Il libro Nel 2004, a dieci anni dalla scomparsa di Tiziano M. Barbieri Torriani, la Sperling & Kupfer diede alle stampe un volume in edizione limitata, oggi riproposto in questa versione digitale: un ricordo a più voci dell’uomo e dell’editore e, insieme, il racconto di una storia aziendale di successo. Riproporre questo ebook è molto più di un doveroso omaggio a un grande editore. È un’occasione per raccontare un certo modo di fare impresa culturale, di cui – in condizioni senz’altro molto mutate – ancora oggi si leggono le tracce nell’operato delle «creature» di Barbieri, Sperling & Kupfer e Frassinelli.
Il sogno, la passione, il mestiere di un editore
Tiziano M. Barbieri Torriani per gli amici Ciuffo
New York, 16 aprile 1980 «Mi sento ricco, ecco, questa è la grossa sensazione che ho dentro. Sento di avere qualcosa da tirar fuori che è giusta, che funziona. Sento di avere la vita a mia completa disposizione, di riuscire a dominarla come voglio. Mi fa anche un po’ paura, tutto ciò, perché poi in un attimo può finire tutto. Ma per il momento è questo che respiro. Il mio cervello gira e gira e gira e quando si ferma mi dico ‘Perché no?’, so di avere un’idea vincente. Vince su tutte le idee, su quelle degli altri, di tutti gli altri e in tutto il mondo…» Ciuffo
Indice
Premessa Introduzione Un editore, la sua storia L’apprendistato in Longanesi Un marmittone in via Borghetto di Nico Naldini
L’acquisto della Sperling & Kupfer Una sigla, una storia di Tiziano M. Barbieri
I primi casi editoriali Il nostro «5» di G. Alberto Orefice Diavolo d’un Ciuffo di Roberto Canessa
La scoperta dell’America Un incontro importante di Morton L. Janklow Un italiano a New York di Alberto Vitale Il talento poliedrico di un editore di Ralph Vicinanza A caccia di best-seller per Tiziano di Linda Clark L’addio a un grande editore di Herbert L. Lottman
Dallo sport alle diete: i libri per i non lettori La «gialla», la collana degli sportivi di Enrico Arcelli
La sfida della narrativa d’evasione Attestato di credito per Tiziano Barbieri di Raffaele Crovi
La Frassinelli: perché no? «Un unico filo continuo…» di Tiziano M. Barbieri
Il rapporto con i librai Amici librai di Giovanni Ungarelli
Economia e business: un investimento riuscito Il variegato pubblico dell’economia di Giuseppe Turani
L’editore anti-ideologico Un bravo allenatore di Gianni Minà
La curiosità, il coraggio di cambiare La smania di inventare cose nuove di Giuseppe Turani
La maturità della Sperling & Kupfer Aria nuova alla Sperling
AIE: sogni di cambiamento Il segno di un presidente di Ivan Cecchini
I libri, la passione di una vita Scritti e interviste di Tiziano M. Barbieri Amici Azionisti L’editor? È un oscuro oggetto del desiderio Scrivi un libro? Ecco un miliardo Un giornalista come direttore? Per carità L’editoria alle soglie del Duemila Voglia di fare I sogni di un presidente «Se lo sapevo non avrei venuto…» Una fortuna sfacciata Intervista di Oreste del Buono Io ho fiducia in Milano, da sempre Intervista di Nunzia Monanni Scerbanenco
Tiziano M. Barbieri Torriani, per gli amici Ciuffo Ricordi e testimonianze Donatella Barbieri Giuseppe Baroffio Aldo Busi Nicola Carraro Sveva Casati Modignani Giampaolo Pansa Carla Tanzi Franco Tatò Giuseppe Turani Cronologia
Premessa all’edizione ebook Nel 2004, a dieci anni dalla scomparsa di Tiziano M. Barbieri Torriani, la Sperling & Kupfer diede alle stampe un volume in edizione limitata, oggi riproposto in questa versione digitale: un ricordo a più voci dell’uomo e dell’editore e, insieme, il racconto di una storia aziendale di successo. Barbieri aveva 32 anni quando, nel 1970, rilevò la Sperling & Kupfer. Aveva idee chiare e un sogno ambizioso: creare una casa editrice moderna, che si confrontasse in modo nuovo con il mercato, che facesse utili. Oggi, con un termine forse abusato, definiremmo quell’iniziativa una «start up» di successo. Per Tiziano Barbieri si trattava di un’avventura imprenditoriale in cui le sue intuizioni di business si coniugassero con la sua grande passione per i libri. Riproporre questo ebook è molto più, quindi, di un doveroso omaggio a un grande editore. È un’occasione per raccontare un certo modo di fare impresa culturale, di cui – in condizioni senz’altro molto mutate – ancora oggi si leggono le tracce nell’operato delle «creature» di Barbieri, Sperling & Kupfer e Frassinelli, con la convinzione che l’esempio e la storia del «TMB» –come veniva chiamato in azienda – possano essere utili e stimolanti per chi, soprattutto fra i giovani, è interessato a occuparsi di editoria libraria e vuole provare a farlo da protagonista. Maggio 2014
Introduzione all’edizione del 2004
Sono passati dieci anni dalla morte di mio marito. Era il 30 maggio 1994 ed eravamo insieme a Londra quando è stato colpito improvvisamente da un ictus. Non ho mai amato parlare di lui e della Sperling & Kupfer, ho sempre preferito lasciare che fossero i libri e il suo lavoro a raccontare la sua storia. «I libri non tradiscono mai, sono la spina dorsale di tutta la mia vita» era solito ripetere a chi lo conosceva, ed era vero. Ciuffo (così era chiamato in casa e dagli amici, mentre sul lavoro era Tiziano o semplicemente «il TMB», come viene tuttora ricordato in ufficio) amava toccarli, sentirne l’odore e diceva spesso che i libri belli si riconoscono al tatto: provocano un prurito particolare ai polpastrelli, come per attirare l’attenzione di chi li legge… L’editoria è sempre stata una parte integrante della sua vita, ed è proprio per questo motivo che ora vinco il mio riserbo, spinta dal desiderio di lasciare una testimonianza scritta di ciò che lui ha costruito dal 1970 al 1994: le sue case editrici, Sperling e Frassinelli. Il catalogo, le quote di mercato e i risultati economici sono noti e parlano da soli, ma non sono sufficienti a delineare un quadro completo della figura del TMB. Per farlo, dato che si considerava soprattutto un uomo di azione e non un teorico dell’editoria e ha lasciato più appunti operativi, nastri registrati con brevi note e interviste che lunghi carteggi, abbiamo voluto affidarci anche alle parole di chi ha collaborato con lui e condiviso il fermento di quei tempi.
Perciò, in una prima sezione del libro, abbiamo ricostruito la «storia» di Tiziano Barbieri Torriani editore, dal primo impiego alla Longanesi alla realizzazione del suo progetto editoriale con Sperling & Kupfer e Frassinelli, alla presidenza della Associazione Italiana Editori, raccogliendo attorno al filo conduttore fornito da alcune frasi tratte da sue interviste o note, vari interventi di personaggi che sono stati in stretto contatto con lui nelle diverse fasi della sua avventura professionale. In una seconda sezione abbiamo poi riunito alcuni degli scritti più significativi del TMB che evidenziano il suo pensiero sul divenire dell’editoria e sulla sua interpretazione del mestiere dell’editore, accanto a due interviste molto particolari rilasciate a distanza di sei anni l’una dall’altra, una a Oreste del Buono, l’altra – uscita postuma – a Nunzia Monanni Scerbanenco. Abbiamo poi creato una speciale sezione di «ricordi» e testimonianze sul TMB come uomo, imprenditore ed editore raccontati in prima persona da autori, amici e collaboratori che sono stati suoi compagni di viaggio e che ci sono molto cari. Il tutto è seguito da una cronologia dettagliata che permette di inquadrare e contestualizzare i fatti. A dieci anni dalla scomparsa del TMB, Sperling & Kupfer e Frassinelli sono creature vive e godono di ottima salute: la composizione azionaria è diversa, i tempi e le mode sono cambiati, ma entrambe portano ancora il segno del suo lavoro e delle sue convinzioni. Sono aperte e proiettate verso il futuro, ma si ispirano a un criterio di continuità con il passato che ancora oggi ci guida. Le scelte di Tiziano e le sue idee sono ancora visibili nel nostro operato, insieme a quelle di tutte le persone che hanno lavorato qui prima e dopo la sua scomparsa e che,
grazie alla loro competenza, passione, dedizione e fedeltà, hanno contribuito al nostro successo. Non è possibile citare tutti, sarebbe troppo lungo e la paura di dimenticare qualcuno è molto forte, ma vorrei proprio ringraziare per prima e di cuore la squadra fantastica di Sperling & Kupfer e di Frassinelli; poi gli autori, senza i quali l’editoria non esisterebbe; gli agenti; la rete di vendita; i librai e tutti coloro che con il loro lavoro hanno garantito la continuità dal lontano 1970. Un ringraziamento particolare alla Mondadori, per la lunga e «speciale» partnership con il TMB che gli ha permesso di seguire il suo progetto senza problemi e di sviluppare tutto il suo potenziale, nonché per il sostegno dimostratomi alla sua morte e per la fiducia e la stima accordataci dopo l’acquisizione della totalità delle azioni. Infine voglio anche ricordare il ruolo fondamentale che ha avuto per mio marito e per la casa editrice la sua grande famiglia, che gli è sempre stata accanto e ha lavorato con lui negli anni, condividendo idee e risultati: anche a loro va tutta la mia riconoscenza. Perché un altro libro, tra i tanti? Perché desidero che negli anni futuri chi si occuperà di editoria possa facilmente trovare qualche notizia di Tiziano Barbieri Torriani, della sua avventura editoriale e del ruolo innovativo che ha avuto in questo difficile settore, proprio nel prodotto a lui più caro, un libro. Perché spero che venga collocato su uno scaffale accanto al Catalogo Storico della Sperling, di cui, proprio in questa prospettiva, ha lo stesso formato. Perché desidero con tutto il cuore che il coraggio, l’intraprendenza e la curiosità del TMB (insieme con la sua «sfacciata fortuna») siano da guida ai
giovani che, come lui, intendono lavorare in questo mondo affascinante e difficile. E perché «I libri non tradiscono mai»… Anna Patrizia Barbieri Valerio Presidente della Sperling & Kupfer Editori
Milano, novembre 2004
Desidero ringraziare: Enrico Arcelli, Donatella Barbieri, Giuseppe Baroffio, Aldo Busi, Roberto Canessa, Nicola Carraro, Sveva Casati Modignani, Ivan Cecchini, Linda Clark, Raffaele Crovi, Morton L. Janklow, Herbert L. Lottman, Gianni Minà, Nunzia Monanni Scerbanenco, Nico Naldini, G. Alberto Orefice, Giampaolo Pansa, Carla Tanzi, Franco Tatò, Giuseppe Turani, Giovanni Ungarelli, Ralph Vicinanza, Alberto Vitale. Senza il loro prezioso contributo questo libro non sarebbe nato. Un particolare ringraziamento a Enrico Racca, Ilde Buratti e Andrea Bonelli per la loro professionalità e pazienza, a Toni Langini e Giovanna Cosmaro per il prezioso contributo alle ricerche d’archivio. Tutta la mia riconoscenza a Carla Tanzi e Roberto Avanzo che hanno appoggiato con calore questo progetto.
Un editore, la sua storia
L’apprendistato in Longanesi
«Mario Monti, che io considero uno dei più straordinari creativi dell’editoria italiana, mi ha trasmesso il gusto per una grafica moderna di forte visualizzazione, l’attrazione e l’attenzione per gli scrittori angloamericani, il coraggio di fare libri eccentrici e controcorrente. Dal responsabile della gestione Licitra ho imparato il rigore amministrativo, il senso della disciplina economica, l’abitudine a non strafare.»1
Tiziano Barbieri entra giovanissimo nel mondo dell’editoria: nel 1960, a 22 anni, inizia la sua collaborazione con la Longanesi, in quegli anni polo di attrazione di prestigiosi intellettuali italiani. Rimasta da poco orfana del fondatore Leo Longanesi, la casa editrice è guidata da Mario Monti e annovera fra i suoi collaboratori personalità quali Pier Paolo Pasolini e Goffredo Parise, Nico Naldini e Giovanni Comisso, Lisa Morpurgo e Adriana Pellegrini. Tiziano inizia come grafico, ma in pochi anni diventa direttore responsabile di due collane, i «Gialli Proibiti» e «Suspense», e sale l’intera trafila editoriale. Un marmittone in via Borghetto «Milan est sans doute, dans ce moment-ci, l’une des villes les plus hereuses du monde», così Stendhal, che a Milano trovò croci e delizie, come sempre e come anche noi della generazione degli anni Sessanta di un secolo dopo. Gli uffici della casa editrice Longanesi e C. erano al pianoterra di un palazzo «postbellico» al numero 5 di via Borghetto. Una via breve e stretta dove passavano i tram e dove sul lato opposto si trovava il collegio delle Orsoline, oggi più che mai attivo. Per ampliarlo e accogliere un maggior numero di giovinette «bene», le suore iconoclaste avevano fatto abbattere una chiesetta seicentesca. Davanti a questa chiesetta era passato Renzo Tramaglino che, con la lettera di padre Cristoforo in tasca e il pensiero di raggiungere il convento dei cappuccini, aveva percorso quella «viuzza chiamata del Borghetto». Un giorno, ma non ricordo in quale degli anni Sessanta, entrò in quegli uffici un giovane «marmittone».
L’avreste detto timido, ma era un’impressione sbagliata; certamente sorridente e silenzioso. Indossava la divisa militare come uno si mette una vestaglia per riverniciare i mobili di casa. Fatto sedere a un tavolo, Mario Monti gli spiegò cosa è un menabò. Lui avrebbe avuto l’incarico di incollare fotografie negli spazi predisposti dell’ultimo menabò in lavorazione. Il marmittone si applicò con silenziosa tenacia, facendo prevedere in quale direzione si sarebbe sviluppato il suo futuro. Arrivava puntuale ogni pomeriggio portandosi dietro un po’ del lezzo della burocrazia militare, di timbri e vecchie macchine per scrivere in dotazione al Distretto: espiava il periodo di leva. Si seppe poi che la pista longanesiana gli era stata aperta da una giovinetta bellissima che si imponeva dovunque con un eccesso di intelligenza e di narcisismo: Giovanna Nuvoletti, figlia di Giovanni e di Adriana Pellegrini. Anche la madre era molto bella, dotata di molto fascino ed esperienza e con un narcisismo del tutto assimilato a un forte impegno culturale. In essa risplendeva il ruolo delle donne nell’evoluzione della società milanese di quegli anni. Puntuale e come sempre silenzioso, «Ciuffo» Barbieri sedeva ogni pomeriggio a un tavolo diverso lasciato libero da altri collaboratori. Lavorava con molta calma, senza estri «creativi» a effetto, dato che si trattava invece di un lavoro basato sulle severe matematiche dell’armonia nella distribuzione degli spazi tra testi e illustrazioni. Fatto non trascurabile, questo lavoro si
svolgeva nella sede fondata dall’indiscusso genio della nostra grafica: Leo Longanesi. E inoltre in una città che stava entrando nel cuore dell’Europa e con la sua modernizzazione stava lucidando antichi blasoni: «Les bons habitants de Milan sont probablement à la tête de la civilisation», così ancora Stendhal. Ma alla Longanesi non era concesso ripetere le formule sacramentali del grande Leo, e così ho sempre ammirato la calma, sinonimo di forza d’animo, di Ciuffo nel sopportare che Mario Monti, il nostro «padrone», gli stesse dietro le spalle a sorvegliare per ore il suo lavoro. Chino e sbuffante nuvole di tabacco, mentre Ciuffo non fumava affatto. Noi lo chiamavamo con questo nomignolo credendo alludesse alla precoce caduta della sua chioma per lasciare spazio a una calvizie da aristocratico romano. E invece lui era Ciuffo proprio perché ne aveva avuto uno magnifico. Concentrato nel suo lavoro, si esprimeva solo per brevi commenti essenziali. Così sono nati libri di grande formato e di grande pregio come Il cavallo e l’uomo, testi di Gigi Gianoli, in collaborazione con Leonardo Vergani. Leo, il «grande amico», bello, elegante, lanciato in una brillante carriera giornalistica sul solco del padre Orio e seguito dal fratello Guido. Ma come Adriana Pellegrini, vittima della nevrosi depressiva. Ciuffo, fortuna sua, era al nadir della depressione. Attorno a lui tutto si svolgeva con la sicurezza di un programma ben collaudato e di un animo che non aveva bisogno di soste o di rincorse per ritrovare il suo vigore. Ciuffo inalterabile, con una forza mascherata da
una forma speciale di sottomissione. Quando si staccò dalla Longanesi per fare propria, e rinnovare lanciandola sulla strada del successo, una vecchia sigla editoriale, non ne fui affatto sorpreso. Mi sembrava un’evoluzione naturale anche se avvenuta in minima parte a scapito mio, in quanto Ciuffo volle annettersi la mia deliziosa efficientissima segretaria Marica. Ma in fondo ero ben contento che qualcosa di mio passasse a lui, tanto se lo meritava. E tanto oggi impreco contro Cloto e il filo troppo corto che gli è stato concesso. Nico Naldini poeta e saggista
L’acquisto della Sperling & Kupfer
«Una sera, in un vecchio palco della Scala, un’anziana signora della Milano bene, sapendomi nell’editoria, mi ha detto che aveva un vecchio amico stanco che sarebbe stato disposto a cedere la Sperling & Kupfer… Mi sono trovato a scegliere tra la casa editrice Barbieri e la casa editrice già conosciuta, con un passato illustre e un presente precario. Non ho esitato: l’editoria mi affascina in quanto editoria in sé e per sé, non ho vanità. La mattina dopo ho acquistato la Sperling & Kupfer. Quando ho cominciato a scartabellare tra i vecchi documenti della Sperling & Kupfer, be’, ho perduto la testa. Ne sono rimasto talmente innamorato, pazzo furioso…»2
L’acquisto della Sperling & Kupfer, al pari di molte imprese di successo, è avvenuto quasi per caso. Una sera del 1970 Tiziano Barbieri sente parlare della possibilità di rilevare un vecchio marchio editoriale: in poco tempo raggruppa dieci soci e acquisisce da Carlo Alessandro De Michelis la Sperling & Kupfer, storica casa editrice avviata nel 1895 a Stoccarda e attiva a Milano dal 1899. La sigla si era distinta negli anni Trenta per aver fatto conoscere in Italia celebri narratori nordeuropei e mitteleuropei, oltre che per la pubblicazione di testi tecnico-scientifici, ma quella che Barbieri e la cordata di soci si trovano fra le mani assomiglia di più a una nobile decaduta: il catalogo è stato svuotato dei pezzi più prestigiosi, il fatturato e la presenza sul mercato italiano sono pressoché irrilevanti. Una sigla, una storia Per un editore che voglia ricordare l’anniversario della sua casa editrice (e un anniversario importante come i novant’anni) è quasi imprescindibile ripercorrere un tracciato che si snoda attraverso anni di storia, cercando di ricomporre le fila di un discorso culturale che, pur nelle differenze, presenta aspetti di innegabile omogeneità e una sicura continuità di intenti. Già dalla sua fondazione, avvenuta a Milano nel 1899 a opera di Heinrich Otto Sperling, libraio editore di Stoccarda, cui si affiancherà nel 1911 il nome di Richard Kupfer, la Sperling & Kupfer si propone come elemento di diffusione della cultura straniera, in special modo mitteleuropea, allora assai poco nota in Italia, colmando un vuoto e rivelando lo stesso tipo di attenzione alla pro-
duzione internazionale che caratterizza l’attuale tendenza della casa editrice. È così che, da importatrice di libri in lingua originale, la Sperling & Kupfer passa all’attività editoriale vera e propria, con opere che vanno dalla divulgazione scientifica ai testi di studio, alle enciclopedie, ai dizionari, fino allo sbocciare del filone letterario voluto, alla fine degli anni Venti, da Harry Betz, uomo di tradizioni umanistiche, con l’appassionata collaborazione di Lavinia Mazzucchetti, esperta di letteratura tedesca. Sono grandi nomi quelli che si affacciano alla ribalta della scena letteraria italiana, o nomi che diventeranno grandi in seguito, come Franz Werfel, Thomas Mann, Arthur Schnitzler, Hermann Hesse e altri ancora, Ricarda Huch, Leonhard Frank e Hans Carossa, molti dei quali premiati con il Nobel. E soprattutto Stefan Zweig, che la Sperling & Kupfer ha reso noto al pubblico italiano e di cui si è assicurata, oltre alla maggior parte dell’opera narrativa, l’intera mole dei saggi critici. Gli eventi bellici, le vicende del dopoguerra e i numerosi cambi di proprietà avvenuti fino al 1970 hanno modificato in parte la produzione della casa editrice, senza peraltro alterarne le caratteristiche fondamentali, che restano uno spirito internazionale e una grande attenzione ai problemi del mondo di oggi. Il ritratto della Sperling & Kupfer, così come è ora e come si è andata formando nel corso degli anni, è quello di una casa editrice prismatica, aperta a nuove esperienze, disponibile ai tentativi, eppure decisamente ispirata a quello stesso pragmatismo che le ha permes-
so di sopravvivere nel tempo superando le molte avversità , via via diversa ma idealmente legata al suo passato. Una lunga storia che, pur tra i molti mutamenti, testimonia in modo indiscutibile un’ugual fiducia nella parola scritta, nel suo potere di suggestione e nella sua capacità di farsi specchio del reale. Tiziano M. Barbieri dalla presentazione al Catalogo storico Sperling & Kupfer Editori, 1899-1989
I primi casi editoriali
«L’editoria non dà frutti immediati, occorre avere pazienza. Chi non ne conosce abbastanza il meccanismo è portato a scoraggiarsi presto. Ho azzeccato il mio primo libro perché non potevo non azzeccarlo: mi era vietato sbagliare, ero con le spalle al muro. S’intitolava Il soldato dimenticato.»3 «Il ’73 fu, invece, l’anno del lancio del nostro primo libro eccentrico intitolato ‘5’, un dizionario simultaneo in cinque lingue (italiano, spagnolo, francese, inglese, tedesco).»4
Gli inizi, come spesso accade, non sono facili. Oltre alla difficoltà di rilanciare il marchio, Tiziano Barbieri deve fare i conti anche con le resistenze dei soci che guardano con sfiducia e una certa impazienza a un progetto ambizioso, che coniuga operazioni editoriali su committenza ed editoria «pura». La tenacia verrà premiata, ma bisognerà aspettare un paio di anni per registrare il primo grande successo editoriale: Il soldato dimenticato, di Guy Sajer, sette edizioni in un anno. Seguirà il fortunato caso editoriale di «5» Dizionario simultaneo in cinque lingue. Il nostro «5» Così raffinato e così scanzonato. Così elegante e così informale. Così milanese e così internazionale. Così famigliarista e così innovativo. Così integro e così compromissorio nel raggiungere i risultati. Così tradizionale e così moderno. Sempre attorniato dal bello, fosse un cappello per l’inverno o una sciarpa, una borsa (che poi diventava un borsone) o una penna. Ma era negli ambienti che esprimeva se stesso al meglio. Ricordo lo scricchiolio dei parquet di via Monte di Pietà. Non un ufficio, ma un appartamento d’altri tempi. Le stanze enormi, i bagni più spaziosi d’ogni fantasia, con le rubinetterie e le porcellane più simili a quelle delle suite del Claridge’s (che lui amava alla follia) che a quelle di una location milanese. Poi (o prima, non ha importanza la successione temporale perché per Ciuffo il tempo non esisteva, era già executive da ragazzo ed era ragazzo da presidente degli editori), poi – dicevo – nella torretta di corso Magenta, di fronte a Palazzo Litta e accanto a quel capolavoro che
era ed è la chiesa conventuale di S. Maurizio, un ufficio tutto scale e scalette, o nell’imponenza aristocratica del piano nobile di via Borgonuovo, dove già viveva con l’adorata Stellina e le figlie, fra fiori, piante e boiserie. E sempre con la stessa tribù, quasi tutta al femminile: le sue segretarie; le sue grafiche; la sua correttrice di bozze; la sua bionda, mascolina, fedele, femminista, sempre in pantaloni, Adriana, che cercava la carta, stilava i preventivi, scovava i tipografi migliori. La sorella, le cognate, i suoi fratelli: tutti dentro all’impresa con entusiasmo, senza contrasti, con gioiosità, dal musicista al commercialista, tutti sicuri che lo scettro spettasse a lui, saggio Salomone nella scienza del comando. Un po’ Linder, un po’ Rizzoli. Un po’ esperto e un po’ intuitivo, ma soprattutto geniale e grandissimo amante dei libri che toccava, annusava, sognava e un «pochino» leggeva. Con i «suoi» autori viveva, non lavorava. Li scovava, li ascoltava, li sollecitava, li andava a trovare a New York o sul lago di Como. Non erano più autori, ma parte primaria del suo gioco letterario-imprenditoriale, dove l’educazione di mamma e papà primeggiava anche quando doveva dire un no, un no che anche a lui bruciava forse più che al destinatario naturale. Ma le sue scelte erano sempre in linea con il futuro, fossero le collane economiche che Peppino Turani modellò con lui per romanzarle non perdendone la scientificità, o i best-seller che intuiva dalla cronaca prima che dagli stand di Francoforte. Sempre signore, con quel sorriso forte, divertito, con quei passi dondolanti e quello stare sulla sedia come fosse un po’ trono e un po’ cassette della frutta accatastate.
