’intravedere un’ombra che la fece trasalire, ma tornò a distendersi. L’episodio al cimitero l’aveva scossa, era ovvio che avesse ancora paura. «Allora, adesso vuoi dirmi cos’è successo?» chiese Davide. Delia non fece in tempo a rispondere «No», che un miagolio furibondo risuonò nella stanza. Schizzò in piedi. Sentiva il cuore battere all’impazzata e il sangue rombare nelle orecchie. Cercava di individuare la fonte di quel verso infernale, ma vedeva la stanza attraverso una patina traslucida, come quando d’estate l’atmosfera tremola per il troppo calore. Davide aveva afferrato un attizzatoio e si guardava intorno cercando un bersaglio. «Cosa facciamo?» chiese Delia in un sussurro. «Non lo so, ma tu hai visto qualcosa?» «No!» bisbigliò Delia. I miagolii erano cessati e si sentiva solo il crepitare del fuoco. Delia si ritrovò a fissare le fiamme e lo sguardo si fece vacuo mentre un’ombra scivolava sui ceppi ardenti. Le fiamme si alzarono e l’ombra sembrò trascinarle oltre la mensola di granito, a divorare i fiori secchi e i libri lasciati incustoditi, attecchendo sulla carta da parati. Il gatto riprese a urlare i suoi gemiti infernali e il fuoco sembrò trovarne sostentamento, ruggendo in una colonna alta ormai fino al soffitto. Davide si gettò sul divano afferrando un cuscino e tentò di avvicinarsi per soffocare le fiamme, ma il fuoco gli strappò il cuscino di mano e gli bruciacchiò i capelli. «Dobbiamo uscire!» gridò Delia, e iniziò a tossire. Gli occhi le lacrimavano. Sentì la mano di Davide che l’afferrava e la trascinava su per la rampa di scale. A ogni gradino respirava meglio e quando furono al piano di sopra riuscì a riaprire gli occhi. Dalla porta delle scale uscivano fiamme e un calore insopportabile. «Fuori!» gridò, e corse con Davide in giardino.

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Corsero per tutto il vialetto d’accesso prima di fermarsi e voltarsi indietro. La casa era un rogo mortale, che illuminava a giorno il terreno circostante e riscaldava la notte dei morti. Al suo fianco, Davide era rigido come un tronco. Delia fece per tirarlo via quando si accorse che tra le fiamme una donna in nero l’indicava e gridava. Sembrava pazza di rabbia. «La vedi anche tu?» le chiese Davide. «Sì», rispose Delia. “Certo”, pensò, “è qui per me.” I capelli corvini avvamparono assieme alle vesti e in un attimo la donna era scomparsa, dissolta in un’ombra nera che si dileguò nell’oscurità. Nel rombo assordante del fuoco, un bisbiglio penetrante come un ago implorò: “Prendi il mio potere.” Delia rabbrividì. «Dobbiamo andarcene», disse trascinando Davide al motorino. Lo fece salire e mise in moto sgommando sulla ghiaia. Dopo aver messo qualche chilometro tra loro e la strega, riprese a respirare quasi normalmente. Dove stavano andando? Verso la città, certo, ma poi? Dopo un attimo di panico la risposta le venne naturale: sarebbero andati in chiesa. Presa questa decisione accelerò, pentendosi di non aver fatto truccare il motorino quando ne aveva avuto la possibilità. Quando i campi lasciarono il posto alle case tirò un sospiro di sollievo e rallentò un poco, diretta in piazza. La chiesa non le era mai sembrata così accogliente. Nell’aria c’era un vento strano che faceva mulinare le foglie secche in una danza malinconica. «Don Dante starà dormendo», fece Davide togliendosi il casco. «Si sveglierà», rispose Delia, avanzando sicura verso la porta laterale e attaccandosi al campanello. Dopo qualche minuto scese il parroco. Gettò un’occhiata dallo spioncino corrugando le sopracciglia cespugliose e li fece entrare. Passarono oltre il chiostro e raggiunsero la stanzetta dove i ragazzi dell’oratorio provavano le canzoni per la Messa, con sedie e leggii stipati uno sull’altro per far posto al pianoforte. Don Dante sedette e li fece accomodare. Non aveva ancora detto una parola ma presto l’avrebbe fatto. Gli occhi neri li fissavano interrogativi, le labbra tese in un sorriso magnanimo. «Allora», chiese, «qual è il problema?» Quando sorrideva il suo viso si ammorbidiva, stemperando il cipiglio contegnoso che vestiva normalmente.

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Delia si rese conto che avrebbe dovuto rispondere qualcosa in fretta, ma era indecisa su cosa rivelare e cosa no. «Casa mia è andata a fuoco», la precedette Davide, e Don Dante sgranò gli occhi. «Siamo scappati perché è infestata», aggiunse, poi si chiuse in un silenzio ostinato lasciando a Delia l’onere di scendere in dettagli. Parlò del cimitero ma non di Micilina, dei miagolii infernali e della figura nera incorniciata dalle fiamme. «Quindi siamo venuti di corsa, per chiedere il tuo consiglio e stare al sicuro», concluse. Il parroco annuì: «Avete fatto bene. Quindi dopo aver visto quel gatto vi siete divisi?», chiese. «Di certo non stavate facendo qualche strano rito, vero?» aggiunse abbassando il capo e guardandoli di sottecchi. «No, non stavamo facendo nessun rito strano e sì, ci siamo divisi, ma solo per un attimo.» «Veramente ci siamo divisi perché tu sei rimasta un’ora nel cimitero da sola e mi hai fatto spaventare a morte. A essere onesto me ne sarei andato se avessi avuto il mio motorino, che a quest’ora è sicuramente esploso», bofonchiò Davide. A quelle parole Don Dante si rabbuiò e prese ad accarezzarsi la barba. «Delia, perché sei rimasta lì da sola?» chiese. «Ma niente, pensavo che tornasse e mi sono fermata a fumare una sigaretta», disse infastidita. «E sì, lo so che fa male», aggiunse. «In quel tempo potevi fumarne un pacchetto, di sigarette», commentò Davide, che sembrava improvvisamente ansioso di stuzzicarla. «Invece ne ho fumata una sola, va bene?» Don Dante sollevò la mano aperta chiedendo il silenzio. «Allora cos’hai fatto nel resto del tempo, Delia?» chiese. In quelle parole avvertì una minaccia latente. Sicuramente si era accorto che preferiva non parlarne, ma insisteva. “Ecco una violazione della privacy, è un concetto così astratto prima di averlo sperimentato”, pensò. «Preferisco non parlarne», disse, intenzionata a chiudere la questione. «Perché?» l’incalzò il parroco. “Ma che problema hai?”, pensò, “Che te ne frega? Potrei aver scritto una poesia, pregato la vergine o essermi masturbata per quel che ti riguarda. Probabilmente l’autoerotismo in un cimitero è un peccato grave, ma non grave quanto fare quattro chiacchiere con una sposa del demonio.” «Delia?» Vedendo lo sguardo inquisitore del parroco, Delia decide di impuntarsi.

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Non gli avrebbe mai detto la verità, né una menzogna. Non gli avrebbe detto niente. “Che cosa può fare, torturarmi?” pensò, e in un attimo la sua mente corse a Micilina, al supplizio, al rogo. «Sono qui», rispose. «Penso che forse, se è successo qualcosa al cimitero, ci sia un collegamento con l’incendio», spiegò Don Dante. La voce era flemmatica e grave come al solito, ma nello sguardo si leggeva una bramosia indecente. «Io no», disse Delia. «Sapete che un tempo qui c’erano delle streghe, vero?» Delia sbuffò. «Sì, certo, prima che le bruciaste tutte.» Don Dante raddrizzò la schiena sulla sedia e la fissò con odio. «Allora tu prendi le loro parti, eh?» Detestava essere messa nella condizione di non poter rispondere senza mentire, così decise di andarsene. Si alzò bruscamente e si diresse alla porta. «Grazie dell’ospitalità, Don Dante, ma noi ce ne andiamo.» Le parole le erano uscite in fretta per l’agitazione, una attaccata all’altra. Ogni tanto aveva paura di dire solo mezza frase, che l’altra metà rimanesse solo nella sua testa. Davide però si alzò e la raggiunse, quindi doveva aver detto tutto. «Arrivederci», lo sentì salutare, ma stava già percorrendo il chiostro a passo di marcia e non si voltò finché non si fu richiusa alle spalle la porta della parrocchia. «Stai bene?», le chiese Davide. Era bianco come un cencio. «Sì. Ora sì, tu?» «Bene, ma devo fare due telefonate.» “Pompieri e genitori”, pensò Delia. “Già, genitori. Quelli di Davide non crederebbero mai alla storia del parroco, ma i miei sì.” La casa di Davide era assicurata. «Grazie a Dio», continuava a ripetere la madre di Delia. «Grazie a Dio, siete salvi, grazie a Dio.» “Sì, mamma, ma Dio non c’entra proprio”, pensava Delia. I suoi genitori erano accorsi in piena notte, pochi minuti dopo che li aveva chiamati, e li avevano portati a casa. Dopo aver fatto una doccia e aver indossato dei vestiti che non sapessero di fumo, Delia si sentiva meglio. Era quasi baldanzosa. “Chissà”, pensava, “forse è l’effetto di essere scampata alla morte.”

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«Non mi sembra che ci sia nulla di cui sorridere. Perché sorridi?» chiese immediatamente sua madre, porgendole una tazza di tisana calda. Davide ne aveva una uguale. «Niente, mamma. Scusa.» Era una donna magra con i capelli corti. Aveva un viso amabile, che negli anni aveva fatto propria l’espressione dolce della preghiera. «Beh, riposate ora, finché non vengono a prendere Davide.» «Ok, mamma, grazie», disse sforzandosi di sorridere in modo compito. Quando fu uscita Delia si rilassò contro lo schienale. Sembrava che fosse filato tutto liscio, non c’erano state troppe domande. «Adesso i miei hanno una scusa per trasferirsi a Torino», disse Davide, con aria mesta. “Oh, no. No, non deve succedere” pensò Delia. «Perché?» chiese invece. «Per lavoro, suppongo. E la vita mondana. Pare che a mia madre manchi molto. Poi anch’io dovrei andarci a studiare tra un paio d’anni, cose così.» «Ha senso», commentò Delia, e tacque. “Senza Davide qui sarà un inferno”, disse tra sé e sé, posando la tisana sul tavolino e scivolando nel sonno. Sognò di fuochi e danze sacre, e nella mente avvertiva un sussurro. “Quando io sarò scomparsa da questo mondo, ogni volta che avrete bisogno di qualcosa, quando la luna sarà piena, vi riunirete in qualche luogo deserto, o in una foresta tutte insieme, per adorare il potente spirito della vostra Regina, mia madre, la grande Diana.” Si svegliò di soprassalto, in bocca un sapore di vino speziato. Sentiva ancora la terra fredda nelle mani e l’odore del bosco nelle narici. Una sensazione selvatica. Poi ascoltò sua madre mentre parlava al telefono a pochi passi da lei e ricordò dove si trovava. Le sembrava di aver dormito per ore, ma erano appena le cinque. «La ringrazio, Padre, la ringrazio infinitamente. Sì, l’aspettiamo. Certo, arrivederci.» Delia deglutì. «Mamma?» «Oh, sei sveglia.» Lo disse sorridendo, ma aveva un tono diffidente e ogni traccia di dolcezza era svanita dal suo viso. Davide si stiracchiò. «Buongiorno.» «Buongiorno, caro. Hanno appena telefonato i tuoi genitori, saranno qui

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tra cinque minuti.» Furono cinque minuti di agonia, tra gli sguardi sospettosi di sua madre e l’assenza inquietante di suo padre. Delia sapeva che sarebbe sceso precisamente nel momento più sbagliato. I genitori di Davide arrivarono assieme al parroco. Ci fu un rapido scambio di gratitudine e sollievo, poi se ne andarono portando via il suo amico e Delia si sentì sprofondare. Con la coda dell’occhio vide suo padre entrare in salotto con una tazza di caffè. Era ancora buio, ma in un paio d’ore avrebbe albeggiato. «Vi chiedo perdono per aver chiamato così presto, ma date le circostanze ho creduto che fosse la cosa migliore», scandì Don Dante scrutando Delia da sotto le sopracciglia aggrottate. “Che viscido ipocrita”, pensò lei. «Ma certo che ha fatto bene, le preparo una tazza di caffè», lo accolse sua madre, sempre servile. Delia tornò in salotto e si raggomitolò sulla poltrona. Voleva solo continuare a sognare i fuochi di Samhain, anche se non sapeva esattamente cosa fossero. Il parroco andò a sedersi vicino a lei, provocandole un disagio immediato. «Mi fa piacere vedere che ti sei riposata. Forse possiamo imputare alla stanchezza il modo scortese con cui hai rifiutato la mia ospitalità.» Delia sospirò. “Ecco la resa dei conti”, pensò con un filo d’inquietudine. Doveva stare attenta a quello che diceva, se non voleva finire sotto processo. Ridacchiò. Arrivò sua madre col caffè e si accomodò sul divano, tenendo il marito per mano. “Non vedevano l’ora di cogliermi in fallo.” Don Dante si complimentò per il caffè e posò la tazzina vuota, inspirò a fondo e parlò. Raccontò per filo e per segno quanto Delia e Davide gli avevano detto, insistendo più del dovuto sui dettagli dolenti. «Perciò io credo che l’incendio sia una diretta conseguenza di qualunque cosa sia avvenuta nel cimitero, ma la vostra figliola non ha voluto parlarmene. Magari si aprirà con voi, però. Gli occhi di suo padre erano sgranati, sua madre tremava. Le streghe, il diavolo e in generale tutto ciò che contravveniva alle regole la gettavano in uno stato d’ansia patologico. «Delia», disse suo padre, scandalizzato. «Oh, no», bisbigliò sua madre. Poi assunse un’espressione affranta: «Prima o poi doveva succedere qualcosa del genere, Dio mi perdoni. Sei sempre così cupa, vestita di nero. Non è niente, mi sono detta, è una fase difficile, e invece ecco qua. Non ho detto nulla per anni e ora ti ritrovo a fornicare col diavolo!»

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Delia quasi soffocò con la sua stessa saliva e prese a tossire. «Delia, figliola, con l’aiuto del Signore io ti posso aiutare», disse Don Dante, gli occhi che luccicavano. «Che cosa? Ma siete tutti impazziti? Mamma! Fornicare col diavolo? Ma vivi nel medioevo?» La posizione rilassata sulla poltrona le divenne improvvisamente scomoda e si alzò con rabbia. “Non ci posso credere”, pensava. «Siediti, tesoro.» Era suo padre. Delia l’avrebbe volentieri preso a ceffoni, ma doveva trattenersi, rimanere calma. «Non ho alcuna intenzione di farmi aiutare, né dal Signore né da nessuno, perché non c’è niente che non vada. Al contrario di quanto sembrate pensare tutti quanti io non fornico col diavolo nei cimiteri a Samhain.» Si accorse dell’errore subito dopo aver pronunciato quella parola. Fino al giorno prima non sapeva nemmeno cosa fosse, Samhain, ed era certa che fosse qualcosa di poco ortodosso. Pensò per un attimo a Micilina e sentì un brivido lungo la schiena, eppure… «Vostra figlia nega, ma già parla la lingua delle streghe», disse subito il parroco. La sua voce era diventata rauca. «Ci aiuti Padre, la prego», singhiozzò sua madre. Poteva rendersi più ridicola di così? Le faceva pena. «Smettila mamma, ti stai preoccupando per niente.» Cercò di consolarla ma quando fece per accarezzarle la schiena sua madre si ritrasse. «Siete ridicoli, tutti quanti», sbottò Delia, ma prima che potesse uscire per rintanarsi nella sua stanza Don Dante l’afferrò per il cappuccio della felpa e la costrinse a sedere di nuovo. Delia non aveva mai provato tanta rabbia e i versi nella sua mente diventarono un ruggito. “E sarete tutti liberi dalla schiavitù e sarete liberi in tutto; e come segno che siete davvero liberi sarete nudi nei vostri riti, sia uomini che donne: e così sarà finché l’ultimo dei vostri oppressori sarà morto.” Voleva sputare sulle loro facce avide di peccato e ululare contro quelle coscienze schiave fino a svegliarle. Dal muro di fronte a lei, un Gesù crocifisso la guardava attento. Sembrava che sorridesse. “Bravo, sorridi e guardami dalla tua croce, tu che ti sei fatto massacrare a quel modo, poveraccio. Credo che non avresti messo nessuno sul rogo, tu”,

