Speechless Magazine N° 1

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© Luis Royo


02 disclaimer

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© Luis Royo


REDAZIONE DIRETTORE Alessandra Zengo CREATIVE DESIGNER Petra Zari COVER ARTIST Luis Royo REDAZIONE Marina Albamonte Giovanni Arduino Stefania Auci Valentina Bettio Sergio Bevilacqua Alexia Bianchini Elena Bigoni Elisabetta Bricca Andrea Cattaneo Valentina Coluccelli Claudio Cordella Pia Ferrara Carlo Lanna Barbara Maio Miriam Mastrovito Leni Remedios Gabriella Parisi Selene Pascarella Alessandra Penna Marco Piva-Dittrich Sara Rattaro Elisabetta Ossimoro Francesca Rossi Manuela Salvi Massimo SoumarĂŠ Roberta de Tomi Federica Urso SI RINGRAZIANO Scott Eagan Alessia Gazzola Elizabeth Hand Eleonora Mazzoni Chiara Palazzolo Luis Royo Dario Tonani CORREZIONE BOZZE Cristiana Melis Maila Daniela Tritto

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Portale dedicato al Fantastico

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Blog Letterario Collettivo

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sommario

LE DIFETTOSE>52

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08< EDITORIALE

ELEONORA MAZZONI

Alessandra Zengo

10 < COVER ARTIST Introduzione all’arte di Luis Royo INTERVISTA Luis Royo

INTERVISTA

JO MARCH>40

24 < EDITORIA RUBRICA Pixel Rubati INTERVISTA Scott Eagan Tradurre, Non Tradire RUBRICA Lettori e "Lettori" RUBRICA West Egg, Vaghezie dell'Editor INTERVISTA Jo March Agenzia Letteraria RUBRICA Il Sottoscala INTERVISTA Fabio di Pietro

FABIO DI PIETRO>48

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>24 SHOOTING IN A BARREL>84 THOMAS PYNCHON>96

LO YEMEN NEL CUORE>150


LUIS ROYO>10

NUMEROUNO

52 < LETTERATURA La ricerca della maternità: Le difettose di Eleonora Mazzoni SPECIALE Un metodo pericoloso: Sabina Spielrein e il femminile rimosso della civiltà Romanzi e Modernità a confronto RACCONTO I Fratellastri di Elizabeth Gaskell SPECIALE Shooting in a Barrel: amore, morte e dinamiche generazionali nella Horror Fiction per teen ager Il ritorno di Alice Allevi L’affascinante mistero di Thomas Pynchon Dieci Lune, Anime buie in un'antologia a tinte noir RACCONTO Ragazza che passa di Chiara Palazzolo Il Labirinto di Durrenmatt La penultima verità su Philip K. Dick RACCONTO Cardio Ok di Dario Tonani RUBRICA I Luoghi dell'Immaginario L’esordio sci-fi di George R.R. Martin La Chimera di Praga: sogni, magia, dolore e speranza Il successo letterario di Suzanne Collins RACCONTO Zio Lou di Elizabeth Hand

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UN METODO PERICOLOSO>58

TSUTOMU NIHEI>154

>126 IL FANTASY ORIENTALE>144

ALESSIA GA


AZZOLA>92

sommario 144 < NUOVI ORIZZONTI Il Fantasy Orientale: una frontiera ancora ignota Lo Yemen nel cuore L’immagine e la parola in Tsutomu Nihei

162 < CINEMA E TV

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American Horror Story: L’orrore della porta accanto Quella casa nel bosco: Alle radici dell’Horror


editoriale di ALESSANDRA ZENGO

Puoi arrivare da qualsiasi parte,

nello spazio e nel tempo,

dovunque tu desideri.

Il gabbiano Jonathan Livingston Sono passati alcuni mesi dal nostro esordio. E l’emozione non è ancora scemata. Siamo impazienti, entusiasti, felici per il riscontro più che positivo avuto dai lettori della nostra rivista, dagli autori e dagli addetti ai lavori. Inaspettato è stato l’ampio e sincero interesse verso il nostro progetto, che speriamo possa crescere e ampliarsi nei mesi a venire. Elaboriamo idee, provochiamo, anticipiamo — per citare Richard Brautigan — e continueremo a farlo con la passione che ci contraddistingue. Siamo un gruppo affiatato che non si accontenta, che tende sempre a migliorarsi e rinnovarsi. E che sono contenta di coordinare, perché la Redazione di Speechless, ci tengo a sottolinearlo, oltre che professionale e preparata, è composta da persone simpatiche e meravigliose che hanno contribuito al piccolo successo del magazine. Siamo un gruppo in divenire, se così possiamo dire. E ci piace. E Speechless è lo sfaccettato mosaico che viene a formarsi dall’unione di tessere piccole ma indispensabili che insieme riescono a creare qualcosa di unico, eterogeneo e particolare. Un po’ geek, un po’ nerd, un po’ freak, ma caratterizzato da un linguaggio semplice e diretto condito dall’eleganza della grafica di Petra. King è un evergreen. Va bene sempre e in qualunque situazione. Anche durante la torrida stagione estiva tra le pagine macchiate (metaforicamente) d’inchiostro di una rivista culturale. E quindi lo ricitiamo anche stavolta tanto per non perdere le buone abitudini. «Scrivere non significa far soldi, diventare famoso, scoparsi un sacco di donne o farsi amici. Scrivere è arricchire la vita di chi ti legge, e di conseguenza la tua. Alzarti, star bene, chiudere in bellezza. Essere felice, okay? Essere felice.» Non facciamo soldi — anzi, ci mancano! — e non scopiamo migliaia di donne, anche se immagino che gli ometti non avrebbero di che lamentarsi alla prospettiva. Viceversa, rinunciamo, ma non a malincuore, a un piccolo frammento della nostra vita quotidiana per condividere con gli altri i nostri interessi e le nostre passioni: la letteratura e la cinematografia. E siamo felici di farlo. E ne usciamo arricchiti, inevitabile. Non è questa la cosa più bella della scrittura, che sia essa narrativa, saggistica o di divulgazione?

So, now, dear readers enjoy being Speechless! Potete scrivermi a: alessandrazengo@yahoo.it

[Richard Bach]


COVER ARTIST

LUIS

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ROYO >>


cover artist di CLAUDIO CORDELLA Introduzione all’arte di Luis Royo Donne bellissime, generalmente nude o seminude, stupefacenti creature fantastiche, come angeli, demoni o cyborg. Questi sono alcuni dei temi più diffusi che ritroviamo all’interno delle tavole di LUIS ROYO, uno dei più importanti illustratori contemporanei. Le figure femminili sono quasi sempre al centro nelle sue composizioni, sensuali e magnifiche assumono in genere le fattezze di letali guerriere che impugnano delle spade gigantesche. Queste combattenti, sexy e al tempo stesso temibili, forti e sicure di sé, sono ormai diventate un suo personale marchio di fabbrica. Non a caso di recente, venendo ad aggiungersi allo già sterminato merchandising legato al nome di Royo, è stata creata una linea di dettagliatissime action-figures dedicata a queste eroine. L’influsso di Royo sull’arte popolare contemporanea, come il fumetto e l’illustrazione, è del resto indubitabile. Nato nel 1954 ad Olalla, nella provincia spagnola di Teruel, il nostro ha alle spalle una carriera pluridecennale ricca di successi e soddisfazioni. Da giovane studia delineazione tecnica, pittura, decorazione e design d’interni nella Escuela Industrial y la Escuela de Artes Aplicadas (Scuola di Maestria Industriale e la Scuola di Arti Applicate) a Saragozza mentre

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ROYO

11 al tempo stesso, tra il ‘70 e il ‘71, lavora presso alcuni studi di disegno di interni e decorazione. Negli stessi anni, influenzato dalla contro-cultura e dalle contestazioni tipiche di quel periodo, realizza delle opere di grande formato: tutte a carattere sociale. Verranno presentate prima in esposizioni collettive tra il ‘72 e il ‘76, poi individuali a partire dal ‘77. L’anno successivo, influenzato dai fumettisti francesi Enki Bilal (autore della celebre Trilogia Nikopol) e Moebius (1938 – 2012), inizia la sua carriera nel mondo del fumetto collaborando a diverse fanzine. Effettivamente l’uso del colore da parte di Royo, nonché una certa tetraggine mista a uno spiccato senso per il grottesco, lo apparentano in un certo qual modo al franco-serbo Bilal, creatore di fumetti fantastici dal sapore distopico di notevole spessore. Invece da Moebius, pseudonimo di Jean Giraud, geniale artista della “letteratura disegnata” recentemente scomparso, creatore di numerosi capolavori come Arzach o de L’Incal, nato da una collaborazione con Alejandro Jodorowsky, Royo sembra averne assorbito il gusto per il surreale e l’onirico. Già nel 1980, nel corso del Salone del Fumetto di Angoulème, ha modo di poter esporre le sue opere. Proprio all’inizio del nuovo decennio, dopo la nascita del figlio Romulo, si dedica completamente alla pubblicazione su diverse riviste professionali abbandonando qualsiasi altra attività. Soprattutto Comix International e Rambla, ma sporadicamente an-


LUIS ROYO che su El Vibora e Heavy Metal, ospitano i frutti della sua arte. Su richiesta di Rafael Martinez della Norma Editorial, incontrato da Royo nel corso dell’edizione del 1983 del Salone del Fumetto di Saragozza, realizza cinque illustrazioni per questa casa editrice spagnola. In tal modo ha inizio la sua sfolgorante carriera di illustratore che lo porterà a realizzare copertine per libri, videocassette (il mercato del VHS all’epoca in pieno boom) e per i neonati videogames. Riesce a farsi conoscere anche negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Svezia dove ha modo di lasciare il suo segno. Realizza, inoltre, degli importanti lavori su commissione per le statunitensi Warner Books, Tor Books, Berkley Books, Avon, Batman Book e National Lampoon e per le europee Cimoc, Fumetto Art, Ere Comprimée. Nel 1986, a cura della casa editrice ispanica Ikusager Ediciones, esce Desfase (Sfasamento), singolare fumetto sperimentale da lui realizzato in collaborazione con Antonio Altarriba. Gli anni ‘90 vedono la fama di Royo crescere ancora di più e consolidarsi a livello internazionale. L’art-book Women, una raccolta antologica che riunisce 8 anni di illustrazioni scaturite dalla sfrenata fantasia di questo talentuoso autore, viene dapprima pubblicata in Spagna nel 1992; per poi essere subito dopo riproposta in Francia dalla Soleil Productions e in Germania dalla Edition Comic Forum.

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cover artist L’anno seguente, a cura della Comic Images, esce From Fantasy To Reality, una serie di trading cards (carte collezionabili) da lui disegnate. Nel 1994 è la volta di Malefic, un secondo libro di illustrazioni che appare sul suolo francese sempre per Soleil. Intanto Women, di cui esce una ristampa, attira su di sé l’attenzione di Penthouse Magazine, una pubblicazione per “soli uomini”. Tale rivista nel 1996 giunge persino – per l’edizione francese e tedesca – a sostituire la tradizionale foto di copertina con una tavola di Royo. Per di più una ex-modella di Penthouse, la bruna Julie Strain, diventa la fonte d’ispirazione primaria per la creazione del famoso character F.A.K.K., di cui riprende le fattezze. Il fumettista Kevin Eastman, marito della Strain e direttore di Heavy Metal, chiede a Royo di realizzare una cover per il ventennale della sua rivista, assieme a una serie di illustrazioni dedicate a F.A.K.K.: una guerriera seducente e pesantamente armata. Sempre nel ‘96 riceve il Silver Award SPECTRUM III, prestigioso premio assegnato agli artisti fantasy mentre diversi giornali, tra cui La Stampa, gli dedicano diversi articoli. Il successo di Royo è inarrestabile e numerose case editrici di prestigio, come la Ballantine, la Doubleay, la Harper Paperback e tante altre, vanno a bussare alla

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sua porta. Per la Pocket Books e per la Marvel offre la sua interpretazione di notissimi franchising come Star Trek e X-Men.

Numerose le raccolte antologiche di carattere fantastico di Royo uscite negli ultimi anni, come Tatoos, i tre volumi di Conceptions, Visions o Fantastic Art. Rendere conto di una simile mole di lavoro è un’autentica impresa. Personalmente considero degni di menzione Dome, Dead Moon e Dead Moon Epilogue. Il primo, Dome, è un artbook dalla genesi singolare: in esso è stata riversata una performance artistica, consistente nella realizzazione dell’affresco della cupola di un castello di Mosca, eseguita a quattro mani con il figlio Romulo. I due volumi della serie Dead Moon sono invece due romanzi illustrati, una saga fantasy orientaleggiante ricca di passione, al tempo stesso sensuale e sanguinosa. Nel nostro paese sono stati pubblicati dalla Rizzoli Lizard. Sempre grazie a quest’ultima, il pubblico italiano ha potuto godere dei frutti della più recente fatica dell’artista spagnolo: il primo volume di Malefic Time. Apocalypse. Un altro romanzo illustrato, creato assieme al figlio Romulo, che ci conduce per mano in un universo post-apocalittico. Per l’esattezza in una New York ridotta in macerie dove la giovane Luz, figlia della Luna e di Lucifero, dovrà fare la differenza nella lotta tra il Bene e il Male. Come si può ben vedere la carriera di Royo, assurto al rango di patriarca di una dinastia di artisti, continua ininterrotta a tutt’oggi trattando con abilità temi legati alla fantasia, alla sessualità e al bisogno di libertà dello spirito umano.

www.luisroyo.com segue

’INTERVISTA 

Verso la fine del secolo scorso fanno anche la loro apparizione l’art-book III Millennium e la serie di tarocchi The black tarot; tra le pubblicazioni del periodo segnaliamo pure Prohibited Book, sorta di summa delle illustrazioni erotiche di quest’artista.


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LUIS ROYO L’INTERVISTA

Speechless: Il pubblico di Speechless è molto curioso: dunque, chi è Luis Royo e come riassumerebbe il suo percorso artistico?

Luis Royo: Forse la forma migliore per definirmi sarebbe: qualcuno che fin da piccolo amava vivere in mondi immaginari più che nel mondo quotidiano che vedevano i suoi occhi. Questo è ciò che mi ha portato al disegno, a tentare, fin da piccolo, di plasmare quei mondi personali e a trasformare quell’ossessione in una forma di vita. Ancora oggi, molte vol-

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te penso al fatto che passo più tempo in quei mondi a due dimensioni che in quello che vedo davanti a me. S: Le sue opere, note e apprezzate in tutto il mondo, rappresentano soprattutto donne molto femminili ma, al contempo, forti e indipendenti. Perché la scelta di questi soggetti e come nascono questi progetti creativi? LR: Sì, quasi tutti i miei personaggi principali sono donne. Trovo più sfumature, possibilità e varianti nell’universo femminile. Mi attrae unire, in una stessa scena, gli opposti. La delicatezza e l’aggressività. La bellezza e l’aridità. La dolcezza e la perversione. L’universo femminile è molto più completo e offre più risor-

"Dead Moon'


www.luisroyo.com se per ottenerlo, tanto in argomenti quanto in immagini. Un semplice sguardo femminile può riunire vari messaggi opposti, anche contraddittori. Per quanto riguarda i progetti, generalmente nascono molto lentamente. Mentre lavoro ad altre cose si formano idee che lascio abbozzate in appunti o brevi scritti. Molti di essi rimangono là, custoditi e dimenticati; quelli che mi paiono più attraenti, li riprendo finché formano un’idea di unità. Dunque, si verifica quando, stesi su di un tavolo gli uni accanto agli altri, si pianifica un progetto. S: Quali sono le sue influenze artistiche e le sue fonti di ispirazione? LR: Io sono un amante dei classici – Rembrandt, Michelangelo, Caravaggio, Velazquez, Goya, Repin, Toulouse Lautrec ecc. – e sono anche curioso rispetto ai movimenti pittorici più recenti. Questi possono avere un’influenza minore per quanto riguarda la luce o la composizione, però possono ispirarmi per quanto riguarda il colore o il concetto di impatto. Opere tanto diverse come può essere la pittura astratta di Tapies, ad esempio. Ancora un contemporaneo, nel mondo della pittura: Giger è un artista che ammiro. S: Le sue opere, il suo stile, sono ormai riconoscibili da un pubblico internazionale. Cosa, della sua arte

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particolare, pensa possa aver influenzato l'immaginario generale? LR: Credo che sia quello di cui parlavo prima. Il dedicarmi tanto all’interpretazione della femminilità e all’immagine femminile, potente e delicata al tempo stesso. Allo stesso tempo credo che quei mondi immaginari di cui parlavo all’inizio siano in gran parte universi e fantasie con messaggi in comune con l’immaginario collettivo e che condivido con il pubblico che segue la mia opera. S: Quali strumenti e tecniche artistiche predilige? LR: Sono amante delle tecniche miste, e mi piace che in uno stesso lavoro possano entrare acquarello, tempera, colori acrilici e a olio etc. È l’opera che ci sta di fronte che, mentre si va componendo, richiede la tecnica da utilizzare. Anche se c’è un’idea iniziale per quanto riguarda il soggetto, le dimensioni o per il grado di freschezza che si vuole imprimere al lavoro, nel corso della realizzazione si stabilisce con essa un dialogo che ti fa prendere decisioni sulla direzione da prendere. Voglio dire che mi lascio trascinare abbastanza dall’intuizione. Per non evitare la domanda semplificando: le tecniche più frequenti sono l’aerografo con colori acrilici liquidi per ottenere nella tela delle atmosfere e olio a pennello per la coloritura finale e le sfumature. Queste due sono le più utilizzate ed è raro che non entrino in ogni lavoro.


S: Cosa rappresenta per Lei, la tela bianca? LR: Prima di tutto, uno spazio che mi chiama a immergermi in un sogno. A vivere un’avventura che non ha luogo nel mondo nella dimensione in cui vivo quotidianamente. S: Quali sono le opere e i soggetti ai quali è maggiormente legato? LR: Questa è una domanda difficile: quando un’opera è finita la si scannerizza e fotografa in vista del suo ingresso sul mercato. A partire da quel momento, perde tutto il legame che ho mantenuto con essa, le soddisfazione e ansie che mi ha provocato nel realizzarla. Si trova in un luogo nebuloso del passato. Quella che conta è quella che sta di nuovo, incompleta, davanti a te. Dall’altra parte, quando vedo l’originale di un’opera realizzata tempo addietro, finisco sempre per prendere un pennello per ritoccare questa o quella cosa che non mi piace o di cui non mi ero reso conto nel farla. Infatti, quando vedo un lavoro vecchio in un atelier, o durante la preparazione di un’esposizione o qualsiasi altra casa, cerco di non avvicinarmici. S: Negli ultimi anni la sua produzione si è spostata verso la “graphic novel”. Cosa ha originato questa scelta e come è nata la serie Dead Moon? LR: I progetti personali, che non erano lavori su commissione, diventavano sempre più complessi man mano che passavano gli anni. È accaduto

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"Malefic Time" - Rizzoli Lizard


cover artist questo con il lavoro su commissione che diventava sempre di più un’opera densa, come DOME. E i libri pubblicati, nati da un lavoro personale, appartenevano sempre di più a un progetto chiuso, per esempio, per quanto riguarda l’erotismo come PROHIBITED o una bellezza provocante come SURBVERSIVE BEAUTY. DEAD MOON era un passo più avanti. Il racconto, le illustrazioni, i disegni e anche le grandi immagini dovevano avere lo stesso peso nell’insieme dell’opera. Per questo motivo ho chiesto anche la collaborazione di Romulo Royo per questa opera, che è culminata nei due libri che si allacciano con il lavoro attuale di Malefic Time. DEAD MOON è una storia di fantasia che si è ispirata agli antichi racconti orientali. Narra la leggenda straziante e drammatica del suo personaggio principale Luna, cercando di plasmare la delicatezza e allo stesso tempo la crudezza del gusto orientale, perfino cercando nelle immagini quell’aroma, senza perdere di vista però che è stato realizzato con la mano e la mente occidentale. S: Parliamo del suo ultimo progetto nato in collaborazione con suo figlio Romulo: Malefic Time, di cui Apocalypse (pubblicato in Italia di Rizzoli Lizard – NdR) rappresenta il primo “albo”. Come e perché è nato?

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LR: È partita dall’idea di fondere pittura e immagini in un libro, anche di fare l’occhiolino al fumetto, con il testo a margine dell'immagine come avevamo cominciato a fare con Dead


MALEFIC TIME - Apocalypse Vol. 1

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L’idea iniziale nasce nel 1993 ma solo ora, a quasi venti anni di distanza, il Progetto Malefic Time vede la luce. Dopo le graphic novel Dead Moon e Dead Moon epilogue, nelle quali si vedono i germogli di un'idea ambiziosa, ecco apparire Malefic Time che certamente lascerà il segno non solo nell’arte illustrata ma anche in quella letteraria. Attraverso leggende, mitologie e antichi saperi, Luis e Romulo Royo intrecciano i meandri del conoscibile, delle emozioni e delle paure umane, in una nuova dimensione dalla forte potenza evocativa e allegorica. In un mondo post-apocalittico in cui gli uomini ormai hanno dimenticato il passato, nuovi esseri dalle antiche vestigia lottano per dare una svolta all’intera umanità. I celesti, figli del Sole, e i caduti, proseliti della Luna e della Terra, si muovono tra ricordi e sanguinose battaglie. L’uomo è soltanto spettatore. In questo scenario incontriamo Luz, un essere che non appartiene a questo mondo, eppure ne è la sua massima espressione. Una giovane che deve prendere in mano il suo destino traboccante di incertezze e trovare la strada per compiere la sua – ancora sconosciuta – missione. Malefic Time è un progetto solo agli albori e molto più vasto, che prevede dei crossover fumettistici che analizzeranno le figure secondarie che ruotano attorno alla protagonista Luz e un libro, Malefic Time – Codex Apocalypse, scritto da Jesus Vilches che narrerà la genesi di questo nuovo mondo. Un opera imperdibile che saprà conquistare sin nel profondo.


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Moon. Qui, con Malefic Time, siamo ritornati ai tempi in cui lavoravamo insieme, Romulo e io, in quei tempi in cui avevamo realizzato appunti e testi sciolti per il personaggio Luz–Malefic. Questo lavoro è stato dimenticato in un cassetto per quasi vent’anni, mentre ciascuno di noi lavorava in uffici e città diverse, ma, mentre lavoravamo insieme su Dead Moon, decidemmo di riprenderlo. L'idea era fondere totalmente le due arti e che il risultato andasse a finire in un libro, come una saga. La storia era troppo complessa per svilupparla in un solo libro ed è finita nel progetto di una trilogia.

Time sia un progetto multimediale dove si sommano arti e artisti differenti che apportano e arricchiscono l'universo Malefic. Jesús Vilches si è incaricato di plasmare con parole la storia di Malefic in CODEX APOCALYPSE. Il gruppo Avalanch ha creato un cd musicale APOCALYPSE, Kenny Ruiz sta realizzando il manga di SOUM... E ci sono ancora altri collaboratori: come Miguel Mesas che sta realizzando dei video. Rebeca Saray sta preparando un lavoro fotografico. Metalhead, con una linea di vestiti in progetto. Yamato con figure 3F... etc.

S: Malefic Time è un progetto trasversale che investe altre forme d’arte: la Letteratura, l’Arte e la Musica. Perché questa particolare scelta?

S: Al Comicon di Barcellona, siete stati protagonisti di una performance di Live Painting dedicata a Malefic Time, durante il concerto degli Avanlach. Vuole raccontarci qualcosa di questa esperienza decisamente particolare?

LR: Una volta che abbiamo incominciato Malefic Time nel laboratorio, l'idea di fondere le arti andò crescendo. La storia era breve per plasmarla solo nei tre libri di illustrazione e decidemmo di creare un romanzo dove si potevano approfondire maggiormente personaggi. Facemmo molto appoggio sul mondo apocalittico di Malefic e, ritornando all'idea di fusione, pensammo che la musica sarebbe stata un grande elemento per arricchire questo mondo. Presto decidemmo che il manga poteva offrire una prospettiva differente, e che avrebbe arricchito il progetto... e anche figure... giochi... Tutto ciò ha fatto sì che il progetto Malefic

LR: Da quando è nato il progetto Malefic Time e con esso l'idea ambiziosa che si riflettesse attraverso differenti discipline artistiche, abbiamo pensato di arrivare il più lontano possibile. I concerti del disco APOCALYPSE col gruppo Avalanch hanno aperto la strada a quella nuova esperienza di dipingere grandi formati in diretta. È stato realmente un'esperienza dipingere, incoraggiati delle voci del pubblico. S: Quando si parla di Arte in tutte le sue declinazioni, esistono due correnti di pensiero: chi pensa che


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la tecnica sia necessaria a un artista per esprimere al meglio il suo mondo interiore, chi, invece, pensa che gli studi imbriglino le possibilità creative. Lei con chi si schiera e cosa pensa a riguardo? LR: Ho creduto sempre che la tecnica sia il grande attrezzo per potere plasmare un'idea. Quanto più si hanno conoscenze tecniche tanto più sarà fedele a quell'idea mentre la si plasma. Di fatto così è stato durante la storia. In questi ultimi cento anni si è posta la questione in alcuni movimenti artistici. Ma una volta sperimentate queste disubbidienze artistiche, che furono un buon repellente per molti vizi dell'arte, non ha senso, oggigiorno, ripetere questi movimenti perché i suoi messaggi circolano già tra noi e nel mio caso i suoi concetti non hanno oramai niente di inaspettato e provocatore e mi annoiano. S: Se dovesse consigliare i giovani artisti che si affacciano per la prima volta nel mondo dell'Arte, quali suggerimenti darebbe loro? LR: È difficile consigliare. Direi di immergersi nel proprio io, e cercare di realizzare qualcosa che sia coerente con se stessi. Un'opera che rifletta la propria visione personale, più che quello che chiede il mercato, perché quest’ultimo è mutevole e si accoppia a mode che passano.

LUIS ROYO L’INTERVISTA


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S: Quando non è impegnato nel suo laboratorio, cosa le piace fare? Quali sono i generi musicali, i libri e i film che apprezza maggiormente? LR: Tanti libri, musica, cinema e altre arti sono le cose che più mi piacciono, è normale nel nostro ambiente. Non sono un seguace di una linea in concreto di nessuna di queste, voglio dire che posso star leggendo un libro sull’occultismo e passare in seguito a un romanzo poliziesco o, in musica, posso stare ascoltando heavy e dopo mettermi un cd di blues. Un film sentimentale e dopo una superproduzione di Sf. Commento spesso che è come riempire il cervello di dati per dopo vomitare ciò che si è formato dentro sotto una prospettiva personale. S: Quali saranno i suoi progetti futuri? Qualche anticipazione sulle prossime collaborazioni? LR: Attualmente sono sommerso con Romulo nella seconda parte di Malefic Time, 110 KATANAS. In questa seconda parte si scopre la relazione che esiste tra la storia di Malefic Time e Dead Moon. S: Per concludere l'intervista, chiediamo sempre all'artista ospite una citazione o un frase personale che condensi la propria idea di Arte. Vuole dirci la Sua? LR: Una finestra aperta che ci fa immergere in un altro mondo. Sia solo per alcune note musicali, alcune pennellate, alcune parole, spazi, pixel o quello che volete.

"Malefic Time'


PIXEL RUBATI di GIOVANNI ARDUINO Cari amici, al mio indirizzo

giovanniarduino@gmail.com

è arrivata questa bozza di scheda di valutazione scritta di getto da una lettrice di paranormal romance per una casa editrice di discreta importanza: non posso fare il nome né della prima né della seconda, ma offro volentieri il parto agli occhi belli dei lettori di Speechless. L’anonima lettrice mi ha assicurato che poi la scheda è stata opportunamente cambiata e corretta, come già si può intuire dalle indicazioni in corsivo. Alla

prossima & statemi sani, come sempre.


editoria

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Titolo xxx Autore xxx Editore/Agente xxx Pagg. xxx Allora, la storia funziona così, c’è questa tipa che è un’investigatrice delle fate (lei è una mezza fata o qualcosa del genere o non so) nel mondo delle fate e dove tutto è molto fatato (ma la tipa è anche un po’ vampira in un mondo di vampiri dove tutto è molto vampiresco – o vampirico, controllare e correggere). Comunque, nel mondo fatato/vampiresco (o vampirico, controllare) alla nostra investigatrice fatata/vampiresca (mi sono scocciata di aggiungere come opzione vampirica, controllo poi una volta per tutte ma adesso diamola per buona) viene assegnato un compito dal Grande Re, che si capisce che è il Grande Re (G maiuscola e R maiuscola, ricordare; andrebbe bene anche Sommo Sovrano, ma l’acronimo farebbe SS ed è politicamente scorretto) perché il Grande Re parla con tono aulico, insomma, un po’ come ti immagini parlerebbe re Artù in un cartone animato anni Settanta, del tipo: “Secondo me sei capace di accollarti ‘sto cazzo di missione e vedi di sgamartela” (okay, non così, devo avere fatto confusione con Una notte da leoni 2 che ho scaricato ieri sera tardi, dopo metto a posto). L’investigatrice a questo punto (questo punto nel senso che parliamo del diciottesimo capitolo di una saga dove i cambiamenti sono minimi, a parte la descrizione dei vestiti, del meteo, dei tramonti, degli alberi, degli organi sessuali maschili/femminili – vedi sotto – e degli orgasmi) capisce che:

a) è stato rubato qualcosa al Grande Re e lei deve recuperarlo; b) è stato rapito qualcuno/a caro/a al Grande Re e lei deve recuperarlo/a; c) è stato commesso un crimine gravissimo per il Grande Re e lei deve recuperare il colpevole; d) si è spostato l’asse temporominchiaspazialdimensionale (cancellare minchia) e tutto il mondo fatato/vampiresco rischia di andare a carte quarantotto e il Grande Re vuole che lei recuperi la situazione (NB: le ripetizioni, vedi RECUPERARE, sono sacrosante per mantenersi in linea con lo stile del romanzo). Ora, questo è quanto. L’importante è che l’investigatrice delle fate, nel suo cammino e nel portare a termine la sua missione, trombi (sostituire trombi) un numero x di volte con persone/cose/animali/ nomi di città corrispondenti a certe caratteristiche e solo a quelle: peni puntuti, peni tentacolari, peni cornuti, peni di pietra, peni con la pinna tipo squalo, peni medusa, peni con scaglie da varano, peni a punto interrogativo, peni a parabolica, peni in latex giallo fluo e peni-quello-che-volete (sostituite “pene” con “vagina” e il risultato sarà lo stesso). Riassumendo, in ordine: missione, trombate (modificare trombate), risoluzione del caso, almeno in parte, perché ci vuole il cliffhanger che ti fa venire i palpiti di cuore (sééé, di cuore: cancellare questa considerazione) e ti spinge all’acquisto del trumone successivo, e in più introduzione di un nuovo personaggio mai coperto prima (in questo diciottesimo capitolo un brucolaco di Mykonos mutaforma, priapico, preveggente e con il sovramorso) che si aggiungerà alla schiera di amici/nemici/amanti/ sodali/schiavi bondage&disciplina dell’investigatrice delle fate. Stile: piano, semplice. Lunghezza: media/nella norma. Pubblico: femminile, giovane e non solo. Acquisto diritti: consigliato, nonostante sovraffollamento proposte simili per ornitoprive (cancellare ornitoprive).


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editoria

SCOTT EAGAN

and Greyhaus Literary Agency: Quando il rosa si tinge di grigio di ELISABETTA BRICCA Qualsiasi idea vi siate fatti degli agenti letterari americani e della realtà editoriale d’oltreoceano, sappiate che lavorare con loro e per loro rappresenta un’esperienza altamente formativa. Esiste un denominatore comune, da cui non si può prescindere, e che verte su due punti fondamentali: la professionalità e la puntualità. Ho incontrato Mister Eagan, per la prima volta, al Women’s Fiction Festival di Matera al panel Harlequin. Sì, perché in quanto agente letterario, Scott si occupa principalmente di rappresentare autrici di romance e di women’s fiction. È uno degli agenti letterari più temuti. Tiene un blog, seguitissimo, di “consigli” per aspiranti scrittori, e non ama i giri di parole. Arriva sempre dritto al punto, ha una solida preparazione letteraria alle spalle, e può vantare una scuderia di autrici di tutto rispetto. E, naturalmente, Speechless non poteva farsi sfuggire l’occasione di una chiacchie-

rata con lui, per buttare l’occhio a un mercato, quello della narrativa al femminile americana, in continua crescita e trasformazione, e da cui arrivano i maggiori trend da seguire.

SPEECHLESS: Ciao, Scott, e benvenuto a bordo. Ti va col cominciare col dirci qualcosa in più su di te? Come hai cominciato il tuo percorso di agente letterario? Scott: Grazie per avermi voluto con voi, oggi! Sinceramente non credo di essere così “temuto” come agente. Credo solo di essere abbastanza diretto su cosa mi piace e cosa non mi piace nel campo della letteratura romance e della women’s fiction. Ritengo che possiamo solo migliorare il nostro modo di scrivere, guardando in faccia la verità nuda e cruda. Ho fondato la Greyhaus nel 2003, dopo un’esperienza di dodici anni quale insegnante di Inglese nel sistema scolastico pubblico. Mi sembrava fosse estremamente appropriato, possedendo un dottorato in Letteratura Inglese, una laurea di secondo livello in Scrittura Creativa e in Competenze Alfabetiche Funzionali. Di fatto, vivevo a Firenze quando presi la decisione di diventare agente letterario. Lavorare come agente e continuare il mio lavoro di docente aggregato di Inglese mi garantivano l’opportunità di essere un padre presente in casa. Mi è sempre piaciuto scrivere e leggere romance (mia moglie legge tantissimo) e mi sembrava calzasse a pennello. SL: Cosa cerchi in un romanzo? E qual è la metodologia di lavoro che segui con le autrici che scegli di rappresentare? S: Dato che i generi romance e women’s

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fiction prendono spunto da rapporti reali e da reali emozioni umane, mi sento immediatamente catapultato nella credibilità dei personaggi e delle loro relazioni. Cerco storie con le quali il lettore possa identificarsi e relazionarsi. Allo stesso tempo, sono in cerca progetti che possano davvero non solo obbedire ad un genere ed adattarcisi, bensì che offrano anche qualcosa di nuovo ai lettori. Da quello che è il mercato, non basta che le storie siano soltanto buone o che la premessa della storia possa essere “solo OK”. Le storie devono vivere oltre, in mezzo a tutte le altre. Quando leggo una presentazione, ritengo che un libro possa essere migliore di un altro da quanto la storia mi coinvolge. Se mi accorgo che voglio andare avanti nella lettura, e ho voglia di parlarne ad altri, è sempre un buon segno. Penso che un modo per spiegare cosa cerco in un romanzo possa essere compreso maggiormente in base al tempo che vi dedico. Troppo spesso ho a che fare con storie che mi sembra di aver già letto: in altre parole, l’autrice sembra non fare altro che riprendere schemi, personaggi e situazioni stereotipate. Nonostante non ci sia niente di male nel portare avanti temi comuni, è fondamentale che un’autrice cerchi qualcosa di unico per la sua storia. SL: Su quale base scegli un’autrice? Cosa deve avere “in più”, rispetto alle altre? S: È strano come agenti e scrittori finiscano col lavorare insieme. Si inizia con una storia ed è quello l’elemento dal quale gli agenti decidono se gli piace o meno un progetto. Eppure, in realtà, è l’autrice che fa la differenza. Come agente, sono alla ricerca di qualcuno che sia veramente una “scrittrice professionista”. Ciò significa qualcuno che non consideri scrivere un semplice o ca-

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SCOTT EAGAN suale passatempo, bensì qualcuno che ci si dedichi anima e corpo considerandolo come una futura pubblicazione e che sia pronta ad imparare e crescere come autrice. Il rapporto tra autore e agente è anche un lavoro di team. Ciò vuol dire che ognuno deve essere in grado di essere sulla stessa lunghezza d’onda – o pagina – quando accade che l’autore capisce dove vuole arrivare con la propria scrittura e come vuole arrivarci. Bisogna essere in grado di comunicare


editoria costantemente l’uno con l’altro. Questo permette all’agente non solo di sapere a che punto sta l’autrice con un determinato progetto, ma anche di conoscerne altri potenziali. Ad esempio, capita spesso che mentre parlo con un editore viene fuori un nuovo progetto. Se so cosa stanno facendo i miei clienti, posso sempre, di volta in volta, farli “incontrare” con quel determinato editore. Lavorare con un cliente è davvero su base individuale. Molte delle mie autrici necessitano di parecchio feedback per i loro progetti. Vogliono tenermi aggiornato su tutto quello che fanno ed avere riscontro su quanto scrivono durante la lavorazione. Altre autrici necessitano di molti consigli editoriali. Ad altre piace discutere di nuovi progetti e nuove idee per le storie. Quando firmo un contratto con un’autrice, parto sempre dal discutere su ciò che vuole davvero da ques to tipo d i

rapporto e di come si possa ottemperare al meglio alle sue necessità di scrittura. SL: Un paio di consigli per chi vuole cominciare col scrivere romance e women’s fiction. S: Relativamente al genere, direi che un autore debba necessariamente imparare e capire la tipologia di lavoro e il genere stesso. Più un autore capisce come un romanzo si guadagna la sua strada dal proprio computer al mercato, migliore sarà l’autore. E deve anche comprendere cosa stia scrivendo e la propria voce interiore. Se lo scrivere è ancora in una fase embrionale, lo scrittore farà troppa fatica. In altre parole, se lo scrittore si trova ancora a combattere con argomenti del tipo “dove inserisco il dialogo?” o “devo scoprire quale sia lo Scopo, la Motivazione e i Conflitti dei miei personaggi” vuol dire che non è ancora pronto. Scrivere deve fluire in maniera naturale. Anche agli autori che vogliano scrivere per il mercato americano suggerisco di acquisire quell’unicum interiore. Nonostante i temi dei quali trattiamo nella letteratura romance e nella women’s fiction, siano relativamente condivisi, il modo di affrontarli per il mercato americano è leggermente differente rispetto a quello europeo. Ad esempio, se guardiamo al romance di stampo storico, vediamo che in Europa si è più attenti alla ricostruzione del mondo e dello scenario storico relativo al racconto, e meno ad elementi personali ed intrinsechi. Una volta ancora, questa è una modalità per mettere a fuoco il racconto. SL: Cosa, invece, proprio non sopporti? Insomma, quali sono quegli elementi di un manoscritto che ti portano a decidere di rifiutarlo? S: Già ho accennato a questo prima. Quando mi rendo conto che un manoscritto è simile ad un qualsiasi altro, tendo ad

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editoria accantonarlo.Propendo davvero ad avere un rifiuto per progetti dove l’autore sembra aver passato più tempo a scegliere la “frase giusta” o “una scena o un evento entusiasmante” ma non ha avuto uno sguardo d’insieme sulla realtà della storia. Succede spesso, relativamente all’elemento suspence. Gli autori inseriscono una scena di grande passione tra l’eroe e l’eroina nel bel mezzo di un inseguimento da parte del cattivo. Nella realtà, se ci troviamo in pericolo di vita, non pensiamo certo a quello! Rifiuto anche ciò che manifesta evidentemente una povertà di scrittura. Ce n’è molta nelle lettere di richiesta e nelle sinossi. Se ci sono problemi di grammatica, organizzazione e modulazione in questi documenti, ce ne saranno anche nel racconto. SL: Quali sono i nuovi trend negli USA, parlando di romance e women’s fiction? S: Normalmente non rispondo a domande del genere. Troppo spesso gli scrittori tendono ad informarsi su quali siano le tendenze e ad uniformarvisi piuttosto che concentrarsi sullo sfruttare al meglio le proprie capacità autoriali. E tenete a mente anche che ciò che troviamo in libreria è frutto di una pianificazione di almeno tre anni prima. Mi rendo conto che il mercato sta realmente cambiando. La cosa più eclatante è cosa cerchiamo ora in un progetto iniziale per uno scrittore. Nel passato, anche un progetto mediocre sarebbe stato pubblicato sperando che facesse da traino all’autrice e la potesse portare a produrre cose migliori e più importanti. Ora invece siamo in cerca di progetti che siano più autorevoli fin dall’inizio. Ho anche visionato parecchi progetti che ultimamente tendono a sviare dalle caratteristiche del romance ponendole in un plot secondario. Ecco perché abbiamo assistito a una crescita della cosiddetta “Fiction con elementi di romance”. Personalmente non credo avrà lunga vita.

303 Sono fermamente convinto che assisteremo ad un grande incremento della letteratura romanzesca contemporanea. Credo che ci sia una grande richiesta da parte degli autori di storie vere su gente vera e romance vero. Basta con i trucchi fuori dal cilindro: dateci solo degli ottimi romanzi. Secondo me, l’ultima cosa che occorre a scrittori che sappiano produrre in tempi brevi, sia una tendenza. Lo riscontriamo anche negli autori più affermati. In passato, riuscivano a scrivere una storia all’anno. Ora, grazie al formato e-book, i lettori riescono ad avere di più dai propri autori favoriti senza dover aspettare un anno per un libro. SL: Cosa rende un’esordiente uno scrittore professionista? S: Farò una piccola lista delle cose che occorrono: • Visione costante di dove si voglia arrivare con la scrittura e consapevolezza di come ci si debba arrivare;

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031 • Volontà di crescere ed imparare; • Consapevolezza che c’è ancora tanta strada da fare; • Visione realistica dei propri limiti. In altre parole, non sentirsi come il più prestigioso autore del New York Times; • Non pensare allo scrivere come ad un hobby, bensì come a un secondo lavoro; • Supporto totale di amici e famiglia. SL: Cosa consiglieresti a quelle autrici romance italiane che abbiano il desiderio di venir prese in considerazione dal mercato americano? S: Ci sono due cose da considerare, ma credo possano essere comuni per tutti i mercati stranieri. Primo: conoscere quel mercato. Come ho precisato prima, esistono delle differenze in termini di atteggiamento ed approccio nello scrivere romance e women’s fiction. Quello che funziona in un paese non è detto debba funzionare in un altro. È per questo che

alcuni autori americani vendono i propri libri tradotti di più in alcuni paesi piuttosto che in altri. Un ottimo esempio è fornito da una delle mie autrici, Brownyn Scott. I suoi libri vendono molto in Europa e moltissimo con Mondadori, ma questo è dovuto dalla profondità delle ricerche storiche e dalla complessità delle trame. Secondo: assicurarsi che le traduzioni siano precise. Il mercato americano non supplirà a questo. Al contrario, bisogna che niente venga perso nella traduzione. Come è noto nel campo delle lingue, non esiste una traduzione “esatta”. Molto spesso, una traduzione letterale potrebbe non funzionare. SL: Parliamo di ebook: pensi che sostituiranno totalmente il cartaceo? Qual è la tua posizione riguardo l’editoria digitale? S: Nessun e-book potrà sostituire i libri cartacei. Si tratta soltanto di un nuovo formato di libro disponibile per i lettori. Bisogna tener presente che solo il 25/30 % delle persone è in grado di leggere un e-book. Le vendite sono incrementate, ma ciò significa che c’è ancora una grande maggioranza della popolazione che apprezza il contatto con un libro. Mi rendo veramente conto dell’importanza del nuovo tipo di formato. Per molti autori rappresenta il modo di estendere la durata della presenza di un libro che potrebbe, nella normalità, uscire di stampa. Esistono anche una serie di autori affermati (e sono quelli che sappiamo essere in auge con gli e-book e con le auto pubblicazioni) che lo utilizzano come sistema per creare il proprio catalogo. La Greyhouse, per esempio, ha fatto uscire 13 libri fuori stampa di un autore in formato e-book, ma i lettori continuavano a richiedere il libro cartaceo. L’editoria digitale non passerà di moda, ma attualmente siamo ancora in una fase iniziale e di apprendimento. Dobbiamo aspettare che passi ancora un po’ di tempo e vedere come andranno le cose.


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Tradurre, non tradire

di MARCO PIVA-DITTRICH Tradurre, lo ripeto ogni volta che mi viene chiesto, è come suonare il basso in una band rock: il traduttore, come il bassista, si notano solo se non sono all’altezza. O se vogliono fare troppo i protagonisti nel momento sbagliato. Come si fa a tradurre un libro? Non ci sono delle regole ferree, l’unica cosa davvero necessaria è conoscere la lingua. Di sicuro alcuni colleghi hanno esperienze e opinioni diverse dalle mie, magari cose che non mi sono mai nemmeno venute in mente. Comunque, vediamo come traduce un romanzo Marco Piva-Dittrich. Prima di tutto io il libro lo leggo. Ci sono traduttori che preferiscono non sapere come finisce il romanzo, e penso che questo possa aiutarli a tradurre con più gusto e, chissà, forse anche più in fretta. Ma io preferisco sapere chi sono i personaggi principali, cos’hanno in testa, come andranno a finire. Solo così, secondo me, è possibile dare loro una voce personale fin dall’inizio, senza dovere tornare troppo indietro alla fine del lavoro. Poi mi scrivo un brevissimo riassunto della storia sottolineando i personaggi e le scene principali, in modo da sapere su chi mi devo concentrare di più. Infine, prendo la copia elettronica del romanzo, che di solito chiedo per facilitare il mio lavoro, e incollo il tutto su un documento di Word. Vedo quante pagine sono, conto quanti giorni ho prima della scadenza, mi stabilisco un termine qualche giorno prima da quello fissatomi dall’editore per rileggere, ma anche in

caso non riesca a mantenermi in tabella di marcia per qualunque motivo e decido quante pagine devo tradurre ogni giorno. Inserisco dei simboli nel documento (se a qualcuno interessa, è la stringa ###!!!) nel punto che mi prefiggo di raggiungere entro fine giornata in modo da avere un punto di riferimento. Poi mi preparo un té caldo o, se fa già caldo, mi preparo un bicchierone di succo di frutta e comincio a tradurre, un CD nel lettore e un paio di dizionari on-line aperti e pronti da consultare. Una volta tradotto un paragrafo, cancello dal documento il corrispondente in lingua originale. Ovviamente tengo sempre aperto il testo in inglese, in caso debba tornare indietro per qualunque motivo. E vado avanti finché il libro non è finito. Poi, se c’è tempo, lo lascio stare per un paio di giorni e poi lo rileggo. A quel punto correggo gli errori di battitura, aggiusto le frasi per renderle più naturali... tutti quei ritocchi che sono necessari a rendere il romanzo scorrevole. E poi, finalmente, lo mando all’editore e aspetto che mi dica se va bene. La cosa più difficile ma anche più interessante nel lavoro di traduzione è capire cosa vuole dire l’autore. Il traduttore non deve interpretare il testo o filtrarlo attraverso la sua sensibilità: il traduttore deve essere la voce dell’autore in una lingua diversa da quella nella quale l’originale è stato scritto. E questo a volte costringe a ritoccare un po’ il testo. Per esempio, i personaggi del grandissimo Victor Gischler, del quale ho avuto il piacere di tradurre Shotgun Opera (Sinfonia di piombo – Revolver BD), sono spesso estremamente sboccati. In inglese gli insulti sono di base tre o quattro, in caso combinati tra loro. In italiano siamo più creativi. E quindi bisogna scegliere l’in-


editoria

sulto più adatto alla situazione cercando di pensare a quale parola suona più naturale nel contesto. Lo stesso in realtà si applica per tutti i dialoghi: è necessario immaginarsi la scena come se fosse un film e far parlare i vari personaggi come delle persone reali. Tante volte, per tornare agli insulti che sono l’esempio più eclatante, si leggono nei romanzi conversazioni nelle quali i protagonisti si attaccano l’un l’altro a suon di “fottuto” questo e “fottuto” quello. Ma chi dice “ fottuto” in Italia? Io definisco termini come “fottuto” tipici del traduttorese o, se si preferisce, dell’italiese, traduzioni magari letterali ma estremamente artificiali. Un traduttore che preferisco non nominare ha dichiarato una volta che il dizionario è un “accessorio inutile”. Io, personalmente, ritengo il dizionario fondamentale. Certo, l’italiano deve essere fruibile senza problemi, a meno che non ci sia un personaggio che usa un linguaggio astruso e contorto, ma è sempre utile avere la possibilità di raffinare la lingua della traduzione. O cercare un supporto per assicurarsi di avere davvero capito bene...