Mi indirizzò a lui un amico, un altro mago solitario nel mettere insieme persone, affari, soldi, soluzioni tipografiche, una vera centralina elettronica dei collegamenti umani, con lo stile e le fattezze di un maraja. A lui avevo confessato l’amarezza di avere un’idea e non poterla realizzare, perché gli editori tradizionali, già avvezzi all’odierna pervasiva maleducazione del non rispondere né a telefonate, né a lettere, mi opponevano – quando riuscivo a risentirli – la questione del 7%, dei costi, della carta, della mia megalomane visione internazionale. Ciuffo invece mi ricevette subito e subito capì, o meglio – come sempre – intuì. «Tutto al 50%; tu metti l’idea e la realizzazione, io la carta e l’organizzazione editoriale. E i guadagni a metà.» E così partì l’avventura del primo Dizionario simultaneo in cinque lingue. Un’avventura fatta di notti insonni, di viaggi a Londra alla BBC, Foreign Section, allora alla Bush House, governata nella sua struttura postbellica da un italiano lì trapiantato, Charles Ricono, che mi mise in contatto con una serie infinita di fascinosi personaggi da film in bianco e nero, misteriosi come Hitchcock ed eleganti come Gregory Peck, a capo, a loro volta, della sezione spagnola, tedesca, francese della BBC. Non c’erano i computer, ma Ciuffo e io ci inventammo la storia che una società inglese aveva analizzato, per la prima volta con un calcolatore elettronico, la Divina Commedia, per ricavarne le seimila parole più usate da Dante, e poi quella stupenda balla dei registratori nascosti nella mensa di una fabbrica d’automobili di
Cleveland per scoprire che in un’ora di sosta conviviale quegli operai non usavano più di 200 parole, avvalorando così la nostra immensa scelta di seimila vocaboli che, per cinque lingue, davano un’unica interminabile colonna internazionale, dalla A alla Z, di 30.000 voci, con accanto la fonetica internazionale. E così era nato un libro valido per i cinque continenti, per miliardi di individui che parlassero indistintamente l’italiano o l’inglese, il francese o il tedesco, o lo spagnolo. Come un libro di musica, senza bisogno di traduzione. No, non c’erano i computer, ma c’erano le persone come Ciuffo e come il professor Dorian, che non ricordo più come conobbi, ma che viveva in una vecchia villa délabré sul lago di Garda, con una vecchia Rover verde, che un giorno smise di usare perché non aveva i soldi per cambiare le gomme. Viveva con i suoi ricordi di vecchio ambasciatore, o giù di lì, ad Ankara, dove era giunto negli anni Trenta attraversando lentamente in treno quei Paesi che lo portavano a est. Ora viveva in dignitosissima e totale povertà, da signore d’altri tempi, nei ricordi e con la moglie dalla pelle lunare e dalle labbra rosso fuoco che parlava solo francese e ceco, badava solo ai fiori e ai gatti e lui, il professor Dorian, sempre con lo stesso vestito stirato sotto il peso dell’Enciclopedia Britannica o dei libri di storia, e con i polsini della camicia bianca chiusi da una spilla da balia. Ciuffo si divertiva ai miei racconti sul professor Dorian e mi anticipava quei soldi che servivano al professore per mangiare e per tradurre quei trentamila vocaboli, cercati insieme con lui e altri pazzi come lui sui
dizionari delle cinque lingue più parlate in Occidente. Altro che computer. Quanti viaggi io e il professore abbiamo fatto su e giù dal lago e quanti viaggi insieme su e giù da Londra-BBC-Bush House. Ricordo un giorno a Linate, dove i viaggiatori dovevano portare sottobordo i bagagli per uno sciopero dei facchini. La mia valigia, gonfia di fogli, di botto si aprì e nel vento migliaia di pagine, come farfalle, si sparpagliarono fin sulla pista dove poliziotti, piloti e steward si prodigavano al recupero di quelle voci tutte cercate, a una a una, e tradotte in primis dal professor Dorian. Ma alla fine il Dizionario simultaneo in cinque lingue nacque e fu un successo da centinaia di migliaia di copie che, insieme, Ciuffo e io, vendemmo in tutto il mondo, inventando poi gli sponsor, e facendo così nascere l’edizione per la Marlboro e per l’Esercito, per l’American Express e per le banche. Ma sotto sotto c’erano l’amicizia, le chiacchierate, le reciproche confessioni e mai si discusse dei soldi messi da me o da lui e dei ricavi ottenuti da me o da lui. I soldi andavano e venivano e il successo si consolidava, fin tanto che una mattina, era d’estate ed ero a Panarea, mi telefonarono per dirmi che Ciuffo era morto e tutto si fermò. Accanto avevo un’enorme, bella, levigata, elegante, possente pianta grassa, mediterranea, solare e senza tempo. Piansi, l’abbracciai e le sussurrai: «Ciao Ciuffo». G. Alberto Orefice autore di «5»
«Quando ho letto la notizia di certi passeggeri di un aereo che, dopo un disastro, erano stati dati per dispersi, e, invece, erano poi sopravvissuti, e s’erano diffuse voci circa una sopravvivenza a costo di cannibalismo, ebbene il fatto mi ha bruciato. Smaniavo. Mi sono attaccato al telefono, supplicavo i miei amici in America di rintracciare i superstiti, di convincerli a raccontar tutto per me. Ovviamente, c’erano già arrivati gli americani, ma Tabù, di P.P. Read è stato un gran successo pure per la Sperling & Kupfer. E poi è venuto Bermuda: il triangolo maledetto, di Charles Berlitz; sono venuti anche i successi romanzeschi da Il club dei fan, di Irving Wallace, a Scrupoli, di Judith Krantz. Il grosso pubblico era raggiunto, il contatto era stato stabilito…»5
Folgorato dalla notizia di cronaca, Tiziano Barbieri si innamora di Tabù («Il libro è veramente uno dei più belli che abbia letto negli ultimi anni», scrive nel febbraio del 1974 all’azionista di maggioranza) e ne strappa i diritti al colosso Rizzoli per 5.000 dollari. Per la rinata Sperling & Kupfer si tratta del primo vero best-seller: il tour promozionale in Italia di due dei giovani sopravvissuti è trionfale e la copertura stampa impressionante. L’entusiasmo di Barbieri è grandissimo: «La prima edizione di 10.000 copie si è esaurita in prenotazione. La seconda edizione di 2.000 copie anche. Abbiamo fatto una terza edizione di 3.000 copie che è già finita. Siamo in macchina con la quarta edizione di 5.000 copie. È un successo che durerà nel tempo…» Diavolo d’un Ciuffo La sera in cui incontrai per la prima volta Ciuffo Barbieri, mi colpirono particolarmente il suo dinamismo e la sua ampiezza di vedute. Aveva occhi vivaci, sempre attenti a cogliere nuove idee e nuove opportunità. La sua fantasia non conosceva limiti e la sua audacia si fondava su una grande intelligenza. Era ben conscio delle sue scelte, anche se a molti il suo percorso poteva sembrare incerto. E tutto ciò era coronato da un incredibile senso dello humour. Ricordo che una sera andammo a promuovere Tabù nella sede del Partito Comunista: ci trattarono come se fossimo dei ricchi borghesi e chiesero a lui se non si vergognava a fare soldi con una tragedia. Eppure, quando uscimmo Ciuffo era molto contento e disse che avremmo venduto tanti libri: così fu. A quei tempi
ero giovane, ma fin da allora, anche grazie a lui, ho imparato che quando si dorme è bene fare sogni d’oro – come diciamo noi, «sognare gli angioletti» – ma ogni tanto qualche diavoletto non guasta! Caro Ciuffo, grazie per la tua saggezza. Roberto Canessa uno dei sopravvissuti delle Ande
La scoperta dell’America «Ho portato la narrativa americana da noi in un momento in cui l’Italia scopriva l’America in tutti i suoi dettagli, dal mondo culturale librario al mondo dei periodici. Il clima era un po’ quello di Panorama uguale a Time, Espresso uguale a Newsweek. Per cui non ho fatto altro che guardare a un altro Paese, mantenendo però la tecnica editoriale della vecchia Sperling prima della guerra. Ma queste sono ricostruzioni a posteriori, dove tutto sembra filare liscio e secondo un disegno ben preciso: in realtà l’aria di quei tempi era ben diversa. Si trattava di gettarsi nelle cose e credere in quello che si faceva. Io avevo intravisto questa particolarità e questa possibilità per l’editoria italiana.»6
Nel 1975 Barbieri convince Nicola Carraro, uscito dalla Rizzoli, a sposare la causa della rinnovata casa editrice: con lui la Sperling & Kupfer, come dice lo stesso Tiziano, «passa da bottega artigiana ad azienda». Risorse economiche e professionali fresche, tante idee e una nuova attenzione al mercato internazionale: così la casa editrice conquista spazio sul mercato italiano. Barbieri guarda soprattutto all’editoria americana, riuscendo a costruire nel tempo preziose collaborazioni con i più importanti editori e agenti d’Oltreoceano, grazie anche all’attività di una scout – figura professionale a cui attribuiva un’importanza decisiva – come Natalia Danesi Murray (cui succedette in anni più recenti Linda Clark). In pochi anni la Sperling & Kupfer importa dagli Stati Uniti successi longevi e clamorosi e Tiziano costruisce la sua fama di «editore più americano d’Italia». L’elenco (lungo) dei grandi autori best-seller entrati nella collana «Pandora», fiore all’occhiello della nuova Sperling, va da Irving Wallace (1976) a Sidney Sheldon (1977), da Helen Van Slyke (1978) a Judith Krantz (1979), dalle signore del rosa Danielle Steel e Barbara Taylor Bradford (1981) al re del brivido Stephen King (1981)… Un incontro importante Faccio fatica a credere che questo sia il decimo anniversario della morte dell’amico e collega Tiziano Barbieri. Il ricordo di lui è ancora vivo e intenso; desidero davvero che tutti quelli che lo hanno conosciuto sappiano che cosa ha significato per me quest’uomo eccezionale. Ho iniziato la mia carriera professionale come legale in un’azienda, per poi diventare agente letterario solo perché alcuni amici scrittori mi avevano chiesto di
aiutarli a promuovere le loro opere. Mi piaceva lavorare con gli autori e gli editori: cominciai così a dedicare sempre più tempo a questa nuova occupazione, tanto che nel giro di un paio d’anni finii per perdere interesse nella pratica legale in senso tradizionale. Ben presto mi resi conto dell’importanza del mercato straniero per gli autori americani e cominciai a partecipare alla Fiera del Libro di Francoforte, che mi consentiva di familiarizzare con quello che stava succedendo nel resto del mondo. Oggi – alla luce dei grandi cambiamenti avvenuti – è difficile a credersi, ma nei primi anni Settanta fui per un po’ l’unico agente letterario americano presente a Francoforte, e soprattutto l’unico a intrattenere rapporti con gli editori stranieri. Per mia grande fortuna, sia dal punto di vista professionale che personale, una delle prime persone che incontrai fu Tiziano Barbieri, della Sperling & Kupfer. La mia esperienza del mercato italiano era allora a dir poco limitata, e Tiziano, con la sua immensa generosità, il suo calore e l’inesauribile curiosità, cominciò a discutere con me tutto ciò che riguardava la pubblicazione degli scrittori americani in Italia. Trascorsi molto tempo con lui, a Francoforte, a bere birra e mangiare salsicce, e a farmi raccontare i retroscena dell’editoria italiana. Era così disponibile e aperto nel condividere la propria esperienza con me che il nostro legame divenne in breve tempo molto più importante del nostro sodalizio commerciale. Ci sentivamo regolarmente e ci incontravamo ogni volta che veniva a New York. Ho
avuto la grande fortuna di rappresentare molti bravi narratori americani, che ero certo avrebbero potuto conquistare i lettori italiani, e ho sempre potuto contare su Tiziano per avere consigli su quei libri, su come sarebbero stati accolti nel suo Paese e su come si potevano pubblicare al meglio. È da allora che nutro, e continuo a nutrire anche oggi, il più grande rispetto e la più grande ammirazione per la Sperling & Kupfer: gli stessi sentimenti che provai in quei primi tempi e che spiegano perché tanti dei migliori autori della Janklow & Nesbit vengono tuttora pubblicati da Sperling. Sono uno dei tanti che hanno beneficiato della generosità di Tiziano, del suo entusiasmo per la vita e per il lavoro, del suo orgoglio per l’azienda che aveva creato. Sono sempre stato certo che nell’affidargli un autore importante avrei potuto contare su una pubblicazione di grande stile e professionalità, che avrebbe solo giovato allo scrittore e dato credito alla mia mediazione. Fui profondamente sconvolto dalla notizia della sua morte: Tiziano era stato parte fondamentale della mia vita, non solo professionale, e ci eravamo sempre sostenuti a vicenda. Dal giorno in cui Stellina mi chiamò per darmi la triste notizia e per dirmi che non avrebbe abbandonato l’azienda, non ho mai avuto un momento di esitazione nel continuare la collaborazione della Janklow & Nesbit con la Sperling & Kupfer. E non ne sono mai stato deluso. Il luminoso e caldo ricordo di Tiziano durerà finché vivranno coloro che lo hanno conosciuto, che hanno lavorato con lui, che sono stati pubblicati da lui o che
hanno avuto modo di stargli accanto anche solo per il breve spazio di un pranzo. Conoscerlo significava crescere «dentro», e per questo ancora oggi ne sento la mancanza. Morton L. Janklow agente letterario
Un italiano a New York A dieci anni di distanza non è facile ricordare tutti i dettagli del profondo legame, professionale e umano, che mi univa a Tiziano. Nel periodo che trascorsi alla Bantam, e poi alla Random House, Barbieri si dimostrò editore di grande successo sia nel campo della narrativa sia in quello della saggistica. Gran parte di quel successo lo doveva al fatto che era stato cooptato nel «clan» editoriale americano e in special modo in quello newyorkese. L’unico editore che, come lui, si sentiva davvero a proprio agio a New York era Leonardo Mondadori. E comunque Tiziano, oltre a essere un grande imprenditore, possedeva un fiuto editoriale particolarmente acuto, che gli consentiva di aggiudicarsi i diritti sulle opere americane di maggior richiamo, che in Italia diventavano poi autentici best-seller. Lo ricorderò per sempre come un amico, un collega creativo e dinamico e soprattutto un editore che, contro ogni probabilità di successo in un mercato estremamente competitivo come quello italiano, è stato in
grado di affermarsi e far prosperare un’azienda, grazie a un’ampiezza di vedute e orizzonti che lo distingueva da chiunque altro. Da un punto di vista strettamente personale, ho vividi ricordi delle numerose riunioni e degli incontri avuti durante la Fiera del Libro di Francoforte. La personalità esuberante di Tiziano, il suo sorriso e i suoi modi affascinanti gli attiravano le simpatie di molti nel settore, fossero essi americani o di altri Paesi. Non accadeva nulla a Francoforte di cui lui non fosse al corrente. Dopo così tanti anni, la Sperling & Kupfer è oggi viva, vitale e affermata: è questa la migliore testimonianza ed eredità di tutto quanto Tiziano è stato capace di creare e tradurre in realtà. Alberto Vitale già presidente e amministratore delegato di Random House
Il talento poliedrico di un editore Ripenso spesso al mio primo incontro con Tiziano Barbieri. Fu alla Fiera del Libro di Francoforte, a metà degli anni Ottanta; mi ero allontanato dall’affollato e rumoroso Agents’ Center, e mi districavo nel dedalo dei corridoi per arrivare puntuale allo stand della Sperling. Quando finalmente riuscii ad approdarvi, vidi una donna seduta al tavolo che sorseggiava un caffè. Le dis-
si che avevo appuntamento con Tiziano Barbieri; lei mi chiese come mi chiamassi e mi invitò a sedere. Aspettai pochi minuti, guardando tra le mie carte, e quando alzai gli occhi vidi venire verso di me un uomo di bell’aspetto, sulla cinquantina. Indossava un impeccabile blazer blu a doppio petto, pantaloni grigi, camicia bianca e cravatta giallo oro – la quintessenza dello stile anche a metà giornata e alla Fiera del Libro. Con un caldo sorriso, Tiziano Barbieri mi tese la mano e mentre gliela stringevo appoggiò l’altra sulla mia in un affettuoso gesto amichevole. Fu come se ci conoscessimo da sempre. Si scusò per il ritardo. Insieme con altri editori aveva incontrato gli organizzatori della Fiera per discutere del fatto che essa aveva luogo durante le più solenni festività ebraiche, in special modo lo Yom Kippur. Tiziano aveva detto chiaro che lui e la sua azienda non vi avrebbero più partecipato se la politica in futuro fosse stata la stessa. Come ora sappiamo bene, la loro determinazione ebbe la meglio. Quel giorno capii molte cose di Tiziano, e altre ancora ne avrei capite in seguito. Era uomo di grande spessore, dotato di classe, calore umano e sentimenti profondi, oltre che di un carattere poliedrico e di inesauribile vitalità. Ma partiamo dal principio. Cinque anni prima, in occasione di una precedente Fiera di Francoforte, avevo incontrato Erich Linder allo Hessischer Hof, come d’abitudine. Fu proprio quello che mi confidò lui in quell’occasione a dare il via a tutto. Ricordo che disse (chiedendo ad Antonella di passargli una sigaretta, e sì che sapeva di non dover fumare!), come so-
lo lui poteva dire: «Ragazzo mio, per ora non c’è nessun editore italiano che voglia pubblicare il tuo autore. Ma vedrai che le cose cambieranno. Basta che lui continui a vendere in America, e qualcuno accetterà il rischio. È l’unica cosa che serve. Allora riuscirà a vendere. L’ho già visto succedere diverse volte: abbi solo pazienza». Erich aveva ragione. Non passò molto che un editore italiano accettò di rischiare sul «mio autore», Stephen King. Quell’editore era Tiziano Barbieri. In retrospettiva, può sembrare lampante che quello fosse un buon investimento, ma allora non era così evidente. King era già stato pubblicato in Italia, ma con pochissimo successo. Sebbene stesse vendendo molto bene negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, nel resto dell’Europa le sue opere non decollavano. Nonostante l’anticipo relativamente modesto, Barbieri si stava assumendo un rischio notevole. Infatti doveva impegnarsi per contratto in un programma di promozione dell’autore in Italia, e questo avrebbe richiesto un’accurata pianificazione e molto denaro. Poteva la Sperling pubblicare King e farlo «funzionare» su larga scala? Tiziano era convinto di sì. Destino volle che non ci fosse momento migliore per entrare in scena. Negli States avevamo appena spostato King da Doubleday a Viking. Il cambio fu pressoché magico: in tempi in cui la maggior parte dei best-seller, a eccezione di James Michener, vendevano all’incirca 50.000 copie hardcover, Viking annunciò una prima edizione di ben 200.000 che, dopo le ripetute ristampe, diventarono presto 400.000. Tiziano avrebbe pubblicato La zona morta con un
successo modesto, ma fu chiaro che il mercato italiano si stava mostrando ricettivo. La presenza di King nelle librerie aumentò infatti sensibilmente. Tiziano seppe cogliere quella tendenza, e cominciò a rendersi conto che King non era solo un creatore di best-seller ma anche uno scrittore versatile e molto dotato. Sono state queste sue sagaci intuizioni che hanno mantenuto la Sperling in una posizione di tutto rispetto nell’ambito dell’editoria italiana. Sebbene ci fossimo incontrati più volte dopo quella prima volta a Francoforte, la nostra conoscenza si fece più profonda quando Dennis Linder, figlio ed erede di Erich, vendette l’Agenzia Letteraria Internazionale a Donatella Barbieri, la sorella di Tiziano. Per anni l’ALI aveva dominato le scene editoriali italiane. L’editoria italiana agiva effettivamente come una famiglia allargata. Non venne mai in mente né a Tiziano né a sua sorella che questo potesse significare un conflitto d’interessi. Io ero tenuto a vendere le novità, compreso King, attraverso Donatella; una situazione piuttosto delicata. Decisi allora di venire a Milano per occuparmi personalmente della faccenda. Trattai la vendita dei diritti sui successivi quattro libri di King alla scrivania di Tiziano. Nella stessa stanza c’erano Donatella, Roberto Santachiara, da poco assunto all’ALI, e il direttore editoriale di Tiziano, Mariagiulia Castagnone, tutti seduti in silenzio mentre noi arrivavamo al punto cruciale della negoziazione. Questo mi permise anche di conoscere bene l’uomo con cui stavo trattando e di capire che in definitiva la questione denaro sareb-
be stata di nostra esclusiva pertinenza. Dalle sue poche frasi arrivai a rendermi conto del grande rischio che gli chiedevo di assumersi. In pochi minuti, ci accordammo sui termini. Più tardi mi invitò alla Scala e poi a cena. Voleva spiegarmi perché aveva aiutato la sorella ad acquistare l’ALI. Aveva agito da fratello affezionato che voleva che Donatella avesse qualcosa di creativo e di suo di cui occuparsi. Non gli era mai passato per la testa che quel fatto avrebbe potuto costituire un conflitto d’interessi. Gli credetti. E in un attimo capii quanto Tiziano fosse eclettico: imprenditore di grande talento, uomo d’affari di successo, ma non per questo meno devoto ai legami famigliari. In quell’occasione fui ospite della sua famiglia per una piacevolissima cena a casa della sorella – proprio dirimpetto alla sua. Le uniche parole che mi vengono in mente per definire il mio sentire sono calore e fascino. Certo non mi aspettavo che negli anni immediatamente seguenti il successo di King con la Sperling avrebbe superato di molto le nostre più rosee previsioni. Più tardi, con il trascorrere degli eventi, Roberto, di cui ero diventato subito molto amico, lasciò l’agenzia di Donatella per mettersi in proprio. Ebbe il mio appoggio, cosa che lasciò Donatella comprensibilmente scossa. In quel periodo Tiziano e io ci sentimmo con regolarità. Si trovava in un difficile frangente, ma, in linea con il suo carattere, fu all’altezza della situazione. Mi chiamò più volte, cercando di ristabilire l’armonia che ci avrebbe consentito di conti-
nuare con il nostro lavoro. Fu molto sensibile e persuasivo. Purtroppo, fu poco dopo quel fatto che lo perdemmo, e in modo così inaspettato e improvviso. Sentii subito la mancanza di un vero signore nel mondo dell’editoria italiana, di un uomo profondamente legato agli affetti famigliari, di un meraviglioso amico. Ma un’altra Francoforte era ormai vicina. C’era Stellina – una persona squisita – e parlammo molto. Fu un bel modo per ricordarlo con tutti gli amici. Era consolante sapere che Tiziano aveva avuto lei nella vita. Tra gli stand della Fiera incontrai anche Donatella: quando i nostri sguardi si incrociarono, ogni divergenza fu messa da parte. Ci abbracciammo, e piangemmo. Anche se c’era stato qualche attrito, il nostro affetto per Tiziano era un legame forte che ci univa. Lei piangeva il fratello, io l’amico. Per strano che sembri, era stato lui a insistere che visitassi Venezia: città unica, sosteneva. Mi diceva che a volte gli capitava di prendere il treno giusto per passarci un giorno o due, per perdersi in quel luogo di favola. Diceva che là si rilassava. L’anno successivo alla sua morte ci andai, e capii perché una città come quella riusciva a incantarlo. Venezia – le sue antiche acque che lambiscono gli edifici cadenti; l’unico posto al mondo dove il rumore del traffico non arriva; una terra fantastica e felice piena di bellezza e di ombre. Là, in piazza San Marco, camminando verso il Canal Grande, vidi una figura in impermeabile chiaro, con sciarpa e cappello. Per un attimo mi sembrò di ri-
conoscere Tiziano. Però lui non c’era più e io realizzai che era stata una grande fortuna averlo avuto come amico. Ralph Vicinanza agente letterario
A caccia di best-seller per Tiziano Ho incontrato per la prima volta Tiziano nel 1986, quando mi chiese di lavorare per lui come scout. In realtà, in quel periodo la Sperling aveva già una sua scout per gli Stati Uniti, ma lui desiderava cambiare. Volle, così, che ci vedessimo in una sala da pranzo privata di un piccolo hotel di Washington, al riparo da occhi indiscreti. In quel momento non me ne resi conto, ma due tavoli più in là sedeva una delle persone più pettegole del mondo dell’editoria… Tiziano si appassionava ai best-seller americani ed era molto determinato nell’acquisizione. Ogni settimana era compito del mio ufficio inviargli per fax la pagina del New York Times con la classifica dei best-seller: accanto a ogni titolo che aveva comprato per Sperling, Tiziano annotava orgoglioso: Mio… Ogni volta che qualcuno alla Sperling era orientato ad acquistare un libro e andava a parlargliene, la sua risposta era immancabilmente: «Cerca di non pagarlo troppo». Nel 1988 volevo ridiscutere il mio contratto e mi affannavo a trovare buone ragioni per migliorarne le condizioni, finché lui, esausto, mi scrisse in una no-
ta – tra tutte, quella che preferisco: «Ma insomma, mi vuoi dire quanto vuoi?» Quando morì mi trovavo a Los Angeles alla Booksellers Association e mi chiamò Carla Tanzi alle sette di mattina nella mia camera d’albergo. Fu devastante. Non dimenticherò mai Tiziano e non dimenticherò le cose che mi ha insegnato nel lavoro. Il mio affetto per Stellina e per le figlie è rimasto immutato negli anni e sono sempre ansiosa di rivederle. Linda Clark scout di Sperling & Kupfer negli USA
L’addio a un grande editore In maggio, mentre assistevamo al congresso della American Booksellers Association, fummo contattati da Carla Tanzi, direttore editoriale della Sperling & Kupfer, che aveva appena ricevuto la notizia dell’improvvisa morte, all’età di 56 anni, del presidente e amministratore delegato della casa editrice Tiziano Barbieri, stroncato da un ictus mentre si trovava a Londra. Solo pochi mesi prima, in un articolo sulla scena milanese comparso su questo giornale, avevamo descritto Barbieri come il più americano degli editori italiani, per come era riuscito ad aggiudicarsi i nostri scrittori più venduti, da Stephen King e Danielle Steel ad Alvin Toffler e Peter Drucker, e per la rapidità con cui sapeva cogliere e sfruttare i trend editoriali, come per esempio i libri di business e management, un tratto
distintivo della Sperling. Aveva persino rinnovato un vecchio marchio, Frassinelli, con autori di catalogo come Joyce e Kafka e una front list che comprendeva Allan Bloom, Joan Didion e Toni Morrison; fra gli ultimi titoli pubblicati I ponti di Madison County e Donne che corrono coi lupi. Barbieri aveva raggiunto tutti questi risultati praticamente da solo, pur avendo avuto la capacità di affiancarsi di validi vice. Quando fu eletto presidente dell’Associazione Italiana Editori – primo editore di «varia» che ricordiamo in quella posizione – si impegnò a rinnovare l’immagine della professione in un momento molto difficile per il settore. Che ne sarà ora delle sue molteplici attività? Herbert L. Lottman dal Publishers Weekly del 29 agosto 1994
Dallo sport alle diete: i libri per i non lettori
«Ho l’ambizione di credere che i nostri prodotti conquistino i neofiti alla lettura. Noi siamo il primo passo verso la libreria. Fabris, il sociologo, sostiene che ci sono otto Italie. Io dico che ce ne sono almeno venti. Una, quella più piccola, legge libri di qualità; io faccio i libri per le altre diciannove.»7 «Trovo che un grande equivoco stia nell’equiparazione sottintesa fra lettura e cultura, fatto che spesso allontana l’acquirente. Libro è anche manuale, guida, album. Un pubblico di forti lettori c’è e ci sarà sempre.»8
Nel 1980 la Sperling & Kupfer dà alle stampe La dieta Scarsdale, del cardiologo americano Herman Tarnower. È l’ennesima scommessa di un editore curioso e aperto alle novità che investe su un terreno cui i grandi editori avevano fino a quel momento guardato con sufficienza, quando non con sospetto. Il successo è immediato e il volume supererà negli anni le quaranta edizioni, aprendo così la strada ad analoghi casi clamorosi nel comparto diete, alimentazione e benessere. La capacità della Sperling di produrre libri «per non lettori» – dalle diete ai manuali di cucina, dalle guide pratiche ai libri gadget e d’occasione – e di trovare un ampio pubblico di riferimento ha in fondo radici antiche, in particolare nella gloriosa «Sportiva». Nota ad addetti e appassionati come la «gialla», era l’unica collana ancora attiva quando Barbieri ereditò il vecchio catalogo ed è tuttora viva e ricca di titoli, coronati anche da significativi successi di vendite. La «gialla», la collana degli sportivi Fu Tiziano Barbieri a telefonarmi: era il gennaio del 1978. Alcuni giorni prima, sul Corriere della Sera (a cui in quegli anni collaboravo), aveva letto un mio articolo in prima pagina nel quale parlavo della mia prima maratona; mi chiedeva se me la sentivo di fare un libro sulla corsa. «Ma», aggiunse, «scritto come quell’articolo: comprensibile a chiunque, ma rigoroso dal punto di vista scientifico.» Gli risposi che, in effetti, a scrivere un libro sulla corsa ci avevo già pensato, ma che ero molto preso dal lavoro e non sapevo come trovare il tempo per farlo. Barbieri mi propose di rifletterci. Prima di appendere, però, aggiunse una frase che sembra-
va fatta apposta per scoraggiarmi: «Tenga presente che quel libro dovrebbe scriverlo entro due mesi». In ogni caso, quando Barbieri mi ritelefonò, gli dissi che accettavo. Cominciai a lavorare molto intensamente, soprattutto di notte e nei fine settimana. Ogni tanto Barbieri mi telefonava per sapere se avevo prodotto qualcosa: se rispondevo di sì, la sera arrivava da me suo fratello Adriano, il direttore d’orchestra, che d’estate vive a Varese, a poche centinaia di metri da me. Le bozze dei primi capitoli mi arrivarono per la correzione quando ancora mi mancava un quarto del libro. Quando si trattò di scegliere il titolo, me ne propose alcuni; li scartai tutti e suggerii Correre è bello (in fondo era quello che della corsa pensavo allora e penso tuttora); subito Barbieri disse che era il titolo giusto. Ricordo la frenesia con la quale lavorammo in quel periodo. Consegnai le ultime pagine addirittura con qualche giorno di anticipo. Dopo alcune settimane dall’uscita in libreria, mi arrivò un’altra telefonata da Barbieri: Correre è bello era in testa alla classifica dei libri più venduti. Cinque anni dopo Tiziano Barbieri mi propose di diventare il direttore della collana «Sportiva». Ovviamente la conoscevo bene: a quei tempi, chiunque si occupasse di sport non poteva non conoscere quei manuali e da ragazzo avevo tenuto sul comodino quello sullo yoga di Patrian e quello sull’atletica di Brera. Accettai l’offerta – che mi lusingava molto – e cercai di darmi da fare. Il primo libro che proposi fu quello sul pattinaggio a rotelle di Daniela Stabile, una mia ex allieva. Poi misi in pista amici e allievi. Un libro sulle cor-
se a ostacoli fu scritto da Vincenzo Pincolini, allora sconosciuto, ma diventato poi il più famoso preparatore atletico di calcio. Anche altri due futuri preparatori atletici d’alto livello figurarono fra gli autori della «gialla», Roberto Sassi e Ferretto Ferretti. Poi vennero Maurizio Damilano, marciatore olimpionico, e Giorgio D’Urbano, preparatore di Alberto Tomba. Anch’io scrissi alcuni libri, fra cui uno sul calcio, assieme a un allenatore diventato noto solo qualche anno dopo, Eugenio Fascetti. Fra i libri la cui pubblicazione caldeggiai vivamente, vorrei ricordare i due di Arnold Schwarzenegger sul bodybuilding; sapevo, del resto, che allora l’attore e futuro governatore della California era conosciuto nelle palestre proprio come autore di quei manuali. Un solo libro mi fu bocciato: quello di Aldo Sassi sulla mountain bike; lo avevo proposto quando ancora non si sapeva che cosa fossero quelle strane biciclette. A dire di no, però, non fu Barbieri, che di certo aveva la capacità di vedere sempre più avanti di tutti. Enrico Arcelli autore e direttore della collana «Sportiva»
La sfida della narrativa d’evasione
«Detesto l’importanza che i mass media e il mondo intellettuale in genere attribuiscono all’editoria di cultura: ma se farla è la cosa più semplice del mondo, la meno impegnativa, la più bella! Provino invece a rilanciare quotidianamente la sfida della narrativa (e della saggistica) commerciale d’evasione! Oh, certo, gli elementi base sono sempre quelli: passione, amore, sesso, politica, la grande saga. Ma vanno adattati di volta in volta alle mode e alle idee che circoleranno tra i lettori sei mesi dopo. Per riuscire bisogna annusare continuamente l’aria, saper prevedere i gusti del futuro prossimo, essere tempisti. Questo il mio credo, questa è la mia scelta.»9
Barbieri dichiara a più riprese la sua fiducia incrollabile nell’editoria cosiddetta «d’evasione», cui guarda senza snobismi e con inesauribile entusiasmo. Fiutare in anticipo i gusti dei lettori, essere veloci nelle acquisizioni, instaurare un rapporto di comunicazione diretto ed efficace con lettori e lettrici: così i marchi Sperling & Kupfer e «Pandora» arrivano a identificare in modo inequivocabile un prodotto riconosciuto e apprezzato da un vasto pubblico («Come una griffe», diceva Barbieri). Il modello vincente della narrativa d’intrattenimento, di cui gli americani sono maestri indiscussi, troverà poi un’italianissima applicazione: nel 1981 uscirà Anna dagli occhi verdi, opera prima di un altro «marchio» di successo: Sveva Casati Modignani, nom de plume di una coppia di giornalisti milanesi, Bice Cairati e Nullo Cantaroni. Attestato di credito per Tiziano Barbieri Nel 1983 mi proposi di campionare la ricerca editoriale in Italia attraverso una serie di interviste. Incontrai gli editori Giulio Einaudi, Paolo Boringhieri, Gianni Merlini (UTET), Vito Laterza, Giancarla Mursia e Tiziano Barbieri, che mi sembrava rappresentassero esemplarmente i tracciati, nell’ordine, di cultura e immaginazione, cultura scientifica, cultura enciclopedica, cultura e filosofia e politica, cultura scolastica e letteratura juvenile, cultura e intrattenimento. Pubblicai le sei interviste sul quotidiano Il Giorno tra l’agosto e il settembre: ebbero una buona risonanza. Colpì tutti gli addetti ai lavori editoriali che io legittimassi, con l’intervista a Barbieri (della Sperling & Kupfer), l’«intrattenimento» come «cultura»; il fatto è che io ho
apprezzato sempre l’editoria che nel Novecento ha documentato i cambiamenti dei costumi privati e pubblici attraverso le molte forme del romanzo di genere (dal thriller, al romanzo di conflitti sentimentali, al romanzo d’avventura); l’«intrattenimento» per me non è sinonimo di «evasione». Nel progetto editoriale di Barbieri apprezzavo innanzitutto il fatto che il giovane editore avesse intuito che «il grande pubblico della televisione era un potenziale lettore di romanzi che raccontavano la civiltà di massa». Mi sembrava che Tiziano Barbieri avesse molto in comune con il mitico editore Sonzogno. Edoardo Sonzogno (che aveva debuttato nel 1861) era stato l’editore dei grandi autori di feuilleton (da Dumas a Leblanc) e aveva concluso la sua attività pubblicando i romanzi di Varaldo, Pitigrilli e Guido da Verona e Barbieri (che aveva debuttato nel 1970), dopo aver perseguito il successo con «storie di vita vissuta» (Il soldato dimenticato, Tabù, Olocausto), era diventato l’editore di Sheldon, Wallace e King; Sonzogno, aspirante attore e aspirante commediografo, si era addestrato a fare l’editore lavorando nella tipografia paterna, Tiziano Barbieri, figlio di un costruttore edile e di una musicista, per imparare il mestiere aveva accettato di cominciare facendo il magazziniere alla Longanesi: la storia di entrambi conferma che il mestiere dell’editore lo si impara a bottega e che nell’editoria la progettualità produttiva e la progettualità commerciale si affinano attraverso il dialogo con i lettori e con i loro intermediari, che sono i librai. Mi ha raccontato Barbieri che alla Longanesi (dove
si è occupato, via via, di libri di guerra, di libri gialli, di libri illustrati e di tascabili) ha tratto profitto dal magistero del patron Mario Monti, che gli ha trasmesso l’attrazione per una grafica moderna di forte visualizzazione, la stima per gli scrittori americani sempre attenti alle tecniche degli intrecci romanzeschi e il coraggio di pubblicare anche libri eccentrici. D’altronde, Mario Monti fu personalmente un creativo eccentrico: portò al successo, con Leo Longanesi, la casa editrice omonima, finanziata da suo padre (industriale chimico) e progettata da Elio Vittorini (suo zio), e fu autore di bellissimi libri (sulla storia degli indiani o sull’epopea – l’ultimo – della famiglia materna). Tiziano Barbieri ha sempre riconosciuto di aver avuto, dopo Monti e i librai, un terzo periscopio nella sua appassionata navigazione editoriale: l’agente letterario Erich Linder (e, forse, non è senza significato che a capo dell’agenzia letteraria di Linder, l’ALI, ci sia oggi Donatella Barbieri, la sorella di Tiziano). Linder non è stato solo il numero uno internazionale degli agenti letterari; per quanto riguarda la letteratura italiana, tedesca e angloamericana è forse stato un «editore aggiunto», perché ha saputo propiziare il successo di moltissimi scrittori (d’élite o popolari) distribuendoli alle case editrici con un doppio criterio, di merito e di business. Chi non ricorda il caso de Il padrino di Mario Puzo? Siccome i «grandi» editori italiani (da Mondadori a Rizzoli) glielo avevano snobbato, Linder lo «impose» ad Andrea Dall’Oglio. E Radici di Haley? Dopo il rifiuto di Mondadori e Bompiani, lo propose alla Riz-
zoli di Spagnol. Il padrino e Radici sono stati due grandi best-seller. Tra gli interlocutori editoriali di Linder, i preferiti, per anni, sono stati Mario Spagnol e Tiziano Barbieri; e Linder privilegiava Barbieri, perché Barbieri non discriminava il romanzo popolare; ne ha, anzi, apprezzato e imposto la qualità; basta pensare ai casi dei libri di Stephen King e di Sveva Casati Modignani. Nel 1982 Linder convinse Barbieri a rilevare il glorioso marchio Frassinelli, l’editore di Kafka, Hesse e Joyce ma anche dei popolarissimi Richard Mason, autore di Il vento non sa leggere, Stephen Wendt, autore di Ti prego, amore, ricorda e Nevil Shute, autore di Una città come Alice; nell’intervista del 1983 citata all’inizio di questa mia testimonianza, Barbieri mi informò: «Del catalogo Frassinelli oggi si occupa mia sorella Donatella». In omaggio ai due fratelli Barbieri, nel 1984 io diedi alla Frassinelli il romanzo a cui avevo lavorato negli anni precedenti, Ladro di ferragosto; ne fecero una bella edizione, ebbe successo, fu selezionato per la cinquina del Premio Campiello, è considerato dalla critica uno dei miei romanzi più riusciti; sicché anche su questo si fonda il mio buon ricordo e la mia grande stima per Tiziano. Raffaele Crovi scrittore ed editore
La Frassinelli: perché no? «Erich Linder mi ha detto che c’erano da acquistare dei titoli della vecchia Frassinelli. Gran parte del catalogo lo aveva rilevato in passato Adelphi, i grandi libri, i grandi autori, Il processo di Franz Kafka, Moby Dick di Herman Melville nella traduzione di Cesare Pavese, Siddharta di Hermann Hesse, eccetera… Restavano da acquistare certi libri più commerciali, meno appetiti da Adelphi… Ho detto che ero disposto a rilevare il marchio Frassinelli, a far dei libri Frassinelli, come ne avevo fatti di Sperling & Kupfer… Non ho avuto una fortuna sfacciata un’ennesima volta?»10 «Con la Sperling bado al bilancio e con la Frassinelli, ultima acquistata, mi diverto.»11
Nel 1982 su suggerimento di Linder, indimenticato protagonista e stratega dell’editoria italiana, Barbieri acquista la casa editrice Frassinelli, storico marchio torinese, il cui catalogo è stato assorbito quasi interamente da Adelphi. È un tentativo di inoltrarsi sul terreno della letteratura di qualità e saggistica alta, dopo il naufragio della collana «Pastelli» della Sperling & Kupfer, che nel suo discostarsi dalla produzione più popolare aveva disorientato pubblico e librai («Ho avuto la prova che con i lettori non bisogna truccare le carte, non bisogna barare», disse Barbieri). Alla direzione editoriale chiama Vittorio Di Giuro, affiancato da Rosaria Carpinelli, e affida la presidenza alla sorella Donatella, da sempre sua stretta collaboratrice. Tra i primi titoli di successo il discusso L’albergo bianco di D.M. Thomas e la biografia Mahatma Gandhi di William L. Shirer. «Un unico filo continuo…» La storia di una casa editrice è scritta nei libri che, anno dopo anno, ha pubblicato e che ne hanno segnato l’evolversi, fino a darle un’identità unica e inconfondibile. Per questo ci pare che il modo migliore di celebrare i sessant’anni di vita della Frassinelli sia quello di offrire al lettore uno strumento che ne rispecchi l’attività e testimoni, al tempo stesso, un percorso culturale che, pur nell’alternarsi delle vicende che hanno caratterizzato la vita della casa editrice, ha mantenuto intatta la sua omogeneità. Fondata nel 1931 da Carlo Frassinelli, un tipografo che all’amore per la letteratura univa quello per il libro come oggetto d’arte, la Frassinelli portò sin dall’inizio
una ventata di rinnovamento nel panorama ristretto e un po’ stagnante dell’editoria italiana di quegli anni. L’intento era quello di aprire una finestra sulla grande letteratura internazionale, di tradurre i grandi scrittori stranieri, molti ancora sconosciuti, e fu così che autori come Melville e Joyce, Bàbel e O’Neill fecero la loro prima apparizione in Italia. Era una sfida appassionante, subito raccolta da alcune tra le intelligenze più fervide del periodo come Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli, tanto per citare le persone che più hanno contribuito a imporre la casa editrice. Gli eventi bellici sciolsero il gruppo, ma Carlo Frassinelli continuò la sua produzione con la cura appassionata di chi nel libro vedeva un oggetto prezioso, piacevole da leggere e da guardare, un oggetto da tenere e da conservare gelosamente nel tempo. Un’editoria di altissimo livello, dunque, che sia negli intenti sia nei modi della produzione perpetuava le caratteristiche del grande artigianato. Ai nomi si aggiunsero altri nomi: Fëdor Dostoevskij, André Gide, O. Henry, Hermann Hesse, Franz Kafka, fino a formare un catalogo ricco e variato, curioso delle novità, ma soprattutto attento alla buona letteratura. Queste stesse sono le linee lungo le quali mi sono mosso da quando ho rilevato la proprietà della casa editrice; tra la nuova Frassinelli, che ha iniziato a pubblicare nel 1982, e la vecchia, gloriosa Frassinelli che ha
smesso la sua attività nel 1965 c’è un unico filo continuo che determina scelte e orientamenti. Certo, ci sono stati anche cambiamenti, giustificati e imposti dalle mutate condizioni culturali e di mercato: una diversificazione verso la saggistica, un nuovo interesse nei confronti degli autori italiani, ma l’intento fondamentale è ancora e sempre quello di offrire al lettore dei libri belli, che durino nel tempo e che esprimano quanto c’è di meglio nell’ambito della produzione nazionale e internazionale. Tiziano Barbieri Torriani dalla presentazione al Catalogo storico Edizioni Frassinelli, 1931-1991
Il rapporto con i librai
«Uno dei segreti di un editore di successo è un rapporto fiduciario con i librai. Ancora adesso non trascuro di curare personalmente la collocazione in libreria dei miei libri. C’è chi pensa di vendere i libri con la pubblicità […] La pubblicità me la fanno i librai: la loro opinione e il loro entusiasmo per me sono il verbo, come lo sono per i lettori. Se, poi, voglio capire che cosa non devo pubblicare, faccio un salto ai remainder, che sono le necropoli del libro.»12
L’esperienza accumulata negli anni e lo spiccato istinto imprenditoriale confermano quella che per Tiziano Barbieri è una certezza: l’esito commerciale di un libro è frutto del buon funzionamento dell’intera filiera editoriale. In questo senso l’editore va particolarmente orgoglioso del rapporto instaurato con i librai, che considera protagonisti e complici del successo delle sue proposte. Amici librai Ho conosciuto Tiziano Barbieri verso la fine degli anni Settanta. All’epoca avevo la responsabilità commerciale del settore libri della Rizzoli (direttore editoriale era Mario Spagnol), quando mi telefonò Nicola Carraro chiedendomi di incontrare Tiziano Barbieri, suo socio alla Sperling & Kupfer, per un confronto sui problemi di distribuzione dei libri. L’incontro avvenne nei giorni successivi e mi trovai di fronte a una persona cordiale, dal sorriso aperto e coinvolgente. In realtà dal colloquio emerse che non voleva assolutamente parlare di distribuzione, il desiderio era conoscere personalmente gli attori principali del mercato del libro: i librai. In quel periodo la libreria era sicuramente il canale distributivo più importante per i libri, insidiato soltanto, ma non in maniera pesante, dalle vendite per corrispondenza, e gli editori più attenti cercavano di accattivarsi le simpatie dei librai proprio per acquisire maggiori quote di mercato. Mi chiese cosa dovesse fare per capire come operavano e quale era il loro peso nel determinare il successo di un libro. Nel frattempo la distribuzione in libreria della
Sperling & Kupfer era passata alla Rizzoli e così cominciò la nostra collaborazione. Non perse occasione per conoscere i librai e per farsi conoscere, li interrogava in continuazione per capirli meglio. Sapeva che capire significa conoscere e si conoscono solo cose che colpiscono. Il suo rapporto con i librai non si limitava soltanto a recepire informazioni generali, ma voleva indagare per valutare la qualità dell’informazione, per poi inserirla in un suo classificatore personale ove evidenziava gli elementi principali di quanto aveva registrato: il territorio in cui operava il soggetto, la specializzazione del punto vendita e soprattutto la personalità dell’interlocutore. Questi erano gli elementi che utilizzava per leggere il mercato e individuare gli spazi che la concorrenza non copriva con attenzione. Forte di queste conoscenze preparava programmi editoriali e promozioni a sostegno capaci di interessare l’utenza. Non gli servivano soltanto i nudi dati numerici, aveva bisogna anche di un colloquio confidenziale con il libraio per vedere cosa poteva ricevere in più delle aride cifre che esprimono il valore del mercato. Anche da presidente dell’AIE ha operato per valorizzare il canale distributivo delle librerie, che considerava di primaria importanza nella diffusione del libro, e soffriva quando questo suo desiderio veniva frainteso o strumentalizzato. L’ultimo incontro con Tiziano Barbieri è avvenuto al Clubino: mi aveva invitato a una cena a tre, con un al-
tro dirigente editoriale. Era uno dei periodici incontri che avevamo per scambiarci informazioni e trovare la possibilità di studiare nuove strategie per dare maggior impulso all’editoria. Durante la cena mi venne di chiamarlo «Ciuffo»: l’altro ospite mi guardò stupito e chiese a Barbieri perché «Ciuffo». Tiziano rispose: «Perché così mi chiamano in famiglia e gli amici». «Ma tu come vuoi essere chiamato?» chiese l’altro ospite. Rispose sorridendo: «Da Giovanni, Ciuffo». Così ricordo un brillante editore, competente, aperto a tutti i confronti e alle innovazioni che l’editoria proponeva, capace di creare un team che si è consolidato nel tempo e che ha saputo resistere e svilupparsi in questo mercato difficile che non lascia spazi agli incompetenti e agli indecisi. Giovanni Ungarelli amministratore delegato della casa editrice Marietti 1820 Genova-Milano
Economia e business: un investimento riuscito
ÂŤE cosa dovrebbero leggere [questi piccoli e medi imprenditori italiani], testi di economia aziendale scritti da professori di universitĂ straniere (soprattutto americane) che non sanno nulla della situazione italiana e che non forniscono quindi nessun elemento di conoscenza e di analisi?Âť13
È ancora su suggestione straniera, ma con una scelta di tempo che riflette la sua capacità di anticipare i trend, che Tiziano Barbieri costruisce all’interno della casa editrice un’area destinata a ospitare testi di argomento economico. Nel 1984 crea la collana «Management», che confluirà in «E&M - Economia & Management», diretta da Giuseppe Turani: tra i titoli di maggior successo, L’avvocato, la biografia di Gianni Agnelli dello stesso Turani, il fondamentale Alla ricerca dell’eccellenza di Tom Peters, l’agile guida L’One Minute Manager di Kenneth Blanchard e Spencer Johnson. La società italiana sta mutando: si va affermando una classe di giovani manager e piccoli e medi imprenditori che vuole essere informata (e formata) ma che cerca nei libri il linguaggio e i tempi della propria vita professionale; l’economia conquista sempre più spazio su giornali e riviste. La Sperling & Kupfer si fa trovare pronta all’appuntamento. Il variegato pubblico dell’economia L’idea dei libri di economia nasce «bassa», nasce cioè con il progetto di pubblicare testi facili e pratici su come avere successo negli affari (anche i più minuti). Poi si alza subito, e vengono quindi pubblicati testi chiave di economia e di management, oggettivamente difficili e non certo destinati a un largo pubblico. Ma Tiziano ne va molto orgoglioso. Non contento, accetta il suggerimento di stampare una serie di biografie di grandi personaggi dell’economia (ancora insuperata quella di André Meyer, il grande capo di Lazard). E gli piace l’idea di pubblicare altri testi che raccontano la storia di tutti i grandi imperi del business. Insomma, non si fer-
ma mai. Il suo stile è ben descritto dal seguente episodio. Avevamo deciso di stampare Lo choc del futuro di Alvin Toffler, un libro che a quei tempi andava molto e che ci aveva intrigato parecchio. Ma l’agente del sociologo americano aveva posto una condizione: se volete questo testo, dovete impegnarvi a tradurre e pubblicare tutti i libri di Toffler (che erano una discreta quantità). Eravamo al ristorante per discutere i pro e i contro della cosa. Tiziano, a un certo punto, già un po’ stufo della discussione, buttò lì: «Ho deciso, oggi li chiamo e gli dico che stampo tutto. Anzi, stampo anche i libri che scriverà in futuro». Giuseppe Turani giornalista e saggista
L’editore anti-ideologico
«Ho preso un impegno, direi, sociale: pubblicare nella saggistica, nell’attualità, autori che avessero la possibilità di dire qui tutto quello che volevano: Bocca, Pansa, Turani, estremamente indipendenti dai poteri sia politici sia economici. Questa è la formula vincente che ci fa riconoscere sempre in prima linea senza schemi. Io faccio parlare il Vaticano, come l’estrema sinistra, con la massima libertà.»14
Se c’è una cifra che accomuna la saggistica di Sperling & Kupfer, questa va trovata nell’intento di divulgare e parlare a un pubblico il più ampio possibile, senza pregiudizi o connotazioni politiche. Già nel 1981 Barbieri sente il dovere di difendersi da chi attribuisce alla Sperling un «colore» politico facendo ironica professione di anti-ideologia: «La casa editrice che dirigo non è né di sinistra, né di destra, né di sopra, né di sotto». E in questa chiave va pensata la progressiva costruzione di un catalogo aperto alle voci più varie. Nel 1982 include nella collana «Politica» i ritratti dei protagonisti della vita politica scritti da grandi firme del giornalismo, da De Mita a Berlinguer, da Craxi a Bossi. «Informa» e, successivamente, «Saggi» accolgono negli anni voci di scienziati autorevoli e grandi personalità internazionali, da Carlo Rubbia a Renato Dulbecco, da Willy Brandt a Mikhail Gorbaciov, accanto a grandi giornalisti-saggisti come Davide Lajolo, Giampaolo Pansa, Giorgio Bocca, Gianni Minà. Un bravo allenatore Fui presentato a Tiziano Barbieri da Sergio Zavoli, uno dei miei maestri insieme con Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson. Avevo in gestazione un libro, Facce piene di pugni, che devo ancora finire di scrivere, ma al quale sono affezionatissimo perché mi ha fatto conoscere mia moglie Loredana, la mamma di Francesca e Paola. Nel corso delle mie peregrinazioni dietro il mito del grande Muhammad Alì avevo raccolto interviste con tutti i più grandi campioni ancora viventi della boxe dell’epoca leggendaria. Erano e sono pezzi di vita inimmaginabili, interessanti anche per capire un’epoca o la
società nordamericana dei primi cinquant’anni del secolo appena concluso. A Tiziano questi racconti erano piaciuti moltissimo fin dal nostro primo incontro. Rappresentavano un tipo di letteratura che lui amava profondamente. Credo (e spero di non essere presuntuoso) che gli risultò anche simpatica quell’aria arruffata e trafelata che io avevo allora e che forse non ho mai perso. Un enorme borsone sulla spalla destra, che è la causa della mia attuale artrosi, e mille curiosità da soddisfare. Gli esposi almeno cinque progetti e Tiziano, che aveva capito al volo il proprio interlocutore, mi disse sorridendo: «Sarebbe già un risultato se ne portassi a compimento uno!» Ci rivedemmo un po’ di volte, ma c’era sempre qualcosa che mi portava via dalla storia della boxe, tanto che, a un certo punto, quel progetto finì alla Mondadori, con la quale, dopo la prima intervista a Fidel Castro, pubblicata con una prefazione di Gabriel García Márquez, iniziai una collaborazione che prevedeva proprio quel lavoro sul mondo dei pugni come seconda opera. Tiziano Barbieri non mi rimproverò per questo: «Io sono sempre qui e ti aspetto», mi disse. Capii che l’uomo aveva una marcia in più, non solo per la generosità, ma perché era un vero allenatore di possibili autori. Sapeva farli riposare in panchina dalle loro presunte fatiche esistenziali e immediatamente recuperarli quando si sentivano pronti a una nuova sfida letteraria. Credo che lo abbia fatto anche con scrittori più prestigiosi di me.