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pensò Delia mentre si slacciava le scarpe. Si sfilò la felpa e la maglietta insieme. Sua madre non capiva, Don Dante sì, ma non mosse un dito. Delia sfilò i pantaloni e i calzini, poi saltò oltre la poltrona perché suo padre non l’acchiappasse. Ridendo di gusto tolse la biancheria e prese a girare su stessa, le braccia aperte. «E se un prete ti farà del male con le sue benedizioni, farai a lui il doppio del male, e lo farai nel nome mio, Diana, Regina di tutte le streghe!» gridò, sentendo l’eco di cori lontani. Sua madre prese a sua volta a gridare, ma Delia non se ne curò. Si accorse che suo padre e il parroco avevano paura di toccarla. Don Dante la fissava con un’espressione estatica e furibonda, come se avesse atteso quel momento per tutta la vita e ora bramasse di ricavarne il massimo piacere possibile. Delia danzava. La nudità era la sua corazza, una corazza leggera che la faceva ruotare come impazzita. Non aveva coscienza del suo corpo né della sua mente. L’unico sentimento che provava era un’antica nostalgia dei boschi, dell’odore di pioggia e del muschio morbido sotto i piedi nudi. All’improvviso si sentì avvolta da un calore soffocante e si rese conto che la stavano trascinando via. Le avevano messo addosso una coperta. Rimase immobile finché non venne depositata sul suo letto. Attorno a lei c’erano sua madre, suo padre e il parroco. Schiudendo le labbra tumide e toccandosi la fronte sudata con mano tremante, quasi che fosse un gesto osceno, Don Dante decretò: «La ragazza è posseduta. Con me ho portato solo alcuni strumenti, non pensavo certo che la situazione fosse tanto grave, ma con l’aiuto di Dio potrebbero essere sufficienti. Debbo scacciare al più presto il demonio da questo giovane corpo, allontanatevi.» Delia stava tornando in sé ed era attonita. Don Dante la guardava con una lussuria vecchia di secoli. Sua madre piangeva in silenzio ma suo padre si alzò. «Credo che lei abbia già fatto più che abbastanza, signore, la prego di lasciarci», disse freddamente, negando al prete il suo titolo. Delia chiuse gli occhi un attimo e quando li riaprì accanto al letto c’era solo suo padre. «Va tutto bene ora, bimba mia, è stato uno sbaglio madornale, da bigotti, come dici sempre tu, mi dispiace e anche alla mamma.» Delia annuì e richiuse gli occhi. Appena suo padre fosse uscito lei sarebbe scappata. Riempì lo zaino di scuola con biancheria e vestiti, afferrò la borsa e uscì dalla finestra. Non l’aveva mai fatto prima e scendere si rivelò più difficile del previsto. Rischiò di scivolare sulle tegole della tettoia, ma anziché

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perdere l’equilibrio si lanciò verso il melo. In un attimo fu a terra, non troppo ammaccata. L’aria era gelida e una nebbia lattea accoglieva i primi raggi di sole. Era un’alba d’autunno, con le sagome degli alberi spogli che emergevano come scheletri dalla foschia. Camminò lentamente, guardandosi intorno e stringendosi nel piumino. Le strade le sembravano diverse, come se le vedesse per la prima volta. Prese a camminare con più vigore man mano che i muscoli si riscaldavano. In poco tempo le venne caldo e tolse sciarpa e cappuccio. Era sulla provinciale, che in pochi chilometri l’avrebbe portata alla statale per Torino. Non appena si fosse fatta vedere qualche macchina avrebbe fatto l’autostop. Per il momento camminava respirando a pieni polmoni l’aria satura di umidità. Canticchiava tra sé e sé, quando le sembrò di sentire un miagolio. Tacque di colpo. L’aveva sentito veramente? Rimase immobile in attesa. Iniziò ad avere freddo. Le sembrò di sentirlo di nuovo, ma era un suono indistinto che scolorava nella nebbia. Non riusciva a capire se fosse reale o frutto della sua immaginazione e tornò a chiedersi se non avesse perso la ragione. Di quante e quali menzogne potevano convincerla i suoi sensi? Poi sentì miagolare più forte e l’enorme gatto metamorfo uscì dalla foschia. Di nuovo, la pelliccia si tese e si squarciò lasciando emergere la donna. Micilina. Era brutta come la fame, ma Delia non la trovava più tanto spaventosa. «Cosa vuoi?» chiese. «Dove vai?» rispose la masca. «A Torino.» La donna si scostò dal volto i capelli secchi. Era tanto pallida da confondersi con la nebbia. «Ho poco tempo ancora, poi dovrò aspettare un anno prima di rivolgermi ancora a una mortale, ma passeranno decenni prima che ne trovi una come te. Prendi il mio potere», disse tendendo le mani, «tu sei sempre stata una strega, non te ne sei accorta? Sempre estranea e fuori posto. Io ti offro la possibilità di fare di questa estraneità la tua dimora.» I suoi occhi erano velati di nostalgia. «Perché vuoi andare a Torino? Abbandonare la tua terra? Rimani qui. A Pocapaglia deve esserci una masca che offra primizie alla Dea e accenda fuochi a Samhain. Vuoi abbandonare le tue antenate? È troppo tempo che i boschi non assistono ai riti sacri, vuoi forse abbandonare anche loro? Prendi il mio potere. Resta.» Delia non reagì, ma tutto a un tratto divenne consapevole dell’asfalto sotto i propri piedi e della terra sotto di esso, avvertì l’odore degli abeti nell’aria e lo splendore leggero dell’alba. Prima che riuscisse a rispondere, Micilina le fu accanto e le impresse le mani sul volto. Delia di riflesso chiuse gli occhi. Cercò di allontanarla con una

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spinta, ma non incontrò alcuna resistenza. Si guardò attorno freneticamente, sentendosi cieca nella nebbia fitta. Non vide nulla. Né Micilina, né il gatto. Era circondata da un silenzio ovattato. Sentì il cuore che batteva impazzito per tornare poi a rallentare. La sua mente era vuota e la coscienza inerte. “A quella che desidererà apprendere ogni magia ma non padroneggiasse ancora i segreti più profondi, allora mia madre insegnerà davvero tutto, anche le cose sconosciute.” Quando sentì la promessa risuonarle nel cuore si ritrovò ad annuire. In fondo l’aveva sempre saputo, in qualche remoto angolo della mente. Il mondo non faceva per lei, non era mai riuscita a integrarsi, persino agli scout era stato un disastro. Quando assisteva alle espressioni dei più comuni sentimenti umani, si sentiva divertita o imbarazzata. Mai partecipe. La sua era un’estraneità radicale, sepolta in profondità nel suo animo. In fondo l’aveva sempre saputo, ma per anni aveva cercato di negarlo. In quel momento realizzò che la solitudine era sua sorella, la luna era la madre adorata, il bosco suo padre. Mosse un passo sulla via del ritorno, poi un altro. Il segreto, suo fratello, l’avrebbe protetta. Sentì un soffio tiepido sulla nuca e si voltò di scatto, ma non vide nulla. Poi, tutto intorno a lei, sbocciarono piccole sfere di luce che brillavano nell’aria pallida. “Prendine una, ti proteggerà. Conservala per un giro di ruota e restituiscila ai fuochi sacri di Samhain”, le disse un sussurro. Senza riflettere Delia allungò la mano verso una sfera piccola e luminosa. Era calda ma non scottava. “Sì, ora posso tornare”, si disse. Nei campi, immersi nella nebbia, le parve d’intravedere una donna e un grosso gatto che si allontanavano danzando.

Note Le citazioni in corsivo sono tratte da C. G. Leland, Il vangelo delle streghe. Aradia (Nuovi equilibri, Viterbo, 2001). Quella di Micilina è una storia vera: visse a Pocapaglia nel periodo dell’Inquisizione. Accusata di stregoneria, venne processata e torturata. Confessò quanto le veniva chiesto, dunque venne impiccata e bruciata sul rogo.

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No Hunting di Pia Ferrara

«

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Parlami di Formalyne Wilkinson» disse Faith, rivolgendosi al gatto zuppo di pioggia che le teneva compagnia nel vicolo. Il famiglio la guardò fisso e la ragazza ebbe quasi l’impressione di vederlo inarcare le vibrisse. L’animale miagolò, come invitandola ad andare a quel paese. Faith sospirò. “Mai lavorare per dei gatti…” pensò tra sé e sé. Il vicolo fiancheggiava il giardino malmesso di una villetta in periferia. La pioggia fitta aggiungeva una nota malinconica allo scenario. Il famiglio non era in grado di interloquire con gli esseri umani. Eppure, usando la magia, era riuscito a contattarla per ritrovare la sua padrona, una strega di mezza età scomparsa circa quarantotto ore prima. Nei paraggi non c’era anima viva. Faith notò che il cancello arrugginito che delimitava la proprietà di Formalyne Wilkinson era stato divelto dai cardini con malagrazia. Lo oltrepassò, pensierosa, maledicendo la pioggia che avrebbe cancellato ogni traccia dell’aggressore. O di Formalyne, ricordò Faith a se stessa. “Sono troppo sospettosa”, rifletté malinconica. Non poteva pensare a un rapimento appena scompariva qualcuno! La porta era socchiusa. Cigolò quando Faith la spinse in avanti, entrando in casa della signora Wilkinson. Superò uno stretto vestibolo, ritrovandosi in un salotto dall’aria consunta. C’erano parecchie fotografie appese alle pareti, tutte raffiguranti Formalyne e il suo tigrato grigio. Nelle più recenti Formalyne indossava un paio di vistosi occhiali da lettura. Il suo cattivo gusto nel vestire invece, notò Faith, era rimasto invariato negli anni. Casa Wilkinson non sembrava nascondere oggetti preziosi o arcani segreti. La stessa mancanza di un qualsivoglia sistema di allarme ne era una prova. A meno che si trattasse di un’ottima messinscena, ovviamente. Le sue riflessioni furono interrotte dal famiglio, che si scrollò l’acqua di dosso, le si strusciò contro i polpacci e trotterellò fino a una poltrona ricoperta da un fitto strato di pelo. Faith gli si avvicinò, sfilandosi i guanti e riponendoli nella tasca dell’impermeabile. Si guardò intorno. Un vecchio pianoforte nell’angolo. Una pendola. Un giradischi che sembrava aver visto tempo migliori.

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Asenath

Illustrazione Š Abigail Larson Site: www.abigaillarson.com


Un pouf su cui, a quanto pareva, il famiglio domestico amava affilarsi le unghie. Tutto molto promettente. Iniziò dal pianoforte. Sfiorò i tasti uno a uno, nella speranza di scatenare una reazione psicometrica. Poi passò alla pendola e al giradischi, che le lasciò le dita impolverate. Infine il pouf. «Nulla. Casa Wilkinson, non mi sei di molto aiuto…» brontolò Faith. Un miagolio richiamò la sua attenzione. «Povero micio», esclamò rivolta al felino. «Chissà se hai mangiato…» Gli si accostò per accarezzarlo, ma lui balzò via e la mano di Faith incontrò il tessuto logoro della poltrona. La visione la catturò in un istante, come se avesse infilato le dita in una presa elettrica. La stanza è la stessa, ma sembra che vi abbiano steso una mano di pittura color seppia. Formalyne è seduta sulla poltrona. Beve un intruglio bollente da una tazza. Può essere tè, giudica Faith. D’un tratto Formalyne si riscuote. «Sentivo che qualcosa non andava. Che ci fai qui? Cosa vuoi da me, creatura?» Faith segue lo sguardo della strega ma non vede nulla. Un urlo pieno di orrore riporta la sua attenzione su Formalyne. La strega si copre il volto con le braccia, come a difendersi da un pericolo invisibile. La tazza cade al suolo, mentre il liquido caldo si allarga sul pavimento. Faith si riscosse. Come prima cosa cercò la tazza. Eccola lì, seminascosta dalle frange della poltrona, difficile da notare. La raccolse, sperando in una visione più precisa, ma non successe niente. Sbuffò frustrata. Un nemico invisibile. Erano poche le spiegazioni plausibili. E le piacevano una meno dell’altra. Erano trascorsi due giorni. Altre quarantotto ore senza alcuna traccia di Formalyne. Jeremiah, il famiglio – Faith aveva scovato il suo nome inciso su un collare abbandonato nel salotto di casa Wilkinson – si era ambientato nell’ufficio di Faith. Stava finendo di vuotare una ciotola di cibo quando un trillo proveniente da un cassetto della scrivania avvertì Faith che c’era una wmail in arrivo. Con un po’ di fatica era riuscita a impostare la deviazione delle w-mail direttamente sulla sua agenda. Aprì il cassetto ed estrasse la piccola agendina rossa. Andò alla pagina del giorno e comparve il messaggio. Era di un altro famiglio.

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Gent.ma sig.na Bat, mi chiamo Gatto, sono un famiglio. Desidero denunciare la scomparsa della mia padrona, la sig.na Martha Rosenberg, residente in via XXX al civico XX Distintamente vostro, Gatto Nella pagina accanto era allegato un ritratto di Martha. Era più giovane di Formalyne, abbastanza da non dover portare un paio di assurdi occhiali da lettura. Il gusto in fatto di abbigliamento, invece, era il medesimo. La sparizione di una strega con un pessimo gusto in fatto di abbigliamento poteva essere un caso isolato. Ma due sarebbero state una coincidenza, e Faith non credeva alle coincidenze. «Cosa diavolo sta succedendo?» Martha Rosenberg abitava in un appartamento al primo piano di un condominio in una sonnacchiosa zona residenziale. Uno degli altri due appartamenti sul suo stesso pianerottolo era occupato da una coppia di avvocati senza figli; lavoravano entrambi fino a tardi e non avevano sentito nulla. L’altro invece, secondo il portiere, apparteneva a una famiglia che risiedeva al quarto piano ed era quasi sempre vuoto… Ci scendevano di tanto in tanto i figli quando avevano bisogno di un luogo tranquillo per giocare di ruolo con gli amici. Il portiere non fu in grado di fornire altre informazioni utili, ma acconsentì, dopo una stiracchiata spiegazione da parte di Faith – secondo cui lei lavorava per la nipote di Martha, che non riusciva a contattare la zietta – ad aprirle la porta dell’appartamento con la copia delle chiavi che custodiva in portineria. Quanto la villetta di Formalyne appariva vecchia e disordinata, tanto l’appartamento di Martha era nuovo e tirato a lucido. Il salotto era elegante e un po’ impersonale e per quanto Faith si sforzasse di cercare non trovò alcuna traccia di colluttazione. «Gatto?» chiamò Faith. In risposta al suo richiamo un gattone rosso si fece avanti sbucando da una tenda. Il famiglio le corse incontro, chiedendo con sonori miagolii una grattatina dietro le orecchie. Poi si rotolò a terra e si stiracchiò soddisfatto. Questa volta Faith capì subito. Si sfilò un guanto e poggiò un palmo sulle piastrelle lucide del pavimento. Una donna alta e bionda, con i capelli raccolti, in piedi al centro della stanza, si volta di scatto verso la finestra. «Chi…» inizia, ma non fa in tempo a concludere la frase. Si abbassa di scatto come a schivare un attacco invisibile. «Gatto! Scappa» grida, rivolgendosi al suo famiglio prima di rialzarsi

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e correre verso la porta. L’ha quasi raggiunta quando una nebbia azzurrina la avvolge facendole perdere i sensi e svanire pian piano nel nulla… «Sidhe» si riscosse Faith d’un tratto. «Ecco perché non riesco a vederli nelle visioni…» Gatto la fissò imperturbabile, continuando a fare le fusa. Faith sospirò. «Gatti», si lamentò, «più inutili di…» Non riuscì a concludere la frase che si sentì artigliare alle spalle da una forza che le mozzò il fiato. Provò a urlare, ma i suoi polmoni sembravano svuotati. Cercò di non farsi prendere dal panico e di ragionare. L’ultimo suo pensiero, prima di scivolare in un quieto torpore, fu che qualcuno avrebbe dovuto dare da mangiare a Gatto… Quando Faith si risvegliò si trovava in una cella angusta che aveva tutta l’aria di una prigione sotterranea. Nella penombra due visi sfocati erano chini su di lei, uno dei quali indossava un enorme paio di occhiali da vista. «Cosa…» iniziò a chiedere, «dove…?» «Sidhe, piccola. Siamo nel Sidhe» la informò una donna bionda dal tono autoritario che Faith riconobbe come Martha Rosenberg. «Mi chiamo Faith» borbottò, tirandosi su a sedere. Non sopportava che la chiamassero “piccola”. Si stropicciò gli occhi e si allontanò i capelli verdi dal viso per vederci meglio. Le sbarre di ferro delimitavano l’ambiente. Il pavimento era freddo e spoglio e non c’erano vie di fuga. Faith scrutò le due donne, accanto a Martha c’era Formalyne. «Mi chiamo Faith Bat. Vi stavo cercando per conto di Jeremiah e Gatto». «Brutta storia» commentò Formalyne. «Presa lei non ci cercherà più nessuno. Non è che hai un socio, eh?» «Lavoro in proprio. Ma chi ci ha prese? Cosa sta succedendo?» Le due streghe si scambiarono un’occhiata, poi decisero che sarebbe stata Martha a parlare. «Cosa sai della Caccia Selvaggia?» «La Caccia Selvaggia?» ripeté Faith. «Di quel mucchio di fate snob volete dire?» «Proprio loro». «So quanto basta. Ma che se ne fanno di tre streghe?» domandò la ragazza.