Un altro problema da affrontare è il dialetto. Quando un autore usa termini specifici di una certa zona del suo Paese, ad esempio gli scozzesismi di Allan Guthrie del quale ho tradotto Slammer (Dietro le sbarre – Revolver BD), cosa fa il traduttore, italiano o di una qualunque lingua? Usa un dialetto specifico? Io ho scelto di no e piuttosto uso termini della lingua comune che magari non sono perfettamente corretti, per far capire che il personaggio non sta parlando in maniera forbita. So che altri colleghi invece preferiscono usare termini dialettali facilmente riconoscibili da chiunque, ma questo non mi trova d’accordo: non voglio paragonare la parlata di Edimburgo, tanto per rimanere con Guthrie, a quella di una regione o città italiana specifica, perché penso che creerebbe una serie di associazioni di idee probabilmente non corrette. Per esempio in “I Simpson” Willie il giardiniere è doppiato in italiano con un accento sardo; Willie nella serie originale è appunto scozzese, anzi viene da Kirkwall sulle Orcadi che, guarda caso, è anche dove è nato Allan Guthrie. Cosa rende la Scozia simile alla Sardegna, a parte il fatto che l’allevamento di pecore è piuttosto diffuso? Secondo me, assolutamente niente. Ma dopo oltre vent’anni di Willie il giardiniere, probabilmente molti fanno il collegamento. Comunque sia, mi sono creato un motto grazie a un errore linguistico di mia moglie, che è tedesca e sta imparando l’italiano: il traduttore deve tradurre, non tradire. Il mio lavoro non è raccontare la storia creata da Victor Gischler piuttosto che da Allan Guthrie con le mie parole, ma fare in modo che gli autori parlino italiano.

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editoria di SERGIO BEVILACQUA

Cari Lettori e ormai non più così cari (sotto i 100, senza darsi troppo da fare con Shenzen, cioè la Cina, ove vengono prodotti quasi tutti) “lettori” (di ebook, l’avevate capito, eh?), chi vi parla è un EDITORE. Mi rivolgo a entrambi, quasi supponendo uno spiritello degustativo di lettere nelle macchinette informatiche di cui sopra, perché così aumento la possibilità di essere capito. M’illudo, lo so, ma insieme con la contemporary art (cercate Massimo Antonaci sulla rete, e leggete di lui!) voglio fare ugualmente questo sforzo esoterico, alchemico per farmi leggere ancora di più. Notoriamente, i “lettori” non frequentano autonomamente la rete, ma i loro orgogliosi portatori sì… Mi farò accompagnare nel mio percorso da alcune presenze: Giulio Einuadi, Gianni Scheiwiller, Elido Fazi e ilmiolibro.it. Perché da loro? Perché per dare il meglio come editore ci vuole un bravo genitore (Giulio Einaudi), uno zio caro (Vanni Scheiwiller), un fratello maggiore (Elido Fazi) e un esempio di quello che non vuoi diventare (ilmiolibro.it). Cosa mi ha insegnato il padre (G. Einaudi). Un editore è prima di tutto il PRIMO

LETTORE e l’ULTIMO SCRITTORE di ogni opera pubblicata. Lesa maestà? Di chi? Del lettore? Oddio, proprio non riuscirei a incolpare il lettore (umano, eh) di alcunché: è un essere di generosità infinita, nel processo editoriale. Proprio infinita quanto infinito è l’intrattenimento letterario, che è suo e soltanto suo. Lui produce il testo, il lettore, lui fa esplodere nella sua mente miliardi di segni da quelle (almeno) 100.000 parole che un buon romanzo presenta. Eppure, sempre lui adora lo scrittore e ringrazia, ringrazia… Cosa devo a mio zio (V. Scheiwiller). La profonda partecipazione alla produzione di un fatto culturale (letterario) meritevole di attenzione, l’innata generosità che lo ha fatto riconoscere ai suoi tempi come il migliore amico dello scrittore (e quanto bisogno abbiano di amici questi esseri prigionieri di lemmi e locuzioni, grammatiche e sintassi, solo loro lo sanno, quando non ci hanno già rinunciato…) e il gentile gioielliere che porge 10 euro di pietre preziose a quel particolarissimo Re Mida, il lettore, che le moltiplica esponenzialmente, e che magari rammenta di chi sono i tipi… Cosa devo a mio fratello maggiore (E. Fazi).


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Il coraggio di aver sfidato un mondo editoriale che aveva intuito incartarsi in mano ai potentati, acido della cultura. E quando, da uomo poliedrico di grande coltivazione e sensibilità, ha visto che non si sarebbe salvato dalla dissoluzione mafiosa nel suddetto solvente, e ha capito che al momento anche altri drammi avvenivano nella nostra società malata, ha pensato bene di orientarsi dove poteva continuare a produrre validissimi contributi per quella sua società. La nostra, italiana. Prima che europea, prima che mediterranea, prima che occidentale, prima che umana senza dimenticarne nessuna. Che cosa devo a ilmiolibro.it. Il risparmio di notevoli energie per spiegar che un testo non è finito se non c’è qualcuno che ci crede e che, quanto più esperto è questo qualcuno, tanto più ci sarà lettore (sempre umano). Che purtroppo non significa lettori (in numero). Perché il numero è comandato dall’alto e il testo non c’entra quasi nulla. Poi, gli devo l’evidenza di vedere dei testi mandati allegramente al disastro, senza premere come dovrebbero sull’anoressica (quanto a italiani…) oligarchia del cartello dominante nell’editoria italiana. Che ha capito che si guadagna con gli stranieri, anche se li si traduce in modo orrendo. La questione è anche più complessa di così, ma avremo modo di approfondire… Se siete scrittori e non stupidi vanesi, via da lì. Meglio la consapevolezza tragica del difficilissimo e martirizzante processo editoriale in italiano, che il salto nel vuoto. O, comunque, prima di suicidarvi in quel modo ridicolo, scrivetemi su queste colonne a redazione@speechlessmagazine.com. In attesa di lettere e commenti da parte vostra, vi ricordo ancora un fatto centrale che riguarda voi lettori e voi scrittori. Il vostro libro, elettronico o meno, richiede due macrofasi produttive: La fase creativa. In Italia questa fase è competenza delle aziende editoriali, come era nell’antichità del settore, prima che diventasse in-

dustriale e di massa; nei mercati evoluti delle altre lingue (inglese, spagnolo, francese, portoghese, tedesco per parlare solo delle lingue occidentali) detta fase è invece delle “agenzie letterarie”. Ma attenzione! Non è rivolgendosi alle nostrane, cosiddette agenzie letterarie che si risolve il problema. Lo si aumenta, invece! Perché si dimezzano i diritti d’autore e le stesse non sono altro che operatori astuti o illusi che ti fanno fare magari 2000 copie per il tuo lavoro di 2 anni, come ogni pessimo editore, mangiandosi però metà del bambino denutrito. Il cartello vuole che sia così, in Italia! La fase industriale: tipografia, distribuzione, vendita e promozione/pubblicità. Anche questa in Italia è in capo alle case editrici. Altrove invece è il lavoro dei “publisher”, che prendono in mano un prodotto artisticamente finito e lo diffondono e promuovono. Industriali qualunque, insomma, che corrono i loro rischi imprenditoriali avendo prima regolato i loro conti con la fase creativa (e i relativi soggetti, le agenzie letterarie dietro cui stanno gli autori). Insomma, in capo agli editori italiani stanno due attività tanto diverse da richiedere costosissime emulsioni continue per stare insieme, così distogliendo dal necessario lavoro verso l’esterno e sul versante pubblicitario dei mezzi di comunicazione di massa, con i quali soltanto si fanno le decine di migliaia di copie che rendono uno scrittore un vero professionista, perché può campare di scrittura. Costringete insieme queste due attività in un settore controllato, ma che dico!, colonizzato, imprigionato da quattro oligopolisti ben sintonizzati per fare i loro brutali affari (senza preoccuparsi se rovinano scrittura e lettura in italiano, la lingua italiana, patrimonio di settanta milioni di persone!) e capirete bene che Einaudi e Scheiwiller si rigirano nella tomba, e anche perché il bravo Fazi se l’è data a gambe. Intanto si faccia chiarezza. E si smetta di promuovere dannose illusioni e sinistri suoni di piffero. Per un’editoria italiana rampante, il libro in una mano e la spada nell’altra!

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editoria rubrica

Io abitavo a West Egg, nella parte... bÈ, quella meno alla moda delle due

di ALESSANDRA PENNA

fiera

fiera delle mie brame

Qualche notizia

per i NON addetti ai lavori (da un’addetta ai lavori)

Londra, 15-18 aprile 2012, e a seguire Torino, 10-14 maggio 2012. LBF, London Book Fair, e Salone del Libro: i due più recenti e importanti appuntamenti per gli addetti ai lavori dell’editoria (cui si aggiunge quello che si è svolto pochi giorni fa a New York, la BEA). Sono importanti queste fiere, o sono solo l’occasione, per chi lavora nel settore, di incontrarsi? La quantità del lavoro, i ritmi serrati che ormai caratterizzano anche il settore editoriale in quanto “industria”, difficilmente consentono frequenti scambi personali. Nell’era digitale, il flusso delle informazioni, costante e incessante, è veicolato

da internet. Non potrebbe essere altrimenti, in fondo. Chi lavora nel settore, occupandosi sia del mercato italiano che di quello estero, si trova a gestire quotidianamente quantità di email in cui case editrici estere, agenti esteri, subagenti o agenti italiani (e singoli privati scrittori) presentano libri in uscita, proposal da sviluppare, manoscritti in fase di lavorazione, ma già valutabili. L’occhio del bravo editor deve riuscire a vedere cosa è buono e cosa lo è meno, cosa è adatto alla propria linea editoriale, cosa potrebbe aggiungersi, cosa ha il carattere dell’originalità. Non è sempre facile, perché una comunicazione via mail non potrà mai


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sostituire del tutto lo scambio vis-à-vis e la qualità delle informazioni che si acquisiscono quando due persone hanno occasione di parlare. Ecco perché le fiere sono importanti ed entusiasmanti. Perché finalmente l’editoria esce dalle stanze di una casa editrice e ha modo di sbirciare fuori dalla propria porta, di annusare altre realtà, dove le tendenze e gli interessi possono essere diversi da quelli del nostro Paese, ha modo di “confrontarsi”, quindi di capire, assorbire, crescere. Le fiere non sono solo informazioni, ma stimoli, idee, rapporti che si stringono e durano. Le giornate trascorse alle fiere sono fitte, Londra in particolare. Si inizia alle 9.30 e si finisce alle 18.30. Ogni mezz’ora un incontro. Che avviene o al piano terra, pieno di padiglioni delle gran-

di case editrici, che espongono i libri al momento più forti, o al piano superiore, l’International Rights Centre, spazio sia per agenti che per i responsabili dei diritti esteri delle case editrici. Da editor, il mio obiettivo è cercare, fiutare ciò che ogni catalogo che mi viene presentato ha di meglio (per la mia casa editrice). Si potrebbe pensare dunque che per chi, come me, fa questo, si tratti soprattutto di ascoltare. Ma non è così. Quanto più si è in grado di presentare la propria casa editrice, i propri obiettivi e ciò che si sta cercando, tanto più efficace sarà lo scambio con chi propone, selettiva la scelta dei titoli, probabile una convergenza di intenti. A Torino mi è capitato un incontro con una collega di una casa editrice olandese che occupava il mio stesso ruolo: non seller-buyer quindi, ma buyer-buyer. Desiderava sapere quali fossero i libri che consideravo più interessanti tra quelli let-


ti e pubblicati, non solo italiani ma anche stranieri: una sorta di scouting tramite un altro editore. Le fiere sono belle anche per questo: il mercato editoriale “mondiale” può diventare accessibile. Volendo si possono incontrare editori di ogni parte del mondo. Questo vale per Londra, Francoforte, Torino… Poi, per chi cerca anche altro, il Salone di Torino – così come l’ultimo giorno a Francoforte – hanno qualcosa di diverso: il pubblico. Vedere file all’ingresso del Lingotto, vedere intere scolaresche aggirarsi nei vari padiglioni, osservare le tante persone che riempiono gli stand, riuscire a volte ad avvicinarli, consigliarli, parlare di un libro che magari – se il caso vuole – hai seguito, curato, anche scelto e voluto personalmente, questo è un valore in più. Irrinunciabile. Se invece devo considerare un altro aspetto affascinante di una fiera, senza dubbio è la chiusura di una trattativa durante quei giorni. Un libro di cui ci si invaghisce e che si riesce ad acquistare al volo, o un accordo che si chiude dopo che il libro era stato a lungo corteggiato. O – ed è altrettanto entusiasmante – sapere che un libro della propria casa editrice viene richiesto, desiderato e infine acquistato già durante la fiera. Ma una fiera non vive soltanto per il tempo della sua durata. C’è un prima e c’è un poi.

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editoria Il prima è la preparazione: lo studio dei cataloghi e l’individuazione dei titoli migliori. E il poi è il lavoro di lettura dei libri scelti e richiesti. Personalmente credo che le fiere siano un modo, per chi lavora nell’editoria, di mettersi in gioco. Sono il momento dello scouting, della ricerca ma anche dello scambio e del confronto: di un dare e ricevere che avrà una cifra sempre diversa rispetto a ciò che passa per la rete. Perché, che sia a un tavolo, faccia a faccia, per il tempo di un appuntamento, oppure a una cena, davanti a

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un caffè o nelle occasioni di incontro in chiusura di giornata, poter parlare con colleghi provenienti da tutto il mondo permette di capire meglio e più a fondo le scelte editoriali altrui e le proposte che ci vengono fatte. Da meditare, con calma e strumenti che a ogni fiera si affinano, una volta tornati a casa. Per capire quanto di quel mercato estero ci assomiglia, può essere adatto a noi, come possiamo assorbirne o rielaborarne degli input che consentano a noi singoli, in quanto editor, o alla casa editrice che rappresentiamo, di crescere.


editoria

INTERVISTA

Jo March Agenzia Letteraria Da Agenti Letterarie a Editrici di capolavori dimenticati Nata nel 2009 come Agenzia Letteraria, la JO MARCH è diventata anche Casa Editrice nel novembre 2011. E la prima pubblicazione, con cui le due fondatrici — Lorenza Ricci e Valeria Mastroianni — si sono cimentate, non è stata una sfida facile. Con un progetto ambizioso e oneroso, infatti, la Jo March ha deciso di tradurre il capolavoro di Elizabeth Gaskell, North and South, un romanzo in cui i temi sociali dell’industrializzazione e del progresso dell’Inghilterra vittoriana si intrecciano a quelli meno vicini a noi delle crisi spirituali nella chiesa anglicana e a una bellissima storia d’amore e di crescita. Pubblicato per la prima volta a puntate da settembre 1854 a gennaio 1855 su Household Words — il periodico settimanale edito da Charles Dickens —, North and South venne poi compendiato dalla Gaskell e pubblicato in due volumi nel 1855. Finora questo bellissimo romanzo non era mai stato tradotto in italiano — se si eccettua un’edizione ridotta del 1960 — e, dopo che la BBC ha realizzato nel 2004 una riuscitissima trasposizione televisiva, una miniserie in quattro puntate con Richard Armitage e Daniela Denby-Ashe, si sono moltiplicate le richieste sul web di chi avrebbe voluto leggere il romanzo in italiano. Finalmente, l’attesa — lunga quasi 150 anni — si è conclusa felicemente

di GABRIELLA PARISI

grazie a Jo March. Volevo innanzi tutto fare le congratulazioni a Lorenza e Valeria per aver raggiunto un obiettivo così ambizioso e così importante come la traduzione di un classico della letteratura inglese qual è North and South di Elizabeth Gaskell che — vergognosamente — mancava di un'edizione italiana. Un'edizione che, pur essendo il primo prodotto di Jo March, è curata nei minimi dettagli. Davvero un traguardo ammirevole, complimenti ancora e grazie per averci concesso questa intervista. Speechless: Il vostro sodalizio nasce nel 2009. Come è nata questa collaborazione e perché? E soprattutto, perché avete scelto il nome dell’eroina di Piccole Donne a rappresentarvi? Jo March: Ci siamo conosciute nella redazione di una Casa Editrice perugina nel 2008, dove io lavoravo da un anno quando Valeria è entrata come stagista. Il nostro è stato un sodalizio prima di tutto umano, poi letterario. Insieme all’amicizia così è cresciuta la voglia di costruire un progetto culturale tutto nostro, dove mettere alla prova un’idea di editoria diversa da quella con cui facevamo i conti tutti i giorni. Il nome “Jo March” è l’evidente e romantico omaggio all’eroina di Piccole Donne, il personaggio in cui entrambe ci riconoscevamo da piccole.

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S: La Jo March nasce come Agenzia Letteraria. Come mai la svolta, la decisione di diventare anche Casa Editrice? Qual è il vostro ruolo? JM: In realtà non c’è stata una vera e propria svolta, da sempre cerchiamo quegli scrittori capaci di dar vita a storie che sappiano parlare del mondo e della natura umana con originalità, che ci stimolino a riflettere, a mettere in discussione, a far emergere emozioni sopite. Non importa se di oggi o se di secoli fa. Quindi l’obiettivo è sempre stato lo stesso. Però c’è una differenza sostanziale nella possibilità di divulgazione dei testi, nella capacità di questi scrittori di raggiungere il pubblico, i classici in qualche maniera vanno solo riscoperti, mentre i nuovi autori devono essere “imposti” all’attenzione dei lettori, e per far sì che ciò accada occorre una struttura finalizzata e dedita soltanto a questo. S: Parlateci del motivo che vi ha spinte a scegliere North and South come vostra prima pubblicazione. JM: North and South era un esempio eclatante di quella letteratura sommersa che non è mai stata pubblicata in italiano. Un testo di straordinaria importanza da un punto di vista letterario e sociale. L’abbiamo scelto proprio per la sua qualità, perché la prima uscita della collana doveva essere emblematica e farsi portavoce del nostro intero progetto editoriale. S: Quali credete possano essere stati i motivi che ne hanno impedito la traduzione/pubblicazione fino ad oggi? (sebbene esistesse una traduzione — in versione ridotta — del 1960 di Ada Borrelli pubblicata dalla Casa Editrice Giuseppe Principato). JM: I motivi che si possono addur-

re sono molti e nessuno. La corposità e la complessità linguistica e tematica del testo inglese sicuramente erano degli scogli non semplici da superare, ma questa a mio avviso rimane una motivazione parziale. La verità è che la memoria di una cultura è come un setaccio, alcuni testi passano l’esame e altri finiscono nel dimenticatoio. In Italia nessuno si era posto il pro-

Lorenza Ricci e Valeria Mastroianni blema della grande lacuna della mancata traduzione di North and South, o forse, qualcuno può anche essersi posto il problema, ma poi si deve essere spaventato di fronte all’arduo compito. Sì, è vero, la Casa Editrice Principato aveva realizzato una “riduzione” di North and South, in passato: aveva presentato parti del romanzo, sempre in lingua inglese, riducendone il corpo a un quarto circa del totale, e corredando il testo di note in italiano che aiutassero la comprensione dei passaggi più difficili e delle espressioni dialettali. Anche noi abbiamo consultato questa edizione, ancora reperibile in biblioteca, e devo dire che ci è stata di grande aiuto per sciogliere alcuni nodi.


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scheda del Libro

Titolo: Nord e Sud Tit. Or.: North and South Autrice: Elizabeth Gaskell Casa Editrice: Jo March Pubblicazione: 2011 Collana: Atlantide Traduzione: Laura Pecoraro Pagine: 560 Formato: 14x21, brossura Prezzo: â‚Ź 15,00 ISBN: 978-88-906076-0-8


S: Una volta deciso di tradurre questo romanzo, come vi siete mosse? Quali passi avete intrapreso? JM: È cominciato tutto con una lettera. Abbiamo scritto a Marisa Sestito, professore ordinario di Letteratura inglese presso l’Ateneo di Udine, che era stata la prima a tradurre Elizabeth Gaskell in Italia: sue sono le traduzioni di Cranford e di Storie di donne, di bimbe e di streghe. Si è subito interessata al nostro progetto e ci ha proposto Laura Pecoraro come possibile traduttrice, restandoci poi sempre a fianco nel corso della redazione e scrivendo la bellissima Introduzione che apre il volume. S: Quali sono le difficoltà che si incontrano a voler pubblicare un classico così importante e famoso? JM: Eravamo certamente spaventate all’idea di misurarci con un’opera così importante e con una scrittrice raffinata e profonda come la Gaskell, ma i nostri timori sono d’altro canto stati anche i perni dell’entusiasmo e della convinzione con cui abbiamo affrontato questa avventura. Ci è voluta una buona dose di incoscienza, senza la quale non ci saremmo mai buttate, ma soprattutto impegno, costanza, dedizione e la convinzione che sarebbe stata un’occasione irripetibile. Anche se eravamo consapevoli che saremmo in qualche modo finite sotto esame, l’esame dei tanti lettori che attendevano Nord e Sud da anni e quello degli accademici, quindi non potevamo permetterci di sbagliare. A volte penso – sono una delle ultime romantiche – che questo straordinario capolavoro sia rimasto in silenzio per oltre centocinquanta anni solo per attendere noi, per affidarsi alla nostra cura. E così è stato, si è creato un rapporto veramente unico fra noi e questo libro, si è intreccia-

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editoria to alle nostre vite inestricabilmente. S: Quanto ha influito sulla vostra scelta la petizione del pubblico italiano che ne chiedeva la pubblicazione e come — in seguito al vostro annuncio della pubblicazione dell’opera — siete state condizionate/pressate dall’interazione col pubblico? JM: Sulla scelta nulla, infatti siamo venute a conoscenza della petizione solo dopo aver programmato la traduzione. In seguito, non direi che siamo state “condizionate”, ma sostenute e incoraggiate dai messaggi che in pratica quotidianamente arrivavano sulla nostra casella di posta. S: Quanto la serie televisiva della BBC del 2004 ha agevolato, ostacolato o comunque influito sull’impegno che vi eravate prefisse? JM: Anche qui, direi che la produzione televisiva ha solo agevolato il nostro lavoro, moltissimi dei nostri lettori hanno conosciuto il romanzo attraverso la serie, quindi non possiamo che essere grate alla BBC e a Richard Armitage. S: Sono passati circa sei mesi dalla pubblicazione di Nord e Sud. Avete avuto il riscontro che vi aspettavate? JM: Da una parte sì e da una no. I nostri lettori sono soprattutto coloro che vengono a conoscenza del libro attraverso la rete; fatichiamo di più a farci conoscere in libreria: i librai sono in qualche maniera diffidenti nei confronti di una nuova Casa Editrice, quindi non tutti hanno accolto i nostri libri sugli scaffali. E ancora più diffidenti, o meglio “non attenti”, sono i giornalisti che non scrivono recensioni su un libro straordinario che ne meriterebbe. Quindi grazie a voi per l’opportunità che ci date. S: Avete annunciato la vostra prossima pubblicazione: The Romance of a Shop di Amy Levy. Come mai la vostra


editoria scelta è caduta su quest’opera? JM: Amy Levy è un’autrice poco conosciuta, ma ciò non toglie che fosse una scrittrice brillante e moderna, capace di cogliere i cambiamenti della sua epoca e di raccontarli con uno stile giovane e frizzante. Le quattro sorelle protagoniste di The Romance of the Shop ci hanno conquistato all’istante con la loro simpatia e il loro tentativo di essere indipendenti e libere di decidere per la propria vita. S: Al di là di un capolavoro com’è Nord e Sud, quali sono i requisiti che cercate in un’opera perché attragga la vostra attenzione e consideriate la possibilità di pubblicarla? Avete intenzione di pubblicare altre opere di Elizabeth Gaskell ancora inedite in italiano? JM: Gli stessi requisiti per cui in libreria scegliamo un libro fra milioni di altri, perché crediamo che possa regalarci pensieri, spunti critici e sentimenti nuovi. Siamo legate alla Gaskell e ci piacerebbe pubblicare altre sue opere in futuro. La nostra Collana Atlantide procederà con un ritmo disteso, due-tre uscite all’anno, e per il momento abbiamo programmato testi di altri autori. S: E che ne pensate di opere totalmente inedite in italiano? Punterete in futuro su promettenti firme italiane? In fondo nascete come Agenzia Letteraria. JM: Come ho in parte detto rispondendo a una delle prime domande, per promuovere un nuovo autore nel mercato editoriale di oggi ci vuole una Casa Editrice che sia costruita e organizzata ad hoc per questo fine e noi non lo siamo. Non si può far tutto, già portare avanti Atlantide in parallelo all’attività di Agenzia è molto impegnativo. Preferiamo continuare il nostro lavoro di “ricerca” di nuovi autori e poi lasciare che siano Case Editrici con il giusto profilo a pubblicarli.

S: Quanto siete aperte ai suggerimenti e alle richieste del vostro pubblico? JM: Apertissime. Teniamo sempre in conto i titoli che ci suggeriscono i nostri lettori, non a caso abbiamo creato un’apposita sezione per i consigli sul nostro sito web. Certo, non possiamo accogliere ogni richiesta, dobbiamo capire quale testo fa per noi e quale no e, cosa non secondaria, cercare di capire anche cosa pubblicheranno gli altri editori, per non trovarci a lavorare sulla stessa opera. S: Dopo The Romance of a Shop quali sono i vostri progetti futuri? JM: Ci misureremo con un grandissimo maestro, Charles Dickens.

Sito web: www.jomarch.eu

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SPEECHLESS

VUOLE TE!

INVIA il tuo racconto e le tue generalitĂ alla Redazione: redazione@speechlessmagazine.com IL PROSSIMO RACCONTO POTREBBE ESSERE PROPRIO IL TUO!


editoria Rubrica di MANUELA SALVI

Ci dormiva Harry Potter, nel sottoscala. E se sbirciate tra il contatore della luce, i vecchi barattoli e le scope spelacchiate, troverete anche dei libri. Vengono chiamati libri per ragazzi, e sono quasi sempre destinati a starsene nell’angolo più buio e dimenticato dell’immenso tempio dorato della Letteratura Seria (italiana o in italiano tradotta), relegati nella sezione "Fiabe e Favolette" dell’immaginaria biblioteca collettiva. Oh, ma poco male. I cacciatori di tesori sanno che i sottoscala – e le cantine, e le soffitte – sono i posti migliori per fare scoperte straordinarie e incontri che possono cambiare la vita. Siamo pronti ad accoglierli questi avventurieri della parola stampata, con mappe ingiallite, navi sbilenche e bandiere piratesche. In particolare, ci sarò io qui a far da guida, e domanderò la parola d’ordine quando busserete alla nostra porta. Vi chiederò: siete pronti a riporre per un momento quel vestito cucito in serie chiamato “adultità”? Voi risponderete: sì! – e poi dovrete reggervi forte. Perché nel sottoscala c’è solo gente coraggiosa. Scrittori che pronunciano la parola “infantile” con orgoglio e zero vergogna. Editori che resistono brillantemente alla crisi, in tutto il mondo. Lettori piccoli che combattono mostri spaventosi

senza vacillare. E lettori grandi che ricordano. Ricordano quanto i sogni possano essere a portata di mano. Ricordano cosa vuol dire correre senza una ragione. E di quando si sapeva tutto senza sapere niente.

Questa è la Letteratura per Ragazzi.

Letteratura col fiatone e i capelli al vento. Pagine come porte, parole come ciottoli da far rimbalzare. Non è per tutti, mi rendo conto. Perciò vi lascio con un compito, facile, per scaldarsi. Leggete: Il mio mondo a testa in giù di Bernard Friot (Edizioni Il Castoro). E cominciate a ricordare. BERNARD FRIOT non ha peli sulla lingua e in questa esilarante raccolta di racconti dedicati all’infanzia meno politically correct, con uno stile fulminante, dimostra che gli insegnanti sanno ascoltare. Lui ha ascoltato. E ha raccolto frammenti di vite piccole fatte di cose immense: paure, ansie, conquiste, avventure – e il rapporto con gli adulti, eternamente conflittuale. Si parla di ribelli in miniatura in un libro che è il “the best” delle Histoires Pressées di Friot: storie stampate, ma anche storie di fretta. Si parla di come la quotidianità riservi meraviglie inaspettate, e ricorda ai lettori grandi come si fa a non lasciarsele scappare, inosservate.

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scheda del Libro

Titolo: Il mio mondo a testa in giĂš Autore: Bernard Friot Casa Editrice: Il Castoro Pubblicazione: 2008 Illustrazioni: Silvia Bonanni Pagine: 106 Prezzo: â‚Ź 13,50 ISBN: 9788880334729


editoria intervista

di ELENA BIGONI

Fabio Di Pietro È stato l'argomento principale dell'ultima Fiera del libro di Torino. Primavera Digitale, così è stata chiamato il rinnovato interesse verso l'e-book e il digitale, in crescita anche in Italia. I dati parlano chiaro, anche se le cifre e i guadagni sono ancora irrisori rispetto a mercati esteri – emblematico il caso americano: dal suolo statunitense, infatti, abbiamo importato successi "digitali" da milioni di copie in e-book come Amanda Hocking, John Locke e E. L. James, solo per citarne alcuni. Speechless ha deciso di parlarne con Fabio di Pietro, editor Digital & Paperback di uno dei più grandi editori italiani, Giangiacomo Feltrinelli Editore, che ha deciso di puntare proprio recentemente sul digitale con il progetto Zoom. Domande talvolta scomode, cui Di Pietro ha risposto con grande chiarezza. Il mercato dell’e-book è destinato a cambiare in maniera netta la stessa concezione della lettura e del prodotto-libro: non solo incidendo sui costi e sulle modalità di azione all’interno della filiera produttiva, ma anche nelle nuove modalità espressive con cui gli autori sono chiamati a confrontarsi. Ciò è testimoniato dall’esperienza di Banduna, il romanzo a

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puntate di Alessandro Mari: una rivisitazione della classica modalità di fidelizzazione del lettore, come ben sapevano i lettori di feuilleton del secolo scorso. Dunque, viviamo una fase di passaggio in cui l’habitus mentale del lettore subirà un drastico cambiamento, sia per quanto concerne i costi del bene-libro che per quanto riguarda la distribuzione. La Feltrinelli si sta dimostrando attenta ai rapidissimi cambiamenti del mercato editoriale e, secondo quanto si evince da quest’intervista, la collana Zoom sembra essere solo la prima dimostrazione di un nuovo modo di concepire il “mestiere” di editore. Speechless: Benvenuto su Speechless, Fabio. Ti va di presentarti ai nostri lettori? Qual è stato il percorso che ti ha portato a divertare editor per Feltrinelli Editore? Fabio di Pietro: Grazie a voi per l'ospitalità! Solitamente la strada per diventare editor passa per una solida esperienza redazionale. Io ho imboccato un sentiero laterale: dopo laurea in comunicazione, diploma in pianoforte e master in marketing, sono entrato in editoria tramite Mondadori, dove sono rimasto per otto anni. Nel 2010 sono fe-


Fabio Di Pietro licemente approdato in Feltrinelli, dove sono responsabile della collana di tascabili Universale Economica e dei nuovi progetti di editoria digitale. S: Come è nato il progetto editoriale di Zoom e quali sono i presupposti su cui si basa? F: Zoom nasce dall’entusiasmo. Entusiasmo per le nuove frontiere che il digitale mette a disposizione di autori e editori, entusiasmo per il nuovo impulso che può dare alla forma breve, entusiasmo per le nuove occasioni di lettura nate grazie a eReader, tablet e smartphone. Abbiamo voluto fare i libri che finora non si potevano fare. S: Come avviene la selezione dei testi da pubblicare? Quali prodotti letterari vengono inseriti nella Collana? F: Ogni Zoom è una piccola opera d’arte compiuta in se stessa, così come lo è un valzer di Chopin. Per questo tutti i testi pubblicati all’interno di Zoom devono rispondere a un doppio criterio: essere di assoluta qualità e, allo stesso tempo, essere pienamente autonomi. Gli Zoom sono veri e propri libri, anche se piccoli. Quello che vogliamo è donare alla forma breve l’autonomia che finora, per i limiti ineludibili

della filiera della carta, non ha potuto avere. È una sorta di guerra di indipendenza della forma breve, all'urlo di “mai più serva d'altri”, nè raccolta nè rivista. Nell'editoria digitale i testi brevi sono maturi per essere considerati libri e non tranci di libro. S: La collana è nata a dicembre 2011, quali sono stati i riscontri dei lettori? F: I riscontri sono stati entusiasmanti per noi! Abbiamo a lungo occupato completamente il podio della classifica generale ebook di Amazon. Su iTunes abbiamo occupato più volte il primo posto, con Saviano, Bukowski, De Luca e Benni. Su tutti gli altri store, da laFeltrinelli.it a Bookrepublic, passando per IBS e BOL, abbiamo avuto ottimi riscontri sia di vendite che, non meno importante, nei commenti dei lettori. Anche sul neonato store italiano di Google Play ci siamo subito ritrovati nelle prime posizioni. Insomma: non ci possiamo lamentare. S: Scegliere di pubblicare solo on-line alcuni titoli inediti non rischia di allontanare quella fetta di lettori, che rappresenta ancora la maggioranza, che non si vuole affidare agli e-book? F: Nel nostro caso no, nessun rischio. Perché gli inediti che abbiamo pubblicato (da Erri De Luca a Amos Oz, da Cristina Comencini a Stefano Benni, passando per nomi come Nicola Lagioia, Salvatore Niffoi, Benedetta Cibrario, Sandrone Dazieri...) sono opere particolari, pensate per sfruttare questo formato. Non c’è reale cannibalizzazione. In secondo luogo, la nostra scommessa riguarda anche il fatto che i lettori più forti e appassionati siano fra i più interessati a sperimentare la rivoluzione dell’ebook. Chi ama la lettura ama il libro ma ama, prima di ogni altra cosa, il testo. Il resto è collezionismo.

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S: Promuovete con Zoom "una nuova idea di libro: economico, veloce e maneggevole". E sono proprio questi i pregi dell'ebook, che ormai in America, per fare un esempio scontato, raggiunge vendite elevatissime. Perché in Italia, nonostante l'incremento degli ultimi mesi, i lettori sono diffidenti verso questo nuovo mezzo di lettura? F: Più che di diffidenza parlerei di arretratezza tecnologica: tendenzialmente noi arriviamo sempre un po’ dopo al contatto di massa con innovazioni come l’ebook. Il bello però è che, quando partiamo, partiamo con decisione. L’Italia sul versante culturale tende sempre a essere conservatrice e legata al “buon profumo del passato”. Ma i segnali della crescita della lettura digitale iniziano già a vedersi. Senza contare che i dispositivi abilitati alla lettura di ebook si stanno diffondendo a macchia d’olio, e un dispositivo vuoto è un dispositivo triste… una volta che hai un lettore è difficile resistere alla tentazione di riempirlo di contenuti. S: All'interno della collana Zoom avete promosso il progetto di serializzazione Banduna. Perchè la scelta di un romanzo a puntate, figlio della tradizione del romanzo d'appendice, solo in formato digitale? Quali sono i pregi di questa scelta? F: Alessandro Mari aveva nel cuore questo progetto da tempo e Zoom ci è parsa l’occasione d’oro per passare all’azione. I vantaggi sono presto detti: distribuzione facilitata e indipendente. Non si è più legati, come nel passato, all’uscita del giornale che incorporava le puntate. La flessibilità della distribuzione digitale è perfetta per la serializzazione. Ci è piaciuto il contrasto che nasce dall’abbinare la rinascita di una forma antica come il feuilleton a una nuova possibilità tecnologica. S: Sveliamo alcuni retroscena. Come avviene la realizzazione di un romanzo a puntate in ebook? Avete in tenzione di riproporre un progetto simile? F: Una puntata dopo l’altra. Semplicemente. Alessandro sapeva da dove il viaggio sarebbe cominciato e quale sarebbe stato il più probabile traguardo, ma il percorso è nato settimana dopo settimana. Una scrittura live nel senso più pieno del termine. Sul sito dedicato al progetto, banduna.feltrinelli.it, l’autore ha dialogato dal primo momento con i lettori, ascoltando le loro voci e interagendo con loro, tastando il polso della narrazione direttamente dalle braccia che giravano le pagine, per così dire. Ed essendo lo straordinario talento (e il narratore generoso) che è, la fluvialità del racconto ne è stata ulteriormente irrobustita. Se ci riproveremo? Ci abbiamo già riprovato, in un certo senso. Recentemente abbiamo infatti pubblicato un altro magnifico testo “a puntate”, La vita moderna è rumenta di Marco Drago, un'esplorazione letteraria e antropologica dell'Italia di provincia e di campagna – scritta da chi ne è figlio. Un'Italia che sembra non esserci più, ma c'è ancora eccome. S: In generale come mai i costi del formato digitale, che si affianca all'uscita del cartaceo, rimangono sorprendentemente alti? Per la riduzione del prezzo, potrebbe aiutare la riduzione dell'iva come è successo in Francia (attualmente l'iva sull'ebook in Francia è al 7% contro il 21% nel bel paese)?

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editoria F: Troppo spesso si pensa che il grosso del costo dei libri sia dovuto alla stampa e alla carta. Non è così. O meglio, è così solo in parte. Buona parte del costo finale è dovuto al lavoro di tutte le persone che contribuiscono con la loro professionalità alla buona riuscita del libro: editor, redattori, correttori di bozze, grafici… Insomma l’ebook elimina una parte di costi (stampa, distribuzione e stoccaggio), ma se si vuole avere un prodotto di qualità non si può fare a meno del lavoro e della professionalità di molte persone. Detto questo, l'IVA al 21% sugli eBook è ormai grottesca: è finita da un pezzo l'epoca in cui potevamo permetterci il lusso di distinguere fra “digitale” e “culturale”, i libri devono avere tutti lo stesso livello di tassazione, a prescindere dalla forma in cui si incarnano. Speriamo in un adeguamento in tempi ragionevoli. S: Nel dicembre del 2011 Amazon ha distribuito anche in Italia il Kindle a un prezzo decisamente competitivo. In che mondo il suo arrivo in Italia ha influenzato le vendite del vostro catalogo e-book? F: Le ha accelerate, sicuramente. In particolare sul versante Zoom. Amazon è un retailer straordinario, vivace e attentissimo alle novità. Certo, allo stesso tempo può essere anche una minaccia per alcuni aspetti, in primis il quasi monopolio che, nei mercati dove è più forte, ha imposto grazie alla diffusione del Kindle, dispositivo basato su un sistema DRM proprietario. Ma se sono arrivati ai risultati attuali è grazie alla loro capacità innovativa. L’innovazione nel retail che loro portano avanti, unita all’innovazione nel publishing che è la nostra bandiera, possono fare grandi cose insieme. S: L'avvento degli ebook potrà aiutare ad incrementare il numero di lettori – davvero esiguo in Italia – e magari avvicinare anche i giovani alla lettura? F: Sicuramente ci contiamo. I giovani leggono più di quanto non pensiamo. Il punto è che non sempre leggono libri: leggono blog, social network, articoli trovati in rete, magari visualizzandoli grazie a Flipboard, Zite, Currents o Google Reader. La convergenza digitale – sperabilmente attorno a formati condivisi e aperti – credo possa essere un potentissimo incentivo alla lettura e alla scoperta di nuovi autori, nuovi testi, nuove conoscenze. S: Quale sarà il futuro degli e-book nell'editoria italiana e quali saranno le tendenze di mercato a tuo parere? L'ebook soppianterà definitivamente il cartaceo o questi due supporti di lettura "conviveranno felicemente"? F: L’ebook probabilmente soppianterà la carta in alcuni, specifici settori. Che, guarda caso, sono quelli dove i vantaggi specifici della carta si sentono meno e si sentono invece moltissimo tutti i limiti di questo formato. L’ebook si diffonderà maggiormente anche in Italia, non ci sono dubbi, affiancandosi alla carta – in fondo carta e tablet hanno punti di forza (e spesso occasioni d’uso) differenti. Tuttavia, un formato non sopravvive per secoli se non possiede molte frecce al proprio arco: la carta è qui per restare e non ha bisogno di avvocati, si difende benissimo da sola.

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Letteratura La ricerca della maternità:

LE DIFETTOSE di Eleonora Mazzoni di ELISABETTA OSSIMORO

Ci sono libri che ti chiamano dagli scaffali con le loro copertine ruffiane, si lasciano divorare e in pochi giorni scompaiono dalla mente, con la stessa fulminea rapidità con cui vi erano entrati. Poi ci sono libri che ti colpiscono alle spalle, con le loro copertine evocative, con la loro trama scarna e dura, che ti conquistano palmo a palmo, frase dopo frase, fino a spingerti verso il fondo, cui arrivi quasi senza accorgertene, alla fine di un viaggio interiore che, ineffabilmente, è diventato anche il tuo.

Le difettose è uno di questi.