Ne ebbi la prova quando nel 1990, tre anni dopo la prima, ottenni un’altra intervista storica con Fidel Castro, pochi mesi dopo il crollo del comunismo sovietico e dei Paesi satelliti. C’era stato a Cuba anche il caso Ochoa – il generale fucilato per il suo coinvolgimento con il narcotraffico nel tentativo contraddittorio e disperato di procurare al suo Paese prodotti, medicine, strutture che l’ingiusto embargo ormai trentennale negava all’isola. Di fronte alla proposta di pubblicare questa seconda intervista molti editori mi dissero che una già bastava, nonostante l’evidente attualità del nuovo materiale che avevo raccolto. Questo atteggiamento contrastava con la mia idea del giornalismo e della comunicazione, assolutamente nemica della sommarietà. Devo confessarlo: pensai male dell’editoria italiana. Ma un vecchio amico degli anni della bohème, Nicola Carraro, mi consigliò: «Perché non ritorni da Barbieri?» E fu veramente una sollecitazione giusta. Tiziano questa volta mi fece parlare poco. «Se non ascoltiamo i testimoni del tempo quando è il momento o vale la pena, perché continuiamo a fare questo mestiere?» Mi fece un contratto per il nuovo libro, con prefazione di Jorge Amado, e fu un altro accertato successo. Credo sia stato merito della laicità di Barbieri, che non accettava di essere definito di sinistra o di destra, ma voleva essere un editore senza pregiudizi. Non me ne accorsi subito, ma Tiziano in quel momento mi aveva indicato la strada per non limitarmi a inseguire utopie. Scrivere era l’unico mestiere che sapevo fare decen-
temente oltre a saper mettere insieme amici e persone per inseguire gli stessi ideali o più semplicemente gli stessi sogni, gli stessi giochi, gli stessi progetti. Fu proprio questa capacità di riunire personalità della più diversa provenienza che mi permise di realizzare il progetto di Un continente desaparecido, un saggio, che finora è stato il mio best-seller, basato sugli incontri con Gabriel García Márquez e Eduardo Galeano, Samuel Ruiz e Jorge Amado, Rigoberta Menchú e Frei Betto, e Pombo e Urbano, i compagni del Che in Bolivia: una lettura dell’America Latina per la quale Barbieri previde l’interesse del pubblico. Dopo quel libro, nacque quasi spontaneamente la possibilità di creare una collana di saggistica con quegli autori latinoamericani che da qualche anno sembravano vedere più lontano, nella cultura e nella società, di tanti intellettuali europei. Purtroppo Tiziano Barbieri non ebbe il piacere di vedere nemmeno il primo figlio di questa idea, anzi la coppia di gemelli di Eduardo Galeano con la quale iniziò la collana «Continente desaparecido». I due libri erano Splendori e miserie del gioco del calcio e Le vene aperte dell’America Latina, l’opera fondamentale, quasi il vangelo, per capire quella realtà. Uno recente e l’altro antico di trent’anni, arrivato in lingua spagnola a oltre sessantacinque edizioni. Per l’esordio e la vita della collana, che ora ha in molte librerie uno spazio riservato, sono state determinanti Valentina Balzarotti prima, Carla Tanzi e Antonella Bonamici poi, che spesso devono soffrire per inseguire le mie utopie di direttore di collana innamo-
rato di un continente. Ma non potrò mai dimenticare che ora faccio questo mestiere anche perché Tiziano Barbieri ha accettato di camminare con me per un po’ di tempo sullo stesso sentiero. Gianni Minà giornalista e scrittore, direttore della collana «Continente desaparecido»
La curiosità, il coraggio di cambiare
«Editore non si nasce, non ci si improvvisa. È necessario fare la classica, importante gavetta, ma una dote almeno occorre averla innata: la curiosità. La curiosità di conoscere quello che ci capita attorno, la curiosità di considerare idee anche lontanissime dalle nostre, di andare oltre la mera apparenza, fino al cuore dei fatti. La voglia di sperimentare nuove vie, nuove soluzioni, che di primo acchito potrebbero sembrare assolutamente assurde, o pericolose, o (peggio) fallimentari.»15 «Uno dei segreti sta nel cambiare sempre, nel cambiare tutto.»16
«Sono curioso come una scimmia», dichiarava Tiziano Barbieri in un’intervista all’inizio della sua carriera. Curiosità, capacità di tentare nuove vie, ma soprattutto (e qui prevale la sua pragmatica, solida personalità) di sapersi tirare indietro quando le cose non vanno. Così la Sperling & Kupfer esplora territori poco frequentati dall’editoria, come la zona di convergenza fra libri e grandi fenomeni televisivi: l’enorme successo, negli anni Novanta, de Il diario segreto di Laura Palmer, legato alla serie televisiva Twin Peaks, può avere un precedente negli albi di Furia portati in edicola già nel 1976. Ma sono molte le occasioni in cui Barbieri mette alla prova la sua voglia di misurarsi in avventure diverse: a metà degli anni Ottanta guida un drappello di pionieri che fonda Supernova, casa editrice specializzata in testi informatici; più tardi si avventura nella carta stampata: appoggia con grande entusiasmo il periodico Uomini & Business dell’amico Peppino Turani di cui è socio e si dedica attivamente al rilancio del quotidiano L’Indipendente, chiamando alla direzione Vittorio Feltri. La smania di inventare cose nuove A Tiziano piacevano i libri e gli piaceva fare i libri. Non faceva eccessive distinzioni (e in questo era un grande editore). Sembrava quasi che soffrisse per non essere in grado di fare tutti i generi di libri. Aveva la letteratura rosa e quella di grande lettura, aveva i libri di economia, aveva la saggistica alta e aveva anche (con Frassinelli) la letteratura alta. Aveva i libri dell’orrore e gli sarebbe piaciuto avere anche una grande collana di fantascienza. Era molto attento a quello che avveniva sul mercato inglese e americano dell’editoria ed era dif-
ficile che gli sfuggisse una novità interessante. La sua forza, rispetto a certi editori tradizionali, era la velocità di intervento. Spesso bastava citare l’ipotesi di un libro che si sarebbe potuto fare, per vedersi recapitare a casa il contratto quello stesso pomeriggio. Oppure bastava segnalargli un libro pubblicato in America che sembrava interessante per sentirsi dire, dopo poche ore, che aveva già comprato i diritti e che ne aveva avviato la traduzione. Insieme tentammo anche, con alterna fortuna, di entrare nel ramo dei periodici (con Uomini & Business), ma avevamo già in mente tutta una serie di testate. Avrebbe potuto starsene tranquillo con le collane consolidate, ma ogni giorno voleva inventare cose nuove, diverse, anche se un po’ rischiose. Giuseppe Turani giornalista e saggista
La maturità della Sperling & Kupfer
«Non credo nel ‘Grande è bello’, come non credo nel ‘Piccolo è bello’. Credo fermamente, ciecamente, nella professionalità. In questo credo. Credo nella serietà, nell’impegno, nelle dodici ore di lavoro al giorno, credo nell’esperienza. Odio con tutto me stesso il pressapochismo. […] Una cosa però non può essere copiata alla Sperling, e qui miseramente la concorrenza cade: non riescono a copiarci la fantasia. È impossibile, no?»17
È a cavallo del passaggio agli anni Novanta che la Sperling & Kupfer compie un decisivo salto di qualità. La data-simbolo è quel 1989 in cui si festeggia il novantesimo dalla fondazione della casa editrice, ma anche, curiosamente, la maggiore età della «nuova» Sperling. Se, con la pubblicazione del catalogo storico, la Sperling & Kupfer guarda al proprio passato, negli stessi anni il consolidamento e la riorganizzazione dell’azienda aprono al futuro e conducono direttamente alla Sperling dei giorni nostri. La casa editrice ha inaugurato nel 1988 la Sperling Paperback, dedicata alla pubblicazione in edizione tascabile dei propri successi, soprattutto romanzi, con il fortunato marchio Superbestseller. Ma non basta: anche se gli autori-marchio garantiscono alla Sperling una rendita di posizione, Barbieri ha ben chiaro che per rimanere competitivi sul mercato bisogna sapersi rinnovare di continuo. Va in questa direzione anche la ricerca di forze nuove nello staff, con l’ingresso di Giuseppe Baroffio come direttore commerciale, il rientro del socio e amico Nicola Carraro da Roma dopo l’esperienza come produttore cinematografico, la scelta di Mariagiulia Castagnone alla direzione editoriale, di Francesco Bogliari come responsabile dell’area Economia & Business e di Emanuele Vinassa de Regny, cui viene affidato un comparto dedicato alla divulgazione scientifica. Aria nuova alla Sperling Ma dove vuole arrivare questa Sperling? A novant’anni suonati, la terza casa editrice italiana per volume di fatturato in libreria («Ogni volta che gli altri si vendono, si comprano e poi si fondono, noi saliamo di un posto», commenta divertito l’«editore più americano»)
sta vivendo un momento di grande espansione: ha appena rimpolpato le sue fila con assunzioni fresche dal mondo dell’editoria e del giornalismo e ha dato nuovo assetto ai vertici aziendali. Nuovo Direttore Generale dal 1° gennaio è Giuseppe Baroffio, quarantasettenne varesino, con oltre vent’anni di lavoro editoriale alle spalle che lo ha portato dall’area Marketing della Mondadori alla direzione della Divisione Periodici della Fabbri. Da Roma è rientrato Nicola Carraro, nipote di Angelo Rizzoli il Grande, già proprietario di una grossa fetta della Rizzoli e Direttore Generale dei Periodici negli anni in cui Andrea Rizzoli comprò il Corriere (dal 1975 Carraro detiene una piccola quota minoritaria di Sperling & Kupfer). Dopo essersi dedicato per quindici anni al cinema, producendo grossi successi come i film di Nichetti e il serial Marco Polo, ha deciso di tornare al suo grande amore, l’editoria, e Tiziano Barbieri lo ha accolto a braccia aperte: si occuperà soprattutto dell’acquisizione di nuovi autori italiani e di ampliare la saggistica. Con libri di attualità, instant-book, lunghe interviste, pamphlet […] Barbieri macina successi su successi. «Il dovere di un editore è la divulgazione», ci tiene a specificare. «Quando poi l’editore, come nel caso della Sperling, è uno degli ultimi editori indipendenti in Italia, indipendente dai grandi gruppi economici e dai partiti politici, la divulgazione diventa un obbligo.» Su questa linea sarà impostata buona parte del programma editoriale del ’91 […].
Per dare nuova vitalità alla collana «E&M» dal 1° gennaio è stato chiamato alla direzione un illustre personaggio del mondo culturale, il senatore Massimo Riva. Dopo solo sette anni di vita, la collana sta per mandare in libreria il suo centesimo titolo e annovera tra i suoi autori premi Nobel, come Rubbia e Leontief, illustri pensatori economici, come Toffler, Attali, Turani e protagonisti dell’industria e della finanza internazionali, come Sculley, Iacocca, Benetton. Ce n’è per tutti i gusti: libri di management pratico all’americana, biografie, manuali, saggi davvero fondamentali per il loro contenuto rivoluzionario. E Frassinelli? «Con la Sperling & Kupfer faccio quadrare il bilancio, con la Frassinelli mi diverto», ammette Barbieri mostrando così le due anime del suo gruppo, quella commerciale e quella colta. Così, nel 1982, l’Acchiappabestseller rileva dall’Adelphi la piccola e prestigiosa casa editrice di Carlo Frassinelli fondata a Torino sessant’anni fa assieme a Cesare Pavese, Leone Ginzburg e Franco Antonicelli. Il gioiellino di casa Barbieri, che ha promosso inizialmente un catalogo di saggistica e narrativa straniere di ottimo livello, ha deciso di pubblicare da quest’anno anche una nutrita schiera di autori italiani. […] Oggi Frassinelli ha già in catalogo oltre duecento titoli e sotto le amorevoli cure di Mariagiulia Castagnone, direttore editoriale anche di Sperling & Kupfer con gli editor Valentina Balzarotti per le opere italiane e Ilde Buratti per la narrativa e saggistica straniere, annuncia molte prestigiose novità nell’ambito della nar-
rativa internazionale […] e per la fine del ’91 è in programma la riedizione di gran parte delle opere di Stefan Zweig, uno dei più felici protagonisti della stagione mitteleuropea, già pubblicato da Sperling & Kupfer negli anni Trenta. Nel 1988, poi, la nascita di una nuova casa editrice di tascabili, la Sperling Paperback, che in soli due anni ha raggiunto i 14 miliardi di fatturato, un exploit sbalorditivo per il mondo italiano dei libri, che comincia a dare un po’ fastidio agli Oscar Mondadori. Già, Mondadori. Ma come vivono i manager di Segrate i successi Sperling, visto che Mondadori ha il 43% del capitale Sperling? Ci sono contrasti, invidie, interferenze? «Per carità!» risponde Barbieri. «Per ora è un matrimonio perfetto che ha già superato il proverbiale settimo anno, l’anno di crisi delle coppie sposate. D’altra parte la formula è quella giusta: noi produciamo, loro distribuiscono; noi facciamo utili, loro per il 43% li ritirano. L’indipendenza però dev’essere totale, assoluta, e così è sempre stato, non solo perché la loro partecipazione è di minoranza, ma perché Mondadori è sempre stato un socio estremamente corretto. Del resto, fatte le dovute proporzioni, la Repubblica è cresciuta ed è quella che è oggi proprio perché Scalfari l’ha gestita in totale libertà pur avendo Mondadori al 50%. Così i miei rapporti personali con gli azionisti di Segrate sono ottimi, l’identità di vedute con Carlo Caracciolo e Corrado Passera, e prima ancora con Mario Formenton, suo figlio Luca e Leonardo Mon-
dadori, è molto stimolante, nel senso che ci porta a definire e a creare entusiasmanti progetti editoriali, anche di grossa portata, che forse un giorno realizzeremo assieme. Comunicato stampa Sperling & Kupfer del 18 gennaio 1991
AIE: sogni di cambiamento
«Sogno che l’AIE conti sempre di più, che diventi sempre più importante, che non debba andare a rimorchio di altre associazioni ma ne sia alleata, alla pari; io sogno che l’AIE contribuisca a far superare al nostro Paese la crisi di cultura che sta attraversando. Deve cambiare il modo di pensare la cultura… Sogno che la Festa del Libro diventi una festa di tutti gli editori con tutti i lettori. Datemi un’équipe per fare tutto ciò e datemi tempo… Fra i tanti sogni che vi ho raccontato, stanotte ne ho fatto uno vero: ho sognato di farcela.»18
Nel 1993 Tiziano Barbieri viene eletto alla presidenza dell’Associazione Italiana Editori, dopo esserne stato, nel biennio 1991-1992, vicepresidente per il settore Editoriale generale. Con un programma ambizioso e innovativo (che ripropone, fra l’altro, la modifica dello statuto) Barbieri vuole dare segnali forti di cambiamento e restituire all’AIE un ruolo da protagonista. Saranno anni di intenso lavoro, di grandi sfide, nonché di accesi scontri fra gli editori, e Barbieri finirà per rassegnare le dimissioni, proprio pochi mesi prima della morte. Tra i progetti che più gli stanno a cuore spicca un’iniziativa importante: la Festa del Libro. Barbieri ci si appassiona dopo aver preso parte, su invito dell’amica e agente Carmen Balcells a un’edizione di El Día del Libro, tradizionale appuntamento spagnolo, commissiona in AIE uno studio ad hoc, ma nel 1993 non fa in tempo a realizzarla. La Festa del Libro si ripete nel 1994, tra l’entusiasmo di alcuni e le polemiche di altri. Il segno di un presidente Vulcanico. Definirei così Tiziano Barbieri nella sua presidenza dell’Associazione Italiana Editori. La ricordo come un vero e proprio «pezzo di storia» dell’AIE, breve ma intensa, tanto da «rivoluzionare» l’impostazione dell’Associazione, che tuttora porta in sé i segni innovativi di quel lavoro. Non a caso parliamo, proprio oggi, di Stati generali dell’editoria, di Festa del Libro, di un’Associazione che vuole essere e proporsi come forte e unita. Dal suo insediamento, alla fine di marzo del 1993, Barbieri ha impresso un orgoglio nuovo nella catego-
ria, credendo e amando questa professione, con la certezza che il futuro non poteva che passare per un’Associazione solida, unita e sempre presente. È stato Barbieri a volere il Convegno degli editori a Rapallo, un momento unitario, che a prescindere dai segmenti, dai particolarismi, rimettesse in gioco l’editoria nel suo complesso e l’immagine dell’editore. È la dignità forte, l’elemento che più di ogni altro lo caratterizzava. Sono nate così, con queste premesse, la Festa del Libro e il progetto, purtroppo rimasto incompiuto per la sua prematura scomparsa, della creazione della filiera del libro (insieme con Assografici e Assocarta). La Festa del Libro, nel 1994, è stata la grande occasione italiana di una giornata per avvicinare editori e lettori e per far scoprire, a chi non lo conosceva, cosa significasse il «piacere di leggere». C’è riuscito. E con quella determinazione che l’ha sempre guidato ne ha fatto un grande evento, anche mediatico. Sono flash, emozioni e ricordi della memoria e del cuore. Ma nel suo insediamento Barbieri – lo riporto a memoria – diceva anche che «era necessario un radicale ripensamento di ciò che finora l’Associazione aveva voluto dire». A distanza di dieci anni, il segno della novità e della modernità Barbieri lo ha portato davvero. Ivan Cecchini direttore dell’AIE
Note 1. Raffaele Crovi, intervista a Tiziano Barbieri su Il Giorno del 24 settembre 1983, poi raccolta nel volume L’immaginazione editoriale. Personaggi e progetti dell’editoria italiana del secondo Novecento, Nino Aragno editore, Torino 2001, pp. 135-141. 2. Oreste del Buono, «Curioso, vende libri con successo», L’Europeo, 30 aprile 1983, pp. 109-118. 3. Oreste del Buono, «Curioso, vende libri con successo», cit. 4. Raffaele Crovi, intervista a Tiziano Barbieri, cit. 5. Oreste del Buono, «Curioso, vende libri con successo», cit. 6. Maurizio Gianattasio, «Una sera, la Volpe», Gran Milan, anno VII, maggio 1992, pp. 36-38. 7. Pino Corrias, «Sperling & Kupfer: acchiappabestseller», La Stampa, Tuttolibri, 20 gennaio 1990, p. 11. 8. Tiziano Barbieri, intervento al convegno «Tempo e libro. Il futuro della lettura», organizzato dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 22 e 23 marzo 1991. 9. Roberto Di Caro, «Mister bestseller», L’Espresso, anno XXXIV, n. 7, 21 febbraio 1988, pp. 93-95. 10. Oreste del Buono, «Curioso, vende libri con successo», cit. 11. Filippo Abbiati, «Così pesco sempre la carta vincente», Il Giorno, 3 aprile 1988. 12. Raffaele Crovi, intervista a Tiziano Barbieri, cit. 13. «Libro e fabbrichetta», Srl, supplemento di Italia Oggi, luglio 1992, p. 27. 14. Nunzia Monanni Scerbanenco, «Certi libri, pieni di politica e di storia, si fanno solo a Milano», Uomini & Business, anno VI, n. 7-8, luglio 1994, pp. 126-127. 15. Tiziano Barbieri, lezione sull’editoria tenuta presso l’Università Cattolica il 16 aprile 1993. 16. Filippo Abbiati, «Così pesco...», cit. 17. Roberto Pfeiffer (a cura di), «L’intervista: Tiziano M. Barbieri», Printers & Publishers, anno XI, n. 8, agosto/settembre 1990, pp. 16-19. 18. Discorso tenuto da Tiziano Barbieri dopo la nomina a presidente dell’AIE, Milano, 29 marzo 1993.
I libri, la passione di una vita Scritti e interviste di Tiziano M. Barbieri
Amici Azionisti Si tratta di una relazione letta agli azionisti Sperling il 12 ottobre 1971, estremamente preziosa per ricostruire i primi tempi della «nuova» Sperling. I soci iniziali sono dieci, cinque operativi all’interno della casa editrice e cinque solo finanziatori. I mezzi finanziari a disposizione sono pochi, ma l’idea di Tiziano Barbieri è interessante e l’editoria è un business affascinante: presto tutti vogliono partecipare alla gestione, il che crea problemi organizzativi e frizioni. Barbieri si trova così a gestire una fase turbolenta: sono anni caotici e difficili, in cui i dieci soci paiono in disaccordo su tutto, compresa l’idea stessa di editoria alla base dell’attività imprenditoriale. Di fronte al rischio di compromettere il suo progetto Barbieri è costretto a intervenire con decisione, e lo fa con questa relazione. Oltre a illuminare una fase poco nota della storia della casa editrice, gli appunti di Tiziano Barbieri offrono un’interessante testimonianza del temperamento e della personalità dell’editore. Amici Azionisti, ritengo utile esporre le mie idee sulla nostra società, come padrone di una parte di essa, come Presidente del Consiglio d’Amministrazione, come responsabile della costituzione di essa o più semplicemente come Ciuffo. Sono solito prendere nota degli avvenimenti che vivo: questi miei appunti mi permettono oggi di ricostruire con esattezza le fasi attraverso le quali siamo cresciuti. Sono certo che analizzare le decisioni prese, rivivere i mesi trascorsi aiuti a fare il punto sulla situazione
odierna e permetta di giungere a considerazioni logiche, non passionali. Devo fare innanzitutto un po’ di storia. Come si sono messi insieme dieci soci e perché? Nell’agosto 1969 mi giungeva in Sardegna una lettera di Romano: mi scriveva dal suo ufficio della Hill & Knowlton International chiedendomi dei dati su una mia proposta da sottoporre alla Procter & Gamble, allora cliente della Hill che ne curava le Pubbliche Relazioni: la proposta riguardava un’Agenda della Donna che la casa editrice Longanesi avrebbe potuto pubblicare. Devo ricordare che attraverso la Hill […] avevo già concluso con successo la pubblicazione del primo libro che ho scritto, edito in collaborazione con la Marathon Petroli […]; che del secondo libro che ho scritto avevo venduto pagine di pubblicità per un valore di 6 milioni di lire; che la Simmenthal aveva acquistato da me 2.000 copie di un libro sulla pallacanestro; che, attraverso miei contatti, Mobiloil regalava libri a chi faceva il pieno di benzina. I successi ottenuti in questo tipo di editoria nuova, da me ideata, e l’esperienza che lui stava facendo in una delle più importanti Agenzie di PR del mondo […] combaciavano. Gli telefonavo perciò immediatamente a Milano e lo mettevo al corrente dei miei progetti: c’erano le premesse per iniziare qualcosa insieme. A Milano incontro Eugene: è appena tornato dall’America con un libro assolutamente nuovo; decidiamo di stamparlo a nostre spese […]. Faccio i primi conti: Romano mi porta le aziende, Eugene idee e progetti stranieri, io metto insieme.
Siamo in settembre. Metto al corrente altri due amici: il primo dice di essere pronto e aspetta un mio fischio. L’ufficio dove lavora il secondo sta giusto chiudendo: lui ci sta. Mi trovo con un uomo di Pubbliche Relazioni, un giornalista americano, un giornalista e fotografo che si occupa di automobilismo, un pubblicitario, io con esperienza editoriale: gli ingranaggi per il nuovo tipo di editoria che voglio fare sono perfetti, perché questa editoria richiede PR, giornalismo, pubblicità e, ovviamente, editoria. Mancano i capitali. Il 27 ottobre, in un palco della Scala, mi offrono la Sperling & Kupfer per una cifra tra i 50 e gli 80 milioni. L’indomani sono alla Sperling: li porto sui 35. Mi sembra poco per il nome intatto che ha, molto per quello che è. […] Trovo altri cinque soci. Cinque soci esterni più cinque soci che lavorano, sull’attività dei quali è basata la speranza di tutti. […] Dieci soci. E perché dieci? Dieci perché ci occorrono 50 milioni, ma ne vogliamo rischiare solo 5 a testa. E perché 50, quando da calcoli fatti ne occorrono 80? Perché 8 sono troppi. Ci crediamo a 5 ma non a 8; quando arriveremo a perderne 5, fuga generale. Il 23 dicembre viene firmato l’accordo su una base estremamente vantaggiosa per noi (da 35 a 10 milioni più vitalizio), dopo che due soli soci erano più convinti di acquistare una vecchia sigla piuttosto che costituire una nuova casa editrice per pubblicare un libro di Enzo Ferrari. In marzo facciamo il primo lavoro, a casa mia. In aprile ha inizio l’attività nella mansarda di Sant’Orsola 3. […] Faccio 5 giorni di vacanza, lavorando. Il 13 lu-
glio, prima riunione con quasi tutti i soci in mansarda: inizio ore 21; verso le 24 ci si gioca a bim-bum-bam il posto nel Consiglio d’Amministrazione ufficiale. […] Si fanno i primi libri, che tutti conoscete. In ottobre comincio a sbraitare per avere un grosso venditore; faccio dei calcoli a lungo termine, quinquennali. Apriti cielo! Sei impazzito? Guardiamo a non più di un anno. Insisto. Vengo messo in minoranza, compresi i soci interni. Aspettiamo i risultati delle vendite di Natale. Bisognerà aspettare fino a febbraio, per averli giusti. Non importa […] 27 gennaio 1971: primi risultati ufficiosi del 1970: plauso generale. Ringrazio, ma avverto che il ’71 sarà l’anno decisivo e che ho bisogno dell’aiuto di tutti. 27 aprile: vengono presentati i libri Yoga e Il mio sistema e il bilancio preventivo: ilarità per i libri (Guardate che si stanno vendendo bene…), terrore per il bilancio (Guardate che per diventare più grandi bisogna investire…) […] Convoco la riunione il 13 maggio: faccio leggere la mia relazione perché ho la febbre a 38. Finita la relazione, inizia quella degli altri soci, che è identica, nella sostanza, alla mia. Viene in più chiesto un Comitato Esecutivo dove il socio interno non conta. […] La storiella ha fine qui. Dalle parole, dai progetti, dai sogni, alla realtà societaria, alle cifre, ai numeri, alle paure, alle gioie, alle incomprensioni, agli egoismi, ai menefreghismi, alle nottate senza senso, ai Consigli di amministrazione che non sono Consigli ma sono Assemblee, che però non sono neanche Assemblee ma
Comitati Esecutivi, ai soci che non sono più dieci ma sono nove che però diventano dieci, alla costituzione del Consiglio di Amministrazione stabilito a suon di bim-bum-bam, alle manovre di corridoio… Al termine dell’infuocata riunione in cui legge queste note, Tiziano Barbieri si dimette, e così l’intero Consiglio di Amministrazione. Due settimane dopo, il 26 ottobre, tenterà, invano, di far votare una mozione in cui sintetizza con chiarezza l’indirizzo della nuova Sperling: «Fare dell’editoria non tradizionale. Cioè fare libri e venderli non solo in modo tradizionale: libri con pagine di pubblicità, o prevenduti ad aziende, o con formule di coedizione. Per fare questo bisogna però avere un’immagine di editori tradizionali, quindi fare anche libri tradizionali, per i quali tuttavia non si arrischia una tiratura, ma la si decide con una indagine di mercato». Soltanto nel giugno dell’anno successivo riuscirà a riprendere il controllo della società e a farsi nominare Amministratore unico; troverà poi altri soci per portare avanti il suo progetto.