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«Non loro» intervenne una voce bassa e rabbiosa, quasi un ringhio. «Noi» A parlare era stato un levriero. Faith osservò a bocca aperta il corpo magro e muscoloso del cane da caccia mentre passava con agilità tra le sbarre della cella. Aveva il pelo raso bianco con delle chiazze color caffellatte. La ragazza notò che Martha e Formalyne sembravano tranquille in presenza dell’animale, come se già lo conoscessero. «Signorina Bat» ringhiò il levriero. «Il mio nome è Grayhound. Sono il capo battuta della Caccia Selvaggia della Corte Seelie». Faith scrutò sospettosa Grayhound. Si faceva un gran parlare dei cani da battuta della Caccia Selvaggia, ma era la prima volta che ne vedeva uno in carne e ossa. Era risaputo che fossero in grado di parlare – a differenza dei famigli – ma lei non ne aveva mai avuto il piacere. Il levriero aveva occhi scuri e intelligenti. «Piacere mio Grayhound. Perché ci troviamo qui?» «Per favore signorina Bat, ci aiuti a porre fine alla Caccia Selvaggia». Le parole di Grayhound lasciarono Faith senza parole. Stava per replicare ma il levriero non glielo permise. «La prego. Noi levrieri non riusciamo più a tollerarlo. Siamo stufi di inseguire uomini e donne per divertire i cortigiani Seelie. È un passatempo…» il levriero esitò, come per assicurarsi che non ci fosse nessuno in ascolto oltre alle tre streghe, «crudele» concluse. «E loro» continuò, «Impossibili. Mai sobri. Ballano, bevono, cantano… Fossero almeno intonati! Saranno così ubriachi da non rendersi nemmeno conto che siete streghe e voi potrete… non so, fare un incantesimo, o altro…» «Tu» lo interruppe Faith, «tu ci hai ingabbiate qui come prede per la prossima battuta della Caccia?» «Per tendere loro una trappola», aggiunse serio Grayhound. «All’inizio dovevano essere solo loro due» con un cenno del capo indicò Formalyne e Martha, «ma poi lei ha cominciato a indagare… e ci siamo chiesti: chi meglio di Faith Bat, la famigerata investigatrice, per sgonfiarli un po’?» «Famigerata?» scandì Faith incredula, scuotendo la testa. «Ora, ammettiamo che io vi aiuti…» «Se mai usciremo vive da questa storia, pagherò il tuo onorario per avermi ritrovata», disse subito Formalyne. «Anche io», aggiunse Martha. «Anche noi levrieri pagheremo il tuo onorario per tutto il tempo rubato. E potrai liberare il mondo da una pratica immorale e immonda, un…» «Ok, ok, ho capito. Non avevo idea che i Sidhe praticassero ancora

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la Caccia Selvaggia… persino tra gli umani forme di “divertimento” analoghe stanno scomparendo.» «È quel che ci auguriamo succeda anche qui, signorina Bat. La prego. Non abbiamo molto tempo» assicurò Grayhound. Faith chiuse gli occhi e respirò a fondo. «Ho un piano.» «Mi complimento con te, Grayhound. Tre prede. Sono colpita, devo ammetterlo.» A parlare era una donna. Indossava una veste di seta verde e i capelli castani le sfioravano i fianchi. Faith fu sorpresa di trovarla così normale, così… umana. Sembrava una giovinetta eccitata, solo lo scintillio negli occhi scuri svelava la sua natura. Aveva una voce argentina, e chissà quali poteri nascondeva. Per un attimo si chiese se sarebbe stata in grado di batterla. Poi si disse di non essere sciocca; in ogni caso era troppo tardi per pensarci, quindi tanto valeva attenersi al piano. Restò in silenzio mentre, uno a uno, studiava gli altri membri della Corte, disposti a ventaglio in una sala da ballo degna del palazzo di un principe. Di fianco a lei c’era un uomo alto e bruno, dallo sguardo assorto. Alle sue spalle c’erano tre dame vestite di seta rossa; due di loro – una bionda e una bruna – erano abbracciate, mentre la terza, leggermente discosta, aveva degli straordinari occhi dorati con cui sembrava impegnata a scrutare un giovane dal fisico atletico e dal viso impertinente. C’erano anche due giovani imberbi stretti in un abbraccio e, vicino, una ninfa dai tratti esotici, una driade color cioccolato e un elfo seduto a terra dallo sguardo vispo. Ora che se li trovava tutti dinanzi, Faith non si sentiva più sicura di se stessa come nella cella, quando aveva riferito a Formalyne, Martha e Grayhound il piano elaborato in fretta e furia. «Poniamo fine a questa giornata uggiosa. La Caccia sta per avere inizio», affermò la regina. «Qualcuno porti la Traccia.» La Traccia, come Faith intuì, era la scia magica utilizzata dai levrieri della battuta per fiutare le prede. Si trattava di un liquido bluastro raccolto in un calice. Le tre damigelle in rosso vennero avanti, ognuna con un calice, e si posizionarono di fronte a Formalyne, Martha e Faith. Mentre la strega scrutava gli occhi neri della bruna non vi scorse alcun sentimento umano o pietà. “Meglio” rifletté. “Lo renderà più facile.” «Tirate» concesse la regina oziosamente. Al suo ordine, le tre dame rovesciarono la Traccia in faccia alle streghe. Faith annaspò per un attimo, con il respiro mozzato dal liquido bluastro che le

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impiastricciava i capelli e la maglietta. «Aprite le porte», ordinò la regina. Dei servitori in livrea spalancarono i portoni del palazzo. L’aria fresca della sera si insinuò nelle stanze riscaldate della Corte. «Correte», concesse la sovrana con un sorriso storto. A Faith, Formalyne e Martha non rimase che obbedire. La partita era iniziata. Presto sarebbe anche finita. Faith iniziò a correre alla cieca. Non sapeva che direzione avessero preso Formalyne e Martha, né quale sentiero avesse lei stessa imboccato. Si fermò per riprendere fiato, concedendosi pochi secondi. Si sentiva braccata e l’abbaiare dei levrieri la disorientava. Nella Traccia doveva esserci qualche sostanza in grado di amplificare la paura e intorpidire i riflessi delle prede. Mai quanto in quel momento desiderò cercare un cespuglio e nascondercisi fino all’alba pur di evitare il pericolo. “Il piano. Ricordati il piano” si ripeté. Divide et impera. Da preda a predatore. Si mise in ascolto. Apparentemente era sola, persino i cani sembravano lontani, ma colse un lieve fruscio alle sue spalle. Brandì un rametto che aveva staccato da un albero durante la corsa. Un urlo lacerò la notte. Si trovò dinanzi i due giovani che in precedenza erano abbracciati. Li fronteggiò, studiandoli. Ora li vedeva più da vicino; uno dei due aveva la carnagione chiarissima, il fisico longilineo e slanciato, e corti capelli castani. L’altro era leggermente più muscoloso, abbronzato e non molto alto. Indossavano entrambi dei farsetti di pelle azzurra con dei calzoni viola scuro. Non avevano un’espressione bellicosa, anzi, sembravano placidi e tranquilli. Era così che i Sidhe si divertivano, ingannando gli uomini con il loro luminoso bagliore dorato. “Ma io sono una strega”, si disse Faith. “E loro non lo sanno. Non devo dimenticarlo.” «Mi chiamo Keer. Come ti chiami?» chiese quello più magro e slanciato, posandole lentamente una mano sulla spalla. Aveva degli stupendi occhi azzurri. «Mia», mentì Faith. «Mia» intervenne l’abbronzato, cingendole la vita. «Io sono Blain. Che bel nome… bello come te.» «Sei bellissima, Mia. Ti piacerebbe restare qui nel Sidhe con noi in una

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danza perpetua? Non saresti mai più in pericolo e resteresti giovane per sempre», le chiese il primo, avvicinandosi. «Giovane per sempre», ripeté l’altro. «E mai più sola…» Avevano un tono di voce maledettamente persuasivo. O forse erano quegli occhi? O la loro vicinanza fisica? Faith si sforzò di restare lucida, sudando freddo. Se non avesse usato un nome falso sarebbe già caduta in loro potere. “Ricordati chi sei. Faith Bat, detective privato. Devi portare Formalyne e Martha da Jeremiah e Gatto. E porre fine a questa farsa. A tutti i costi.” Finse di appoggiarsi a Blain, poi prese slancio e diede una testata a Keer. Il giovane che le cingeva le spalle rinsaldò la presa sulle sue braccia, ma Faith lo colse di sorpresa gettandosi di peso a terra e trascinandolo con sé. Quando furono entrambi a terra riuscì a districarsi da lui, inginocchiarsi e appoggiargli i palmi delle mani sull’addome. Quando i bagliori di luce verde iniziarono a penetrare nel corpo del Sidhe lui urlò e prese ad ansimare come se gli mancasse il fiato. Faith si sentì tirare i capelli da dietro: Keer doveva essersi ripreso. «Ce n’è anche per te» gridò afferrando un ginocchio del Sidhe e stringendo con tutte le sue forze. La magia riuscì ad attraversare la stoffa dei calzoni del Sidhe, lui emise un urlo strozzato e finì per accasciarsi a terra. Faith fu svelta a rimettersi in piedi e riprendere a correre. Era sicura di aver sistemato Blain e Keer almeno per un po’ – la gamba di Keer si era rotta e Blain aveva almeno un paio di costole incrinate – e tanto le bastava: i Sidhe erano immortali, non avrebbe potuto fare altro. Almeno per un po’ non avrebbero attaccato Formalyne e Martha. Fuori due. Si appoggiò al tronco di un albero per riposarsi. Aveva i muscoli in fiamme e la testa dolorante, ma nel complesso avrebbe potuto riportare più danni. La sua maglietta era strappata ma non era ferita, il che significava che poteva continuare a correre. Blain e Keer non si erano aspettati che lei fosse qualcosa in più di una semplice umana. Forse anche il suo fisico minuto li aveva ingannati. “Mai giudicare dalle apparenze”, pensò amaramente. Con un pizzico di fortuna, sarebbe riuscita a prendere di sorpresa anche gli altri. Riprese a muoversi, questa volta a passo d’uomo. Correndo avrebbe attirato l’attenzione. Si chiese chi avesse urlato prima. Formalyne o Martha? “Lo scoprirò presto”, si disse. Faith avanzava alla cieca da qualche minuto, quando si trovò al limitare di

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una radura in cui Martha era impegnata in un combattimento con due delle dame rosso vestite, la bruna che aveva rovesciato la Traccia in faccia a Faith e la bionda che l’abbracciava. Senza esitare, Faith si diresse verso le tre in aiuto di Martha, che stava avendo la peggio contro due avversarie. «È così che braccate le vostre prede?» gridò Faith. «In due contro uno?» La bruna si voltò verso di lei con un’espressione sconcertata giusto in tempo per incassare un pugno alla mandibola. «Questo è per la Traccia di prima!» «Tu! Cosa sei? Chi sei?», chiese la bruna asciugandosi con il polso un rivolo di sangue che le colava dal labbro spaccato. «Qualcuno che ti farà pentire dei tuoi ultimi due secoli di vita.» Faith lanciò una Rete. Un fulmine azzurrino avvolse la Sidhe bruna, mentre la sua compagna continuava a lottare con Martha che lottava senza riserve. «Aiutami, Helis», gridò la bruna, ripiegandosi su sé stessa, sottoposta alle continue scosse elettriche della Rete. Helis si distrasse il tempo sufficiente per permettere a Martha di spararle un incantesimo in pieno voltò, che la fece volare contro uno degli alberi che delimitavano la radura. «Helis» gridò di nuovo la bruna, tra le lacrime. «Silenzio!» intimò Faith, con gli occhi che irradiavano lampi dorati. Le labbra della creatura fatata si serrarono all’istante, come cucite da una mano invisibile. Lei rivolse uno sguardo spaventato a Faith, gli occhi lucidi. La strega, da parte sua, le osservò freddamente. «Non è così divertente essere una preda, eh? Vieni con me, Martha, andiamo a cercare Formalyne e la loro maledetta regina.» «Ci penso io a rintracciare Formalyne», assicurò Martha. «Procedi.» «D’accordo. Ah, poco prima di incontrare quelle due mi sono imbattuta nell’altra Sidhe con l’abito rosso. Era insieme a quel tipo dall’aria sfrontata e non sembravano molto interessati a darci la caccia. Erano affaccendati in altro… Li ho circondati con un po’ d’Isolante. Fino all’alba non daranno fastidio a nessuno. Magari non se ne accorgeranno nemmeno.» Faith ridacchiò. Per quanto immortali i Sidhe avevano alcuni dei peggiori difetti degli uomini.

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Martha chiuse gli occhi portandosi la mano destra alla tempia. “Deve avere dei poteri telepatici” comprese Faith. Per un attimo fu invidiosa dell’abilità di Martha. La psicometria che lei possedeva era considerata una forma inferiore di telepatia: in genere, ogni telepate era anche psicometrico ma non tutti gli psicometrici erano telepati. «Direzione nord-est», dichiarò Martha, per nulla affaticata. Faith fu ammirata. In genere i poteri psichici erano parecchio logoranti, soprattutto con l’avanzare dell’età. Non che Martha fosse così vecchia. Era Formalyne a preoccuparla, era la meno giovane delle tre. «In marcia.» Il latrato dei cani era un sottofondo lontano. Senza la collaborazione del capo battuta non avrebbero avuto alcuna possibilità. Ci misero un po’ a trovare Formalyne. Giaceva priva di sensi in mezzo alla foresta. A pochi metri da lei, ugualmente fuori combattimento, c’erano la driade color cioccolato, la ninfa esotica e il folletto dall’aria furba. «È riuscita a batterli tutti e tre», disse Faith sorpresa. «Beh, una ninfa, una driade e un folletto non sono potenti quanto veri Sidhe… Ammirevole ciononostante.» «Cerchiamo di farle riprendere i sensi.» Faith schiaffeggiò Formalyne per farla rinvenire. La Traccia doveva aver indebolito anche lei, ma pian piano ritornò in sé. «Dove… dove sono?» «Al sicuro, Formalyne, ci siamo noi ora», la rassicurò Martha. «Non io, loro… », ribatté Formalyne. Nonostante l’età, il pessimo gusto in fatto di abbigliamento e il calo della vista, Formalyne era più tosta di quanto desse a vedere. «Sei riuscita a dar loro una bella lezione, niente da dire», rise Faith. «Bene! Aiutatemi a rimettermi in piedi… e leviamo le tende.» A quel punto non restavano che i consorti, si rese conto Faith: tutti gli altri erano sistemati. I levrieri avevano fatto un buon lavoro ad allontanare il re e la regina dei Sidhe e isolare tutti gli altri membri della battuta. Ora erano in tre contro due con l’appoggio dell’intera muta di levrieri. Se i due in questione non fossero stati così potenti le sarebbe quasi sembrato sleale, invece sarebbero state fortunate a poter combattere alla pari. «Fermiamoci qui», decretò Faith quando giunsero in una piccola conca. «Grayhound sa che deve condurli da noi appena siamo tutte e restiamo ferme.»

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«Bene» approvò Martha. «D’accordo» le fece eco Formalyne. I minuti passarono. Le streghe erano in silenzio. La crocchia di Martha era sfatta, gli occhiali di Formalyne storti e sporchi di sangue. Faith aveva la maglietta strappata; i jeans e gli anfibi avevano tenuto bene. L’impermeabile l’aveva smarrito quando era stata rapita e portata nel Sidhe ma l’adrenalina le impediva di sentire freddo. Da sole, le tre streghe non avrebbero avuto possibilità. Tuttavia insieme potevano farcela. D’un tratto l’abbaiare dei levrieri aumentò d’intensità. «Stanno arrivando», avvisò Martha. «Sono pronta», annunciò Formalyne. Faith tacque. La tensione aumentava a ogni istante. Due ombre si allungarono dal colle che sovrastava la conca. Erano lì, circondati da Grayhound e dagli altri cani da caccia. I levrieri non proiettavano alcuna ombra essendo fatti di pura magia. «Eccovi qui», esclamò gioviale la regina. Il suo sposo procedeva dietro di lei, imperturbabile. «Ecco voi qui», le rispose Faith. «Prima di morire vi concederò di conoscere il mio nome. Sono Titania, sesta regina della Corte Seelie. E questi è il mio sposo Oberon», disse la regina. Oberon rimase in silenzio. «Anche io farò un regalo a te, mia Titania. Ti dirò chi sono io. Mai sentito parlare del clan delle streghe di Bat? Sì? Bene… io sono il clan. Sono Faith Bat, quattordicesima e ultima discendente di Artemis Bat detto il Magnifico.» «Streghe», si alterò Titania. «Grayhound. Che hai da dire?» Il levriero fissò la regina con aria di sfida. La battuta serrò i ranghi dietro il suo capo, spalleggiandolo. «Titania, noi…» «Taci, traditore. Ho capito.» Gli occhi di Titania mandavano lampi. Una lieve brezza cominciò a soffiare dalla collina. Titania tese una mano verso Oberon, che la afferrò senza esitazione e i due scesero dal colle, avanzando verso di loro. Il vento si intensificò e l’erba venne spazzata da raffiche sempre più forti. «Dietro di me», gridò Faith nella tempesta. Formalyne e Martha si misero dietro di lei, in una formazione a “V”. Tutte e tre incrociarono istintivamente le braccia davanti al volto per proteggersi. Poi Oberon parlò per la prima volta. «Streghe contro fate. Puah.