La storia di Carla, latinista e docente universitaria, che alle soglie dei quaranta combatte la sua natura recalcitrante per avere un figlio, per afferrare e fare proprio il miracolo della vita, ti entra dentro, ti scava voragini, anche se, come me, hai 25 anni e vedi la maternità come un’ipotesi nebulosa e remota, finanche un pochino demodé. Sì, perché questo libro ci insegna che il desiderio di maternità ci trafigge quando meno ce lo aspettiamo, quando crediamo di essere diventate delle donne autonome e compiute che hanno rifiutato orgogliosamente il cliché che indica nel matrimonio e nella procreazione le sole occasioni di realizzazione femminile. Sì, questo desiderio trafigge, e se non trova una sua risoluzione “naturale”, si può tentare una strada alternativa, che dirotta il luogo della procreazione, come scrive Eleonora, dai letti caldi d’amore, tra i sentori dell’orgasmo, lenzuola sfatte e luci soffuse alle pratiche della Pma (Procreazione

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INTERVISTA


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Medicalmente Assistita): formaldeide, neon, prelievi, iniezioni, medicinali, anestesie, bisturi, provette. Le difettose è un romanzo che ci accompagna nella vita di Carla, che ha preso un anno di congedo dall’Università e muove passi sofferti sulla strada di una maternità inseguita con una determinazione che, piano piano, si trasforma in nevrosi ossessiva, che arriva a compromettere i fondamenti più profondi del suo essere: nel suo cammino la accompagnano il compagno Marco, un uomo solido e concreto che tuttavia, inevitabilmente, non riesce a comprendere fino in fondo il suo calvario, la compagna di tentativi di “incicognamento” Katia — precoce e spumeggiante aspirante madre —, il suo lunatico tesista Lucio, la madre orgogliosa e poco affettuosa – con cui Carla ha un rapporto problematico e a tratti conflittuale – e il ricordo dell’amatissima nonna Rina. Ma anche una lunga sfilata di esperti o sedicenti tali, ginecologi, chiropratici, naturopati, professionisti di medicina alternativa, perché quando l’obiettivo è avere un figlio, ogni strada può essere quella buona. E soprattutto le altre “difettose”, le cui storie trapuntano il romanzo, che passano e vanno, lasciandoci giusto un coriandolo volante delle loro storie, una parola di sfida, di impegno o di rassegnazione: sono le voci incontrate da Carla nelle sale d’attesa “reali” degli ospedali, ma anche nelle sale d’attesa “virtuali” che sono i forum, dove le aspiranti mamme si incontrano per raccontarsi comuni esperienze di vita (Cub – acronimo per Cerco Un Bimbo). Il romanzo racconta, con uno

stile evocativo e profondamente puntuale, la parabola interiore di Carla che, metaforicamente ma anche clinicamente, cerca la vita e trova in essa la morte, per poi tornare in vita. Un’opera prima che colpisce per la bellezza dello stile, che non inficia sulla sua immediatezza, e per la sincerità della storia che vi è narrata, in cui tutti, ma proprio tutti, non possono che sentirsi coinvolti. E oggi noi di Speechless abbiamo l’onore di avere con noi l’autrice di questo gioiellino di vita e bella scrittura: Eleonora Mazzoni, nata a Forlì e residente a Roma, è laureata in Lettere Moderne e diplomata alla Scuola di Teatro; di professione è attrice di teatro, cinema e fiction televisive. Io, lo confesso, la ricordo con grande affetto per il ruolo di Margherita Maffei, una donna forte e tormentata, che interpretava con grande intensità nella serie televisiva Elisa di Rivombrosa. Eleonora è madre di due gemelli concepiti in provetta. Speechless: Carissima Eleonora, benvenuta su Speechless e grazie per averci accordato questa intervista. Si dice spesso che scrivere e pubblicare un romanzo sia un autentico “parto”, ma per la prima volta mi trovo a colloquiare con un’autrice per cui il motore propulsivo che l’ha portata verso la scrittura è stato un “parto biologico”, inseguito e infine raggiunto. Raccontaci dell’intersezione tra il parto biologico e il parto letterario: quando e come dalla tua esperienza di vita è nato il desiderio di mettere per iscritto e poi di pubblicare la storia di una ricerca di maternità? Eleonora: Diciamo che l'in-

tersezione è avvenuta in medias res. Ancora non sapevo come sarebbe finita la mia ricerca di un figlio ma ero già ben avviata per la strada delle fecondazioni artificiali, abbastanza per avere maturato anche un certo indispensabile distacco. Per sollecitare la memoria emotiva dell'attore, Strasberg suggeriva di usare solo ricordi che avessero almeno 7 anni, cioè non evanescenti e ben sedimentati. Anche se per me ne erano passati solo la metà, sentivo che quella materia era entrata nelle mie fibre così profondamente da poter essere utilizzata con una certa disinvoltura e senza paura che mi sfuggisse dalle mani. In più mi sembrava una materia molto interessante da raccontare. Come se mi fosse capitato di aprire una porta su un mondo fino a quel momento sconosciuto, eppure reale, anzi realissimo, sommerso ma vivo, poliedrico e sfaccettato, che mi chiedeva di venire a galla. E che mi permetteva di indagare temi importanti: i desideri che non si realizzano, il nostro rapporto con il destino e con il tempo, la potenza e il mistero della vita e della morte. Poi inconsciamente sentivo che il parto letterario poteva essere un modo per surrogare quello biologico che faticava ad arrivare. SL: La tua protagonista, Carla, è una docente di letteratura latina, che vive di latinità e ha in Seneca un maestro di vita che riesce a confortarla nei momenti di maggiore afflizione, meglio di un fratello. Credi che i classici e, in generale, la letteratura riesca a rendere più lieve e consapevole la nostra vita? Come riesce Seneca ad aiutare Carla e come


Letteratura e quali sono stati i libri che hanno aiutato te nel corso della tua vita, magari fornendoti risposte inaspettate? EM: Credo che la letteratura e forse in genere la cultura debba “servire” la vita. Mi è sempre capitato, anche quando ero molto giovane, di innamorarmi degli scrittori che mi piacevano. Mi appassionavo talmente tanto da immaginare di uscire, parlare, viaggiare con loro, come se fossero miei fidanzati. All'inizio del romanzo Seneca è per Carla solo l'autore preferito. Mano a mano che va avanti le sue parole cominciano a risuonarle in maniera diversa, fino a contaminare la sua quotidianità. Al punto da cambiare, ad esempio, il rapporto con Lucio, il suo studente del cuore. Rapporto che da scontato e meccanico, quasi asettico, seppur venato di sensualità, visto che Carla è convinta che lui abbia un debole per lei, diventa reale. Il dolore che Carla prova ingravida le parole e pulisce il suo sguardo. E finalmente vede Lucio per quello che è, non più solo una proiezione dei suoi bisogni. Capendo che “non basta mai ripetere, sia pure in modo sapiente, la lezione”. Come a Carla, anche a me “da bambina i libri mi hanno salvata dalla noia e, quando nell'adolescenza l'angoscia era una condizione abituale, dalla disperazione”. Sono stati un conforto, la possibilità di capirci qualcosa, dentro e fuori di me, di amplificare la vita. E di sentirmi meno sola. Elencare i libri importanti sarebbe impossibile. Ne cito solo qualcuno. “Piccole donne” nell'infanzia. Moravia e “I promessi sposi” nell'adolescenza, Dostoevskij e Montale al liceo. La letteratura francese dell'800 all'Università, Genet, Stanislavskij, e “Il cinema secondo Hitchcock” di Truffaut nel mio periodo attoriale, la letteratura americana degli ultimi 20 anni ora. S: Uno dei temi dominanti di Le difettose è la “tardività” con cui esplode il desiderio di maternità: è innegabile che nella nostra società le donne (ma anche gli uomini) si affaccino alla volontà di costruirsi una famiglia sempre più tardi. Per chi intraprende

studi universitari è anche peggio, perché, dopo tanti anni di studio, il mondo del lavoro tende a bloccare i giovani in un precariato sempre più lungo, inibendo la loro volontà di fare progetti a lungo termine. Non parliamo poi di chi, come Carla, intraprende la strada della carriera universitaria. Secondo te in che misura, dunque, l’attuale situazione di precarietà lavorativa influisce sulla dilazione del desiderio di costruirsi una famiglia? E quanto, invece, può essere collegata alla “precarietà emotiva” e quindi alla sempre più attuale e diffusa “liquidità” delle relazioni sentimentali? EM: La precarietà lavorativa fa vivere una continua ansia, un senso di insufficienza per ciò che potremmo e vorremmo fare e non riusciamo. In questa “non riuscita” mette radici la mancanza di valore che ci attribuiamo. È come se la società sfrenasse le ambizioni e ti costringesse, con il dilagare della tecnologia, a un continuo confronto con il mondo intero (un confronto in cui risultiamo sempre in difetto, visto che ci saranno sempre moltissime persone che hanno fatto più di noi) ma non avesse cure per le inevitabili frustrazioni. Questo sentimento di perenne insoddisfazione facilmente si travasa nei rapporti, diventando precarietà emotiva, incapacità di costruire. C'è anche un terzo elemento. Siamo pionieri di una ridefinizione delle relazioni familiari. La famiglia borghese, centrale anche nella nostra cultura cattolica, non affascina più. Non è percepita come il traguardo che si vorrebbe raggiungere. In Italia ci si sposa ormai molto meno che in Europa ma si divorzia con la stessa percentuale degli altri paesi. In più siamo i primi nella lista per quanto riguarda la violenza e gli omicidi all'interno delle mura domestiche (non solo il marito che ammazza la moglie ma la moglie che ammazza i figli o i figli che ammazzano i genitori). Non so dare risposte. Ma sicuramente un modello che fino a 35 anni fa ancora funzionava ora ha messo delle crepe. S: Parliamo di Carla e del rapporto con le

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donne della sua famiglia: con sua madre ha un legame problematico, perché alla grande stima reciproca è sempre stata contestuale una sofferta carenza d’affetto. Con la nonna Rina, invece, è costante una profonda connessione di spirito e una forte condivisione d’intenti, fin da quando Carla quindicenne fu da lei accompagnata ad abortire, dopo essere rimasta inavvertitamente incinta del fidanzatino. In che modo la tua protagonista fa propri gli insegnamenti delle donne della sua famiglia? In particolare, quanto è necessario fare pace con il proprio passato per accogliere con serenità il futuro? EM: Secondo me è fondamentale un'accettazione attiva del proprio passato. Carla ha un rapporto di madre-figlia con la nonna, perché la nonna, dopo essere stata, a causa della depressione, una cattiva madre con sua figlia, la madre di Carla, ad un certo punto, grazie all'amore di un uomo, è rinata (“Lei diceva che ogni persona nasce due volte. Quando trova il suo posto nel mondo è la nascita più vera”) e solo a quel punto è diventata genitrice. Madre si diventa. Non si è. È un'operazione culturale, non un frutto della natura. Anche Carla alla fine, aldilà del figlio che non arriva, diventa genitrice. Di sua madre, di cui capisce il dolore e i conformismi che l'hanno ingabbiata. Dei suoi studenti. Di se stessa. E capisce le ricette di sua nonna Rina, ad esempio quel suo “ci vuole un pizzico di ambizione, un pizzico di allegria e uno di pigrizia”. Vuole dire che il principio che trasforma, corregge e migliora le cose deve essere miscelato con quello che le accoglie e le accetta. S: Il desiderio di maternità rischia pericolosamente di condurre Carla verso l’autodistruzione e mina, oltre che la sua stabilità fisica ed emotiva, anche quella della relazione con il compagno Marco. Fino a che punto ci si può spingere? Qual è il momento in cui, appunto, ci si accorge che combattere per avere un figlio e vivere in funzione di questo desiderio può dare

dipendenza e compromettere tutto ciò che si è faticosamente conquistato? EM: Ci si può spingere fino a perdersi. Te ne accorgi perché il desiderio scava un vuoto. Niente ha più sapore. Interesse. A volte è più evidente. Ho parlato con donne che hanno vissuto una vera e propria disperazione. Anch'io l'ho provata. Addirittura nasce l'idea del suicidio. Dentro a quel fallimento (così primordiale) è come se convogliassero tutti gli altri fallimenti della nostra vita, e fossero capaci di risucchiarci in una terra desolata, dove si rinuncia alla lotta e non ci sono più né scopi né direzioni. S: Immagina di dialogare a tu per tu con un’aspirante madre che, a seguito di tanti tentativi “naturali” di avere un figlio, comincia a prendere in considerazione la Pma: che cosa le consiglieresti? Quali sono i primi passi di questo viaggio? E soprattutto: quali sono le parole che avresti voluto sentire quando hai cominciato? EM: Le direi di trovarsi delle compagne di viaggio. Siamo tante. Tantissime. Sapere questo rende meno sole. Le consiglierei di stare ancorata al presente e di partire da quello che ha. Il rapporto col compagno, ad esempio. La scienza può aiutarti molto ma non garantisce i risultati. Occorre saperlo. Occorre prepararsi, come suggeriva Seneca. Io consiglierei anche una psicoterapia. In molti centri ormai è prevista. Comunicare è il primo modo per non subire la realtà, per scrollarsi di dosso la vergogna e i giudizi altrui, per dare più valore al percorso che ai risultati. Sapendo che un figlio non cambia mai nulla, perché è dentro di noi il campo di battaglia. S: Nel tuo libro ci sono continui riferimenti alla situazione italiana relativa alla Pma, specie se messa a confronto con gli altri paesi europei: in che cosa sarebbe sperabile che l’Italia si aprisse? Che cosa si può fare all’estero che, invece, in Italia non è consentito? EM: La nostra legge 40 sulla procrea-


Letteratura zione medicalmente assistita è la più restrittiva al mondo. Molto meglio la Turchia. O addirittura l'Irlanda (dove non si può nemmeno abortire). Io credo che vietare non serva. Se non a discriminare chi non ha soldi. Chi ce li ha, aggira la legge andando all'estero. Per fare l'eterologa, ad esempio. O crioconservare gli embrioni e fare la diagnosi preimpianto (anche se negli ultimi 2 anni e mezzo, grazie ai ricorsi vinti in Corte Costituzionale, queste due pratiche sono permesse anche in Italia, a discrezione del medico). Credo che per una cosa così intima come il voler diventare genitori lo stato non possa dettare regole ferree. Ci deve essere una normativa (tutti i paesi ce l'hanno, anche la progressista Spagna che ci ha lasciato, per ora, Zapatero) ma una rigidità come abbiamo noi proprio no, è inaccettabile, è quasi ottusa. Alcuni tirano fuori lo spauracchio dell'eugenetica o delle mamme-nonne. A parte che se una coppia ha una patologia grave che potrebbe trasmettere ai figli, rischiando di farli morire pochi anni dopo averli fatti nascere, mi sembra crudele non utilizzare le opportunità della scienza. Non si cercano figli perfetti, solo figli sani. Non c'è nulla di male, mi pare. Per quanto riguarda le mamme sessantenni, in 6 anni di ricerca di un figlio, avendo incontrato nella vita e in chat migliaia di donne, non ne ho conosciuta neppure mezza. Sono casi marginali, come in natura la cinquantanovenne russa che un anno fa ha naturalmente partorito un bimbo. Piuttosto occorrerebbe allenare la coscienza. Per capire cosa fare e cosa no, cosa si desidera veramente, fino a che

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punto conviene spingersi. Ma con uno sguardo umano, rispettoso della vita ma totalmente laico e antropocentrico come quello di Seneca. Per questo ho scelto proprio lui. Flaubert diceva: “Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo”. Seneca rappresenta proprio quel periodo e quella condizione. S: Ora una panoramica sul “parto letterario”: com’è stato il percorso che ha portato il dattiloscritto di Le difettose dal tuo computer alle scrivanie di Einaudi? Com’è stato confrontarsi da subito con una grande e importante casa editrice? Come si è svolto il lavoro di editing e revisione del tuo testo? E, più in generale, come stai vivendo l’esperienza della pubblicazione? EM: E' stato tutto semplice e pieno di fortuna. La dea mi ha messo i bastoni tra le ruote per diventare madre ma mi ha spianato la strada come scrittrice. Ci ho visto una specie di compensazione. Appena finito di scrivere la prima versione accettabile (era più o meno la mia terza), ho fatto contemporaneamente 2 cose. Ho trovato su internet la mail di un'importante agente. Le ho inviato la sinossi. Lei si è mostrata interessata e mi ha chiesto il manoscritto. Nello stesso tempo il mio più caro amico, uno sceneggiatore, ha fatto leggere 2 capitoli a una sua amica scrittrice, Mariolina Venezia. Lei si è appassionata e mi ha chiesto il resto. Dopo 20 giorni mi ha contattato Daniela Bernabò per dirmi che mi prendeva in scuderia. Qualche giorno dopo Dalia Oggero dell'Ei-

naudi, che aveva avuto il libro da Mariolina. Non ci potevo credere: 2 sì prestigiosi senza aver praticamente fatto nulla. Il rapporto con l'Einaudi è stato disinvolto e sereno. Tranquillo. A parte il giorno che sono salita a Torino per conoscere Dalia e Paola Gallo e davanti alla stanza del mercoledì (dove si riunivano Ginzburg, Pavese, Calvino, Vittorini) volevo svenire. Anche il lavoro di editing è stato breve e leggero. Non ho vissuto quello che a volte si sente dire: “Hanno stravolto il romanzo”. No. Strutturalmente non è stato toccato nulla. C'è stata solo un'asciugatura. Piccoli tagli, direi (qualche frase, qualche parola). La pubblicazione è stata emozionante. Come un debutto teatrale. Sei lì sul palco, con tutti quegli occhi che intravedi e che ti guardano. Temevo che, vista la quantità di libri che esce ogni settimana, non avrei avuto la minima attenzione, invece per essere un'esordiente non mi posso lamentare. S: Sei una scrittrice esordiente, hai una formazione letteraria, ma nasci attrice: ti piacerebbe che Le difettose diventasse un film? E saresti disposta a dare il tuo volto a Carla sullo schermo, se ne avessi la possibilità? EM: Il romanzo potrebbe diventare un film, dal momento che sono già stati opzionati i diritti cinematografici. Io però non voglio interpretare Carla. Sarebbe un'occasione ghiotta. In Italia non ci sono ruoli da quarantenne così belli. Ma no. Odio la dismisura. Sarebbe troppo. Lavorerò di sicuro alla sceneggiatura e alla composizione del cast. Ma resterò dietro.



Letteratura “Ogni uomo porta in sé la forma intera un metodo pericoloso: condizione” dell ’u mana

SPECIALE

SABINA SPIELREIN e il femminile rimosso della civiltà

Michel de Montaigne1

di LENI REMEDIOS

Nel 1977, in uno scantinato del Palais Wilson di Ginevra, vecchia sede di un prestigioso Istituto di Psicologia, viene ritrovato uno scatolone colmo di documenti. Il ritrovamento è il frutto casuale di un paziente lavoro di ricerca capeggiato dall’analista italiano Aldo Carotenuto. Di cosa si tratta? Lo scatolone contiene frammenti di diario e un carteggio importante fra tre soggetti: il padre della Psicanalisi Sigmund Freud, il suo discepolo Carl Gustav Jung, in seguito allontanatosi per fondare una nuova teoria, e una certa Sabina Spielrein, psicanalista ed autrice del diario. Il materiale porta ad emersione particolari finora sconosciuti sulle vicende storico-biografiche dei tre personaggi, vicende che hanno inciso in maniera inequivocabile sugli sviluppi teorici di ognuno di loro. Ciò che viene alla luce turba e sconvolge talmente il mondo intellettuale da stimolare una lunga serie di saggi, opere teatrali e cinematografiche, di cui il film di Cronenberg, “Un metodo pericoloso”, rappresenta solo l’ultima appendice. Insomma, anche figurativamente parlando, Sabina Spielrein — dimenticata, rimossa, incompresa — emerge dal sottosuolo della civiltà, dall’inconscio della storia della psicologia, simboleggiato così bene dallo scantinato del palazzo ginevrino, per rivendicare la sua verità. Sabina Spielrein è il perturban2 te della storia della psicoanalisi. Il primo dei lavori a lei dedicato è naturalmente il libro di Carotenuto Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud: uscito nel 1980 e presto tradotto in numerose lingue. Esso contiene le lettere scambiate fra i tre3, quanto ritrovato del diario ed ovviamente la propria visione critica dell’intera vicenda. Fondamentalmente su questo testo si basa il film di Roberto Faenza “Prendimi l’anima”, uscito nel 2002. Ma chi era Sabina Spielrein? E la sua testimonianza parla a noi, uomini e donne della civiltà contemporanea? A malincuore essa rimane per i più “l’amante di Jung”.

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"Prendimi l'anima'

Aldo Carotenuto riporta con profondo rammarico come la principale preoccupazione del pubblico, ad ogni sua presentazione del libro, fosse se Jung e la Spielrein avessero avuto rapporti sessuali. Intendiamoci: quello a cui si rivolgeva Carotenuto non era un pubblico generico, egli si rivolgeva ad intellettuali, principalmente psicologi e psicanalisti. ”Dobbiamo domandarci perché gli analisti sembrano ossessionati da questo punto che delle volte sembra essere non un problema, ma il problema per eccellenza4”. Non è questo il punto, dice Carotenuto. E infatti l’eventualità non avrebbe aggiunto o tolto nulla ad un rapporto che di sicuro aveva la dimensione totalizzante dei grandi amori, in cui le due personalità erano in una simbiosi animica sorprendente. Senza contare che da un pubblico di intellettuali ci si aspetta di indagare a fondo sulle ripercussioni teoriche che una personalità come Spielrein abbia avuto sui fondatori rispettivamente della psicoanalisi e della psicologia analitica. Delle discipline in cui, lo puntualizzo per il lettore non avvezzo a certi temi, sussiste un corto circuito assente in tutte le altre scienze: il soggetto e l’oggetto dell’indagine sono lo stesso, è l’uomo che indaga l’uomo. Il film di Cronenberg – per inciso, non certo uno dei suoi migliori – prende spunto da un libro uscito nel 1993 A most dangerous method scritto da John Kerr, uno psicologo clinico americano. Christopher Hampton, sceneggiatore di Cronenberg, ne trasse una pièce teatrale che il regista canadese volle in seguito portare sul grande schermo. Il testo di Kerr, che appone al titolo una sottile differenza enfatica rispetto al

film (“Un metodo molto pericoloso”, tratto da un’espressione di William James), parte dalla scoperta di Carotenuto per avventurarsi in una favolosa opera di contestualizzazione storica del materiale ritrovato, e già qui si rivela una differenza fondamentale fra il testo e il film: il lettore sappia che si tratta di due cose profondamente diverse e forse, nella leggera modifica del titolo, Cronenberg intende già manifestarlo. Il film prende il triangolo Jung-Spielrein-Freud e lo isola completamente dal contesto. I pochi altri personaggi che compaiono nella scena, come la moglie di Jung oppure Otto Gross, che mise seriamente in crisi Jung sulle proprie inclinazioni poligame, sono delle mere tangenti rispetto a quel che interessa della storia. Il testo di Kerr, al contrario, è corale: esso esamina tutti gli attori che hanno movimentato le scene di quegli anni fatidici per la storia delle dottrine psicologiche e, osiamo dire, per la storia della civiltà occidentale. Il pregio di questo testo risiede nel ricostruire dettagliatamente e scientificamente i fatti di quegli anni con la resa narrativa di un romanzo. Una delle scene chiave del film, che manifesta l’intento del regista, è quella in cui Freud sviene dinanzi a Jung (secondo svenimento, il primo avvenne alla vigilia del viaggio in America): qui Cronenberg sceglie di ambientare la scena alla fine di un imprecisato incontro fra studiosi, dove, nell’atto di raccogliere le proprie carte, tutti se ne vanno lasciando soli Freud e Jung a discutere. Potrebbero essere delle macchie indistinte ad andarsene, sarebbe la stessa cosa. Nella realtà si trattò di una riunione molto vivace che si tenne in un hotel di Monaco, dove tutti presero la parola, soprattutto in merito alla figura egizia del faraone Amenhotep, che secondo Freud covava


Letteratura desideri parricidi. Alla fine della discussione la tensione sfocia nello svenimento. Freud fece ovviamente di tutto, nell’occasione, per rimarcare l’ingratitudine del “figlio ed erede” Jung, sempre più orientato verso una propria nuova teoria; i dietro le quinte di questa riunione sono anche più interessanti al riguardo. Una metafora efficace per far capire la dinamica della storia di Sabina Spielrein all’interno di questa coralità, è quella del telaio: dobbiamo immaginare la Spielrein come la navetta che si muove fra le trame e gli orditi, ovvero fra i fili tenuti assieme dal telaio. Ogni trama ed ogni ordito – i singoli protagonisti – vengono accuratamente esaminati e sviluppati da Kerr. Non solo Freud e Jung: Bleuler, Forel, Flournoy, Riklin, Abraham e molti altri... tutti vengono in qualche modo solcati dalla navetta che li attraversa e che, fino alla fine degli anni ’70, sarà relegata nel buio, costringendo a lasciare una matassa di fili non del tutto decifrabile5. Moltissimi aspetti potrebbero essere esaminati nella storia (nelle storie) che Sabina Spielrein riporta nel suo diario. Di questi ne scelgo due, riassumendoli simbolicamente in due parole cariche di significato: silenzio e femminile. “Il silenzio che così a lungo ha atteso la sua storia è emblematico di un silenzio ancora più insidioso che gradualmente ha sorpreso la psicoanalisi durante questo tempo6”. “...Sabina, pioniera della psicoanalisi, figura fino a poco tempo fa negata, rimossa o fraintesa...7”

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Ed è proprio la parola “rimossa”, evocata da Lella Ravasi Bellocchio nel suo bel libro sulle madri, il termine più appropriato in merito alla figura di Sabina Spielrein, ma soprattutto in merito a quel che essa incarna e simboleggia. Sembra un paradosso per la psicoanalisi, no? Prima di avventurarmi nelle mie speculazioni vorrei richiamare l’attenzione del lettore, soprattutto di quello digiuno di nozioni psicoanalitiche e della contestualizzazione storica in cui esse nacquero, ricordando come la vicenda documentata da Kerr e ritratta da Cronenberg si svolga all’inizio del ventesimo secolo, un periodo in cui i rapporti e i costumi familiari in seno alla borghesia – in primis quelli matrimoniali – non sono molto dissimili da quelli descritti pochi decenni prima negli ottocenteschi romanzi di Thomas Hardy. Mi piace iniziare la mia riflessione sulla psicanalisi e il femminile prendendo in considerazione non certo le parole di una femminista militante, tutt’altro. Scrive Romano Màdera in relazione a Freud: “La femminilità, insieme all’infantile, all’arcaico, allo psicopatologico, designa il territorio, ancora non bonificato, che si estende oltre le dighe sullo Zuidersee: il mondo dell’inconscio. La metafora scelta da Freud per parlare dell’oscurità che la femminilità oppone alla ricerca psicoanalitica, il “continente nero”, condensa, ben al di là di una attenta disamina critica, il pregiudizio che accomuna l’intellettualià euroamericana maschile della prima metà del Novecento8”.

Vincent Cassel


61 Riporto inoltre le parole dello stesso John Kerr riguardo all’epoca in cui vivono i tre protragonisti principali: accanto ai lati oscuri, alle ipocrisie, alle falsità "A Dangerous Method' “Era parimenti un mondo di grandezza immaginata, di importanti destini che aspettavano di essere esauditi (...) Ovunque, dai caffè di Vienna ai club degli ufficiali dell’esercito del Kaiser, gli uomini immaginavano di poter diventare il prossimo Darwin o il prossimo Bismarck o il prossimo Nietzsche. Nell’avere il suo proprio destino eroico da esaudire, Spielrein era figlia del suo tempo. L’unica differenza era che era una donna9”. UNA RAGAZZA QUALUNQUE? Sabina Spielrein giunge dalla nativa Russia all’ospedale Burgözli di Zurigo, Svizzera, nell’agosto del 1904. È appena diciannovenne, ma è malata già da diversi anni. La diagnosi del medico che la prende in cura, Carl Gustav Jung, è di isteria psicotica. Nel giugno del 1905 viene dimessa, continuando la terapia da esterna. Vive da sola in un appartamento a Zurigo, in seguito all’iscrizione alla Facoltà di Medicina. Considerando i tempi lunghi della malattia e la sua gravità, la guarigione è stata straordinariamente veloce ed efficace: “L’avvenimento più significativo nella giovane vita della Spielrein fu che, qualsiasi cosa fosse avvenuta nel corso della terapia con Jung al Burghölzli, questa la guarì 10”. La malattia di Sabina affonda le sue radici nell’atteggiamento punitivo del padre, il quale usava percuoterle il sedere nudo (particolare che Jung censurerà nella sua lettera a Freud, dicendo che la ragazza fu traumatizzata nel vedere il fratello percosso). Ciò probabilmente ingenera strane fantasie anali nella ragazzina, la quale non può sedersi a tavola senza

immaginare i familiari al tavolo con lei nell’atto di defecare. Cerca inoltre bizzarramente di stimolare e al contempo bloccare la propria defecazione rannicchiandosi e puntando il tallone sull’ano. In età adolescenziale non riuscirà più a guardare le persone negli occhi e la situazione si aggraverà con ripetuti atti masturbatori accompagnati da un pesante senso di colpa. Ma è degno di nota anche l’atteggiamento perverso di una madre anaffettiva, la quale, per di più, sfogò la propria rabbia verso il mondo maschile sulla figlia, entrando in competizione con i suoi corteggiatori e vietando nel modo più assoluto qualsiasi tipo di educazione sessuale, tanto da intervenire segretamente presso le autorità scolastiche russe per far evitare alla figlia la lezione di biologia sulla riproduzione umana. Sabina arriva quindi adulta a non sapere nulla della sessualità, e di questo particolare fondamentale, unito al rapporto malsano con la madre, non vi è sorprendentemente alcuna menzione nella diagnosi di Jung, né nelle sue lettere a Freud. L’altro dettaglio determinante è che Sabina è una ragazza colta: nella Russia dell’epoca l’emancipazione femminile era molto più all’avanguardia di alcuni paesi europei, permettendo alle donne di frequentare il liceo (anziché accontentarsi di un tutore privato) e di iscriversi all’università. Le pazienti del Burghölzli vengono da famiglie povere o della medio/bassa borghesia, hanno generalmente un’educazione minima. La paziente venuta dalla Russia è quindi molto più acculturata delle coetanee svizzere e oltre a ciò rivela fin da subito un’intelligenza e un’intuizio-


Letteratura ne non comuni. Insomma, si capisce subito che Sabina Spielrein non è una ragazza qualunque. Tanto che sarà lo stesso Jung ad incoraggiarla sulla strada della carriera scientifica come psicoanalista. Il giovane Jung, dunque, pensa bene di coinvolgere questa straordinaria paziente come assistente nei suoi esperimenti col reattivo verbale, in cui ha modo di verificare le teorie freudiane. Dopo la dimissione, Sabina continuerà la terapia con Jung, recandosi settimanalmente nel suo studio: probabilmente è lì che queste due sensibilità straordinarie entreranno in un più profondo rapporto animico, in cui non è improprio nominare la parola amore. In Sabina Spielrein Jung rintraccia molte parti di se stesso. E se, in alcuni suoi passaggi giovanili, si nota un certo atteggiamento e una posa di superiorità maschile verso la mente femminile più facilmente impressionabile, Kerr sottolinea quelli che erano i fantasmi di Jung: le fantasie anali di Spielrein erano ben poca cosa rispetto alle fantasie del giovanissimo Jung, in cui Dio defecava spudoratamente sul tetto della cattedrale di Basilea e un enorme fallo compariva all’interno di un’oscura caverna11. In entrambi vi è inoltre un forte anelito spirituale assolutamente collegato, non sganciato, alle immagini oscene scatenate dalla loro fantasia. Ma naturalmente il rapporto fra i due nasce sbilanciato, asimmetrico12 : non bisogna dimenticare che, per quanto abbia avuto un’evoluzione, è pur sempre un rapporto medico-paziente, in cui il primo deve tenere saldamente in mano le redini e far sì che l’emotività e le dinamiche affettive del paziente non travolgano entrambi. Non è questo, però, che accadde e Jung decide di chiedere aiuto a colui che ha designato come padre e maestro: Sigmund Freud. LA MEDIAZIONE Jung chiede aiuto a Freud, ma in maniera

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alquanto contorta: un po’ confessa e un po’ no, un po’ mente, un po’ omette e lo fa comunque molto tardi (la prima lettera è del 1906, la “quasi confessione” solo nel 1909!). Freud dal canto suo lascia capire che ha intuito la situazione, ma cerca di muoversi in maniera diplomatica, suggerendo alla Spielrein di lasciar perdere la faccenda per il bene di tutti: “le ho suggerito una dignitosa liquidazione, per cosí dire, endopsichica di tutta la faccenda13” e soprattutto cerca di assolvere Jung il più possibile, adducendo la responsabilità del problema alle giovani pazienti: “la capacità di queste donne di mettere in moto come stimoli tutte le astuzie psichiche immaginabili, finché non abbiano raggiunto il loro scopo, costituisce uno dei più grandiosi spettacoli della natura14”. Insomma, oltre alla relegazione del femminile nella sfera del primitivo, siamo

alla mentalità della donna come Eva tentatrice. In questo frangente, prima della rottura, bisogna ricordarsi che il rapporto Freud-Jung si può scindere in due parti: una parte contrassegnata da una forte carica affettiva, dove i due si


63 compiacciono genuinamente dei ruoli di padre e figlio; e una parte schiettamente utilitarista. A Freud, Jung appare come l’erede ideale del suo impero teorico per una miriade di ragioni, si potrebbe dire brutalmente che Jung gli serva: non è ebreo, come tutti i suoi seguaci viennesi, e a Freud serve un psicanalista “ariano” che dia una più vasta risonanza alle sue teorie. Ed è geniale. Freud non ha una grande stima dei suoi seguaci viennesi: nello svizzero Jung, giovane, intraprendente e con una formidabile capacità intuitiva, vede una grande speranza, forse, viene azzardato, una proiezione di quel che avrebbe voluto essere da giovane. Da parte di Jung: è all’inizio della sua carriera e Freud gli serve per lanciarsi nel mondo scientifico. Le teorie freudiane da subito destano la sua sincera attenzione, tanto da

applicarle in ambito clinico sui pazienti del Burghölzli. Ma Jung, come sottolineano sia Kerr sia Carotenuto, era consapevole sin dall’inizio delle proprie divergenze dal maestro, soprattutto sul concetto freudiano di libido, spiegato come

Sabina Spielrein

mera energia sessuale, cosa che Jung considera fortemente riduttiva rispetto ad altre istanze dell’essere umano, legate al proprio destino e di natura spirituale. Un po’ per la sua propria confusione interiore (“Io ero pieno di dubbi!15” ), un po’ perché, appunto, Freud gli serve, persevera nel mantenere un atteggiamento di venerazione verso il maestro, a tratti sembra quasi servile: ogni volta che Freud lo redarguisce assume un atteggiamento remissivo, scusandosi e premurandosi di ribadire quanto il rimprovero sia stato per lui prezioso. Quindi c’è questa dinamica fra i due, che oscilla fra i contenziosi padre/figlio e il mantenimento dei rapporti diplomatici perché si servono l’uno dell’altro. Logico che un rapporto così non può essere genuino fino in fondo, schietto. Per quanto forte e viscerale avrà inevitabilmente dei coni d’ombra. Sabina Spielrein non si pone nessuno di questi problemi. Non si lascia raggirare dalle parole dei due psicanalisti, che cercano di “liquidare” il suo caso in maniera affrettata e maldestra. Certo: né Freud aveva bisogno di uno scandalo riguardante il suo erede designato, né tantomeno Jung aveva bisogno di rovinarsi una carriera appena iniziata. Il grosso errore che fanno Freud e Jung è quello di non aver mai smesso di considerare la Spielrein una paziente e di averne grossolanamente sottovalutato le doti intuitive. Sentiamo un po’ come redarguisce Freud ad un certo punto della vicenda: “Ma anche lei è astuto, Professore. (...) Si desidera però evitare un momento sgradevole, no? Neppure il grande ‘Freud’ riesce sempre a rendersi conto delle Sue debolezze16” Non è necessaria una laurea in psicologia per intuire l’effetto dell’ammonimento della studentessa Spielrein, giustamente impertinente e che punta dritto alla verità, su un uomo della statura di Freud: un uomo che considerava le


Letteratura donne alla stregua della dimensione primitiva, infantile, non del tutto sviluppata. La scossa deve essere arrivata pungente, anche perché si insinuava dritta dritta fra le pieghe di un assordante silenzio fra lui e Jung. E non sarà l’unica volta in cui Sabina Spielrein si dimostrerà molto più perspicace dei due. LA NON-CONVERSAZIONE John Kerr, con una efficace espressione, afferma che accanto alle lettere e al rapporto ufficiale, fra Freud e Jung si sviluppò negli anni una non-conversazione17. Il peso del nondetto verrà squisitamente rimosso fino all’estremo, quando si farà strada da sé e imploderà tragicamente nel frangente che porterà poi alla definitiva rottura fra i due. Uno dei non-detti riguarda direttamente lo scambio di lettere di cui sopra: solo anni dopo Freud darà quella “risposta mancata18”, in Osservazioni sull’amore di traslazione del 1914. Qui ammetterà la totale responsabilità dell’analista nel cadere in un eventuale errore, laddove prima, come si è visto, spostava tutto sulla “diabolicità della paziente che induce in tentazione l’analista, cercando di far leva sui nodi conflittuali e irrisolti 19”. È un non-detto che riguarda Jung molto da vicino e che permette a Freud di assolvere il suo “erede” per tutta la durata del loro idillio. Lo assolve in quello che fu senz’altro un errore umano commesso maldestramente, confuso dall’emotività, ma pur sempre un errore. Chiariamo una volta per tutte: lo sbaglio di Jung non fu certo quello di innamorarsi di Sabina Spielrein. Per quanto un analista debba evitare il più possibile il coinvolgimento emotivo, esso è un essere umano come gli altri, succede. Bisogna inoltre tener presente, come ben puntualizza Carotenuto, che gli analisti di quest’epoca (della psicoanalisi nel suo nascere) non erano sufficientemente preparati ad affrontare qualcosa di così potente come il transfert e soprattutto il contro-transfert, ovvero il coacervo di emozioni che il paziente proietta sul medico e, specularmente, i nodi emotivi irrisolti che il paziente può risvegliare a sua volta nell’analista.

L’e r r o re di Jung fu in come gestì questa sua vicenda emotiva in relazione al mondo esterno. Sono tanti gli episodi, in questo frangente, che Sigmund Freud ritraggono il giovane Jung comportarsi davvero in maniera poco onorevole. Bisogna ricordarsi che qui stiamo parlando di uno Jung trentenne, molto ambizioso e al contempo emotivamente instabile. Poco dopo la rottura con Freud e il distacco da Sabina Spielrein (due delle persone più importanti della sua vita!) avrà un tracollo psicologico che lo porterà ad affrontare per parecchi anni i suoi fantasmi interiori, la cosiddetta nekya20 . Ma un altro clamoroso non-detto riguarda molto da vicino Freud, e su questo la comunità scientifica degli psicoterapeuti e degli studiosi ha dimostrato una forte, incredibile resistenza. IL TRIANGOLO Nel 1957, durante un incontro in casa sua con il professore americano John Billinsky, Jung fa un’esternazione che sconvolge non poco la comunità psicanalitica: rivela di essere a conoscenza di un rapporto extra matrimoniale che Freud avrebbe intrattenuto per molti anni con la cognata e segretaria, Minna Bernays. Successivamente parlerà di questo particolare ad altre due persone, guadagnandosi l’appellativo di “pettegolo”. Io non sono proprio di questo avviso. Una persona che si dica pettegola non aspetta certo cinquantanni prima di sbarazzarsi di un segreto. Jung si tiene dentro questa cosa per un periodo considerevole. Poi, finalmente, sbotta. È come se si fosse liberato da un peso. Ora può parlarne liberamente anche con altri21. Esaminiamo più da vicino la vicenda: nell’estate del 1909 Freud e Jung vengono invitati a tenere delle conferenze in America, dove troveranno ad accoglierli un pubblico entusia-

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sta. Ma la rottura si stava già consumando, come una ruggine che erode silenziosamente e inesorabilmente un pezzo di metallo. Il seguente anedCarl Jung doto rappresenta proprio il punto di rottura: durante il viaggio di andata Jung, Freud e Ferenczi si analizzano vicendevolmente i propri sogni. Freud racconta del suo sogno in cui compaiono lui, la moglie e la cognata. Jung chiede maggiori delucidazioni ma Freud si rifiuta, adducendo la giustificazione che ne avrebbe perso in autorità. Questo simboleggia per Jung l’inizio della fine: per lui è inconcepibile che la verità venga sacrificata nel nome di una autorità personale. Jung, che sapeva del triangolo amoroso di Freud dalla stessa Minna, in realtà si aspettò sempre una confessione, che avrebbe reso da una parte l’amicizia più genuina, dall’altra avrebbe contribuito a chiudere correttamente la cerniera fra biografia e teoria, così fondamentale in queste discipline (Jung ne farà una bandiera del suo impianto teorico, tanto che Màdera parla di mitobiografia). Sotto sotto forse si augurava che le sue mezze confessioni su Sabina Spielrein aiutassero a suscitare una confidenza dall’altra parte. Ma la confessione non arrivò mai. La cosa curiosa è il silenzio e l’imbarazzo degli studiosi quando Billinsky riportò le rivelazioni di Jung. C’è chi minimizzò la vicenda, sottolineando l’inutilità di questo dettaglio. Chi non ne accennò nemmeno nelle proprie pubblicazioni, pur occupandosi dettagliatamente della biografia di Freud. Per la cronaca: nemmeno nel film di Cronenberg si accenna sia pur minimamente a questo. Insomma: il mondo degli studiosi applicò fino in fondo quella preservazione dell’autorità che Freud aveva evocato come una

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barriera nei confronti di Jung. Continuò anche in questo frangente a difendere la persona, non le idee22, portando avanti quel tragico dogmatismo che purtroppo contraddistinse in senso negativo la nascita della psicoanalisi e che le procurò dure e giuste critiche sin dalla sua nascita23. Non bisogna dimenticare due cose: che l’amore per la verità non ha nulla a che vedere con la predisposizione al pettegolezzo; e che stiamo parlando del padre della psicoanalisi, colui che ha fondato il suo impero sulla teoria della sessualità. Faccio mie le parole di Carotenuto, dedicate al caso Spielrein ma valide anche qui: “(...) i documenti non avevano a che fare con gente comune, che ha il diritto a conservare l’anonimato e la riservatezza della propria vita, ma con persone le cui idee hanno cercato di cambiare il mondo, offrendo dei paradigmi per interpretarlo 24”. I silenzi e le omertà fra i due grandi della psicologia hanno, secondo Kerr, inficiato al massimo grado la pericolosità già insita nel “metodo”, e ciò in un periodo così delicato come la sua origine25. La pericolosità, a cui allude primariamente il titolo, risiede nel fatto che in realtà quello psicanalitico non sia un metodo, poiché Freud non ha mai fornito gli strumenti necessari al resto della comunità scientifica per applicare le sue teorie in ambito clinico. L’ha sempre promesso ma non l’ha mai fatto, implicando che chi volesse utilizzare le sue teorie dovesse prima di tutto rivolgersi all’origine, cioè a se stesso. Un atteggiamento fortemente anti-scientifico, che lasciò spazio a numerose ambiguità e margini interpretativi. SABINA PSICOANALISTA FREUDIANA Quel che manca prepotentemente nel film di Cronenberg è una visione prospettica della storia: il film si chiude con la separazione definitiva di Sabina Spielrein da Jung e sembra che la parabola di vita importante di Spielrein si concluda lì. In comparazione il film del nostro Faenza ha questo pregio: svilup-


Letteratura pare la parabola di Spielrein in quasi tutta la sua interezza, compreso l’esperimento dell’asilo bianco in Russia, dove ella applicò i principi freudiani fino a che la cecità e la stoltezza dello stalinismo non mise al bando la psicanalisi. Nel 1911

opposto resistenze alla tesi della Spielrein, la fa sua. In realtà non è la prima volta che Freud adopera questo meccanismo, opporsi o dimostrarsi indifferente all’idea di un altro per poi rielaborarla e farla propria26. Ma è interessante vedere – e aiuterà a capire la natura di questa miscomprensione – come le idee di Spielrein furono accolte la prima volta in cui le presentò a Vienna presso l’Associazione psicanalitica. Ciò ci illuminerà ulteriormente sul rapporto distorto col femminile che aveva quel che Màdera definisce “l’intellettualità euroamericana

"A Dangerous Method'

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Sabina Spielrein si laurea e nel 1912 esce un suo importante lavoro, forse il più importante: La distruzione come causa del venire all’essere, testo comunemente ritenuto precursore del concetto freudiano di pulsione di morte. In realtà, precisa John Kerr, in questo c’è una grande miscomprensione culturale e sembra tuttora esserci abbastanza confusione su questo punto, complice lo stesso Freud. Quando pubblicó Al di là del principio di piacere nominò in nota la Spielrein (l’unico riconoscimento che lei ebbe: una citazione in una nota a piè pagina), ammettendo di non aver ben compreso del tutto le sue teorie. Almeno in questo Freud è onesto. Però intanto, dopo aver inizialmente

maschile della prima metà del Novecento”. LA FALSITÀ ORGANICA DELLA DONNA Come si evince anche dal film, Sabina Spielrein, dopo aver assimilato gli insegnamenti junghiani, inizierà il suo percorso come psicanalista freudiana. John Kerr ricostruisce abilmente, grazie ai verbali dell’epoca, l’atmosfera dei famosi incontri del mercoledì, inizialmente tenutisi in casa di Freud, poi nei caffè di Vienna. Spilrein, seconda donna ad entrare nella società psicoanalitica viennese, viene introdotta nel circolo l’11 ottobre 1911, in una delle


parentesi più miserabili della storia della psicoanalisi: sul piatto è la posizione di Adler e la sua “gang”, ritenuti colpevoli di allontanarsi dalla strada maestra e quindi meritevoli di ostracismo. Ma non è l’unica evenienza della serata. Per un soffio non si ripete ciò che si verificò circa un anno prima con Margarete Hilferding, prima donna membro del gruppo, la qua-

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le provocò un acceso dibattito sull’opportunità o meno che le donne entrassero nella società; la cosa fu messa ai voti27. Ciò la dice lunga sul maschilismo imperante del mondo intellettuale dell’epoca, più di qualsiasi dissertazione filosofica. Ma non sorprende considerando che pochi anni prima, nel 1903, Otto Weininger aveva pubblicato uno scritto, intitolato Sesso e carattere, in cui ritraeva le peculiarità del maschile e del femminile: il primo contraddistinto dal poteri intellettuali, moralità, genio, etc; la seconda contraddistinta da amoralità, impulsività, desiderio sessuale. Una delle sue conclusioni è che l’isteria sia “la crisi organica dell’organica falsità della donna 28”. Complice anche il clamo-

re suscitato dal suicidio dell’autore poco dopo l’uscita del libro, Sesso e carattere vendette moltissimo ed ebbe una vasta diffusione. Al lettore non sfuggirà che gli stessi uomini i quali inquadravano in questo modo il femminile (abbiamo visto come Freud, con la “diabolicità della donna” non discostasse molto dalle tesi estremiste di Waininger) non mancassero essi stessi di numerose nevrosi e nodi conflittuali. Ma Sabina Spielrein è una che cerca di cogliere il meglio anche dalle situazioni più penose, o meglio: cerca di depurare le persone e le situazioni positive dalla componente negativa, come dimostra un bel passaggio del suo

diario, dopo il vergognoso e traditore comportamento di Jung nei suoi confronti: “(...) volevo togliere dalla sua anima ciò che aveva giustificato il suo brutto comportamento nei confronti miei e di mia madre29”. Perciò non si lascia tramortire e continua imperterrita i suoi studi, perché vuole perseguire quel “grandioso destino” a lei riservato, come i suoi antenati le avevano comunicato in sogno. Ma la sera in cui presenta il suo importante lavoro, La distruzione come causa della venuta all’essere, è forse ancora più penosa e sintomatica: il suo concetto di componente distruttiva della sessualità viene spiegato come una parte intrinseca dell’istinto ses-


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Keira Knightley e Michael Fassbender suale, il cui apice è la fusione con l’altro; da qui le resistenze dell’Io, che si oppone all’istinto sessuale in quanto può appunto portare alla dissoluzione/distruzione dell’Io in nome della fusione. Tutto questo viene completamente travisato e incasellato dagli uditori in una dinamica masochista, tipica dell’atteggiamento femminile, di contro alla componente sadica eminentemente maschile, che il caso vuole esposta da Tausk poco prima dell’intervento di Spielrein. Ma Spielrein non voleva dire questo. Successivamente Freud e Jung inoltre sosterranno, in via epistolare, che le teorie di Spielrein risentono dei suoi propri complessi30: come se la cosa non fosse vera applicata a se stessi! “Talvolta una persona non è sentita perché non viene ascoltata” afferma John Kerr“ (...) la sua incapacità di ottenere il riconoscimento della sua intuizione nel tema della repressione non fu un suo errore; fu l’errore di Freud e di Jung. Preoccupati con le proprie teorie e preoccupati l’uno dell’altro, i due uomini semplicemente non si fermarono persino per capire le idee di questa giovane collega lasciata da sola a chiedere aiuto nel trovare un’espressione più felice al suo pensiero31”. È bene sottolineare, come fa John Kerr, che nell’ambito della sua vita Sabina Spielrein conobbe personalmente e collaborò con un nu-

mero considerevole di personalità chiave della scienza e civiltà occidentale: dopo essere stata allieva di Jung e Freud (ed aver contribuito allo sviluppo delle loro teorie), collaborò col giovane Jean Piaget, che fu in analisi con lei negli anni passati presso l’istituto di Ginevra. Quando tornò in Russia nel 1923 portò naturalmente in patria le migliori intuizioni e teorie europee nel campo, offrendo spunti importanti a personalità chiave della psicologia come Luria e Vygotsky: se la parola “saccheggiare” può risultare eccessiva, bisogna dire però che alcune loro idee erano straordinariamente simili a quelle “importate” da Sabina Spielrein32. Insomma, in finale, il grande destino a cui l’avevano chiamata i suoi antenati dal profondo del suo inconscio in un certo modo si avverò. Il giusto riconoscimento da parte della compagine umana a lei contemporanea invece no. In ogni caso, dopo la sua partenza per la Russia, la figura di Sabina Spielrein cade definitivamente nell’oblio. Dopo questa esposizione purtroppo non esauriente dei fatti ma sufficiente, si potrebbe asserire che l’intelligentia maschile euroamericana applicò sul femminile categorie di comodo per esercitare la propria dominanza, confermata ulteriormente dal fatto che dei prodotti intellettuali migliori del femminile si servì abbondantemente appropriandosene. È l’atteggiamento inclusivo dell’invasore, del colo-


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nialista che dimostra di disprezzare lo straniero e di considerarlo inferiore, tranne poi invaderne i territori e impossessarsi delle materie prime33. Prima di concludere con delle domande che rivolgo al lettore/spettatore, torno sulla mia perplessità iniziale e mi vien da concludere che le vicende qui sopra descritte non siano affatto paradossali rispetto alla psicologia del profondo, tutt’altro: esse sono l’ulteriore riprova e conferma di quelle geniali teorie. Bisogna fare come Spielrein: depurare l’impianto teorico dal dogmatismo e dal sessismo di Freud o dalla spavalderia giovanile di Jung, trattenendo invece le perle preziose. Bisogna ricordarsi anche che, per quanto l’essere umano sia educato e allenato a tenere un distacco verso le passioni, parlare sulle emozioni umane ed esserne direttamente coinvolti sono due cose profondamente diverse. La prima domanda, che “rubo” da un intervento di una giornalista americana, è la seguente: il film di Cronenberg rende giustizia alla figura di Sabina Spielrein? La risposta è evidentemente negativa, ma bisogna anche distinguere un approccio storico-documentaristico effettuato da un esperto rispetto ad un’opera artistica che, oltre a fornire informazioni su una storia, punta anche alla resa estetica. Da questo punto di vista il film di Cronenberg è quasi perfetto nella ricostruzione di fatti e ambientazioni: l’unico appunto è l’assenza di pathos, di emozione, nonostante tutti gli sforzi di Keira Knightley di rendere plausibili gli isterismi di Spielrein e gli

Viggo Mortensen e Michael Fassbender

sforzi di Fassbender di essere credibile come Jung. Ho trovato intrigante invece la recitazione “flemmatica” di Viggo Mortensen nei panni di Freud, un attore che cresce sempre di più e Cronenberg se n’è reso ben conto, “utilizzandolo” in ben tre film. Piacevole anche la prestazione di Vincent Cassel, mai eccessivo in un ruolo, quello di Otto Gross, che poteva facilmente sfuggire di mano. Al contrario il film di Roberto Faenza, pur peccando d’ingenuità rispetto a certe scelte stilistiche, offre diversi momenti che coinvolgono emozionalmente lo spettatore. A confronto con quest’opera “Un metodo pericoloso” è un film “freddo”. Il merito che hanno entrambe le opere, tuttavia, è quello di aprire una breccia: esse hanno portato al grande pubblico una storia che altrimenti sarebbe rimasta appannaggio dei soli addetti ai lavori e hanno messo per esempio la sottoscritta nelle condizioni di interessarsi ed approfondire la storia di Sabina Spielrein35. La domanda che pongo in finale e che lascio aperta è questa: stando al fatto che la psicoanalisi ha condizionato fortemente la civiltà occidentale – nelle sue espressioni culturali, ma anche nell’analisi spicciola dei comportamenti umani – quanto la mentalità dipinta agli albori di queste teorie è lontana dalla contemporaneità? Il lettore non si lasci condizionare dalle oggettive conquiste della civiltà in ambito di diritti umani, parità, etc. Qui parliamo di dinamiche


Letteratura profonde della psiche, e tutti noi sappiamo, se non dalle teorie di Jung per esperienza personale, che nella nostra vita quotidiana, le consuetudini consolidate e le convinzioni razionali intersechino meccanismi ancestrali, che affondano le radici in un passato remoto ed irrazionale. Le conquiste delle donne sul piano legislativo e del diritto, non sempre collimano col nostro modo profondo di pensare e di sentire – in una parola vivere – il maschi-

le e il femminile. In questo senso, come e quanto ci parla la storia di Sabina? La mia risposta è già parzialmente nell’analisi qui sopra, ma in realtà la mia intenzione è lanciare un sasso nello stagno e riproporre ad libitum quel sano stupore e catena di riflessioni che ha suscitato la comparsa dei suoi documenti. Dal sottosuolo della civiltà occidentale.