L’editor? È un oscuro oggetto del desiderio Impudenza. Sono sempre stato convinto che un editore tutto deve fare tranne parlare. Voglio dire, il mestiere dell’editore è di ascoltare, leggere, curiosare, intuire, provocare, suggerire, rendersi interprete di, ma mai parlare o scrivere. Ai convegni organizzati dagli editori, dove gli editori tengono dotte conferenze, si può morire di noia. Ma perché? Perché un vero editore fa parlare gli altri. Lasciamo perdere gli editori che scrivono: la noia si tramuta in vera sofferenza fisica. Fa male. Questo io credo e continuerò a credere. Non è questione di ruoli. È fede. Quindi io non parlerò, né tanto meno scriverò. Ci sono gli scrittori, per questo. E i giornalisti… E i critici… E i politici… Gli insegnanti… I magistrati… I manager… I sindacati… Gli attori… I medici… Ma perché non devo scrivere, io? Publishing e editing. Ogni mese, i diciassette lettori (tanti sono i miei familiari e gli amici più cari) di questa mia rubrica leggeranno piccoli e grandi segreti del mondo dell’editoria libraria internazionale, del publishing appunto. Una precisazione subito: mai dire editing e editor quando si parla di editoria e di editore. I termini anglosassoni esatti sono publishing e publisher. Editing è invece l’arte (sì, l’arte) di rendere un’opera vincente. Editor è l’artista (sì, l’artista) che, con estrema sensibilità, letteraria, critica e commerciale, direi, lavora sulle
parole che lo scrittore via via ha creato. L’editor fa cioè, pressappoco, questi discorsi: «Caro Autore, scrivi come un dio, ma perché quel lungo dialogo alla fine del terzo capitolo non lo inserisci all’inizio del quinto?» Oppure: «Questa descrizione è troppo secca: spiegati meglio». Oppure: «Quel personaggio assomiglia troppo a quest’altro. O lo togli di mezzo o devi frugargli addosso». E così via. Diciamo subito che in Italia di veri editor, nel vero significato anglosassone, non c’è quasi traccia. Non è colpa degli editor, da noi non c’è scuola. Eppure tutti i miei diciassette lettori avranno intuito chiaramente che la figura dell’editor è la più importante nel gioco del publishing librario: da lui dipende il successo o meno di un libro, da lui dipende se un grande scrittore rimane fedele a una Casa Editrice o la lascia per la concorrenza (dove lavora un editor più bravo), da lui discendono idee e contatti a ripetizione. E infatti nel mondo anglosassone l’editor è coccolato, vezzeggiato e strapagato. Non avendo fra i miei diciassette lettori nessuno scrittore italiano, razza che so molto suscettibile, si può tranquillamente asserire che per una Casa Editrice americana o inglese o tedesca (quindi per il top dell’editoria mondiale) un buon editor vale più di un prolifico scrittore di successo, per la semplicissima ragione che un buon editor può lavorare in un anno con tre o quattro prolifici scrittori di successo, contribuendo a «costruire» più libri vincenti. Tutto ciò è talmente ovvio da sembrare ridicolo. E invece da noi stiamo assistendo, proprio in questi giorni, alla insensata bagarre politico-social-culturale-econo-
mica attorno alla povera Einaudi (povera di mezzi, non di pretese) con una girandola di miliardi da far tremare i polsi. Va bene il catalogo, va bene gli scrittori viventi, va bene la parentela, va bene i sindacati, va bene i direttori editoriali, va bene il marchio rossotto, altissimo e biancamano, va bene Torino, ma perché tutti quegli editori attorcigliatisi in cordate, di cui non si riconosce più né capo né coda, non si slegano e più saggiamente non investono un minor numero di miliardi in scrittori, in «nuovi» editor, con nuove idee? Ne guadagnerebbe tutta l’editoria libraria italiana: più concorrenza, più mercato. Per non parlare di più produttivi investimenti in strutture distributive, in punti di vendita, in razionalizzazione del lavoro. Già, ma l’Einaudi? Be’, addio. E allora? Dopo lo spettacolo tutto romano cui abbiamo assistito, non è già come se? L’Eco lontano. Ritorno da un interessante convegno internazionale di editori in Israele. Si discute soprattutto di migliorare i rapporti e le comunicazioni fra case editrici in più Paesi, ma inevitabilmente si parla dei fenomeni editoriali, di Umberto Eco, per esempio. Pensate, un piccolo editore americano acquista i diritti di traduzione de Il nome della rosa per poche migliaia di dollari, tira cinquemila copie e all’improvviso il libro esplode, letteralmente esplode. In pochi mesi, migliaia e migliaia di copie. È l’aspetto più esaltante del nostro mestiere. Perché un libro, contro ogni ragionevole aspettativa, si vende da un giorno all’altro, senza pubblicità, come e più di una bibita famosa che viene im-
posta sul mercato con budget pubblicitari immensi? Perché è straordinariamente bello? Una delle ragioni, forse la più ovvia, mi viene spiegata al convegno da un grande editore americano che ha assistito di persona al fatto. Columbia University, aula di letteratura contemporanea. Il professore a uno studente: «Did you read The Name of the Rose?» «Yes, sir. But not personally.» Com’è vero, com’è vero… Da Epoca, n. 1895, 30 gennaio 1987. È il primo di tre articoli comparsi sul settimanale nella rubrica «Affari editoriali», tenuta da Tiziano Barbieri nei primi mesi del 1987.
Scrivi un libro? Ecco un miliardo Se lo si pesa in dollari (cosa assolutamente normale negli Stati Uniti), è certamente il più grande agente letterario del mondo, perché con meno di dieci scrittori guadagna più di un milione di dollari all’anno (1 miliardo e 300 milioni di lire). Si chiama Morton Janklow, Mort per gli amici. E di amici ne ha tanti, in tutti i Paesi e tutti importanti. Avvocato, ebreo, di New York, cinquant’anni, brillante conversatore, sposato bene, con due figli, ha come clienti alcuni degli scrittori di oggi più venduti al mondo, come Judith Krantz, Sidney Sheldon, Danielle Steel, Erica Jong, Barbara Taylor Bradford, Jackie Collins. Detiene il record dei tre più alti anticipi mai pagati nella storia dell’editoria economica (o dei tascabili, che dir si voglia) mondiale: 3 milioni e 200.000 dollari (4 miliardi e 200 milioni di lire) per Princess Daisy della Krantz, 2 milioni e 500.000 dollari (3 miliardi e 250 milioni di lire) per Love Signs di Linda Goodman e 1 milione 400.000 dollari (1 miliardo e 800 milioni di lire) per l’opera prima di William Safire. Sono anticipi da capogiro, inimmaginabili solo qualche anno fa. Prima dell’avvento di Janklow sulla scena editoriale, attorno al 1980, infatti, le somme che gli editori americani versavano agli autori erano, diciamo, nella norma. Janklow intuì prima degli altri la radicale trasformazione del business librario statunitense, sempre più orientato a un maggior profitto nel momento in cui le grandi corporation acquistavano
per somme enormi quasi tutte le case editrici a capitale privato, e si regolò di conseguenza, imponendo le opere dei suoi clienti a prezzi iperbolici. Lo sconquasso, l’effetto Mort, appunto, arrivò fino in Europa e quindi da noi. Ma, grazie a Dio, Janklow è stato così intelligente da capire che l’Italia non è l’America (almeno per quanto riguarda l’editoria libraria) e alcuni editori italiani sono riusciti a chiudere con lui dei contratti alti ma non irragionevoli. Qual è l’ultimo libro a cui Mort Janklow sta lavorando in questi giorni? Inutile chiederlo, è un ennesimo best-seller da altri milioni di dollari: l’autobiografia di Nancy Reagan. Sembra che gli italiani siano diventati improvvisamente forti lettori. Lettori di quotidiani, di periodici, ma soprattutto lettori di libri. Inchieste, convegni, articoloni, dispacci d’agenzia mettono in risalto questo straordinario, nuovo, insperato scenario: finalmente nel 1986 è aumentata la lettura, i librai hanno venduto come non mai, gli editori gongolano, insomma l’Italia s’è desta, anzi è rimasta desta a leggere. Dell’umore degli autori, però, nessuno parla mai. Gongolano o non gongolano? A seguito del gongolar degli editori, dovrebbero gongolare di più in quanto a diritti d’autore. E invece no, perché in fondo è cambiato ben poco nelle reali vendite dei libri e l’autore, primo e ultimo anello della catena economica editoriale, ne è il miglior giudice. È il primo, infatti, a ricevere un anticipo per l’opera che vorrà scrivere ed è l’ultimo a incassare i diritti d’autore: sul rendiconto può cioè controllare quante copie
del suo libro siano state effettivamente stampate e quante vendute. E i grandi autori non hanno notato concreti aumenti nelle vendite delle loro opere. Allora dove sono i forti lettori di oggi? Che cosa è cambiato? Soltanto il clima. Sì, finalmente, dopo anni di estenuanti battaglie uno sparuto gruppo di editori (quando dico sparuto dico tre) e un distributore sono riusciti a far capire, prima di tutto ai colleghi e agli operatori del settore, e poi ai mass media, che era assolutamente folle continuare a piangere ogni anno sulla crisi del libro, quando in realtà, almeno negli ultimi trent’anni, i bilanci della stragrande maggioranza delle case editrici, e soprattutto i rendiconti dei diritti d’autore (vedi sopra) dimostravano il lento (certo, lento) ma inesorabile aumento delle vendite di libri in Italia. Il ritornello era diventato insopportabile, cretino, direi. «Come va, editore?» era la domanda. «Eh, male, caro mio, c’è la crisi, la crisi del libro: gli italiani non leggono, siamo agli ultimi posti in Europa, pensi un po’!» E la parola crisi, che come virus è più micidiale dell’AIDS, ha per anni e anni contaminato la nostra editoria libraria. È servita, devo ammetterlo, a un’importante categoria del settore, la scolastica, per strappare a Roma esigui aumenti sui prezzi di copertina, che sono bloccati, ma anche Roma, nonostante tutto, sta lentamente (certo, lentamente) ma inesorabilmente crescendo in responsabilità e giudizio. Ma ve lo immaginate voi, diceva furibondo lo sparuto gruppo di editori, se i produttori di whisky o di acqua minerale avessero continuato per anni a proclamare: «Eh, c’è la crisi, la gente non beve,
proprio non beve, in Scozia sì che vendono milioni di bottiglie, ma qui da noi…»? Bene, qualche passo in avanti è stato fatto. Ora si sta esagerando in senso opposto, come sempre succede, ma se non altro di crisi del libro non si parla più. C’è ancora moltissimo da fare (tutto da fare, direi): per esempio, non ci sono strumenti validi di rilevazione, le statistiche sono vecchie e confuse, ci sono ancora troppi «furbini» vecchio stampo nel settore; le classifiche dei libri più venduti, poi, fanno addirittura ridere. Ma questo è un altro discorso: ne scriverò una prossima volta e i miei diciassette lettori scopriranno i veri scheletri nell’armadio dell’editoria italiana. Da Epoca, n. 1899, 26 febbraio 1987.
Un giornalista come direttore? Per carità «È un giorno tragico per il giornalismo americano.» «Un vero coup d’état.» «Sono state violate le più profonde tradizioni della rivista.» Questi alcuni dei commenti alla folgorante notizia che il proprietario del New Yorker, una delle testate più amate nel mondo culturale, ha deciso di sostituire il vecchio e famoso direttore William Shawn con Robert Gottlieb, presidente di Knopf, una delle più note case editrici americane. Per capire lo choc che ha colpito New York nei giorni scorsi, è come se da noi Giulio Einaudi diventasse direttore di Panorama. Shawn, oltretutto, era al New Yorker da cinquant’anni e da trentacinque ne era direttore, un direttore-leggenda: si dice che non solo approvasse personalmente ogni racconto che ogni settimana veniva pubblicato, ma che leggesse e correggesse ogni rigo di ogni racconto di ogni settimana. Gottlieb, invece, non è nemmeno giornalista. Apriti cielo, la categoria entra in agitazione, i critici criticano, gli scrittori scrivono. Cerchiamo di capire di più. Cominciamo intanto a metterci nei panni del proprietario del New Yorker: si chiama Samuel Newhouse Jr., possiede una ventina di quotidiani e riviste, fra le quali Vogue, Vanity Fair e House & Garden (come dire le più vendute in America), e quattro enormi case editrici. Due anni fa compera il New Yorker per la bella somma di 142 milioni di dollari: ora, un editore che investe circa 190 miliardi di lire al
cambio attuale (190 miliardi!), mi sembra ovvio che debba anche preoccuparsi di far quadrare i conti... Controlla le vendite e si accorge che sono in lento ma inesorabile calo, osserva la pubblicità e vede che cade del 12 per cento da un anno con l’altro, contro una tendenza al rialzo del 2 per cento su tutta la stampa nazionale. Se il settimanale non rende, chi lo dirige deve andarsene, no? Poi studia il prodotto che ha fra le mani: è una rivista tutta da leggere, non da guardare, fatta di racconti e inchieste di grandi e già affermati scrittori, ma anche di nuovi autori. Decide in poche ore: ci vuole un editor di libri, non un giornalista. Ecco la novità, rompendo tutti gli schemi, contro la prassi trionfante. E convince uno dei migliori editor del mondo editoriale librario, e in più presidente di una casa editrice, ad assumere la direzione del glorioso New Yorker. Secondo me, è una mossa vincente, nuova, di molta fantasia e sono certo che Bob Gottlieb farà bene: perché è stato editor dei maggiori scrittori di successo degli ultimi anni (come John Le Carré, per citarne uno), perché ha una visione imprenditoriale, perché ha per anni «fabbricato» libri con molto gusto e grande competenza. Che cosa vuol dire tutto ciò per l’Italia? Che anche da noi gli editor di libri farebbero meglio di molti direttori di periodici? No, non dico questo. Che, non so, Romiti farebbe meglio di molti presidenti del Consiglio? No, non dico questo. Però… Piccolo è bello, ammiccano i grandi, cercando di comperare i piccoli. Grande è bello, proclamano i piccoli,
tentando di mettersi insieme. Ma allora, piccolo o grande? Il problema è mal posto, secondo me. A parte il fatto che sentiremo sempre i grandi affermare che piccolo è meglio perché i grandi non conoscono a fondo i problemi dei piccoli, e i piccoli affermare che grande è meglio perché i piccoli in effetti non vivono i problemi dei grandi, a me sembra che una casa editrice di libri (o una libreria, anche) debba misurarsi sempre e soltanto con il mercato, salvaguardando la propria identità. La domanda che gli addetti ai lavori editoriali dovrebbero porsi è semmai: indipendente o dipendente? Be’, qui non ho dubbi. Indipendente non è bello. È magnifico. E anche difficile, certamente, molto più difficile che dipendere da un grande gruppo. Ma pubblicare libri (acquistarli e venderli per una libreria) di chi e su ciò che si vuole, senza condizionamenti di nessuna natura, seguendo solamente le proprie inclinazioni e convinzioni, è vera gioia. Parola di indipendente. E ne è la prova Farrar, Straus & Giroux, uno dei più raffinati editori di New York, la capitale dell’editoria mondiale libraria. Farrar, indipendente dal 1945, anno della sua fondazione, ha un catalogo invidiabile, con 14 premi Nobel, per esempio, e scrittori come Solzˇ enicyn, Philip Roth, Malamud, Vargas Llosa, Singer. È amato dai suoi autori e rispettato dai suoi concorrenti. Tutti i grandi gruppi, in un’epoca di grandi corporation e di grandi libri, hanno ovviamente fatto offerte anche allettanti per rilevare la casa editrice, ma Roger Straus, il presidente, rifiuta sempre, con un sorriso. Resiste, indipendente, e per sopravvi-
vere, oltre ai premi Nobel, pubblica una collana di libri di cucina e qualche biografia di personaggi non propriamente letterari: è il prezzo, minimo, da pagare all’indipendenza. Da Epoca, n. 1904, 02 aprile 1987.
L’editoria alle soglie del Duemila Gli editori conoscono il loro pubblico? Quando ho ricevuto da Luca Formenton l’invito a questa Tavola Rotonda, ho accettato di cuore, sentendomi anche un po’ flatté, lo riconosco. Non potevo dire di no a Luca, un vecchio amico e soprattutto il figlio di un uomo molto speciale, a cui io devo molto; e poi la Fondazione vuol anche dire Mimma Mondadori, una indimenticabile, carissima e dolcissima amica. Non pensavo però, accettando, di dover parlare di fronte a una platea così numerosa, così partecipe. Perché, vedete, un editore dovrebbe fare tutto, tranne che parlare. Il suo mestiere è esattamente il contrario: consiste infatti nel far parlare gli altri, fungere da tramite fra chi scrive e il lettore. Mi perdonerete, quindi, se le mie parole saranno poco logiche, poco chiarificatrici, se saranno puri atti di fede, l’espressione di stati d’animo ed emozioni: il mio discorso non sarà nient’affatto divulgativo, nient’affatto esplicativo. L’animale editore è animale atipico, non perché si voglia rinchiudere in una casta, in un’élite, in una tribù eletta (oddio, un po’ di civetteria c’è nel proclamarsi «editore»; se poi ci si definisce editore di cultura, si diventa uno splendido pavone), ma perché, interrogato, non riesce mai a spiegare bene ciò che fa e come lo fa, soprattutto. Questa la mia premessa. Ora debbo aggiungere una precisazione: i dati riguardanti il mercato italiano del
libro. Siamo piccola cosa, in Italia: è vero, cresciamo ogni anno, cresciamo inesorabilmente, ma con una lentezza esasperante (e ormai sono trent’anni che lavoro nell’editoria libraria). Oggi siamo a 3.370 miliardi di fatturato a prezzo di copertina. […] Insomma, tutto il mercato, tutto intero, registra un fatturato uguale a quello della Fiat in due settimane, credo, e non a prezzo di copertina. E se poi prendiamo l’area che oggi ci interessa maggiormente, la Varia in Libreria – quella delle tanto decantate Classifiche dei Libri più venduti, per intenderci – si parla di appena 760 miliardi (la Random House, in America, un’unica, una sola casa editrice, ne fattura 1.200). So di rendermi antipatico con queste affermazioni spiacevoli: sto rompendo un giocattolo, smitizzo, sminuisco, ma questa è la realtà con la quale dobbiamo confrontarci. E quando allora ci viene posta la domanda: «Ma voi conoscete i vostri lettori? Chi sono? Quanti sono? E le loro caratteristiche socio-psico-culturali quali sono?» noi ci facciamo piccini piccini, colpevoli di gestire senza criterio, proprio senza un briciolo di criterio. Perché la nostra risposta è: noi non sappiamo niente. È un mercato così esiguo, e quindi così povero, che non ci permette di analizzare a fondo – con le moderne ricerche di mercato e le più attuali tecniche di marketing, tutte troppo costose – la realtà che sta all’esterno della casa editrice di libri. Una realtà che diventa ogni giorno più complessa, dove ognuno dispone di più denaro e più tempo per scegliere. Esiste nella mia casa editrice una specie di prassi
consolidata: quando un editor difende a spada tratta la pubblicazione di un libro che lo ha colpito particolarmente e pronuncia la fatidica frase: «Io questo lo comprerei subito», ahi, ahi, ahi, allora quel volume può rivelarsi un clamoroso fiasco: viene quindi soppesato, radiografato, analizzato minuziosamente e prima della pubblicazione passa almeno altri dieci esami. Perché il primo comandamento, nel nostro campo, un campo che come abbiamo visto è privo di risorse finanziarie per approfondite, costose indagini di mercato, è di non pubblicare mai soltanto ciò che piace. Essere editori di successo, oggi, vuol dire saper coniugare, saper far coesistere due precise esigenze: pubblicare ciò che piace e pubblicare ciò che il mercato chiede. Ma come si fa a interpretare le esigenze del mercato, se non sappiamo, tecnicamente, ciò che il mercato chiede? E qui torno alla premessa. Non lo so, non so spiegarvelo. Prima ho parlato di editore come animale atipico: forse è solo l’istinto che ci salva e che ci guida. Ed ecco perché un editore deve tacere e far parlare gli autori. Eppure il libro è lì, oggetto immutabile e insostituibile, in un tempo, come il nostro, di profondi mutamenti nelle tecnologie di comunicazione. Una spiegazione del suo persistere nonostante tutto forse c’è: con quale altro mezzo o prodotto, in un’epoca come la nostra, in cui possiamo acquistare tutto, e abbiamo tutto, con quale altro mezzo, come dice Ferrarotti, sì può assaporare la solitudine creativa? Nessuno. […]
Voglio rispondere subito a Roberto Calasso, il quale si meraviglia del fatto che in editoria bisogna pubblicare quanto il mercato chiede, «come afferma Barbieri». Evidentemente non mi sono spiegato bene, ma poiché ho qui le mie note e scripta manent rileggo il passo. Io ho detto: «Essere editori di successo, oggi, vuol dire saper coniugare, saper far coesistere due precise esigenze: pubblicare ciò che piace e pubblicare ciò che il mercato chiede». Non ho indicato le percentuali che avrebbero potuto essere 50% e 50% oppure 60% e 40%. E non ho aggiunto, per eleganza, esempi negativi a noi vicinissimi di chi ha pubblicato soltanto ciò che piace. È ora di finirla di considerare l’editore come un mitico e asettico rappresentante culturale, il sommo editore di cultura. L’editore, oggi, è un imprenditore, un imprenditore come tutti gli altri, e come tale ha degli obblighi verso la comunità, obblighi codificati nel Codice Civile e nel Codice Penale. Che cosa succede se un editore pubblica soltanto ciò che piace e poi, a seguito di questa strategia, deve licenziare duecento persone dalla sera al mattino? […] I grandi gruppi editoriali «Grande è bello?» Dipende molto da come un editore si trova, in un certo momento, in una certa dimensione. Quand’ero un piccolo editore dicevo «Piccolo è bello»; quando con Leonardo Mondadori, Mario Formenton, Franco Tatò e Luca Formenton sono stato in Mondadori dicevo «Grande è bello»; adesso proclamo «Medio è bello». Ciò che so è che l’editoria del libro è
unica per la molteplicità dei prodotti, ognuno dei quali vive di creatività. È totalmente differente dall’industria del cinema, da quella televisiva, dai quotidiani e dai periodici dove la scala finanziaria di ogni progetto singolo è decisiva. Da noi, nell’editoria del libro, 1 libro su 10, 20, 30, 100 può pagare. Ecco allora, importantissima, decisiva, la «Motivazione». Il piccolo ha pochi problemi: nella sua dimensione «familiare» c’è il padre padrone, l’editore, e poi un redattore, un ragioniere, qualche collaboratore (l’editor o un junior editor sono un lusso, proprio non esistono). Il coinvolgimento è totale. Nei grandi gruppi ci sono invece tanti editor che devono continuamente identificarsi con il loro diretto Superiore e i Superiori con il Direttore Editoriale e poi il Direttore Editoriale con il Direttore Generale di Area e il Direttore Generale di Area con il Direttore Generale-Generale, quello di tutto il Gruppo, che deve rispondere al Consigliere Delegato, che risponde a sua volta al Comitato Esecutivo e il Comitato Esecutivo al Consiglio, il quale, infine, risponde all’Assemblea degli Azionisti. ALIENAZIONE! […] Comunque, la realtà internazionale è: tre-quattro gruppi della comunicazione padroni nel mondo. Piccole e medie case assorbite dai Grandi. Ma che cosa ne risulta? Appiattimento della creatività, in un lavoro che è fatto di libertà, di in-di-pen-den-za, di non vincolo dipendente-superiore: le leggi interne del Grande Gruppo imperano, hanno il sopravvento su tutto. Ed ecco l’esigenza di un grande leader che sappia indicare le principali direttrici, e che sappia stimolare la creati-
vità a tutti i livelli. Lo stereotipo di casa editrice vincente quindi, secondo me, grande o media che sia, è: uffici a misura d’uomo, entusiasmo, fantasia, incontri frequenti con autori interessanti, una buona paga che non è però un elemento così decisivo, soddisfazione continua, immensa. Essere partecipi del successo, contribuire a esso, anche in minima parte: per aver trovato un titolo, per aver ideato la promozione giusta, il testo di un risvolto di copertina, lo slogan per il lancio eccetera. Una partecipazione emotiva che si ripete per ogni singolo titolo. È possibile nella grandissima dimensione? Dipende dal leader, come ho spiegato. La nostra industria è un’industria umana. Il rapporto personale è il fattore vincente: Arnoldo Mondadori, il vecchio Angelo Rizzoli, Valentino Bompiani sono stati maestri nei rapporti umani con gli autori e con i collaboratori… e con i fornitori e le banche! Per quanto riguarda l’Italia, il problema nasce perciò prima di tutto in noi editori. Bisogna debellare l’egoismo degli editori italiani. Siamo un piccolo mondo, come ho dimostrato, e tutti ci guardiamo in cagnesco. L’invidia regna sovrana, fra noi. Dobbiamo invece adoperarci per mostrare l’editoria italiana unita e compatta, per trovare accordi internazionali non per i singoli ma per tutta l’editoria italiana, perché so che poi, a cascata, ciascuno di noi ne riceverà un beneficio. Ed eccoci al futuro del libro: Idee Idee Idee e poi ancora Idee. Autori sempre più creativi, e fedeli a chi hanno scelto come loro editore. Agenti non passacarte, ma
propositivi. Ne esistono alcuni che sono solo rappresentanti di commercio, lacchè di altri padroni. Anticipi a misura d’editore e soprattutto di mercato. Quando si paga troppo, mi riferisco ai famosi mega-anticipi, non si ha più denaro per promuovere, per far sapere che il libro c’è. Alcuni pazzi agenti ragionano così: se hai pagato tanto, investirai tanto. Ma se non li hai più i soldi perché hai speso tutto per l’anticipo, che cosa investi? E per quanto riguarda le librerie, io trovo che un grande equivoco stia nell’equiparazione sottintesa fra lettura e cultura, fatto che spesso allontana l’acquirente. Libro è anche manuale, guida, album. Un pubblico di forti lettori c’è e ci sarà sempre. Bisogna individuare l’ignorante. (Durante un’intervista a una radio privata, un po’ di tempo fa, si parlava di un libro e l’intervistato disse: «È la seconda edizione». «Che cosa ne è stato della prima?» chiese l’interlocutore molto partecipe e preoccupato.) Bisogna individuare l’ignorante, dicevo, e non solo l’erudito, proponendosi come soluzione alla solitudine di tanta gente, alle nevrosi, alle depressioni, all’emarginazione del mondo d’oggi. Per molta gente il solo prendere in mano un libro è operazione fisica, tattile, difficile, che deve essere vinta dai librai. Si potrebbe, che so, promuovere visite di bambini e adolescenti alle librerie, perché imparino a convivere con i libri, a sfogliarli, ad amarli. Inge Feltrinelli ha citato i dati decisamente incoraggianti delle sue librerie, ma c’è ancora molto da fare. Perché i libri, come è stato scritto, sono l’umanità
stampata. Senza i libri la storia è silenziosa. Un poeta ha detto: «I libri sono fari eretti nel mare del tempo». Senza libri, la civiltà non sarebbe stata possibile. Li vogliamo dunque buttare o li aiutiamo a vivere e prosperare? Ma come? De Rita [si riferisce all’intervento del giorno precedente. N.d.R.] ha brillantemente fotografato la realtà di noi editori, oggi: se vogliamo sopravvivere, la nostra strategia è creare una nicchia mirata e circoscritta, cangiando, così ha detto, rinnovando continuamente il «bancone», lasciando libera la soggettività del compratore di scegliere il prodotto che lo stimola e lo attira in quel momento, per consumo, per svago, per approfondire la propria cultura, per difendere la propria salute. Fare l’editore significa, oggi, sempre di più, essenzialmente, gestire le idee: le idee degli autori, dei collaboratori, degli editor, dei redattori, degli agenti, dei librai, di tutti coloro che con le loro creatività ruotano attorno a una casa editrice. Vi sarà anche un modo nuovo di fare libri, un modo internazionale di fare un libro. Bisognerà avere, sempre più, fantasia; sempre più, eccellenza, sempre più, una fantasia eccellente. Quello che vi posso dire è che fare l’editore, grande o piccolo che sia, è entusiasmante ma difficilissimo, come ho cercato di spiegare. Pensate solo alle rese. Un imprenditore produce, vende e poi riceve i suoi prodotti in resa. Vi sono poi tanti tipi di pubblico. Fabris indica sette Italie. Per me, non so, forse sono venticinque, trenta Italie. Tanti tipi di pubblico, tanti libri, tanti libri diversi per tante Italie. […]
Io continuo però ad avere fede, nonostante i problemi piccoli dei Grandi Gruppi e quelli grandi dei piccoli editori, nell’inesauribile creatività di chi vuole che un libro vada incontro alla gente. Ho fede nell’ingenuità e nell’entusiasmo dell’animale editore. Ho fede nella sua fantasia. Fantasia, quindi, idee e idee e idee in ogni parte del processo produttivo del libro, dalla sua creazione alla vendita, all’amministrazione, al finanziario, al marketing. Trovare soluzioni sempre più nuove, sempre innovative. Pensare. Pensare. Pensare. C’è solo una riflessione davvero deprimente, riguardo a questo processo. Tutto ciò, voglio dire, ha un riscontro quotidiano irritante. Come ha detto qualcuno, quando l’uomo pensa, Dio ride. Intervento al convegno «Tempo e libro. Il futuro della lettura», organizzato dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 22 e 23 marzo 1991.
Voglia di fare «Male è fare», si legge nel Gattopardo. E mai sentenza migliore è stata pensata per descrivere il tempo che oggi viviamo in Italia. Meglio non fare, meglio non agitare le acque, meglio tirare a campare: perché fare, comunque, vuol dire cambiare. Del resto un Presidente del Consiglio non ha recentemente dichiarato a un collega di governo, ora non più al governo: «Voi sempre lì a preoccuparvi del debito pubblico; sono trent’anni che lo abbiamo e non è mai successo nulla»? E così siamo a un milione e seicentomila miliardi di debito. «Male è fare», dunque? Noi non siamo d’accordo. Non possiamo esserlo. E, riteniamo, l’intera AIE non è d’accordo. Noi, infatti, per il libro «facciamo». O, perlomeno, ci siamo dati da fare, ci siamo mossi, che è la cosa veramente importante. E fare, secondo noi, significa cercare gli strumenti per dare un’immagine pubblica più dinamica e più incisiva dell’editoria libraria, e quindi dell’AIE, agli occhi della società civile, per un’efficace promozione del libro e della lettura. In questo ultimo lasso di tempo sono stati parecchi i pensieri, le discussioni, i confronti da cui poi hanno avuto origine alcune iniziative concrete. Qualche esempio? L’incontro di Rapallo del marzo scorso: il 1° Convegno degli editori del Settore editoriale generale, al quale hanno avuto la bontà di intervenire esperti di mass media, direttori di reti televisive, produttori cinematografici. Che hanno ricreato davan-
ti ai nostri occhi la misteriosa galassia delle comunicazioni audiovisive, all’interno della quale va cercata la giusta collocazione di questo «oggetto non identificato»: il libro. Per il quale auspichiamo un ruolo interattivo, di reciproca collaborazione con la nuova realtà, non di passiva sudditanza o di stupida adesione a un placido immobilismo. […] «Male è fare»? Per nulla. Torniamo indietro. Torniamo all’anno da poco trascorso, alla creazione del Comitato di presidenza d’onore, un’istituzione che ci riempie di legittimo orgoglio, e grazie alla quale ci è stato possibile riconoscere in forma ufficiale i meriti di tre figure cardine dell’editoria italiana: Valentino Bompiani (mai abbastanza ricordato, mai sufficientemente rimpianto), Achille Boroli, Sergio Polillo. «Male è fare»? No, noi non ci stiamo. L’AIE è sempre presente, e in prima fila, ai più importanti appuntamenti culturali, alle mostre di maggior interesse. […] Male è NON fare: dal rimboccarsi le maniche non può che venire qualcosa di buono. E i progetti, come dicevamo, non mancano. È nostra intenzione potenziare il Giornale della Libreria, dedicando il massimo spazio al problema del diritto d’autore, alla vigilia del «grande appuntamento» di questo fatidico 1993 (così atteso, così invocato, per certi versi così temuto). Trattando le nuove norme del diritto comunitario (durata di protezione, diritto di pre-
stito e noleggio...), con la proposta di materiale chiaro ed esaustivo, grazie ai contatti con le riviste europee del settore. Per non trovarsi impreparati, ma pronti fin dall’inizio. Pronti ad agire. Tutti insieme, uniti: anche, e soprattutto, con i piccoli editori, che già così numerosi vivono nella nostra associazione. Proprio pensando a loro (ma non solo) vorremmo organizzare un corso di aggiornamento della durata – diciamo – di tre giorni, su iscrizione e con numero chiuso di partecipanti, da tenersi nelle sedi AIE di Milano e Roma. Un’occasione indispensabile per un’ulteriore crescita professionale. […] E poi: il progetto, ancora in fase embrionale, di un Osservatorio del libro, su modello di quello francese, al quale si devono completissimi quaderni di documentazione. Si tratta di un’iniziativa proposta al Salone del Libro del 1989 dall’Associazione Biblioteche e dall’Associazione Librai, a cui anche l’AIE ha dato la sua adesione. È allo studio anche la proposta di un Osservatorio europeo del libro presso la Comunità Europea. L’interesse delle istituzioni – Ministero dei Beni Culturali, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri tra le prime – è doveroso, date le loro competenze nel settore, e a esso deve corrispondere l’individuazione di precise richieste e obiettivi di lavoro da parte delle associazioni professionali e altri enti specializzati. Bisogna in primo luogo eliminare le sovrapposizioni di competenze, come ha ricordato Stefano Rolando al convegno di Rapallo. Soprattutto, di fronte al circuito europeo di produzione-
distribuzione-vendita e conservazione del patrimonio librario dobbiamo avere un’idea chiara del nostro ruolo e dei nostri partner. E questa chiarezza, a mio parere, per ora non c’è. Ancora un’altra proposta: il «giorno del libro». Una giornata di festa come quella spagnola, appuntamento fisso sin dal 1925. Un’idea che verrà sviluppata da Carlo Sartori, uno dei migliori esperti, se non il migliore in Italia, di comunicazione nel settore librario, con la volontà di imporre all’attenzione pubblica un’immagine chiara e incisiva del libro, dell’editoria, e quindi, a cascata, anche della nostra associazione. Arrivando a coinvolgere TUTTI, anche quel tristemente famoso 60 per cento e passa di italiani (alcuni contestano il dato e suggeriscono il 50 per cento: pensate un po’ che bella e insulsa polemica…). Quel 61,9 per cento di italiani, dicevamo (questo è il dato preciso che abbiamo noi), che vuoi per disinformazione, vuoi per scarsa voglia, vuoi per semplice ignoranza, non legge un solo libro – neppure uno – nell’intero corso dell’anno. Nessuno di noi deve fermarsi, mai. Dobbiamo muoverci assieme, nell’AIE e per l’AIE, per arrivare insieme a nuove realtà. Che magari abbiamo proprio davanti a noi, ma che forse non abbiamo mai dibattuto a sufficienza. Le biblioteche, per esempio. Quelle di pubblica lettura sono più di duemila; la rete complessiva nazionale, private comprese, ne conta oltre diecimila. La loro cifra globale d’acquisto è intorno ai trecento miliardi annui (compresa la richiesta dall’estero). Un acquisto fram-
mentato, difficilmente verificabile, che passa perlopiù attraverso il canale «libreria»; ma in grado di condizionare la stessa produzione, anche se oggi come oggi solo il 5 per cento del bilancio di una biblioteca italiana viene usato per comperare libri (contro il 12-15 per cento dei Paesi europei più sviluppati). E questo senza contare che la biblioteca risolve di fatto il problema della morte troppo rapida del libro, creando parallelamente un mercato ad hoc per l’editoria di catalogo. […] «Male è fare.» Così dicevamo all’inizio. Ci piace lasciarvi, invece, con una citazione da William Blake: «He who desires but acts not, breeds pestilence». Ne offriamo una nostra personale, modestissima traduzione: «Chi brama di agire, ma poi rimane fermo, genera solo rovina». Relazione di chiusura letta al convegno AIE di Rapallo «Il libro: solo un amore?» (6-7 marzo 1992), in qualità di vicepresidente del settore Editoriale generale, e pubblicata sul Giornale della Libreria, n. 5 del 1992.