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Non avreste dovuto sfidarci.» Faith sarebbe stata pronta a dargli ragione ma preferì tacere perché in quel momento vennero investite da una pioggia di pietrisco che le costrinse a buttarsi a terra. «Ora», gridò Faith alle sue compagne, «ora o mai più!» Lei rimase dove si trovava, mentre Formalyne correva a destra e Martha a sinistra. I levrieri furono veloci a disporsi a cerchio intorno alle tre streghe. Faith, Formalyne e Martha sollevarono le braccia nello stesso istante creando un triangolo luminoso che avvolse i Sidhe. «Oh. Capisco», disse Titania. «Pensate che invocando il Cerchio di Vita e Morte riuscirete a sfruttare l’energia mistica e sconfiggerci.» «Patetico», completò Oberon. «Non sapevate che noi Sidhe siamo immortali?» «Guarda bene Titania», rispose Faith. «Di cerchi ce ne sono tanti altri… Ritenta!» «Cosa?» chiese la regina, confusa. Il cerchio di levrieri mutò forma, creando un altro triangolo che incrociava quello tracciato dalle tre streghe. «Che cerchio è?» domandò la regina. Oberon al suo fianco la strinse in un abbraccio. I Sidhe ora sembravano a disagio. «Questo è il Cerchio della Rimembranza. I due triangoli vi obbligheranno a ricordare in ogni attimo della vostra esistenza – infinita a quanto mi dite – il dolore e la paura che hanno provato le vostre prede. Carino, no?» da…

Trappola… Schiacciata… Preda… Impotente… Aiuto!... Morirò… Pre-

Oberon e Titania iniziarono a urlare, vicini, le mani premute sulle orecchie. Le streghe interruppero il flusso energetico. Grayhound trotterellò verso Faith, seguito dal resto della battuta. «Fortuna che conoscevate questo cerchio magico!» esordì mentre Formalyne e Martha si avvicinavano a loro. «È un cerchio stregonesco. Sconosciuto ai Sidhe.» Istintivamente, i levrieri si voltarono verso Oberon e Titania. Lui aveva lo sguardo perso nel vuoto, ma i suoi occhi erano foschi quando prima erano stati annoiati. Titania piangeva in silenzio, l’espressione addolorata.

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«Ora che ne sarà di loro?» chiese Grayhound, incerto. «Continueranno a esistere. Con più consapevolezza, possiamo sperare. Preda una volta, preda per sempre. Non daranno più la caccia a nessuno.» sò.

Faith osservò i due sovrani, quasi dispiaciuta. “Se lo sono meritato”, pen-

L’alba imminente era annunciata dal cielo sempre più chiaro. I Sidhe avevano tutto, salute, bellezza, eppure erano scontenti. “Buffo.” «Sapevamo che ci avreste aiutato, signorina Bat, grazie.» «È stato un piacere, Grayhound. Ma niente più rapimenti, eh?» Jeremiah e Gatto facevano a turno per rifarsi le unghie sul pouf consumato nel salotto di Formalyne. «Grazie dell’invito», esordì Faith. Era uscita in anticipo dall’ufficio per un tè pomeridiano con le due streghe. «Grazie a te per essere venuta», rispose Formalyne, facendola accomodare sulla poltrona che aveva innescato la reazione psicometrica nel corso del sopralluogo a casa Wilkinson. Poi lei stessa si sedette sul divano di fianco a Martha. «Ci tenevamo a ringraziarti nuovamente per averci salvate», disse quest’ultima. «Non era necessario», rispose Faith. «Mi avete già pagato un onorario sin troppo generoso…» «C’è un altro motivo per cui ti abbiamo chiesto di venire qui» la interruppe Formalyne. «Vedi, Martha lavora in un’agenzia investigativa.» «Oh…» «Solo come segretaria, non farti idee strane. Secondo me dovresti entrare in un’agenzia. Se avessi avuto un socio sarebbe venuto a cercarci se qualcosa fosse andato storto nel Sidhe.» «Preferisco lavorare da sola» ribatté Faith. «Diciamo che non sono un tipo collaborativo.» «Passa comunque da noi», insisté Martha. «Ti ho fissato un colloquio con il mio direttore per la settimana prossima.» «Grandioso», commentò Faith. Non ne aveva voglia, ma sarebbe passata per fare piacere a Martha. «Però c’è una cosa che dovresti sapere. Il mio capo… è un gatto.» «Grandioso», ripeté Faith ridacchiando. «“Mai lavorare per dei gatti”… Davvero grandioso!»

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La Casa dal giardino fiorito di Roberto Gerilli

I

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l cielo sopra Raven Falls è coperto da una coltre di nebbia che avvolge le ciminiere della fabbrica di calderoni, scende tra gli edifici di legno e serpeggia tra i vicoli. I maleodoranti fumi dello stabilimento ristagnano nell’aria trasmettendo il buon umore ai cittadini. Uomini e donne camminano sereni per le strade e si sorridono da sotto i grossi cappelli neri a falda larga. L’inverno si avvicina e l’animo della popolazione riprende vigore dopo la deprimente estate. L’orologio del municipio batte i rintocchi del mezzo dì, e dall’altra parte della città risponde il suono della campanella che segna la fine delle lezioni. I cancelli della scuola di magia si aprono cigolando sui cardini e l’ondata chiassosa di studenti straripa sul quartiere, contagiata dal clima splendido. A Raven Falls è una giornata magnifica. Ma non tutti sono d’accordo. Nell’allegra moltitudine di giovani, c’è una ragazza che cammina in silenzio, le spalle curve e la testa bassa. Il suo nome è Gertrude e ha quindici anni. Ogni notte sogna di avere molti amici che la chiamano Trudy. Ogni mattina si ricorda di conoscere solo coetanei che le hanno affibbiato i poco lusinghieri appellativi di “principessa”, “bambolina” e… beh, il terzo è troppo crudele per essere riportato. I giovani sanno essere spietati, è risaputo, ma a onor del vero bisogna ammettere che Gertrude si merita quegli epiteti. Guardandola sembra che Madre Natura si sia accanita contro di lei riservandole un aspetto repellente. Gertrude ha capelli lucenti del colore del grano, un viso regolare, una schiena dritta come un fuso e un portamento aggraziato. I suoi occhi azzurri non si arrossano nemmeno dopo due ore di chimica pratica, la sua pelle sembra immune alle verruche e perfino l’uniforme della scuola sembra rifiutarsi di darle lo stesso aspetto trasandato dei suoi compagni. Gertrude è il fenomeno da baraccone della città. Tutti lo sanno. Lei per prima. Ma nonostante questo insegue l’utopistico desiderio di socializzazione che oggi l’ha spinta nel luogo più terrificante della città: la Casa dal giardino fiorito. Nella zona est di Raven Falls, ben oltre il deposito di legnami del signor Potter, sorge una villa che nemmeno le lunghe ombre del tramonto hanno il coraggio di sfiorare. Un edificio giallo di cemento, con il tetto di tegole rosse e le persiane verde smeraldo. È circondato da un giardino rigoglioso

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There was a noise from inside the house Illustrazione Š Sarah Faire Site: www.sarahfaire.com


e da una staccionata bianca con tanto di cassetta delle lettere. Un posto che da i brividi anche al più rude degli operai. Giù alla fabbrica dicono che sia stato costruito su un terreno consacrato a un culto brutale, che mette al rogo le streghe. Al pub di Corneluis affermano che sia abitato da un vecchio così pazzo da tenere in salotto un cadavere crocifisso alla parete. Un amico del cugino del fratello della signora Mandrake, la sarta, racconta addirittura che «se guardi quel cadavere diventi una statua di sale, la tua anima finisce in una prigione ultraterrena e non puoi più trasformarti in fantasma.» La Casa dal giardino fiorito è l’incubo di Raven Falls. E Gertrude ha giurato di entrarci proprio ora, a mezzogiorno, quando nemmeno le tenebre possono darle forza. Tutto per colpa di una sfida accettata con troppa fretta. Il fatto risale a poche ore fa, durante l’intervallo tra la lezione di stregoneria domestica e quella di storia. Gertrude ripassa la lezione mentre Medara, la reginetta della classe, si lamenta con le sue amiche delle drammatiche difficoltà per l’organizzazione dell’annuale festa scolastica. Manca solo una settimana alla vigilia del giorno degli Ancestrali e il comitato non ha ancora trovato una location adatta per il gran ballo in maschera. Serve un posto con la giusta atmosfera, o almeno un luogo che possa essere addobbato per simulare il clima spaventoso della festa. Ma le scelte che offre Raven Falls sono terminate, e organizzare la cerimonia in un ambiente già sfruttato sarebbe un onta che il gargantuesco ego di Medara non potrebbe sopportare. E quindi la streghetta più amata dalla scuola piagnucola disperata, mentre le sue fedeli accolite cercano di consolarla con colpetti sulla gobba e carezze ai capelli sfibrati. I singhiozzi di Medara arrivano fino alle orecchie di Gertrude che in un moto di speranza si avvicina al gruppetto ed espone la sua proposta. Qualcuno ha depositato al tribunale di Raven Falls una richiesta di esproprio riguardante la famigerata Casa dal giardino fiorito e preparata ai danni dell’unica proprietaria, una vecchia pazza senza figli, nipoti o parenti prossimi. Perché nessuno vede più la vecchia da anni e il valore di quel terreno è superiore a qualsiasi timore di dannazione eterna. E quindi il tribunale ha affidato alla madre di Gertrude tutti i controlli del caso, compreso un sopralluogo dell’abitazione. La donna si è limitata alla perlustrazione esterna e ha notato che alcune finestre del piano terra sono aperte e che, da quello che si può vedere, l’edificio sembra abbandonato da anni. Gertrude racconta tutto questo alle sue compagne di scuola, che prima la guardano disgustate dalla sua vicinanza, poi l’ascoltano, sempre più interessate.

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La Casa dal giardino fiorito sarebbe il luogo perfetto per la festa degli Ancestrali, ma ci si può veramente fidare della madre della “principessina”? Ed ecco che un sorrisino malvagio appare sul volto asimmetrico di Medara e una veloce sequenza di domande incastra Gertrude in una situazione potenzialmente letale. Prima il dubbio: «Sei sicura che sia disabitata?» Poi la sfida: «Perché non vai a controllare appena usciamo di scuola?» E infine la promessa del premio: «Se mi dai la conferma, accetteremo la tua proposta e ti inseriremo nello staff dell’organizzazione.» Intrufolarsi da sola nella Casa dal giardino fiorito o rischiare l’umiliazione pubblica conseguente al suo eventuale rifiuto? Dal punto di vista di Gertrude non c’è scelta. Non gli resta che nascondere la sua paura e farsi forza. Sorride, annuisce e stringe la mano a Medara. Non può sapere in che guaio si è cacciata, ma lo sospetta. Gertrude cammina per le stradine della città, dove l’ignorano anche i gatti, supera il deposito di legnami e raggiunge lo steccato bianco. Passa una mano sulla superficie ma non nota che sembra verniciata da poco; scosta il cancello aperto e non si accorge che i cardini sono ben oliati; cammina attraverso l’inquietante giardino e non si rende conto che l’erba è stata tagliata di fresco. La paura monopolizza i suoi pensieri, le toglie il fiato, la spinge ad accelerare il passo. Ma non le suggerisce di alzare lo sguardo e di vedere l’ombra dietro una tenda al secondo piano. La ragazza raggiunge la finestra indicatale dalla madre ed entra nella casa. Si ritrova in una stanza piena di libri. Potrebbe essere un biblioteca, ma i volumi non sono disposti con ordine. Le quattro pareti sono coperte da altrettante librerie piene, e sul pavimento sono sistemati mucchi informi alti quasi fino al soffitto. I libri hanno copertine colorate, illustrate da disegni più o meno elaborati. Sono inquietanti e affascinanti. Gertrude procede verso l’unica porta stando ben attenta a non toccarli, poi nota un’illustrazione e allunga d’istinto la mano. Raccoglie un volume polveroso e ne osserva la copertina. Vi è disegnato un ragazzino minuto, con occhiali tondi e una bacchetta in mano. I suoi tratti sono appena accennati ma la somiglianza con il figlio del signor Potter è sconcertante. La ragazza scosta il velo di polvere e quasi si lascia scappare un gemito di sorpresa. Come mai questo romanzo parla del piccolo Harry? Gertrude sfoglia velocemente il libro e trova altre illustrazioni: la loro scuola, il negozio di bacchette, perfino il vecchio platano. Allora alza lo sguardo e osserva meglio quello che la circonda. Ci sono altri volumi dedicati a Harry, e poi libri sul signor Frankenstein, il veterinario, e su Dracula, la mascotte dei Vampires Quidditch.

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Gertrude vorrebbe saperne di più, vorrebbe leggere tutti quei libri e scoprire cosa rappresentino, ma il ricordo del sorriso beffardo di Medara le rammenta che non è lì per quello. Si volta quindi verso la porta e mette a tacere la sua curiosità. La casa è silenziosa, l’aria immota. Superato l’uscio la ragazza si trova in un corridoio: a sinistra una porta chiusa, a destra una rampa di scale per il piano superiore, sulle pareti dipinti spaventosi con gruppi di persone che sorridono verso l’osservatore. Gertrude rabbrividisce per il disgusto e si dirige verso la porta. La maniglia è lucida, fredda a contatto con la mano della ragazza, che l’afferra, l’abbassa e la spinge piano. Sulla parete opposta il cadavere scheletrico di un uomo è crocifisso al muro. Gertrude lo guarda e sviene, convinta di essere maledetta per l’eternità. Quando si risveglia, è distesa su un divano. Apre gli occhi, certa di aver sognato tutto, e trova di fronte a se il volto sorridente di una vecchietta. La ragazza scatta in piedi, ma inciampa e cade per terra. «Oh poverina, che succede?», chiede la vecchia. Gertrude la guarda terrorizzata. Apre e chiude la bocca, ma dalla sua gola salgono solo versi incoerenti. Cerca la porta con lo sguardo e si accorge di essere scivolata ai piedi del cadavere crocifisso. Urla, urla e urla ancora. Poi si rannicchia in posizione fetale e rimane immobile. La vecchia le si avvicina con passo malfermo e si china, facendo scricchiolare tendini e articolazioni. «Che ne dici se ci sediamo, beviamo un tè e ci calmiamo?» Gertrude tiene le mani di fronte al volto e scuote la testa: «Ho guardato il cadavere crocifisso… la mia anima è dannata… non lo dovevo guardare… ma l’ho guardato… ho guardato il cadavere crocifisso.» «Non essere sciocchina, su. È solo una statua, cosa vuoi che ti faccia?» La ragazza allarga le dita e vi sbircia attraverso. «Ma io l’ho guardato, in paese dicono…» «Lo so cosa dicono in paese, non ti preoccupare. Quelle storie le ha inventate la mia famiglia.» «Inventate?» «Certo Gertrude, certo. Tutto inventato.» La ragazza si mette a sedere, diffidente. «Come sa il mio nome?» «Perché ti stavo aspettando.»