NOTE [1] Michel de Montaigne, Saggi, Adelphi, Milano, 1996, p. 1068. [2] Si veda Sigmund Freud, Il Perturbante, 1919 (“Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”). [3] A parte le lettere scritte da Jung, di cui si hanno al momento solo alcuni frammenti per via del veto posto dai discendenti. [4] A. Carotenuto, Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud, Astrolabio, Roma, 1980, pag. 34 [5] Nel 1974 era già stato pubblicato il carteggio fra Freud e Jung, in cui emergeva saltuariamente il nome della Spielrein. [6] J. Kerr, op.cit., pag. 13. [7] Lella Ravasi Bellocchio, L’amore è un’ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2012, edizione Kindle. [8] R. Màdera, Carl Gustav Jung. Biografia e teoria, Bruno Mondadori Editore, Milano, 1998. [9] J. Kerr, op. Cit, pag. 479. [10] Bruno Bettelheim, Scandalo in famiglia, contenuto in A. Carotenuto, op. Cit., pag. 29. [11] Si veda Ricordi sogni riflessioni, a cura di A. Jaffè, pagg. 37, 64 e seguenti. [12] “Ora, nella situazione analitica non puó esistere, in particolar modo all’inizio, alcuna simmetria” A. Carotenuto, op. Cit., pag. 101. [13] Lettere fra Freud e Jung, Boringhieri, Torino, 1974, pag. 252. [14] Ibid., pag. 248. [15] Si veda l’intervista di John Freeman per la tv americana “Face to face”, 1959, video rintracciabile su youtube. [16] Lettera di Sabina Spielrein a Freud del 20 giugno 1909, in A. Carotenuto, op. Cit., pagg. 120 e 242. [17] J. Kerr, op. Cit., pag. 409. [18] A. Carotenuto, op. Cit., pag. 20.

[19] Ibid., pag. 121. [20] Discesa agl’Inferi. Termine mutuato dall’Odissea. [21] J. Kerr, op. Cit, pag. 135 e seguenti. [22] Si veda A. Carotenuto, op. Cit., pag. 32 [23] Molteplici furono gli episodi di “intolleranza” verso coloro che mossero un minimo di critica alle teorie del maestro, tanto da spingerlo a creare una Commissione Segreta volta unicamente ad individuare coloro che ne mettessero in crisi i presupposti. [24] A. Carotenuto, op. Cit., pag. 33. [25] Si vedano le ultimissime battute del libro, J. Kerr, op. Cit., pag 511. [26] Il caso più clamoroso fu quello di Fliess, riguardo alla teoria della bisessualità, non certo farina del sacco di Freud. La vicenda, che coinvolse altra gente, finí con processi e la rottura dell’amicizia con Freud. [27] J. Kerr, op. Cit., pagg. 353-354. [28] Citato in J. Kerr, op. Cit., pag. 75. [29] Diario di Sabina Spielrein, 11 settembre 1910, contenuto in A. Carotenuto, op.cit., pagg. 293-294. [30] Argomentazione di bassa caratura a cui Freud ricorse spesso per liquidare teorie o persone con cui non concordava, definendoli di volta in volta paranoici o nevrotici (vedi il caso Fliess). [31] J. Kerr, op. Cit., pag. 405. [32] Ibid., pag. 498. [33] Il parallelo con la mentalità colonialista viene introdotto da Romano Màdera qui: “non era il continente nero della geopolitica il terreno di conquista al quale il colonialismo europeo portava i doni della civiltà?” si veda R. Màdera, op. Cit, pag 130. [34] Margaret Wheeler Johnson in: www.huffingtonpost.com [35] Esiste anche una terza opera del 2002, un documentario della regista svedese Elizabeth Marton, intitolato Mi chiamavo Sabina Spielrein.


Keira Knightley

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Letteratura

Romanzi&modernità di SARA RATTARO

a confronto come la narrativa affronta i temi di attualità

La Letteratura spesso nasce da piccole cose quotidiane. Abitudini, manie, routine, idee convenzionali o il semplice costume riempiono le pagine che leggiamo. Le utilizzo anch’io e poi le stravolgo, le rompo e le rovino. Così in modo sfacciato provo a raccontare cosa accade dopo che la tempesta ha rovesciato la nostra vita, quando non si può far finta di nulla, quando non si può tornare indietro e quello che resta, sono solo i cocci di un vaso rotto. Negli ultimi anni, una decina a questa parte, il nostro modo di comunicare ha subito dei cambiamenti. Li abbiamo accettati e accolti perché spesso non li abbiamo nemmeno compresi, non tutti, non subito. È arrivato internet che come ogni amante giovane, dinamica e seducente ha attirato senza troppa fatica il pubblico. Sembra libera, sconfinata e divertente, e lo è. Così in poco tempo la vecchia moglie tradita, la televisione, prima unica e indiscussa fonte d’informazione, ha dichiarato la sua guerra, a colpi di casi mediatici, di madri straziate dal dolore e ragazzini vittime di orrendi soprusi. Ci lamentiamo ma non riusciamo a cambiare canale, critichiamo ma ci lasciamo soddisfare da ogni particolare, magari di poco conto, discutiamo sulle prove perché le indagini ci piacciono da morire e dimentichiamo. Sì, dimentichiamo Sara, Yara, Melania e tutte le altre. Confondiamo i fatti, i luoghi e i volti, ma ricordiamo i dettagli, i più avidi, i più inutili. Sulla sedia sbagliata, il mio primo romanzo, racconta l’attualità più spietata, quella che si legge sui giornali, quella che ti fa iniziare un articolo e arrivare in fondo provando disagio, quella che ti fa arrabbiare ma da cui non riesci ad allontanarti. È la storia di Andrea un ragazzo come tanti, ma che un giorno decide di fare qualcosa di orribile, senza un vero perché, e finirà sul giornale come un mostro. Ma Andrea non è solo. Sarà la voce di sua

madre a raccontarci tutto. La madre di un carnefice, una madre come tante altre che passa la sua esistenza a fare del suo meglio e che un giorno viene trascinata via, insieme a tutti quei “perché” a cui non riesce a trovare risposta. Sono loro che mi interessano, sono i veri attori di storie come queste, sono i volti muti che ruotano intorno ai protagonisti, sono quelli che occupano il posto in prima fila, che vedono cose a noi nascoste. Sono le vere vittime senza sepoltura. Lo faccio ancora: mi guardo intorno e provo a raccontare sentimenti forti come la paura e lo smarrimento perché parlo d’amore, il più forte di questi, spesso il più crudele. Perché chiunque abbia amato sa quanto dolore provoca avvicinarsi al sole. Impossibile non bruciarsi. Così arriva Viola che scotta più del fuoco, che ama solo a modo suo. In una folle confessione lei lo fa. Ci racconta tutto, come vorremmo saper fare noi stessi. Ci racconta i suoi tradimenti, inganni e bugie. Parla con voce tremante e sottovoce come chi è stato scoperto e non ha più nulla da perdere e ci fa venire in mente tutti i nostri segreti. Lo fa trascinandosi dietro chi la ama più della sua vita. Perché chi sa amare oltre se stesso, nonostante tutto e tutti, esiste davvero, peccato che sia sempre nel nostro cono d’ombra, altrimenti lo avremmo visto, capito e magari amato a nostra volta. Ma lui resta lì, dove noi non riusciamo mai ad arrivare. Ci ama da lontano e lo dimostra con l’attesa. Perché amare significa saper aspettare e avere pazienza. I miei romanzi nascono così da un filo sottile che si scrive quasi da solo perché i sentimenti esplodono, girano, volano e tornano ai loro legittimi proprietari, tutti noi. L’amore, la rabbia, la voglia di scappare, di abbandonarsi, di essere felici, di piangere compongono la nostra anima, perché se la pelle, i capelli e gli occhi possono essere diversi il cuore no e tutti coloro che amano, sognano e si arrendono si assomigliano.


Letteratura

I fratellastri Traduzione di GABRIELLA PARISI

di Elizabeth Gaskell

Nella tetra e gelida campagna del Cumberland, nell'Inghilterra nord-occidentale, in epoca vittoriana, si svolge questo racconto di Elizabeth Gaskell, The HalfBrothers (I fratellastri), che fu pubblicato per la prima volta sul Dublin University Magazine nel Novembre 1859.

ia madre si sposò due volte. Non parlava mai del suo primo marito ed è solo da altre persone che sono venuto a conoscenza di quel poco che so sul suo conto. Credo che mia madre avesse appena diciassette anni quando lo sposò e lui a malapena ventuno. Egli affittò una piccola fattoria nel Cumberland, in qualche luogo prossimo alla costa, ma probabilmente era troppo giovane e inesperto per essere responsabile di una proprietà e di capi di bestiame: comunque sia, i suoi affari non prosperavano, inoltre si ammalò e morì di consunzione prima che fossero marito e moglie da tre anni, lasciando mia madre vedova a vent’anni, con una figlia piccola appena capace di camminare e la fattoria, in locazione per altri quattro anni, nelle sue mani, con metà del bestiame ormai morto o venduto capo a capo per pagare i debiti più urgenti e senza denaro per acquistarne altro, neanche per comprare le provviste necessarie per il piccolo consumo giornaliero. C’era anche un altro figlio in arrivo e credo che mia madre fosse triste e addolorata al pensiero. Deve aver trascorso un inverno tetro nella sua dimora solitaria, senza nessuno vicino per miglia nei dintorni. Sua sorella arrivò per farle

compagnia e le due donne programmarono e organizzarono un modo per far durare ogni penny che riuscivano a recuperare il più a lungo possibile. Non so dirvi come accadde che la mia sorellina, che non ho mai conosciuto, si ammalò e morì, ma, come se le disgrazie della mia povera madre non fossero abbastanza, appena due settimane prima della nascita di Gregory, la fanciulla si ammalò di scarlattina e una settimana dopo era morta. Credo che mia madre rimase scioccata da quest’ultimo colpo. Mia zia mi disse che non pianse: zia Fanny sarebbe stata sollevata se lo avesse fatto, ma ella si limitava a sedere tenendo la mano della sua piccolina e a guardare il suo bel viso pallido, esanime, senza versare una lacrima. Lo stesso accadde quando la portarono via per seppellirla. Baciò semplicemente la figlia e sedette davanti alla finestra per guardare la piccola processione scura — composta da vicini, da mia zia e da un lontano cugino, che erano i soli amici che esse fossero riuscite a radunare — che si snodava tra la neve caduta finemente sul paese la notte precedente. Quando mia zia fece ritorno dal funerale, trovò mia madre nello stesso posto, con gli occhi

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RACCONTO più asciutti che mai. E continuò così fino alla nascita di Gregory. In qualche modo, il suo arrivo sembrò far sciogliere le lacrime: piangeva giorno e notte, finché mia zia e gli altri osservatori non si guardavano fra loro costernati; l’avrebbero fatta smettere volentieri, se avessero saputo come fare. Ma ella chiedeva di essere lasciata da sola e di non stare troppo in ansia, perché ogni lacrima versata leniva la sua mente, già terribilmente provata dalla sua incapacità di piangere fino a quel momento. In seguito sembrò non pensare ad altro che al suo nuovo bambino; sembrava che a malapena ricordasse sia il marito che la figlioletta che giacevano morti nel camposanto di Brigham — per lo meno, così diceva zia Fanny, ma lei era una chiacchierona, mentre mia madre era invece molto silenziosa per natura, cosicché credo che zia Fanny si debba essere sbagliata nel credere che mia madre non pensasse mai al marito e alla figlia solo perché non ne parlava mai. La zia era più grande di mia madre e la trattava come se fosse una bambina ma, malgrado tutto, era una creatura gentile e cordiale, che pensava maggiormente al benessere della sorella che al proprio. Esse vivevano principalmente delle sue piccole somme di denaro e di ciò che le due donne riuscivano a guadagnare cucendo per i commercianti all’ingrosso di Glasgow. Ma a poco a poco la vista di mia madre cominciò a venir meno. Non che fosse diventata completamente cieca, poiché poteva vedere abbastanza da riuscire a muoversi per casa e fare una discreta quantità di lavori domestici, ma, purtroppo, non poteva più eseguire lavori di cucito precisi per guadagnare denaro. Forse fu a causa del troppo piangere, dal momento che era ancora molto giovane all’epoca e anche una fanciulla molto graziosa — per quanto ho sentito dire — come lo può essere una ragazza di provincia. Ella prese tristemente a cuore il problema di non poter più guadagnare per il mantenimento suo e del suo bambino. Mia zia Fanny l’avrebbe volentieri convinta che aveva già lavoro a sufficienza occupandosi della gestione del cottage e badando a Gregory, ma mia madre sapeva

che si trovavano in difficoltà e che la stessa zia Fanny non aveva da mangiare quel poco che le sarebbe bastato, neanche il genere di cibo più semplice. Riguardo a Gregory, non era un ragazzo forte ed aveva bisogno non di più cibo — dal momento che ne aveva a sufficienza, chiunque fosse a dovervi rinunciare — ma di una miglior alimentazione e di più carne animale. Un giorno — è stata zia Fanny a dirmi tutto questo riguardo alla mia povera madre, molto tempo dopo la sua morte — mentre le sorelle erano sedute insieme, mia zia si dedicava al cucito e mia madre placava Gregory per farlo dormire, entrò in casa William Preston, che in seguito divenne mio padre. Era considerato un vecchio scapolo — credo che avesse superato i quarant’anni da parecchio — ed era uno degli agricoltori più ricchi dei dintorni. Inoltre aveva conosciuto bene mio nonno e anche mia madre e mia zia in un periodo più prospero. Sedette e iniziò a roteare il cappello per apparire ben disposto; mia zia Fanny parlava, mentre lui la ascoltava guardando mia madre. Ma egli disse molto poco, sia in quella visita che nelle numerose che si susseguirono, prima che esprimesse quello che era lo scopo reale delle sue frequenti visite, scopo che si era prefisso fin dalla prima volta che aveva messo piede nella loro casa. Ad ogni modo, una domenica zia Fanny non andò in chiesa, ma rimase in casa a prendersi cura del bambino e mia madre andò da sola. Quando ritornò ella corse dritta di sopra, senza passare dalla cucina per dare un’occhiata a Gregory o per dire qualche parola alla sorella e zia Fanny la udì piangere come se le si stesse spezzando il cuore. Così zia Fanny salì e la redarguì ben bene attraverso la porta chiusa, finché non la costrinse ad aprirla. Così mia madre si gettò al collo della zia e le disse che William Preston le aveva chiesto di sposarlo e le aveva promesso di assumersi la tutela del ragazzo, facendo sì che non gli mancasse nulla, né per il suo sostentamento, né per la sua educazione e che lei aveva acconsentito. Zia Fanny fu parecchio turbata dalla notizia, perché — come ho detto — aveva spesso pensato che mia madre avesse dimenti-


Letteratura cato il suo primo marito molto rapidamente e ora questa ne era la prova concreta, dal momento che riusciva a pensare di risposarsi così presto. Inoltre, come zia Fanny soleva dire, lei stessa sarebbe stata molto più adatta a un uomo dell’età di William Preston rispetto a mia madre che — sebbene fosse già vedova — non aveva ancora visto ventiquattro primavere. Comunque essi non avevano chiesto il suo parere, come diceva zia Fanny, e c’era molto da dire se si guardava il problema sotto un altro aspetto. La vista di Helen non sarebbe mai più tornata in buone condizioni, invece, come moglie di William Preston, non avrebbe mai avuto bisogno di far niente, se avesse deciso di star seduta con le mani in mano. Inoltre un ragazzo era un grande impegno per una madre vedova, mentre ora ci sarebbe stato un uomo serio e con una solida posizione che si sarebbe occupato di lui. Pertanto, in linea di massima, zia Fanny sembrò avere un’idea più allegra del matrimonio di quanto l’avesse mia madre, che a malapena alzava lo sguardo e non sorrideva più dal momento in cui aveva promesso a William Preston di diventare sua moglie. Ma per quanto avesse amato Gregory fino a quel momento, da allora sembrò amarlo ancora di più. Gli parlava in continuazione quando erano da soli, sebbene egli fosse ancora troppo piccolo per comprendere le sue parole lamentose o per fornirle qualsiasi genere di conforto, a parte le sue carezze. Infine ella sposò William Preston e divenne padrona di una casa ben ammobiliata, a meno di mezz’ora di cammino dall’abitazione di zia Fanny. Credo che lei facesse tutto ciò che era in suo potere per far piacere a mio padre: ho sentito egli stesso dire che non c’era mai stata una moglie più rispettosa di lei. Ma non lo amava ed egli lo scoprì presto. Mia madre amava Gregory, ma non mio padre. Forse l’amore sarebbe giunto in seguito, se egli fosse stato abbastanza paziente da aspettare, ma lo inaspriva vedere come gli occhi di lei brillassero e il suo colorito si accendesse alla vista del figlioletto, mentre per lui, che pure le aveva dato così tanto, aveva solo parole gentili, ma fredde come il gelo.

Mio padre cominciò a rimproverarla per il diverso comportamento, come se questo avrebbe potuto portare amore. Inoltre cominciò a nutrire una decisa antipatia nei confronti di Gregory: era geloso per l’amore immediato che sempre sgorgava come una sorgente di acqua fresca quando il fanciullo si avvicinava. Mio padre avrebbe voluto che ella lo amasse di più e forse questo era una cosa buona e giusta; ma egli desiderava che ella amasse di meno suo figlio, e questo era un desiderio malvagio. Un giorno diede sfogo alla sua collera maledicendo e imprecando contro Gregory, che aveva fatto una qualche marachella, come capita di solito ai bambini. Mia madre cercò di scusarlo ma mio padre disse che era già abbastanza arduo prendersi cura del figlio di un altro uomo, senza che questi fosse perpetuamente sostenuto nella sua disobbedienza da sua moglie, che invece avrebbe dovuto sempre avere le stesse opinioni del marito. Da un piccolo screzio si passò a qualcosa di più grande e il risultato fu che mia madre fu confinata a letto prima del tempo e io nacqui quello stesso giorno. Mio padre fu allo stesso tempo contento, orgoglioso e dispiaciuto: contento e orgoglioso che gli fosse nato un figlio, desolato per le condizioni della sua povera moglie e al pensiero di ciò che le sue parole irate avevano causato. Ma egli era un uomo che preferiva essere in collera anziché spiacente, così presto ne attribuì tutta la colpa a Gregory ed ebbe nei suoi confronti un nuovo motivo di risentimento per aver affrettato la mia nascita. Ben presto ebbe verso di lui un ulteriore motivo di rancore: mia madre aveva cominciato a deperire dal giorno della mia nascita. Mio padre mandò a chiamare i medici a Carlisle e avrebbe trasformato in oro il suo stesso sangue per salvarla, se fosse stato possibile, ma non lo fu. Zia Fanny soleva dire a volte che credeva che Helen non avesse alcun desiderio di vivere e così si lasciò morire senza neanche provare a tenersi stretta alla vita, ma quando la interrogavo, riconosceva che mia madre aveva fatto tutto ciò che i dottori le avevano raccomandato, con lo stesso genere di pazienza rassegnata che la aveva accompagnata per tutta la vita.

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RACCONTO

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Una delle sue ultime richieste fu di avere Gregory nel suo letto accanto a me e poi fece sì che mi prendesse la mano. Suo marito arrivò mentre ella ci osservava in questo atteggiamento e quando egli si piegò teneramente su di lei per chiederle come si sentisse, guardando noi due piccoli fratellini con uno sguardo che sembrava serio e gentile, ella lo guardò in viso e gli sorrise: era quasi il primo sorriso che gli rivolgeva — e che sorriso dolce! — come più avanti disse zia Fanny. Un’ora dopo era morta. La zia venne a vivere con noi: era la miglior cosa da fare. Mio padre avrebbe gradito ritornare alla sua vecchia vita da scapolo ma cosa poteva fare con due figli piccoli? Aveva bisogno di una donna che si prendesse cura di loro e chi meglio della sorella maggiore di sua moglie? Cosicché fui affidato a lei fin dalla nascita e per un certo periodo fui debole come era naturale che fosse; ella mi era sempre accanto, sorvegliandomi notte e giorno e anche mio padre era preoccupato quasi quanto lei. Le sue terre erano state trasmesse da padre in figlio per più di trecento anni, pertanto gli stavo a cuore semplicemente in quanto sua carne e sangue a cui passare in eredità la terra alla sua morte. Ma egli aveva bisogno di qualcosa da amare, malgrado tutto: per molti era un uomo grave e rigido, ma si affezionò a me — mi piace pensare — come non si era mai affezionato a nessun essere umano in precedenza — come avrebbe potuto fare con mia madre, se ella non avesse avuto una vita precedente di cui essere geloso. Corrispondevo il suo amore con grande calore: amavo tutto ciò che mi stava intorno, credo, dal momento che tutti erano gentili con me. In seguito superai la mia debolezza di costituzione e divenni un ragazzo robusto e vigoroso che tutti i passanti notavano quando mio padre mi portava con sé nella città più vicina. A casa ero il tesoro della zia, il cocco adorato di mio padre, il diletto e il trastullo della servitù e il “giovane padrone” dei contadini, davanti ai quali affettavo numerosi atteggiamenti altezzosi, simulando una sorta di autorità che appariva alquanto stravagante, senza dubbio, per un bambino quale io ero.

Gregory era tre anni più grande di me. Zia Fanny era sempre gentile con lui nei fatti e nelle azioni, ma non pensava spesso a lui; infatti era totalmente abituata ad essere assorbita da me, dal momento in cui ero stato affidato a lei come un bambino cagionevole. Mio padre non aveva mai superato la sua risentita antipatia verso il figliastro, che aveva innocentemente combattuto contro di lui la battaglia per il possesso del cuore di mia madre. Sospetto anche che mio padre continuasse a considerare ancora lui come la causa della morte di mia madre e della mia delicatezza da piccolo e — sebbene sembri totalmente assurdo — credo che egli quasi proteggesse il suo sentimento di alienazione nei confronti di mio fratello come se lo ritenesse un dovere, piuttosto che sforzarsi di reprimerlo. Eppure per niente al mondo mio padre gli avrebbe negato qualcosa che il denaro potesse procurargli: quello era, come stabilito, l’obbligo contratto quando aveva sposato mia madre. Gregory era corpulento, rozzo, maldestro e goffo: guastava tutto ciò in cui era coinvolto e più di una mala parola e di un aspro rimprovero gli venivano rivolti dalle persone della fattoria, che a malapena aspettavano che mio padre fosse andato via, prima di giudicare il figliastro. Provo vergogna: il mio cuore è addolorato a pensare come avessi ceduto alla tendenza di famiglia nell’offendere il mio povero fratello orfano. Credo che non tentai neanche di conoscerlo né ero deliberatamente malvagio nei suoi confronti, ma l’abitudine di venire considerato in ogni cosa e di essere trattato come unico e superiore, mi rese insolente nella mia situazione privilegiata, pretendendo più di quanto Gregory fosse mai disposto a dare e poi, irritato, ripetevo a volte le parole di disprezzo che avevo sentito usare agli altri nei suoi confronti, senza comprenderne interamente il significato. Non so se egli lo comprendesse o meno, ma temo di sì. Soleva andare in giro calmo e silenzioso, cupo e imbronciato. Mio padre pensava che fosse stupido; zia Fanny lo chiamava così, ma tutti credevano che fosse ottuso e apatico e la sua stupidità e indolenza aumentavano sempre più. A volte sedeva senza


Letteratura dire una sola parola per ore, quindi mio padre lo invitava ad alzarsi e a fare un qualche lavoro, probabilmente, nella fattoria, ma ci volevano tre o quattro richiami prima che si muovesse. Quando ci mandarono a scuola fu lo stesso. Non c’era modo che memorizzasse le lezioni, il maestro si stancava a rimproverarlo e fustigarlo e alla fine consigliò mio padre di portarlo via e di affidargli qualche lavoro che non fosse al di sopra delle sue capacità. Credo che, dopo ciò, divenne più depresso e stupido che mai, eppure non era un tipo irascibile: era paziente e di buon carattere e cercava di rivolgersi gentilmente a chiunque, anche a coloro che lo avevano rimproverato o colpito fino a un attimo prima. Ma molto spesso i suoi tentativi di gentilezza si trasformavano in danni proprio per le persone a cui cercava di essere utile a causa dei suoi modi goffi e sgraziati. Suppongo che fossi un ragazzo intelligente; ad ogni modo ricevevo una gran quantità di elogi ed ero — come si diceva da noi — il galletto della scuola. L’insegnante diceva che potevo imparare tutto ciò che volevo, ma mio padre che, dal canto suo, non era troppo istruito, vedeva poca utilità in un eccesso di insegnamento e talvolta mi portava via e mi conduceva con sé in giro per la fattoria. Gregory fu trasformato in una sorta di pastore e ricevette l’addestramento dal vecchio Adam, che era ormai quasi giunto alla fine del suo lavoro. Credo che il vecchio Adam fosse quasi la prima persona che avesse una buona opinione di Gregory. Faceva del suo meglio perché a mio fratello fossero riconosciute le sue qualità, sebbene non sapesse come fare per farle spiccare; in quanto poi all’orientamento nelle Alture, diceva che non aveva mai visto un ragazzo come lui. Mio padre

cercava di convincere Adam a parlare dei difetti e delle manchevolezze di Gregory, invece Adam, non appena scopriva l’obiettivo di mio padre, lo elogiava doppiamente. Un inverno, quando avevo circa sedici anni e Gregory diciannove, fui mandato da mio padre a sbrigare una commissione in un luogo a sei miglia di distanza se si andava dalla strada, ma all’incirca solo quattro attraversando le Alture. Mi raccomandò di tornare indietro percorrendo la strada, qualunque tragitto avessi scelto all’andata, dal momento che stava calando la sera, che spesso era fitta e nebbiosa; inoltre, il vecchio Adam — ormai paralitico e costretto a letto — aveva preannunciato una precipitazione nevosa di lì a poco. Arrivai presto alla fine del mio viaggio e svolsi il mio compito in anticipo di un’ora — pensai — rispetto alle previsioni di mio padre; cosicché presi io la decisione del percorso da intraprendere e mi misi in cammino verso le Alture, mentre le prime ombre della sera cominciavano a scendere. Sembrava abbastanza buio e tetro, ma era tutto così tranquillo che immaginai di avere parecchio tempo per arrivare a casa prima che cadesse la neve. Mi incamminai a passo svelto, ma la notte scendeva sempre più velocemente. Il percorso giusto era piuttosto chiaro alla luce del giorno, sebbene in diversi punti due o tre sentieri simili divergevano dallo stesso luogo. Ma quando c’era la giusta luce, il viaggiatore era guidato dalla vista di lontani punti di riferimento, un pezzo di roccia, una frana, che in quel momento non riuscivo proprio a vedere. Comunque presi coraggio e intrapresi quella che mi sembrava la strada giusta. Non lo era, tuttavia, e mi condusse dove

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RACCONTO non lo so, ma in qualche selvaggia brughiera paludosa dove la solitudine sembrava dolorosa, intensa, come se mai passo d’uomo si fosse posato in quei luoghi a spezzarne il silenzio. Cercai di gridare — con la più tenue speranza di essere udito — più che altro per rassicurare me stesso con il rumore della mia voce, ma il suono ne uscì roco e scarso e mi sgomentò: sembrava così strano e sconosciuto in quella silenziosa distesa di nera oscurità. Improvvisamente l’aria fu riempita da fitti fiocchi cupi, il mio viso e le mie mani erano bagnati di neve. Essa mi isolò dalla già debole consapevolezza della mia posizione, infatti persi qualunque cognizione della direzione da cui ero arrivato, cosicché non avrei potuto nemmeno ripercorrere i miei passi; mi circondava, sempre più fitta, con un’oscurità che si poteva percepire. Il suolo paludoso su cui mi trovavo sciaguattava sotto di me se rimanevo a lungo in un posto, eppure non osavo allontanarmi troppo. Tutto il mio ardore giovanile sembrava avermi abbandonato di colpo. Ero sul punto di piangere e solo una gran vergogna sembrava trattenermi. Per cercare di non versare lacrime, urlavo — urla terribili e selvagge, poiché erano urla per la sopravvivenza. Quando mi fermai in ascolto mi sentii male: non giungeva nessun suono di risposta tranne un’eco spietata. Solo la neve silenziosa e crudele continuava a cadere sempre più fitta e sempre più rapida! Cominciavo ad essere intorpidito e assonnato. Cercavo di muovermi, ma non osavo spostarmi troppo per timore degli strapiombi che, lo sapevo, abbondavano in alcune zone delle Alture. Di tanto in tanto restavo immobile e urlavo ancora, ma la mia voce iniziava ad essere soffocata dalle lacrime, al pensiero della morte desolata e impotente che mi sarebbe toccata e quanto poco coloro che erano a casa, seduti intorno al calore rosso e brillante del fuoco, avrebbero saputo cosa ne era stato di me — e quanto il mio povero padre si sarebbe afflitto per me: di sicuro ne sarebbe morto, gli avrebbe spezzato il cuore, povero vecchio! Anche zia Fanny: era questa dunque la fine delle sue preoccupazioni per me? Cominciai a rivedere la mia vita in una sorta di vivido sogno nel quale le varie scene dei miei pochi anni di

ragazzo mi passavano davanti come visioni. In una fitta di angoscia, causata da tali rimembranze della mia breve vita, raccolsi tutte le mie forze e urlai una volta ancora un lungo grido lamentoso di disperazione al quale non mi aspettavo di ottenere alcuna risposta, eccetto gli echi intorno, smorzati dall’aria densa. Con mia sorpresa udii un urlo — prolungato e selvaggio quasi quanto il mio — così selvaggio da sembrare soprannaturale, e quasi pensai che potesse essere la voce di qualcuno degli spiritelli beffardi delle Alture, sui quali avevo sentito raccontare tante storie. All’improvviso il mio cuore cominciò a battere più veloce e più forte. Non riuscii a rispondere per un attimo o due. Quasi immaginai di aver perso la capacità di esprimermi. Proprio in quel momento un cane si mise ad abbaiare. Non era forse il latrato di Lassie — il cane di mio fratello? — una bestia piuttosto brutta con il muso bianco e malfatto, a cui mio padre assestava un calcio ogni volta che la vedeva, in parte per i suoi demeriti e in parte perché era di mio fratello. In tali occasioni, Gregory richiamava con un fischio Lassie, uscendo e andandosi a sedere in qualche edificio esterno con lei. Una volta o due mio padre si era vergognato di se stesso, quando il povero collie aveva ululato per il dolore fulmineo, ma si era risollevato scaricando la colpa su mio fratello che — diceva — non sapeva come si addestrasse un cane ed era capace di viziare ogni collie della Cristianità con la sua stolta abitudine di permettergli di stendersi davanti al fuoco della cucina. Gregory non profferiva risposta a tutto ciò: sembrava che non sentisse nemmeno, continuando ad apparire assente e lunatico. Sì! Eccolo di nuovo! Era l’abbaiare di Lassie! Ora o mai più! Alzai la voce e gridai: “Lassie! Lassie! Per amor di Dio, Lassie!” Un altro attimo e la grossa Lassie dal muso bianco si curvava e saltellava con gioia intorno ai miei piedi e alle mie gambe, guardando tuttavia verso il mio viso con occhi apprensivi e intelligenti, per timore che potessi salutarla con un colpo, come spesso avevo fatto in precedenza. Ma io gridai di con-


Letteratura tentezza mentre mi chinavo e la accarezzavo. La mia mente condivideva la debolezza del mio corpo, per cui non riuscivo a ragionare, ma sapevo che l’aiuto era prossimo. Una figura grigia usciva sempre più distintamente dall’oscurità fitta e opprimente: era Gregory, avvolto nel suo plaid. “Oh, Gregory!” dissi, gettandomi al suo collo, incapace di profferir parola. Egli non aveva mai parlato molto e non disse niente per un po’ di tempo. Quindi mi disse che dovevamo muoverci: dovevamo camminare per mantenerci in vita; se possibile dovevamo trovare la strada verso casa, ma comunque ci dovevamo muovere o saremmo morti congelati. “Non sai qual è la strada verso casa?” gli chiesi. “Credevo di sì, quando sono partito, ma ora ho dei dubbi. La neve mi acceca e temo che spostandoci come abbiamo appena fatto, ho perso il cammino verso casa.” Aveva con sé il suo bastone da pastore e affondandolo prima di ogni nostro passo — aggrappandoci l’uno all’altro — procedemmo piuttosto sicuri almeno quanto bastava per non cadere giù da una roccia scoscesa, ma fu un lavoro lento e desolato. Mio fratello — vedevo — si lasciava guidare più da Lassie e dal percorso che sceglieva che da altro, fidandosi del suo istinto. Era troppo buio per vedere davanti a noi in lontananza, ma lui la richiamava di continuo, notando da quale parte provenisse, e determinando i nostri lenti passi di conseguenza. Ma il movimento monotono a malapena evitò che il mio stesso sangue si congelasse. Ogni osso, ogni fibra del mio corpo sembrava dapprima dolermi, quindi gonfiarsi, infine divenire insensibile a causa del freddo intenso. Mio fratello lo sopportava meglio di me, essendo stato più di me sulle colline. Egli non parlava, tranne che per chiamare Lassie. Mi sforzavo di essere coraggioso e non mi lamentavo, ma sentivo il sonno fatale che furtivamente allungava la sua mano su di me. “Non riesco a proseguire” dissi con tono assonnato. Ricordo che all’improvviso ero diventato ca-

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parbio e risoluto. Avrei dormito, fosse stato anche solo per cinque minuti. Anche se la conseguenza fosse stata la morte, avrei dormito. Gregory rimase immobile. Suppongo che avesse riconosciuto quella particolare fase della sofferenza alla quale ero stato condotto dal freddo. “Non serve a niente”, disse, come parlando a se stesso. “Non siamo più vicini a casa di quanto lo fossimo quando siamo partiti, per quanto ne so. La nostra unica possibilità è Lassie. Qui! Avvolgiti nel mio plaid, ragazzo, e stenditi da questa parte riparata da questa roccia. Avvicinati scivolando lì sotto, ragazzo, e mi stenderò accanto a te, cercando di mantenere il calore fra di noi. Aspetta! Hai niente con te che possano riconoscere a casa?” Mi sembrò che fosse crudele a trattenermi dal sonno, ma quando ripeté la domanda, tirai fuori il mio fazzoletto, con una fantasia vistosa, che zia Fanny aveva orlato per me, e Gregory lo prese e lo legò attorno al collo di Lassie. “Corri, Lassie, corri a casa!” E la bestia dal muso bianco, indesiderata, partì come un colpo nell’oscurità. Ora mi potevo distendere — potevo dormire. Nel mio sonnolento torpore sentii che venivo coperto teneramente da mio fratello, ma con cosa non lo sapevo, né mi interessava: ero troppo stanco, troppo egoista, troppo intorpidito per pensare e ragionare o mi sarei reso conto che in quel luogo brullo e desolato non c’era nulla in cui avvolgermi, a meno che qualcun altro non se ne fosse privato. Fui abbastanza contento quando smise le sue attenzioni e si stese accanto a me. Presi la sua mano. “Tu non puoi ricordarlo, ragazzo, come eravamo stesi nello stesso modo accanto alla mamma mentre moriva. Mise la tua manina nella mia — penso che ci veda adesso e forse presto saremo con lei. Comunque, sia fatta la volontà di Dio.” “Caro Gregory,” biascicai e scivolai più vicino a lui in cerca di calore. Parlava ancora, di nuovo di nostra madre, quando mi addormentai. Un attimo dopo — o così mi parve — sentii molte voci intorno a me — molti visi sospesi intorno a me — il piacere lussuoso del calore che si diffondeva

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Biografia dell'Autrice> i n ogni parte del mio corpo. Ero nel mio lettino a casa. Sono grato di aver detto come mia prima parola “Gregory?” I presenti si scambiarono uno sguardo: il vecchio viso rigido di mio padre cercava invano di mantenere il suo rigore, le sue labbra tremarono, i suoi occhi si riempirono lentamente di inconsuete lacrime. “Avrei dato metà delle mie terre — l’avrei benedetto come un figlio — oh, Dio! Mi sarei inginocchiato ai suoi piedi e gli avrei chiesto di perdonare la durezza del mio cuore.” Non udii più nulla: un turbine roteò nel mio cervello, trascinandomi ancora verso la morte. Ripresi lentamente conoscenza settimane dopo. Quando mi ripresi i capelli di mio padre erano diventati bianchi e mentre guardava il mio viso le sue mani tremavano. Non parlammo più di Gregory. Non riuscivamo a parlare di lui, ma egli era stranamente nei nostri pensieri. Lassie andava e veniva senza mai una parola di biasimo; anzi, mio padre provava a colpirla, ma lei si ritraeva ed egli, come se fosse stato rimproverato dalla stupida bestia, sospirava e poi restava in silenzio e assente per un po’. Zia Fanny — sempre chiacchierona — mi disse tutto. Come in quella notte fatale mio padre — irritato per la mia prolungata assenza e probabilmente più ansioso di quanto volesse far vedere, era stato violento e imperioso — anche più del solito — verso Gregory. Gli aveva rinfacciato la povertà di suo padre e la sua stupidità, che rendeva i suoi servizi inutili: infatti, tali — nonostante il vecchio pastore — mio padre aveva sempre scelto di considerarli. Infine Gregory si era alzato ed aveva fischiato a Lassie perché uscisse con lui — povera Lassie, che si acquattava sotto alla sua sedia per timore di un calcio o un colpo. Qualche momento prima c’era stata una discussione fra mio padre e mia zia riguardo al mio ritorno e, quando zia Fanny mi raccontò tutta la storia, mi disse che credeva che Gregory potesse aver notato la tempesta in arrivo e fosse uscito in silenzio per venirmi incontro. Tre ore dopo, quando tutti cor-

ELIZABETH GASKELL (Londra 1810 – Holybourne 1865) crebbe nel piccolo centro di Knutsford a cui si ispirò per l’ambientazione di molte sue opere letterarie, e dopo il matrimonio si stabilì a Manchester. Nel 1845 la morte dell’unico figlio maschio la spinse a cercar sollievo nella scrittura del primo romanzo, Mary Barton. Fra le sue molte opere narrative, Ruth e North and South descrivono la drammatica vita del proletariato urbano inglese, mentre Cranford, considerato il suo capolavoro, rappresenta la vita in un villaggio rurale sorpassato ed emarginato dal convulso sviluppo industriale di metà Ottocento. Protagoniste dei bellissimi racconti di Storie di bimbe, di donne e di streghe sono donne che hanno patito fino alla morte, amato fino a odiare. Le asprezze della vita le hanno spinte a reprimere le passioni per non infrangere il loro ferreo codice morale. Sole e indomabili, ossessionate dalla vendetta o perseguitate da eterne maledizioni, queste donne assumono agli occhi della comunità i tratti inquietanti della strega, l’evanescenza dello spettro. Custodi silenziose di enigmi familiari e saperi antichi, sono personaggi indimenticabili anche per i lettori di oggi.

revano di qua e di là agitandosi selvaggiamente non sapendo dove venirmi a cercare — e senza sentire la mancanza di Gregory, anzi, senza neanche accorgersi che era sparito, povero caro — povero, povero caro! — Lassie era arrivata a casa con il mio fazzoletto legato attorno al collo. Allora capirono e l’intera energia della fattoria venne dispiegata per seguirla con scialli coperte e brandy e qualsiasi cosa a cui riuscissero a pensare. Io giacevo in un sonno gelato, ma ero ancora vivo sotto alla roccia dove li aveva condotti Lassie. Ero ricoperto con il plaid di mio fratello e il suo folto giaccone da pastore era avvolto attorno ai miei piedi. Egli era in maniche di camicia — le braccia intorno a me — con un sorriso quieto — raramente egli aveva sorriso durante la sua vita — sul suo viso freddo e immobile. Le ultime parole di mio padre furono: “Dio perdona la durezza del mio cuore verso il povero figlio senza padre!” E ciò che evidenziò la profondità del suo pentimento, forse più di ogni cosa — considerato l’amore appassionato nei confronti di mia madre — fu questo: trovammo un documento con indicazioni, dopo la sua morte, in cui diceva che desiderava giacere ai piedi della tomba in cui — per suo desiderio — il povero Gregory era stato deposto con NOSTRA MADRE.


Letteratura Postfazione

di Gabriella Parisi

Questo racconto, che parla di legami familiari e di piccole e grandi gelosie e crudeltà, vede nella figura di Gregory, il fratello più grande, il cui padre è morto prima che questi vedesse la luce, il personaggio più generoso, il più disinteressato, che si sacrifica per salvare il fratello più amato, colui che è considerato più importante per la famiglia, sia dal punto di vista affettivo che dal punto di vista intellettivo. Esattamente dieci anni dopo, nel 1869, Florence Montgomery sfrutterà lo stesso tema per il suo romanzo "Incompreso". La parzialità dei genitori nei confronti dei figli ci richiama due figure del Vecchio Testamento, i fratelli Giacobbe ed Esaù. Essi erano gemelli, ma il primo a vedere la luce fu Esaù, eppure Giacobbe tentò con ogni espediente di sottrarre la primogenitura al fratello, invidioso della preferenza che il padre Isacco gli riservava. Analogamente alla storia dei due gemelli biblici, anche questa è una storia di gelosia molto sofferta e di sofferta riconciliazione.

Il narratore è il fratello più giovane, il prediletto della famiglia, del quale viviamo via via gli stati d'animo e la partecipazione alle vicende in un crescendo di pathos. Infatti, mentre la narrazione iniziale sembra quasi piatta, impersonale — nonostante le vicende raccontate siano altamente drammatiche quanto e forse più delle successive — in quanto viene riportata per "sentito dire", in base a quello che è stato raccontato al narratore dalla zia, quando la storia entra nel vivo, con gli episodi vissuti dal protagonista in prima persona, cogliamo le sfumature dei suoi sentimenti, le emozioni, l'angoscia, quasi a voler restituire retroattivamente al fratello un sentimento che in verità non esisteva durante lo svolgimento dei fatti. La Natura — come spesso avviene nelle opere della Gaskell e nel Romanticismo ottocentesco — collabora, è coprotagonista, intensificando le emozioni dei personaggi e le loro sofferenze. Essa è crudele, infida, ingannatrice sembra voler redarguire il protagonista, facendolo riflettere e pentire del suo atteggiamento sprezzante nei confronti del fratellastro. Una particolare attenzione va infine riservata alla figura del cane, Lassie, la compagna più fidata di Gregory, pronta ad ubbidire al suo padrone nonostante i trattamenti ricevuti da coloro che infine beneficeranno dei suoi servigi — atteggiamenti che non cambieranno neanche dopo la morte di Gregory —, che si rivela l'unico essere vivente (quasi "cristiano", se riflettiamo sulle parole che il patrigno utilizza ad un certo punto della narrazione rivolgendosi a Gregory: "non sapeva come si addestrasse un cane ed era capace di viziare ogni collie della Cristianità con la sua stolta abitudine di permettergli di stendersi davanti al fuoco della cucina") su cui il povero giovane può fare davvero affidamento.

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Letteratura

E SPECIAL

Shooting in a barrel

Perché Edward Cullen non sarà mai uno zombie… «Questa cosa di avere un’anima l’ho iniziata io.

Prima che cominciasse ad andare di moda.»

di SELENE PASCARELLA

Angelus

«Grazie per aver fatto smettere di sognare ai miei figli

un futuro che mai, mai, avrei potuto dargli.»