I sogni di un presidente Vi ringrazio molto per la fiducia che mi avete dimostrato. Non sapevo nulla delle vostre intenzioni, non me l’aspettavo e per puro caso ho qui degli appunti… Scherzi a parte, sono flatté e molto preoccupato per ciò che la carica, oggi, significa. Ecco perché vi leggerò i miei appunti prima che avvengano le votazioni, perché sia tutto chiaro, prima a me che a voi. Finora, nella nostra associazione, le designazioni per la carica di Presidente sono avvenute sulla persona, per la stima, la professionalità, che so?!, la simpatia, il curriculum: con una brutta parola, il peso che il candidato aveva. Io vorrei invece essere misurato su un programma. Io oggi vorrei che fosse votato un progetto più che una persona. Se io accetto, infatti, è perché ho molti sogni. Io sogno che l’AIE conti sempre di più, che diventi sempre più importante, che non debba andare a rimorchio di altre associazioni ma che ne sia alleata, alla pari; io sogno che l’AIE contribuisca a far superare al nostro Paese la crisi di cultura che sta attraversando (anche il limite fra lecito e illecito, fra azione di lobby e tangente è cultura). Deve cambiare il modo di pensare la cultura, secondo me. Il nostro obiettivo è che l’AIE riesca a scovare quel 60% di italiani che non legge neppure un libro all’anno. Con le armi più basse della seduzione commerciale? No, assolutamente no. Ma con metodi più moderni, sì. Seguendo le ferree leggi del mercato, sì.
E così sogno che il Salone di Torino non sia solo di Torino, ma che diventi itinerante, un grande Salone del libro, un anno a Torino, un anno a Milano, un anno a Firenze, magari fondendosi con Galassia Gutenberg per diventare più grande, più importante, più seguito. E così sogno che la Festa del Libro diventi ciò che era nel progetto originale dell’AIE, una festa di tutti gli editori con tutti i lettori. A questo riguardo vi porto una buona notizia: pochi giorni fa ho incontrato Scalfaro, che mi ha dato la sua più ampia disponibilità perché la Festa del Libro, che è un marchio registrato dell’AIE, si svolga sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Ora mi è più semplice, come capite, coinvolgere la Presidenza del Consiglio, i Ministeri della Pubblica Istruzione e dei Beni Culturali e altri, ottenere cioè l’imprimatur istituzionale, ottenere il coinvolgimento della Rai TV e dei maggiori media. Da Berlusconi, come già sapete, ho avuto l’assicurazione che la prossima Festa del Libro verrà gestita di comune accordo. Non c’è nulla di rivoluzionario in questa parte del progetto. L’articolo 2 del nostro Statuto così infatti recita: «L’AIE ha lo scopo di promuovere, autonomamente e in collaborazione, tutte le iniziative che possono contribuire alla conoscenza e alla diffusione del libro e della cultura italiana, in Italia e nel mondo». Ciò che io sogno è che vengano cambiati i modi di promozione. Per poter cambiare (e mai come ora è
tempo di cambiare) è necessario un radicale ripensamento di ciò che finora l’AIE ha voluto dire. Io sogno che non vi sia più questa contrapposizione antistorica fra la Scolastica e la Varia, per esempio. Valeva dieci anni fa, oggi non ha più senso. Io sogno che un nuovo Statuto venga al più presto discusso e portato all’esame dell’Assemblea. Molte sono le inesattezze, le lacune. Si pensi al ballottaggio recente per la nomina del Consiglio, non previsto in Statuto. Io sogno un accordo definitivo con la Confindustria: non può durare a lungo questo stato di belligeranza. Abbiamo bisogna di alleati forti, se vogliamo crescere. E Bruxelles? Ha senso, per la questione della durata del diritto d’autore, dei 50 o 70 anni, noi soli a combattere contro tutti quando la grande maggioranza degli Stati della CEE si è già pronunciata per i 70 anni? Io sogno che a livello internazionale l’AIE abbia sempre più peso. E ancora una buona notizia: l’Italia, attraverso la mia persona, ha da pochi giorni la presidenza del Freedom to Publish Committee fino al prossimo Congresso Mondiale dell’International Publishers Association. E abbiamo mantenuto la presenza nell’Executive Committee grazie soprattutto agli sforzi di Gianni Merlini. Non è poco, in un momento in cui le parole «tangente» e «mafioso» hanno preso il posto, nel mondo, di «spaghetti» e «mandolino». Io sogno che l’AIE riesca anche a far crescere l’ALI. Non è vero che è meglio avere una controparte debole: è essenziale avere una controparte preparata e di peso.
Gli scontri saranno forse maggiori, ma almeno saranno costruttivi. Con loro dovremo sistemare la giungla degli sconti, per esempio, la cosiddetta legge Lang. Assieme a loro dovremo lottare per l’IVA sui libri, qui in Italia e alla CEE. Io sogno che finalmente l’AIE abbia un suo organo di stampa all’altezza del programma che via via vi sto illustrando, sogno che il Giornale della Libreria non venga letto solo per l’elenco dei titoli messi fuori catalogo dagli editori. Per fare in modo che questi sogni non rimangano tali (mi accorgo ora che ricordano molto I have a dream che Martin Luther King gridava al mondo, con quali risultati sappiamo); per realizzare questo progetto ci vogliono, come sempre, risorse umane e finanziarie. Anche l’AIE deve strutturalmente crescere e migliorare: è necessario mettere mano subito all’organizzazione interna, è necessario avere un Ufficio Stampa e PR di prim’ordine, bisogna lavorare perché il socio AIE sia servito come il migliore dei clienti, in modo da diventare AIE-dipendente. Per fare tutto ciò, io chiederò dei sacrifici perché io dovrò spendere. Spenderò non in riunioni conviviali, in mostre e viaggi; spenderò in azioni concrete, soldi non spesi ma investiti in azioni a breve e medio termine, poiché il lungo non ci interessa. Spenderò anche e soprattutto con la taccagneria che mi è proverbiale, che ormai per quanto mi riguarda è diventata caricatura. Io vi domando di essere al mio fianco nello sforzo
comune di cambiare l’AIE, di unificarla, di renderla aggressiva, ma riflessiva. Ho bisogno di voi, ho bisogno di un Consiglio di idee, un Consiglio che sommerga la Giunta di idee. Oggi si vince con la fantasia, con la creatività, con le idee, appunto. Vorrei introdurre, come prassi, delle Giunte operative e delle Giunte creative, allargate a giovani colleghi. Mi scuso con Inge, ma vorrei Carlo Feltrinelli, mi scuso con Laterza senior, ma vorrei il giovane Laterza, e così via. Datemi un’équipe per fare tutto ciò e datemi tempo. Ho bisogno di due anni, almeno. E per l’équipe non potrò fare nulla se non avrò una Giunta forte, fortissima. Vi chiedo di votare Cobolli e Paravia per le vicepresidenze, Merlini (il mio maestro di Associazione) e Paoletti come sostituti, Tatò ed Enriques come membri designati dal Consiglio, Potestà come tesoriere. Il che vuol dire Fabbri, Rizzoli, Mondadori, UTET, Zanichelli, Le Monnier, Principato e Paravia, rappresentati non come in passato da dirigenti editoriali seppur ad alto livello, ma da chi può decidere da solo e subito: una vera flotta di portaerei, incrociatori e sommergibili nucleari per conquistare lo spazio che l’AIE si merita. […] Gli editori piccoli e medi hanno in me, hanno nel Presidente, il loro rappresentante. Se sarà votato questo programma, e quindi la mia persona, se sarà votata la Giunta che vi ho suggerito, perdonatemi fin da ora se qualche volta, per l’ansia di fare, di fare in fretta, mi muoverò con la grazia di un elefante in un negozio di cristalleria.
Ciò che vi prometto è che mi muoverò con orgoglio e con onestà, che oggi più che mai gli imprenditori nuovi devono avere. E con dignità, una parola che si è persa in Italia, intendendosi con essa la coscienza di un ruolo, di un progetto in cui una persona si riconosce e in cui crede. Mi muoverò con l’entusiasmo e con l’amore che questo nostro mestiere richiede, un mestiere che amo più di ogni altra cosa al mondo. Fra i tanti sogni che vi ho raccontato, stanotte ne ho fatto uno vero: ho sognato di farcela. E adesso ai voti. Discorso al Consiglio generale dell’AIE prima dell’elezione della Giunta, in cui il neopresidente Tiziano Barbieri espone il suo «programma di governo». Milano, 29 marzo 1993.
«Se lo sapevo non avrei venuto…» Dichiaro aperti i lavori del 25° Convegno degli Editori. Nel vedervi così numerosi a questo appuntamento i miei sentimenti sono di piacere, di preoccupazione, perché vuol dire che il nostro malato, il libro, deve essere proprio ridotto male; ma forse, soprattutto, di fierezza di appartenere a un gruppo di soci, a un’Associazione che ha deciso, responsabilmente, di contare di più, che ha deciso di muoversi per imporre idee e progetti, facendo leva sì sul peso politico che abbiamo noi che gestiamo cultura, ma anche cercando nuovi alleati a noi simili, simili alle nostre idee e ai nostri progetti, in un’Italia di cui ci vergogniamo in questi giorni, un’Italia che vogliamo cambiare, migliorare, al più presto, per sentirci ancora parte di essa, una parte onesta e responsabile. I tempi dei mezzucci, delle strizzatine d’occhio sono morti, sepolti. Di chi non se ne è accorto e continuerà a usarli, i mezzucci, se ne occuperà la storia, perché non sono destinati a sopravvivere. Fra qualche anno nei libri scolastici che noi pubblicheremo vi sarà anche un capitolo per loro, dal titolo «I furbetti d’Italia». Oggi è tempo di chiarezza, di onestà mentale, prima di tutto dentro di noi, poi verso gli altri. Oggi è tempo di etica, soprattutto nel business, visto che è di questo che ci occupiamo. Oggi i progetti devono essere analizzati, radiografati, discussi, poi, se validi, portati avanti con determinazione e alla luce del sole. […] Ecco perché quello slogan alle mie spalle: Insieme per contare
di più (oddio, più che uno slogan è un grido disperato di raccolta, direi, considerati i tempi che viviamo). Insieme, dicevo. Prima di tutto noi, gli editori del settore educativo e gli editori del settore generale. A tutti rivolgo il mio benvenuto, augurandomi che i lavori e la discussione di questi due giorni siano un’utile opportunità di informazione e di scambio di idee sull’attività e il ruolo dell’Associazione e sui problemi che la categoria deve affrontare nel prossimo futuro. Come sapete, il Convegno era un appuntamento solo per gli Scolastici; poi, l’anno scorso, il primo convegno della Varia: da quest’anno insieme, insieme per contare di più. E ora un breve resoconto su quanto si è fatto in questi primi mesi della nuova presidenza: sui prossimi appuntamenti del 1994, sulle linee operative che vorrei seguire e sulle quali chiedo il confronto, l’approvazione e l’adesione dei soci. [La relazione prosegue elencando le novità operative nella struttura AIE, le iniziative a cui l’Associazione sta lavorando e il programma sotto la presidenza Barbieri. N.d.R.]
Questi i problemi, queste le cose fatte, queste le cose da fare. Molte volte, devo confessarvelo, analizzando la mole di lavoro che improvvisamente, e tutta insieme, si è abbattuta (o meglio, ho abbattuto) su di me e su tutta la struttura AIE – che qui pubblicamente e ufficialmente desidero ringraziare per la passione e la pazienza con cui segue un pazzo – ebbene, molte volte ripeto a me stesso a voce alta quella frase che un picco-
lo protagonista di un famoso film francese di molti anni fa, La guerra dei bottoni, di Yves Robert, ripeteva quando si trovava in situazione scomode: «Se lo sapevo non avrei venuto». Già, se lo sapevo non avrei proprio venuto. Relazione tenuta nelle vesti di presidente AIE per l’apertura dei lavori del 25° Convegno degli Editori, Rapallo, 11-12 novembre 1993.
Una fortuna sfacciata Intervista di Oreste del Buono
Non so come verranno le fotografie di Gianfranco Moroldo, l’avventurosissimo decano dei fotografi dell’Europeo (al quale di solito riescono meglio le fotografie dei difficili campi di battaglia e nelle più tormentate condizioni ambientali che quelle in cosiddetta pace e in insulsi abiti borghesi), ma Tiziano Barbieri, detto «Ciuffo», editore rampante nel desolato panorama dell’industria culturale italiana, rianimatore delle vecchie sigle decadute, inventore continuo di successi inaspettati, è piuttosto un bell’uomo. Occhi vivi, pelle fresca, un sorriso smagliante. Però… La prima domanda che azzardo è peggio che frivola: «Perché mai la chiamano Ciuffo, se è quasi completamente calvo? Lo fanno per prenderla in giro, per mettere avanti la sua calvizie?» «Neppure per sogno. Semplicemente perché avevo un ciuffo stupendo quando sono nato. E appunto per il mio ciuffo stupendo così mi ribattezzò mio fratello, guardandomi in culla. Parola di Raffaello… Poi i capelli se ne sono andati in fretta ma Ciuffo sono rimasto. Sarò anche Nonno Ciuffo… Ma lei è qui per farmi domande per una rivista di barbieri?» Oddio, l’ha detta lui, e del tutto involontariamente, temo. Commedia dell’arte, anzi peggio. L’uso del lei non ci riesce bene, dato che ci conosciamo da una quantità d’anni. Certo, lo facevamo per rispetto al
lettore dell’Europeo che ha il diritto di non sentirsi emarginato da un colloquio tra intimi. Però, tutto sommato, non conviene, il tono risulta artificioso come negli incontri di comici dell’avanspettacolo; ritorno al tu: «Sai perché sono qui… Tu hai già rivitalizzato una vecchia sigla editoriale come la Sperling & Kupfer, e oggi hai ripreso un’altra vecchia sigla editoriale. Tanti editori mandano in rovina il patrimonio ricevuto dalla famiglia, e tu sembri intenzionato a rimettere in sesto le insegne altrui. Qual è il segreto del tuo successo?» Tiziano Barbieri fa una faccia compunta. Il sorriso è scomparso, lui stringe le labbra per compromettersi meno. «Non è un segreto: trattasi di sfacciata fortuna. Proprio così… E poi aspettiamo a gridare al miracolo… Qualche libro indovinato con la Sperling & Kupfer, i primi due libri indovinati con la Frassinelli… Io sono sempre cauto. Tutti questi anni passati in editoria mi hanno insegnato che a cantar vittoria bisogna aspettare.» «Tutti questi anni? Ma quanti sono, poi, alla fine?» È serio, Tiziano Barbieri. Serio, vagamente rannuvolato nello sforzo di essere esatto nello stilare il suo rendiconto d’editore. «Io ho quarantacinque anni, e lavoro in editoria da ventitré. Ho cominciato a vent’anni, alla Longanesi, in via Borghetto. Era appena morto Leo Longanesi, mi ha chiamato a lavorare Mario Monti… Una sfacciata fortuna.»
«In che senso se Longanesi era morto, e da lui non avevi, quindi, più nulla da imparare?» Tiziano Barbieri diventa severo, lo so, i veri editori hanno sempre delle belle pretese. Pretendono che gli interlocutori li capiscano subito, senza sprecar parole e tempo. Tempo e parole sono denaro. «Intanto, c’era tutto il passato della Longanesi, l’eredità di Leo Longanesi da studiare, le scelte, l’insegnamento, gli stessi sbagli di Longanesi da meditare… Io lavoravo soprattutto in magazzino, e lì, tra rese e ristampe, richieste inesaudibili e giacenze irriducibili, c’era un’intera storia di casa editrice. La mia sfacciata fortuna è consistita nel trovarmi a imparare non solo dall’estro editoriale di Mario Monti, ma anche dal talento commerciale di Bruno Licitra, che era allora l’amministratore delegato. Mi risentivo in famiglia: con mia madre musicista, direttore d’orchestra che non pareva camminare, ma volare, e mio padre, imprenditore edile che non era capace di non essere attento al mattone… Una fusione genetica può essere importante nel decidere una carriera…» «Sempre e solo sfacciata fortuna, insomma? Nessun merito tuo, neppure piccolo piccolo?» «Ti pare un merito quello di avere approfittato di una straordinaria occasione del genere? Ma ti ricordi quello che era la Longanesi negli anni ’58, ’59, ’60? C’erano, tra gli autori e i collaboratori più affezionati, Pier Paolo Pasolini, Nico Naldini, Giovanni Comisso, Goffredo Parise. Come avrei potuto non appassionarmi sempre di più alla vita editoriale? Come avrei potuto
non cominciare a nutrire qualche aspirazione a far da me, a metter su un’attività per conto mio?» «L’importante non è che tu abbia avuto delle aspirazioni, l’importante è che le hai sapute realizzare. Vorrei che tu mi dicessi come, smettendola di giocare con la formula della sfacciata fortuna…» «È stata una sfacciata fortuna. Ancora e sempre…» «Ma no… Non prendermi in giro…» Continua a scuotere la testa alla mia ottusità. «Stammi a sentire, è stato nel ’70, era un poco che scalpitavo nella Longanesi. C’ero ormai da una decina d’anni. Allora mi interessavo molto di corse automobilistiche, di Formula 1, e mi era capitata la possibilità di pubblicare le memorie di Enzo Ferrari, e inaugurare così una casa editrice Barbieri… Però, una sera, in un vecchio palco della Scala, un’anziana signora della Milano bene, sapendomi nell’editoria, mi ha detto che aveva un vecchio amico stanco che sarebbe stato disposto a cedere la Sperling & Kupfer… Mi sono trovato a scegliere tra la casa editrice Barbieri e la casa editrice già conosciuta, con un passato illustre e un presente precario. Non ho esitato: l’editoria mi affascina in quanto editoria in sé e per sé, non ho vanità. La mattina dopo ho acquistato la Sperling & Kupfer. Naturalmente, i soldi non erano tutti miei, i soldi erano per la maggior parte di miei amici che avevo tampinato durante la notte… Dici che è un merito? E la sfacciata fortuna dove la metti?» Letteralmente, non ho parole. «Quando ho cominciato a scartabellare tra i vecchi
documenti della Sperling & Kupfer, be’, ho perduto la testa. Ne sono rimasto talmente innamorato, pazzo furioso… I primi anni ho fatto proprio di tutto, in casa editrice: oltre a scegliere i libri ne rivedevo le traduzioni, correggevo le bozze, li confezionavo sino a fare i pacchi, e poi li continuavo a seguire. Promozione personale in libreria, presentazione alla stampa… Ma la vera difficoltà era convincere gli amici che mi avevano finanziato della bontà dell’operazione. L’editoria non dà frutti immediati, occorre avere pazienza. Chi non ne conosce abbastanza il meccanismo è portato a scoraggiarsi presto. Ho azzeccato il mio primo libro perché non potevo non azzeccarlo, mi era vietato sbagliare, ero con le spalle al muro. S’intitolava Il soldato dimenticato, il nome dell’autore era tedesco, Guy Sajer. La copertina non lasciava dubbi: un libro di guerra. Sette edizioni in un anno… Intanto, rinfrescavo e potenziavo la collana sportiva della Sperling & Kupfer, l’unica attività per cui era ancora nota. Ma ci voleva qualcosa di più forte, ci voleva, ci voleva assolutamente…» Dietro Tiziano Barbieri, su quella parete, sono appese, trafitte come farfalle da un entomologo goloso, le copertine che raffigurano la storia di una dozzina d’anni di casa editrice. «Sapevo quello che occorreva: la più grande semplicità nel porgere storie inventate o storie vere, romanzi o documenti… L’editoria si può fare in due modi: o pubblichi i libri che ti piacciono o pubblichi i libri che ti consigliano le ricerche di mercato. Sarebbe indispensabile mediare… Al principio deve esserci la
curiosità. Io sono curioso come una scimmia, anzi di più… «Quando ho letto la notizia di certi passeggeri di un aereo che, dopo un disastro, erano stati dati per dispersi, e, invece, erano poi sopravvissuti, e s’erano diffuse voci circa una sopravvivenza a costo di cannibalismo, ebbene il fatto mi ha bruciato. Smaniavo. Mi sono attaccato al telefono, supplicavo i miei amici in America di rintracciare i superstiti, di convincerli a raccontar tutto per me. Ovviamente, c’erano già arrivati gli americani, ma Tabù di P.P. Read è stato un gran successo pure per la Sperling & Kupfer. E poi è venuto Bermuda: il triangolo maledetto, di Charles Berlitz: sono venuti anche i successi romanzeschi da Il club dei fan, di Irving Wallace, a Scrupoli, di Judith Krantz. Il grosso pubblico era raggiunto, il contatto era stato stabilito… E che contatto. Sperling & Kupfer, ormai, era un marchio, una garanzia di buona lettura sicura, il grosso pubblico sapeva che io non lo ingannavo…» Una pausa. Tiziano Barbieri sospira appena, quasi si sia reso conto di avere sprecato troppo tempo e troppe parole con me. Il colloquio è finito? Cerco di riavviarlo in qualche modo. «Ma il successo commerciale non ti è bastato, vero? Strada facendo, ti sono venute nuove ambizioni? Hai voluto conquistare anche la considerazione della critica?» «Ma no, non c’entra… Nel ’75 mi era arrivato un socio ideale, Nicola Carraro, appena uscito con la sua famiglia dalla Rizzoli per diffidenza riguardo all’opera-
zione Corriere della Sera, e desideroso di continuare a fare un poco d’editoria… Avevamo avuto tanto successo che la Rizzoli ha voluto assumere la nostra distribuzione ed entrare in società. Così ho conosciuto l’allora direttore alle vendite Giovanni Ungarelli, e ci siamo intesi molto bene, ha fatto tanto per la Sperling & Kupfer… «In una casa editrice che va bene devi, comunque, tentare sempre delle nuove vie. Altrimenti t’impigrisci, diminuisce la tensione, tutto diventa routine e ti passa la voglia di lavorare… M’imbattevo in certi testi abbastanza d’élite, mi dispiaceva rinunciare a pubblicarli, anche se intuivo che non erano per il grosso pubblico della Sperling & Kupfer. Ho creato una collana apposta, con una grafica che la distinguesse bene dalle altre collane, con un titolo indicativo: ‘Pastelli’… È stato un disastro. I librai mettevano i ‘Pastelli’ accanto agli altri libri di ‘Narra’, ‘Informa’, ‘Pandora’ con il nostro marchio: chi li comprava, aspettandosi una abituale produzione Sperling & Kupfer, si sentiva tradito… «Erano dei bei libri, da Quartetto di Jean Rhys a Papà di William Wharton, ma ho dovuto fermarne la pubblicazione, poiché creavano anche una confusione redazionale. È giusto fare dei tentativi, ma occorre essere pronti a fermarsi… Fermarsi subito, prima che la scaramuccia deludente diventi una battaglia perduta, mi sono fermato… Ed ecco l’ennesima dimostrazione della mia sfacciata fortuna. Erich Linder mi ha detto che c’erano da acquistare dei titoli della vecchia Frassinelli. Gran parte del catalogo lo aveva rilevato in passato Adelphi, i grandi libri, i grandi autori, Il processo di Franz Kafka,
Moby Dick di Herman Melville nella traduzione di Cesare Pavese, Siddharta di Hermann Hesse eccetera… Restavano da acquistare certi libri più commerciali, meno appetiti da Adelphi… Ho detto che ero disposto a rilevare il marchio Frassinelli, a far dei libri Frassinelli, come ne avevo fatti di Sperling & Kupfer… Non ho avuto una fortuna sfacciata un’ennesima volta?» Siamo alle ultime battute, ci riprovo: «Anche nella scelta dei due primi libri, del romanzo L’albergo bianco di D.M. Thomas e della biografia Mahatma Gandhi di William L. Shirer? Se tutto fosse così facile, non ci sarebbero problemi per l’editoria italiana, no?» «Sono stato aiutato da Erich Linder che mi ha procurato i diritti… Gli piaceva che venisse fuori un nuovo editore, anzi che rivenisse fuori un vecchio, nuovo editore… Povero Erich, se n’è andato troppo presto, non so come farà l’editoria senza di lui. Sarà indubbiamente un’editoria diversa… Per la Frassinelli, comunque, ogni libro fa storia a sé: è sempre stata dalla fondazione, nel ’31, una casa editrice di libri unici… Anche se la gestione della Frassinelli è affidata a mia sorella Donatella Barbieri, che, d’altronde, la sua esperienza editoriale se l’è già fatta per conto suo e ha lavorato con Giovanni Fabbri, è una nuova tensione per me… Le responsabilità aumentano. La Sperling & Kupfer, insieme, ovviamente, con la Frassinelli, è passata dalla distribuzione Rizzoli a quella Mondadori; il nostro nuovo socio è la maggiore casa editrice italiana. È vero che è passato alla Mondadori anche il direttore alle
vendite Ungarelli, un amico che ci stima. A ogni modo, ci teniamo a far bella figura, a ricambiare la fiducia. Ci riusciremo? E se la fortuna non fosse più tanto sfacciata con me?… Ma a che stai pensando?» «A qualcosa che non sia la tua sfacciata fortuna, sono stanco di sentirti ripetere il ritornello… Sto pensando al nome di tua sorella: Donatella. Il femminile di Donatello. Tuo fratello si chiama Raffaello. E tu ti chiami Tiziano. Che famiglia pittorica… o pittoresca!» «Curioso, vende libri con successo», da L’Europeo, 30 aprile 1983.
«Io ho fiducia in Milano, da sempre» Intervista di Nunzia Monanni Scerbanenco
«I libri non tradiscono mai, sono la spina dorsale di tutta la mia vita e il primo segno di ripresa nel nostro Paese è venuto proprio dai libri. Abbiamo lavorato per un anno al progetto La Festa del Libro che ho curato personalmente.» Questo è l’entusiasmante impegno di Tiziano Barbieri Torriani, editore di Sperling & Kupfer e Frassinelli. «Un anno, sì, da quando nell’aprile scorso sono stato eletto presidente dell’Associazione Italiana Editori. Succedo a Gianni Merlini e Sergio Polillo; in genere si votava sempre la persona, invece io ho detto: ‘Prima vi leggo il programma’. Ho chiesto la votazione e ho vinto. Il che mi ha dato molta fiducia perché nel programma c’era anzitutto questa manifestazione e la volontà di far ritornare il libro nella vita di tutti.» Tiziano Barbieri era sicuro che Milano avrebbe accolto con entusiasmo le sette giornate del libro, in primavera. E così è stato. «Oh, non è una novità, perché in Spagna El Día del Libro in primavera è una manifestazione che vive dal 1925. Io sono rimasto così coinvolto e affascinato da questa festa, che se noi ottenessimo la metà dei risultati spagnoli, sarebbe già un successo. Io ho fiducia in Milano, da sempre.» Successo e fiducia hanno sempre accompagnato questo giovane editore milanese che manda fuori libri
e libri, come fosse un editore di periodici, tempi quasi da diretta, da special televisivo. «A Milano bisogna lavorare così, perché si vive così, in tempo reale, nel momento immediato. Io sono milanesissimo e ho tenuto il cognome di mia madre, Torriani, che è uno dei più antichi nomi lombardi, risale al 1200. Come mia madre, vorrei saper parlare milanese, con la stessa eleganza, lo stesso gusto.» A Milano, Sperling & Kupfer ha sempre avuto una sede in centro, da Monte di Pietà si è trasferita adesso in via Borgonuovo: palazzo ottocentesco, prestigioso lo studio del presidente, foderato a libreria, escluso il grande camino e la vetrata che rivela uno dei magici giardini interni, segreti, che fanno ricca Milano, soffitti a volta istoriati e affrescati, lampadari come alla Scala. Non lontana, in corso Venezia, anche la prima antica sede, fondata un secolo fa dal signor Heinrich Otto Sperling, libraio-editore di Stoccarda, e dal signor Richard Kupfer di Lipsia, che diedero il loro nome alla casa editrice attuale. Vicende alterne, inizio difficile. «Ho acquistato la Sperling nel 1970 per poche decine di milioni. Oggi fattura 50 miliardi. Me l’ha venduta un vecchio gentiluomo piemontese, a cui piaceva dire ‘faccio l’editore’, Carlo Alessandro De Michelis, che però l’aveva svuotata di tutto. Mentre negli anni fra il ’20 e il ’40 era una tra le primissime case editrici in Italia. Aveva portato qui le grandi opere germaniche: Thomas Mann, Stefan Zweig, Hermann Hesse.» Ma l’attrazione fatale di Tiziano Barbieri Torriani per i libri risale a molto tempo prima.
«Giovanissimo, proprio giovanissimo, sono entrato in Longanesi: all’inizio senza stipendio, poi ho salito tutta la trafila: grafica, redazione, amministrazione, traduzioni. Era appena mancato Leo Longanesi e presidente era Mario Monti, brillante editore che mi ha insegnato molto; soprattutto ho imparato da lui un certo gustaccio editoriale aperto al mondo americano, che ho poi realizzato in Sperling. Nello stesso periodo a Milano si respirava un’accesa aria di cultura. Erano i primi anni Sessanta, vita intellettuale al top: Pasolini, Parise, Comisso. In Longanesi, Monti e Licitra, amministratore delegato, erano una coppia forte. Poi nel ’70 ho trovato sul mercato il marchio Sperling & Kupfer: un marchio valido perché aveva un glorioso passato, ma completamente svuotato, più niente, né titoli, né catalogo, solo una collana sportiva, gialla, famosissima, curata da Bruno Roghi.» Vent’anni per trasformare un marchio vuoto in una delle case editrici più importanti in Italia, più ricche di titoli: al quarto posto per fatturato e fra i protagonisti dell’editoria internazionale. «È solo perché siamo a Milano», secondo Tiziano, «che un avvenimento politico, un fatto di cronaca importante, un personaggio, un caso televisivo, può diventare libro così rapidamente: solo perché viviamo in pieno questa realtà immediata, mutevole, sensibile, è solo Milano che ci permette di essere dentro la cronaca, dentro la vita di oggi; è solo vivere a Milano, conoscere Milano, amare Milano che ci dà questa possibilità: avere sempre in libreria titoli attuali, anche nella
narrativa. Questo l’ho mutuato dal signor Sperling e dal signor Kupfer: la loro strategia per divulgare la letteratura tedesca io l’ho trasferita nella produzione anglosassone, soprattutto del mondo americano.» Con la traduzione italiana di questi best-seller americani e la relativa tranquillità economica, ecco una svolta per l’editore. «A quel punto ho preso un impegno, direi, sociale: pubblicare nella saggistica, nell’attualità, autori che avessero la possibilità di dire qui tutto quello che volevano: Bocca, Pansa, Turani, estremamente indipendenti dai poteri sia politici sia economici. Questa è la formula vincente che ci fa riconoscere sempre in prima linea senza schemi. Io faccio parlare il Vaticano, come l’estrema sinistra, con la massima libertà.» Ma anche lavorare tanto, sempre, è un ingrediente base della formula vincente. «Mi trovo bene solo a Milano, non faccio mai vacanza, odio le vacanze, quando proprio devo accompagnare al mare le mie figlie, Ricciarda e Barbara che, invece, lo amano tantissimo, mi rintano in casa, fax, telefono e continuo a lavorare in attesa di tornare a Milano. Spero che una delle mie figlie segua questa strada: io sono sempre stato circondato da donne, trovo che l’editoria sia un settore molto femminile. In casa editrice ci sono pochi uomini: Nicola Carraro è tornato qui tre anni fa: lavoriamo molto bene insieme; lui è pieno di idee, di contatti, di iniziative. Ma la mia équipe è fatta soprattutto di donne. Lavoriamo tutti come dei pazzi. Sono riuscito a trasmettere ai miei collabora-
tori la mia passione per la città, per il libro che nasce qui a Milano, in questo ambiente tutto milanese che è una casa editrice un po’ speciale, con un particolare charme. Chi viene a lavorare qui lo prende con uno spirito unico, l’ambiente è accogliente, facciamo riunioni frequentissime, tutti partecipano, tutti portano le loro idee, le loro critiche, tutti amano i libri nuovi che escono, come li avessero fatti loro. E in parte è così, ma non vorrei che diventassero come me, che faccio qui le mie vacanze.» L’idea di una casa editrice con il suo nome non ha mai attirato questo superimprenditore del libro. Invece ecco sul mercato un altro «marchio vuoto» da prendere al volo. «Invece dodici anni fa, nell’82, ho acquistato Frassinelli: me l’ha venduta Adelphi, che si tenne gli autori più importanti e mi lasciò il marchio.» Ma Tiziano, il re del marchio vuoto, lo ha subito prestigiosamente riempito. «Questo marchio pulito, elegante, della casa editrice fondata da Cesare Pavese, negli anni Trenta, insieme con Antonicelli e a Ginzburg, era per me un passo obbligato. Perché con Sperling avevo ormai qualificato il marchio con edizioni commerciali di libri ad alta tiratura, di libri di attualità. Con Frassinelli ho preso un côté letterario che non potevo inserire in Sperling.» Tutte le volte che può Tiziano Barbieri vola a Londra. «Londra è la mia seconda città, dopo Milano, ritrovo quel clima culturale, così edificante, che si respirava
a Milano prima della catastrofe, dell’epidemia. Ma io sono sicuro che Milano guarirà presto.» Si tratta dell’ultima intervista rilasciata da Tiziano Barbieri, appena un mese prima della morte, e pubblicata postuma con il titolo «Certi libri, pieni di politica e di storia, si fanno solo a Milano» in Uomini & Business, anno VI, n. 7-8, luglio 1994.