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La vecchia sorride e torna lentamente verso il divano. Indica un tavolino basso su cui sono appoggiate due tazze, una teiera fumante e un piatto di pasticcini. «Mettiamoci sedute e beviamo questo tè, che ne dici? Ti spiegherò tutto, stanne certa.» Gertrude non è molto coraggiosa, ormai è chiaro, ma è curiosa (molto curiosa), per cui annuisce e, stando ben attenta a non guardare il crocifisso, raggiunge il divano. La vecchia solleva la teiera e ne versa il contenuto nelle due tazze. «Prendi pure, cara.» «La ringrazio.» «E non dimenticare i pasticcini, li ho sfornati da poco.» «Magari più tardi.» «Come preferisci.» Prende un piccolo sorso di tè e poi continua, «Io sono Amelia, ultima discendente del grande Sauron.» «Sauron il pazzo?» «Oh, no, cara. Non era pazzo, no no. Un pazzo sarebbe stato in grado di creare un anello capace di controllare le menti di streghe e stregoni?» Mentre parla mette mostra una collana con appeso un anello dorato, e lo fa ciondolare piano. «Funziona sul serio?» «Certo, altrimenti come sarei riuscita a condurti fin qui?» La ragazza sobbalza e si versa qualche goccia di tè sulla mano. Appoggia la tazzina sul tavolino e prende un tovagliolo per pulirsi. «Non capisco…», mormora. «Ha usato quell’anello sulle mie compagne… e su mia madre?» «Solo una piccola ipnosi, cara. Nulla di grave.» «Ma… è impossibile… non si può… lo sanno tutti.» «Il mio antenato ha trovato il modo.» «E io… come ha fatto a controllare le mie decisioni?» «Non l’ho fatto. Le streghe adolescenti sono prevedibili, mia cara.» Amelia si mette a ridere, ma presto la risata si trasforma in un forte attacco di tosse. Gertrude sfrutta il momento per nascondere l’espressione rabbiosa che le è comparsa in volto.

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«Si sente bene?», chiede. «Quando raggiungi la mia età “sentirsi bene” assume un significato molto particolare, purtroppo. Ormai nemmeno la magia guaritrice può nulla per i miei polmoni ed è per questo che ho bisogno di parlarti. È necessario che io trovi qualcuno a cui tramandare la mia eredità.» La ragazza indica quello che le sta intorno, ma continua a non girarsi verso il crocifisso. «Intende questa casa?» «Molto di più in realtà. Fammi il piacere di seguirmi.» Amelia si alza, esce dalla stanza e, scalino dopo scalino, arranca fino al piano superiore. Gertrude la segue nel corridoio e non pensa alla fuga. I misteri di quella casa le sembrano ora molto più interessanti. Le due streghe si ritrovano in una stanza ampia come il piano stesso. Raggi di sole polverosi entrano dalle finestre del lato ovest e illuminano una porta, che si erge monolitica al centro dello spazio. Amelia si ferma di fronte a essa e, con il fiato corto per lo sforzo della salita, inizia a raccontare. Nella sua lunga vita, Sauron (il grande o il pazzo, a seconda dei punti di vista) ha creato numerosi manufatti magici di dubbia utilità. Uno di questi è La Porta, un passaggio verso una dimensione parallela. Sauron ha visitato questo mondo e ha scoperto che gli uomini-oltre-l’uscio non conoscono la magia. «Nessuno di loro?», sbotta Gertrude, incredula. «No, mia cara. È assodato. Durante uno dei suoi primi viaggi, Sauron trovò un ragazzo promettente e decise di insegnargli l’uso degli incantesimi. Ci vollero diciotto anni per addestrarlo ma quando questo iniziò a mostrare le nuove capacità ai suoi simili, loro preferirono credere che fosse il figlio di un essere onnipotente piuttosto che accettare l’esistenza della magia. Dopo solo tre anni di attività il poveretto fu arrestato e crocifisso.» «è lui quello della… statua, di sotto?» «Esatto. Sauron volle tenerlo come monito: mai insegnare la magia agli uomini.» Amelia continua il suo racconto e Gertrude appare sempre più rapita dalla storia. La vecchia le dice che, dopo la morte di Sauron, quella porta è stata tramandata di generazione in generazione ai membri della sua famiglia. Molti di questi viaggiarono nel mondo-oltre-l’uscio ma sempre senza interferire troppo con i suoi abitanti. Finché l’eredità non arrivò nelle mani di Morgana. «Era brutta, tanto brutta», dice Amelia, «ma quelle che da noi sono considerate repellenti, al di là della porta sono viste come donne splendide. A

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Morgana bastò un solo viaggio per far innamorare addirittura due uomini, tali Jacob Sprenger e Heinrich Kramer, e invece di scegliere lei decise di godersi le attenzioni di entrambi. Quando però gli uomini scoprirono di essere stati traditi a vicenda, e per giunta da una strega… beh, la loro reazione fu tutt’altro che tranquilla.» La vecchia racconta che i due diedero la caccia a Morgana, ma non riuscirono a scovarla, così scrissero un libro in cui rivelavano l’esistenza delle streghe e spiegavano come riconoscerle. L’intera società fu convinta dalla loro opera e migliaia di donne-oltre-l’uscio furono ingiustamente trucidate con l’accusa di stregoneria. Il tragico inconveniente spinse gli antenati di Amelia a chiudere la porta per secoli interi, fino a quando Reuel, il saggio, non ebbe un’idea brillante. «Propaganda?», chiede Gertrude. «Esatto, cara. Gli uomini non riescono a credere alla magia ma si può sussurrare alle loro orecchie e aspettare che si convincano da soli. Ed è questo che la mia famiglia fa da decenni, ormai. Troviamo nel mondo-oltre-l’uscio scrittori o scrittrici di talento e suggeriamo loro delle storie, magari nel sonno. Prendiamo spunto dal nostro mondo e dai racconti degli abitanti di Raven Falls, e aiutiamo gli autori a scrivere romanzi di successo. Li dovresti aver visti quando sei entrata.» «Sì», ammette la ragazza. «Leggendo racconti che reputano di fantasia, si abituano al concetto di magia e arriverà il momento in cui saranno pronti ad accoglierla nelle loro vite.» Gertrude annuisce, poco convinta. «Ma cosa c’entro io in tutto questo?» «Tu, cara, dovrai continuare il mio lavoro. Non ho avuto figli e non ho nessun parente a cui poter tramandare la storia di questa porta. Ho bisogno di qualcuno che voglia accettare questo incarico e penso che tu sia perfetta. Sei intelligente e abbastanza brutta da essere adorata nell’altro mondo. Potresti addirittura trasferirti lì, per rendere più efficace il tuo lavoro. Che ne dici?» Gertrude esita e guarda la vecchia aggrottando la fronte. «Mi vuole lasciare veramente tutto questo?» «Sì, cara.» «La casa, la porta… l’anello.» «Esatto.» La ragazza continua a esitare. «Beh… posso pensarci?» «Ma certo, pensaci pure. Perché non torniamo di sotto e mi fai tutte le

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domande che vuoi bevendo dell’altro tè» «Sarebbe perfetto», sorride Gertrude. Amelia si volta e si avvia verso le scale. «Tra una settimana nel mondooltre-l’uscio festeggiano una festa chiamata Halloween. Si mascherano da streghe e mostri di ogni tipo, e vagano per le città divertendosi tutta la notte. Sarebbe un buon momento per il tuo primo viaggio.» «Interessante», dice avvicinandosi alle spalle della vecchia. «Una settimana dovrebbe essere sufficiente per quello che ho in mente.» «Non capisco, cara…», inizia a ribattere Amelia, ma Gertrude la spinge e la vecchia cade per le scale ripide. Un secco crack e la vita abbandona il corpo della strega. Le stelle illuminano il cielo terso, mentre la Luna ammicca verso le strade addobbate. Lanterne a forma di zucca, scheletri di carta e ragnatele finte. È la notte di Halloween e tutta la città festeggia l’evento. Ragazzini sorridenti mettono in mostra i loro costumi, sciamano per le strade e bussano alle porte in cerca di dolci. I più grandi si truccano a vicenda e si preparano per la serata in discoteca. Famigliole allegre camminano mano nella mano e si godono l’atmosfera. È una notte magnifica! Ma non tutti sono d’accordo. In un vicolo buio e isolato, una ragazza bellissima vestita da strega guarda accigliata un gruppo di coetanee tanto brutte da sembrar streghe vere. Sono un centinaio, forse anche di più, e guardano la loro leader bionda. «Medara, ci siete tutte?» «Sì, signora. Tutte presenti e in attesa dei suoi ordini.» «Conquistiamo questo mondo di mentecatti!» Le streghe urlano all’unisono e si alzano in volo sulle loro scope. Gertrude sfiora il grosso anello dorato che pende dal suo collo, annuisce e mormora «Le streghe adolescenti non sono così prevedibili, dopotutto.» Poi segue il suo esercito, mentre il fuoco dei primi incendi colora di rosso la notte di Halloween.

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Fino al prossimo Samhain di Giulia Marengo

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a prima volta che lo vidi stavo pensando ai fatti miei. Ero immerso in pensieri oziosi, che compivano circonvoluzioni distratte.

Stavo immaginando come sarebbe cambiata la storia se Frodo avesse avuto a disposizione il Millennium Falcon per raggiungere il Monte Fato. L’ho detto che erano pensieri oziosi, no? Tuttavia ero del tutto assorbito in congetture che tenevano conto delle ricadute a cascata che l’introduzione di un’astronave avrebbe avuto sui popoli della Terra di Mezzo. Ora, questo dovrebbe darvi un’idea su che tipo di persona sono. Sì, sì, lo ammetto. Sono un nerd. E vi dirò di più, sono fiero di esserlo. Sapete quello che dicono, nerd is the new sexy. Modestamente, non me la sento di contraddirli. Sono certo che la sfortunata e totale carenza di donne nella mia vita non abbia niente a che fare con la mia vera essenza. Il problema è che io sono un nerd imprigionato nella vita di una persona triste. Sognavo un lavoro che mi permettesse di esprimere la mia passione per le stelle, il cosmo, gli universi paralleli. Da bambino desideravo diventare archeologo, scrittore di libri fantasy, chimico o fisico astronomico. No, non posso dirvi cosa faccio per vivere. Davvero, contempla il totale annichilimento di tutti i miei desideri di gioventù. Mi è proibito esplorare l’universo, indagare sulle origini dell’uomo, andare alla ricerca di perdute formule alchemiche. Perché... perché... lo ammetto. Sono un contabile. Ah, direte voi. Che grande beffa! Cosa c’è di così lontano dal respiro delle galassie dell’irrevocabile intransigenza di una partita doppia? Ahimè, nulla. E così mi ritrovo da solo, la notte, a guardare le repliche di Doctor Who e sognare di mondi lontani. Sul lavoro non posso sgarrare. Il più piccolo errore creerebbe problemi alla gestione finanziaria dell’intera azienda, e il senso del dovere non mi permetterebbe mai di distrarmi, neanche per un istante.

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Witch’ s nest

Illustrazione © xxxsumeragi Site: www.xxxsumeragi.deviantart.com


Il punto è che la mia professione mi sta a poco a poco uccidendo. Sta prendendo tutte le mie aspirazioni e il bisogno viscerale di magia e portenti, e li sta schiacciando nella morsa del suo disincanto. Così, per sopravvivere, approfitto di tutti quei momenti nel corso della giornata in cui posso evadere dal grigiore della mia vita, per immergermi in un personale universo fatto di colori e di incanti. Il tragitto da e verso l’ufficio è il mio preferito. È una camminata di circa quindici minuti a passo moderato, che generalmente affronto con le mani affondate nelle tasche e il naso per aria a fissare le nuvole. Un giorno o l’altro finirò per inciampare e rompermi tutti i denti. Ma il fascino della volta celeste è ben superiore alla sterile minaccia costituita dalla forza di gravità. La passeggiata costeggia il cancello in ferro battuto del vecchio cimitero monumentale, quello con l’enorme parco di cipressi odorosi. È scuro e misterioso, con quei vialetti coperti di muschio soffice e le lapidi tutte un po’ storte, sbeccate dagli anni e dall’incuria. Ma è un luogo silenzioso ed evocativo, e sfilarvi accanto mi riempie di uno strano senso di pace. Una sera, stavo tornando verso il mio modesto bilocale pieno zeppo di fumetti, con l’idea di scaldarmi una ciotola di zuppa davanti a Battlestar Galactica. Anche se, come ho detto, i miei pensieri erano più rivolti a Frodo che incontra Chewbacca, mentre lo sguardo saltellava svagato da una sbarra all’altra della cancellata. Colsi un movimento con la coda dell’occhio, come un guizzo liquido fra un cespuglio e l’altro, nel cimitero al di là del cancello. Calava un crepuscolo ambrato di fine estate, e le ombre si facevano più dense al cospetto delle lapidi bianche. Ero distratto, perciò proseguii senza darci troppo peso. Tuttavia, la seconda volta che l’aria fremette, mi fermai e aguzzai lo sguardo. Comodamente acciambellato sulla sommità della lapide più alta, dove avrei giurato che fino a un istante prima non ci fosse nulla, stava un gattino. Era appena più grosso del mio pugno, nero come il peccato, la codina sottile appoggiata dignitosamente sulle zampe anteriori. Mi avvicinai alla cancellata, appoggiando il palmo al metallo. Mi trasmise un freddo insolito per una serata così mite. Il micetto mi fissava di rimando, con le orecchie dritte. «Mi?», chiamai, con una voce che risuonò querula alle mie stesse orecchie. «Micio?» Il gatto non si mosse, ma gli occhi di un verde sorprendente si strinsero appena, sornioni. Battei le palpebre, ed era scomparso, come se non fosse mai stato lì. Il silenzio era rotto soltanto dal frinire lontano di una cicala.

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Nelle settimane che seguirono, scordai completamente l’incontro con il gattino. In ufficio erano emerse delle incongruenze relative al bilancio dell’anno precedente, e trascorsi lunghe ore sfogliando quaderni e fissando stolide schermate al computer. Mi sentivo stanco, il cervello avvolto da strati e strati di ovatta soffocante. Uscivo tardi dalla mia prigione lavorativa, e il mio sguardo aveva abbandonato le nuvole per fissarsi triste sul cemento. Era un giovedì e costeggiavo come di consueto la cancellata del cimitero, tormentando con le mani la cintura dell’impermeabile che mi proteggeva dalla brezza insistente di fine settembre. Nella mia testa i pensieri si rincorrevano, dominati per una volta da numeri e non da fantasie confuse. Mi riscossi quando sentii delle risate sguaiate provenire da dentro il camposanto. Aggrottai la fronte con disapprovazione. Sapevo che il cimitero monumentale era da anni il ritrovo di un gruppetto di ragazzini sfaccendati che vi si rifugiavano per aver marinato la scuola. Spesso scorgevo, a occhieggiare fra l’erba alta, lattine abbandonate di birra e carte di merendine. Tuttavia mi pareva istintivamente indecoroso che alzassero la voce in quello che era, in effetti, un luogo sacro. Non tanto per l’aspetto religioso in sé – non sono mai stato devoto – quanto per rispetto di coloro che in quell’angolo ombroso avevano sepolto i propri cari. Le voci crebbero d’intensità mano a mano che proseguivo. Sembrava che stessero deridendo qualcuno. Mi fermai davanti a uno dei modesti cancelletti di servizio, in ascolto. Non dovetti attendere molto. «Prendilo!», sentii, e poi un’imprecazione. I cespugli fremettero e dal fogliame esplose una palla nera lanciata a folle velocità. Con sorpresa riconobbi il gattino di quella notte d’estate, ora appena un po’ cresciuto. Dietro, incespicando e masticando una bestemmia, lo tallonava un ragazzino di circa quindi anni, rasato e con le guance deturpate dall’acne. Stringeva nel pugno una manciata dei ciottoli bianchi che rivestivano i vialetti. Da presso venne un altro ragazzo, i capelli spettinati e le guance rosse di giovinezza. Rideva. «Dai, Fra, prendilo!», sghignazzò. Il primo ansimò, senza fiato, arrestandosi di botto. Prese la mira tirando il gomito sopra la testa e scagliò uno dei ciottoli in un lancio dritto e preciso. Se il micio non avesse scartato di lato con un guizzo repentino, la pietra l’avrebbe colpito in pieno.

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«Stronzo!», bofonchiò il teppista. Il gattino riparò dietro una lapide. Si appiattì contro la pietra, soffiando e tremando, le orecchie basse e adese alla piccola testa. Non ci vidi più. Se c’è una cosa che non sopporto è il sopruso nei confronti delle creature più deboli. Che razza di bestia poteva mai prendersela con un gatto così piccolo? Mi lanciai verso la porticina e con una spinta l’apersi di schianto, mandandola a sbattere contro la cancellata. Prontamente rimbalzò indietro, colpendomi a una spalla e rovinando del tutto la drammaticità della mia entrata. Ma tant’è. Nell’udire il fragore ferroso, il ragazzo più giovane si voltò di scatto e sgranò gli occhi. Era appena più di un ragazzino. «Fra...», chiamò, occhieggiandomi incerto. L’altro lo ignorò. «Fra!», insistette, arretrando verso di lui. L’urtò con il gomito. «Che cosa vuoi?», ringhiò l’altro. «Non vedi che sono occupato? Ora ammazziamo questo piccolo stronzetto e lo lasciamo davanti alla casa del prof!» Sghignazzò soddisfatto, poi mi scorse con la coda dell’occhio. Si voltò furibondo. «E questo chi sarebbe?», domandò, a nessuno in particolare. Lo sguardo pallido si soffermò sul mio impermeabile. «L’Ispettore Gadget?» Avanzai di qualche passo. Era un bulletto, ma lo sovrastavo di quasi tutta la testa. Mentre il compagno deglutiva rumorosamente, lui mantenne la posizione, alzando il mento in segno di sfida. «Che cosa pensate di fare, voialtri?», lo apostrofai in malo modo. È vero, non sono un marcantonio. E, come ho detto, sono un nerd. Ma non sono neanche uno di quei figuri gracili usciti dall’immaginario collettivo, un po’ gobbi e con gli occhiali, e il naso sempre infilato fra le pagine di un libro. All’università praticavo arti marziali. So difendermi, ecco. «Non sono fatti tuoi», rispose, aggressivo. Sorrisi a denti stretti. «Però scommetto che potrebbero essere fatti dei vostri genitori. Dubito che sarebbero felici di sapere che i loro figli si divertono a tormentare animali indifesi.» Il ragazzino alla mia destra si schiarì la voce, nervoso. «Fra...», ripeté.