H.J.Simpson

Per un vampiro sedurre gli adolescenti è come cacciare pesci rossi in un barile. È stato così fin da quando le ragazze portavano sottogonne e corsetti e i signori della notte avevano l’aspetto di splendidi, eterni, quarantenni. I succhiasangue sono morti ma non sono vittime dei segni del tempo che passa, vivono tra noi eppure rifiutano ogni regola sociale, legale, morale che abbiamo eretto per contenerli e per contenerci. Sono mentalmente e fisicamente superiori. La longevità li rende dotti, disincantati, decadenti. Vecchi come Matusalemme e capofila della lotta ai matusa. Quando i vampiri hanno iniziato a essere adolescenti la questione si è fatta intra-generazionale. Mostri teenager hanno popolato la fiction horror-fantasy, ma, invece di produrre una ventata di ribellione si sono fatti por-

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tatori di un’ondata di moralizzazione della specie. Vampiri “vegetariani”, monogami, dediti all’astinenza sessuale. Infilati in rigide organizzazioni gerarchiche, ossessionati dal «fai la cosa giusta», incarnazione di un codice pseudo cavalleresco fondato su una ferrea divisione dei ruoli a base sessuale. Da un lato il maschio, che può essere, a scelta, eroe senza macchia, nemico sanguinario o sodale-zerbino segretamente innamorato. Dall’altro la femmina, che si muove tra classici senza tempo come la donzella in pericolo, la guerriera nobile o la strega cattiva. La saga di Twilight costruisce il paradigma di questo meccanismo di moralizzazione e autocensura di cui i revenantes sono, allo stesso tempo, oggetto e strumento. La storia d’amore tra Bella ed Edward è un raro esempio di trasmissione delle re-


gole sociali alle nuove generazioni. Attraverso la testa di ponte del fantastico, spalmata su personaggi epidermicamente controversi, passa l’irreggimentazione delle pulsioni e delle istanze d’autonomia dei ragazzi. Edward e Bella rispettano tutti i passaggi formativi di due giovani adulti per bene, con tanto di benedizione dei sacramenti e rispetto del diktat del sesso a fine riproduttivo. Naturalmente agli occhi di se stessi e del lettore tutti questi passaggi sono motivati da una scelta di rottura e di trasgressione, quale l’amore che può ogni cosa, ma il risultato finale è proprio quello di confermare che, al di fuori degli schemi tradizionali, il sentimento non trova modo di esprimere il suo reale potenziale. Il vero romanticismo sta nel saper aspettare, nel saper piegare il capriccio (di cui la passione e il sesso fanno parte) a sentimenti più maturi e più profondi, come la fedeltà coniugale e l’amore materno. Non tragga in inganno la serie di battaglie con i vampiri “cattivi” che punteggia la storia. Ogni forma di rottura, tanto nella vita di coppia che nelle relazioni con il resto della comunità (sia essa costituita da umani, vampiri o licantropi) viene ricomposta attraverso forme di compromesso e di mediazione volte a creare una forma di pacificazione sociale. Succede nelle tensioni tra licantropi e vampiri e tra il clan Cullen e i Volturi per la nascita della figlia di Edward e Bella. Sembrano passati secoli da quando la giovane cacciatrice di vampiri Buffy Summers scopriva la gioia del sesso assieme al suo fidanzato non morto Angel nella strepitosa serie tv firmata da Joss Whedon. Come Bella ed Edward, Buffy e Angel vivono le incertezze di una relazione tabù. Non solo perché sono una giovane umana e un vampiro “adulto”, ma perché Buffy ha come missione sterminare tutti quelli come Angel. Anche se Angel non è un vampiro come gli altri: una maledizione gli ha restituito anima e coscienza condannandolo a convivere per l’eternità con il senso di colpa legato alla sua natura di non morto. Sarà Buffy a spezzare questa tortura. Il primo rapporto sessuale tra i due regala ad Angel la «vera felicità» annullando il sortilegio. Una vera

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Letteratura felicità che nessun trasporto romantico era stato in grado di creare. È quindi la linea narrativa romantica la Maginot di una buona storia di vampiri? Il ridimensionamento del nosferatu a giovinotto pallido e trendy è il prezzo da pagare per l’estensione della figura del mostro a nuovi terreni della fiction rispetto a quelli (horror e fantastico) di provenienza? È lecito, dunque, attendersi il medesimo destino per gli zombie, nuovi eroi non morti dell’industria culturale? I teen-zombie spazzeranno via i walking dead romeriani? Per molto tempo questa eventualità è sembrata quanto mai remota. I morti viventi sono decisamente più refrattari dei cugini vampiri a rielaborazioni romance. Non parlano, non pensano, non sono in grado di provare empatia né tanto meno affetto o amore. Senza contare che, tranne poche eccezioni casuali, sono decomposti, guasti, privi di parti anatomiche, insostenibilmente puzzolenti. E metto queste motivazioni solo in second’ordine non a caso. Esiste, come sappiamo, una fetta (non così sottile) di pubblico che non vede alcun ossimoro nella diade sesso e cadavere. Ma qui stiamo parlando della possibilità di sdoganare una love story con undead al pubblico generalista e a quello young adult e giovanilistico in particolare. E, allo stesso tempo, dell’eventualità che il meme zombie si dimostri, ancora una volta, talmente vorace e forte da inglobare la propria versione romantica senza compromettere la natura di predatore. Partiamo dal principio. Come si trasforma un cadavere putrido in un principe azzurro della notte? Eliminare o limitare lo stigma fisico

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del mostro è il passo più facile verso la normalizzazione dello zombie a fini sentimentali. In Abel di Claudia Salvatori è la scoperta di un farmaco, in grado di cristallizzare lo zombie nello stato di decomposizione in cui si trova al momento della somministrazione, a fare da spartiacque. Ci sono non morti malconci, ma anche undead che potrebbero tranquillamente rientrare in standard di avvenenza più che accettabili. Abel, il protagonista, è addirittura una specie di Kennedy-zombie: bello, carismatico, intelligente. Un idolo delle ragazzine che lascerebbe in panchina il giovane Cullen. Ciò non implica né che gli zombie siano realmente inseriti nella società degli uomini, né che siano immortali. Non c’è parità nel rapporto con gli umani e anche per loro arriva l’inverno, ovvero uno stato di lenta consunzione che si conclude con la scomparsa definitiva. Permette però, anche ai più sbrindellati, di avere relazioni fisiche con gli umani. Gli zombie sono, però, sex toys particolarmente ricercati. Il passaggio attraverso la morte li ha resi docili, privi di bisogni e alieni all’aggressività. Amanti a bassissimo mantenimento per uomini e donne che non vogliono condividere energie materiali ed emotive con chicchessia. Oggetti sessuali più che protagonisti romantici. Anche per i non Breathers di Scott G. Browne c’è un rimedio al decadimento, ma un rimedio decisamente zombie, cioè consumare carne umana. Il protagonista Andy e i suoi amici dell’anonima zombie lo scoprono per caso, dando via a un percorso di autocoscienza dove privato e pubblico coincidono. Quando Andy scopre di poter superare la sua condizione di non morto allo stesso tempo decide di essere davvero uno zombie. Amerà come uno zombie, scoperà (con la sua ragazza zombie) come uno zombie, vivrà nella società come uno zombie con diritti e riconoscimento.



O perlomeno combatterà per questo. Una soluzione che viene rovesciata completamente in Warm Bodies di Isaac Marion. Dalla dimensione collettiva di zombie biologicamente accettabili si passa a quella individuale di R., uno zombie che ignora tutto del suo passato umano ma è un passo avanti rispetto alla media dei suoi simili. R. non è terribile da vedere, ama la buona vecchia musica e si pone domande sulla propria condizione. Vive in un mondo distrutto dal ritorno dei morti sulla terra, fa parte di una comunità zombie che si raggruppa in un aeroporto e ha le sue regole interne. Gli adulti si occupano della sopravvivenza dei bambini, hanno coniugi e figli affidatari da educare alla sopravvivenza e alla caccia. Si accoppiano come e quando possono, con frenesia e senza inibizioni. Ma anche senza l’amore con la “A” maiuscola. Il loro è l’unico mondo zombie possibile. Eppure R. vuole di più. Quando si imbatte in una biondina avvenente e coraggiosa e, invece di mangiarla, le mette su un classico del jazz capisce cosa sia questo qualcosa. La biondina in que-

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stione proviene da un’enclave di sopravvissuti umani, asserragliati in un ex stadio da football. Incontra R. durante una missione all’esterno del campo. R. uccide il suo fidanzato e ne trattiene la parte migliore, il cervello, folgorato da una visione. Assaggiando la massa cerebrale del ragazzo è riuscito a percepirne i pensieri e ricordi. Ha avuto, per un breve attimo, una vera coscienza. Una bella sensazione, tanto da spingerlo a centellinare la materia grigia della vittima per vivere attraverso di lui e stabilire un legame con la sua ragazza (Come a dire che avere la coscienza non ti impedisce di essere un gran bastardo…). Lei si chiama Julie e nei confronti di R. segue tutte le classiche fasi del rapporto tra la “bella & la bestia”. Quando, stringi stringi, si trova a dover scegliere davvero se vuole stare con qualcuno che produce larve e bile arriva il miracolo. L’Ammore sta guarendo R. che recupera le sue facoltà ed è ogni giorno meno morto e più vivente. Persino la fame di carne umana sta sparendo. E se la rivelazione (all they need is love…) che l’apocalisse può essere redenta da un bacio di vero amore è smaccatamente favolistica e persino irritante, è interessan-

te notare cosa racconta della realtà che è destinata a cambiare. R. e Julie vivono in un mondo brutto. Non brutto perché loro sono adolescenti, la provincia è claustrofobica, la vita è complicata e i genitori non possono capirli. Brutto per davvero. Come lo è vivere in una gabbia col terrore di essere divorati vivi, costruire ogni giorno sul sangue e la violenza. Nell’esperienza adolescenziale di Julie i mostri e le creature soprannaturali non vengono a coprire una mancanza di opzioni (Bella arriva a Forks dalla città e si annoia a morte…), ma potrebbero ragionevolmente giustificare un ripiegamento all’individualismo e all’apatia. Un ripiegamento che Julie rifiuta ad ogni costo, cercando di agire sulla aberrante realtà in cui è calata nonostante vincoli, divieti e ostacoli. Certo R. è tecnicamente un adulto, ma la sua ri-nascita zombie lo rende giovane quanto Julie e i vissuti dei due sono piuttosto simili. Entrambi cercano di restare nel mondo (in quello che ne resta) e rifiutano ogni via di fuga che si basi sull’alienazione dalla realtà. Julie non passerebbe come Bella le giornate a saltare dai dirupi per recuperare il fantasma del suo


Letteratura grande amore. Ha avuto il suo grande amore (quello divorato da R.) e ha capito bene che non esaurisce gli orizzonti di una donna. L’obiettivo di R. e Julie non è di essere una bella famiglia felice ma di trovare, attraverso uno strano collettivo di umani e zombie, la via per un nuovo mondo possibile. Il nemico è per loro, come per Bella ed Edward, la struttura di potere delle rispettive comunità, cioè gli Ossuti (i Volturi zombie) e i militari. Ma essere lasciati liberi di vivere il proprio amore non è abbastanza. Se l’amore è la risposta questa costruita socialmente. Una differenza non da poco. Del resto la spiegazione di Marion alla guarigione zombie non è molto dissimile da quella della Salvatori alla trasformazione in non morto. Se in Abel è possibile fabbricare zombie sottoponendo esseri umani a una sequela intollerabile (e fatale) di traumi psicofisici, Warm Bodies trova nella speranza condivisa e nella messa in comune di esperienze un antivirale in grado di fermare il contagio zombie. Per quanto il romanzo si stato presentato come il «Twilight zombie», siamo in un altro campionato rispetto alla Meyer. Il secondo modo per

creare il terreno a una liaison tra umani e zombie è disinnescare la loro funzione apocalittica. Privato dell’aura negativa di minaccia globale, lo zombie può divenire, al pari del vampiro, un nemico individuale. E con un nemico individuale si apre lo spazio della contrattazione. Soprattutto se alla dimensione non di massa si accompagna lo sviluppo di qualità intellettive e fisiche superiori. Thomas Plischke gioca entrambe le carte nel suo I morti viventi sono tra noi. Plischke usa la padronanza dei miti su i morti che ritornano (di ogni provenienza e datazione) per costruire un romanzo dove la figura dello zombie viene rielaborata fino a divenire quasi sovrapponibile a quella del vampiro. I suoi zombie convivono con gli uomini ovunque e da sempre, possono tenere sotto controllo la fame di carne umana attraverso la pratica e l‘uso di cibi palliativi, hanno un’organizzazione gerarchica e si dividono in cellule. La loro esistenza è legata a filo doppio a forze oscure provenienti dal cuore della terra, origine della loro fame. Da secoli vengono cacciati da uomini e donne a conoscenza della loro esistenza; guerrieri volti al loro sterminio e “sen-

sitivi” in grado di percepirne l’arrivo attraverso i mutamenti della forza del pianeta. Braccati dall’uomo, gli zombie non hanno alcun interesse a palesarsi né a diffondersi su scala globale anche se il loro morso equivale al contagio assicurato. Lavorando a una tesi in antropologia culturale sul mito degli zombie una bella studentessa inglese, Lily, scopre, senza volerlo, che essi sono reali. Viene morsa e trasformata per volontà di uno zombie potente e fascinoso (Victor) che la vuole come sua compagna. Verrà salvata dal suo “amico di letto” (Gottlieb, che la ama da sempre, ricambiato) che appartiene a un’antica e segreta stirpe di ammazza-zombie. Un doppio incastro sentimentale tra coppia endogamica, Lily e il suo mentore Victor, entrambi zombie, e una esogamica, la Lily trasformata e l’umano Gottlieb. La prima finisce molto male. Lily e Victor fanno scintille a letto, ma la fanciulla si tira indietro quando si rende conto che i modi gentili e un vestiario elegante celano un mostro sanguinario. Per la stessa ragione è probabile che finisca male anche la seconda. Il libro si chiude con Lily e Gottlieb in fuga insieme. Lui è ferito e lei cerca ad ogni costo di non cibarsene per colazione.

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Letteratura Come a dire che l’amore può molte cose ma l’antropofagia sa mettere seriamente a rischio una relazione. Anche nella versione “nobiluomo magnetico” lo zombie resta un principe azzurro assai problematico. Fin qui ci siamo concentrati sulle storie d’amore tra zombie e tra zombie ed esseri viventi. Cosa accade quando la trama rosa riguarda solo la controparte umana? Ancora una volta è la dimensione apocalittica a fare la differenza. Portare avanti un rapporto d’amore mentre si dà la caccia o si è cacciati dai vampiri, è arduo; ma in caso di attacco zombie di massa è quasi impossibile. Costretti a fughe continue, laceri, affamati e spaventati, i sopravvissuti umani hanno ben poche energie per l’amore. Ma se la vita continua, allora anche il sentimento trova spazio, come componente incancellabile dell’esistenza. In ogni storia zombie i protagonisti perdono la quasi totalità degli affetti. Mogli, compagni, fidanzate e figli o sono morti o sono stati trasformati. Qualsiasi nuovo legame nasce dal trauma, dal vuoto e dalla sofferenza. E nel migliore dei casi può andare a finire molto male, visto la condizione di perenne emergenza. Narrativamente parlando una miniera d’oro. Che può essere sfruttata o gettata via. Partiamo dalla seconda eventualità. Rhiannon Frater nel suo Il primo giorno (primo volume della trilogia L’era del mondo morto) non rinuncia a punteggiare la lotta per la sopravvivenza dei protagonisti con un articolato e ridondante discorso amoroso. Sospiri, palpitazioni e schermaglie che non alleggeriscono la tensione quanto dovrebbero e non offrono maggiore profondità ai personaggi.

Adulti che guardano in faccia la morte ogni momento e precipitano allo stadio di sviluppo emotivo di un tredicenne. Coinvolgimenti sentimentali che complicano la situazione ma non permettono di approfondire. In mancanza di adolescenti sono gli adulti a mettere in scena la versione over 35

di The Secret Life of the American Teenager. Lui ama lei, lei non vuole ferire l’amica che ha una cotta per lui, ma anche un debole per il bel macho latino che la insulta perché in realtà la desidera... e via così… Vediamo cosa succede quando il tema “amore al tempo della pandemia zombie” arriva nelle mani di Robert Kirkman e Jay Bonansinga. Passiamo da Il primo giorno a The

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Walking Dead — L’ascesa del Governatore. C’è un uomo in viaggio con tre adulti e una bimba piccola, sua figlia. Un uomo duro del sud che dal ritorno (dal mondo?) dei morti ha fatto tutto quello che andava fatto per proteggere la sua famiglia. L’uomo con il fucile incon-

t r a una bellezza delle sue parti. Lei ha capelli biondi, modi gentili e una splendida voce. Canta, o meglio cantava, in un gruppo country assieme al vecchio padre e alla sorella. È coraggiosa ma anche materna. Si prende cura della bimba e ospita gli adulti che l’accompagnano. Si apre così per tutti i fuggiaschi, una parentesi di ritrovata tranquillità. Un palazzo abbandonato nel cuore di Atlanta

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sembra trasformarsi in un rifugio sicuro e una convivenza forzata pare germogliare in una famiglia. Poi lui e lei vanno in missione da soli, insieme. Non c’è nessuna minaccia vicina, la notte è limpida, lo spazio libero da intrusi. Tutto sembra suggerire al lettore che sia giunto per loro il momento dell’amore; non come risultato di lunghe descrizioni di stati interiori, ma per effetto dell’abile costruzione dei dialoghi e del sapiente innescarsi degli eventi. È l’illusione di un attimo. La lieve sospensione di attese verso il primo bacio si infrange sull’inequivocabile inizio di uno stupro. Una violenza tragica e triste che segna per sempre il divorzio emotivo tra chi la compie e il lettore. Un distacco necessario alla costruzione del più grande villain della saga TWD, il Governatore, ma soprattutto un memorandum dell’apocalisse. Amore fa rima con cuore, ma anche con orrore. Dire che l’amore può ogni cosa equivale a dire che non è in grado di metterci a riparo da nulla. Adolescenti o meno nascondiamo sotto l’ombrello del sentimento anche il peggio di noi. Ammetterlo equivale a marciare in direzione opposta alla Meyer. Innestare un racconto zombie con una storia d’amore funziona veramente a patto di sfruttare al massimo le potenzialità di entrambe le linee narrative. Che può voler dire giocare con tutti i significati dell’apocalisse, tanto sociopolitici che emotivi (Warm Bodies), oppure rinunciare del tutto a essa (I morti viventi sono tra noi), ma soprattutto sapere quando e come parlare di sentimenti (L’ascesa del Governatore) senza scadere nel sentimentalismo. Quello sì un mostro senza rimedio.


Letteratura esame necroscopico di una morte letteraria:

i v e l l A e c i l A i d o n r o t il ri

Alice Allevi è tornata. Ed è più sicura di sé, meno, pasticciona, sempre pronta a cogliere le sfumature che si nascondono nelle pieghe dell’animo umano. Anche Alessia Gazzola è tornata, con il suo stile brillante, i dialoghi arguti e il tocco magico con cui riesce a mescolare humour, giallo e femminilità. E in Un segreto non è per sempre segna un deciso passo avanti nel suo percorso di autrice. Alice continua la sua vita nel Dipartimento di Medicina Legale a Roma. Ha ancora una relazione a distanza con Arthur Malcomess; c’è

di STEFANIA AUCI

Yukino, la coinquilina giapponese che adora; vive un rapporto molto complicato con Mr. Cinismo & Saccenza, al secolo Claudio Conforti, suo responsabile e insieme sua personale croce. Ma ci sono anche molte new entry: una nuova collega, Beatrice; una cognata e una nipotina; e un cane, raccattato da Yuki. Al centro delle indagini “atipiche” di Alice ci sono uno scrittore, Konrad Azais, e la sua famiglia: Selina, la figlia che si prende cura di lui; Oscar, pittore scialacquatore e donnaiolo; Enrico, uno scrittore dalle alte ambizioni e dalle scarse capacità. Accanto ad Alice, il buon ispettore Calligaris, che ha intuito come la dottoressa Allevi – con la sua frangetta e le intuizioni folli – sia un’osservatrice acuta e una collaboratrice preziosa. Sono queste doti ad aiutare Alice in un caso estremamente nebuloso che inizia con una perizia per un’interdizione. Konrad Azais è uno scrittore che non è riuscito a farsi amare dalla sua famiglia, e a ragione. Rabbioso, irascibile, offensivo, ha castrato i sogni di gloria sia del figlio, sia del genero. Non ha alcun affetto per altri, se non per se stesso e per la sua carriera, peraltro abbastanza altalenante. L’uomo ha accessi d’ira e comportamenti talmente anomali agli occhi dei figli da costringerli a chiedere la sua interdizione. Alice fa parte della commissione medica che deve decidere sull’accoglimento dell’istanza ed è in questo modo che entra in contatto con Azais. Pochi giorni dopo, però, il vecchio patriarca viene trovato morto dall’adorata nipote Clara, una quindicenne seria e dura. Alice comprende subito che la ragazza sa più di ciò che afferma e che la morte di Azais è, solo apparentemente, una morte naturale. A complicare la faccenda, il

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testamento del vecchio scrittore: in esso si lascia il patrimonio degli Azais a una sconosciuta donna di origine francese che, a sua volta, finirà sul tavolo dell’obitorio di Alice. Ma la dottoressa Allevi ha anche molti pensieri che le rubano il sonno e la lucidità: non sa – o non vuole – scegliere tra una relazione a distanza con lo sfuggente, perennemente insoddisfatto (e fascinoso) Arthur, e la sensuale, elettrica attrazione che prova per Claudio. Un bivio che le si apre dinanzi e che le lascerà il cuore a pezzi, qualunque sia la sua scelta. A complicare la situazione ci si mettono di mezzo il vino bianco, Cordelia con le sue relazioni fallimentari, le battute di Beatrice, la nuova collega e regina del cuore di Claudio, e la sparizione di Ambra… et voilà, il gioco è fatto. Si tratta di un mix freschissimo e deliziosamente intrigante che conferma l’exploit di questa talentuosa scrittrice siciliana. Un segreto non è per sempre è un libro di svolta. Si sente e si percepisce. Alessia Gazzola ha lasciato il registro del chick lit che aveva permeato il precedente romanzo – L’Allieva – per passare una uno stile più sobrio e sicuro ma non per questo meno brillante. Ciò che colpisce maggiormente in Un segreto è proprio la maggiore padronanza degli strumenti stilistici da parte dell’Autrice rispetto all’esordio. Pagine di grande sensibilità, quasi liriche – come quelle che descrivono Parigi –, si alternano a momenti di humour vivace, come ad esempio, nel “menage” che vede Claudio, Alice e un cadavere puzzolente rinchiusi insieme in un ascensore. Un uso sapiente dei dialoghi – grande punto di forza del romanzo – dà brio e ritmo a una storia particolare, basata su sfumature, sulle frasi non dette, sui silenzi pesanti. Vi è una maturità personale nuova dietro questo romanzo, oltre che una crescita professionale. Alice Allevi ne esce arricchita: eliminati i tratti adolescenziali che estremizzavano alcuni aspetti del personaggio, esso ha acquistato tridimensionalità e una dolcezza empatica, fatta di compassione e intuito. Non ha

Alessia Gazzola perso quell’aria naif e un po’ svagata che aveva nel primo volume e che ha conquistato decine di migliaia di lettori, ma questa è stata temperata dalla consapevolezza di sé e del proprio valore che, almeno in una certa misura, la protagonista condivide con la sua creatrice. Il romanzo è maggiormente equilibrato anche dal punto di vista della struttura. Una delle maggiori obiezioni che era stata mossa a L'Allieva era quella di aver creato un chick lit con una vaga coloritura da medical thriller. Ebbene, Un segreto non è per sempre è a tutti gli effetti un giallo, dove l’elemento delittuoso si mescola e si nasconde abilmente in una rete di parole non dette, di invidia familiare, di risentimenti e di pura, semplice cupidigia. L’introspezione psicologica dei personaggi è curata e approfondita, e il grande merito della Gazzola risiede nella capacità di aver ricreato in maniera efficace un quadro familiare compromesso da veleni e rancori. Le dinamiche familiari degli Azais sono descritte con tocco leggero, pieno di umanità, ma nello stesso tempo tagliente e lasciano nel lettore una sensazione di disagio e di amarezza che si stempera nei patemi di Alice. La scrittura è fluida, brillante e incalzante; il passaggio tra le parti medical alle scene romantiche o drammatiche è sciolto, privo di scarti. Le competenze tecniche in materia di medicina legale, lungi dall’essere invasive e fredde – come spesso accade nei romanzi di genere –, sono intessute nella tramatura del roman-


vi r e t n i s s e l h Z e ec Z p A S G zo senza essere pesanti. È un libro maturo, IA

S S E L A

con personaggi dotati di una caratterizzazione efficace e con un background coerente, tali da far affezionare il lettore e far desiderare di continuare a leggere per sapere come andrà a finire… L'INTERVISTA Speechless: Ciao Alessia. E’ passato molto tempo dalla pubblicazione de L'Allieva. Oggi, a quasi tre mesi dall’uscita, cosa vuoi dirci di Un segreto non è per sempre? Alessia: Dico che ne sono fiera, perché sta riscuotendo un gradimento inaspettato, superiore anche a quello de L'Allieva. Mi sta portando molta fortuna e molta gioia. Cosa posso volere di più? SL: Come è cambiata Alice? E come è cambiata Alessia? A: Alice ha fatto qualche passo avanti nel suo percorso di maturazione emotiva e professionale. Ha fatto tesoro delle esperienze ed è un po' più matura e concentrata sul suo lavoro. Sul piano sentimentale al contrario è sempre più pasticciona e confusa. Io mi sento arricchita dallo scambio con i lettori, dai viaggi che ha fatto in giro per l'Italia per promuovere il libro, dalla stesura di un nuovo romanzo, quindi sì, diversa da com'ero un anno fa. SL: In quest’ultimo anno hai collezionato successi straordinari per un’autrice italiana. L’Allieva è stato venduto all’estero, i diritti del personaggio e della serie ceduti alla Endemol. Qual è stata la cosa che più ti ha dato soddisfazione? E quale l’evento o l’occasione che ti ha dato la tensione maggiore? A: Sicuramente sbarcare in altri paesi europei è stata la soddisfazione più grande. Ricevere le copie francese e tedesca mi ha riempita di felicità e ora fremo in attesa delle altre tre (spagnola, turca e serba). La tensione invece è un po' costante, deriva dall'ansia da prestazione, dalla paura che il libro non vada bene, o non piaccia. SL: Una netta crescita dei tuoi personaggi. È la prima sensazione che si avverte nelle prime pagine di Un segreto. Arthur, Alice, Claudio e tutti gli altri

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ista

A L O Z Z

Letteratura hanno una tridimensionalità che era solamente in nuce nel tuo romanzo d’esordio. Come ti sei accostata alla stesura di questa nuova (dis) avventura di Alice? A: Probabilmente è dipeso dal fatto che sono cresciuta di età (tre anni non sono pochi) e quindi, spero, anche come autrice. Di certo, in questo libro ho approfondito tutti gli aspetti caratteriali che avevo immaginato ne L'Allieva. Mi sembra in effetti di aver scolpito meglio i personaggi, sono meno grezzi e ne sono felice. SL: Ciò che colpisce nel tuo romanzo è il mescolarsi dei registri linguistici. Passi dall’ironia del chick lit alla poeticità lirica, dalla pulizia del linguaggio medico a dialoghi brillanti e coinvolgenti. Come sei riuscita ad ottenere questo mix così originale? Quali letture ti hanno aiutato o suggerito spunti interessanti? A: Confesso di non aver profuso uno sforzo particolare nel realizzare questo mix, nel senso che è il mio naturale modo di scrivere. Dipende molto dall'umore della giornata, in realtà! Senz'altro leggere molto mi aiuta a perfezionarmi. Devo lo stile delle parti più brillanti alla chick lit, nei confronti della quale mi sento debitrice. Il resto è home made. SL: La vita e le opere di Konrad

Azais permeano e scandiscono l’esistenza di un uomo torturato dalla propria rabbia e insieme dal bisogno spasmodico di affermarsi nel mondo della letteratura. Ti sei ispirata a qualcuno per questa figura così scomoda o hai lavorato di fantasia? A: Volevo esplorare il lato oscuro della scrittura, l'ambizione smaniosa e acritica di pubblicare la propria storia, di diventare uno scrittore con la S maiuscola. A questo si è abbinato il desiderio di ispirarmi agli autori slavi, così abissali, voraginosi. Penso alla Kristof, a Marai, a Kundera, all'immensità indiscutibile delle loro opere, che però non ho amato. SL: Le dinamiche familiari degli Azais sono descritte in maniera sottile, con grande verismo. Hai attinto dalla tua esperienza professionale? O hai avuto dei modelli, anche letterari, che ti hanno ispirato o da cui hai tratto spunto? A: No, tutta fantasia e voglia di inventare la storia e i personaggi di un nucleo familiare fatto di geni, riconosciuti e incompresi, di tipi bizzarri, ma forti e intriganti. E poi, su tutti, volevo concentrarmi sulla figura di Clara, la nipotina quindicenne di Azais, ruvida e meravigliosamente inquieta. SL: Ambra è scomparsa, quindi significa che...? E poi: hai altri progetti in cantiere oltre la serie di Alice Allevi? Due progetti: uno sarà in libreria entro l'anno, riguarda Alice e non posso dire di più. Il seguito, incentrato sul mistero della scomparsa di Ambra, lo sto scrivendo e uscirà l'anno prossimo.

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Letteratura

Thomas Pynchon L’affascinante mistero di

di BARBARA MAIO

Gli appassionati di pop culture probabilmente associano il nome di Pynchon a un uomo con un sacchetto di carta in testa con un grosso punto interrogativo. È così, infatti, che il noto scrittore statunitense viene rappresentato ne I Simpson in una delle sue rare “apparizioni” in pubblico. Molto si è discusso di Pynchon, spesso in relazione alla sua “assenza”, interpretata come mossa promozionale, ma dichiarata dall’autore come voglia di interagire con il lettore solo attraverso i suoi libri e senza l’interferenza di nessun altro medium. Le sue foto si contano sulle dita di una mano, la sua biografia è nota ma avvolta nel mito, come il fatto che è stato addirittura identificato con J.D. Salinger. Nato a Long Island nel 1937, Pynchon ha pubblicato poco ma ogni suo libro è un cult: sette romanzi dal 1963 al 2011 e una raccolta di racconti da lui quasi disconosciuti. V. del 1963 è il suo esordio nella narrativa e lo porta subito all’attenzione della critica. La storia si compone come un puzzle tra passato e presente, storie parallele, flashback e continui rimandi tra realtà e fantasia. E infatti questo romanzo è uno dei lavori che segnano la nascita del postmodernismo

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letterario. Stile che viene ripreso due anni dopo anche nel successivo L’incanto del lotto 49, misterioso e meta-referenziale. Nel 1973 arriva il suo capolavoro, L’arcobaleno della gravità, romanzo quasi impossibile da seguire nelle sue infinite storie che tracciano un percorso a ritroso, tra guerra e amore, distruzione e nascita, Guerra Fredda e Nazismo. Dopo una lunga pausa, nel 1990 arriva Vineland, ambientato nel 1984 (omaggio a Orwell, uno degli scrittori preferiti da Pynchon insieme a Don DeLillo), una riflessione sugli anni Ottanta segnati in America dalla figura di Reagan. Nel 1997 Pynchon spiazza tutti pubblicando Mason & Dixon, romanzo storico ambientato appena prima della Rivoluzione Americana e scritto in stile Settecentesco. L’epopea dei due protagonisti è, però, a ben vedere, quella di tanti suoi personaggi precedenti e si fa metafora della nascita della globalizzazione riprendendo temi cari allo scrittore come il razzismo e il colonialismo. Anche il successivo Contro il giorno del 2006 è ambientato a cavallo tra Ottocento e Novecento, e


anche qui l’autore si diverte a tessere storie parallele che si intrecciano e si allontanano. Pynchon è un autore complicato, spesso osannato ma ancora più spesso poco compreso. La sua narrativa è spiazzante, onirica, psichedelica e frammentata, eppure i suoi personaggi – spesso accusati di essere poco realistici – entrano nella pelle del lettore e si fanno amare o odiare, non passano mai inosservati. E per non tradire la sua voglia di stupire, nel 2011 arriva Vizio di Forma (Einaudi), ultimo suo romanzo che ancora una volta si presenta come un gioco ed una sfida. Il protagonista è Larry “Doc” Sportello, investigatore privato sulla falsariga dei classici della letteratura americana, con l’abitudine di investigare sempre strafatto, mescolando realtà e vivida immaginazione. Si muove in una California tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta, raccontandone la fine del sogno lisergico. Donne fatali, sbirri corrotti, prostitute adolescenti, mafiosi e delinquenti di ogni tipo, George Manson, in una trama che si sviluppa come il più classico dei gialli per poi mescolarsi e inventarsi di nuovo, ad ogni pagina. Dialoghi deliranti e divertenti, insieme a una trama non propriamente lineare ma abbastanza facile da seguire, ne hanno decretato finalmente anche il successo di pubblico, facendo però storcere il naso ai pynchioniani più puri che hanno letto questo libro come “il voler venire incontro ad un pubblico diverso dal solito”. Resta comunque il fatto che Vizio di forma è un romanzo estremamente godibile ma che, a parere di chi scrive, non tradisce l’autorialità di Pynchon ma, semmai, l’arricchisce

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giocando con il genere noir, piegandolo alla sua voglia di esplorare linee narrative multiple, tipico del postmodernismo. La chiave di lettura è sempre la nostalgia per un periodo in cui tutto sembrava possibile e, al contempo, tutto stava finendo. Ed è in questa ottica che la figura ricorrente di Manson aleggia dopo la strage di Bel Air, come un fantasma che decreta la fine di un periodo di grandi sogni e speranze. Si mormora sul web che il romanzo potrebbe essere adattato per il grande schermo (forse da quel Paul Thomas Anderson regista di Magnolia e Il Petroliere) a dimostrazione di come questo libro sia comunque più interpretabile dei suoi precedenti. Sarebbe interessante vederlo al cinema anche perchè potrebbe essere un’occasione per avvicinare a Pynchon anche lettori distratti che nel passato hanno perso i suoi capolavori.


Letteratura “Anime buie” che affiorano per la prima volta da una superficie solo apparentemente blanda, mostrano nodi irrisolti di esistenze spezzate o calate in un antro di misteri a facili apparenze. I nodi spesso non si sciolgono, anzi, restano avviluppati, lasciando nel lettore ombre di dubbio. Nei racconti che compongono l’antologia sono proprio le zone d’ombra che emergono. Dieci autori, ciascuno con un proprio, personale stile e un peculiare background culturale. Stili e tecniche diverse restituiscono frammenti di un mondo composito, di cui si svelano le tensioni latenti e non, e le ipocrisie che si connettono a una società che chiede l’immagine perfetta, sempre e comunque. È uno specchio che riflette il sistema italiano, il dialogo serrato di Nomi e cognomi. Con un ritmo sostenuto e incalzante, Armando Barone traspone sulla carta una telefonata da cui emergono vizi sociali, tra raccomandazioni e logiche di conoscenza che motivano l’esercizio di poteri non sempre limpidi.

di ROBERTA DE TOMI

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“Dieci

In Quando ti vedo torno ragazzo il torbido, associato al tragico di un gesto che odora di vendetta, tra droga, perbenismo e crimine silente, emerge dalla penna di Vincenzo Barone Lumaga, che riallaccia un’azione presente a motivazioni passate. Luigi Brasili, invece, rovescia una fiaba classica, con CR e il lupo, avvalendosi di un linguaggio semplice ma ricco di analogie, che trafiggono il cuore, insieme alla tragedia in cui la follia s’intreccia all’innocenza di una bambina affetta da un ritardo mentale, travolta dall’orrore della violenza. Un titolo che richiama un successo – tra l’altro cupo e denso di tensioni – di Nicolò Ammaniti: Come zio comanda di Adriano Cantagallo si svolge in una Paperopoli allucinata, in cui Qui Quo Qua, coinvolti in un incidente stradale, sono l’evoluzione criminale di tre piccole pesti alle prese con un gioco di tradimenti. Giulia, aspirante attrice che non è riuscita a sfondare, è collocata dall’autrice Valeria Caristia in un contesto apocalittico in fase di manifestazione, come una catarsi annunciata, nel momento in cui la donna torna casa per la morte della madre, l’unica che ha sempre accettato la sua inclinazione e natura.


Le facili apparenze emergono in Face book mon amour di Luisa Gasbarri. Una rimpatriata fra vecchi compagni di classe diventa occasione di svelamento rispetto a vissuti disonesti o al limite della disperazione. Dinamica di disvelamento simile anche per Piccoli omicidi in famiglia di Biancamaria Massaro, dove le questioni ereditarie tra due fratelli diventano il fulcro attorno al quale ruotano azioni caratterizzate dall’avidità, stessa predisposizione che porta a un sorprendente capovolgimento sul finale. Cita "La finestra sul cortile di Hitchcock", Nero come le formiche di Roberto Santini, anche se protagonista del racconto è un bambino appassionato di entomologia, che sospetta che il vicino sia autore di un omicidio e dell’occultamento di un cadavere. È una conturbante dark lady la protagonista de Il cuore di San Lorenzo di Francesco Stefanacci, che affida una missione a un detective. L’arnese protagonista è un coltello, oggetto archetipico, che nella vicenda viene calato nella dimensione

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lune”

Anime buie in un'antologia a tinte noir

magica del mito delle Anguane. E la risoluzione conduce su una via sovrannaturale diversa dalle soluzioni tipiche del noir. È invece calato in una dimensione introspettiva Memorie di un senso di colpa. Nera Zen scava in un vecchio senso di colpa, in una coazione a ripetere che, tuttavia, non cancella la paura del passato. Ogni racconto è un frammento a sé che non vuole comporre una visione unitaria. Le voci si esprimono in storie compiute, strutturate secondo dinamiche diverse. Per alcune – Luisa Gasbarri, Roberto Santini, Francesco Stefanacci – lo stile è maggiormente affinato, ma in ogni penna si esprime una vocazione noir personale, a volte più conforme al genere – Piccoli omicidi in famiglia, è uno dei più classici in tal senso –, altre virate in chiave ironica, al limite della parodia, – Nomi e cognomi – o del grottesco – Come zio comanda. C’è una vocazione ad accendere una luce sulle anime buie, che, tuttavia, si mostrano evanescenti come inafferrabili fantasmi. E proprio per questo più intriganti o crudelmente o tragicamente veri, in base alle vicende.


Letteratura

a s s a p e h c a z z a g Ra

Racconto di CHIARA PALAZZOLO

RACCONTO

La moglie di Giampiero è ancora in piedi a capotavola. E’ per via del bambino. Non capisco perché ha portato questa cosa grottesca e urlante. Non riesco neanche a concentrami sulla pizza con lei in piedi. Indaffarata intorno a questo bambino semipazzo che sta distruggendo tutto quello che gli capita davanti. Mi piacerebbe mangiare con calma la pizza, chiacchierando tra un boccone e l’altro. Ma c’è troppo disordine. La tizia in piedi. Il bambino che sputa cibo rimasticato su tutto quello che si muove. Josepha parla dentro il telefonino. Alza gli occhi verso

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di me. Le sorrido. Penso che adesso parliamo. Posa una mano sul ricevitore. Mi chiede a bassa voce se posso ordinarle una coca. Faccio cenno di sì. Lei sorride e ricomincia a parlare dentro il telefonino. Vorrei chiacchierare con Josepha. Mi piace Josepha. Sempre piaciuta. Morbida ma vigorosa, con le braccia pienotte e abbronzate. Un sogno biondo, pastoso. Ma le linee del viso asciutte e decise. Continua a parlare dentro il telefonino. Ride anche dentro il telefonino. Poi dice: no! Si porta una mano alla bocca, e di nuovo: no! e giù una risata scrosciante. E allora


101 tu che gli ha detto? dice. Quando ho conosciuto Josepha, mi è piaciuta subito. Bionda, morbida eppure risoluta. Come dovrebbero essere tutte le donne. Le sorrido, ma non mi vede. Guarda il telefonino, parla nel telefonino, sorride al telefonino. Agguanta la coca che le ho ordinato e sorride un momento al cameriere. A me, non mi guarda neppure. Mia figlia scivola via dal bordo pista, dal lato degli ulivi. Mi raggiunge al tavolo. E’ sudata e imbronciata. Mi dice che vuole andare via. Perché vuoi andare via, le chiedo. Sbuffa. Ho il telefonino scarico, dice. E allora? Ma non capisci, papà, la serata è sprecata col telefonino scarico. Stavi ballando, le dico. Chi se ne frega di ballare, risponde, voglio andare a casa. Devo finire la pizza, le dico. Ma quanto sei lento! Si alza un urlo. La moglie di Giampiero. Sempre in piedi. E adesso, anche urlante. Con

le mani in bocca al cosiddetto bambino. Tira fuori un tovagliolino a brandelli, perfino un tappo di bottiglia. Il bambino strilla. Visto che ha sputato qualsiasi altra cosa commestibile, questi devono essere i suoi gusti. Carta e sughero. Perché questa pazza non lo lascia mangiare in pace? Me ne voglio andare, hai capito o no? sbuffa mia figlia. Ha i capelli che le ricadono a ciocche sudate sulle guance. Una vena pulsante alla tempia destra. Gli occhi in tempesta. Dillo a tua madre, le dico, fatti accompagnare a casa da lei, non vedi che devo ancora finire la pizza? Con quella non ci parlo, dice lei soffiando via una ciocca appiccicaticcia dalla fronte. E’ una stronza, e pure tu sei uno stronzo, anzi sai che ti dico, vaffanculo! Lotto per inghiottire il pezzo di pizza che ho in bocca, ridotto a un bolo informe. Vorrei


RACCONTO tornare indietro. Indietro. A quei tempi oscuri in cui un padre aveva il diritto di prendere a schiaffi una figlia anche per molto meno. Anzi, vorrei tornare molto più indietro. All’epoca delle caverne. Quando un uomo, di fronte a una megera adolescente in questo stato, levava in alto la clava. E la bastonava. O la buttava giù dalla prima rupe. O la dava in pasto ai porci. Ma mi trovo in questo bailamme insensato. Cose urlanti a capotavola. Musica che massacra i timpani. Josepha che leva un momento gli occhi dal telefonino e mi fa segno con la mano, come a far scattare un accendino immaginario. Mia moglie che parla all’altro lato del tavolo con Giampiero, tutta sfavillante. Di bigiotteria, di fard, di mèches, di pailletes, di abbronzatura unta d’olio. Quindi infilo una mano in tasca e pesco il mio telefonino. Prendi il mio, dico a mia figlia, usa il mio. A che mi serve, sibila lei, è il mio che voglio, aspetto un milione di messaggi, e tutti mi devono chiamare entro le undici, per sapere dove sto. Non posso richiamarli tutti. Resterò sola come una sfigata! Josepha mi guarda interrogativamente. Dice: aspetta un momento, dentro il telefonino. Nuovamente fa scattare l’accendino immaginario di fronte a me. Ho capito, ho capito, le dico. Mi sorride. E via dentro il telefonino. Mia figlia arraffa il mio. Lo guarda con disprezzo. Sbuffa. Poi inizia a pigiare sui tasti. Sono io, dice, e subito si allontana verso il bordo pista. Mollo le posate e mi guardo intorno. In fondo al tavolo il marito di Josepha fuma. Faccio un segno di assenso a Josepha, che non se accorge neppure, e mi alzo. Vado da suo marito. Ti rubo un attimo l’accendino, gli dico. Lui ride, dice: cosa, e continua a parlottare con la sua vicina di tavolo. Roberta. Che ci trova mai in Roberta, quando ha già una come Josepha. Faccio scattare la fiammella e l’avvicino al viso di Josepha. Lei si riscuote un momento dalla conversazione, sfila una sigaretta dal pacchetto e la mette tra le labbra. Protende il viso, la sigaretta, quelle labbra verso di me.

Gliela accendo. Lei mi sbuffa il fumo in faccia, mi sorride con due occhi liquidi come cristallo, bisbiglia grazie e si rituffa nel telefonino. Vorrei essere quel telefonino. Stretto tra la sua mano e quelle labbra. Annidato nel suo biondo calore. Sergio! urla il marito di Josepha. Che ti sei fregato tu il mio accendino! Mi alzo di nuovo, inciampando nella sedia e trascinandomi dietro il bicchiere di vino. Mia moglie si volta paonazza. Guarda che mi hai bagnato la gonna, dice con gli occhi cattivi. Vuoi stare attento o no? Calpesto i vetri rotti del bicchiere, il tovagliolo scivolato per terra e raggiungo il marito di Josepha, di nuovo immerso nei suoi conversari robertiani. Poso l’accendino, gli chiedo scusa, dice: cosa. Quando torno al tavolo, manca un pezzo di pizza. Guardo mia moglie, che subito storna lo sguardo da me. Poi Giampiero. Il suo piatto. Gli dico: hai preso tu? Se la devi lasciare, dice Giampiero, masticando la mia pizza. Josepha ha un’aria sconvolta. Sembra non poter credere a quello che il telefonino le sta sussurrando. Diodiodio, continua a ripetere. Perfino una lacrima. Le scende solitaria lungo una guancia. Mormora: come puoi farmi questo, come. Mi concentro sulla pizza rimasta. Giampiero ha tirato via quasi tutta la mozzarella nel tagliare il suo pezzo. La pizza è gommosa, il coltello stride sul piatto. Cerco il bicchiere, dimenticando che giace a pezzi sotto il tavolo. Dovrei chiedere un altro bicchiere al cameriere. Un altro tovagliolo. Un’altra pizza. Un’altra vita. Alzo lo sguardo verso la pista, dove i corpi si accalcano gli uni sugli altri, invasati. E la vedo. Scivola come una nuvola tra i corpi accaldati. Non balla. Ha qualcosa di bianco addosso. Un manto di capelli neri. Guarda dalla mia parte. Mi vede. Siamo a una decina di metri l’uno dall’altra. La sua sagoma tremola, confusa alla massa dei corpi pigiati. Come, come ti chiami, vorrei chiederle. Nefes, formulano le sue labbra, di rimando. Sbatto le palpebre, incredulo, e non c’è più. Perduta nella poltiglia compatta che ancheggia sotto il rimbombo infernale.

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Letteratura Guardo di nuovo la pista. I corpi seminudi e abbronzati che si contorcono. Lei è bianca come la luna. Composta come una statua. Aguzzo lo sguardo. Nulla. Riesco a individuare solo mia figlia, sulla destra. Balla da selvaggia, il mio telefonino stretto in mano, un tizio pieno di anelli in faccia al suo fianco. Guardo di nuovo, confuso. Comincio a pensare di averla immaginata. Nefes. Solo un’allucinazione può darsi questo nome. Nefes. In ebraico, l’anima. Il soffio. L’altro nome della vita. Neanche difficile da immaginare, per un povero insegnante di filosofia come me. Invece me la vedo di nuovo di fronte, quasi a bordo pista. Scivola leggera tra la folla. Alza gli occhi e mi guarda. E’ l’unica cosa viva in questo mondo morto. L’ultima possibilità di questa estate demente. Mi alzo a precipizio, quasi travolgendo mia moglie. Ho ancora le posate in mano. Corro verso la pista, brandendo coltello e forchetta. Non la vedo più, ma non importa. La ritroverò. Mi mescolo alla calca, pestando piedi e rifilando spintoni. Mi trovo di fronte mia figlia. Le dico: la ragazza vestita di bianco, la conosci? Lei strilla: il telefonino ormai me lo tengo! La ragazza, insisto. Cazzo vuoi, questa è mia, urla nel clamore il tizio con gli anelli, mettendomi una mano sul petto. Mia figlia dice: è solo mio padre, lascialo stare, vattene papà non rompere. La ragazza, insisto. Cerco la ragazza vestita di bianco, urlo nella confusione a chiunque voglia ascoltarmi. Saugh, dice il tizio con gli anelli. Cosa. La ragazza, dico ancora, sfiatato. Saugh, dice una ragazza pestandomi un piede. Chiedi a Saugh. Chi è Saugh. Tutti dicono Saugh. Saugh sa tutto. Conosce tutti. Va’ da Saugh. Spingo via la gente, vengo spinto via. Saugh. Bisogna trovare Saugh. Saugh sa tutto. Conosce tutti. Chi è Saugh, chiedo a una bambina di pochi anni, che balla a lato della pista. Lassù, dice lei. Punta il dito verso il cielo. Ma poi capisco che fa segno verso una torretta che domina la pista, quasi nascosta tra le fronde degli alberi. Chi c’è lassù? le chiedo, inginocchiandomi quasi fino a terra. E’ una bambina così piccola. DJ Saugh, dice lei. E mi fa la linguaccia.