Tiziano M. Barbieri Torriani, per gli amici Ciuffo Ricordi e testimonianze
Donatella Barbieri Tutto è incominciato nei primi anni Settanta. Mi ero laureata e avevo lasciato la Fratelli Fabbri Editori, dove ero stata assunta al primo anno di università, per entrare in un gruppo di ricerca. La Fabbri era stata una straordinaria scuola di editoria che aveva fatto nascere in me il senso e la percezione di quel pubblico smisurato, affascinante e difficile che, in edicola, decreta grandi successi (come nel caso della Fabbri di allora, appunto) o terribili sconfitte. Era stata un’esperienza bellissima e ricca di soddisfazioni professionali, ma avevo sempre pensato di proseguire gli studi e l’editoria non rientrava nei miei progetti per il futuro. Almeno, così credevo. Frequentavo il mio gruppo, collaboravo con l’istituto di ricerche Eurisko e stavo per iscrivermi a un corso di specializzazione quando Tiziano, che aveva appena rilevato la Sperling & Kupfer, mi ha detto: «Perché butti la tua competenza editoriale? Vieni qualche ora in casa editrice…» Era il 1972: sono andata, dividendomi fra studio e lavoro, ed eravamo in cinque. Nel 1981 eravamo in trenta, avevo definitivamente lasciato l’università ed ero direttore editoriale della Sperling, che aveva riconquistato un posto nell’editoria, una quota di mercato, uno spazio nelle librerie. Tiziano l’aveva rilanciata riprendendo la pubblicazione delle novità straniere, l’attenta commercializzazione dei libri, lo slancio innovativo che avevano carat-
terizzato fino agli anni Quaranta il successo e il prestigio della casa editrice. Aveva mantenuto questa continuità per una fortunata sintonia fra la sua sensibilità di editore e quella di chi lo aveva preceduto. Nell’interpretare secondo i tempi lo spirito editoriale e commerciale della vecchia Sperling, aveva istintivamente seguito l’intuizione che ci fosse un pubblico ampio, trasversale, per una casa editrice che riproducesse la realtà nelle sue forme attuali e ne cogliesse il divenire. È andato incontro a questi lettori alimentando ogni giorno il suo lavoro con curiosità, fantasia e creatività, impegnato in una sfida appassionante. Aveva pubblicato i best-seller americani e inglesi e i romanzi degli scrittori stranieri emergenti o promettenti, e nelle collane di saggistica (molte e di genere diverso) testi stranieri e italiani su esperienze, testimonianze, spunti, problematiche, tensioni, temi di attualità, senza esclusioni di parte né a priori. Con la rapidità delle scelte editoriali, la freschezza dei nuovi progetti, il coinvolgimento diretto dei librai nel lancio delle novità e la scelta di un formato medio, in brossura, che collocava i libri Sperling nella fascia di mercato, allora poco sfruttata, a metà tra i rilegati e le edizioni economiche, Tiziano aveva stabilito il contatto con il suo pubblico, più ampio e fedele di quanto avesse sperato. In pochi anni le doti imprenditoriali, la forza e la vitalità del suo disegno editoriale si erano imposte nell’editoria italiana degli anni Settanta che, dopo la morte di Angelo Rizzoli e di Arnoldo Mondadori (avvenute
nel 1970 e nel 1971), sembrava più orientata a custodire la propria identità culturale che a colmare il distacco dalle librerie e dai lettori. Nel 1981 Tiziano si era posto il problema di riprendere la tradizione letteraria della vecchia Sperling legata a «Narratori Nordici», prestigiosa collana degli anni Trenta diretta da Lavinia Mazzucchetti. Si era reso conto, però, che i successi di vendita avevano dato alla Sperling una connotazione commerciale inadatta a quel tipo di produzione. Il problema si è risolto quando Erich Linder gli ha proposto di rilevare la Frassinelli. Nata a Torino nel 1931 da Carlo Frassinelli con Cesare Pavese, Franco Antonicelli e Leone Ginzburg, la casa editrice era inattiva da molti anni ed era stata acquistata nel 1965 da Luciano Foà, che aveva ripubblicato alcune delle sue opere più prestigiose con Adelphi, di cui era il fondatore. Tiziano ha concluso velocemente l’acquisizione, mi ha nominato presidente della Frassinelli e siamo andati a Torino con Foà per conoscere l’ultraottantenne editore, unico sopravvissuto dei quattro illustri amici. L’abbiamo incontrato nella sua tipografia dove, come ci ha spiegato, erano stati stampati quei libri meravigliosi che avevo letto facendo attenzione a non sciuparne le pagine sottili e le copertine preziose. In seguito, sono ritornata a Torino altre due volte, da sola, per ascoltare la storia della Frassinelli con tanti aneddoti ed episodi su Pavese, Antonicelli, Ginzburg e i personaggi d’allora. I racconti vivacissimi di quel-
l’uomo speciale, perdutamente innamorato dei libri, fanno parte dei miei ricordi più belli. Intanto, Tiziano e io avevamo scelto fra le proposte del grafico John Alcorn il marchio, l’impostazione grafica delle copertine, il formato e la confezione dei nuovi libri, ma ci chiedevamo quale potesse essere il titolo più adatto per rilanciare la Frassinelli e catturare l’attenzione del pubblico e della stampa. Il vecchio catalogo, con L’armata a cavallo di Bàbel, Moby Dick di Melville e Le avventure di Topolino di Walt Disney, esempio di intelligenza editoriale e di anticonformismo culturale, ci ha aiutato. Abbiamo scelto un grande volume su Marilyn Monroe con fotografie inedite di Bert Stern pubblicato in Germania da Schirmer-Mosel, una delle case editrici più importanti del mondo per questo tipo di editoria. Un mito ritorna con un mito, è stato il titolo del comunicato stampa che nell’ottobre 1982 annunciava la rinascita della Frassinelli con la pubblicazione di Marilyn viva di Stern seguita, subito dopo, da L’albergo bianco di D.M. Thomas, che ha avuto entusiastiche recensioni su tutti i giornali e un successo di vendita superiore alle nostre aspettative. Lavoravo ai titoli successivi quando sono stata convocata a Torino dall’avvocato di Carlo Frassinelli, molto turbato dal romanzo di Thomas pubblicato dalla casa editrice che portava il suo nome. Ero preoccupata e mi chiedevo se andare all’appuntamento accompagnata da un legale. Ne ho parlato con Tiziano.
«Hai qualche dubbio sulla scelta de L’albergo bianco?» mi ha chiesto. «Nessuno.» «Vai da sola e difendi il tuo libro.» Il colloquio è durato circa due ore alla presenza di un giovane, elegante avvocato che non ha pronunciato neppure una parola limitandosi ad ascoltare con attenzione le mie risposte alle domande di Carlo Frassinelli sui miei studi, la mia formazione professionale, i miei gusti letterari. Infine, mi ha chiesto perché avessi pubblicato L’albergo bianco. Alla conclusione della mia spiegazione si è alzato dicendo: «Venga, la scorto con la mia macchina fino all’imboccatura dell’autostrada». Il mattino dopo, affacciandosi alla porta che metteva in comunicazione i nostri due uffici, Tiziano mi ha domandato: «Hai vinto o hai perso?» Non ho saputo rispondere, ma due settimane dopo Carlo Frassinelli mi ha telefonato: «Mi danno un premio per la mia attività di editore. Sa, non ho l’abito adatto… e poi ormai è lei la Frassinelli. Vada a prendere quello che le daranno e lo tenga nel suo ufficio». Morì pochi mesi dopo quel nostro ultimo colloquio. La Frassinelli ha continuato a pubblicare opere letterarie di grandi scrittori come Camilo José Cela, Toni Morrison, José Donoso ma, per qualche anno, non ha più avuto risultati di vendita paragonabili a quello de L’albergo bianco. I libri avevano spazio ed evidenza sulle pagine culturali dei giornali ma erano finanziati dai
successi continui e sempre maggiori che raccoglievamo con la Sperling, tra cui spiccavano i romanzi della prima scrittrice italiana di best-seller, Sveva Casati Modignani, nata con noi. Poi, con Frassinelli abbiamo vinto il primo Nobel per la letteratura assegnato a Cela e il secondo Nobel sarebbe arrivato nel 1993 con Toni Morrison, ma io avevo già lasciato le case editrici. Alla fine del 1988, infatti, mi era stata offerta la possibilità di acquistare l’ALI, storica agenzia letteraria fondata nel 1898 da Augusto Foà, padre di Luciano, passata dopo la morte di Erich Linder, nel 1983, al figlio Dennis. Tiziano mi ha incoraggiato e spinta ad acquistarla. Ero cresciuta nelle case editrici e avevo vissuto la progressiva trasformazione dell’editoria con la formazione dei grandi gruppi editoriali: l’ALI poteva diventare un punto di riferimento sempre più importante per gli scrittori e le case editrici. Tuttavia esitavo. «L’ALI è un mito, come lo erano la Sperling e la Frassinelli. Prendila», mi ha detto Tiziano. Ero consigliere della Sperling e presidente della Frassinelli: ho acquistato l’ALI lasciando le case editrici, le cariche ufficiali, i consigli di amministrazione e, soprattutto, interrompendo faticosamente una lunga consuetudine di vita e di lavoro con Tiziano che, se fosse proseguita, avrebbe reso ancora più lacerante, il 30 maggio 1994, il distacco da lui. Fratello, alleato, complice, Tiziano è stato il compagno di lavoro con cui ho diviso speranze, emozioni, entusiasmi, costruito e realizzato bellissimi progetti e raccolto tanti successi, ac-
comunati come eravamo dalla stessa passione per i libri e da una affinità profonda, indefinibile e un po’ misteriosa che caratterizza a volte i legami di sangue. Tiziano se n’è andato da questo mondo all’improvviso, e non ho potuto ringraziarlo per la splendida avventura in cui mi ha coinvolta e per tutto quello che mi ha insegnato. Lui, invece, sulla prima pagina del catalogo storico pubblicato per i novant’anni della Sperling, che mi ha mandato all’ALI dove ero da qualche mese, ha scritto: A Donatella M. Barbieri «ARTEFICE».
Giuseppe Baroffio Quando Tiziano Barbieri, nel 1989, mi chiamò a lavorare con lui, la Sperling & Kupfer era una realtà aziendale che conoscevo poco. Avevo tuttavia una «mia» immagine della casa editrice, legata a un episodio di qualche anno prima: in occasione di una presentazione di una cedola strenne, si era fermata di fronte a noi una Volvo station wagon rossa, da cui continuavano a uscire donne… Ecco, questa era la Sperling, un’azienda tutta al femminile, che Tiziano aveva creato e plasmato. Il nostro rapporto fu caratterizzato fin dall’inizio e per tutta la sua durata da lunghi e bellissimi silenzi. Il motivo era molto semplice: in realtà non avevamo granché da raccontarci perché entrambi, per carattere, provavamo un immenso piacere a fare molto più che a parlare. Alla festa di Natale ci scambiavamo poi un abbraccio «rituale», accompagnato da una parolaccia per esorcizzare l’arrivo del nuovo anno. Era un modo per augurarsi che ci fosse concesso altro tempo da passare insieme, ma sembrava strano per gente che non era per niente abituata a toccarsi. Capitava spesso che, nelle nostre giornate lavorative, ci lanciassimo con grande impegno in discussioni sui temi di gestione economica della società: valutavamo opzioni alternative di organizzazione, affrontavamo elaborate e approfondite analisi da cui, a dire il vero, poi non usciva granché. Eppure ci piaceva. La verità, probabil-
mente, stava nel fatto che la Sperling di quegli anni non faceva ancora grandi numeri e Tiziano amava presentarsi ai soci mondadoriani valorizzando al massimo le potenzialità della sua casa editrice. Ci piaceva comportarci da grande e brillante casa editrice, secondo una regola in cui credevamo fermamente: il successo si costruisce prima di tutto comunicando un’immagine di successo. Ricordo un episodio, in particolare: nel 1991, per festeggiare le vendite quasi inaspettate, almeno nelle dimensioni, de Il diario segreto di Laura Palmer, Tiziano decise di regalare alle ragazze della casa editrice Ilde Buratti, Carol Art, Elisabetta Prando, Marzia Kronaver, un viaggio-premio a New York. Suggellava così un’operazione riuscita e confermava all’esterno la nostra immagine vincente: eravamo gente che si sapeva vendere alla grande, che preferiva di gran lunga parlare dei successi. Nei nostri anni di lavoro comune, a me come a lui piaceva pensare che insieme saremmo diventati veramente grandi. Ricordo certi momenti in cui, con una certa dose di ingenuità, ci trovavamo a constatare dei risultati positivi e, sull’onda dell’entusiasmo, Tiziano abbandonava la consueta prudenza e proponeva: «Quasi quasi compriamo una Jaguar. Non sarebbe male come macchina aziendale, no?» Derivava dalla sua attenzione a tradurre anche nel linguaggio corrente, fatto di status symbol e, perché no?, di un briciolo di vanitosa ostentazione, i successi della casa editrice. Per inciso, la Jaguar non fu mai comprata: prevalse infatti l’anima dell’amministratore attento…
Da questa stessa capacità di motivare la propria squadra a dare il meglio di sé discendeva la cura con cui preparavamo le nostre presentazioni in pubblico. Non cercavamo effetti speciali o trucchi sofisticati, ma ci divertivamo a prepararci con meticolosità e serietà per proporre un’immagine vivace del nostro lavoro. Così, pochi giorni dopo la morte di Tiziano, io, Marina Mei Gentilucci e Carla Tanzi andammo a presentare la cedola strenne alla convention della Mondadori ad Amsterdam, e anche lì, dopo il commosso ricordo del nostro editore, proseguimmo il nostro lavoro e le nostre «gag». Mi chiesi, più tardi, dove trovammo la forza: forse proprio in quella abitudine ormai consolidata di presentarci all’esterno con un certo stile… Era un lunedì mattina, quando da Londra giunsero le prime notizie, sussurrate. Si diceva che fosse successa una cosa tremenda, che nessuno aveva il coraggio di pronunciare apertamente. Con il passare delle ore cominciò a trapelare la tragica verità: Tiziano era morto, all’improvviso. Aspettando una conferma mi dedicai a piccoli lavori, ma ebbi immediatamente chiaro che cosa si dovesse fare. Per me fu un momento estremamente importante, perché coincise con la prima decisione che presi senza di lui. E la decisione fu quella di radunare tutta la casa editrice e condividere la notizia. La sede di via Borgonuovo, uno splendido palazzo storico, aveva tuttavia un’incognita: la portata dei pavimenti. Fino a quel momento non ci eravamo mai riu-
niti tutti insieme in una stessa stanza e temevo che la soletta, già carica per scrivanie e libri, non avrebbe retto. Fu così che quel momento cruciale, tragicamente importante, ebbe un risvolto quasi comico: chiesi a tutti di disporsi lungo le pareti, nell’unica sala abbastanza ampia da permetterci di guardarci in faccia. Non servirono molte parole, e probabilmente non sarei riuscito a pronunciarne di più. Ricordo che dissi: «Ci ha scelto lui, ci ha scelto bravi, facciamo vedere quel che sappiamo fare». In fondo, anche a distanza di tempo, mi rendo conto che era l’unica cosa che si potesse dire: Tiziano lasciava un vuoto troppo grande in quella Sperling da lui creata, cui veniva a mancare di colpo il padrone e il «padre». In realtà, quando ci trovammo a fare i conti con un’assenza così pesante, ci accorgemmo di alcune cose che non ci eravamo mai detti e che a malapena avevamo notato. Che, per esempio, Tiziano aveva cominciato da qualche tempo a delegare alcune decisioni e che noi le avevamo prese in modo naturale. Che si era allontanato progressivamente dall’azienda e si era interessato ad altre cose, per raccogliere stimoli e idee fresche da portare poi all’interno della sua Sperling. Forse Tiziano sapeva di aver creato un’azienda in grado di camminare da sola, o meglio, che lui poteva guidare anche a distanza. Tiziano era sempre stato più attento all’orchestra che ai solisti ed era bravo a cambiare in fretta; anche quando sceglieva sull’onda di un entusiasmo che mal
si conciliava con la sua cautela abituale era immediatamente pronto a gestire l’emotività iniziale e rimettere a posto ciò che sembrava fuori controllo. Noi collaboratori scelti da lui, che ci trovavamo a «ereditare» la Sperling & Kupfer orfana dell’editore, avevamo una caratteristica comune: eravamo gente che non amava andare sopra le righe. E ci confortava, nelle riunioni e quando c’erano delle decisioni da prendere, l’idea di avere al nostro fianco un ospite assente. Cercavamo di evitare di parlare in suo nome e per suo conto, e in fondo non ci costava fatica: erano cose che diventavano facili e naturali per chi lo aveva conosciuto e ci aveva lavorato assieme. Nessuno si sarebbe mai permesso di fare il «Tiziano numero due». Ognuno faceva la sua parte. Quello fu un altro grande merito di Tiziano: di aver creato un mondo in cui erano chiare le parti, curiosamente in una commedia poco parlata. E questo, in un certo senso, ci permise di vincere la sfida lanciata da quanti ci davano per spacciati. Ricordo una riunione drammatica in cui sembrava ormai certo che Frassinelli sarebbe stata chiusa. Tiziano continuava a ripeterlo, ormai con una certa regolarità: «Si chiude, questa cosa», con quel suo tono che non ammetteva repliche. Ma appariva chiaro a tutti, lui compreso, che l’unica cosa che serviva alla Frassinelli era un ricostituente forte, un po’ da cavallo: semplicemente, un successo. Nell’autunno, era il 1993, avremmo avuto due titoli in cui credevamo molto, e che si sarebbero rivelati
due importanti best-seller. Il primo era I ponti di Madison County, che lanciammo con una modalità che era un po’ la nostra, apparentemente di grande confusione – dove lo mettiamo? In Sperling o in Frassinelli? Con quale prezzo? E il formato? E il titolo, poi, con quell’errore di grammatica… – ma in ultima analisi di estrema efficacia. Il secondo era Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés; avevamo non pochi timori: leggevamo quel titolo bizzarro e ci veniva da ridere… Sappiamo poi che il successo superò ogni nostra previsione. Conservo, ovviamente, molti ricordi del mio editore, ma mi è difficile rintracciarvi una vera e propria «lezione». Tiziano era uno che teorizzava pochissimo, non era nato con le caratteristiche del docente, ma era il suo modo naturale di comportarsi che spesso diventava una lezione: serio, severo, preciso al limite della pignoleria, eppure con un approccio estremamente dinamico su tutto. Era pronto a cambiare e sperimentare e poi tornare prontamente indietro. Oggi, a distanza di dieci anni, conservo il senso profondo di una collaborazione che funzionò bene e, contemporaneamente, una grande curiosità per quello che avremmo potuto fare insieme. Sentivamo entrambi, in quei primi mesi del 1994, che eravamo pronti per fare qualcosa di importante, e questa certezza, insieme con il ricordo del suo modo di lavorare con serietà e tenacia, non mi ha abbandonato. Tiziano non ha cessato di essere un punto di riferimento e un compagno di viaggio.
Aldo Busi Al rituale pranzo di Leonardo Mondadori a Venezia per la premiazione del Campiello 1992, lo sconosciuto signore di campagna che mi ero ritrovato vicino a tavola mi stava forse facendo il filo o mi prendeva in giro? e come era capitato lì, seppure non ammesso al tavolo di Sua Emittenza Imperiale? e perché, visto che al massimo doveva allevare muli o asini per gli Alpini? «Ah, De Michelis!» dissi a un tratto a uno corporeamente imponente dall’altra parte del tavolo, tanto per rompere il ghiaccio dell’afa che ci attanagliava le gole, «ma non è troppo gravoso, diciamo vergognoso, fare l’editore con un fratello simile?» e perché adesso il mio vicino, per ridere, incassava un po’ la testa calva ed emetteva un lungo squittio di scoiattolo gioioso di dover ingoiare una ghianda più grande del suo esofago? Poiché al tavolo c’era anche Cesare De Michelis della Marsilio, oltre a me stesso e a qualche appariscente portoghese donna, chiunque fosse il vicino che ogni tanto, come di nascosto, mi guardava con occhi stellati, non doveva essere nessuno di importante; e se proprio era nell’editoria anche lui, era perché, allevando equini per l’Esercito Italiano, nutrendosi i muli anche di cellulosa e essendo quindi lo sbocco naturale dell’editoria di questi anni, era stato certo chiamato da Leonardo per uno stock di carta da macero, ragguardevole, da far arrivare alle mangiatoie porto franco e, come dire, alla chetichella.
L’uomo la prendeva molto ampia, per mezzo di preziosi e irriassumibili monosillabi, non c’era verso di saperne di più e non volevo fare gaffe anche quest’anno con delle domande dirette, prima o poi sarei riuscito a sapere chi fosse; non sapevo nemmeno se mi piaceva, be’, sta a vedere se prima del dessert non m’invita nelle sue scuderie, piene ovviamente di alpestri stallieri, aitanti attendenti con la piuma sul cappello… […] «E lei che cosa fa di bello nella vita», non resistetti, gli dovevo pure offrire l’opportunità di uno scambio di battute, non volevo sembrare incivile, «oltre a essere sempre vestito per andare a caccia dell’anitra selvatica all’ultimo minuto?» «L’editore», rispondeva finalmente lui dopo aver verosimilmente contato fino a trentatré aprendosi in un sorriso da bambino cauto ma felice – oddio, pensai, uno degli Editori Riuniti! qui! –, «Ah», commentai, senza aggiungere altro. Adesso mi dirà pure di che casa, pensai. Macché. Piluccava placidamente, e mi guatava. […] «E di quale casa editrice, mi scusi la mia ignoranza di cui non può essere che responsabile lei, solo lei?» e lui, rinnovando la sua radiosità (aveva migliaia e migliaia di modi di sorridere, come se avesse sviluppato le infinite coordinate dell’alfabeto più da un capo all’altro delle labbra, fatte giostrare da sincronici, impercettibili movimenti delle ciglia, che non dalla lingua: parlava facendo vibrare una ruga, le narici, gli zigomi, che gli occhi provvedevano a dotare della esatta gradazione di ombra e di luce, ma per il resto si poteva dire che la
lingua la teneva solo come ruota di scorta; e nell’istante in cui apriva bocca, mi resi conto di una cosa, se io pensavo questo di lui, non era perché lui non aveva misteri per me dopo nemmeno un’ora ma perché io non avevo misteri per lui da sempre; e che potevo rilassarmi), «Della Sperling & Kupfer», disse, e poi, quasi sicuro di avermi deluso, usò le spalle su e giù pronto per difendersi, forse per scusarsi, ma io non glielo permisi, «Ma fate delle copertine assolutamente infernali! Ma lei è il non plus ultra dello chic! Cin cin!» me ne frega assai a me, pensai, della Sperling & Kupfer, e alzai il calice. Era stato a un party che avevo imparato da Camilla Cederna a bisbigliarti una cosa in un orecchio e a dirne tutt’altra ad alta voce. Mi pesava trasformato in carta o continuava a trovarmi irresistibile? Perla proibita per una delle tue collane, cocco, e anche per il tuo casottino di frasche sul Po, no, non me la fai, non mi porterai mai con te a caccia di anitre selvatiche, e poi chi dei due spara? Già, la Sperling, quelle copertine chiassose, sentimentalisticamente lapidarie, quel fatturato da capogiro, e tutti quegli editori seri che le stavano copiando… «E come si chiama? voglio dire lei?» aggravai, «Tiziano Bar… Barbieri», disse lui, e quell’incespicamento – del tutto finto, secondo me, e quindi un omaggio all’intelligenza ultima che regola il mistero della letteratura e segno dell’assoluta prostrazione dovuta da un vero editore anche all’ultimo degli scrittori ben sapendo lui che si stava comunque rivolgendo al più grande –, quell’incespicamento, frutto di una sapienza retorica volta a un calcolo e a una volontà di vit-
toria a tutti i costi su tutti me compreso, me per primo lì, mi lusingò e mi commosse, mi infastidì, anzi, mi irritò, e mi consegnai a lui. Non sapevo ancora che mi stava per vendere un tappeto e neppure che tutto ciò che volevo dalla mia vita di scrittore era comprare un tappeto da lui al più presto: mi ci vollero altri sessanta secondi per saperlo del tutto. Avevo ritrovato il mio Celestino Lometto per la vecchiaia, dopo quello della mia gioventù in Vita standard di un venditore provvisorio di collant. Il nostro cadenzato e minuettato colpo di fulmine finì quasi subito nell’alcova della sua tipografia di fiducia. Prima che Barbieri morisse avevo chiesto a lui il permesso di calmare le acque mondadoriane, tempestose nei suoi confronti e a causa mia, visto che avevo già dato alla Sperling sia il Manuale del perfetto gentilomo, sia il Manuale della perfetta gentildonna e, soprattutto, l’imminente Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) per la Frassinelli. Che ne diceva se davo a Gianni Ferrari, e quindi a Gabriella Ungarelli, un libro, un epistolario italiano di fine millennio, per fine ’95, se lo tradivo un pochettino? e lui, in un raro momento di follia e di stanchezza (le dive stremano), aveva detto di sì, cioè di no, cioè: mi aveva guardato in un certo modo, disponendo il pallottoliere della sua espressività in maniera che contenesse entrambe le risposte lasciando a me di scegliere fra le due sfaccettature dello stesso sorriso. Non tenni conto del fatto che, mentre sorrideva, si era inventato uno strabismo ad hoc, visto che tutto un
occhio gli tirava verso la nicchia della parete dove, fra il ritratto di Marlene Dietrich e quello di due bambine, aveva messo il mio, come a dire: come è possibile trovarsi lì e aver ancora a cuore di pensare di andare altrove? Ma se era solo una scappatella… È giusto che la storia fra un vero editore e un vero scrittore sia una storia fra amanti, anche se l’editore è uno e i suoi scrittori tanti è sempre una storia a due, fatta di gelosie, di ripicche, di pugni sul tavolo, di giochi sottobanco, di seduzione, infine. Le bizze, i pianti (infinti, e pertanto abbondanti e passionalissimi), i giuramenti di eterno amore (ed eterno mantenimento) che Arnoldo Mondadori non ha allestito per le bisogne psichiche e psicopatiche dal primo dei suoi purosangue all’ultimo dei suoi ronzini! E Barbieri era così: l’erede naturale di Arnoldo, di Valentino Bompiani, di Longanesi, i più grandi amanti puri di scrittori. Non per niente si andava dicendo di lui, da ultimo degli editori qual era stato considerato almeno per un lustro di troppo (e alla faccia dei fighetti dell’editoria o «seria» o «impegnata» o «di qualità» o «di sinistra») che era l’ultimo editore rimasto, l’ultimo grande corteggiatore corpo-a-corpo di scrittori. Lui era pronto a fare carte false, magari facendosele scrivere da te, ignaro, per portarti via un libro, e riuscire a portare via un libro a uno scrittore già compromesso con un altro pappa, significa in fondo convincere una puttana della sua miracolosa verginità: non è facile, proprio perché i soldi si danno per scontati. Occorre una finzione in più, quella della passione. Con la dif-
ferenza che il gioco editorialpatetico fra noi due era un aquilone leggiadro e leggero ancorato a un filo d’acciaio ancorato a sua volta a un macigno grosso come una casa, ovviamente editrice. Nessuno sdilinquimento o scenamadre fra di noi: l’unica possibilità che aveva di portarsi via Cazzi e canguri era il dimostrarmi che non lo voleva per mera vanità di editore, ma perché gli piaceva, perché lo sentiva. Era rimasto davvero l’ultimo editore, non era soltanto uno dei primi azionariati? Me lo dimostrasse. Come condizione, gli posi quella di venire a casa mia e mettersi a leggerlo davanti a me: mi sarei messo davanti a lui e avrei scrutato la sua faccia dalla prima riga all’ultima pagina. Durata prevista: dalle tre alle cinque ore. Venne. Ogni tanto si alzava, sempre più pallido e roseo o rosso e paglierino, e senza guardarmi usciva in giardino. Solo a metà libro gli concessi di finirlo con calma a Venezia, dove era diretto. In ostaggio, perciò, mi lasciava Carla Tanzi, sua mente destra scientemente sinistra: potevo continuare a scrutare nella sua di faccia. Poi, prima che uscisse, ci ritrovammo da soli in cucina, non ricordo se fu lui o fui io a chiudere la porta, per alcuni attimi ci parlammo, del libro e della morte, lo facemmo con molta venerazione per la vita, poi ritirammo giù il sipario con ogni pudore. Oggi so che lui aveva un pensiero in più di me e che aveva voluto mostrarmelo per quel che era, io mi rifiutai di registrarlo e gli ero grato del dono. Nei due giorni seguenti mi chiamò a una media di
una volta ogni dieci pagine: parlava a raffiche corte, col fiato mozzato in gola. La voglia di vivere che gli aveva dato quel libro! Quella voglia in più mi inquietava perché se uno ce l’ha, ce l’ha perché… Tanto per dire lo stato di grazia comunicazionale fra me e Barbieri: ho impiegato due anni prima di sapere che non mi stava facendo il filo, che lui il filo lo faceva soltanto a sua moglie e che quindi, avendo una moglie e facendole addirittura il filo, era pertanto sposato e probabilmente felicemente sposato. È stato soltanto all’inizio dell’anno che ho saputo anche che era padre, irrimediabilmente felice, di due figlie, le due bimbe della foto sotto la mia. Quando ami qualcuno, come io ho amato Barbieri, non indaghi, non vuoi sapere da altri ciò che lui decide o meno di farti sapere, e che volgarità applicare la psicologia con chi ti prega di accettarlo per l’eternità. Anche la conoscenza ti sembra un di più, qualcosa regalato a qualcuno umiliato dalla fretta di dover fare due più due. È stato solo alla sua morte che dai necrologi sono venuto a conoscenza, con raccapriccio, che gli intimi lo chiamavano addirittura Ciuffo: è l’unica cosa che non gli perdono, non solo l’uso di questo soverchio vezzeggiativo, ma soprattutto che molti, troppi, l’avessero chiamato così e io mai una volta. Comunque, il segreto ultimo di questo vero editore, che riusciva a far sentire la sua sola odalisca anche Sveva Casati Modignani che sono due, e già marito e moglie, era semplice, e anche a questo svelamento sono arrivato per impercettibili gradi della sua lungimi-
ranza espressiva. Barbieri doveva avere un centro occulto (tipo La lettera rubata di E.A. Poe) che regolava e dominava la generosità dei suoi affetti e dei suoi sorrisi da conquistador sul mondo. Qual era il primo e l’ultimo dei suoi pensieri di giorno e di notte? Era così discreto lui e così discreto io (che, per non disturbarlo, per non fargli perdere tempo, resistevo alla voglia di salutarlo andandomene se già l’avevo salutato arrivando in casa editrice: ma lui l’avrà capito che non era per sciatteria e che quel mio modo di levare i tacchi, mai a spillo lo giuro, era un’altra forma del mio rispetto?), che per un estraneo non era facile arrivare a questo centro: tanto più era vago lui al proposito, tanto più sentivi che questo centro esisteva e palpitava, e che era pronto a difenderlo con unghie e denti. Per un po’ ho pensato: be’, è la sua casa editrice. Sbagliavo: era semplicemente la sua famiglia. Una famiglia con molti rami, e tutti essenziali, primari. Da solo non ci sarei mai arrivato: ho dovuto servirmi della ragione quale condensato dei sentimenti più raffinati. E io non ho molti sentimenti raffinati, e anche la mia famiglia è quel che è: una famiglia che non c’è stata prima ma che c’è solo adesso… Nella settimana successiva alla sua morte, mi sono trovato a farne di tutti i colori, oltre a piagnucolare all’improvviso e a inveire, in preda a vere e proprie crisi di gelosia, contro i troppi necrologi, secondo me, di buoni sciacalli, per non dire coccodrilli, dell’ultimo minuto. Ma come si permetteva questo e quest’altro di dire parole d’affetto, di cordoglio, di pena? […]
Molti si sono stupiti del mio necrologio, Giovanni Ungarelli della Rizzoli mi ha detto: «Sei uno scrittore sempre, sei unico sempre», fra l’ammirato e lo sconsolato: consolati, Ungarelli, vedrai, ne farò uno bello anche per te, ma non ora, non farmi fretta anche tu. Ti basti sapere che sarò puntuale, e amen. Certo, il mio necrologio per Barbieri era speciale, ma non solo sono speciale io, era speciale lui (e adesso, tutto in un minuto, da dove saltava fuori che si chiamava anche Maria nel mezzo e anche Torriani nel mezzo di un altro nome per intero eppure parziale); non è che, pur nella sua sintesi esemplare, abbia dovuto pensarci tanto e dirmi, devo fare bella figura con gli editor e i barcavelisti milanesi, mettici del rococò, un po’ di Tiffany, la brezza di Stoccolma il giorno del Nobel e impiega bene le 456.000 lire che ti spillerà il Corriere della Sera per far vedere parte dell’estetica di cui è capace il tuo dolore. È stato facile, la penna è scesa sul bianco ed è uscito il nero: «Ammiravo Tiziano per la sua generosità umana, amavo Barbieri per la sua sagacia editoriale. Ammirerò e amerò Tiziano Maria Barbieri sempre. Grazie del luminoso ricordo che lasci in me». A parte Maria, che l’hanno messo loro, non una parola di più, non una parola di meno. L’esattezza del sentimento delle mie parole per lui. Potevo anche metterci la parola «dolore», pur con qualche fronzolo come faccio io che non voglio più soffrire per niente e per nessuno quando soffro, ma allora ero troppo stordito, anche se lucido, è una parola
che starebbe meglio adesso, sarebbe dolore e basta, e più mi passa il tempo più è dolore. Io sarò anche Monsignor Diabolus, ma tu ci hai fatto uno scherzo da prete che non dovevi, Ciuffo. Pubblicato con il titolo «In memoria di Tiziano Barbieri e di come ha fatto suo questo libro» in Cazzi e canguri (pochissimi i canguri), Frassinelli, Milano 1994.