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Cominciavo a sospettare che la natura l’avesse dotato dell’uso di una singola sillaba. “Fra” fece spallucce. «Fai pure. Non ce li ho, i genitori.» Mentre parlava, il suo sguardo guizzò rapido verso destra. Stava bluffando. Sorrisi di un sorriso gelido. «Davvero? Allora non sarà un problema se vado a controllare all’edificio qui accanto», buttai lì, in tono leggero. Oltre la cancellata si scorgevano i tetti ardesia della scuola professionale. Tutta la sua baldanza si sgonfiò come un palloncino esausto. «Non volevamo fare niente di male», bofonchiò, tormentandosi con le dita il lobo di un orecchio. «Non volevamo ammazzarlo davvero». Fissava a terra, ora, con un misto di rancore e vergogna. Non mi pareva affatto il caso di lasciar correre. «Avete tirato dei sassi a un gattino che avrà sì e no due mesi di vita!» Allungai una mano e gli afferrai il bavero della giacca a vento. Non intendevo fargli del male, ma mi sentivo pervaso da una tale rabbia che gli detti uno scrollone. «Ascoltami bene, adesso. Se vi pesco a ronzare qui intorno ancora una volta, prima vi faccio passare per sempre la voglia di tormentare il prossimo, e poi vi porto dentro con le mie stesse mani. È chiaro?», sibilai, a denti stretti. Ora, dovete sapere che non sono affatto un tipo violento. Un giorno ho trovato un’auto sconosciuta parcheggiata nel mio posto riservato. È il numero diciassette, c’è anche scritto per terra, in larghi numeri bianchi. Sul momento, feci fuoco e fiamme. «Gliela faccio vedere io, a quello!», mi sentì gridare la signora Operti del terzo piano. «Ah, me la pagherà!» Dopo dieci minuti scrissi un cortese biglietto indirizzato al parcheggiatore abusivo, chiedendogli per gentilezza se potesse spostare l’auto altrove, nei tempi e nei modi che avesse ritenuto più opportuni. Quindi potete credermi. Non farei paura neanche volendo. Eppure, qualcosa nei miei occhi dovette convincerlo che non stavo scherzando. Forse era stata l’immagine del corpicino del micio addossato alla lapide, e del pelo tutto arruffato intorno alla testolina tremante. Ma il ragazzo annuì piano. «Ok, ho capito», assentì con tono incolore. Lo lasciai andare, e quello si aggiustò la giacca, imbarazzato. «Andiamo, Ste», chiamò verso il suo compare. Si dileguarono senza parlare, le teste basse, strascicando i piedi sul cemento. L’ultimo suono che udii fu quello prodotto dai ciottoli che rotolavano a terra.

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Sospirai, passandomi una mano fra i capelli. Poi mi ricordai del gatto. Con cautela, mi avvicinai alla lapide dietro la quale l’avevo visto rifugiarsi, facendo attenzione a non fare troppo rumore sul tappeto di foglie secche. Mi produssi in quello schiocco di labbra che si usa per attirare i felini, chiamando a bassa voce. «Micio? Sei ancora qui?», cantilenai. C’era. Povera bestiola. Era ancora addossato alla pietra, il pelo tutto ritto e le pupille enormi negli occhi sgranati. Mi fermai a circa un metro e mezzo e mi piegai sulle ginocchia. «Ehi», mormorai. Al suono della mia voce drizzò le orecchie. Mi osservò con diffidenza, poi parve rilassarsi. Si sedette e con estrema dignità si leccò una zampina. Era proprio lo stesso gatto. Aveva gli occhi del verde più luminoso che avessi mai visto in vita mia. Sorrisi e allungai una mano verso di lui. Inclinò la testa da un lato, in silente contemplazione, e parve ponderare la questione. Con cautela, si avvicinò ad annusarmi le dita. «Ciao, piccolo.» Mossi la mano per una breve carezza sul capo. Il pelo era serico, e lo sentii ronfare soddisfatto. Forse fu la mia immaginazione, ma parve strizzare l’occhio. Si voltò, e l’istante dopo era sparito fra i cespugli. Mi ero fermato fino a tardi perché le segretarie avevano organizzato una piccola festicciola di Halloween. Nessuno aveva colto il riferimento quando mi ero presentato con un papillon e un paio di converse ai piedi e anzi, ero stato sgridato per non aver voluto mascherarmi. Il risultato era che adesso mi ritrovavo sulla guancia una cicatrice un po’ sbilenca, disegnata con un pennarello indelebile nero, che non sarebbe mai venuta via in tempo per l’indomani mattina. Le giornate si erano accorciate moltissimo nelle ultime settimane, ed era buio pesto quando finalmente riuscii a evadere dalla festa – caotica e rumorosa e un poco alticcia.

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Una delle peculiarità di lavorare con il dare e l’avere è che tutti i giorni sembrano uguali. Se non vedessi intorno a me il mutare delle stagioni e dei loro colori, a malapena mi accorgerei del tempo che passa. In un battito di ciglia, o almeno così mi parve, eravamo a fine ottobre. Le ultime foglie rosso brunito degli alberi si appiccicavano molli alle suole delle mie scarpe, zuppe di pioggia. Soffiava un vento teso che se n’infischiava dell’ombrello e mi spiaccicava sulla fronte manciate di gocce gelide. Affondai il naso nella sciarpa a righe rosse e oro e affrettai il passo. Alle mie spalle venne il suono di passi affrettati, e sorrisi con indulgenza. Avevo già incontrato un gruppetto di bambini mascherati da demonietti, ai quali avevo elargito una confezione di liquirizie. Era un peccato che non avessi altri dolciumi con me. I passi si avvicinavano, troppo pesanti per appartenere a dei ragazzini. Non feci tempo a voltarmi, che una manata mi colpì con violenza fra le scapole. Incespicai, perdendo la presa sull’ombrello che volò via, catturato dal vento. Per arrestare la caduta allungai una mano e sbattei con violenza contro il cancello scuro del cimitero. «Ooomfh», mi sfuggì l’aria dai polmoni. Prima di capire che diamine stesse succedendo, mi sentii strattonare e venni fatto voltare con la schiena contro un piccolo cancello, lo stesso attraverso il quale mi ero introdotto qualche settimana addietro. C’erano due uomini davanti a me, e molto decisamente non erano per strada per festeggiare Halloween. Sembravano usciti da un film noir, tutti sguardo minaccioso e barba lunga. Il primo era alto e segaligno, dinoccolato, e indossava una felpa scura con il cappuccio tirato sul capo. L’altro, il volto semi celato da un cappello da baseball ben calato sugli occhi, era basso ma decisamente possente. Era quest’ultimo che mi teneva piantato contro il cancello, le mani che mi stringevano i baveri della giacca. Il suo alito puzzava di aglio. Nessuno dei due emise un suono, ma capii in fretta quello che volevano da me. «Ok, ok», iniziai in tono ragionevole. «Non ho tanti soldi con me, ma il portafogli è nella tasca. Potete prenderlo.» Sì, certo, la mia voce tradiva un vago tremito, ma mi congratulai con me stesso per come stavo gestendo la situazione. Raramente tenevo contanti in tasca, e conoscevo a memoria il numero per bloccare le carte di credito. Il danno sarebbe stato minimo. Quello alto annuì. «Prendiglielo.»

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Una grossa mano pelosa frugò con malagrazia nella tasca della giacca, e sentì la cucitura che si strappava. Maledizione, ci tenevo a quella giacca, e non sono mai stato granché a rammendare. Il portafogli venne passato di mano. «Anche l’orologio», intimò il primo uomo. Eh, no. L’orologio era l’unico ricordo che avevo del nonno, e mi sarei dannato per l’eternità piuttosto che consegnarlo a due rapinatori qualunque. Nascosi le braccia dietro le spalle. «Andiamo, ragazzi, avete già il portafogli...», cominciai. «Zitto!», grugnì il tarchiato. Ebbi appena il tempo di vedere che caricava un pugno, e una cascata di stelle mi esplose dietro gli occhi. Mi piegai in due mentre l’aria mi usciva dai polmoni tutta d’un colpo. Boccheggiai, tentando di riprendere fiato, e lui mi torse il braccio nella sua direzione. D’istinto gli sferrai una ginocchiata che lo colpì in un punto che mi fece quasi digrignare i denti in simpatia. Senza dargli il tempo di ululare per il dolore, mi voltai e a tentoni la mia mano trovò la maniglia del cancello. I cardini cedettero sotto la mia spinta. Alle mie spalle percepii lo spostamento d’aria causato dal primo uomo che tentava di acciuffarmi, ma le sue dita arrivarono solo a sfiorare la mia giacca. Mi lanciai nel buio, la ghiaia che scricchiolava sotto i miei piedi. «Prendilo, idiota!», sentii gridare. Due serie di passi, di cui una un po’ zoppicante, mi seguivano da presso. Zigzagai fra le lapidi, addentrandomi nei recessi del cimitero. Ci misi solo qualche istante a perdermi irrimediabilmente. Ho il senso dell’orientamento di un paguro morto, e in breve non avrei saputo dire da dove fossi arrivato. I vialetti sembravano tutti uguali, e le lapidi di ergevano severe e un poco inquietanti. Eppure, i due loschi figuri ancora mi tallonavano. Sentivo il loro respiro pesante, e ogni tanto un’imprecazione soffocata. In tutta sincerità cominciavo a sentirmi disperato. Avevo paura che intendessero farmi del male sul serio, stavolta, ed ero più che certo che fosse questione di tempo prima che inciampassi e il male me lo procurassi da solo. Mi balenò davanti agli occhi un’immagine macabra del sottoscritto, rapinato e riverso su una lapide, con la testa spaccata come un melone troppo maturo.

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Pensai a uno scherzo della mia immaginazione quando vidi una luce danzare davanti al mio naso. Era un piccolo globo azzurro, un po’ sfilacciato, e ballonzolava sospeso nell’aria. Ora, ho una mente analitica e pensai che potesse essere un fuoco fatuo. Oggigiorno si usano bare rivestite in zinco, ma quella parte del cimitero monumentale pareva abbastanza vecchia perché i gas fuoriusciti dal terreno potessero creare una qualche fiammella. La fiammella in questione, però, pareva viva davvero, perché quando la raggiunsi scattò in avanti per soffermarsi qualche metro più in là. Visto che non avevo idea di dove stessi andando – e gli inseguitori erano sempre più vicini – mi mossi istintivamente verso di essa. E quella parve attendermi, per poi sfuggire ancora. La rincorsi per un paio di minuti, finché scomparve dietro la statua di un angelo piangente. Svoltai anche io e mi sentii afferrare. Con un singulto molto poco dignitoso mi divincolai, fino a quando il mio cervello obnubilato dal terrore mi segnalò che in nessun modo quelle esili braccia bianche potevano appartenere ai nerboruti inseguitori. Era una ragazza a stringermi in un abbraccio, e spalancai la bocca per lo stupore. Era di poco più bassa di me, e indossava una veste fluente, color argento, trattenuta sulla spalla da un fermaglio. Snella come un giunco, sembrava splendere di luce propria nell’oscurità del cimitero. Una cascata di capelli color fiamma incorniciava un volto dai lineamenti regolari, illuminato da un paio di occhi di un verde intensissimo. «Chi...?» Mi lanciò un’occhiataccia. «Shhht!», intimò. Bastò quella reprimenda, e mi innamorai perdutamente. Stavamo a ridosso della statua dell’angelo, immobili nel pallido chiarore della sua pelle di luna. «Dove è finito?», venne una voce alle nostre spalle. Allungai il collo per sbirciare dietro il marmo, ma la ragazza mi trattenne, ammonendomi con lo sguardo. Le rivolsi un piccolo sorriso propiziatorio. Ero nel bel mezzo di un cimitero, di notte, inseguito da due uomini che con ogni probabilità volevano farmi la pelle. Come se non bastasse, ero abbracciato a una perfetta sconosciuta, e non avevo idea da dove fosse saltata fuori. Eppure ero pervaso dalla più inspiegabile e curiosa sensazione di euforica tranquillità.

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Ancora un istante, e i due rapinatori avrebbero svoltato e ci avrebbero visti. Sospirai piano, affondando lo sguardo nelle liquide profondità degli occhi di lei, in attesa dell’inevitabile. «Ma non può essere sparito», sbottò quello più basso, dando un calcio a una lapide. Erano a circa un metro e mezzo da dove ci trovavamo. Li vedevo con la coda dell’occhio. Era impossibile che non ci avessero già scoperti. L’altro uomo imprecò a denti stretti. «Deve essere passato di qui per forza, era davanti a te, idiota.» «Ma non c’è!» «Perché sei un cretino, ecco perché. Te lo sei lasciato scappare.» «Io?! Tu eri subito dietro di me, non l’hai visto svoltare?» «No, perché sei troppo grasso, non riesco a vedere oltre la tua stupida panza!» La ragazza fremette in una risata silenziosa, lo sguardo acceso d’ilarità. Le restituii un sorriso incantato. I due si allontanarono, battibeccando come una vecchia coppia di comari. Tesi l’orecchio fino a che non sentii altro suono che quello del mio respiro. Allora la giovane allentò la stretta, e con mio sommo rammarico fece un passo indietro. «Adesso sei salvo», disse con semplicità, facendo spallucce. Lo so che è quello che dicono tutti gli uomini innamorati, ma aveva la voce più dolce che avessi mai sentito. Mi passai una mano sulla fronte, confuso. «Non capisco.» Come avevano fatto a non vederci? Lei sorrise, e i denti regolari balenarono nell’oscurità. «Ero in debito con te. Sei stato gentile con me, e non volevo che quei due ti facessero del male. Adesso il mio debito è stato ripagato.» Aggrottai la fronte per la perplessità. «Perdona se mi ripeto, ma continuo a non capire. Io non ti conosco.» «Lascia che ti mostri.» Mi strizzò un occhio, e venni investito da una peculiare sensazione di déjà-vu. Mormorò qualche sillaba, intrecciando con le dita un intricato arabesco. La sua pelle parve infiammarsi di ghiaccio, e la luce che l’avvolgeva palpitò.

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Scomparve. Dai miei piedi venne un suono sommesso, e abbassai lo sguardo. Sull’erba stava seduto, composto, un gatto nero. Stava facendo le fusa, e se non fosse stato un gatto avrei giurato che mi stesse sorridendo sardonico. Un fremito, e il gatto lasciò di nuovo il posto alla fanciulla. «T-t...», balbettai. «T-tu...» Pur non sembrando impressionata dalla mia eloquenza, mi sorrise paziente. «Se non li avessi fermati, quei ragazzi mi avrebbero uccisa, con le loro pietre. Tu mi hai salvata.» Fece un passo verso di me, e mi appoggiò le mani sul bavero della giacca. Sentivo il cuore battere con il fragore di una grancassa. Si alzò in punta di piedi, e sentì il suo respiro sul mio volto. Sapeva di pioggia e di sole. «Grazie», mormorò. Fu il bacio più dolce della mia vita, e finì troppo presto. Soffocai una protesta quando il tepore delle sue labbra fu rimpiazzato dal freddo della notte. Avevo appena assistito a qualcosa di portentoso, ma riuscivo a pensare solo al fatto che non volevo lasciarla mai più. Avanzai una proposta timida. «Vieni a casa con me.» Lei crollò il capo, lo sguardo pieno di rammarico. «Non posso.» «Perché no?» «Tanto tempo fa la mia stirpe è stata punita per aver ambito a un potere troppo grande. Mi è permesso manifestare la mia vera forma soltanto nella notte di Samhain, quando il velo fra i mondi si fa evanescente e l’aria è pervasa di magia a stento repressa. Domani riprenderò le sembianze di un gatto, fino al prossimo Samhain.» «È crudele», obiettai. «Ti ho appena incontrata.» Lei mi accarezzò piano una guancia, e intrecciai le mia dita calde con le sue. «Forse ci incontreremo ancora. Per il momento, addio.» Sentì la sua mano sfuggirmi. Chiusi gli occhi per non vederla andare. Ma quando un istante dopo li riaprii, era già scomparsa. «Aspetta», protestai, implorante. «Non conosco neanche il tuo nome.» Una risata lieve mosse l’aria del cimitero. «Amelia», bisbigliò la notte.