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Getto un ultimo sguardo tra la folla. Nessuna traccia di Nefes. Dall’altra parte della pista scorgo il mio tavolo, in lontananza, come un’isola che ho abbandonato per attraversare un mare in tempesta. La moglie di Giampiero sempre in piedi, intorno al lattante urlante. Addio, Josepha. Volto le spalle all’isola, al mare tempestoso della pista, e mi inoltro sotto gli alberi. La strada è spianata. Ho perfino coltello e forchetta, per difendermi dai pericoli in agguato. Raggiungo una scala di legno che porta alla torretta. Monto sulla scala, passo dopo passo. Gli ultimi più spediti, quasi di corsa. Una porta. La spingo. Il clamore si dilegua di botto. Insonorizzata. La torretta è insonorizzata. Saugh, o chiunque sia, è seduto di spalle, di fronte a quella che sembra la consolle di un jet. Mi schiarisco la voce. Dico: scusi. Mi rendo conto che non può sentirmi. La cuffia sulle orecchie. Una grande testa calva. Un corpo massiccio. Mi faccio animo, gli busso sulla spalla. Che diamine, comincia lui, voltandosi di scatto. Mi scusi, dico a precipizio. Che c’è, sbraita strappandosi la cuffia dalle orecchie, non vedi che sto lavorando. Solo sapere… arretro di due passi, di fronte al gran corpo che adesso si erge di fronte a me. Che vuoi, sbrigati, una canzone per la morosa, dice lui in fretta. O una dedica? Solo sapere, la ragazza vestita di bianco, dico a precipizio. Non volevo disturbare. Ma mi hanno detto che lei conosce tutti. Solo sapere chi è la ragazza vestita di bianco. Con una manto di capelli neri. Lui dice: cosa. Sbarra gli occhi. E di nuovo: cosa, tu vuoi sapere cosa. La ragazza vestita, comincio. La che, dice lui, e di colpo scoppia a ridere. Come un folle, dandosi manate sulle cosce. Nefes, dico io. Si chiama Nefes. Me l’ha detto lei, ma l’ho persa di vista nella confusione. La prego, per me è molto importante. Sono una persona seria, non voglio dar fastidio a nessuno. Solo sapere chi è, e se posso rivederla. Parlarle un momento. La ragazza che passa, dice lui. Si è un po’ calmato, ma ancora scuote la testa. Si siede.


Letteratura RACCONTO Aspetta un momento, dice, devo mettere su un altro pezzo. Si piazza la cuffia sulle orecchie, dice: incredibile, e armeggia con i suoi inimmaginabili comandi. Scuote ancora la testa. Con una manata butta giù della roba da uno sgabello e mi fa cenno di sedere accanto a lui. La ragazza che passa, ripete scuotendo la testa. E poi, come riprendendosi: non è che stai scherzando. Faccio segno di no, lui mi guarda negli occhi. Incredibile, dice ancora, non sta neppure scherzando. Sotto di noi la pista si agita come un animale vivo, al comando invisibile di DJ Saugh, la divinità della torretta, che conosce tutti. Anche Nefes. La ragazza che passa. E’ così tranquillo qui. Forse tra poco lui la chiamerà con gli altoparlanti. Lei entrerà. Scivolerà come una nuvola verso di me. Dirà: ciao. Dirà: ti ho riconosciuto. Dirà, non lo so che cosa dirà. Mi basta vederla di nuovo. Bianca e palpitante. L’unico essere vivo in un mondo di ombre. Come hai detto che si chiama, dice all’improvviso Saugh, riscuotendomi dal sogno. Nefes! quasi urlo. Il suo nome è Nefes! Mah, dice lui. Muove qualcosa sul quadro comandi. Sulla pista che si muove a sobbalzi vedo qualcosa che scivola come fumo. Bianca. Esile. Un manto di capelli neri. La guardo. La guardo e la guardo, e di nuovo la guardo, e poi balzo in piedi, senza comprendere. Perché non può muoversi in quel modo, non sulle loro teste, e poi sulle schiene, e di nuovo scivolare sul fondo, come un pesce alla ricerca di buie profondità marine. Ma cosa? bia-

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scico, il coltello puntato contro Nefes che cresce alta contro gli alberi, le nuvole, il cielo. Grido e grido, portandomi le mani al viso. Scusa, dice Saugh. Pensavo stessi scherzando. Pensavo lo sapessi. Alcuni lo sanno. Altri non ci badano neppure. Ma non hai capito? La ragazza che passa, la mia creazione più riuscita. La che, mormoro. E’ una specie di ologramma, dice lui in tono didattico, un’immagine virtuale insomma. Caspita, se t’è sembrata vera, ho superato me stesso. Guarda, ti faccio vedere, aggiunge eccitato, muovendo i comandi. Ci lavoro da anni. Sono immagini digitalizzate e proiettate in determinate condizioni sulla pista. La ragazza che passa è la più riuscita. Finora. Molto realistica. Ma sogno una tigre che ruggisce tra la gente. Un branco di cavalli impazziti. Una squadra di tornado in picchiata. Ed è tutto qui, in questa consolle. Le immagini, voglio dire. Nefes, dico. Ha detto di chiamarsi Nefes. Lui mi guarda, mi fa l’occhiolino. Sbotta a ridere e dice: non si sa mai, con quello che si combina. Chissà. E chiamiamola Nefer. Nefes, lo correggo. Nefes, ripete lui. La vuoi rivedere, chiede poi a bassa voce, insinuante. Sì, dico. Virtuale. Digitalizzata. Proiettata. Nefes. Amore di estati insensate, di tempi dementi. Nefes. Un fascio di bytes. Un’onda corpuscolata di fotoni. E’ bella la ragazza che passa, dice piano Saugh, mentre Nefes scivola tra la massa che si scuote forsennata sotto gli ulivi. Sì, dico, fammela rivedere ancora, ti prego. E ancora.


Chiara Palazzolo

Nata in Sicilia ma romana d’adozione, ha esordito nel 2000 con il romanzo La casa della festa (Marsilio), pubblicando quindi per Piemme I bambini sono tornati (2003). Con la Trilogia di Mirta-Luna, affascinante eroina dark di Non mi uccidere (2005), Strappami il cuore (2006) e Ti porterò nel sangue (2007), ha ottenuto un grandissimo successo di pubblico e critica. Da Non mi uccidere è in preparazione l’omonimo film. Appena edito Nel bosco di Aus, un inquietante romanzo di altissima suspense in cui nulla è quello che sembra.


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Letteratura Illabirinto diDurrenmatt

di VALENTINA COLUCCELLI

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Luogo della segnalazione dell’alterità e del riconoscimento della solitudine

Questa breve ma intensa opera di Dürrenmatt ha una tale potenza lirica e semantica da lasciare, nel momento del commiato, la mente indaffarata a rincorrere collegamenti, interpretazioni e reminiscenze di tipo storico, filosofico e mitopoietico, e l’anima in subbuglio, perché confusa e al contempo illuminata dalla poesia di ogni singolo brano e ferita dalla verità che il racconto vuole rivelare e dal suo tragico finale – se pur già le fosse noto e, quindi, non potesse che essere atteso. Il labirinto – e il racconto mitologico di Teseo e del Minotauro che gli è inestricabilmente connesso – è una delle maggiori e più antiche immagini archetipiche, metafora del viaggio dell’uomo nella propria anima (per vincere se stesso e il proprio dualismo in una sorta di iter perfectionis, in quanto il Minotauro rappresenta simbolicamente la duplicità dell’essere umano, al contempo istinto e bestialità, ragione e ordine, carnefice e vittima) e dell’anima stessa verso la luce e l’immortalità (perché l’iter perfectionis attraverso il labirinto, che conduce l’eroe nel regno delle tenebre per poi tornare vittorioso in quello della luce, rappresenta “sia la vittoria della natura razionale su quella ferina, che la vittoria della vita sulla morte” 1). «Il centro del labirinto contiene sempre una mutazione: di ciò che noi chiamiamo vita e di ciò che chiamia-

mo morte, e il passaggio da una vita all’altra, dal mondo delle apparenze a quello delle essenze, dalla carnalità bestiale (il Minotauro) all’umanità spiritualizzata (Teseo)». Brion Quella di Dürrenmatt, pubblicata nel 1985, è solo una delle più recenti delle innumerevoli riletture e interpretazioni di questa metafora così ricca e stratificata. Il suo cambio di prospettiva, che pone come protagonista della vicenda il Minotauro invece del coraggioso e sfrontato Teseo o della premurosa e scaltra Arianna, non è poi originale (corre ad esempio subito alla memoria il meraviglioso brano di Borges del 1949 “La casa di Asterione”). Ma la rilettura di Dürrenmatt possiede una singolare profondità e una destabilizzante e lucida capacità di fare del Minotauro il simbolo del solipsismo cui è inesorabilmente destinato l’uomo, che arricchisce la vicenda di una dimensione universale2 : il labirinto di specchi, in cui la bestia si riflette in infinite immagini di se stessa, diventa luogo della segnalazione e del riconoscimento dell’alterità, che si propone però come insuperabile – se non artificiosamente. Ma sarebbe forse andare contro il volere dell’autore tentare di spiegare e analizzare la sua opera affidandosi a raziocinio e categorie, come tentare di spiegare e analizzare il mito da cui prende le mosse; lui stesso, afferma, nell’ acuta, brillante e ironica Prefazione a Il Minotauro, “nes-


suna metafora ha un significato univoco, altrimenti essa sarebbe un’allegoria, una massima mascherata […]. Ogni interpretazione distrugg[e] il senso di una metafora, perché questo senso è tutt’uno con la metafora stessa, perché esso si rispecchia nella sua interezza soltanto nella metafora”. Meglio dunque lasciarsi trascinare dalla poesia – anche violenta – delle immagini che Dürrenmatt crea con le parole e dal ritmo cadenzato e poi improvvisamente concitato che accompagna quello che, più che un mero racconto ragionato, pare una danza dettata dall’istintualità spontanea del suo protagonista (non a caso, alcune edizioni intitolano questo testo “Il Minotauro, una ballata”3 ). Ecco allora che, più potenti di mille ragionamenti, saranno i linguaggi immediati, connaturati, istintivi della poesia e della danza a filtrare nell’inconscio gli echi senza voce dei significati profondi della narrazione, che si trasformeranno poi in consapevolezza, lentamente, mentre emergeranno in superficie dopo aver albergato nell’anima il tempo ne-

cessario per scuoterla e farla fremere. Il Minotauro di Dürrenmatt, inconsapevole di sé e del mondo come un bimbo mostruoso o come un mostro con l’innocenza di un bambino, “si trovò, dopo lunghi anni di un sonno confuso […] sul pavimento del labirinto che era stato costruito da Dedalo per proteggere gli uomini da quell’essere e l’essere dagli uomini, d’un impianto […] le cui innumerevoli intricate pareti erano di vetro, tanto che l’essere stava accovacciato non solo di fronte alla sua immagine, ma anche all’immagine delle sue immagini: vide davanti a sé un’infinità di esseri fatti com’era lui, e come si girò per non vederli più, un’altra infinità di esseri uguali a lui”. Non sapendo cosa sia sogno e cosa sia realtà, non distinguendo cosa sia parte di lui e cosa sia altro, al Minotauro, vedendo che tutte quelle immagini intorno a lui ripetevano ogni suo gesto, “parve d’essere come un capo, anzi di più, come un dio, se avesse saputo cos’è un dio”. E danzò. Danzò insieme agli infiniti riflessi di lui stesso, convinto di non essere solo. Poi d’un tratto, tra le immagini identiche di uomini con teste di toro, ne comparve una – con i suoi infiniti riflessi – che non ubbidiva ai suoi comandi e differente nell’aspetto: una fanciulla nuda, con lunghi capelli neri, immobile e con lo sguardo spaurito. E la bestia capì. Capì che esiste qualcos’altro oltre ai minotauri; non solo nella forma, ma anche nella sostanza, perché questa nuova presenza era calda e cedevole al tatto,

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dove le altre erano fredde e piatte. “Il suo mondo si era raddoppiato”. E, per la felicità della scoperta e della liberazione, l’uomo toro danzò e la fanciulla con lui, in uno dei passi più toccanti dell’intero libro: “Lui danzò la sua deformità, lei danzò la sua bellezza, lui danzò la gioia d’averla trovata, lei danzò la paura di essere stata trovata, lui danzò la sua liberazione, e lei danzò il suo destino, lui danzò la sua smania, e lei danzò la sua curiosità, lui danzò il suo addossarsi, lei danzò la sua ripulsa, lui danzò il suo penetrare, lei danzò il suo avvinghiare. Danzarono, e danzarono le loro immagini, e lui non seppe di prendere la fanciulla, non poteva sapere nemmeno che l’uccideva, perché non sapeva cos’era vita e cos’era morte. In lui non c’era altro che incontenibile felicità fusa con incontenibile piacere.”

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La sua danza, espressione di un’ingenuità inconsapevole e di una spensieratezza infantile, candida, si ripeté festosa all’incontro con un nuovo essere; ma “la gioia di non esser più solo […] e la speranza d’incontrare gli altri minotauri, le fanciulle e gli esseri uguali a quello con cui ora danzava” furono turbate e poi spazzate via dal colpo della spada che questi gli affondò nel petto. Nella confusione per quel gesto inatteso e sconosciuto, il Minotauro uccise il portatore della spada e i suoi compagni, e poi trasformò la sua danza in una scarica di pugni contro la parete e contro le proprie immagini nella rabbia dell’abbandono e del rifiuto, della vendetta e della paura. E qui l’essere, scagliandosi contro l’immagine di se stesso, avvertendo l’impossibilità di toccarla davvero, la sua intangibilità, avvertì per la prima volta che non esistevano tanti esseri come lui intorno a lui, ma di essere


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Letteratura

di fronte sempre e solo a se stesso. Insieme arrivò anche la consapevolezza di essere unico. E diverso. E, infine, la comprensione della cagione dell’esistenza del labirinto, necessario affinché il mondo conservi il proprio ordine tenendo segregato e celato agli occhi quel che non dovrebbe essere, ma che è. E allora a colui che aveva danzato, inconsapevole e ingenuo, e che poi aveva colpito, perché ferito e tradito, scoprendosi solo e non amato, non rimane che sognare: “Sognò un linguaggio, sognò fratellanza, sognò amicizia, sognò sicurezza, sognò amore, vicinanza, calore, e contemporaneamente seppe, sognando, di essere un anormale cui non sarebbe mai stato concesso un linguaggio, mai fratellanza, mai amicizia, mai amore, mai vicinanza, mai calore, sognò come gli esseri umani sognano gli dèi, con tristezza d’uomo l’uomo, con tristezza d’animale il minotauro.” È la comparsa di un secondo minotauro, uguale a lui ma dissimile, indipendente dai suoi movimenti e concreto, a esaudire una preghiera che non sperava avrebbe mai potuto essere ascoltata, a realizzare un desiderio che non credeva avrebbe mai potuto essere accolto, da celebrare con una danza alla vita e alla completezza che solo un altro essere uguale e diverso da noi può offrire: “[…] c’era un secondo minotauro, non soltanto il suo Io, ma anche un Tu. Il minotauro cominciò a danzare. Danzò la danza della fratellanza, la danza dell’amicizia, la danza della sicurezza, la danza dell’amore, la danza della vicinanza, la danza del calore. Danzò la sua felicità, danzò la sua dualità, danzò la sua liberazione, danzò il tramonto del labirinto, lo sprofondare fragoroso di pareti e specchi nella terra…” Questo sprofondare del labirinto è il crollare delle pareti che separano

l’Altro dall’Io, lo scacco matto a quella solitudine ingannata con i fasulli “altri” riflessi, aggirata con la violenza bramosa sulla fanciulla dai capelli neri, sfidata con l’uccisione rabbiosa del gruppo del portatore di spada, compresa con la scoperta di essere unico, diverso, rinchiuso. Ma per un crudele piano del destino l’unico “Altro” reale, nel senso più pieno del termine, è anche l’unico ad essere volontariamente un inganno. Il Minotauro, nell’estasi della felicità, nella brama di abbracciare l’abbraccio del suo Altro, gli corre incontro festante e fiducioso. E da questi viene ucciso. Lo scacco matto, quella speranza di poter superare il solipsismo e la solitudine, è l’illusione più grande. Quella fatale. Difficile non commuoversi per la fine desolata e desolante dell’uomo toro, barbaramente ucciso in un atto di amore, in uno slancio di fiducia. Il Minotauro muore, solo. Colpevole solo per natura e non per scelta. Vittima forse per necessità, ma non per giustizia.

NOTE 1 “Labirinti”, Pier Giorgio Viberti, ed. Demetra 2000; meraviglioso e ricchissimo saggio cui questo commento è fortemente debitore. 2 Laddove, invece, per Borges il labirinto rappresenta la figura archetipica del tentativo dell’uomo di comprendere se stesso, quell’infinito oscuro e impenetrabile. 3 E non a caso, si intitola La Ballata del Minotauro la serie di disegni, particolarmente intensa e comunicativa, che arricchisce l’edizione Marcos Y Marcos, opera di Dürrenmatt stesso.


Letteratura La penultima verità su

di ANDREA CATTANEO

Philip K. Dick Trent’anni senza Philip K. Dick sono pochi per sperare di capire il suo lavoro, ce ne servirebbero ancora diverse decine di migliaia. La cifra tonda però è un’ottima scusa per ricordare, o conoscere, un autore così importante. Ma perché celebrare Dick proprio trent’anni dopo la sua morte e non trentadue, o trentatré, o trentanove? È una stranezza che di certo non gli sarebbe sfuggita e che l’avrebbe insospettito. Il più sospetto di tutti i partecipanti a questa celebrazione è l’editore Fanucci che, per l’occasione, ripropone tutte le traduzioni dei suoi lavori. Poi ci sono tutti i loschi figuri che si dedicano a lui scartabellando tra le note della sua biografia. Tra i tanti si prendano le loro responsabilità Matteuzzi e Ongarato, penne al soldo dell’editore Beccogiallo (Philip K. Dick, la biografia a fumetti). In vita Dick ha sofferto la frustrazione di non essere considerato un “vero” scrittore. A dirla tutta, nemmeno lui era certo di meritare più attenzione di quella che riceveva. Secondo Emmanuel Carrère (Io sono vivo, voi siete morti, un viaggio nella mente di Philip K. Dick, Hobby & Work), Dick si vedeva come un povero diavolo un po’ tocco che sbarcava il lunario scrivendo storie per ragazzini e per adulti mai cresciuti. La svastica sul sole. Nel 1950 scoppia la guerra in Corea e l’esercito americano interviene. A Phil e agli studenti di Berkley è richiesta la partecipazione a un corso di ad-

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destramento per l’esercito. Phil si presenta imbracciando una scopa. Calma, facciamo un passo indietro. Edgar, suo padre, era un sergente maggiore dell’esercito decorato in Europa. Alla fine della guerra aveva trovato lavoro nel dipartimento dell’Agricoltura, il suo compito era controllare che gli allevatori non facessero i furbi. Sul fatto che il suo fosse un ottimo impiego lui e Phil avevano pareri contrastanti. Non andavano molto d’accordo nemmeno sulla questione delle atomiche sul Giappone. La vittoria nella Seconda Guerra Mondiale aveva creato un po’ di confusione negli americani, sotto sotto sembravano pensare che i violenti si dividessero in due categorie: i vincitori e i vinti. Ai primi, che si erano conquistati l’ultima parola, era concesso il diritto di menare le mani. Nella testa di Dick deve essere scattato un meccanismo, agli americani bisognava spiegare due o tre cosette sulla guerra. Ci voleva la lezione di un saggio, di un uomo super-partes che guarda dall’alto del suo castello. Sembrerà bizzarro ma l’idea di essere una specie di profeta non è la cosa più strana che Phil abbia pensato di se stesso. A onor del vero va detto che The Man in the High Castle è uno di quei rari casi in cui la traduzione italiana del titolo (La svastica sul sole) è decisamente meglio dell’originale. L’occhio nel cielo. Un bel giorno Phil decide di scrivere una lettera ad Alexandre Tochev dell’Accademia sovietica delle scienze. Tenta di carpire i segreti scientifici


dei russi per scriverne storie di fantascienza. Gli scienziati Oltrecortina però stranamente non vogliono collaborare, e questo è l’unico contatto tra Phil e l’Unione Sovietica. Non è mai stato un pericoloso comunista, ma la sua seconda moglie Kleo Apostolides, iscritta al Partito Socialista, per l’Fbi e Nixon è da tenere sotto stretto controllo. Un giorno l’antispionaggio decide che bisogna affrontare il nemico di petto e manda due agenti Fbi a bussare alla porta dei Dick. Phil li fa entrare, è solo, sta lavorando, Kleo è fuori. Gli chiedono come sbarca il lunario, lui dice di essere uno scrittore di fantascienza. Gli chiedono dell’attività politica di Kleo, cercano di convincerlo a diventare un informatore. Lui rifiuta e uno dei due gli chiede se sia comunista. «No», risponde Phil. «Non ho alcuna simpatia per il Partito Comunista. Ma lei sa bene che, se ne avessi, le risponderei la stessa cosa». Le visite dell’Fbi si fanno frequenti, si presentano con questionari a risposta chiusa da compilare. Una delle domande dice: “Il più grande nemico del mondo libero è la Russia, il nostro livello di vita elevato o gli elementi infiltrati fra noi”. Phil e Kleo, che si sentono pericolosi ribelli, stanno al gioco finché l’Fbi non si stufa e smette di controllarli. Uno dei due agenti, George Scruggs,

diventa amico di Phil, gli dà lezioni di guida e l’aiuta a prendere la patente. Phil, che adorava confonderlo, tenta di convincerlo che gli infiltrati comunisti andrebbero cercati tra gli insospettabili. Nasce così l’idea per L’occhio nel cielo, un romanzo in cui il vero comunista non è la persona accusata, ma il delatore che la accusava. Phil regala una copia del libro a Scruggs che però non coglie il messaggio tra le righe. È interessato solo alla verosimiglianza dell’espediente tecnologico usato nella storia. Phil, lusingato dalla stima di Scruggs nei confronti delle sue competenze tecnologiche, fa lo spaccone e si inventa di essere in contatto costante con il professor Tochev. «Sì, lo so», gli confessa Scruggs senza scomporsi. Le tre stimmate di Palmer Eldritch. Nei primi anni sessanta, con tre divorzi alle spalle, un curriculum di stranezze, paranoie e dipendenza dalle anfetamine, Dick è nel bel mezzo dello zeitgeist riassunto da Bob Dylan nella celebre frase: «The times, they are a-changing». Chiusa l’ultima parentesi matrimoniale, torna a vivere a Berkley e sembra rinato. Ha capito che non sarà mai un leccapiedi degli zombi incravattati dell’establishment letterario, ha tentato e ha fallito. È diventato un fan dei Grateful Dead, si fa crescere la barba, ha compreso che il suo ruolo è quello del genia-

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Philip K. Dick


Letteratura le balordo della letteratura. Ha paura della sua ex moglie, sospetta che lo stia controllando, cerca i microfoni persino nella lettiera del gatto, non trovandoli si convince che il telefono è intercettato. Costringe chiunque lo chiami a delle verifiche che provino la sua identità. Nel 1965 la pubblicazione di Le tre stimmate di Palmer Eldritch lo rende famoso tra gli stessi ragazzi che ammirano Timothy Leary e Aldous Huxley. Anche Phil, benché non abbia ancora provato l’acido lisergico, è considerato un profeta dell’Lsd. Leary e John Lennon un giorno lo chiamano al telefono. Lennon vuole confessargli che è rimasto sconvolto dal suo libro, che sarà la base per il disco dei Beatles in preparazione: Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. Phil non gli crede, pensa sia uno scherzo. Spinto dagli amici, prova l’Lsd e si ritrova nell’antica Roma: è un martire cristiano in balìa dei pagani. Riemerge dall’allucinazione ancora più strano e si mette a fare il cascamorto con tutte le mogli dei suoi amici. I tentativi di seduzione sono inconcludenti e imbarazzanti per tutti i coinvolti. Nel 1967, i Beatles pubblicano Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, si può facilmente immaginare come ci sia rimasto… Io sono vivo e voi siete morti. Phil aveva una sorella gemella che si chiamava Jane, morta per malnutrizione il 26 gennaio del 1928. La convinzione di Phil di essere un sopravvissuto riemerge nel suo capolavoro Ubik. Nel romanzo Joe, un bambino mantenuto in uno stato di semi-vita, divora le coscienze dei protagonisti confinati con lui in una specie di aldilà. Il mortorium, che compare nel romanzo, è un luogo in cui

i defunti come Joe sono tenuti in coma per permettere ai loro cari di mantenere un contatto con loro. L’impressione che Phil abbia voluto stabilire, attraverso il romanzo, un contatto con Jane è forte, ma forse è solo una speculazione. Del resto, in un certo senso, anche noi abbiamo appena cercato di

stabilire un contatto con lui visitando il mortorium di carta e inchiostro in cui è confinato. Ora, per maggiore sicurezza, andate in bagno e controllate accanto allo sciacquone del water, se qualcuno ha scritto “Io sono vivo e voi siete morti” vuole dire che dovete assolutamente procurarvi un atomizzatore Ubik nuovo modello. È più economico e più efficace che mai!

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Letteratura

CardioDetective Racconto di DARIO TONANI Neve appiccicosa, sporca. Che strazia il panorama. Corro (perché questo fa parte del mio lavoro). Pompo sangue al muscolo cardiaco. In dosi che per qualsiasi adulto non allenato equivarrebbero a rimetterci le penne. Corro perché solo così vedo… ciò che vedo. Tra le 170 e le 185 pulsazioni al minuto. Fotogrammi. Immagini. Visioni. Il futuro. Il Passato. Sfilo ansimando accanto alla rete del cantiere abbandonato; una sottile ragnatela di scacchi glassati s’inerpica per quasi tre metri lasciando trapelare dall’altra parte il profilo dei mezzi coperti di neve: un caterpillar che sembra un mammut collassato nel bianco, i tralicci coricati di una gru smantellata, una betoniera che trabocca quella che sembra spuma di meringa. Si gela qui fuori, e il respiro mi si condensa in una nuvola grigia. Doppio l’angolo rischiando di scivolare sul ghiaccio. Da quella parte il marciapiede è ingombro di neve lurida, calpestato da orme frettolose. Sette e ventisei del mattino. Il traffico ancora assonnato della città indugia nelle arterie principali, laggiù invece a quest’ora non c’è quasi nessuno. Ci vado sempre per il mio jogging dell’alba, ma non lo consiglio alle donne sole, come me (e neppure agli uomini disarmati, se è per questo). Dall’angolo del cantiere in disuso si dipana un labirinto di casermoni abbandonati: scuole, palestre, supermercati che furono. Alveari di cinque o sei piani, fatiscenti e gelati. Appartamenti spolpati, che ora abitano tossici e clandestini. Scale. È quella la mia palestra per far salire i battiti fino al livello che mi permette di vedere il futuro. Le salgo sempre di corsa, tre gradini alla volta. Rasente ai muri, guardandomi le spalle, pistola in pugno aderente alla coscia. Sudore, cuore e spirito di sacrificio. Sì, sono un poliziotto. Sezione Omega. CardioDetective Monica Liberti!

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RACCONTO Il cuore delle donne batte più rapidamente, ci hanno insegnato al corso. Per questo la nostra è un’unità tutta al femminile… Un cane mi si affianca ai polpacci. Trotta al passo il bastardello, abbaiandomi incarognito a due dita dalle caviglie. Mi sfianco e qualche volta quasi mi uccido per strizzare fuori dalla testa un’immagine. Un indizio. I cani non mi piacciono. Interferiscono col mio (sporco) lavoro. Lo scalcio via, non forte, il giusto perché non mi si appiccichi di nuovo. Presto entrerò in uno dei portoni bui e inforcherò le scale della mia destinazione. Quinto piano, interno 9. Ma prima sfilerò la calibro 22 dalla fondina ascellare sotto il k-way. Sto lavorando a quello c h e ha tutta l’aria di essere un regolamento di conti nel mondo dello spaccio. Omicidio volontario aggravato dalla crudeltà, ragazzina di quattordici anni uccisa con ventinove coltellate. Viste quasi tutte. Appartamento vuoto, sangue dappertutto, il barlume di un’immagine scura e incappucciata che mena fendenti col braccio sinistro.

È lì che sto andando. Ogni mattina, da ventiquattro giorni. E altrettante coltellate. *** Sara non va a scuola. O almeno non nel senso che siamo soliti attribuire alla frase. Spaccia. E i suoi clienti sono i compagni d’istituto che potrebbe avere se frequentasse le quattro mura in fondo alla strada. Spaccia e consuma. Fatta 100 la somma delle due attività, si ritaglia il 5 per la seconda. Tendente, di questi tempi, al 6 e all’8. Troppi! Le hanno già detto di andarci piano, ma lei niente. Non sente ragioni. È una donna in un guscio di ragazzina, il che significa una cosa soltanto: i lupi là fuori hanno il doppio delle ragioni per metterle gli occhi addosso. Sale di corsa le scale fino all’appartamento del quinto piano, armeggia con la chiave nella serratura e si chiude la porta alle spalle. Tripla mandata. Il mazzo vola in un cestino a forma di pagoda. Le hanno insegnato a toglierla sempre dalla toppa. E lei che vive da sola, ascolta e impara. Due stanze, un cucinino, un cesso. Una reggia senza acqua calda. Con un frigo recuperato in discarica. Squilla il telefonino. È il ping di un messaggio in arrivo. Alza l’apparecchio: SONO QUI FUORI APRI. Scuote la testa, è Carlos. Non lo aspettava, ma loro sono sempre imprevedibili nelle consegne, è così

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RACCONTO che funziona. Lei non è parte della musica, è soltanto un tasto della pianola. Un tasto con le tette, e una franchigia del 4 per cento non negoziabile… *** Lancio un’occhiata al cardiofrequenzimetro che porto al polso (capitolato di Polizia, come pistola e distintivo). Ho detto che vedo il futuro, ma non è completamente esatto. Le mie visioni non hanno tempo, galleggiano sopra un mare che non ha alcuna profondità temporale. La mia mente è carta moschicida, si appiccica al male e non se ne stacca più, ovunque abbia deciso di annidarsi. Ieri, oggi, domani. È per questo che visito i luoghi dei delitti irrisolti. Ho però bisogno di uno slancio, di un trampolino da cui buttarmi: adrenalina, pulsazioni, ossigeno… Motivo per il quale, corro. Altre della mia sezione ingurgitano farmaci — norepinefrina soprattutto — o si ammazzano sulla cyclette. Oppure si danno al sesso con caparbio senso del dovere. Io no, corro. Nude pulsazioni portate alla soglia critica di 185 al minuto. Sono quasi arrivata. Attraverso la strada nel paciugo di neve marcia. Aggiro il furgone bianco di una ditta di pulizie, fermo a ridosso del marciapiede. Quasi mi stampo contro uno degli addetti — un marcantonio senza un pelo in testa — che sta scaricando dal pianale

una manciata di scope. “Ehi, troia!” mi grida dietro. Lo ignoro. Trotto rasente al palazzo, dove non corro il rischio di scivolare nel pantano di neve. Il cane mi è di nuovo addosso, carico come una molla. Salta i cumuli marci, è un fenomeno. A un tratto… vedo! *** La porta si spalanca di colpo. “Ehi troia!”. L’uomo sghignazza avanzando dietro il braccio steso. “Daaadàn!”. Impugna un coltello serramanico. Ha il telefonino di Carlos, ma non è Carlos. Sara arretra, inciampa, viene strattonata per il bavero del giaccone. Schizzi di saliva sulle guance. Il tipo continua a sogghignare, fatto come una pigna. Le torce il braccio dietro la schiena puntandole il coltello alla gola. “Carlos non se l’è sentita. Io sì! Ma ti manda i suoi saluti”. Le sfila il cellulare dalla tasca e lo fa sparire nel retro dei jeans. Ansimando rumorosamente la sospinge per il corridoio fino alla minuscola camera da letto. *** Per un istante sono completamente cieca. Incespico, sbando, scivolo. Rallento. Una coltellata, due coltellate… Arranco con le braccia sul muro. Mi fermo. La figura incappucciata: “Ehi, troia!”.

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Letteratura Mi piego in avanti, le mani sulle ginocchia. Volto adagio la testa, boccheggiando. Il bastardello si accanisce sulle gambe della mia tuta da jogging. Ma ormai niente mi può distrarre. Il tipo è tornato al furgone. Forse dovrei chiamare la Centrale e chiedere rinforzi. Ma non posso lasciarmelo scappare. Mi raddrizzo, estraggo la pistola. “Fermo!”. Il marcantonio alza la testa, trasalisce. Scatta. Di là dalla strada. Nuove immagini, una caterva. Mi rallentano! Neve, ghiaccio, il traffico che si è fatto improvvisamente nervoso. Vedo la povera ragazzina spalmata sui riflessi dei parabrezza, il volto che sbianca, il sangue che inzuppa i cofani… Caracollo tra una macchina e l’altra, cercando di guadagnare il marciapiede opposto. Avrei bisogno di rallentare il cuore, di togliermi queste visioni di torno. E invece… Stendo il braccio, allineo la mira. “FERMO!”. “Ehi, troia!”. Uno scooter sbanda, scoda, s’intraversa sbalzandomi a metri di distanza. Le immagini si spengono. Buio. *** “Come si sente?”. C’è un volto che galleggia nel mio cielo. Sbatto le palpebre cercando di metterlo a fuoco. Che posto è questo? Sono immersa nel bianco, ma quello che ho intorno non è neve. Un letto. E di fianco il trespolo con una flebo. Il volto si ritrae. “Ricorda qualcosa, agente?”. Lo guardo come se fossi nuda, inorridita dalle implicazioni della domanda. Il tipo porta una divisa e ha l’aria di essere stato in attesa a lungo. “Qualsiasi cosa” m’incalza. “Da quanto sono qui?”. “Due giorni. Allora c’è qualcosa che ricorda?”. Volto la testa sul cuscino. “Nulla...”

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Letteratura rubrica

di MIRIAM MASTROVITO Sospeso tra sogno e realtà, il Circo è per definizione un microcosmo intriso di magia. Con i suoi suoni, colori, odori esso dischiude le porte all’incanto trascinando adulti e bambini in una dimensione che invita a sospendere l’incredulità e ad abbandonarsi alla meraviglia. Un’esplorazione dei luoghi dell’immaginario che si rispetti non potrebbe rinunciare a una simile tappa, ragion per cui sarà proprio questa la seconda meta del nostro viaggio. Quello di cui voglio raccontarvi però non è un Circo qualsiasi, fra tutti, probabilmente, è il più straordinario. Arriva senza preavviso

e senza fare rumore, come fosse sbucato dal nulla. I tendoni a strisce bianche e nere svettano in uno spazio delimitato da una recinzione in ferro battuto mentre un’insegna, anch’essa bianca e nera, informa i visitatori: Apre al Crepuscolo Chiude all’Aurora. Tutto sembra immobile e trasmette un senso di abbandono fino a che, al calar del sole, un intenso profumo di caramello non comincia a librarsi nell’aria e finalmente accade. Piccoli bagliori, simili a lucciole in volo, iniziano a correre lungo i tendoni e in quel confuso gioco di luci in movimento appare la scritta: le Cirque des Rêves. Varcati i cancelli, il vostro tempo verrà scandito dall’orologio danzante e sarete proiettati in un labirintico mondo da fiaba. Vi ritroverete smarriti tra una miriade di tendoni perché la peculiarità di questo circo è proprio quella di non averne uno solo. Ce n’è uno per ogni attrazione e sempre di nuovi se ne aggiungono. Il visitatore è libero di lasciarsi sedurre dall’insegna che più lo ammalia tracciando così il suo personale percorso alla scoperta delle meraviglie che in ogni anfratto si celano. Gli spettacoli a cui potrete assistere non hanno nulla a che vedere con le solite esibizioni di clown e animali ammaestrati. Il giardino d’inverno, la giostra, il dedalo della nube, la pozza delle lacrime e perfino l’albero dei desideri sono alcune delle strabilianti attrazioni in cui potrete imbattervi. Tuttavia non è solamente questo a ren-

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dere il Circo della notte tanto speciale. Le sue immagini in bianco e nero, dei sogni non hanno solo la tradizionale bicromia ma sono fatte della loro stessa sostanza. Esso non è solo illusione ma è magia che sopravvive in un mondo sempre più restio a riconoscerla, forse è proprio per questo che non si annuncia con volantini o manifesti e preferisce farsi trovare da chi è ancora capace di udirne il richiamo. Sono i rêveurs a rappresentare il suo pubblico di affezionati: uomini e donne che lo seguono in giro per il mondo, in perfetta sintonia con la sua atmosfera onirica tanto che, quasi ne fossero parte integrante, vestono abiti degli stessi colori dei tendoni distinguendosi dagli artisti unicamente per piccole note di rosso, rintracciabili in una sciarpa, una coccarda, un fiore all’occhiello. Non vi inganni però la sua atmosfera festosa perché questo luogo fiabesco nasconde anche un volto oscuro. Dietro le sue quinte sta per consumarsi infatti una grande sfida tra due persone inconsapevoli, due allievi particolar-

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mente dotati scelti e allenati allo scopo. Celia e Marco sono votati sin da bambini a fronteggiarsi in una sorta di duello magico il cui vincitore sarà il solo a poter sopravvivere. Quel che inizialmente appare come il bizzarro divertissement di due potenti maghi, pian piano si rivela essere un gioco perverso destinato a complicarsi quando i due giovani protagonisti si innamoreranno andando contro ogni regola. Il delicato equilibrio su cui si regge il circo sopravvivrà all’imprevisto? L’amore alimenterà o infrangerà l’incanto? Per scoprirlo potrete unirvi ai rêveurs o più semplicemente tuffarvi tra le pagine de Il Circo della notte di Erin Morgenstern. Che scegliate l’una o l’altra via, vivrete un’esperienza unica e quando al sopraggiungere dell’aurora tornerete a casa, avrete difficoltà a comprendere da quale parte stia davvero il sogno.


L'esordio sci-fi di

di VALENTINA BETTIO

GEORGE R. R. MARTIN il papà di Game of Thrones 122 Quando si parla di George R.R. Martin le aspettative sono alte, un nome una garanzia si potrebbe quasi dire: il grande successo della sua saga fantasy Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco e della serie TV della HBO, A Game of Thrones, ad essa ispirata parlano da soli. Ma la bibliografia di Martin è ricca e vasta, caratterizzata da uno stile che si è evoluto nel tempo, e che fin dagli esordi ha saputo convincere il pubblico. In fondo il buio è la sua prima opera

di genere Science Fiction (SciFi) – Dying of the light è il titolo originale, ma il primo titolo fu “After the festival” ("dopo il festival", ndr), poi cambiato nella seconda versione dopo la prima pubblicazione, uscita nel lontano 1977, ricevendo nomination per l’Ugo Award e il British Fantasy Award, ora riproposta dalla casa editrice Gargoyle. Assolutamente lontano dalle atmosfere fantasy-medievali de Il trono di spade, In fondo il buio è ambienta-


Letteratura to su un pianeta morente, Worlorn; un pianeta vagabondo che per un certo periodo è stato abitabile ed ha ospitato il “Festival”, una lunga festa durante la quale ogni popolo dei mondi conosciuti ha edificato la sua città, importando non solo la propria cultura ma tutto ciò che caratterizza l’ecosistema del pianeta di origine. Un Festival in onore di tutte le civiltà, che ormai è arrivato al termine: giunto alla fine della propria peregrinazione attorno alla Ruota di Fuoco, Worlorn sta tornando nel buio e nel gelo e tutto ciò che è stato creato sul suo suolo sta per scomparire, destinato ad essere dimenticato. Un mondo da studiare per l’originale ed assolutamente unico equilibrio ambientale che si è creato, ma che sta esalando gli ultimi respiri. Perché questa era la cosiddetta foresta primigenia, il bosco che l’uomo aveva portato con sé da un sole all’altro […]. Su tutti i nuovi pianeti l’umanità trovava […] piante ed alberi subito capaci di diventare parte integrante della linfa di quelli importati da casa da principio. […] Gli abitanti dei mondi esterni li avevano portati qui […] per aggiungere una nota che ricordasse casa, ovunque essa fosse. Su questo scenario fantascientifico, caratterizzato da notti tristi e permeato di desolazione, si dipanano gli eventi che vedono come protagonisti Dirk, Jenny, Jaan e il tuo teyn Garse, in un intricato susseguirsi di eventi il cui climax, sempre dietro l’angolo ma al contempo irraggiungibile, logora i nervi. Con uno stile forse ancora da

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affinare ma assolutamente vivido e apprezzabile nella sua chiarezza e fluidità, Martin crea un universo complesso e articolato, senza scendere in dettagli inutili ma lasciando piccole briciole sufficienti a capire che ciò che ci sta mostrando è solo la punta dell’iceberg di una realtà troppo complessa, un piccolo scorcio di per sé sufficiente ai fini della narrazione. La galassia da lui creata è ricca di popoli e pianeti dai nomi pittoreschi – Tober-nel-Velo, Darkdawn, di-Emerel e così via –, ognuno con i propri costumi, che interagiscono tra loro senza però influenzare in modo significativo il nucleo di credenze e tradizioni che li contraddistingue. Niente fattezze bizzarre, niente fantasia che corre a briglie sciolte per disegnare razze singolari: tutti i popoli introdotti da Martin sono umanoidi – anche se vengono poi citate creature come “mutaforma”, lupi mannari ecc. che, però, non recitano alcuna parte in questo racconto. L’unica cultura descritta è quella dei Kavalar, rude e violenta, che è trattata approfonditamente in modo da fornire al lettore le basi necessarie a capire le azioni e i ragionamenti che muovono gran parte dei personaggi che si incontrano nella storia, per la maggior parte Kavalar per l’ap-


Letteratura punto. Un popolo guidato da una serie di rigide regole e schemi di comportamento, che si basano sulla violenza e sulla guerra, così lontani dal pensiero comune da risultare grotteschi e difficili da assimilare. Violenza sì, ma anche un forte codice d’onore, che pizzica le corde più profonde dell’animo umano. Un esordio dai toni deliziosamente fantascientifici, cupo e intriso di descrizioni sanguinose accostate a triste poesia, in un connubio affascinante e ambizioso, a tratti ombroso ma di sicuro effetto, che trova la sua massima espressione in Kryne Lamiya, la città sirena dei Darkdawn – uno dei popoli al contempo più inquietanti e affascinanti descritti –, che suona all’infinito la propria musica di pazzia e morte.

Titolo: IN FONDO IL BUIO Autore: George R.R. Martin Titolo originale: Dying of the light Editore: Gargoyle Books Collana: Gargoyle Extra Traduzione: Tarallo&Tintori Pagine: 376 Prezzo: € 16.90 EAN: 978-88-89541-67-8

“È una canzone del crepuscolo e della notte che scende, avverte che non ci sarà mai più un’altra alba, mai più.” Ed è l’atmosfera di questa città che riempie il cuore e meglio descrive Worlorn morente che, lentamente ma inesorabilmente, sta tornando nell’ombra da cui è emerso. Insomma, un Martin a cui non siamo abituati, ma che ci stupisce e delizia cimentandosi in un genere non facile da trattare, senza scadere nello scontato e nel banale, riuscendo a narrarci una storia completa che non necessita di aggiunte accessorie per essere apprezzata e goduta. Una piccola chicca da gustare con calma.

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La chimera di Praga Opera di Max Rambaldi ispirata a "La Chimera di Praga"


Letteratura

La chimera di Praga tra sogni, magia, dolore e speranza I sogni sono veramente desideri, come cantava la Cenerentola disneyana? A riprendere un tema-archetipo è Laini Taylor, autrice de La chimera di Praga (Fazi Editore), capitolo primo della trilogia Young Adult Daughter of Smoke and Bone, nelle librerie italiane da inizio maggio. Un romanzo costruito sul contrasto “angeli-demoni”, in cui l’autrice attua in maniera originale il rovesciamento di diversi cliché, nell’atmosfera di una Praga che, nel suo essere già città esoterica di ispirazione a molte penne fantasy, si carica di atmosfere oniriche dark. Centrale è il ruolo della magia. Se nella tradizione è una dote, naturale o acquisita — in base alla natura di chi la detiene —, che è indice di potere e di possibilità di cambiare le cose, spesso in positivo, in questo romanzo la magia è vincolata al dolore e a una visione sostanzialmente tetra. Non c’è magia senza dolore, così come la realizzazione di un desiderio ha più la parvenza di un contrappasso dantesco o di un patto faustiano. L’unico momento in cui la magia può rivelarsi come valore positivo è in rapporto alla speranza. E non a caso è il significato del nome della protagonista, Karou, studentessa alla scuola d’arte di Praga dalla doppia vita, cresciuta da una famiglia di Chimere.

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di ROBERTA DE TOMI

Karou compie commissioni per Sulphurus, una sorta di “padre adottivo” dedito a “strani” commerci. La giovane va in giro per il mondo, accedendo ai luoghi designati da porte magiche, un po’ come avviene ai giovanissimi protagonisti di Narnia, romanzo che, alla lettura, sembra aver fornito la maggiore ispirazione all’autrice. Proprio mentre sta svolgendo una delle sue commissioni, Karou incontra un Serafino, nemico giurato delle Chimere. Da questo incontro nasce una passione travolgente, che le svelerà gli esiti tragici di un amore proibito del passato e che ha connessioni con il presente; ma a differenza delle tragedie più note, e come avviene ad esempio nel finale della fiaba del Soldatino di stagno innamorato della Ballerina, tra le ceneri di questo sentimento restano residui che ne decretano la vittoria sulla morte. Nel romanzo della Taylor, il “residuo”, come già detto, è la speranza, personificata da Karou, personaggio chiave. Non è un caso se si tratta di una ragazza creativa. La creatività è infatti uno degli strumenti attraverso cui la speranza può realizzarsi, poiché consente di plasmare soluzioni, nel caso del romanzo, a una guerra che prosegue da secoli.