Nicola Carraro Mi piace iniziare questo mio ricordo del Ciuffo raccontando una storia inconsueta, che risale al 1977-1978. Ero entrato in Sperling da un paio di anni e in quel periodo cominciai a fare pressioni su Barbieri perché la casa editrice compisse un’accelerazione importante. Portavo in dote dal mio precedente lavoro in Rizzoli una serie di conoscenze: ero stato per anni assistente di Enzo Biagi – il mio maestro – e avevo lavorato con Oriana Fallaci. Dissi al Ciuffo: «Sono miei amici, possiamo strapparli al loro editore e compiere il salto di qualità. Ma bisogna mettere mano al portafogli e offrire un anticipo importante». Incontrammo entrambi, ma quando fu il momento di formulare una proposta economica precisa, Barbieri si dimostrò restio: in nome della sua leggendaria prudenza, ma anche, forse, perché aveva visto lungo e sapeva che in quel momento un’accelerazione brusca sarebbe stata un rischio troppo alto. Ciò detto, Barbieri non era certo uno che mollava l’osso. Ai tempi Oriana viveva una storia d’amore importante con Panagulis, eroe della resistenza greca e protagonista del suo romanzo Un uomo. Io l’avevo incontrato a Ischia: era tornato libero da poco e mi aveva colpito la sua incredibile sete di vita e di libertà. Un po’ perché era un grande personaggio, di sicura presa sul pubblico, e un po’ anche per cercare di ingraziarci la Fallaci, ci sembrò la persona giusta cui chiedere un li-
bro, ma lui – ahimè – scriveva poesie. Decidemmo comunque di incontrarlo e lui invitò me e Tiziano ad Atene; lì ci aspettava, in onore alla fama di «amministratore oculato» del Ciuffo, una sola camera d’albergo con letto matrimoniale… Panagulis era davvero un tipo esuberante. Ci convocò alle dieci a cena in un ristorante, ma la festa proseguì in tutte le osterie, i night, i posti di malaffare della costa ateniese, fino all’alba. In ogni locale in cui entravamo la gente tributava al suo eroe una standing ovation e lui era scatenato: mangiava e beveva, ballava, rideva, scherzava con le ragazze. Non ci misi molto a farmi travolgere dal clima di festa e mi ritrovai presto piuttosto alticcio. Barbieri, intanto, rimaneva impassibile: osservava, studiava, sembrava prendere mentalmente nota di cosa gli succedeva intorno. E pensava. Così, quando alle sei del mattino rientrammo in albergo – io completamente distrutto, lui fresco come una rosa – mi disse: «Ma… che libro pensi che potremmo fargli fare?» Rimasi senza parole. In quel delirio di festa, alcol, donne e musica lui aveva pensato tutta la notte al libro di Panagulis. Ecco, questo era Barbieri: un grande editore, al cui cospetto bisognava togliersi il cappello. La nostra collaborazione e amicizia era nata qualche anno prima, e forse assomigliò di più a una storia d’amore, perché partì con un corteggiamento accanito da parte di Barbieri. Nel 1975 io ero uscito dalla Rizzoli, dov’ero amministratore delegato dei periodici, per dissensi famigliari. Avevo declinato varie offerte di la-
voro e assaporavo, per la prima volta, un po’ di libertà: cominciai a praticare assiduamente il golf, fino a diventare un ottimo giocatore. Un giorno mi iscrissi a una gara in un posto assurdo, lontano da Milano. Scorrendo la lista degli iscritti vidi che c’era anche lui, Tiziano Barbieri, che conoscevo fin da ragazzo – lo chiamavamo Ciuffo – ma a cui non ero legato da un particolare rapporto d’amicizia. Fu solo quando mi si avvicinò al bar, alla fine del calvario golfistico (Barbieri infatti giocava malissimo), che capii perché si trovasse lì per quella gara. Iniziammo a parlare e mi propose di entrare come socio nella piccola casa editrice che aveva rilevato da poco, la Sperling & Kupfer. «Che brutto nome!» gli dissi. «E poi, io non so niente di libri, vengo dai giornali. Scusa, per curiosità, voi quanti siete?» «Cinque.» A me, che venivo dalla Rizzoli, la cosa faceva sorridere. E per togliermelo dai piedi gli risposi di farmici pensare. Dopo tre mesi lo rivedo a un cocktail. Anche qui mi marca stretto e finisce per passarmi un libro, Tabù: «Leggilo e poi mi dici cosa ne pensi». Lo lascio perdere per sei-sette giorni, fino a quando lo prendo in mano e mi ci appassiono. Chiamo prontamente il Ciuffo: «Bel libro», gli faccio. E lui ritorna sul suo progetto: «Vieni con me, la Sperling ha bisogno di uno come te…» In quel momento non ero nemmeno sfiorato dall’idea di entrare nell’editoria libraria, per di più in una realtà piccola come quella della Sperling. Per me sarebbe stato come passare da uno squadrone di serie A a una squa-
dretta provinciale, di serie C. Eppure lui insiste, finché, sfinito, gli chiedo: «Insomma, quanto mi costerebbe?» «Sono 80 milioni.» Non una somma esorbitante, ma comunque una bella cifra, in quegli anni. «Se vuoi entri col 60 per cento, sono 50 milioni», aggiunge. Alla fine ci accordiamo sul 50 per cento, ma a una condizione: che io possa rimanere libero di seguire altre cose e che lui mi «insegni» il mestiere. Così iniziò tutto. L’editoria di quegli anni era caratterizzata da un mercato ristretto e ingessato, dominato dai grandi marchi storici: Rizzoli, Mondadori, Einaudi… Barbieri ebbe l’intuizione iniziale di puntare sulla narrativa popolare, in particolare straniera, che gli altri sembravano snobbare un po’. Ci buttammo a testa bassa negli spiragli lasciati dai grandi e da allora questa è rimasta una delle caratteristiche costitutive della Sperling & Kupfer. Nello stesso tempo, soprattutto per la mia spinta, cercammo di affiancare alla traduzione di opere straniere una produzione italiana. Cominciai a presentargli una serie di personaggi con cui avevo collaborato in Rizzoli: Tommaso Giglio, direttore dell’Europeo, Davide Lajolo, Gabriella Magrini, Lina Coletti, Paolo Pietroni, Sandro Parenzo, Angelo Guglielmi, Oreste del Buono, Gianni Minà. Io glieli portavo e Barbieri, paziente, trascorreva del tempo con loro, fino a trovare l’idea editoriale giusta. Ma che cosa potevamo inventarci di nuovo che ancora non esisteva? Guardavamo al mercato americano e ci chiedevamo perché in Italia non esistesse qualcosa
di simile a fenomeni come Danielle Steel o Barbara Taylor Bradford. Io conoscevo una coppia di giornalisti, Bice e Nullo Cantaroni, che avevano lavorato con me a Sogno, un giornale di fotoromanzi di cui Nullo era direttore. Perché non potevano essere loro gli autori che facevano al caso nostro? Perché non provare con un’inedita coppia di giornalisti a rinnovare l’editoria femminile popolare italiana? Era un’idea folle, far scrivere libri a chi faceva i fotoromanzi; ma Barbieri, sempre curioso, volle conoscerli e con tenacia si mise a costruire insieme con loro il primo dei successi di quel «marchio», che volle chiamare Sveva Casati Modignani: Anna dagli occhi verdi. Ecco, così ci dividevamo i ruoli: io non avevo know how librario, ero impulsivo e procedevo a intuizioni, ma poi toccava a lui, con la sua pazienza e il suo immenso amore per l’editoria, il compito di creare i libri veri e propri. Gli presentai anche Maria Venturi, i cui romanzi più tardi avrebbero conosciuto un successo notevole. A pelle non gli piacque e non la volle come autrice. Salvo poi, almeno dieci anni dopo e senza che ne avessimo più parlato, venire da me e dirmi: «Sai, sulla Venturi, avevi ragione tu: mi ero sbagliato». La nostra «storia d’amore» ebbe poi una battuta d’arresto, nel periodo in cui mi dedicai all’attività di produttore cinematografico. Un giorno, una decina di anni più tardi, incontrai Ciuffo in un aeroporto. Gli confessai che mi ero ormai stufato di Roma e del cinema. E lui, con molta naturalezza, mi propose: «Torna a
Milano, vieni a lavorare ancora alla Sperling». Subito la presi un po’ sul ridere: «Ma come, rientrare alla Sperling? Ci sei già tu, cosa ci vengo a fare io?» «Tu hai tanta fantasia», mi disse, «inventati un sistema per collaborare con me. Pensaci.» Così, nell’estate, andai a trovarlo in Sardegna. Lo vidi nella sua casa, per nulla abbronzato, anzi, bianco come un cencio: era forse l’unico in tutta l’isola che non prendeva il sole, non faceva il bagno, non andava in barca. Se ne rimaneva sul terrazzo attorniato dai manoscritti. «Ma cosa fai?» gli chiesi. «Leggo. Questo è l’unico periodo dell’anno in cui finalmente posso leggere.» Gli esposi la mia idea: sarei rientrato in Sperling con un contratto stravagante, come quello di un produttore esterno nel cinema. Io avrei portato l’idea, contattato l’autore e realizzato il libro. Lui avrebbe avuto il diritto di veto su ogni proposta e avrebbe pensato a produrre, stampare e distribuire il libro. E a fine anno ci saremmo divisi i proventi a metà. «Proviamo», mi disse. Allora gli chiesi quanto avrei potuto guadagnare in un anno. «Se sei fortunato puoi arrivare a 40 milioni.» Pescai di proposito una battutaccia dal mio repertorio: «Con 40 milioni, io mi compro le sigarette». Ma decisi di tentare ugualmente. Dai miei contatti americani scaturì la prima idea. Gli States impazzivano per Twin Peaks, una serie televisiva di cui in Italia non si era ancora sentito parlare. Gli dissi: «Guarda che è una bomba e c’è in giro questo libro, Il diario segreto di Laura Palmer, scritto dalla figlia
del regista...» Costava, se ricordo bene, 12.500 dollari, non proprio spiccioli per il suo modo di intendere l’editoria, ma non mi chiese né di vedere una puntata del serial né di leggere il libro. Disse: «Va bene», e basta. E con questa nostra prima operazione ci dividemmo 800 milioni. Così feci ritorno alla Sperling, dove trovai un clima eccezionale. In questo Barbieri era stato geniale: aveva creato un’atmosfera meravigliosa, con un gruppo di lavoro giovane, tutto al femminile e tutt’altro che omogeneo. Editor, grafici e commerciali provenivano da esperienze diverse, lavoravano con entusiasmo e creatività e trovavano nell’editore una persona che li ascoltava sempre. Insomma, Barbieri aveva creato un vero gioiellino imprenditoriale. Mi integrai benissimo con le girls, come le chiamavo, e nacquero una serie di iniziative importanti: portai in Sperling & Kupfer Michele Santoro, Ottaviano Del Turco – allora a capo della Commissione Antimafia –, Pupi Avati, Monica Vitti, Marcella Andreoli… Idee nuove che funzionarono. Barbieri non disse di no ad alcuna delle mie proposte. Ritrovai in quel gruppo fantastico la voglia di lavorare e cominciò un periodo bellissimo. Un giorno, qualche anno dopo, Ciuffo fece una cosa che non capii: volle diventare presidente del Circolo del golf di Barlassina. Era attratto da quella carica, che io consideravo soltanto una rottura di scatole. E fu allora, dopo le «lotte» per quella presidenza e l’esperienza alla guida dell’AIE, che cominciai a vederlo stanco.
Mi trovavo in un ristorante quando seppi della sua morte. L’avevo visto la sera prima e mi era sembrato davvero provato. «Vado a Londra», mi aveva detto. Aveva preso laggiù un appartamento, dove andava per rilassarsi. «E molla ’sta rogna di Barlassina», gli avevo suggerito. Nel sentire che Ciuffo era morto di ictus a Londra rimasi di sasso. Com’è ingiusta la vita, pensai. Se ne va proprio ora che finalmente ha ottenuto il meritato successo… Nel giro di poco decisi di lasciare tutto e partire per i Caraibi, dove ho vissuto per otto anni. Non sopportavo l’idea di vedere un amico morire per un eccesso di lavoro. Non volli comprare la Sperling: la consideravo «roba di Ciuffo», ed ero convinto che non gli sarebbe sopravvissuta. In questo mi sbagliavo: non avevo capito che Barbieri è stato talmente grande da avere successo anche dopo la morte. Credo che nessuno avrebbe scommesso una lira sul futuro della casa editrice: tutti – me compreso – pensavano: Finito Barbieri, finito tutto. Ma lui aveva saputo mettere insieme una squadra di collaboratori straordinari e aveva indicato una direzione precisa e coerente. Dopo la sua scomparsa la casa editrice non è andata avanti per inerzia, ma ha trovato nelle scelte e nel progetto di Barbieri la spinta per proseguire. La sua linea editoriale si è rivelata indistruttibile. Oggi tutto è cambiato, sono cambiati i ritmi di gioco, un po’ come nel calcio: l’editoria opera ormai a livello globale, per questo penso che l’esperienza di un editore come Barbieri rimanga unica e irripetibile. Certo,
sarebbe stato interessante vedere come Ciuffo avrebbe saputo sfruttare le nuove tecnologie e quali idee avrebbe tratto da Internet e dalla televisione di oggi… Vorrei concludere ricordando una convinzione che abbiamo sempre condiviso: contano solo le idee, le grandi storie. Non importa se serviranno a fare dei libri, dei film o degli sceneggiati. L’importante è fiutare quelle giuste. Avevamo la nostra frase in codice con cui misuravamo le proposte: sia che ci rivolgessimo a un pubblico popolare, con la Sperling, sia che cercassimo di raggiungere le élite, con la Frassinelli, su una cosa siamo sempre stati d’accordo: «La corazzata Potëmkin mai». Perché, diciamoci la verità, La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca.
Sveva Casati Modignani Mio marito e io conoscemmo Tiziano Barbieri nel ’76. Fu Tommaso Giglio, ex direttore dell’Europeo, a farci incontrare. Nicola Carraro, che era appena uscito dalla Rizzoli, fece gli onori di casa alla Sperling, che allora era in via Monte di Pietà. Tommaso e noi due eravamo nell’ufficio del nipote di Angelo Rizzoli a presentargli alcune proposte per inchieste d’attualità. A un certo punto entrò Tiziano Barbieri. Sedette in disparte e ascoltò. Poi si parlò di compensi e, solo allora, intervenne per limare sui costi. Quando ce ne andammo, domandai a mio marito: «Chi è quel Barbieri che spacca il soldo in due?» «Il ragioniere, credo», disse Nullo. Era il padrone e non lo sapevamo. Tiziano era così: non si faceva notare e teneva il profilo basso. Parlava con voce sommessa. Più che altro, ascoltava. Non ho mai sentito una parola di troppo e nemmeno una volgarità da quelle labbra piccole, che arricciava nello stupore o nella perplessità. Siamo diventati amici nel corso di anni vissuti all’insegna di traguardi sempre nuovi. Fu Tiziano, con l’aiuto di sua sorella Donatella, a inventare la Sveva. Di lui ricordo gli occhi ridenti e lo sguardo riflessivo che diventava gelido nei momenti di contrarietà. Di lui ricordo la risata da bambino, il viso perfetto, la calvizie che gli stava bene sulla sua testa tonda e contraddiceva il nomignolo con cui veniva chiamato da tutti: Ciuffo.
Ricordo la sua parsimonia che, alla fine, era diventata quasi un vezzo e fonte di aneddoti. Era più facile strappargli un sorriso che mille lire. «Ma quanto mi costi», mi diceva, un po’ scherzando e un po’ sul serio. Il lamento arrivava puntualmente a fronte delle nostre richieste di ritocco sulle percentuali. Sapeva benissimo che erano richieste legittime. Era un galantuomo. Un giorno mio marito si mise a spulciare la proposta di un nuovo contratto. Disse: «Dobbiamo farci alzare l’anticipo e aumentare la percentuale per questo, per questo e per questo. Vai e discuti». Come sempre, mio marito caricava la batteria, cioè me, e si ritirava. Andai da Tiziano e lui, abilissimo, disse: «Perché non ne parli con Baroffio? È un uomo che conosce i numeri. Quello che deciderete insieme, per me andrà bene». Beppe Baroffio era alla Sperling da un paio d’anni. Fece il duro, ma con dolcezza. «Ma non vorrai perderti dietro queste stupidaggini!» Ero furibonda. Avevo una gran voglia di litigare con Tiziano e anche con mio marito che metteva benzina sul fuoco. C’erano altri editori, con offerte molto allettanti, che bussavano alla nostra porta. Non avrei lasciato la Sperling neanche morta, ma questo Tiziano non lo sapeva. Allora gli scrissi una lettera secca e puntuale. Nacque tra me e lui una contrattazione di tipo levantino. Mi rispose con una lettera di miele, tagliando la metà delle richieste. Replicai giocando al rialzo. Replicò scrivendo: «Mi hai sfinito. Va bene. Ma non chiedermi altro o dovrò strapparmi i capelli che non ho».
Allora gli telefonai. «Ma quanto mi costi», mi disse. «Adesso sei contenta?» Mi sarei fatta scannare, piuttosto che dirgli di sì. «Per ora», risposi. «Andata!» disse lui e mi mise sul tavolo un nuovo contratto da firmare. Poi mi mandò fiori e un dono. Mio marito disse: «Lo vedi che sei scema? Bastava insistere e ci avrebbe dato di più». Naturalmente «l’infame» aveva ragione. «Perché non l’hai fatto tu?» Nullo vestiva sempre il ruolo dell’uomo mite. Mi mancano le contrattazioni levantine con il mio editore. Di Tiziano ricordo un momento di grande malinconia. Capitava che mio marito e io andassimo a trovarlo di venerdì pomeriggio, a uffici chiusi. Ricordo il piacere di intessere chiacchiere nella casa editrice ormai deserta. In quei momenti Tiziano parlava, raccontava, era una fucina di storie e di idee, di sogni e di progetti: le nuove tecnologie, un quotidiano, una nuova casa editrice. Un venerdì d’autunno ci domandò: «Siete andati a trovare la Cocchina?» Donatella, detta Cocca, aveva lasciato la Sperling per acquistare l’ALI. Eravamo passati da lei, in via Manzoni e, insieme, avevamo preso un tè. Glielo dicemmo. «Mi manca», sussurrò. «Mi sento molto solo senza mia sorella.» Era proprio malinconico. Non l’avevo mai visto così. Una volta pubblicò un romanzo di Kirk Douglas. In televisione vidi il divo americano in un talk show e Tiziano, seduto tra il pubblico, sorrideva beato.
Mi telefonò due giorni dopo per dirmi che sarei dovuta andare a Roma come ospite della stessa trasmissione. «Non ti mando sola. Ti faccio accompagnare dalla Marzia.» Marzia Kronauer era il capo-ufficio stampa. «Mi sembra giusto», dissi. «Tu accompagni solamente le star.» E chiusi la comunicazione. Mi richiamò dopo dieci minuti. «Mi hai fatto una scena di gelosia. Te ne rendi conto?» Me ne rendevo conto ed ero arrabbiata. Lui rideva. «Ho noleggiato un aereo privato. Andremo a Roma insieme. Passo a prenderti a casa.» Approfittò della trasferta per portare in gita altre cinque ragazze della Sperling, un computer e non so quanti scatoloni di materiale per Marta Bellini dell’ufficio stampa romano. Lo steward di bordo ci propose dello champagne, mentre eravamo in volo. Lui mi guardò arricciando le labbra. Ero sicura che stesse calcolando quanto gli sarebbe venuto a costare. «Lo sai che sono astemia», dissi. Sorrise soddisfatto. Un giorno di maggio eravamo insieme a firmare copie di un nuovo romanzo: Come vento selvaggio. Tiziano mi disse: «Vado a Londra. Ci vediamo mercoledì in Costa Smeralda. Ho preparato una grande festa per il lancio del tuo libro». Non ci siamo più visti. Di lui mi rimangono le parole più belle: «Siamo nati insieme, io come editore e Sveva come autore». E una sua fotografia che da dieci anni è qui, accanto alla mia scrivania.
Giampaolo Pansa Conoscevo da sempre i libri della Sperling & Kupfer, ma non il loro editore. Poi, un giorno del gennaio 1987, lui mi telefonò. Disse: «Sono Tiziano Barbieri…» Stavo scrivendo un pezzo per Repubblica ed ero soprappensiero. Così domandai: «Barbieri chi?» Tiziano si mise a ridere: «Barbieri della Sperling. Ha presente?» Un po’ confuso, cascai in una seconda gaffe. E gli chiesi, troppo spiccio: «Che cosa vuole?» Sornione, Tiziano rispose: «Un libro. Voglio pubblicare un suo libro. Possiamo parlarne?» Qualche giorno dopo, ci incontrammo alla casa editrice, che a quel tempo stava in via Monte di Pietà, nel cuore della Milano delle banche e degli affari. La prima cosa che mi colpì della Sperling fu che era piena di donne, ben più dei giornali di allora. Donne tutte giovani, belle e indaffarate. Pensai: «Un vero dritto, ’sto Barbieri. Ha un contorno mica male. E poi le donne sono meglio di noi maschietti: lavorano sempre come muli». Anche Tiziano mi sembrò uno che aveva molto da fare. Ma mi resi conto subito che, a differenza di altri editori, non lo dava a vedere. Ecco la seconda cosa che mi colpì: il suo tratto disteso, tranquillo, di un’affabilità calma, propria del padrone di casa che accoglie per la prima volta un ospite, regalandogli tutto il tempo che serve per metterlo a proprio agio. Ripensandoci oggi, mi dico che anche il suo aspetto
era consono a quel tratto cortese. Un signore di sobria eleganza, in giacca blu e bella cravatta scura. Con l’espressione serena, lo sguardo attento, un sorriso da monello astuto e buono. E la famosa pelata offerta senza arroganza, tutto l’opposto di certi pelatoni fasulli d’oggi, che portano il cranio rasato come un’insegna di guerra. Mi spiegò con chiarezza quale libro voleva da me: un racconto della politica italiana di quel tempo, in presa diretta, quasi un film di montaggio, costruito con una parte degli articoli che in quegli anni ero andato scrivendo per la Repubblica di Eugenio Scalfari. Aggiunse: «Ho letto il suo Carte false, pubblicato l’anno scorso dalla Rizzoli. Lei raccontava i peccati dei giornalisti italiani. Mi piacerebbe che, adesso, lei narrasse i peccati dei nostri politici. E non volando a ottomila metri di quota, bensì rasoterra, con nomi, cognomi, episodi precisi, storie e storiacce con tutti i dettagli…» Gli replicai: «Posso provarci, dottor Barbieri. Sarà abbastanza semplice per me. Ma non altrettanto per lei». «In che senso?» indagò Tiziano. Stavolta fui io a sorridergli: «Nel senso che lei si farà un sacco di nemici». «Per esempio chi?» domandò. «Per esempio i pezzi da novanta dei partiti: De Mita, Craxi, Andreotti, Fanfani, i comunisti, Spadolini… Quando avrà in mano l’indice dei politici citati, faccia conto che, nove su dieci, li avrà contro, come uno sciame di vespe indispettite». Tiziano alzò le spalle: «Nessun problema, è proprio il libro che mi aspetto da lei». Nacque così il mio primo lavoro per la Sperling.
Uscito nell’ottobre 1987, era intitolato Lo sfascio. Un titolo molto duro per l’epoca. Tanto che, lì per lì, Tiziano lo rifiutò. Ma non per motivi di prudenza, bensì per ragioni di marketing. Sosteneva: «A Natale chi avrà voglia di comprare un libro che si presenta così?» Provai a spiegargli che molti italiani qualunque, quelli che chiamiamo gli uomini della strada, pensavano che la baracca della Prima Repubblica si stesse sfasciando. Ma non mi riuscì di convincerlo. Stavo cercando d’immaginare un altro titolo, quando Tiziano mi telefonò: «Questa mattina, mentre ero dal barbiere, ho riflettuto sulla sua obiezione. Ha ragione: lo chiameremo Lo sfascio. E metteremo lei in copertina. Ho una foto del Pansa a un congresso democristiano, mentre osserva con il binocolo capi e sottocapi della Balena Bianca. Con l’aria abbastanza schifata». Ma titolo e fotografia non dicevano ancora nulla. Gridava assai di più il sottotitolo: «Politici, politicanti, portaborse e malfattori». Ricordiamoci la data di uscita: quasi cinque anni prima del ciclone di Mani Pulite. Insomma, Tiziano aveva già capito tutto. E il suo occhio era stato capace di vedere quel che non era ancora accaduto, ma che era fatale accadesse. Un doppio merito, il suo: nessuna paura di pestare i calli a vip strapotenti e sguardo in grado di arrivare più lontano di tanti altri editori. Lo confermava anche la bandella editoriale del libro. Sono andato a rileggerla e ci ho trovato una singolare anticipazione dello zoo che sarebbe emerso con
Tangentopoli: «La truppa dello sfascio, i travet dei partiti, i sindaci nei guai, gli assessori in galera, i faccendieri, i professionisti della tangente, gli amici dei mafiosi, i mercanti di voti, i velinari travestiti da giornalisti, i candidati elettorali con le loro trovate demenziali, una folla che ben dipinge il rapido scivolare della politica italiana verso il burrone della mediocrità, dell’affarismo e del cattivo governo…». Che cosa volere di più da un editore? Ma a quel tempo, come autore di libri, ero un nomade. Dopo Lo sfascio lavorai per altre case editrici, sino a quando la sorte non mi riportò in casa di Tiziano. Era l’estate del 1990 e avevo scritto per la Rizzoli un libro sulla guerra di Segrate, ossia sull’assalto di Silvio Berlusconi alla Mondadori e al gruppo Espresso-Repubblica. Titolo: L’intrigo. Il libro era già stato prenotato e stava per essere stampato, quando dalla Rizzoli mi dissero, all’improvviso: non se ne fa più nulla, è un testo molto aspro con il Cavaliere, pubblicarlo è per noi un rischio troppo grande. Cercai di spiegargli che stavano cadendo in un errore grossolano: la storia si sarebbe risaputa subito, con un danno d’immagine non da poco per i rizzoliani. Ma non ci fu verso di fargli cambiare idea. Allora pensai a chi potevo offrirlo. E mi venne in mente un nome solo: Tiziano Barbieri, il più indipendente tra gli editori, il più capace di rischiare. Eravamo a metà agosto, gli telefonai e lo trovai come sempre al lavoro. Disse subito: «Lo prendo io». Gli replicai: «Non hai paura di Berlusconi?» Lui mi rispose
come gli avevo replicato io nella nostra prima telefonata: «Berlusconi chi?» Gli mandai le bozze, le lesse di volata e il giorno dopo mi chiamò: «Ottimo libro, lo stamperemo noi». Domandai: «Vuoi che cambi qualcosa?» Tiziano rispose: «Ma per chi mi prendi? Non c’è nulla da cambiare». L’intrigo uscì nell’ottobre 1990. Da quel momento non lasciai più la Sperling. Dopo il diario della guerra di Segrate, Tiziano mi pubblicò tre altri libri politici a sciabola sguainata: Il regime, I bugiardi e L’anno dei barbari. Poi ebbi la pensata di cimentarmi nel romanzo a sfondo storico o presunto tale. E Tiziano, generoso come sempre, invece di mandarmi al diavolo, m’incoraggiò. Mi avventurai nella mia prima prova: Ma l’amore no, una storia di gente comune nell’Italia della guerra civile. Quando uscì, nell’ottobre 1994, Tiziano non c’era più da qualche mese. Però ogni volta che consegno un manoscritto alla Sperling, mi par di scorgere la sua ombra cortese e benevola che mi sorride dicendo: sono qua accanto a te, non avere paura, vedremo di farcela anche questa volta!
Carla Tanzi «Vuoi venire a lavorare in Sperling? Non dobbiamo neanche parlarci… ci conosciamo da così tanto tempo.» Poche parole, come sempre. Niente preamboli. Così Tiziano Barbieri ha cambiato la mia vita, pochi giorni prima di Natale, nel 1991. Avevamo cominciato a lavorare entrambi alla Longanesi di Mario Monti: da lì lui, nell’ammirazione generale, aveva spiccato il volo a 32 anni per l’avventura della casa editrice in proprio. Era un momento di totale cambiamento. Gli editori tradizionali si stavano ritirando dallo scenario, alcuni morti, altri attratti dai profitti di una vendita che li metteva al riparo dai rischi di una economia in crisi, di un post boom economico dove il prezzo della carta andava alle stelle e la lira perdeva valore. Tiziano Barbieri riuscì a intuire le potenzialità del nuovo mercato e si lanciò in avventure che gli altri snobbavano o ritenevano sbagliate, non adatte al nostro Paese. Era un grande editore, innovativo, disincantato, senza pregiudizi, e un grande uomo di marketing con un approccio personalissimo. Anzi, la sua innovazione fu proprio integrare nel mestiere dell’editore concetti di marketing fino ad allora quasi sconosciuti, quali una attenta e capillare attività promozionale con i librai, la cura del punto vendita, l’utilizzo di gadget, espositori, copertine metallizzate. Tutte cose già viste all’estero,
ma che nessuno aveva avuto il coraggio di lanciare nel mercato tradizionalista italiano. Dopo i primi grandi successi, Il soldato dimenticato, Tabù, Bermuda: il triangolo maledetto, arriva la grande rivoluzione: Tiziano pubblica per primo in Italia i romanzi commerciali americani. Grazie all’aiuto di una protagonista dell’editoria internazionale di quegli anni, Natalia Danesi Murray, che Tiziano ha assunto come scout negli Stati Uniti, acquista i libri in testa alla classifica dei best-seller del New York Times: Sidney Sheldon, Danielle Steel, Robin Cook, Mary Higgins Clark, Stephen King, Dean Koontz, che nessun altro traduce, per snobismo culturale e per ignoranza del bisogno di evasione che il pubblico ha. Li compra anche perché su quei titoli non c’è concorrenza e li paga poco. Mister Bestseller, così viene soprannominato Barbieri, sa come lanciarli e venderli, ogni anno sempre meglio. L’editoria popolare, l’editoria dei best-seller comincia con lui. I media e il mondo intelletuale italiano snobbano un fenomeno che capiscono poco. Mister Bestseller ha anticipato i tempi, battistrada di un nuovo tipo di editoria e intorno a lui c’è tanta ammirazione ma anche tanta invidia... La leggenda ne parla come di un uomo molto fortunato, ma in effetti lui la fortuna sapeva coltivarsela. Sparagnino come pochi, sul day by day sapeva rischiare tantissimo e con velocità puntava, vinceva, perdeva, ri-
muoveva gli errori. Gli insuccessi erano pochi e quindi aveva il tempo di cercarne scrupolosamente le ragioni (come racconta la sorella Donatella, sua compagna d’avventura). Esplora il settore dell’informatica aprendo una casa editrice, Supernova, che poi chiude (infatti sperimentare e non lasciarci le penne era una sua dote), costella la città di striscioni per fare pubblicità a Turani e al suo libro su Giovanni Agnelli. Lancia in edicola le prime novelization: La febbre del sabato sera, in joint venture con Longanesi per evitare una inutile asta, Furia, albi per ragazzi basati sulla fortunata serie televisiva, e i romanzi di Beverly Hills 90210 (grande successo TV segnalato dal giovane editor Giovanni Arduino appena entrato in Sperling). Impone il primo best-seller all’italiana: Sveva Casati Modignani. Coglie con prontezza l’opportunità di portare nel catalogo Sperling giornalisti come Giampaolo Pansa e Gianni Minà. Era sempre uno stimolo, pronto a stupire senza mai darlo a vedere. «Ma perché Barbieri compra quei libri? In Italia non vendono!» Quando acquistò i libri di Beatrix Potter, serpeggiò proprio un mormorio di disapprovazione. «Questa volta non ce la fa, neanche lui che è così fortunato», pensarono tutti quelli che per anni avevano fermamente rifiutato la famosa serie inglese. Ci aveva visto giusto invece, anche quella volta. Fece una elegantissima festa di lancio che più British di così si muore, cui partecipò tutto il bel mondo milanese, e i libri della disegnatrice inglese divennero una moda.
«Allora vuoi venire a lavorare con me?» Neanche un secondo di dubbio, sembrava l’evoluzione naturale di una lunga conoscenza. Troppo forte la curiosità di scoprire dall’interno come funzionava una macchina così anomala, così totalmente diversa dalle mie esperienze. Troppo forte la voglia di lavorare accanto a lui: gli dissi immediatamente di sì (scompigliando decisioni precedentemente prese). Aveva una stima sconfinata per la sua scout negli Stati Uniti, Linda Clark, e la prima cosa che mi chiese di fare fu di parlarle al telefono per tranquillizzarla. Ovvero prima di farmi firmare un contratto volle essere certo che, oltre a lui, anche Linda approvasse il mio ingresso in Sperling & Kupfer, la casa editrice più americana d’Italia. In Sperling dovetti affrontare situazioni e problemi per me nuovi, che Tiziano mi lasciò disbrigare, apparentemente in totale libertà, in realtà attentissimo a tutto, nonostante i suoi mille impegni: il lancio del quotidiano L’Indipendente, la presidenza dell’AIE, la Festa del Libro. Nulla gli sfuggiva. Non un titolo, una copertina, un impaginato. Faceva mille cose spinto dalla sua insaziabile curiosità di sperimentatore. Ero arrivata in un momento di grande espansione della casa editrice: l’apertura delle collane economiche, i «Superbestseller» aveva dato ottimi risultati, due romanzi avevano venduto particolarmente bene, Il diario segreto di Laura Palmer e Balla coi lupi. Per un imprenditore come lui ogni successo era benzina per nuovi progetti. Aveva strutturato l’amplia-
mento della casa editrice su tre linee di produzione: affidando la varia a Mariagiulia Castagnone fino al dicembre ’91 e poi a me, la divulgazione scientifica a Emanuele Vinassa de Regny, il miglior editor del settore reperibile allora sul mercato italiano, e le collane di economia a Francesco Bogliari, proveniente dal Sole 24 Ore. A governare questo piccolo impero aveva posto, come direttore generale, un uomo di grande esperienza, Giuseppe Baroffio, affiancato da un responsabile amministrativo, Paolo Zucca. Gli era chiaro che per ingrandirsi era necessaria una struttura solida e fidata. Nell’aprile del ’94 propose ai pochi dirigenti di diventare soci in una nuova società destinata a sviluppare coedizioni e progetti speciali. Ero al settimo cielo. Ci parlammo al telefono per l’ultima volta, io a New York, lui a Milano. Mi aveva chiamato per annunciarmi che aveva concluso un accordo straordinario con Aldo Busi per una collana di cento classici tutti con nuove traduzioni. Avrebbe dovuto raggiungermi all’ABA a Los Angeles ma mi disse che era stanco e che aveva pensato di passare il weekend a Londra con la famiglia. «Non ti preoccupare», gli risposi: «Qui va tutto bene. Riposati. Ci vediamo tra pochi giorni in ufficio e ti racconto». Poi, alle quattro di notte del 30 maggio, arrivò una notizia sconvolgente. «Assurdo, assurdo, non è possibile, ma che dici…» Accanto a una disperazione assoluta, sorse profonda dalle viscere una rabbiosa reazione.
«Non puoi lasciarci così. Abbiamo un sacco di cose da fare!» E la decisione incosciente di continuare la corsa. In quel momento Giuseppe Baroffio e io non ci siamo fermati troppo a riflettere, a ponderare il da farsi. Era più importante agire, dimostrare che Sperling & Kupfer e Frassinelli erano vive anche se Tiziano ci aveva lasciato. Tutta la casa editrice reagì all’unisono con noi. E dopo pochi giorni eravamo riuniti in comitato editoriale in sala consiglio, grati alla moglie di Tiziano, ora nostra presidente, che da subito era venuta, con coraggio, a occupare la sedia a capotavolo. Un miracolo che trova spiegazione solo nella forza dell’opera di Tiziano e della sua personalità. Coltivare la memoria è un mestiere.