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Il mattino successivo mi svegliai con la sensazione di essere osservato. Mossi il capo e venni assalito dal più martellante mal di testa che mi fosse capitato di provare. Sembrava che un esercito di nani mi assalisse il cervello con dei picconi. Anche la schiena mi doleva, come se fossi stato sdraiato sul pavimento. Socchiusi le palpebre. La luce mi ferì gli occhi e gemetti dal dolore. «Buongiorno!», venne una voce squillante alla mia destra. Gemetti ancora, questa volta di protesta, e tentai di mettere a fuoco. La luce abbagliante si restrinse e mi accorsi che stavo fissando i neon del soffitto del mio ufficio. Ero riverso sotto la scrivania, e su di me torreggiava la forma rotondetta di Chiara, la mia segretaria. «Ieri sera hai esagerato, eh? Troppi cocktail ai mirtilli. Sei crollato che la festa era ancora in pieno svolgimento, addormentato come un bambino. Non sei proprio abituato.» Mi porse una tazza. «Ecco, ti ho preparato il caffè.» L’odore della bevanda calda mi aggredì e storsi il naso. Mi passai una mano sulla faccia, confuso. Halloween. La festa in ufficio, le risate, una bottiglia di tequila. Un paio di occhi verdi invase con prepotenza la mia memoria. Il cimitero. La ragazza. Era possibile che si fosse trattato solo di un sogno indotto dal troppo alcool? Eppure ricordavo tutto nei minimi dettagli. Lo spavento, la corsa nel buio, le sue braccia attorno alla mia vita. Le sue labbra sulle mie, e la sensazione che lei fosse mia come io ero suo. Per un istante, un istante soltanto, ci eravamo amati in un modo che andava oltre l’amore stesso. Era stata davvero soltanto una fantasia? La giornata trascorse sfocata. Lavoravo in modo meccanico, e non saprei dirvi come me la cavai senza mandare a rotoli l’intera contabilità aziendale. Accolsi con monumentale sollievo l’ora di chiusura, e inspirai l’aria fresca a grandi boccate. Quando raggiunsi il cancello, non riuscii a trattenermi dallo sbirciare oltre le sbarre, ma il vialetto era deserto. Con un sospiro di rammarico, mi voltai verso casa, solo per arrestarmi di botto. Sul marciapiedi, proprio davanti a me, sedeva un gatto nero. Mi morsi il labbro, trattenendo un sorriso. Il micio inclinò il muso verso

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di me, come in attesa. Annuii. «Andiamo», dissi. Invece di seguirmi, mi precedette verso casa, sfiorando elegante il cemento con le zampine. Raggiungemmo l’appartamento in un silenzio amichevole. Il gatto, che in realtà era una gatta, prese possesso del divano con grazia, acciambellandosi sul mio plaid preferito e ronfando di soddisfazione. In pochi istanti chiuse gli occhi verdi e si addormentò. Da quella sera è rimasta con me. Predilige il davanzale della cucina e ama i filetti di nasello che le preparo quando torno a casa dall’ufficio. Suppongo che per scoprire se quella notte ho sognato davvero dovrò attendere un anno ancora. Ma sono speranzoso. La gatta risponde al nome “Amelia”.

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Le farfalle non sono per Noi di Francesca Scotti

O

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gni mattina, nei minuti che precedono l’alba, percorriamo la strada che porta a casa. Una mulattiera sterrata con curve a precipizio. Giù, lungo le scarpate, ci sono gli oggetti che gli Altri hanno abbandonato. Divani, cassapanche. Persino un frigorifero. La nostra è la casa del Piccolo Tibet. Così la chiamano gli Altri, quelli che abitano a valle, sulla costa. Per me avevo scelto la stanza nel sottotetto. Preferivo dormire con il soffitto vicino agli occhi che al piano terra, dove i pavimenti pendevano verso il mare. Temevo che sarei rotolata fino alla spiaggia e poi dentro l’acqua. Trascinata via dalle onde senza possibilità di tornare a riva. Siamo in due a vivere nella casa del piccolo Tibet. Lei e io. Lei dice di essere la mia vera madre ma io non riesco a crederci. Mi pare che sia troppo giovane per avermi fatta. E poi è alta, con i capelli rossi. Io invece sono bassa, con la carnagione scura. Lei è bella, io no. Lei, mi ha spiegato, è della stirpe normanna che ha raggiunto la Sicilia nell’anno Mille, io no. Lei ha un seno abbondante, ricamato da vene azzurre. Io no. Io sono una bambina e lo sarò sempre. Dal giorno in ci siamo trasferite, davanti al cancello che segna l’ingresso alla nostra terra, gli Altri lasciano sempre qualcosa di cui dobbiamo occuparci. Qualcosa da salvare. Non era passata nemmeno una settimana da quando avevo aperto la mia valigia in soffitta che trovammo una distesa di lamiere ad accoglierci. Le due svolte che precedevano il cancello erano state coperte da piastre rugginose. Eravamo rimaste fuori tutta la notte perché, non conoscendo ancora i luoghi adatti a noi, avevamo vagato molto. E ora il mattino ci stava per raggiungere. Gli Altri avevano sparso quelle latte per non farci raggiungere la casa in tempo. O forse speravano che ci ferissimo. E invece le raccogliemmo tutte prima che fosse l’alba. Lei, che era brava in tutto quello che faceva, le usò per costruirmi un cavallo. Era alto come un cavallo vero e sembrava ricoperto da polvere di cannella. Gli mise una vecchia sella di velluto rosso e lo posizionò davanti a casa. Quando cavalcavo potevo guardare il buio del mare in fondo alla valle.

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Banshee

Illustrazione Š Chiara Santillozzi Site: www.etsy.com/shop/makissima


Si era appena concluso un intero mese quando trovammo il cancello bloccato da una montagna di copertoni d’auto. Cotti dal sole e legati insieme con del filo d’argento. Il cielo era scuro e limpido, l’aria fredda. Anche se le ore di buio in quella stagione erano molte e non ne avevamo trascurata nessuna, l’alba ci rincorreva. Per fortuna lei, che era più forte di me, riuscì a spostarli un poco, a creare uno spazio per passare e correre a casa. Quando fu di nuovo notte scendemmo a disfare quel cumulo e le ruote le spingemmo fino a casa. Era stato divertente e lei mi aveva lasciata ridere, senza sgridarmi perché avrei disturbato gli Altri. Era vero, nella notte i suoni si diffondevano, si amplificavano. Io la voce delle onde la sentivo anche se mi chiudevo le orecchie. Passavamo tra gli ulivi, le loro foglie alla luce della luna sembravano pesciolini argentati. Lei dispose le gomme sul retro della casa e riempì il loro vuoto di terra. Quella terra ricca di fuoco dell’Etna che faceva bene anche a noi. Quando l’aria cominciò a scaldarsi germogliarono le campanule notturne che si schiudevano all’imbrunire come i miei occhi. Era vero, lei e io non ci assomigliavamo per nulla. Ma era proprio una brava madre. Quei ritrovamenti all’alba si facevano sempre più frequenti e complessi da gestire perché gli Altri, non riuscendo a ottenere quanto volevano, diventavano ogni giornopiù furbi. Lei mi rassicurava ma io continuavo a essere agitata. «Mi è già capitato prima che tu nascessi. In altre città, in altre epoche. Vedrai, si stuferanno.» Ma io, mentre accarezzavo il manto rigido del mio cavallo, temevo per noi, per le campanule, per il mio letto vicino al soffitto. Per il nostro Piccolo Tibet. Alcune mattine dopo, quando passammo davanti a un pastore che era già in strada con il gregge, lui non si voltò dall’altra parte come facevano sempre gli Altri. Pascolava poche pecore tosate malamente. Nere anche quelle bianche tanto era lo sporco. Mi guardò, stirò le labbra schiudendole. Mi stava mostrando che non aveva denti. La sua bocca era buia, le gengive livide. Ero intimorita, anche se mi dissi che, forse, qualcosa stava cambiando. Io avevo paura di loro e loro di me. Ma ci stavamo sorridendo. E invece, quando arrivammo al cancello, trovammo legati alle aste di metallo tre agnelli con le orecchie mozzate. Avevano il sangue rappreso sul muso e sugli occhi, e le mosche già sigillavano le ferite con le loro uova. «Non avvicinarti» mi disse lei «non abbiamo tempo.» Ma era troppo tardi, gli ero già addosso. Gli agnelli sgropparono, le ferite si riaprirono e mi macchiarono di sangue fresco e tiepido.

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Non mi ero mai sporcata di sangue prima di questa volta. Ero fredda. «Dobbiamo fare in fretta» mi disse. Ma per farmi contenta ne prese in braccio uno prima di correre verso casa. Curò le sue ferite. Io potevo solo guardarlo perché se mi avvicinavo cercava di scappare. E appena ebbe le forze ci riuscì. Le piante germogliate nei copertoni sono diventate grandi, le zampe del mio cavallo di latta sono sprofondate nella terra. I frutti sono marciti sugli alberi perché non possiamo mangiarli. Gli Altri non hanno smesso di abbandonare cose davanti al nostro ingresso sperando che l’alba ci sorprenda. Non hanno smesso di tenerci distanti. Ma noi non ci siamo arrese e abbiamo continuato a ricostruire, curare e poi liberare. Oggi sembra che il sole non voglia sorgere. Siamo rientrate in anticipo rispetto al solito e lei è già nella sua stanza. Io mi attardo tra gli ulivi, ho trovato un gomitolo di lana azzurra in una vecchia cassettiera e mi diverto a tessere una trama fra i tronchi. Correndo con la mia matassa non mi accorgo di aver quasi raggiunto il cancello. Le serpi strisciano via muovendo le foglie, provo ad ascoltare il mare ma non lo sento. Forse la brezza che porta al largo i suoni. Oltre la grata del cancello mi accorgo di qualcosa di bianco che riflette i primi chiarori. Lascio cadere quella che ormai è solo una piccola sfera di filo azzurro. Non ho molto tempo. Scendo rapida, graffiandomi tra i rovi. Ma tanto non posso sanguinare. Il fagotto è immobile, pulito come nulla intorno a me. Pulito come se fosse fatto delle prime luci del giorno. Mi chino per capire di cosa si tratta, lo annuso. Ha un odore buono che mi fa tornare in mente quello del pane fresco nell’aria invernale. Non pensavo più al cibo da tanto. Aspiro ancora quell’odore. Gli occhi mi pungono come quando mi veniva da piangere. La luce dietro le colline è sempre più forte ma non resisto e scosto un lembo di stoffa. Sono certa che lì non troverò il solito rifiuto, il solito animale mutilato. Appena lo tocco emette un grido che non riconosco subito ma poi sì. Strilla, si agita dentro la stoffa. È un neonato ma sembra un bozzolo. Corro a perdifiato verso il Piccolo Tibet, i rami mi frustano il viso,

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le caviglie si stortano tra i sassi ma non provo dolore. La casa è già chiusa, le finestre inchiodate. Lei è sdraiata ma i suoi occhi sono ancora aperti. «Ti prego, possiamo prenderlo con noi?» le chiedo. Lei scuote la testa. «Credo che dovremo andarcene altrove per un po’» sospira. «Ci sono riusciti.» Io penso al Piccolo Tibet, al cavallo di latta e alle campanule che si schiudono nel buio. «Ma non senti come piange?» Lei mi stringe a sé, le nostre guance fredde si toccano. «Partiremo con il primo buio, ora dormi.» Io immagino il sole arrivare su quel fagotto bianco, accarezzarlo. Poi lo vedo salire fino a noi. Alla nostra casa serrata. Così mi addormento, mentre lei mi sussurra: «Dormi bambina, dormi. Le farfalle non sono per noi.» E io dormo. Sperando di sognarmi viva.

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Diversa di Filippo Tapparelli

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❝ Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenare tempesta ❞

«

Prego, si sieda» mi dice. È cordiale, anche se ha omesso di chiamarmi signora. «Preferisco stare in piedi, grazie». «La prego, si sieda». Ci ha messo il la, stavolta.

«Lei è molto gentile, dottore, ma da qui godo di una vista migliore. Guardi, i tigli hanno le foglie d’oro, e quasi riesco a vedere i rombi che disegnano il tronco. Lo sa che i pioppi hanno la corteccia così liscia che sembra pelle?» Il bosco fuori dalla finestra è immerso nella caligine di fine ottobre, che bussa sulle foglie facendole cadere a stormi. Il cielo si fonde con l’orizzonte e, se non fosse per gli alberi, sembrerebbe quasi di galleggiare nel grigio. Questa costruzione giace inzuppata in un eterno autunno. «Come vuole. Quando sarà stanca potrà sedersi» mi dice. La stanza sa di abiti umidi e lavoro, che nella mia testa si scompone nel profumo del lapis e in quello polveroso della carta. Lui vive fasciato in quell’abito candido, inamidato. I suoi capelli sono inamidati, così come lo sono i suoi occhi, le sue mani, e persino la scrivania di legno scuro, con quel rettangolo di cuoio verde appoggiato sopra, inamidato pure quello. Quest’uomo è un drappo di vita irrigidito da ciò che era giusto fare. Una vita progettata, costruita e collaudata per essere così com’è. Persino i vetri delle finestre sono ricoperti d’amido, riquadrati dalle sbarre che dividono in insiemi rettangolari il trascorrere del giorno. Un graticcio di meridiane che sostiene le ore, una dopo l’altra. I minuti si arrampicano sulle pareti intonacate, scivolando a ogni appiglio come ragni in un bicchiere. Almeno così lo vedo passare, il tempo. È diventato perfetto, qui dentro. Senza significato, senza valore. Solo tempo e basta. Asettico, inutile. Il tempo è la prima cosa che perdi in manicomio, subito dopo la dignità. Inizi con lo scordarti dei minuti, poi le ore e infine i giorni e le settimane. Gli anni no: se perdi gli anni perdi te stesso.

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«... si sente quest’oggi?» «Mi scusi, non l’ascoltavo». La nebbia intanto sfrigola sui vetri, curiosa. «Dicevo, le andrebbe di dirmi come sta oggi?» Sorride mentre me lo chiede e l’amido si scioglie e scompare da quelle labbra. Allora non siamo così impeccabili, dottore. «Bene. Ho riposato stanotte e la colazione l’ho gradita molto. Forse oggi pioverà». «Perché dice che oggi pioverà?» mi chiede la sua bocca, ma i suoi occhi conoscono già la risposta. Lo osservo, quest’uomo che ha il colore del legno di pino. Lo stesso della credenza di casa mia. Il suo volto è solcato dalle venature come un’asse lasciata grezza. Sono spessi i segni che indossa. Le sue rughe hanno una grana morbida, buona per costruirci mobili che invecchiano con te, non quelli fatti per durare. In questi ci puoi intagliare il tuo nome con l’unghia del pollice e poi affondarci il naso e riempirti la testa con il profumo della trementina, che tanto mi ricorda quando ero piccola e non avevo tutte queste sopracciglia e tutte queste parole in testa che premevano per venire fuori. «Perché lo so. Sono una strega, dottore». Ecco, questa è la risposta che desideri. Così è più facile, per te. «Perché ritiene di essere una strega?» È bravo a nascondere le emozioni. Sa fare il suo lavoro, questo falegname di pensieri. «Perché credo in un Dio crudele. E lui mi ha fatta così». Non c’è risposta più vera. «Cos’è per lei Dio?» mi chiede. I pensieri mi si attaccano in testa e sono così ben incollati che mi tocca scriverli per farli uscire ma qua dentro non posso farlo, perché le pareti non hanno luce e per colpa delle medicine che mi date. Sì, lo so che mi fanno bene e che solo una sciocca non le prenderebbe, ma ogni tanto serve essere sciocchi. Ma sto divagando, lo so. Le medicine che mi dà mi tolgono i sentimenti. E la vista. Solo un po’, non si preoccupi, ma mi si annebbiano le parole, quelle che uso per raccontare il mondo a se stesso. Io voglio rimanere lucida e attenta, dottore. «Vuole sapere cos’è Dio? Il mio Dio? È lo spazio tra una lettera e l’altra». Le parole sono degli uomini, le pause invece sono di Dio e delle donne, perché loro sono il respiro della creazione. Il respiro che un bambino prende prima del vagito e quello che diventa gemito nella mia gola quando faccio l’amore. E l’ultimo, quel grazie senza parole che il mio cuore dice prima di addormentarsi.