Scheda del Libro Titolo: La Chimera di Praga Tit. Or.: Daughter of Smoke and Bone Autrice: Laini Taylor Casa Editrice: Fazi Editore Collana: Lain Traduzione: Donatella Rezzati Prezzo: € 16,50 ISBN: 978-88-7625-133-7

In questo, avvalendosi di un forte simbolismo, si possono ravvisare molte affinità con l’epoca attuale, contraddistinta da una crisi profonda, a più livelli. Solo la speranza, attraverso strumenti creativi, può portare un rinnovamento, la pace tra Chimere e Serafini. Personaggi questi che hanno tutti i difetti e i vizi degli umani, soggiogati da invidie, bramosie, pregiudizi e voluttà. Onirica, evocativa e d’atmosfera è la scrittura della Taylor, che alla penna alterna il pennello. L’autrice erige un ottimo edificio, strutturato a incastri e a rivelazioni che si palesano gradualmente. Non mancano citazioni dirette e indirette, tra letteratura, arti visive e mitologia, rese da uno stile che, pur avendo una lucidità di fondo, si tende tra il surreale, il gotico e l’impressionistico. Il racconto sembra fatto da una sognatrice disincantata, che sa stare con i piedi per terra.

I desideri sono una finzione. La speranza è vera. La speranza compie la sua magia.

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Letteratura

Il successo letterario di

Suzan n e

Co ll i n s Il “fenomeno Hunger Games”, diffusosi soprattutto in America anche grazie alla recente uscita della trasposizione cinematografica a cura di Gary Ross, si fregia di una nomea che vuole categoricamente distaccarsi dai soliti romanzi per giovani adulti – primo tra tutti, Twilight – in cui l’amore adolescenziale, sempre in primo piano, lascia il posto a tematiche più cruente e importanti, che richiamano alla coscienza problematiche attuali quali l’oppressione dei popoli e il valore della libertà. Non che Hunger Games sia propriamente un romanzo cruento: appositamente diluita nei dettagli più impressionabili, tagliata sui suoi giovani lettori con uno stile asettico, breve ed essenziale, se non scialbo in alcuni punti, la trilogia di Suzanne Collins lascia a desiderare sotto molti aspetti, pur centrando quasi del tutto quella pretesa di differenziazione che si spera coinvolga sempre più i romanzi dal target a cui è destinata. La storia, ormai abbastanza nota al pubblico, è ambientata in un futuro distopico controllato

di FEDERICA URSO

Suzanne Collins

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dall’egemonia della città di Capitol City, dove il lusso sfrenato incontra le abitudini viziose e depravate dei suoi abitanti. La protagonista, Katniss Erverdeen, una diciassettenne schietta e introversa provata dalla morte prematura del padre, ha un solo obiettivo: mantenere in vita la madre medico e la sorella appena dodicenne, Prim. Per questo motivo si offre volontaria quando quest’ultima, contro ogni aspettativa, viene sorteggiata per i terribili Hunger Games, i giochi inumani creati settantaquattro anni prima allo scopo di terrorizzare la popolazione – suddivisa in dodici distretti – e indurla all’obbedienza. Comincerà quindi la disavventura che la porterà

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da anonima ragazza a stella di Capitol City, aiutata dalla fittizia storia d’amore con il compagno di distretto Peeta, anche lui costretto a partecipare. Con un gesto di ribellione verso il sistema oppressivo e terroristico riuscirà infatti ad uscire, insieme al compagno, indenne dai giochi. Un esito non previsto dalla tirannia del presidente Snow, che le costerà la vita di molte persone a lei care e accenderà la rivolta nei vari distretti. Una ribellione che porterà il suo volto, strumentalizzato dalla televisione e dagli stessi ribelli al fine di creare un nuovo mondo che, forse, non si discosterà di molto da quello che si sta tentando di distruggere. Tematiche non nuove, quindi, già note nella letteratura dalla seconda metà del Novecento in poi e, in particolare, nel best seller datato 1999 Battle Royale di Koushuen Takami o, andando ancora più indietro, in romanzi come L’uomo in fuga di Stephen King. L’unica novità sembra, in effetti, la destinazione alla fascia di lettori più giovani, che ha decretato il successo stellare della saga. E, se nel primo episodio questo appare abbastanza giustificato da un prodotto tutto sommato buono e appassionante, i seguiti – usciti in Italia con il titolo La ragazza di fuoco e Il canto della rivolta – non soddisfano le alte aspettative dei lettori più pretenziosi. In particolare La ragazza di fuoco palesa l’esigenza editoriale di compensare lo


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scarto verso la fine, decisamente mal gestito dall’autrice, che sembra girare intorno, dilungandosi su dettagli insignificanti, al punto cruciale: la rivolta. A questa cattiva gestione della trama si aggiunge una malsana fretta per il finale, di cui risente l’intera economia della narrazione: nel secondo volume, su 375 pagine, soltanto 150 sono destinate ad un’altra edizione degli Hunger Games, laddove, nella prima parte, particolari inutili si sommano a forzature piuttosto evidenti. Ancora più evidenti sono, però, i deus ex machina che la Collins adopera per tagliare la descrizione di eventi importanti, e di cui farà sempre maggiore uso fino a renderli castranti nel finale della trilogia. Katniss, frustrata da dolorosi eventi, si ridurrà all’ombra di se stessa, oscurandosi completamente dai destini del suo paese: ritroverà la speranza in un futuro migliore solo grazie all’amore per uno dei due ragazzi che se la contendevano. Un ritratto debilitante, quindi – seppur molto verosimile, salvo dai moralisti eroismi su cui rischiava di inciampare la saga – e un fallimento che fa sentire l’eco di un pessimismo più adulto ma non meno deludente. Ciò si riflette, in particolare, nell’involuzione dei personaggi, regressi ad uno stato di egoistica dissennatezza, nel caso di Katniss, o di calcolata ambizione, nel caso di Gale. Poco coerenti ma – o forse proprio per questo – umani: una piega del tutto inaspettata per un romanzo che prometteva essere un faro all’interno del genere grazie ad un’eroina coraggiosa e fuori dagli schemi, ma che finisce per essere vittima sconfitta di un sistema pseudo-totalitarista che non ha mai volontariamente tentato di annientare. Redenta o forse definitivamente affondata da questa parvenza di realismo, la saga di Hunger Games si apprezza entro i limiti di una storia con molto potenziale vanamente sciupato, e un retrogusto finale soggettivamente amaro.


Letteratura

Zio Lou

Traduzione di MARINA ALBAMONTE

di Elizabeth Hand

Lo zio di Nina, zio Lou, viveva ad Hampstead, in una frondosa stradina secondaria dalla quale si godeva una magnifica vista di Hampstead Heath – in apparenza una sconfinata distesa verde costellata di vecchie querce dove i corvi schiamazzavano e le ghiande piovevano dagli alberi per essere raccolte dai bimbi e, talvolta, dai cani famelici, portati a spasso senza guinzaglio. Nina ricordava che anche lei, da piccola, non molto più grande di un cagnolino, aveva raccolto le ghiande assieme ai suoi genitori, mettendole minuziosamente in fila per gli scoiattoli. Ora che era tornata aveva percepito in questa zona di Londra un non so che di sinistro. Forse gli alberi, così contorti e immensi, vago ricordo di un’immagine inquietante in uno dei suoi libri illustrati. Ben sapeva che oramai quella era diventata una zona d’élite super esclusiva: gli ultimi modelli di auto ibride, Lotus e Volvo parcheggiate nei viali, balie irlandesi e polacche con passeggini trendy, donne filiformi come aironi e i loro microscopici terrier che avrebbero potuto benissimo stare nel palmo della mano di Nina. Era ragazzina e Hampstead era già considerata una zona d’élite ma, a quei tempi, le case dai mattoncini color rame e i recinti in ferro battuto avevano un’aria losca, come se terribili criminali stessero ordendo qualche sporco affare nella rimessa.

Nina aveva quattordici anni quando capì che era zio Lou, non Hampstead, a sprigionare una certa aura modaiola: i lunghi capelli, gli abiti su misura di Dougie Millings, le babbucce dorate con la punta all’insù, come quelle del genio della lampada. Era il suo zio preferito, a dire il vero unico zio e unico parente, se si tralasciava una pro prozia centenaria, probabilmente rinchiusa in una casa di riposo in Costa del Sol. Nina era figlia unica, nessun cugino di primo grado e nonni ormai morti da un pezzo. Anche i genitori, divorziati, erano morti anni addietro, quando Nina frequentava ancora l’università. Da allora, aveva avuto la buona abitudine di far visita a zio Lou una volta al mese o giù di lì, quando lui tornava dai suoi viaggi. Spariva per mesi, lo zio, ad un certo punto e – al suo ritorno – rispondeva alle domande di Nina del tipo “dove fosse stato” facendo segno con un dito sulle labbra: segreto. Negli ultimi dieci anni la vita da giramondo dello zio aveva perso colpi e così Nina ora lo andava a trovare più spesso. Scriveva libri di viaggio e aveva ideato la famosa serie World by Night. Budapest by Night era stato, a sorpresa, il suo primo best seller, seguito a ruota da Parigi by Night, Londra by Night, Marsiglia by Night, Vienna by Night e così via all’infinito. Tutto ciò accadeva negli anni ’60 e agli inizi degli anni ’70 quando il mondo era decisamen-

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RACCONTO te più vasto e molto più esotico. Il turismo bohémien stava facendo capolino nell’industria turistica, alimentato com’era da voci sul pellegrinaggio a Jakarta di Bryon Gysin e Brian Jones, lì per vedere i dervisci rotanti e da quelle sulle orde di figli dei fiori che scappavano a Katmandu e si nutrivano di burro di yak intanto che facevano affari con la droga. Non importa quanto sconosciuto o remoto fosse il luogo, zio Lou vi era stato e tornato a casa prima di voi per stupirvi con una cronaca su dove trovare il miglior negozio di spaghetti di Bangkok aperto anche di notte; o un chiosco di funghi al mercato nero nelle catacombe di Roma; o ancora un locale per voyeur di Stoccolma, spacciato per un cineclub specializzato in film dell’ormai dimenticata star del cinema muto Sigrid Blau. “Ma non si sente mai in colpa?” le aveva chiesto una volta sua madre. Lou era il fratello di suo marito, il maggiore; aveva partecipato alla Seconda Guerra Mondiale e in seguito aveva trascorso diversi anni nell’Europa dell’est; non si sa bene di cosa si occupasse a quei tempi e spesso questo argomento era stato oggetto dei discorsi dei suoi genitori. Era poi ritornato a Londra sfoggiando una lunga chioma all’ultimo grido e, ogni tanto, la barba. Infatti, zio Lou andava in giro bello sbarbato prima della guerra ma, in seguito, era diventato decisamente irsuto e si sbarbava almeno una o, talvolta, due volte al giorno. Tuttavia, aveva continuato a portare i suoi neri capelli lunghi, un vero e proprio segno distintivo nelle foto che lo ritraevano in qualità di scrittore. Sua madre lo aveva sempre trovato alquanto appariscente, un aggettivo tutto suo per indicare gli omosessuali, sebbene zio Lou fosse notoriamente un gran donnaiolo.

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Nina aveva aggrottato le sopracciglia alla domanda della madre. “In colpa? E per cosa?” “Per la promozione di attività illecite”. “Ma di quali attività illecite parli?” replicò Nina. “Le cose di cui scrive danno una mano alle economie locali”. “Ora si chiamano così?” sua madre tirò su col naso e rivolse nuovamente la sua attenzione alla pianta di delfinio. Quel pomeriggio il sole di ottobre inondava con i suoi raggi il vialetto di ciottoli che conduceva a Pallis Mews. La Aston Martin DB4 d’epoca dello zio era parcheggiata di fronte, coperta da un telone cerato verde impiastricciato da escrementi di uccelli, il che faceva supporre che l’auto non era stata usata da un pezzo. Cumuli di foglie gialle si erano ammucchiate contro la porta d’entrata; Nina tirò via una lacera busta di plastica dall’edera e dalle clematidi rampicanti che ricoprivano il muro di mattoni. Non aveva mai fatto visita a zio Lou senza una sua telefonata di invito o – più di recente – un’e-mail. L’invito era sempre preciso, nel tardo pomeriggio o nella prima serata, il che, tradotto, voleva semplicemente dire giovedì 19, arrivo per le 17,15. In cucina lo zio aveva un grande calendario da parete con le fasi lunari, una sorta di pergamena con miriadi di brevi annotazioni scritte con una minuscola grafia e che indicavano esattamente l’ora e i minuti dei vari appuntamenti in programma. Riceveva un ospite alla volta; il suo era un lavoro di tipo solitario e notturno. Una volta, era ancora ragazzina, era arrivata in anticipo di dieci minuti. Sapeva che zio Lou era in casa, lo sentiva lavare i


RACCONTO piatti e – in sottofondo – la radio sintonizzata su Radio2. Lo aveva scorto passare dietro la finestra mentre abbassava il volume della musica. E la porta non si aprì che all’orario stabilito. Stavolta la porta si era aperta prima che Nina avesse bussato. “Nina cara.” Lo zio le sorrise e le fece cenno di accomodarsi in casa. “Sei stupenda. Oh, quelli! non ho ancora avuto modo di disfarmene”. Chiuse la porta e Nina schivò una pila di giornali. Zio Lou era sempre stato un tipo meticoloso, persino schizzinoso. Aveva assunto una donna delle pulizie che, una volta a settimana, ripuliva dalle macchie il tappeto delle Fær Øer, metteva in ordine i cuscini Kilim sul divano bianco, risistemava le sedie, raddrizzava il quadro di Hockey e riponeva i piatti di porcellana danesi nella credenza.

Elizabeth Hand

Anni addietro la donna delle pulizie si era dovuta trasferire a Brighton per stare più vicino ai nipotini. Zio Lou non si era preoccupato di rimpiazzarla e la casa aveva assunto quell’aria provocatoriamente trascurata, come quella di un’entraîneuse da night club che, ben conscia – data l’età – di non poter più permettersi di indossare camicette trasparenti in acetato, seppur con una canottina sotto, continua imperterrita a presentarsi con la stessa mise di sempre. “Lo so, è un macello”. Zio Lou sospirò e si piegò per prendere un giornale vagante che tentava la fuga, riponendolo, con mano leggermente tremolante, in cima alla pila. I piedi ossuti ballavano nelle babbucce con la punta all’insù, le nappe dorate consunte e le dita ricurve ora erano tristemente appiattite. “Al giorno d’oggi, avere qualcuno che si occupi della casa costa piuttosto caro. Ma entra tesoro. Qualcosa da bere?”

Si divide fra Londra e lo stato di New York, e all'università ha studiato spettacolo e antropologia. Una donna eclettica, dunque, tanto da passare dalla scrittura di romanzi basati sull'universo di Guerre Stellari (i cosiddetti EU, Expanded Universe) alla sceneggiatura di episodi di X-Files, al fantasy storico Mortal Love. Passando, ovviamente, per il thriller, di cui La Luce naturale della morte è solo un esempio. Insomma, Elizabeth Hand è una donna dal multiforme ingegno, tanto che il racconto Echo, del 2006, si è conquistato il Nebula Award. Il suo sito web è www.elizabethhand.com

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Letteratura “No grazie. Oh, ma sì, certo, se anche tu prendi qualcosa.” Zio Lou si chinò e le sfiorò la guancia con un bacio. Non si era sbarbato e notò sul collo una preoccupante vescica bluastra – ma in realtà non era che uno schizzo di dentifricio. “La mia piccina” disse e si spostò in cucina. Mentre lo zio preparava da bere Nina diede uno sguardo al suo studio, uno spazio delimitato da muri di mattoni nascosto da una libreria con dozzine – forse centinaia – di copie della serie By Night in varie traduzioni. Vi erano altre pile alla rinfusa di posta ancora chiusa e mai arrivata sulla scrivania dello zio. Diede uno sguardo furtivo a una delle buste. Il timbro postale riportava la data di un mese addietro. Si guardò alle spalle, si mise a scartabellare tra la posta in fretta e furia e trovò della corrispondenza con il timbro della primavera passata. Udì i passi dello zio appressarsi nell’ingresso e si voltò immediatamente andandogli incontro. “Grazie.” Prese il bicchiere di Martini che le aveva offerto – era pulito, almeno – e lo alzò per fare un brindisi. “Cin cin”, disse lo zio. Si incamminarono verso la sala da pranzo che si affacciava su un cortile piuttosto ampio. Anni addietro zio Lou aveva fatto in modo che lo spazio esterno tornasse ad essere un groviglio di cespugli di more, con platani scoloriti dall’assenza di luce ed edera terrestre. Sarebbe stato il luogo ideale per far scorrazzare un cane, ma zio Lou non ne aveva mai posseduto uno. C’erano in giro segni di animali – forse volpi – il che, ad Hampstead, era cosa

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comune, sebbene Nina non avesse mai percepito il loro tipico olezzo muschiato. Si misero a tavola. Zio Lou aveva preparato un piattino di olive e alcuni biscotti un po’ stantii. Bevvero e parlarono di un articolo sui viaggi apparso sul Guardian la settimana precedente, del cane rumoroso dei vicini di Nina e di persone di loro conoscenza. “Notizie di Valerie Minton?” chiese Nina. Finì il suo drink e mordicchiò un’oliva. “È da un po’ che non ne parli”. Lo zio sospirò. “Oh cara, triste storia. Ma non te ne ho parlato? È morta a marzo. Roba di cuore – una vera benedizione. Aveva un inizio di Morbo di Alzheimer.” Tracannò il Martini e posò il bicchiere vuoto accanto al suo. “Lo vuoi un consiglio? Non invecchiare.” “Oh zio Lou.” Nina lo abbracciò. “Ma tu non sei vecchio.” Non era vero, ovviamente. Sapeva bene quanto lo zio fosse diventato esile e fragile. E mandare avanti la casa stava diventando – decisamente – un vero fardello. Gli prese la mano e lo fissò negli occhi. I capelli erano bianchi, più radi di una volta. Il volto era solcato da rughe ma una vita spesa a fare le ore piccole lo aveva preservato dagli effetti dannosi degli ultravioletti, il che gli permetteva di sfoggiare ancora una pelle piuttosto elastica. Zigomi alti, un severo profilo del naso e una fossetta sul mento, sembrava un attore in tarda età; negli occhi un’incredibile sfumatura color ambra che, sotto una luce intensa, apparivano estremamente pallidi, quasi incolore. L’effetto teatrale era accentuato dal suo modo di vestire che, quel pomeriggio, consisteva in una maglietta a stampa con motivi indiani su


Letteratura pantaloni molto ampi di velluto a coste, una volta gialli canarino ma oramai sbiaditi, quasi bianchi come i noccioli di un limone e l’immancabile anellone d’argento all’indice della mano destra. L’anello tremolò non appena mosse il dito per rimproverarla. “Nina, Nina, sono più che anziano, più vecchio di Matusalemme e Dio non me lo perdona.” Nina rise e lo zio si voltò lanciando uno sguardo malinconico al cortile. Ma quanti anni aveva zio Lou? Almeno un’ottantina. Molti dei suoi amici erano morti; altri si erano trasferiti per essere più vicini ai figli o vivevano in case di riposo. La casa di Nina era troppo piccola per ospitare un’altra persona; avrebbe potuto trasferirsi lei a casa dello zio, ma sapeva bene che lui non ne avrebbe voluto sapere. Alcuni anni fa aveva venduto il marchio e il catalogo della serie By Night per una somma considerevole a un imprenditore del web. Forse avrebbe potuto essere incoraggiato a cercare una sistemazione in quelle strutture da fifì in cui vengono ospitati anziani benestanti. Non avrebbe aperto questo discorso proprio ora ma, mentalmente, ne aveva preso nota; magari avrebbe trovato qualcosa del genere vicino ad Hampstead. Zio Lou le strinse la mano. “Ti andrebbe una passeggiata al parco?” Nina annuì. “Buon’idea!” Si incamminarono lungo un sentiero che serpeggiava dolcemente in salita, dominato in fondo da una vecchia quercia. La zona era frequentata da famiglie con bambini e cani che scorrazzavano senza guinzaglio. “Oh, oh” Nina disse. Un setter irlandese dal manto di seta arrivò trotterel-

lando verso di loro. La ragazza si portò al fianco dello zio, in cerca di protezione. “Eccolo che arriva…” Il cane si comportava con lo zio in modo curioso, come se lo conoscesse da tempo: avvicinatosi si acquattò zampe in avanti e ventre a terra; poi cominciò a strisciare lentamente verso di lui con flebili guaiti, scodinzolando all’impazzata. Anche altri cani si comportavano con lo zio in modo bizzarro: abbaiavano o ringhiavano, orecchie all’indietro e coda bassa; poi fuggivano, prima che lo zio potesse accarezzarli e tentasse di rassicurarli facendo dei versi appena percettibili. “Ciao”. Zio Lou si fermò e – sorridendo – fissò il cane. Si piegò lievemente sulle ginocchia e, accarezzando la fronte della bestiola, sentì un fremito. “Tu sei Conor, nevvero? Ma che bravo cucciolotto.” Al tocco del vecchio il setter si alzò in modo goffo e incominciò a danzargli intorno, scuotendo le orecchie. ”Scusi, scusi!” un uomo arrivò di corsa e afferrò il cane dal collare agganciandogli il guinzaglio “Non vorrei che la facesse cadere!” Zio Lou scrollò la testa. “Oh, ma non lo farebbe mai, vero Conor?” Lui si chinò, prese la testa del cane fra le mani e lo guardò fisso negli occhi. Il setter si immobilizzò, come se avesse percepito lì attorno la presenza della selvaggina; poi si accucciò ventre a terra, la testa inclinata da un lato e gli occhi fissi su zio Lou. “Oh, bene, le va a genio”. L’uomo accarezzò la testa del setter e sorrise. “Su Conor, andiamo!”

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RACCONTO Nina fece un cenno di saluto con la mano mentre l’uomo si incamminava a passo svelto trascinato dal setter al guinzaglio. Lo zio le stava accanto mentre guardava le due sagome scomparire fra gli alberi. Si rivolse alla nipote annuendo come se quella circostanza non fosse capitata per caso. “Mi piacerebbe che mi accompagnassi a una serata.” E indicò il sentiero, sottintendendo che avrebbero dovuto incamminarsi verso casa. “Sempre che tu non abbia troppi impegni”. “Ma certamente” Nina replicò. “Dove?” “Allo zoo.” “Allo zoo?” Nina gli lanciò un’occhiata di sorpresa. Sarebbe, infatti stato molto più plausibile un invito dello zio ad un incontro clandestino notturno di dissidenti politici o di artisti, ma non una visita allo zoo. “Sì, lo zoo di Whipsnade, non quello di Regent’s Park, dovremo raggiungere Dunstable in macchina. È una raccolta fondi per la costruzione di un nuovo edificio, mi pare, per i pipistrelli della frutta in via di estinzione o per i kiwi. Comunque, è in notturna. Ci saranno giornalisti, qualche altolocato della zona e alcuni insignificanti VIP. Sai, cose del genere. Qualche PR ha pensato bene che sarebbe divertente se ci fossi anche io e tu potresti farmi da dama per la serata.“ Fece scivolare la mano in quella di lei e Nina rise. “Ma certo, mi sembra divertente. Quando? Devo vestirmi elegante?” “Mercoledì prossimo. Credo che sia richiesto un abbigliamento formale, senza stramberie, ma tu sarai comunque bellissima, tesoro.”

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Arrivarono alla casa di Pallis Mews e zio Lou si fermò. Strappò un fiore di clematide dal muretto ricoperto di edera e si voltò per fissarlo all’occhiello della giacca di lei. “Ecco fatto, il viola è il tuo colore preferito, vero? Grazie per essere passata a trovarmi.” La baciò sulla guancia e Nina lo abbracciò stretto a sé. “Alla prossima settimana.” Zio Lou, i lunghi capelli bianchi svolazzanti nella brezza della sera, annuì e – con andatura incerta – entrò in casa. La settimana seguente Nina si presentò puntuale all’orario concordato, le 16.45, in abbondante anticipo per le abitudini dello zio, ma volevano così evitare il traffico dell’ora di punta sull’autostrada M1. Fuori, di fronte a casa, il telone era stato rimosso e ora, la Aston Martin, riluceva come oro al sole. “Ciao cara, stai benissimo!” esclamò lo zio mentre lei entrava in casa. “Vestito nuovo? Delizioso.” La baciò sulla guancia e lei notò le gote di lui avvampare e un luccichio nei suoi occhi fulvi. “Anche tu stai benissimo” disse lei ridendo. “Ma questa serata cela un altro motivo? Non mi starai mica usando come copertura per un tuo appuntamento? Per un istante lo zio sembrò allarmato ma poi, facendo segno con la mano, disse “no”. Fece finta di sistemarsi la logora giacca di velluto nero a disegno cashmere con ricami argentati. “È da un pezzo che non faccio vita mondana, tutto qui. E, ovviamente, devo essere alla tua altezza.” Aspettò in casa mentre lo zio racimolava le chiavi, gli inviti, un bustone di plastica da spedizioniere dei supermercati Sainsburys e un ombrello.


RACCONTO “Sarà una bella serata” Nina disse, squadrando l’ombrello. “Hai ragione.” Zio Lou posò l’ombrello sul tavolo dell’entrata e si fermò, riprendendo fiato. Dopo un po’ fece scivolare la mano in tasca e tirò fuori un mazzo di chiavi. “Ecco”. Posò le chiavi nel palmo della mano di Nina richiudendole le dita. “Voglio che la guidi tu.” “Io?” gli occhi di Nina spalancati. “La tua macchina?” Zio Lou annuì. “Sì. È che non mi fido più di me stesso. Una volta vedevo meglio di notte che di giorno ma ora…” abbozzò una smorfia. L’ultima volta che l’ho guidata sono finito sul cordolo vicino ai magazzini Tesco. Sai guidare un’auto col cambio manuale? “Sì , certo, ma…” “Te la regalo.” Si voltò e afferrò una busta da lettere dal tavolo di fianco. “È tutto qui, ho già preparato i documenti. Libretto di circolazione e passaggio di proprietà. È tua. Ci sono altri documenti qui dentro. Puoi darci uno sguardo con più calma. Nina osservò le chiavi nella mano. “Ma, zio Lou, sei sicuro?” “Sicurissimo. Così fai colpo su quel ragazzo che lavora nel tuo studio legale. Posso sempre chiedertela in prestito se mi servirà. Bene, faremmo meglio ad andare. Non vorrei arrivassimo in ritardo.” Infilò la busta sotto il braccio e una volta in macchina la fece scivolare nel vano portaoggetti. “Ricordati che l’ho messa qui dentro” disse, e sprofondò nel sedile di pelle. Correvano – direzione nord – nel traf-

fico intenso che cominciò a smorzarsi nei pressi di Dunstables. Lo zoo era in campagna, a pochi chilometri dalla città, all’interno di un’area verde che si stagliava in netto contrasto con il deprimente agglomerato urbano alle sue spalle. Zio Lou abbassò il finestrino e fece entrare il profumo delle foglie d’autunno e del fumo. Sul verde fianco di una collina si scorgeva, in distanza, l’enorme scultura di un leone. La luna stava sorgendo sulla collina, macchiando d’argento il cielo blu pervinca. “Guarda”, disse Nina. “Non è magnifico?” “Magnifico”, rispose lo zio stringendole la mano sul cambio. Arrivarono all’entrata dello zoo poco dopo l’inizio del ricevimento. “Non parcheggiare lì”, disse zio Lou quando Nina mise la freccia per entrare nel parcheggio principale. “Vai avanti, lì, sulla sinistra. È molto meno affollato e dopo potrai uscire più facilmente.” La Aston Martin imboccò allora uno stretto cancello che dava accesso a un parcheggio molto più piccolo dove c’era soltanto una manciata di veicoli, per la maggior parte camion e furgoni dello zoo. “Ma si può parcheggiare qui?” gli chiese dopo aver parcheggiato l’auto sotto una grande quercia dietro indicazione dello zio. “Oh, ma certo. Non si riempie mai. È un segreto.” Si tirò fuori dall’abitacolo con una certa difficoltà tenendosi ben fermo contro la capote, sospirando. “Giuro che questa macchina si rimpicciolisce ogni volta che vi entro” e puntò dritto verso un varco in mezzo ad una siepe cresciuta a dismisura. “Da questa parte”.

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Letteratura “Ma come fai a sapere tutte queste cose?” chiese Nina saltando con una certa cautela fra la siepe. “Oh, beh, ogni tanto vengo qui a trovare degli amici. Ah, credo di aver trovato il posto che cerchiamo…” Lo zoo assomigliava più a un parco che non allo zoo di Londra; più simile a un podere con palazzo monumentale aperto al pubblico. Solo che non c’era il palazzo, ma elefanti, orici e altri enormi animali selvatici. Il crepuscolo sempre più buio aveva lasciato il posto alla sera, il cielo blu come un lapislazzuli, la luna sospesa su di loro e lo scintillìo di poche timide stelle. Rumori sinistri echeggiavano nella notte: acuti cinguettii; un fiutare rumoroso che diventava un muggito; uno strano suono sempre più forte e cupo. “Tarabuso”, disse zio Lou, tendendo il capo in direzione del suono. Nina strizzò gli occhi nella luce che scoloriva. “E tu come lo sai?” “Sono una fonte inesauribile di informazioni inutili. Vi ho costruito una carriera.” Il sentiero li condusse in una vasta area dove la folla si accalcava all’entrata di un tendone bianco. Alcuni addetti alla sicurezza e diversi uomini e donne in divisa identificabili come custodi si mescolavano fra la gente in abiti che – con l’eleganza – avevano solo un lontana parentela. Accanto al tendone, in una piccola biglietteria, una signora di mezza età in una mantellina di pelliccia ecologica esaminò l’invito di zio Lou. “Ma io la conosco” disse, rivolgendogli un sorriso smagliante. “Per colpa di Atene by Night ho incontrato mio marito. È sua figlia?”

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“Mia nipote.” Zio Lou prese la mano di Nina nella sua. La donna smarcò i loro nomi sulla lista e fece un cenno in direzione del tendone. “Potete andare a prendere dello champagne. E buon divertimento!” Il ricevimento era stato organizzato a favore di un nuovo rifugio – del tutto all’avanguardia – per i gufi comuni, gufi a rischio di estinzione come il gufo reale eurasiatico e il gufo nano. Sotto il tendone, tavolini apparecchiati in bianco e argento, ospitavano vassoi di tartine e antipasti elaborati che ricordavano, nella forma, gufi, lune piene e pipistrelli. In un angolo, un grande gufo con una catena sottile attaccata alla zampetta era appollaiato sulla mano di un ragazzo alto e biondo che indossava un guanto di pelle per proteggerla e la livrea degli addetti del parco. Molti ospiti si erano radunati intorno al gufo che li guardava con minacciosa alterigia arruffando ogni tanto le penne e chiudendo il becco con fare rumoroso. Dopo una puntatina diritto al bar, Nina e zio Lou ora gironzolavano sotto il tendone e – sorseggiando lo champagne – ammiravano il plastico in 3D della futura Casa del Gufo. Alcune persone si avvicinarono a zio Lou, gli strinsero la mano e lo salutarono chiamandolo per nome, compresa Miranda Eccles, un’anziana scrittrice di una certa fama. Nina aveva sempre sentito dire in giro di una storia d’amore tra i due. Mentre parlavano, la ragazza sgattaiolò per andare a prendere altri due bicchieri di champagne ma quando tornò, la donna non c’era più. “Andiamo a salutare il gufo”, disse zio Lou. Mollò il suo bicchiere vuoto a un cameriere che passava e prese quello pieno


Letteratura da Nina. Procedettero lentamente verso il gruppo di fronte, facendo attenzione a non versare lo champagne. Il gufo dava le spalle agli spettatori. “Non trovi che assomigli a Miranda?” osservò zio Lou. Il gufo ruotò la testa bruscamente disegnando uno sconcertante angolo di 260 gradi. Gli occhi gialli fissarono zio Lou, le pupille grandi come una moneta da una sterlina. Senza alcun preavviso aprì le ali agitandole con fare minaccioso e schiuse il becco per emettere uno stridio assordante. Nina rimase senza fiato, altri gridarono per poi scoppiare in una risata nervosa non appena l’addetto pose velocemente un cappuccio di tela sul volatile. “È irrequieto,” spiegò, sistemando il cappuccio. “Luna piena, vuole andare a caccia. E non è abituato a tanta gente.” “Mi sento anch’io così.” Zio Lou prese Nina per il gomito e la condusse verso l’uscita. “Andiamo fuori a fare due passi.” Si sbarazzarono dei bicchieri vuoti e si incamminarono nella notte. Sembrava che lo champagne avesse dato a zio Lou nuovo vigore: si voltò indietro, fissò la luna; rise e puntò verso un nero groviglio di alberi in lontananza. Disse “Qui.” Cominciò a correre così velocemente che Nina riusciva a malapena a stargli dietro. Quando lo raggiunse lui le prese la mano e rallentò. “Sei stata davvero una brava nipote.” Abbassò lo sguardo su di lei. Nina notò per la prima volta che aveva dimenticato di sbarbarsi, forse non lo faceva da giorni. Una barba grigia, corta e ispida gli ricopriva la mascella e il mento. “Mi chiedo come mio fratello e tua madre abbiano

potuto fare una figlia così meravigliosa, ma sono felice che ti abbiano fatta.” “Oh, zio Lou.” Gli occhi di Nina pieni di lacrime. “Anch’io.” “Lo so. Ecco”. Si fermò e con non poco sforzo si sfilò l’anellone d’argento. Afferrò il polso di Nina e glielo infilò all’indice della mano destra. “Voglio che lo abbia tu.” Lei lo guardò stupita. “Mi va! Mi è sempre sembrato così grande!” Un raggio di luna fece risplendere il ciuffo bianco di zio Lou; si portò l’anello alle labbra e le baciò le nocche, i capelli bianchi, soffici sul mento le sfiorarono la punta delle dita. “Ma certo che ti va. Abbiamo le stesse mani,” disse e lasciò la presa. “Andiamo.” Attraversarono con facilità habitat modificati. Si imbatterono in cartelli che – nascosti dietro fossati o recinzioni abilmente progettati per sembrare rampicanti, canne o alte graminacee – segnalavano la presenza in quei luoghi di antilopi e cammelli battriani. Sbucarono in una strada aperta al solo transito dei mezzi dello zoo alla quale si accedeva da un cancello che conduceva ad una savana artificiale dove cacciavano leoni e ghepardi. Nina non scorgeva la presenza di animali sebbene, ogni tanto, percepiva il puzzo di sterco o muschio, l’aspro odore di fango di uno stagno artificiale o di una palude. Grugniti e stridii si erano affievoliti in un buio sempre più fitto e le creature tutte si disponevano per la notte o, se predatori, diventavano silenziosi e guardinghi. Ma ecco che, dagli alberi, risuonò un grido incerto e solitario per poi dissolversi bruscamente così come era nato. Nina si sentì raggelare.

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RACCONTO “Cosa è stato?” sussurrò. Ma zio Lou non rispose. Si avvicinarono alla zona alberata, nel punto in cui il vialetto di ghiaia si biforcava. Senza esitazione alcuna zio Lou prese a sinistra. Lungo il sentiero si profilavano ancora più alberi, i rami si intrecciavano in un boschetto ribelle, in una boscaglia di piante spinose. Ghiande e faggine scricchiolavano sotto i loro piedi, sembrava che stessero entrando in una foresta. Vi era un odore pungente di felce e poi un altro ancora, che non riuscì a distinguere ma che sapeva, di certo, di animale. Zio Lou si fermò dopo alcuni minuti. Lanciò uno sguardo dietro di sé e – per un istante – rimase fermo, in ascolto. “Per di qua” disse chinando la testa sotto gli alberi. “Ma possiamo stare qui?” gli chiese Nina con un filo di voce insistente, ma lo zio le fece eco. “Di notte, tutto è possibile. Shhh!” Lei farfugliò qualcosa cercando di sbirciare nonostante la folta vegetazione. Riuscì finalmente a piegare la testa e a farsi largo facendosi scudo con le mani sul volto. Le more erano dappertutto sul vestito e quando un rovo le graffiò la gamba, trasalì. Poi il sottobosco si diradò e Nina si ritrovò in una radura coperta da foglie secche. Enormi alberi si stagliavano minacciosi contro il cielo illuminato dal bagliore della luna. Zio Lou stava lì, sotto un albero, respirava affannosamente, lo sguardo fisso verso una collinetta a qualche centinaia di metri di distanza, alberi sul pendio tra rocce e viti selvatiche. “Zio Lou?” Fece per andargli incontro ma si raggelò appena scorse una figura scura che

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ondeggiava fra i massi; poi scomparve. Prima che riuscisse ad emetter suono udì la dolce voce di zio Lou. “C’è una recinzione.” Deglutì, e battendo le palpebre cercò di guardare nella direzione da lui indicata; scorse una tralicciatura, appena visibile, di rete metallica attorcigliata. Attese che il battito del cuore tornasse alla normalità, poi si precipitò al suo fianco. E ora, sì, riusciva bene a scorgere dietro alla rete metallica, un profondo fossato in cemento largo 6 metri – o giù di lì – che si estendeva nell’oscurità in entrambe le direzioni. La vite era cresciuta qua e là sui bordi ricoperti da strati di muschio e foglie secche. Si trovavano alle spalle di uno dei recinti, un posto assolutamente vietato ai visitatori. “Zio Lou,” Nina sussurrò con una nervosa voce stridula. Ma non appena ebbe aperto bocca si materializzò nuovamente quella figura indistinta, immobile, sul lato più lontano del fossato, proprio di fronte a loro. Chinò il capo mostrando il dorso massiccio; raggi di luna rilucevano nei suoi occhi così che – per un istante – si tinsero di rosso, poi distese le zampe anteriori e si acquattò. Un lupo. Nina lo osservava attentamente, lacerata tra un senso di sconcerto e le sue ataviche paure, per nulla rassicurata dalla presenza del fossato. Ma quando una seconda sagoma guizzò affianco alla prima trasalì. “Sono buoni,” le sussurrò zio Lou. Un terzo lupo sbucò dagli alberi trotterellando, e un altro, e un altro ancora


RACCONTO finché, alla fine, ai piedi della collina se ne schierarono sette. Fissavano il vecchio, la lingua a penzoloni fra le lunghe fauci. Si accovacciarono sull’erba uno alla volta, in posizione guardinga. “Cosa fanno?”, sussurrò Nina. “Quello che facciamo noi,” rispose zio Lou. “Scusami un secondo – la natura mi chiama…” Le diede una pacca sulla spalla e si diresse a passo svelto dietro un altro albero. Nina si voltò per educazione – a volte capitava che lo zio si allontanasse nel bel mezzo di una lunga passeggiata nel parco vicino a casa e ritornasse, scuotendo la testa borbottando “vescica da vecchio.” Rivolse nuovamente lo sguardo ai lupi che ora sembravano alquanto irrequieti. Il lupo più grande rizzò il capo. Stava scrutando qualcosa su in alto poi si alzò in modo goffo. Nello stesso istante Nina udì un fruscìo tra le cime degli alberi seguito da uno scricchiolìo. “Zio Lou?” Lanciò un’occhiata all’albero dietro il quale lo zio era andato a liberarsi. “Tutto bene?” Il fruscìo divenne più forte. Nina alzò lo sguardo e vide uno dei rami più alti piegarsi pericolosamente tanto che la punta lambiva il fossato. Un grosso animale biancastro stava scendendo dal grande ramo precipitando foglie secche e detriti sul terreno di sotto. Un raggio di luna illuminò il ramo e Nina portò la mano alla bocca: zio Lou nudo procedeva a passo lento, il ramo, sotto il peso, si fletteva sempre più. I lupi sussultarono e si misero in fila lungo la recinzione, gli occhi fissi

sulla figura sopra di loro. Il grosso ramo si spezzò con un fragoroso schianto. Nello stesso istante zio Lou fece un balzo, la sua pallida forma si attenuò nell’oscurità, atterrò sull’erba e rotolò fra quelle creature. Nina lanciò un urlo e avanzò, poi si fermò; faceva fatica a riconoscere suo zio – in quella immagine indistinta frammista di foglie e polvere, ricoperta di pelo – dall’altro lato del fossato. I lupi gli danzavano intorno, code basse, teste alte, poi – quando uno dei lupi fece per alzarsi – indietreggiarono. Aveva quasi la stessa mole del lupo più grande. Il muso bianco e grigio-piombo e la punta argentata. Scrollò il capo sollevando un turbine di foglie e rametti, impietrito mentre l’altro grande maschio gli si avvicinava per annusargli prima il posteriore e poi il collo. Infine sfiorò il muso bianco del nuovo arrivato, con un ringhio giocoso, come in una finta battaglia e gli altri lupi, con un guizzo, si unirono al gioco menando la coda. Nina osservava, era troppo sconvolta, non riusciva a fare un passo. Solo quando i lupi si voltarono e cominciarono a fluire nel buio riuscì a urlare. “Aspettate!” Il lupo più grande si fermò e – voltatosi – le lanciò un’occhiata, poi scomparve nel sottobosco assieme agli altri. Solo il lupo grigiastro si attardò a guardare Nina. Sostenne lo sguardo di lei a lungo, gli occhi fulvi e il muso chiaro si rivestirono d’oro al chiarore lunare. Poi, anche lui andò incontro al buio. Nina scosse la testa cercando di riprendere fiato. Lo stupore si fece più denso – era terrorizzata pensando al ricevimento che si stava svolgendo non lonta-

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Letteratura no da lì. Corse all’albero che aveva scalato zio Lou e lì sotto trovò la busta di plastica dei supermercati Sainsbury. Dentro erano i suoi abiti, la giacca di velluto e i pantaloni a coste, le calze e l’intimo e per ultime, le logore babbucce con la punta all’insù. Nel vederle scoppiò a piangere, ma si asciugò prontamente le lacrime. Afferrò la busta e portandola al petto, si catapultò in direzione degli alberi e del ricco sottobosco finché raggiunse nuovamente il sentiero. Riuscì, in qualche modo, a ritrovare la strada che conduceva al parcheggio dove aveva lasciato la Aston Martin. Non incontrò anima viva. Camminava a passo svelto, ma poi incominciò a correre man mano che si appressava alla siepe che limitava il parcheggio. La luna era tramontata dietro gli alberi. I suoni provenienti dal ricevimento erano scemati da un pezzo nel lontano ronzio delle auto che andavano via. Mise in moto la Aston Martin guidandola con cautela nel viale di accesso. Il cuore era a mille e cominciò a calmarsi soltanto quando imboccò l’autostrada. Ora singhiozzava senza freni, ma riusciva ancora a tener d’occhio il contachilometri per non superare il limite di velocità. Finalmente era arrivata a casa. Parcheggiò l’auto nel garage sottostante e lasciò un biglietto sul parabrezza per il guardiano; in questo modo non avrebbero rimosso l’auto forzatamente. Recuperò la busta dal vano portaoggetti, racimolò gli effetti personali di zio Lou e andò di sopra. Si servì qualcosa di forte – un Martini – lo trangugiò tutto d’un fiato e, con mano tremolante, aprì la busta. Vi trovò una lunga e affettuosa lettera dello zio, il certificato di proprietà della Aston Martin, istruzioni molto dettagliate su come disfarsi de-

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gli abiti e le risposte alle inevitabili strane domande che sarebbero ben presto sorte riguardo alla sua scomparsa. Trovò anche i recapiti dello storico commercialista dello zio e del suo avvocato. Naturalmente, una copia del testamento. Oltre alla macchina, Nina ereditava l’appartamento di Pallis Mews e tutto quanto in esso contenuto insieme ad azioni della By Night. E c’era pure un generoso lascito per lo zoo di Whipsnade, con una clausola indicante una cospicua somma da destinare, per sempre, alla salvaguardia dell’habitat del lupo bianco. Nina vendette la Aston Martin. Costava caro mantenerla e poi si preoccupava che potesse essere danneggiata o rubata. Sei mesi dopo si trasferì nell’appartamento di Pallis Mews, non prima di aver provveduto ad alcuni lavoretti di ristrutturazione e aver regalato gli abiti ancora buoni dello zio ad un organizzazione umanitaria, tenendo per sé, però, le babbucce con la punta all’insù. Va ancora a trovare zio Lou, ogni settimana. Prende il treno per Luton e il bus che porta allo zoo. Raramente il settore in cui sono ospitati i lupi è affollato, neppure di domenica e Nina spesso se li gode sola soletta. A volte, il vecchio lupo grigio si accuccia sul bordo della recinzione e la osserva attentamente con quegli occhi fulvi e – di tanto in tanto – atteggia il bianco muso all’insù e ulula, quasi gorgheggia come un tirolese. Ma molto più spesso lo trova sdraiato su di un masso ricoperto di muschio, respiro lento, occhi chiusi. Dorme, nel pomeriggio assolato: una vera goduria da lupi.


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Il fantas y

orie nta le Sebbene il fantasy orientale abbia destato in Europa e USA la curiosità di molte persone grazie soprattutto ad anime, manga e ad alcune pellicole cinematografiche, bisogna riconoscere che allo stato attuale nella sua versione letteraria rimane ancora pressoché sconosciuto. Soprattutto per quanto riguarda le particolarità che lo contraddistinguono.

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di MASSIMO SOUMARÉ

una frontiera ancora ignota

Esso si compone di opere differenti da quelle che siamo abituati a leggere dove mancano, sostituiti da altri, parecchi degli elementi caratteristici presenti nei testi occidentali di questo filone. Sono assenti, ad esempio, le creature sovrannaturali del mondo nord europeo che cedono invece il passo a quelle del folklore cinese, giapponese e di altri paesi asiatici. Sono storie concettualmente assai diverse dai racconti d’ambientazione orientale degli scrittori americani ed europei. Nello specifico, nel fantasy giapponese e cinese possiamo distinguere due filoni principali. Uno che si ricollega strettamente alle tipologie occidentali di questo genere fantastico e un altro che basa le sue radici su miti, leggende e religioni dell’Estremo Oriente. Nel secondo caso, i protagonisti sono spesso guerrieri solitari che ricordano le figure degli scontrosi rônin del medioevo nipponico o i wuxia, i cavalieri erranti cinesi. Spesso sono dei paria senza compagni, appena tollerati dalle rigide caste delle società costituite. D’altra parte, nel caso della produzione giapponese, dobbiamo considerare che ci troviamo di fronte ad una società in cui è il gruppo ad assumere importanza rispetto al singolo. Ecco quindi che il concetto della compagnia d’avventura presente in molte opere americane ed europee diviene meno importante e sostituito dall’opposto motivo, del singolo che agisce individualmente. Ovviamente l’eroe ha degli amici che lo aiutano, ma spesso si tratta


d’individui che decidono semplicemente di agire per un tempo limitato o per un particolare scopo con il protagonista il cui senso di solitudine continua a permanere. Tale caratteristica la troviamo, per citare solo alcune tra le molte opere esistenti, sia nel ciclo di Seirei no moribito (Il guardiano dello spirito) di Nahoko Uehashi composto di dieci romanzi il cui primo volume, inaspettatamente, è stato tradotto e pubblicato anche in italiano con il titolo di Moribito - Il guardiano dello spirito da Salani Editore nel 2009, diventando il primo libro di «fantasy orientale» scritto da un giapponese a essere edito nel nostro paese; sia nel ciclo di Jûnikokuki (I dodici regni), undici volumi per un totale di oltre sette milioni e mezzo di copie vendute nel solo Giappone illustrati magistralmente da Akihiro Yamada, di Fuyumi Ono tradotto anche in inglese e che introduce stilemi al di fuori di quelli canonici quale l’idea della quest classica che qui viene ampiamente modificata. In entrambe le due serie, scritte per un pubblico di adolescenti ma lette da un notevole numero di adulti egualmente a quanto è avvenuto con Harry Potter di J. K. Rowling, i toni cupi e a volte la crudezza psicologica e fisica di alcune scene possono lasciare turbati i lettori. Tuttavia esse contribuiscono a conferire una grande realtà e un profondo pathos drammatico ed emotivo alla storia.