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«Crede che Dio voglia punirla per qualcosa che ha fatto?» «Dio non punisce. Dovrebbe saperlo, lei che è un uomo di scienza. Siamo noi a farlo, quando interpretiamo le sue parole. O quando le usiamo male». A volte senza neanche saperlo percorriamo il solco che scavano i nostri stessi passi. Ci trasciniamo nella terra morbida d’autunno, con le zolle che si attaccano alle suole delle scarpe e ci rendono più alti, ma appesantiscono il cammino. Ci ritroveremo come statue d’argilla in una foresta d’uomini, stremati su basamenti fatti di ricordi che si scioglieranno alla prima pioggia. «Lei, quindi, parla con Dio?» Questa merita la più banale delle risposte. «No». Perché la fede non ha voce. Tutto il mio essere parla con Dio. Persino quando urlo e bestemmio. O quando piango. Quando tremo di rabbia o sorrido. Perché lui vuole me quanto io voglio lui. E continuo a cercarlo anche se resiste al mio desiderio e mi ferisce con la sua indifferenza. Anche se un giorno ha pensato che io potessi sopravvivere qui dentro, ma contro la pazzia nemmeno Dio può nulla. Tutto questo lo tengo per me, però. «Si sente a suo agio quando parliamo di Dio?», insiste. Conosco queste domande ripetute centomila volte in centomila forme diverse fin da quando ero bambina. Quando ero intelligente, la mia anima non era ancora congelata e il mio corpo mi ubbidiva. Quando avevo ancora tutte le parole, la speranza e i sogni. «Certo che mi sento a mio agio». Lo tranquillizzo e provo a sorridere. Glielo devo, a lui e alla sua psicanalisi dolce e ingenua, che crede nei segreti infantili. «Vogliamo scrivere oggi?» Da quando abbiamo iniziato questo interrogatorio, lui con le sue domande e io con i miei pensieri, il dottor G. non ha mai staccato per un solo istante gli occhi dai miei. Il sottile raschio della penna che cola i suoi appunti sulla carta è l’unico suono, oltre al suo respiro, che dà senso alle domande. Nell’angolo, la macchina da scrivere. Una portatile piccola e colorata. Mi è simpatica, le manca il tasto del numero 1, per farlo uso la elle minuscola o la i maiuscola, a seconda di come mi sento. Me l’ha fatta adoperare altre volte, dice che scrivere mi fa bene. «No, dottore, oggi non scrivo. Neppure sui muri. Neppure nella mia testa, scrivo». Lui, allora e per la prima volta, abbassa lo sguardo e fissa il quaderno. E la penna tace. Per rispetto o per curiosità non lo so dire. Forse una somma delle due cose, che però mi sottrae pace.

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«La prego, non smetta di prendere appunti» gli dico. «Dovrebbe continuare a farlo anche lei, sa?» e fa una cosa del tutto inattesa: mi sfiora la mano con la sua. Tocca piano questo rifiuto di donna, ma lo fa senza la pietà dei sani. «Mi piace molto quello che scrive. Dovrebbe continuare a farlo, invece, le fa bene». Le sue parole sono autentiche, o meglio mi spingono all’autenticità. Tra tutte le cose che mi ha chiesto, solo questa conta. Questa e la sua carezza. E allora mi siedo e comincio a raccontare una storia che gli ho già raccontato tante volte. Ma oggi è diversa, ogni volta che la ripeto è diversa. «Iniziai a scrivere da piccola. A quindici anni volevo fare il liceo, ma mi dissero che non avevo superato l’esame di italiano. Allora scrissi un libro. Era appena finita la guerra e non avevo un soldo. Nemmeno una casa, se è per quello, ma stavo bene finché scrivevo, perché mi aiutava a non scomparire, dottore. Come l’amore. Anche l’amore mi aiuta a stare qui, senza svanire. L’amore è importante, perché mi ricorda che sono viva. Qui ti dimentichi di chi eri. Di te resta solo la malattia, tra queste mura». Essere vivi vuol dire sorrisi, lacrime, gioia, sofferenza. Qui invece è tutto un silenzio fatto di grida, dove ognuno urla se stesso senza essere ascoltato da nessuno. Una fascina di anime spezzate sotto il titolo di malato di mente, che viene calato con metodica violenza ogni volta che qualcuno di fuori ci parla. Una scatola ovattata con pareti fatte di orecchie sorde, di occhi ciechi. Dove il sudore e i disinfettanti ubriacano il naso. Diventiamo ciechi ai suoni, sordi agli odori. Senza tatto e senza lingua. Né per parlare né per gustare. È amara come un insulto, questa malattia. Non proviamo nulla, noi malati, perché l’orrore altrimenti diventa così grande che nemmeno le medicine ce la fanno. «Poi mi sono sposata. Avevo diciotto anni e volevo andare via da tutto quello che la guerra mi aveva lasciato addosso. Mio marito faceva l’operaio e adesso abbiamo aperto una panetteria. È un brav’uomo anche se di me non ha mai capito nulla. Anche se, per questo, non ha trovato niente di meglio da fare che chiamare un’ambulanza e farmi portare qui». E poi non riesco più a parlare. La storia mi si strozza in gola. Le parole mi si annodano alle corde vocali, come un accordo malfatto suonato da un musicista incapace. Troppe note, troppe cose tutte insieme. La mia mano ora è fredda, deve averla lasciata mentre parlavo. Non so da quanto tempo l’abbia fatto, forse è stato quando ricordavo le risaie di Vercelli che ci fecero da rifugio sotto le bombe degli inglesi o quando aiutai mia madre a partorire o forse quando misi al mondo la mia prima bambina che diventò un’estranea nel momento in cui uscì dal mio ventre e non fu più parte di me. Intanto fuori la luce è svanita e si è portata via l’oro dei tigli e i rombi del

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tronco, e la pelle dei pioppi è diventata pallida e fredda. Di giorno questo giardino sembra un Eden dove la natura mi imbroglia con un incanto di colore e brusio. Dove per dieci volte ho visto il risveglio delle stagioni e l’erba ha lo stesso colore di quella, libera, che cresce lungo le sponde dei Navigli. Dove il cielo fa da ponte con l’illusione di una vita normale. Ma il sole puntualmente se ne va e arrivano le ombre. I matti non guardano le ombre perché in esse scorgono il male del tempo, il buio del giorno che rimpicciolisce e svanisce nell’eco di un ricordo. Quando arriva il buio appare il silenzio che è difficile da sopportare e poi la luna, diversa da quella che ho conosciuto nel mondo. Una luna pesante, scolorita e lontana, gravida di un’altra notte senza felicità, di quelle dove non sbocciano i sogni. «Prima mi ha detto di essere una strega. Perché crede di esserlo?» chiede. E sento la sua voce tremare per un istante, mentre allunga di nuovo la mano fino a sfiorare la mia. «Perché la strega possiede quello che il mondo vuole: essere svelato, e io ho la poesia per vederlo e capirlo, e la voce per cantarlo. Il mondo è malato e ha paura. Soffre e, anche se c’è un senso nella malattia, continua a generare se stesso. Perché anche la malattia è madre. Perché il mondo senza poesia non ha senso. E io ho senso solo nella poesia, anche se qui sono legata al palo, vestita di fiamme e di dolore e la mia poesia non uscirà fino a quando tutto il mio corpo non sarà ridotto in cenere». A questo punto lui mi ferma. Lo fa con le dita che si stringono un pochino di più attorno alle mie. «Grazie. Per oggi abbiamo concluso. Ci rivedremo fra una settimana» ed esita «o anche prima, se vorrà». A quel punto si alza e, sempre tenendomi la mano, mi guida verso la porta. Non chiama l’infermiere, ma mi accompagna lungo i corridoi. Passiamo in silenzio accanto alle vetrate che sfilano mostrandomi il parco velato di bruma, l’erba d’argento sposata alla nebbia ma vedova del sole. Poi entriamo nel padiglione dormitorio. Ogni porta qui si apre su una differente sfumatura di umanità. Da quella che urla a quella che ride o che tace, in un lamento senza parole. Molte porte sono aperte, altre chiuse, come i loro inquilini. Camminiamo per un tempo senza inizio né fine, io con i passi sempre più lenti e lui che si adatta ai miei. Interi filari di pioppi crescono e diventano giganti mentre raggiungiamo la stanza dove dormo: l’ultima, in fondo a sinistra. Giunti al cospetto di quel rettangolo di legno bianco che mi divide ancora di più dal fuori, ci fermiamo e solo allora le sue dita si sfilano dall’abbraccio delle mie, enormi. Mi abbandonano con delicatezza, senza la fretta professionale o l’esitazione dell’imbarazzo. Vuole che sia io ad aprire la porta della stanza. Lo faccio e mi volto a guardarlo. Io entro e lui se ne va.

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Resto a fissare lo spicchio di luce grigia che si fa più piccolo, come un parto al contrario, fino a quando la porta si chiude, separandomi dai pioppi e dalle finestre che mi hanno accompagnata qui. E il tempo senza fine, in un istante, torna a essere reale. Se ora non fosse autunno dalla mia stanza riuscirei a vedere la recinzione che racchiude il Paolo Pini, ma la stagione è clemente e cala le sue cataratte su quelle sbarre di ferro. Non ci sono più lacrime in questa stanza che è la mia mente. «Sì, vorrei incontrarti prima» dico al legno della porta, mentre lo accarezzo. «Mi piacerebbe pensare a te come a un amico, a un collega. Invece la vita non ha voluto così e io sono dipendente da te in un modo sbagliato, come sbagliata è pure la tua tenerezza, che risucchio perché mi tiene in vita. Tu, che non puoi amarmi, ma che non respingi il mio amore. Tu, che mi curi con le parole e quelle mi stanno salvando. Tu, che amo come un dio, un amante o un padre». Mi volto e osservo la stanza. Un rettangolo tagliato dalle righe scure delle ombre. Sul fondo, la finestra con le sbarre per non farci saltare giù e non far salire la gioia. Sei letti tutti uguali, ai piedi sei sedie di ferro tutte uguali. Disposti a caso, cinque fagotti che un tempo erano donne, ragazze sorridenti, mogli, madri. Io sono il sesto. Marionette traballanti a cui hanno spezzato troppi fili. Nel letto in fondo M. parla veloce da sola. Parlare o tacere è quello che facciamo per la massima parte del tempo. Sempre da sole. Mi avvicino piano e guardo quelle braccia tagliate dai tentativi di far volare via da qui il suo corpo. Ripete una nenia priva di senso, forse è la ninnananna che canta a se stessa per non avere troppa paura. Mi siedo sul letto accanto a lei e, senza toccarla, con dolcezza ripeto le sue stesse parole, mi sovrappongo a quel suono. Un canto a due voci che si allarga nella stanza e tocca letti, sedie, corpi e anime. M. si ferma e mi guarda. Forse mi vede, forse no ma fa al mondo, se non a me, un mezzo sorriso sghimbescio. Qualche viso si gira verso di noi e per un momento la follia esce dalla porta. In compenso dal corridoio giunge il rumore del carrello delle terapie, quell’inganno che arriva per farci credere in un aiuto che non esiste. È l’ora delle medicine. Le solite ruote e i ripiani lucidi, ma due piedi più piccoli del solito. Non alzo lo sguardo e i miei occhi si fermano all’altezza dell’orlo della divisa. «Tu, siediti sulla tua sedia o sul tuo letto quando passo con i farmaci. Non provare a farla franca perché ti controllo». Parole dure che escono da un corpo minuto e bello. L’infermiera è nuova ma ha imparato subito le regole, non ci guarda in faccia. I pazzi hanno un nome, un cuore e un senso dell’esistenza ma sono specchi e non vanno guardati troppo da vicino da chi è sano e normale. Dalla gente comune e sobria. Due ciocche bionde escono dalla cuffietta, chissà come dev’essere, quando ha i capelli sciolti e passeggia allegra con il suo innamorato in Galleria, la

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domenica pomeriggio. Comunque, meglio lei della caposala. Quella che, se “disturbiamo”, decide a chi assegnare gli elettroshock del giorno dopo. Sei vaschette di plastica, ognuna con le sue palline colorate dentro. Non mi vuol bene, il mio dottore. Mi ha prescritto ancora le pillole del sonno e della dimenticanza. Quelle quattro pillole fatte di piuma pesano come montagne sui miei occhi. Li schiacciano fino a farne uscire tutto ciò che il mio cuore non riesce più a sentire e a scrivere. Quattro pillole che parlano di salvezza, di un dopo che non viene mai. «Queste sono tue» dice questa nuova sergente dei matti, ma stavolta il tono tradisce gentilezza e compassione. «Le prendo, grazie». E così faccio. Mi metto seduta sul letto. Le lenzuola sono un sudario lercio e puzzolente, ma nessuno di noi ci fa più caso. Sono gli odori del corpo e quelli della paura che si sovrappongono, giorno dopo giorno. Non ho memoria del profumo di spigo delle lenzuola di casa. Guardo le pillole, le prendo una alla volta tra le dita, le infilo in bocca e le assaporo prima di inghiottirle. Sono dolci come i baci d’estate, come il sole e le fragole. Mentre inghiotto chiudo gli occhi come si fa quando si riceve l’eucaristia. Questo è il mio corpo, Dio. Perché fai questo a me? Bevo la mia stessa domanda e rendo grazie all’autunno che spinge contro le finestre, mentre annego in un sonno senza riposo né pace. Eppure sarebbe bastato poco a farmi dormire. Un sorriso, forse. Un atto di misericordia, di carità. Invece ciò che sono resta intrappolato qui dentro, in un sonno senza speranza. Il mattino giunge lento, come il risveglio della coscienza. Avrei voluto sognare l’amore, dottore mio, ma capisco che tu debba avvelenarmi con questi farmaci che io non voglio. Che la mia anima è malata e che questa cura che mi dai allontana, maschera, trasfigura la paura che guida la mia vita da quando ho tratto il mio primo respiro. Dottore, è con la paura che siamo umani. È con la paura che scrivo, è con questo abbraccio freddo e umido che la poesia esce fuori perché, per quanto possa essere spaventoso, è l’unico abbraccio che ho mai ricevuto. È la paura che mi ha salvato tante volte. Come posso odiarla? Non posso scacciare l’unico sentimento che mi permette di amare. L’orrore è nella banalità, non nell’eccezione. La malvagità indossa gli abiti dimessi del buon senso, non la corona del salvatore. La paura più grande è l’amore, non l’odio. Noi non siamo volontà, ma l’illusione di un desiderio inespresso. Ho dimenticato come essere donna e madre, ho dimenticato come toccare il corpo di un uomo e cullare un bambino, non so più pettinarmi né vestirmi per piacere a qualcuno ma so come amare e come raccontarlo. Questo lo so. L’alba è cieca, stamattina. Il mondo respira male, con tutta questa nebbia. Mi metto a sedere sul letto e sfilo da sotto il materasso una penna. Sì, l’ho rubata a te, dottore gentile. Come rubo le sigarette che fumo tanto per ricordarmi che la mia bocca serve a qualcos’altro che ingoiare una zuppa acida o

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pillole colorate. Adesso devo scrivere sulla carta, anziché nella mia mente. Con parole d’inchiostro, non di pensiero. Oggi è il primo di novembre, e un giorno, forse, sarà l’ultimo. Ma adesso sono ancora viva, e il mondo ha bisogno della mia carezza. Allora scrivo. Non voglio dimenticarti, amore, né accendere altre poesie: ecco, lucciola arguta, dal risguardo dolce, la poesia ti domanda e bastava una inutile carezza a capovolgere il mondo. La strega segreta che ci ha guardato ha carpito la nudità del terrore, quella che prende tutti gli amanti raccolti dentro un’ascia di ricordi.* Appoggio la penna sulle gambe, poi la ripongo di nuovo tra la rete e il materasso, accanto alla sbarra superiore. Lì non la trovano di sicuro. Mi servirà ancora, e io servirò il mondo. Mi alzo con il piccolo foglio pieno di parole. Respiro la luce che abbraccia la finestra e apro le ante. Mentre guardo la nebbia e cerco di indovinare i contorni delle case e della Milano che amo, le mie mani strappano la carta fino a farne piccole farfalle. Le racchiudo nei palmi giunti, come una preghiera muta. Poi li apro a conca, li avvicino alla bocca e soffio. Una nuvola candida, che per un attimo si confonde con la mia inquietudine e il mio spirito. Quella parte di me che non si può imprigionare né uccidere e che nessun rogo ridurrà in polvere e fumo. E la nuvola fa quello che io non posso: oltrepassa le sbarre ed esce felice nel mondo. Così si compie ancora una volta quell’incantesimo che ha sempre dato un senso alla mia vita. Fuori o dentro di qui.

Note * Poesia di Alda Merini

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