In Moribito, Nahoko Uehashi, antropologa che insegna alla Kawamura Gakuen Women’s University e che ha vissuto tra gli aborigeni australiani, riesce a infondere nelle pagine dei suoi romanzi ciò che ha imparato dalle sue esperienze personali descrivendo, ad esempio, in che modo si concia una pelle o come si caccia. Lo stesso vale per i combattimenti e gli scontri. La Uehashi, infatti, ha fatto ampiamente tesoro delle sue conoscenze nelle arti marziali. Per Balsa, la volitiva e battagliera protagonista della storia, il passaggio da una vita tranquilla a una sanguinosa genera un desiderio di morte parossistico. La conseguente ricerca di un equilibrio, che è l’accettazione della propria parte di luce e tenebre, costituisce un elemento importante. Elemento ripetuto del fantasy orientale e che ritroviamo pure nel personaggio di Yôko di Jûnikokuki. Anch’esso ambientato in un mondo fantastico ma con regole e una concezione del mondo fortemente legata al concetto e alla filosofia di governo degli imperatori cinesi, a differenza di Moribito che invece si fonda sul modello del Giappone medioevale. Jûnikokuki, che da luglio del 2012 passerà dall’editore Kôdansha alla Shinchôsha e sarà interamente riedito in una nuova veste grafica, per di più mette in evidenza un aspetto che invece non viene praticamente mai trattato nelle opere

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di fantasy orientale di autori occidentali, cioè quello della scrittura (considerato il diverso background culturale degli scrittori non c’è da stupirsi; in Giappone, Cina e Corea è data grande importanza alla calligrafia). Nell’universo dove Yôko viene catapultata esiste un sistema di caratteri simili a quelli cinesi e giapponesi, ma con caratteristiche del tutto originali e Fuyumi Ono dedica vari brani ad approfondire il concetto di questa scrittura. Un tocco che contribuisce ad affascinare il lettore. Un notevole successo, inoltre, ha conosciuto la serie Saiunkoku monogatari (Storia del paese delle nubi colorate) di Sai Yukino destinata a un pubblico di ragazze, ma anche molto amata dagli adulti, modellata sulla struttura dell’antico sistema amministrativo della Cina della dinastia Tang (618-907 d.C.) e sui classici della letteratura cinese I briganti, attribuito a Shi Nai’an (1296-1372 d.C.), e Il romanzo dei tre regni scritto da Luo Guanzhong (13301400 d.C.). Anche i primi due racconti della serie del monaco zen Ikkyû Sôjun, misto di horror e dark fantasy collocato storicamente nel Giappone tra il XIV e il XV secolo, dello scrittore Ken Asamatsu (noto internazionalmente anche per le antologie da lui curate pubblicate dalla Kurodahan Press) editi in Italia nelle antologie ALIA3 e ALIA Giappone della CS_libri sono preziosi per vedere quanto complesso e diverso dal contesto americano e europeo sia stato lo sviluppo del fantastico nell’Estremo Oriente. Il filone del fantasy d’impronta occidentale è, invece, rappresentato da titoli quali il monumentale ciclo di Guin sâga (La saga di Guin, edito in Italia dalla Editrice Nord nella traduzione condotta sulla versione inglese) di Kaoru Kurimoto (1953-2009), da Arusurân senki (La leggenda di Arslan) di vaga ispirazione persiana di Yoshiki Tanaka, che dimostra come gli autori nipponici sappiano muoversi in ogni ambientazione, da Rôdosutô

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senki (Cronache della guerra di Lodoss) di Ryô Mizuno, dal romanzo Gin’iro no Shanûn (Shanoon l’argenteo) e dalla trilogia Âsâô kyûtei monogatari (Storia della corte di re Artù) di Reiko Hikawa. Guin, il muscoloso eroe di La saga di Guin dalla maschera di leopardo, riunisce in


nUOVI ORIZZONTI sé le figure di diversi eroi classici della Sword and sorcery. Deve molto al personaggio di Conan di R.E. Howard, possedendone la medesima forza e furbizia, ma è molto più freddo e ha conoscenze decisamente maggiori, tratti che, insieme con una certa aurea da eroe maledetto, lo avvicinano pure al Kane di K. E. Wagner e in misura minore a Elric di Melniboné

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di M. Moorcock in quanto possessore di capacità «magiche» come quella che gli consente di poter comprendere ogni tipo di linguaggio. Eppure, anche qui riscontriamo delle particolarità giapponesi osservabili, più che nei temi trattati, nelle descrizioni degli ambienti e dei personaggi e nell’atmosfera. In Ôkami to kôshinryô (Il lupo e le spezie), Isuna Hasekura crea una vicenda costruita sulla dimensione commerciale dell’Europa del medioevo/Rinascimento dando vita a un fantasy originale dove, a parte alcuni elementi magici, la vicenda si concentra sulle attività di compravendita con il tipico amore nipponico quasi manualistico ed enciclopedico per il dettaglio della vita di tutti i giorni e sulle professioni unito a una grande abilità nel tratteggio dei personaggi. Reiko Hikawa, specializzata particolarmente nel fantasy di tipo occidentale, nell’interessante saggio scritto a quattro mani con Davide Mana Amici immaginari - L’Occidente nel fantasy giapponese e il Giappone nel fantasy occidentale: streghe e miko, cavalieri e samurai (incluso nella rivista Porti di Magnin n° 73, 2011), nota come nel suo libro Gin’iro no Shanûn, in cui descrive cavalieri occidentali, abbia involontariamente inserito un elemento che non dovrebbe apparire in un’opera fantastica ispirata alla storia medievale europea. La reincarnazione. E ancora, ammette che in Âsâô kyûtei monogatari, trilogia che riprende il mito arturiano, pur sforzandosi di non apportare modifiche ai temi principali della leggenda, la parte su cui ha riscontrato maggiori problemi nella stesura è stata quella sul Santo Graal perché faticava a comprendere il significato profondo della coppa che aveva raccolto il sangue di Cristo. Dal suo punto di vista, la leggenda di Artù e il Santo Graal sono argomenti esotici e difficilmente comprensibili. Non per nulla, nonostante i numerosi riferimenti che troviamo nei manga,

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anime e videogiochi giapponesi a re Artù (un titolo per tutti il bel Fate/stay night), la letteratura fantastica nipponica all’opposto ha prodotto pochissimo riguardo al suo mito e per trovare un altro testo ispirato al leggendario re inglese dobbiamo addirittura risalire a un racconto del grande romanziere Sôseki Natsume (1867-1916). Le riflessioni di Hikawa ci portano a domandarci anche quanto ci sia in realtà di pensiero, filosofia e storia occidentali nei lavori degli autori americani ed europei che scrivono fantasy di ambientazione orientale. Intendiamoci, libri come La leggenda di Otori di Lian Hearn o Kizu no kuma di Francesca Angelinelli sono narrativamente ben scritti e curati nelle ricerche, ma indubbiamente esiste una differenza fondamentale, che è sempre bene tenere presente, tra il fantasy orientale prodotto da autori occidentali e quello da orientali. Il primo può essere pensato come un’elaborazione di un Oriente visto attraverso i filtri della cultura occidentale, così come il fantasy occidentale degli scrittori orientali che è invece modificato attraverso il sentire della cultura in cui sono cresciuti. Indiscutibile è la popolarità raggiunta nel Sol Levante da alcune opere fantasy, tra le quali spicca il grande successo di The Slayers di Hajime Kanzaka (il cartone animato è stato trasmesso anche nel nostro paese) arrivato a superare la sbalorditiva cifra di venti milioni di copie vendute, piazzandosi così alle spalle del popolarissimo La saga di Guin con i suoi oltre trenta milioni di copie. Se esiste un fantasy giapponese rivolto a un pubblico più adulto, in questi ultimi anni, ugualmente alla fantascienza, i maggiori successi tra i lettori sono però nati nel genere delle «light novels», una specie

di corrispettivo della letteratura «young adult» americana, illustrati da disegni in stile manga e anime. Assistiamo, poi, a un forte sincretismo tra i vari generi del fantastico, a ragione del quale frequentemente non è così semplice catalogare i diversi lavori, e che raggiunge vette estreme in una serie di grande successo quale To aru majutsu no indekkusu (A certain magical Index) di Kazuma Kamachi, perfetto equilibrio tra SF e fantasy, con personaggi dotati di poteri ESP contrapposti a maghi. È inoltre da considerare come il fantasy cinese, molto più di quello nipponico, sembri mostrare una predilezione per le storie basate sulla tradizione autoctona. Haitian Pan, ex-architetto e scrittore, nel 2002 con alcuni amici, ha creato un mondo alternativo fantastico di stampo orientale denominato Jiuzhou (Nove terre) e dal 2004 è capo editor della rivista Odyssey of China Fantasy nella quale sono pubblicati storie lì ambientate e la cui prima edizione ha venduto oltre ottantamila copie. Il suo racconto Yongheng de cheng (La città eterna) facente parte, per l’appunto, del ciclo della saga delle Nove terre è stato edito anche in Italia nell’antologia ALIA storie, CS_libri, e la sua lettura è utile per incominciare ad accostarsi al tipo di fantasy oggi prodotto in Cina. Il genere è molto attivo anche in Taiwan e in Corea, dove alle numerose pubblicazioni in traduzione dei romanzi giapponesi si affianca l’ampia e ormai matura produzione degli scrittori locali sviluppando una dimensione letteraria del fantasy proveniente dall’Oriente, estremamente estesa ed importante, che meriterebbe di essere maggiormente tradotta e conosciuta sia in America che in Europa.

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Romanzo di Fuyumi Ono/illustrazione di Akihiro Yamada/editore Shincho Bunko


Si leggono libri nello Yemen? Ci sono scrittori laggiù? Hanno dei giornali da leggere? Di cosa scrivono? La risposta è ovvia: nello Yemen esiste una letteratura, giornali di ogni genere fanno capolino dalle piccole edicole e gli stili degli autori sono di ottima qualità. L’unico ostacolo, come appare dalle domande suddette, è la conoscenza, lo studio e la diffusione, in Occidente, di questo tipo di letteratura. Se ne parla troppo poco. Un vero peccato se pensiamo al grande patrimonio culturale che perdiamo e alla possibilità di venire a contatto e conoscere un mondo diverso ma ricco. La storia della narrativa yemenita è piuttosto giovane e strettamente legata ai cambiamenti storici e sociali avvenuti nel Paese. Inutile negare che la piaga più dolorosa è, ancora oggi, quella dell’analfabetismo e che in certi luoghi della regione lo stile di vita è ancora arcaico. L’unificazione avvenuta nel 1990 ha rappresentato una “data spartiacque” nella società yemenita, avvicinando il Nord conservatore al Sud più aperto. La letteratura è stata fortemente influenzata da tutti questi stravolgimenti, ma ha saputo trovare una strada propria e molto particolare, a metà fra modernismo e tradizione, per un motivo ben preciso: un lungo isolamento rispetto agli altri Paesi arabi, dove il risveglio culturale, cioè la nahdah è arrivato prima, e una forte emarginazione rispetto all’Occidente.

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la letteratura

di FRANCESCA ROSSI

tra voglia di cambiamento, malinconia e rivendicazioni politiche I temi ricorrenti nelle produzioni degli autori yemeniti sono molteplici: l’emigrazione è il più sentito, dal momento che molti uomini, per continuare gli studi o lavorare, sono costretti a partire verso l’Europa, gli Stati Uniti, o altri Paesi arabi; la poligamia, strettamente connessa alla questione dell’emigrazione, poiché gli uomini che espatriano spesso si rifanno una vita nella nazione che li ospita e, al loro ritorno, sono accompagnati dalle nuove mogli; la solitudine delle donne che restano da sole ad attendere mariti e fidanzati; il diritto allo studio ed il problema dell’analfabetismo, soprattutto femminile, che non consente alle giovani di essere veramente libere; i matrimoni combinati, consuetudine nello Yemen, che spezzano per sempre i sogni di molte ragazze; la questione delle spose bambine, di drammatica attualità; l’emancipazione della donna; le dure condizioni di vita, soprattutto nelle zone rurali, a cui sono collegati i temi della povertà, delle malattie e dell’ignoranza; il difficile rapporto uomo/ donne; il nazionalismo ed il desiderio di vivere all’interno di uno Stato che sancisca uguali diritti e doveri. La figura della donna è la più sfaccettata: è madre, moglie, giovane sposa che attende il ritorno del marito, simbolo di una condizione e di una nazione, figlia che obbedisce o si ribella pur sapendo che può costarle la vita, eroina o derisa senza pietà.


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Gli autori yemeniti hanno saputo raccontare tutto questo cercando di fondere contenuti profondi e complessi con uno stile e generi d’avanguardia, di sperimentazione e con un gusto estetico in continua evoluzione. Nonostante la “giovane età” di questa letteratura, vi sono già due generazioni di scrittori che si distinguono non solo per l’evidente fattore cronologico, ma anche per le scelte stilistiche. In cosi poco spazio non è possibile menzionarli tutti, ma dovremo accontentarci di analizzare solo qualche esempio tra i più rappresentativi:

Zayd Muti Dammag (1943-2000) è uno dei più noti romanzieri yemeniti sia in patria che all’estero. La sua attività letteraria si è sempre fusa in modo eccellente con l’impegno politico. Appartiene alla prima generazione di autori ed il suo romanzo L’Ostaggio (Al-Rahinah), del 1984, è considerato uno degli esempi più alti della narrativa araba del XX secolo. Nelle sue opere è forte la critica all’ingiustizia sociale, alla triste condizione della donna e alla situazione di arretratezza sociale e culturale vissuta per anni dal Paese. Tra i pionieri non mancano di


nUOVI ORIZZONTI certo le donne; Ramziyyah Abbas Al-Iriyani (1955) è una delle intellettuali più celebri nello Yemen. Consigliere al Ministero dei Diritti Umani e Presidentessa dell’Unione delle Donne del Paese, Ramziyyah è ricordata come la prima donna yemenita ad aver pubblicato un romanzo: La vittima dell’avidità (Dahiyyat Al Giasa) del 1970. Per quanto riguarda la nuova generazione di autori, tra le stelle di prima grandezza troviamo Muhammad Al Garbi Amran (1958), capace di incantare i lettori con il suo stile diretto, scarno ma, al tempo stesso, brillante. Tra le donne possiamo ricordare Afrah Al-Sadiq (1965). Autrice talentuosa e vivace, Afrah ha scritto il romanzo Lo Specchio (Al-Mir’ah), incentrato sulle donne in carriera alle prese con il loro corpo e le pretese di perfezione imposte dalla società e da stereotipi femminili dilaganti. Questi esempi sono solo la punta dell’iceberg di una letteratura vicina, per certi temi e per le tecniche narrative, a quella occidentale. In questo articolo si è deciso di privilegiare la produzione in prosa. La poesia yemenita, però, possiede altrettanto fascino ed altrettanta vivacità, che rappresentano l’eredità della tradizione araba classi-

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ca e della cultura orale locale. Versi politici, sociali, ma anche d’amore, come dimostrano quelli di Nabilah Al-Zubayr: “Tra la terra e le pleiadi Lì, ti amo Tra le tue qualità è ciò che non sopporto E tra la partenza senza … non c’è via Tra il mio pianto per te E il trepidare.” (Testo in traduzione tratto dal volume “Lo Yemen raccontato dalle scrittrici e dagli scrittori”, a cura di Isabella Camera d’Afflitto, editrice Orientalia, 2010)


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L'immagine e la parola di

Tsutomu Nihei di CLAUDIO CORDELLA

Tsutomu Nihei, classe 1971, laurea in architettura, dopo aver lavorato per un certo periodo in uno studio di New York si è dedicato a tempo pieno al lavoro di mangaka. Non tardando a distinguersi in campo fumettistico grazie al suo indiscutibile talento. Se oggi possiamo dire che sia un fatto comune per i sensei della “letteratura disegnata” del Giappone essere tradotti all'estero, dato il successo riscosso dai manga negli altri paesi, al contrario non sembra esserci da parte degli artisti nipponici una pari curiosità verso gli autori stranieri. In genere pare che siano solo gli artisti più celebri e culturalmente preparati, come Jirō Taniguchi o Katsushiro Ōtomo ad esempio, a essere in grado di guardare oltre i confini del loro arcipelago natale. Personaggi di questo calibro, celebri di livello internazionale, arrivano a stringere fruttuose collaborazioni con firme importanti della “letteratura disegnata” occidentale. D'altra parte è pur vero che l'industria editoriale giapponese è un colosso dalle dimensioni impressionanti, tale da lasciare ben poco spazio a infiltrazioni estere presso il già saturo mercato locale. Quindi risulta essere degna di nota l'apertura di Nihei alle influenze fumettistiche della Bande dessinée francese, in particolare del franco-serbo Enki Bilal. Il primo lavoro di questo architettofumettista in qualità di esordiente è Buramu (Blame), un racconto breve ambientato in una megalopoli claustrofobica, incentrato sulle indagini di un poliziotto di nome Kirii (Killy). Apparso nel 1995 all'interno del magazine Afternoon, Blame presenta due elementi

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caratterizzanti della futura produzione di Nihei: le opere di macro-ingegneria architettonica, gli esseri mostruosi nati da una scienza fuori controllo, a sua volta frutto di un'ingegneria genetica e di una bionica che hanno ridefinito il concetto di umano. Simili tematiche sono tratte dagli stilemi più tipici del cyberpunk: non a caso gli scenari urbani degradati, dominati da una tecnologia pervasiva e pericolosa, si ritrovano nel romanzo Neuromancer (Neuromante) di William Gibson, l'opera cardine di questo genere. In particolare a noi pare evidente la parentela della produzione fumettistica “niheiana” con il ciclo di Schismatrix (Matrice spezzata) di Bruce Sterling, incentrato sulla lotta tra due specie post-umane, senza dimenticare altre opere similari della più moderna fantascienza tecnologica; ad esempio Vacuum Flowers (L'intrigo Wetware) di Michael Swanwick oppure i romanzi della The Confluence Series di Paul J. McAuley. Inoltre, poiché la manipolazione della carne vivente è uno dei temi cardine di questo mangaka, non ci pare improprio accostare i suoi manga alla cinematografia fantahorror di David Cronenberg. Per di più a livello iconografico Nihei si mostra affascinato dalle opere di Hans Ruedi Giger; il geniale artista svizzero che ha concepito l'aspetto dello xenomorfo del film Alien di Ridley Scott. Quest'ultima è un'autentica pellicola cult, non per niente assieme al leggendario Blade Runner, sempre dello stesso Scott, ha definito i canoni del cyberpunk cinematografico. Tutte queste suggestioni verranno nel corso degli anni filtrate, rimescolate e riplasmate da questo autore di fumetti per creare qualcosa di nuovo.


“Questo misero mondo elettronico organizza la realtĂ oggettiva grazie alla Reteâ€?. Tsutomu Nihei, Buramu!


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Per leggere un manga di ampio respiro di questo mangaka si deve però attendere Buramu! (Blame!), pubblicato prima a puntate sulla rivista Afternoon e poi in una serie di 10 volumi tra il 1998 ed il 2003. In Italia questi ultimi sono usciti, dal 2000 al 2004, sotto l'etichetta della casa editrice Panini. È a questa prima versione che noi faremo riferimento. Segnaliamo, tuttavia, come di recente sia iniziata la distribuzione di una nuova edizione: diversa per numero e formato degli albi editi, oltre che per una diversa traduzione dal giapponese. Il protagonista di Blame!, omonimo del poliziotto della novella del '95 e fisicamente simile a lui, è un eroe solitario, armato di una potente pistola a onde gravitazionali. Il compito di Killy è quello di cercare i geni che compongono la cosiddetta “Rete dei geni terminali”, all'interno di una sconfinata megalopoli. Durante il suo peregrinare per livelli, cunicoli e mega-strutture architettoniche, il nostro eroe si scontra con alcuni esseri artificiali: gli Esseri di silicio e le Safeguard. I primi appartengono a una specie post-umana, basata sul silicio e non sul carbonio, che considera gli Homo sapiens come degli inutili insetti da sopprimere alla prima occasione. Ugualmente minacciosi sono i secondi, legati a una non ben specificata Safenet, i quali vedono gli esseri umani che vagano in questa città senza nome, privi della “Rete dei geni terminali”, come degli intrusi da massacrare. Lo stesso Killy non sarebbe nient'altro che una Safeguard, appartenente a una generazione precedente di questi esseri. Il che potrebbe farci meglio comprendere perché nel corso del suo viaggio egli si allei con delle Safeguard speciali,


nUOVI ORIZZONTI come Dhomochevski e Iko, intente anch'esse a lottare contro i misteriosi Esseri di silicio. Nei capitoli finali di questo manga Killy rincontra la Safeguard Sakan; la guerriera, presentatici al principio come una sua nemica e una sterminatrice di innocenti, ora si fa viva per chiederne l'aiuto e non per combatterlo. Costei in grado di beneficiare di più di un corpo, dopo essersi reincarnata in un nuovo involucro, contatta Killy e lo incarica di una nuova missione: preservare un misterioso oggetto sferico, il Corpo Centrale. Si tratta molto probabilmente di una nuova forma di vita, proveniente dall'ultimo avatar di una scienziata di nome Tsubo, un'alleata di antica data del nostro eroe. Le ultime tavole di Blame! dedicate a un Killy ferito, privo di una gamba ed esausto, ci mostrano la sua risalita verso lo spazio aperto. Dobbiamo infine sottolineare che sino al termine del secondo volume di Blame!, laddove avviene l'incontro tra Killy e Tsubo, Nihei tenti di seguire una sceneggiatura, seppur abbozzata e assai vaga, per poi perdere il filo della scarna trama sin lì intessuta negli albi successivi. Da qui in poi l'autore punta unicamente sulle suggestioni delle sue tavole, via via sempre più spettacolari e immaginifiche. L'autore mostra in tal modo di avere un approccio all'arte fumettistica diverso da quello di Bilal, di cui imita il “tratto sporco”, avvicinandosi piuttosto alle idee di Jean Giraud, alias Moebius: un altro grande del fumetto francese, recentemente scomparso (proprio quest'anno). Nelle sue opere più rivoluzionarie e innovative, come Le Garage Hermétique (Il Garage Ermetico), il testo diventa un ornamento surreale e incomprensibile delle tavole mentre l'idea di seguire qualsivoglia canovaccio narrativo viene abbandonata sin dall'inizio. In Arzach Moebius, analogamente a quanto possiamo riscontrare nella maggior parte dei capitoli di Blame!, la parola scritta viene tralasciata in favore della pura immagine. Le morti e le resurrezioni di Tsubo, la quale cambierà più di un corpo passando da un avatar all'altro, protagonista come

Sakan di stupefacenti metamorfosi, senza contare l'incontro con enigmatici personaggi dagli scopi incomprensibili, contribuiscono a dar vita a una nerissima odissea hi-tech. Lo scenario in cui si muovono le creature di Nihei è un'inconcepibile costruzione iper-tecnologica, una mostruosità al cui confronto gli esseri che la abitano appaiono simili a minuscoli insetti, moscerini che si agitano in un ambiente che non comprendono. Delle avventure di Killy esiste pure una sorta di prequel, Noise, edito in Giappone nel 2000 e pubblicato in Italia nel 2009, uscito nelle fumetterie nostrane in un'edizione speciale assieme al vol. 9 di Blame!. Quest'ultimo, aldilà di una trama da fanta-thriller, imperniata su atroci esperimenti condotti su cavie umane, ha il pregio di svelarci la reale natura della città multilivello di Killy. Qui, per la prima volta, assistiamo alla nascita di una megastruttura che ingloba sia la Terra sia il suo satellite. La metropoli vista in Blame! sarebbe allora un'opera di macro-ingegneria su scala cosmica. Si aggiunga poi che nel successivo artbook Blame! And So On

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del 2003, è lo stesso Nihei, intenzionato a chiarire le idee ai suoi fans, a fornire un diametro dell'ordine di grandezza di 32.675 Unità Astronomiche (UA), equivalenti a 4,901,250,000 Km, per questa “città”. In un sequel di Blame!, Net Sphere Engeener, la discendente di un Essere di silicio di nome Pcell, uno dei tanti avversari incontrati da Killy durante il suo cammino, esce dalla megastruttura per poi lanciarsi nel vuoto interstellare. Dopo Blame! Nihei ha occasione di offrire la personale reinterpretazione del personaggio di Wolverine, uno dei più celebri characters della casa editrice statunitense Marvel. Nel fanta-horror Wolverine: Snikt! il noto mutante, caratterizzato da un incredibile potere di guarigione, da uno scheletro composto dall'indistruttibile adamantio e dagli artigli retrattili sulle mani, viene trasportato nel futuro per aiutare una popolazione decimata da un batterio carnivoro chiamato Mandate. In seguito per il nostro artista è la volta dei due volumi di Abara, una miniserie dalla trama incomprensibile ma caratterizzata da un tratto che raggiunge nuove vette di maturità artistica, capace di delineare con maestria un paesaggio urbano


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sporco, marcio, sospeso tra antico e moderno. Qui si consuma la lotta tra due mitiche creature: il Gauna nero e la sua controparte bianca; mostri “alla Giger”, come già lo erano stati sia gli Esseri di silicio o gli altri esseri artificiali di Blame!. Per attendere un'altra opera di una certa lunghezza da parte del nostro bisogna attendere l'uscita dei 6 volumi di Biomega, editi tra il 2004 e il 2009. Tutto ha inizio con l'apparizione di un virus, l'N5S, che trasforma le persone in una sorta di zombie, i Droni. Un essere umano sintetico, Zoichi Kanoe, viene allora incaricato dalle Industrie Pesanti dell'Estremo Oriente di proteggere una fanciulla immune alla malattia, Ion Green. Intanto due potenti organizzazioni, la CEU (Compulsory Execution Unit) e la DRF (Data Recovery Foundation), sono ben decise a voler sfruttare l'epidemia per i loro loschi fini. Peccato che, proprio negli ultimi due albi, Nihei si lasci, per l'ennesima volta, sfuggire la mano: la Terra subisce un'inconcepibile metamorfosi, mutando in un incomprensibile artefatto: il Ricreatore. Anche in questo caso, analogamente alla “città” di Killy, abbiamo a che fare con un manufatto dalle dimensioni cosmiche. Anzi, ci pare che Nihei abbia voluto superarsi in fatto di trovate surreali, avendo immaginato questa volta una struttura tubolare del diametro di 100 km, lunga ben quattro miliardi e ottocento milioni di km. Tra scene d'azione, meraviglie e orrori bio-tecnologici, compresa la ricomparsa dei Droni, per Zoichi e i suoi alleati giunge il momento dell'agognata sconfitta di Nyaldee. Costei è un’immortale dotata di poteri paranormali, leader indiscussa della DRF e responsabile della distruzione del nostro mondo, desiderosa di ottenere il controllo del Ricreatore. Attualmente questo mangaka è a lavoro su una cupa space-opera, The Sidonia no Kishi (Knight of Sidonia), la cui traduzione e pubblicazione dei diversi volumi è iniziata anche in Italia. Si tratta della prima incursione dell’autore nell'avventura spaziale, a cui in preceden-

za si era avvicinato solo con due racconti brevi: Zeb-Noid e Insetti alati corazzati da combattimento – Sphingidae, entrambi realizzati a colori e costituiti da poche pagine. Il primo racconta dell'incontro/scontro tra l'umanità con una temibile specie insettoide mentre il secondo contiene “in nuce” alcuni elementi che ritroveremo in seguito in Knight of Sidonia. Se in ZebNoid un pilota umano e una guerriera aliena, dopo aver reciprocamente distrutto i rispettivi veicoli militari, si scoprono simili, suggellando con la loro unione una nuova era di pace, invece in Sphingidae assistiamo alla gloriosa missione di un possente vascello militare. Un pianeta, la Terra molto probabilmente, è stato distrutto e per rappresaglia viene organizzata una spedizione in grande stile: non mancano né i robot giganti, bizzarri costrutti tecno-organici, simili a quelli già visti in Zeb-Noid, né gli eroici soldati capaci di qualsiasi impresa. Tutti impegnati, in una lotta senza quartiere, contro i pericolosi alieni Gauna. Simili ingredienti, adeguatamente modificati e ampliati, gli ritroveremo successivamente nel ben più elaborato plot di Knight of Sidonia. Bisogna dire che Nihei, affrontando temi caratteristici della space-opera, come le invasioni aliene e le arche interstellari, sembri apprezzare questa volta l'appoggio di una robusta sceneggiatura. La Terra è scomparsa, devastata da una specie aliena incomprensibile e potente: i Gauna. Adesso solo un grande vascello, la Sidonia, rappresenta la salvezza per il genere umano. Il protagonista del manga, Nagata Tanikaze, dopo aver vissuto per molti anni in completo isolamento in un settore deserto della nave, viene scoperto e accetta di diventare un pilota, salendo a bordo di uno dei robot giganti usati per la difesa della Sidonia. Questi ultimi, a differenza dei mezzi robotici apparsi in Zeb-Noid e in Sphingidae, sono realizzati con grande accuratezza e realismo; studiati nei minimi particolari e privi di qualsivoglia linea tecno-organica. Gli episodi relativi ai misteri della vera identità di Tanikaze e al passato di questa colossale astronave, in viaggio nello spazio


nUOVI ORIZZONTI da diversi secoli, sono alternati con le scene d'azione degli scontri con gli extraterrestri. Le preoccupazioni di carattere bioetico di Nihei, riguardo a una scienza generatrice di orrori, ricompaiono ancora una volta anche in Knight of Sidonia. Non solo i Gauna, chiamati con lo stesso nome delle aberrazioni bio-genetiche di Abara e degli extraterrestri di Sphingidae, ricordano nell'aspetto le consuete mostruosità che popolano tutti i manga “niheiani”, ma ci viene fatto pure cenno di atroci esperimenti compiuti sui corpi di ibridi umano-alieni. Anche un Gauna catturato, il quale ha assunto l'aspetto del pilota umano che ha ucciso, viene trattato come una cavia priva del benché minimo diritto. Senza contare la presenza di un personaggio che sembra esser tenuto in vita, quale punizione per un crimine da lui commesso, come parte integrante del computer della Sidonia. Si aggiunga a questo l'esistenza di un gruppo segreto di immortali, una cricca che guida da secoli questo mondo viaggiante, una élite di privilegiati a cui forse appartiene lo stesso Tanikaze. D'altronde gli stessi abitanti della Sidonia non sono dei semplici umani, tutti quanti mostrano di possedere capacità post-umane; ad esempio, eseguendo la fotosintesi come le piante possono economizzare le risorse disponibili, rimanendo per giorni senza mangiare. Inoltre, hanno svincolato la ri-

produzione dai vincoli della natura e alcuni di loro appartengono a un terzo sesso neutro, in quanto né maschi né femmine. Il solo Tanikaze, il quale però molto probabilmente è un immortale, non un semplice Homo sapiens, non sembra possedere tali caratteristiche. Il poveretto per questo motivo viene deriso, visto da molti come uno sgradevole mangione, se non addirittura quale una sorta di barbaro, rozzo e primitivo. Nemmeno a dirlo la Sidonia, pur non avendo le dimensioni inconcepibili di un Ricreatore o della “città” di Blame!, è anch'essa un incredibile labirinto, con le sue meraviglie e i suoi orrori, accuratamente celati alla vista dei più. Assai singolare è la scelta di Nihei di citare esplicitamente la raccolta di stampe Ukiyo — e Cento vedute del Monte Fuji, notissima opera incompiuta del pittore e incisore Katsushika Hokusai (1760 – 1849). Tra un capitolo e l'altro di Knight of Sidonia sono state inserite delle apposite illustrazioni, chiamate Le Cento vedute della Sidonia; queste ultime aprono degli interessanti squarci su questo universo chiuso, condannato a un viaggio che pare essere eterno. La trovata dell'astronave gigante, con tanto di case e civili ospitati nel suo ventre metallico, protetta dagli attacchi alieni da squadriglie “robottoni” è un chiaro richiamo all'anime Chōjikū yōsai Makurosu (Fortezza superdimensionale Macross).

Invece l'ibridazione del cyberpunk con la fantascienza spaziale deriva da quegli autori emersi negli anni '80, ad esempio come i già citati Sterling, McAuley e Swanwick, che sono da annoverare tra i pionieri di simili esperimenti letterari. Effettivamente Knight of Sidonia, più che a qualsiasi altra cosa, assomiglia ai più recenti esiti della space-opera dimostrando che Nihei non solo è stato capace di raggiungere nuove vette di bravura nell'impostazione delle tavole ma anche nell'elaborazione dei suoi testi. Un fumettista, come a buon ragione sosteneva Moebius, può svincolarsi se lo desidera dalla gabbia della parola scritta ma, aggiungiamo noi, solo a un patto: che egli si dimostri capace di padroneggiarla. Soprattutto se decide di intraprendere la strada, coraggiosa, di abbandonarla. Insomma, prima di abbandonare l'idea di seguire una trama, bisognerebbe imparare a scriverne una e solo adesso ci pare che il nostro sia riuscito nell'impresa. In buona sostanza, dopo il termine di Knight of Sidonia, le scelte in tal senso di Nihei, pro o contro l'impiego di una sceneggiatura in un manga, saranno senz'altro maggiormente più ponderate che in passato.

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CINEMA E TV

AMERICAN HOR Nata dalla mente dei produttori di Glee Ryan Murphy e Greg Falchuk, American Horror Story è una serie televisiva statunitense andata in onda con successo negli States su FX e trasmessa in Italia da Fox. La prima peculiarità di AHS che balza all’occhio dello spettatore è la sua natura antologica: il progetto prevede infatti una storia diversa per ogni stagione del serial, in modo da non obbligare lo spettatore a seguirle tutte e non logorare troppo una vicenda che, dopo le prime stagioni, rischierebbe di perdere lo smalto (dice niente Heroes?). Un altro aspetto interessante è che AHS era già nella mente di Murphy & Falchuk prima ancora di Glee, ma sarebbe stato proprio il successo ottenuto in America da quest’ultimo progetto a far ottenere il disco verde ad AHS, che tratta tematiche senza dubbio più adulte e sensibili.

La prima stagione di American Horror Story è ambientata a Los Angeles, in quella che, come più volte viene definita nel serial, è “una tipica villa vittoriana di L.A. anni Venti”. Puntata dopo puntata, scopriremo che la villa è una vera e propria “monster house”, inserita in un tour appositamente dedicato alle case stregate. Una scia di sangue attraversa tutta la storia della magione sin dalla sua costruzione... Sembra che tutto abbia avuto origine a causa dei primi inquilini della villa: l’ex medico di grido di Hollywood Charles Montgomery, che praticava aborti clandestini nello scantinato, sua moglie Nora e il figlioletto neonato Thaddeus. Negli anni Sessanta fu la volta di alcune studentesse di infermeria morte nella villa a causa di un gruppo di emulatori di Charles Manson. Dieci anni dopo, due gemelli entrati per caso nella villa persero tragicamente la vita in circostanze sospette.

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di PIA FERRARA

Negli anni Ottanta una nostra vecchia conoscenza uccise il marito fedifrago e la cameriera con cui lui la tradiva. Negli anni Novanta fu un giovanotto a farsi uccidere assediato dalla squadra SWAT in camera sua, colpevole di aver compiuto una strage a scuola sotto l’effetto di droghe. In tempi molto più recenti morì nella villa la coppia di restauratori che l’aveva acquistata per rinnovarla e rivenderla a prezzo maggiorato. La lunga serie di tragici eventi non scoraggia i coniugi Harmon dal trasferirsi nella casa. Ben, psicologo, e Vivian (Dylan McDermott e Connie Britton) hanno bisogno di un cambiamento radicale dopo che lui l’ha tradita in seguito a un aborto spontaneo di lei. La giovane figlia Violet (Taissa Farmiga) adora la sua nuova casa, ma fatica a inserirsi a scuola e intreccia una morbosa relazione con un paziente di suo padre, Tate Langdon (Evan Peters), che sogna di uccide-

re i suoi compagni di scuola vestito da cavaliere della morte. Man mano altri personaggi si aggiungono al cast: la cameriera Moira, che le donne vedono come una vecchia triste e tetra (Frances Conroy) e gli uomini come una giovane seducente e ammiccante (Alex Breckenridge); Larry, il misterioso individuo con metà volto sfigurato dal fuoco (Denis O’Hare); Hayden (Kate Mara), l’ex amante di Ben, che lo segue da Boston perché incinta; l’inquietante vicina di casa Constance (il Premio Oscar Jessica Lange) con una figlia affetta da sindrome di Down di nome Adelaide (Jamie Brewer) che cerca in ogni modo di sgattaiolare in casa; una misteriosa presenza nota come “Rubber Man” vestita solo di una tuta di lattice si aggira inoltre nei corridoi, seducendo Vivian, che crede che sotto la tuta sia nascosto suo marito Ben.



CINEMA E TV American Horror Story riesce a giocare abilmente sulle paure recondite dello spettatore mantenendo un livello costante di tensione in chi assiste anche solo a uno stralcio di episodio. Le storie dei personaggi e le loro vite si intrecciano in un mosaico che si svela pian piano, mostrandosi nella sua completezza solamente negli ultimi episodi, ma mantenendo il segreto su alcuni tasselli che potrebbero tornare nelle serie successive. Oltre a chiedersi chi è malvagio e chi non lo è, approcciando American Horror Story occorre chiedersi prima di tutto chi è morto e chi non lo è, perché il velo che separa vivi e defunti è più sottile e diafano di quanto si pensi. A una sceneggiatura e una regia perfette si unisce la capacità di catturare lo spettatore senza ricorrere a mezzi di fidelizzazione sempliciotti (chiudere la puntata sul più bello… dice niente Lost?). Ryan Glee Murphy riesce al contempo a inserire una colonna sonora di tutto rispetto che va da oscuri brani ripescati dagli anni Cinquanta (Tonight You Belong To Me di Patience & Prudence) al Twisted Nerve tanto caro a Quentin Tarantino, a canzoni più recenti come Special Death di Mirah e numerosi brani di Carina

Round (Do You, For Everything a Reason). La serie attualmente si compone di un’unica stagione di dodici episodi, tuttavia è stato già confermato un rinnovo per l’annata 2012/13. Per venire incontro alla natura antologica del progetto, sarà modificata l’ambientazione spazio-temporale nonché, seppur parzialmente, il cast. Al momento si sa solo che la vicenda si svolgerà in un istituto di igiene mentale dell’East Coast diretto da Jessica Lange (Constance nella prima stagione) e che l’azione avrà luogo negli anni Sessanta. D’altra parte, già nella prima stagione del serial abbiamo potuto apprezzare una perfetta ricostruzione di epoche passate, che si trattasse degli anni Venti, Quaranta, Sessanta, Settanta, Ottanta o Novanta. Oltre a Jessica Lange, altri volti noti del cast della prima stagione sono stati confermati per la seconda: Evan Peters, che in AHS 1 interpretava lo psicopatico Tate Langdon, tornerà come regular; Zachary Quinto, uno dei precedenti proprietari della villa maledetta, sarà promosso a regular; promozione anche per Lily Rabe, che nella prima stagione era Nora Montgomery e per Sarah Paulson, la medium Billy Dean Howard. Niente conferma invece per i protagonisti, la “felice” famigliola Harmon: il marito fedifrago Ben (Dylan McDermott), la moglie depressa Vivien (Connie Britton) e l’inquieta e autolesionista figlia Violet (Taissa Farmiga). Ryan Murphy si è tuttavia lasciato sfuggire che anche alcuni membri del cast della prima stagione che non hanno firmato il rinnovo potrebbero comparire di tanto in tanto sul set, come guest star.

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Oltre alle novità sulle presenze e sulle assenze nel cast, fioccano aggiornamenti sulle new entries: nel momento in cui scriviamo sappiamo che Adam Levine, il frontman dei Maroon 5, interpreterà la metà di una coppia nota come “The Lovers”. È attualmente ignota l’identità dell’altra metà del suo cielo. Confermata invece la presenza di Chloe Savigny che interpreterà “Shelly la ninfomane”, nemica di Jessica Lange. Lizzie Brocheré sarà un’ulteriore avversaria per la Lange, Gia, un personaggio che, all’avvio dei casting, era stato descritto come ispirato al ruolo di Angelina Jolie in Ragazze Interrotte (che ricordiamo, valse alla bella Angelina un Oscar come Miglior attrice non protagonista). Anche James Cromwell si unirà al cast della seconda stagione, tuttavia al momento è ancora ignoto quale sarà il suo ruolo. Tra i vari personaggi femminili ce ne sarà inoltre uno, non sappiamo se Gia, Shelly o un altro ancora, magari interpretato dalla Rabe o dalla Paulson, che è stato internato a causa della sua omosessualità, tematica cara a Ryan Murphy, già presente nella prima stagione di AHS e uno dei temi cardine di Glee. Come si intuisce, il personaggio interpretato da Jessica Lange sarà positivo, a differenza di quanto accadeva nella prima stagione con l’ambigua Constance. Ryan Murphy ha annunciato che ognuno degli attori confermati per la seconda stagione avrebbe interpretato un ruolo opposto rispetto a quello ricoperto nella prima. Evan Peters, che nella prima stagione era stato definito da Murphy “ultimate badass bad boy” (che non traduciamo perché l’espressione perderebbe qualcosa), nella seconda sarà l’eroe del

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serial. Murphy ha inoltre dichiarato che gli attori saranno truccati in modo da risultare diversi anche fisicamente dai personaggi interpretati nella prima stagione. Vi lasciamo con un’ultima novità: Ryan Murphy si è lasciato sfuggire di avere già alcune idee in mente per una terza stagione di American Horror Story, nella quale potrebbe tornare una casa stregata a fare da sfondo alla vicenda. In fondo, secondo le parole dello stesso produttore, “di case stregate nella tradizione americana ce ne sono così tante…”.

Consigliamo, dunque, la visione di AHS 1 prima che parta la seconda stagione, ma ribadiamo che le due storyline dovrebbero essere indipendenti. Anche per chi non ha visto la prima serie appuntamento con American Horror Story 2 per il prossimo autunno!


CINEMA E TV

c anesla

Quella

LANNA di CARLO

Non ci sono più i film horror di una volta; ora sono fin troppo artefatti, senza mordente e pieni zeppi di cliché. In Quella casa nel bosco, invece, l’accoppiata Joss Whedon e Drew Goddard ha ridato nuova linfa ad un genere cinematografico che sembrava essere morto e sepolto, riuscendo a miscelare sapientemente horror e humour. Nonostante il film fosse già pronto da più di un anno, la casa di produzione ha deciso di posticiparne l’uscita poiché non credeva nel successo della pellicola. Pare che nessuno abbia ancora capito che lo sceneggiatore Joss Whedon è una tra le menti più geniali di Hollywood. Sfruttando quindi il successo di The Avengers, il film è arrivato nelle sale, e in poco tempo ha scalato la vetta dei botteghini. Un successo del tutto meritato. Whedon e Goddard, infatti, rimaneggiando i tòpoi dell'horror anni ’80, riescono a creare una pellicola davvero intrigante, emozionante e splatter quanto basta. Un lungometraggio pieno di cliché e di citazioni, certo, ma è l’idea di fondo che ha reso questo film quasi un cult di nuova generazione. Tutto ha inizio quando Curt il belloccio di turno, interpretato da un altrettanto aitante Chris Hemsworth, organizza un week-end di puro relax e divertimento in una sperduta casa nel bosco. Il ragazzo coinvolge in questa “avventura” la sua fidanzata

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bosco

alle radici dell’horror

Jules e lo stralunato Marty. A loro si unisce il classico bravo ragazzo Holden e per ultima la titubante Dana. Nessuno poteva immaginare che, in poco tempo, il loro viaggio si sarebbe trasformato in un incubo. La pittoresca e alquanto spettrale casetta nel bosco nasconde mille segreti che i ragazzi scopriranno quasi casualmente. Dana, infatti, tramite la lettura di un diario risveglierà una famiglia di voraci zombi. Inizierà quindi una terribile corsa contro il tempo, per uscire vivi da questo incubo. I ragazzi non sanno che la casa è il frutto di un esperimento messo in atto da alcuni loschi individui, per mettere a tacere la fame di alcune potenti divinità infernali. Il palese richiamo alla saga di Sam Raimi, La casa, ricorre come un eco in tutto il film; eppure quel genio di Joss Whedon riesce a creare una vicenda elettrizzante ed innovativa. La scrittura è lucida, ironica, dissacrante e riassume quei temi tanto cari allo sceneggiatore. Con la complicità degli effetti speciali, di una doppia linea narrativa ultra-citazionista e meta-cinematografica, e con un mix di sangue, azione, paura e risate, emerge la vera essenza del film: un racconto sulle ragioni di una società consumista che spinge lo spettatore a nutrirsi di follie sanguinarie e humour nero.


Una pellicola che riesce a “bucare” lo schermo, non solo grazie a un'ottima sceneggiatura, a dialoghi graffianti e ad una regia incisiva, ma anche grazie ad altri tre punti di forza: le atmosfere, le citazioni televisive e i personaggi. Quella casa nel bosco, infatti, ha ripreso le atmosfere gotiche e malsane di Venerdì 13, riadattandole con una buona dose di violenza gratuita e di sangue a fiumi. È un viaggio tra quelli che sono stati i film horror più famosi degli anni ‘80 e ’90, ma soprattutto Joss Whedon trae spunto da alcuni suoi script televisivi per creare un’ottima vicenda di fondo.

Per chi ha avuto modo di seguire le vicende televisive del vampiro senz’anima, Angel, leggerà tra le righe molte similitudini tra il film e la serie tv. Il mito dello studio legale della Wolfram & Hart, infatti, come satira sociale e sadico consumismo, fa da eco nella produzione cinematografica; infine i personaggi fanno da collante al resto della pellicola. Nonostante non manchino i cliché, i produttori sono riusciti a sfatare il mito “dell’eroe” nei film horror: non è più il classico belloccio o ragazza impacciata e innamorata del protagonista a sopravvivere al massacro, ma sono ben due i personaggi che non ti aspetti a sopravvivere e scoprire cosa c’è in fondo all’incubo di cui sono stati partecipi. Quella casa nel bosco è horror atipico che trascende la sua stessa natura. L’inventiva sta proprio nel mischiare le carte, e sbalordire fino alla fine il pubblico. Pensate quindi di sapere tutto sui film horror? Quando vedrete questa pellicola, le vostre certezze verranno letteralmente stravolte, perché siamo di fronte davvero un capolavoro incompreso, di uno dei registi e sceneggiatori nerd più famosi dello showbiz.

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