Franco Tatò Mettere ordine in una parte della biblioteca che si è trascurata per qualche anno è come fare un viaggio con gli amici di un tempo, gli amici veri con i quali si può riprendere il dialogo in qualsiasi momento. Così ho scoperto di avere una discreta collezione di libri cosiddetti d’intrattenimento femminile usciti negli ultimi venti anni: un genere ancora vivo oggi, con una straordinaria capacità di rinnovarsi, di scoprire nuove situazioni e nuovi interessi pur nella costanza dei temi di fondo e nella prevedibilità della struttura narrativa. Gli elementi di sogno che caratterizzano questo genere di narrativa mutano nel tempo seguendo l’evoluzione dei valori di riferimento dell’universo femminile. Un motivo interessante di riflessione è il fatto che quest’universo è abbastanza omogeneo nelle società occidentali, anche in quelle apparentemente molto diverse tra loro, una riflessione che vale anche per le società asiatiche che guardano all’occidente pur conservando una forte caratterizzazione. Ma non voglio aprire un dibattito sociologico. Sfogliando i molti titoli mi rendo conto quanti ricordi della mia amicizia con Tiziano Barbieri siano a essi associati. Ecco per esempio Anna dagli occhi verdi di Sveva Casati Modignani. Come ora tutti sanno Sveva Casati non è una persona fisica, ma un collettivo formato dalla coppia Bice Cairati e Nullo Cantaroni. Due autori bravissimi, ma che con quei nomi non sarebbero
andati da nessuna parte: Cairati e Cantaroni non suonano come Fruttero e Lucentini o Lapierre e Collins. Sveva Casati Modignani è un’invenzione di Ciuffo Barbieri, un Luther Blisset ante litteram. Tiziano era così convinto della scoperta, che me ne parlava come di una persona vera: «Per la prima parte dell’anno non abbiamo problemi, Sveva ha già consegnato il nuovo libro, per la seconda speriamo che Stephen King rinnovi il contratto». Non ho raccolto solo i libri di Sveva, unica autrice di successo italiana nel genere, ma anche tutte le opere di Danielle Steel, di Nancy Cato, di Kate Coscarelli, di Belva Plain e molte altre fino alle Sophie Kinsella di oggi. C’è un motivo che devo confessare. Infatti, non ho ancora abbandonato un progetto di cui parlai a Tiziano in alcune divertentissime sedute senza senso. L’universo di questi romanzi è molto ben definito e così i personaggi, tutti appartenenti a un certo strato sociale con sue regole specifiche. I problemi nascono dal travaso di valori da uno strato all’altro o dal confronto con problemi insospettati o che sfidano le regole consolidate. Drammi laceranti, amori romantici, intrighi, astuzie, incontri e lacrime fino all’immancabile ed essenziale lieto fine. Un libro che non finisce bene può diventare un classico, ma raramente sarà un best-seller. L’idea che discutevamo era quella di scegliere un archetipo – ci fu una lunga discussione sull’archetipo, lo stereotipo o il prototipo – da una storia, non necessariamente il protagonista che nel libro normalmente conclude la sua vicenda, e trasferirlo in un altro contesto scombinando le storie, costruendone di parallele.
Ci si poteva sbizzarrire anche se tutte le storie cominciavano con: «In quel pomeriggio d’estate faceva un caldo torrido». Potevamo scegliere questo modello vandalico o il modello Quentin Tarantino: una storia originale con citazioni riconoscibili dagli esperti. Abbiamo deciso per il primo modello, sicuramente più divertente e più spiegabile. Sapevamo benissimo che si trattava di un progetto impossibile e che non se ne sarebbe fatto nulla, se non il nostro divertimento, il piacere di stare insieme e parlare di libri, di quelli che si stampavano e pubblicavano e di quelli che rimanevano nostre invenzioni. Non ho mai smesso di raccogliere questi volumi che raramente leggo – non mi lascio sfuggire la nascita di un nuovo contesto, per esempio i «ricchi e famosi», o l’esplosione delle storie di donne che lavorano – come se il progetto continuasse e un giorno potesse essere realizzato. Ne parlo ancora con Tiziano e ci divertiamo moltissimo.
Giuseppe Turani Come capita con tutte le persone a cui si vuole veramente bene, è difficile immaginare che Tiziano Maria Barbieri Torriani – ma per noi è sempre stato solo e soltanto Ciuffo – non ci sia più. Eppure è così. Lunedì mattina, una telefonata annuncia che Ciuffo è morto, a Londra, improvvisamente, a soli 56 anni. Pochi giorni prima, il giovedì precedente, mi pare, era passato da casa mia, per parlare di libri. «Sono qui sotto, a venti metri da casa tua», aveva detto al telefono. «Se non sei occupato vengo su e chiacchieriamo un po’.» I libri sono sempre stati la sua passione. Fare l’editore, una delle poche cose che lo intrigavano veramente. E gli piaceva anche lavorare a modo suo. Amava la sua Sperling & Kupfer, che chiamava «la sperlinghetta». E la amava perché era sua, perché là dentro poteva lavorare come piaceva a lui, scegliendosi i libri uno per uno, tentando ogni tanto delle avventure nuove. Almeno un paio di volte all’anno piombava a casa mia e mi mostrava complicatissimi contratti con importanti case editrici per cedere la «sperlinghetta». «Sono stanco, ho voglia di stare con le mie figlie, vendo tutto. Guarda qui, mi danno una barca di soldi, e mi lasciano anche fare il presidente per i prossimi cinque anni, con uno stipendio da favola. Che cosa dici?» Giusto per farlo contento, gli suggerivo due o tre clausole nuove, con le quali avrebbe potuto incassare anco-
ra più soldi (a lui piacevano le diavolerie della finanza, proprio perché non le conosceva e non le praticava). Ma alla fine gli dicevo sempre la stessa cosa: «Tanto, Ciuffo, sai benissimo che non venderai mai la tua ‘sperlinghetta’». «No, no», rispondeva quasi offeso, «questa volta vendo tutto. Mi metto lì, faccio il presidente e le grane se le pigliano loro. Li vedo domani mattina alle dieci, guarda qui, ho già la penna per firmare. Ma ci pensi a quanti soldi mi danno?» Regolarmente, la mattina dopo telefonava: «Avevi ragione. Non ce l’ho fatta. Guarda, si può dire che c’erano gli assegni sul tavolo. Io non ho mai visto tanti soldi così, tutti in una volta sola. Ma mi sono visto senza Sperling e allora ho detto di no. Dici che ho sbagliato?» No. Non aveva sbagliato. Senza i suoi libri, senza i suoi autori da andare a pescare in America e in Italia, che cosa sarebbe stato Ciuffo? Un giorno, un paio di anni fa, arriva tutto eccitato e comincia a raccontare: «Tu devi sapere che io ho sempre sognato di possedere una Porsche. Ma non me la sono mai potuta permettere, costava troppo. Poi, quando ho cominciato a fare i soldi, ho pensato di essere ormai troppo vecchio. Ma quest’anno, alla vigilia di Natale, mi sono detto: questa volta mi faccio davvero la Porsche. Scusami, è stato un anno da Dio, abbiamo guadagnato un sacco di soldi. E io avevo questa voglia di Porsche da anni. Insomma, mi sono fiondato dentro il concessionario e l’ho vista bellissima, esattamente del colore che piaceva a me. Ho tirato fuori il libretto degli assegni. Lo sai che si sono messi a ridere?
Se ordina una Porsche adesso, mi hanno spiegato, gliela daremo fra sei mesi, forse quattro, se tutto va bene. Hai capito? Quattro mesi. Tu mi conosci, mi sono messo a strepitare: domani è Natale e la Porsche è il mio regalo di Natale, la voglio subito. Niente da fare. Ho dovuto tornare a casa senza regalo». Scommetto, gli ho detto a quel punto, che alla fine hai avuto la Porsche. «Bravo. Proprio la mattina di Natale. Mi hanno telefonato. Il signore che l’aveva ordinata aveva cambiato idea, non era più d’accordo sul prezzo. Insomma, mi dice il concessionario che se la voglio posso passare da lui, proprio la mattina di Natale, a ritirare la mia Porsche. Sono volato. È incredibile, è una bomba, è fantastica.» Meno di un anno dopo, gli ho chiesto come stava la Porsche. «Ma», ha risposto «è sempre chiusa in garage. L’altra settimana sono andato per farla partire, ma aveva la batteria scarica. Adesso mi hanno messo un interruttore che stacca tutti i collegamenti, così non si scarica più la batteria. Ci voleva proprio: io non la uso mai.» Ciuffo era fatto così. Alla fine amava davvero solo le sue figlie e sua moglie, Stellina, e i libri della Sperling. Erano leggendarie le sue vacanze, da luglio a metà settembre, in Sardegna, in una villa che dava sul porto. Nessuno fra quelli che conosco ha mai fatto vacanze così lunghe. Era impossibile, però, trovarlo in giro per i mari o per le isole. A settembre era ancora bianco come a luglio. In Sardegna, lui se ne stava in casa o, al massimo, sul balcone della villa, a scartabellare i suoi docu-
menti e a sfogliare i suoi libri, a fare conti, a leggere autori nuovi. Ricordo che i «Paperback» sono nati proprio così, durante una delle tante sere che abbiamo passato sul balcone delle sua villa, avvolti in pesanti maglioni, perché c’era sempre un vento d’inferno. Era impossibile non volere bene a Ciuffo perché era un insieme inestricabile di impulsi e di cautela. Lui ha avuto molta parte nella nascita di Uomini & Business, senza di lui questo giornale non esisterebbe. All’inizio, non avevamo nemmeno una redazione. Le riunioni si facevano sul divano di casa mia o in cucina. E a lui, presidente di una casa editrice con strutture, personale, uffici, la cosa non dispiaceva per niente. Lo divertiva. Avevamo preventivi all’osso, stavamo attenti alle cinque lire. Ma una sera, dopo una riunione a casa mia, mi telefona: «Non mi sgridare, ma oggi, quando sono uscito da casa tua, ho fatto una pazzia: ti ho preso un ufficio». Un ufficio? «Ma sì, sul portone di casa tua ho visto un cartello: affittasi ufficio, due stanze, nel tuo stesso palazzo. E così mi son detto: il Peppino non ama andare in ufficio, ma se gliene prendo uno nel suo stesso palazzo, magari ci va e questo giornale diventa una cosa seria. Così, l’ho preso: adesso ti faccio mettere i telefoni e fra quindici giorni ci puoi entrare.» Qualche mese più tardi, analoga telefonata: «Ti ho preso una segretaria, arriverà da te domani mattina alle nove. Non mi dire che siamo troppo poveri: un direttore non può stare senza segretaria». Una volta lo convinsi che doveva aprire una sezio-
ne fantascienza nella Sperling. Lui si mise in caccia e scovò una bellissima, anche se piccola, casa editrice specializzata proprio in fantascienza. Nel giro di poche settimane aveva già imparato tutto. Quali erano gli autori «classici», quelli più eccitanti, quelli che vendevano di più. I proprietari della piccola casa editrice, consapevoli del suo valore, volevano molti soldi, ma soprattutto non volevano pagare il dovuto al fisco e quindi chiedevano cose complicatissime. Riunioni interminabili con i commercialisti e gli avvocati e poi pomeriggi interi a inventare cose mai immaginate da nessuno («I proprietari sono vecchissimi. Noi li assumiamo alla Sperling come consulenti e poi li teniamo in vacanza per cinque anni, a nostre spese, alla fine ereditiamo. Oppure possiamo mandarli in California, a cercare nuovi libri per noi. Gli affittiamo una villetta a Malibu e loro sono contenti. La facciamo passare come nostra sede in America, così la detraiamo dalle spese»). La casa editrice non fu mai comprata, e anni dopo ne ridevamo ancora. Anche quando avevamo deciso che la casa editrice di fantascienza non ci interessava più, siamo andati avanti per mesi a escogitare trappole di fantasia per fare contenti i due vecchietti. Il Ciuffo era fatto così. Colpi di testa e cautele infinite. Alla prima categoria appartiene Alvin Toffler. Un giorno mette le mani sui diritti per un libro di Alvin Toffler, grande sociologo e futurologo americano. Bel colpo, gli dico. «C’è una condizione pesante, però. Mai capitata con nessun altro autore. Vedi, Toffler è scon-
tento di come lo hanno trattato gli editori in Italia. Hanno tradotto solo uno dei suoi molti libri, e anche male. Adesso è disposto a cedermi i diritti per questo libro, ma vuole che io stampi la sua opera omnia. Che cosa ne pensi?» Penso, gli dissi, che non ci guadagnerai niente, ma che faresti una buona cosa, Toffler è importante. «E allora chi se ne frega dei soldi. Gli mando un fax e gli dico che accetto.» Da qualche anno aveva preso una piccola casa a Londra. Ci andava sempre più spesso. Un po’ perché «stare fuori dai piedi» gli faceva bene. Ma soprattutto perché gli piaceva aggirarsi fra gli editori inglesi, alla ricerca di libri e di idee. Anche se penso che gli piacessero proprio loro, gli editori, professionali, aggiornati, corretti. In certi momenti aveva anche pensato di trasferirsi stabilmente a Londra. E là è morto, di colpo, ad appena 56 anni, una mattina di maggio. Comparso con il titolo: «‘Ciuffo’ Barbieri, un amico che amava i libri», in Uomini & Business, anno VI, n. 6, giugno 1994.
Cronologia
10 febbraio 1938 Tiziano Barbieri nasce a Milano da Luigi e Costanza Laura Torriani. 1960 Si iscrive ad architettura e inizia a collaborare come grafico e assistente del presidente Mario Monti alla Longanesi. A 23 anni è direttore responsabile di due collane, i «Gialli Proibiti» e «Suspense». Prenderà poi la laurea in scienze politiche. 1966 Pubblica per Longanesi, con Giancarlo Baghetti, Il vero pilota da corsa. 1968 Sposa Anna Patrizia Valerio, per gli amici Stellina. 1969 Insieme con Franco Varisco firma il suo secondo libro per Longanesi, 400 cavalli nella schiena: la storia illustrata dei piloti di Formula 1, con prefazione di Enzo Ferrari. 1970 Con un gruppo di amici rileva da Carlo Alessandro De Michelis, per 35 milioni di lire più un vitalizio all’ex proprietario, la Sperling & Kupfer Editori, di cui assume la carica di presidente. Il primo libro è Pubbliche relazioni. Lineamenti, di Enzo Piccione Castana, cui seguiranno, nel corso dell’anno, Spada, sciabola, fioretto, di Julius Palffy-Alpar (collana «Sportiva»), Non sotto il cavolo di Eugene Kozicharow e Giovanni Sartori, Messico azzurro di Rolly Marchi, Giappone, di Martin Hürlimann e Francis King, Il Signor Rossi e le donne e Viva gli abominevoli sciatori, di Bruno Bozzetto. La sede è in via Sant’Orsola 3.
1971 Viene alimentata soprattutto la collana «Sportiva», con ristampe di successi passati (come il long-seller Yoga di Carlo Patrian – prima edizione nel 1958, ventunesima edizione nel 1995) e alcune novità, tra le quali Sci, di Giorgio Thoeni e Hubert Fink. Nella nuova collana «Informa», dedicata a temi di attualità, esce Sport verità di Luigi Gianoli. La sede è trasferita in via Sant’Orsola 1. 1972 Gli inizi sono molto difficili. I dieci soci, quasi tutti coetanei di Barbieri, litigano sui programmi, sulle collane e sui titoli da pubblicare, congelando in pratica l’attività editoriale. La crisi sociale si fa sempre più aspra, finché Tiziano rileva le quote di alcuni soci e assume il controllo della società, diventandone amministratore unico. Nella collana «Vita» esce il primo successo: Il soldato dimenticato, un libro di guerra di Guy Sajer. Si inaugura la collana «Narra», di biografie e autobiografie, con Baba di Arnold Schulman. 1973 Con La confessione di un figlio del secolo di Thomas Rogers riprende la storica collana «Pandora», avviata nel 1933 e interrotta durante la guerra: ospiterà tutti i grandi successi della narrativa. In «Narra»: David Niven, La luna è un pallone. Si pubblica il primo della fortunata serie di libri Sperling dedicati alle diete: di Lisa Biondi e Guido Razzoli, Quattrocento ricette per la dieta punti. Esce «5». Dizionario simultaneo in cinque lingue di Giuseppe Alberto Orefice, un piccolo caso editoriale che supererà le trenta edizioni.
1974 È l’anno del primo vero best-seller: Tabù di Piers Paul Read, dieci edizioni il primo anno e un’eco di stampa straordinaria. Fra gli altri successi, Augustus di John Williams. La sede viene trasferita in via Nirone 1. 1975 Nicola Carraro rileva il pacchetto di maggioranza. Escono in «Narra» Padre Leone di Silvano Girotto e L’ultimo testamento di Lucky Luciano di Martin A. Gosch e Richard Hammer; in «Pandora» Il ragazzo persiano di Mary Renault. 1976 Grandi successi in «Informa», con Bermuda: il triangolo maledetto di Charles Berlitz – dieci edizioni in un anno – e in «Pandora», con Il club dei fan, esordio in Sperling di Irving Wallace. In «Narra» l’autobiografia di Jimmy Carter A cinque anni vendevo noccioline (Carter sarà eletto presidente degli Stati Uniti l’anno successivo). La sede viene trasferita in via Monte di Pietà 24. 1977 Natalia Danesi Murray diventa scout della Sperling & Kupfer negli USA. La scuderia di autori best-seller statunitensi si arricchisce di Jacqueline Susann (Dolores), Robert Ludlum (Sporco baratto), Thomas Harris (Black Sunday) e Sidney Sheldon (L’altra faccia di mezzanotte). Esce Il mio Gesù di Franco Zeffirelli, un diario in presa diretta della lavorazione del film TV Gesù di Nazareth. (Scrive Barbieri nella prefazione: «Ecco il libro: ideato, scritto, prodotto e distribuito in trenta giorni. Il miracolo si è avverato».) Primo libro della coppia di giornalisti Bice Cairati e Nullo Cantaroni: Nelle mani dell’uomo.
Viene pubblicato Il mio golf di Jack Nicklaus: sarà il primo titolo della collana «Golf». 1978 La Rizzoli acquista il 50 per cento delle azioni. È l’anno di tre grandi libri legati a fenomeni televisivi e cinematografici: La febbre del sabato sera (in coedizione con Longanesi), di H.B. Gilmour, Guerre stellari, di Ib Penick, e gli album, a cura di Maurizio Seymandi, Furia e Furia a colori, quest’ultima un’opera in sedici fascicoli in coedizione con TV Sorrisi e Canzoni. Altri titoli di richiamo: La negra bianca (Helen Van Slyke), Guyana: la setta del suicidio (di Marshall Kilduff e Ron Javers, uscito a meno di un mese di distanza dal tragico avvenimento del Tempio del Popolo) e per la «Sportiva» la prima edizione del «classico» manuale di Enrico Arcelli Correre è bello. Direttore editoriale della divisione libri della Rizzoli è Mario Spagnol, che entrerà nel CDA della Sperling. 1979 La Sperling & Kupfer affida la propria distribuzione alla Rizzoli; Barbieri è chiamato come consulente presso la casa editrice milanese nell’ambito della divisione libri nel momento in cui il direttore editoriale Mario Spagnol lascia la Rizzoli per la Longanesi. La Sperling si aggiudica i diritti di pubblicazione di Scrupoli di Judith Krantz, scrittrice americana che passerà poi, con anticipo record, a Mondadori. Esce Olocausto, di Gerald Green, da cui sarà tratto uno sceneggiato TV di grande successo, vincitore di otto premi Emmy e trasmesso in trentuno Paesi. 1980 Esce la prima edizione (saranno più di quaranta) de La dieta Scarsdale di Herman Tarnower e Samm Sinclair Baker.
Escono i primi successi di Jack Higgins, A solo, di M.M. Kaye, Padiglioni lontani, e di Jacqueline Briskin, Paloverde. 1981 Venti di crisi per Rizzoli, ma Barbieri riesce a recuperare le azioni in tempo utile, prima che la tempesta travolga il colosso editoriale. È un anno decisivo per la Sperling che pubblica per la prima volta una serie di autori che continuano a essere bestseller ancora ai giorni nostri: esordiscono Sveva Casati Modignani, con Anna dagli occhi verdi, Stephen King, con La zona morta, Danielle Steel, con Fine dell’estate e Barbara Taylor Bradford, con Una vera donna. Fra i titoli di saggistica: Conversazione in una stanza chiusa, di Leonardo Sciascia e Davide Lajolo; Micro - La rivoluzione dei computer, di Christopher Evans (sarà il primo titolo della collana «Management»). 1982 L’Arnoldo Mondadori Editore rileva il 50 per cento delle azioni; la distribuzione passa all’azienda di Segrate. Su indicazione di Erich Linder, Barbieri acquista la casa editrice Frassinelli, che avrà sede in via Montebello 32 fino al 1985. Presidente è Donatella Barbieri, mentre alla direzione editoriale Barbieri chiama Vittorio Di Giuro, cui affianca Rosaria Carpinelli. Il primo libro della nuova Frassinelli è il volume illustrato Marilyn viva di Bert Stern. In Sperling escono per «Narra» È questione di cuore, di Clay Regazzoni con Cesare De Agostini, Il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai, di Adriano Celentano e Ludovica Ripa di Meana. Si inaugura la collana «Politica», che ospita biografie di uomini politici firmate da grandi giornalisti, con De Mita. Il
nuovo potere, di Guido Gerosa e Gigi Moncalvo, e Berlinguer o il potere solitario, di Tommaso Giglio. 1983 Nicola Carraro interrompe la collaborazione con la Sperling, pur mantenendo una piccola quota azionaria, e si trasferisce a Roma dove si occupa di produzione per cinema e televisione. Sperling pubblica, fra gli altri, Han Suyin, con Fin che verrà il mattino, e Robin Cook, con Febbre. Nel comparto dedicato all’economia esce il primo titolo di una fortunatissima serie: L’One Minute Manager, di Kenneth Blanchard e Spencer Johnson. In Frassinelli appaiono L’albergo bianco di D.M. Thomas e Mahatma Gandhi di William L. Shirer. 1984 Entra nella squadra Sperling un’altra punta di diamante, Mary Higgins Clark, con Nella notte un grido. Tre successi in un anno per Danielle Steel, la più prolifica fra gli autori «Pandora» (oltre cinquanta titoli pubblicati): Stagione di passione, Una volta nella vita e Un amore così raro. Scoppia il «caso» de I miei primi quarant’anni di Marina Lante della Rovere. Nel comparto business-economia: John Naisbitt, Megatrends, Paul Hersey e Kenneth Blanchard, Leadership situazionale, Thomas J. Peters e Robert H. Waterman, Alla ricerca dell’eccellenza. Per Frassinelli Il colore viola, di Alice Walker. Il dizionario multilingue «5» festeggia le trenta edizioni. 1985 Franco Tatò è amministratore delegato di Mondadori; Tiziano Barbieri assume la direzione generale di Mondadori International e dello Sviluppo Affari internazionali; entra
nel consiglio di Mondadori USA, Mondadori Spagna, Mondadori-De Agostini ed Edizioni di Comunità. Insieme con Mondadori ed Etnoteam dà vita a Supernova, pionieristica casa editrice di informatica, attiva fino al 1987. Escono, fra gli altri, la biografia di Gianni Agnelli, L’avvocato, di Giuseppe Turani, che diventerà il numero zero della collana «E&M», Una storia italiana. Il caso Leone, di Piero Chiara, Là fuori su un ramo, della grande attrice Shirley MacLaine. Il catalogo Frassinelli si arricchisce di titoli e autori importanti: La lista, di Thomas Keneally, da cui Steven Spielberg trarrà il film Schindler’s list, A tempo di mazurca, del premio Nobel Camilo José Cela, Voglia di bene, di M. Scott Peck, Mille autunni, di Gabriella Magrini, e il libro di fiabe di Carlo d’Inghilterra Il vecchio del lago. Si pubblica il primo volume della monumentale biografia di William Manchester dedicata a Churchill. 1986 Linda Clark è la nuova scout a New York per la Sperling. Si inaugura la collana «E&M», collana di economia e business; vi confluiscono i primi titoli di «Management». Esce Iacocca, l’autobiografia del grande manager italoamericano. Sveva Casati Modignani firma il suo quinto successo, Disperatamente Giulia, da cui nel 1989 sarà tratto uno sceneggiato TV di enorme successo («evento televisivo dell’anno», secondo i giornali). In Frassinelli esce il long-seller Usiamo la testa, di Tony Buzan. Un piccolo caso alla Fiera di Francoforte: in segno di protesta contro il comportamento della direzione che ha programmato la Buchmesse in concomitanza con un’importante
festività religiosa ebraica, Barbieri si presenta alla manifestazione con lo stand vuoto e un cartello di protesta. Dall’inizio dell’anno la Sperling ha una partecipazione azionaria nella società Mach 2, che opera nel settore della grande distribuzione. 1987 La partecipazione azionaria di Mondadori scende dal 50 al 43,75 per cento. Barbieri ha la maggioranza. Si inaugura la prestigiosa collana «Saggi», in cui confluiscono i più importanti titoli di «Informa». Nella nuova collana esce Lo sfascio di Giampaolo Pansa. Altre acquisizioni di punta, nella saggistica: Carlo Rubbia (con Nino Criscenti), Il dilemma nucleare (sei edizioni in un anno), Willy Brandt, La corsa agli armamenti e la fame nel mondo, Mikhail S. Gorbaciov, Verso un mondo migliore e, nell’economia, Alvin Toffler, La terza ondata. Due libri molto diversi fra loro per il re del brivido Stephen King: il classico dell’orrore It e Stagioni diverse, con cui l’americano si scrolla di dosso l’etichetta di scrittore di genere. In Frassinelli L’ultima tentazione di Nikos Kazantzakis, che ispirerà il discusso film di Martin Scorsese, e il long-seller Distacchi, di Judith Viorst. 1988 Nasce la Sperling Paperback, controllata al 100 per cento dalla casa madre, di cui pubblica in edizione economica i grandi successi. La prima collana è la celebre SBS «Superbestseller», inaugurata con tre grandi titoli da «Pandora»: Padrona del gioco, di Sidney Sheldon, Nord e Sud, di John Jakes, Come stelle cadenti, di Sveva Casati Modignani. La Sperling acquisisce l’esclusiva sulle opere della celebre autrice inglese di libri per bambini Beatrix Potter: lancio in grande stile, con dodici titoli, di cui il primo è La Storia di Pe-
ter Coniglio. La collana dedicata alla Potter supererà negli anni i cento volumi pubblicati. Fra i titoli di punta dell’anno: Renato Dulbecco, Ingegneri della vita (con Riccardo Chiaberge), Stephen Coonts, Il volo dell’incursore, e i libri di due icone pop: Michael Jackson, Moonwalk, e Tina Turner, Io, Tina. Nella «Sportiva» esce Il mio bodybuilding, di Arnold Schwarzenegger. Con Amatissima inizia in Frassinelli la pubblicazione delle opere di Toni Morrison. 1989 Unico italiano, Barbieri è membro del Publishers Weekly International Editorial Advisory Board. Subentra alla sorella Donatella (che intanto ha acquistato l’Agenzia Letteraria Internazionale) alla presidenza di Frassinelli. Iniziano le pubblicazioni di Uomini & Business, il mensile di economia diretto da Giuseppe Turani, di cui Barbieri è uno dei soci fondatori tramite la casa editrice ESTE. Nuovi ingressi nella struttura aziendale: responsabile editoriale è Mariagiulia Castagnone, che resterà in carica fino al gennaio 1992, Giuseppe Baroffio è direttore commerciale, Paolo Zucca responsabile amministrativo. Importanti innesti fra gli autori Sperling: Giorgio Bocca, con Il padrone in redazione, il maestro di fantasy David Eddings, con I guardiani della luce, e il grande scrittore horror Dean Koontz, con Mostri. In Frassinelli esce Un’arida stagione bianca, di André Brink. 1990 Si rinnova il marchio Sperling: allo storico «passero» stilizzato subentra l’attuale «papera». Nicola Carraro riprende a collaborare attivamente con la Sperling & Kupfer. Barbieri affida a Francesco Bogliari la responsabilità delle collane di
argomento economico. La casa editrice riacquista la Libreria Internazionale Sperling & Kupfer di Milano. Nuove autorevoli firme nella saggistica: Napoleone Colajanni, L’economia italiana dal dopoguerra a oggi, Luciano Benetton, Io e i miei fratelli, Andrea Barbato, Cartoline, Robert S. McNamara, Il disgelo. La Sperling intuisce le potenzialità del trend neo-spirituale (che evolverà nel fenomeno new age), pubblicando i successi di Chérie Carter-Scott, Ottimisti si diventa, e Deepak Chopra, Il guaritore interno. In Frassinelli: Carla Cerati, La cattiva figlia, Françoise Sagan, Il guinzaglio, Pascal Quignard, Le scale di Chambord, Dalai Lama, La libertà nell’esilio. La mia vita. 1991 Barbieri entra nel Consiglio di Amministrazione del quotidiano L’Indipendente, di cui detiene una piccola partecipazione tramite la B&C Publishing, sostenendo la nomina a direttore di Vittorio Feltri. A maggio entra a far parte della Giunta esecutiva dell’Associazione Italiana Editori. Per il biennio 1991-1992 (presidenza Merlini) è vicepresidente dell’Associazione per il settore Editoriale generale. Affida a Emanuele Vinassa de Regny la cura di un comparto di divulgazione scientifica. La Sperling & Kupfer cavalca il fenomeno televisivo Twin Peaks, pubblicando Il diario segreto di Laura Palmer, il libro scritto da Jennifer Lynch, figlia del regista, i cui diritti di serializzazione vengono ceduti a TV Sorrisi e Canzoni dopo un’asta record. Escono: Michael Blake, Balla coi lupi, Michele Santoro, Oltre Samarcanda, Gianni Minà, Fidel, e l’autobiografia di Kirk Douglas, Danza con il diavolo. In Frassinelli: Katharine Hepburn, Io, Pupi e Antonio Avati, Bix: un’ipotesi leggendaria, e Galíndez, con cui fa l’in-
gresso in catalogo Manuel Vázquez Montalbán. Con Clarissa e Fouché si inaugura la riedizione delle opere di Stefan Zweig. Tiziano M. Barbieri aggiunge al proprio il cognome della madre, Torriani. 1992 Dopo la visita a El Día del Libro in Spagna, tradizionale festa di librai e lettori, affida, per l’AIE, a Carlo Sartori lo studio di fattibilità per il progetto la Festa del Libro. Nel mese di novembre dà le dimissioni dalla carica di vicepresidente AIE: la Giunta si scioglie. Da gennaio Carla Tanzi è il nuovo direttore editoriale. Sperling pubblica Umberto Bossi, Vento dal Nord, Jim Garrison, JFK - Sulle tracce degli assassini, Aldo Busi, Manuale del perfetto gentilomo. Riprendendo una tradizione della «vecchia» Sperling, escono una serie di Dizionari scientifici. Per Frassinelli: Peter Matthiessen, Giocando nei campi del signore, Nicholson Baker, Vox, Orhan Pamuk, Roccalba, Anna Maria Mori, Nel segno della madre. La sede della Sperling & Kupfer è trasferita in via Borgonuovo 24. 1993 In marzo viene eletto presidente dell’AIE dopo le dimissioni di Gianni Merlini per motivi di salute; chiede e ottiene una giunta forte, formata da Giovanni Cobolli Gigli, Tancredi Vigliardi Paravia, Franco Tatò, Lorenzo Enriques, Gianni Merlini, Marco Paoletti e Girolamo Potestà. Fra i punti saldi del suo programma di rinnovamento c’è la Festa del Libro, che tuttavia non riesce a progettare in tempo e per l’anno in corso è organizzata autonomamente dalla Fininvest, senza il patronato dell’AIE. Si susseguono i successi Sperling & Kupfer: assalto alle
edicole con i libri tratti dalla serie televisiva per teenager Beverly Hills 90210. Nella saggistica: Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso, Valéry Giscard d’Estaing, Il potere e la vita, Margaret Thatcher, Gli anni di Downing Street, Mario Pasi e Luigi Pignotti, Nureyev. Pubblica la guida best-seller (60.000 copie vendute) di Olivia St. Claire, Duecento e tre modi per farlo impazzire a letto. Parte la Scuola di Cucina in collaborazione con La Cucina Italiana. La Frassinelli mette a segno due colpi importanti: Robert James Waller, I ponti di Madison County (a oggi più di venti edizioni), e Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi (quarantadue edizioni). Toni Morrison vince il premio Nobel. Barbieri è membro per l’Italia del Comitato esecutivo dell’International Publishers Association ed è eletto presidente del Freedom to Publish Committee per il triennio 1993-96. 1994 L’AIE organizza la prima Festa del Libro. Ad aprile, poche settimane dopo il Salone di Parigi, Tiziano Barbieri dà le dimissioni da presidente dell’Associazione, in seguito alla bocciatura del progetto di revisione dello Statuto, già in discussione da anni e da lui posto fra le priorità del suo programma. Dal 23 al 25 maggio presiede a Torino il III Simposio Internazionale sul Diritto d’autore dell’Unione Internazionale degli Editori. L’ultima grande sfida a cui si dedica per Frassinelli è il progetto dei «Classici Classici», una collana di grandi opere della letteratura di tutti i tempi con nuove traduzioni, diretta da Aldo Busi. Il 30 maggio, a Londra, muore per un’emorragia cerebrale.
La Longanesi promuove i suoi successi con testimonial d’eccezione: i propri collaboratori. L’«esperto grafico» Tiziano Barbieri e la collega Marzia Fossati simulano un passo di danza per pubblicizzare Plexus di Henry Miller e La nave morta di Bruno Traven. (Catalogo Estate Longanesi & C. 1964, foto di Giancolombo / Agenzia Contrasto)
Con Mario Monti e Nico Naldini alla presentazione (in una autofficina‌) del libro sulla Formula 1 400 cavalli nella schiena, firmato da Barbieri insieme a Franco Varisco. (1969, foto di Aldo Cavaliere)
Foto di gruppo in via Borghetto. Da sinistra, Tiziano M. Barbieri, Lisa Morpurgo, Mario Monti, Bruno Licitra e Carla Tanzi. (Publishers Weekly 1968, foto di Giancolombo / Agenzia Contrasto)
Alla Buchmesse di Francoforte lo stand vuoto in segno di solidarietà con gli amici editori ebrei. Sul tavolo un cartello: «Siamo arrabbiati. Alcuni dei nostri amici e colleghi sono assenti per protestare contro la direzione della Fiera che ha programmato questa manifestazione in concomitanza con un’importante festività religiosa. Di conseguenza abbiamo lasciato i nostri libri a Milano». (1986)
Barbieri considerava le copertine uno dei motivi fondamentali del successo di un libro: nella foto Tiziano di fronte alla «parete» di copertine Sperling e Frassinelli, nell’ufficio di via Monte di Pietà. (L’Europeo 1983, foto di Giancarlo Moroldo)
Beato tra i libri (e tra le donne): Barbieri circondato dai titoli di punta dell’anno, sorretti dalle sue preziose collaboratrici. (1987)
La corona in testa e come scettro i successi Sperling e Frassinelli: perfettamente a suo agio nei panni di ÂŤreÂť del best-seller. (1988, foto di Mauro Vallinotto)
Tiziano Barbieri guida le sue «ragazze» verso la nuova sede di via Borgonuovo 24:così la Sperling & Kupfer dà notizia del trasloco. (1992, illustrazione di Antonella Cucinotta)
Nelle vesti di presidente dell’Associazione Italiana Editori, al 25° Convegno degli Editori. (Novembre 1993)
Dall’album di famiglia, un intenso primo piano. (Settembre 1993)
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Il sogno, la passione, il mestiere di un editore © 2014 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. Ebook ISBN 978882009095-1
COPERTINA || ART DIRECTOR: FRANCESCO MARANGON FOTO © WALTER BATTISTESSA (1988)
L’intervento di Oreste del Buono e la foto di Giancarlo Moroldo sono pubblicate per gentile concessione di RCS Periodici. La Sperling & Kupfer Editori ringrazia tutti gli autori e i loro eredi che concedendo l’utilizzo dei testi e delle immagini riportate hanno reso possibile questa pubblicazione, e rimane a disposizione per eventuali altri aventi diritto che non è stato possibile reperire. Si ringrazia Laura Grassi per la traduzione degli interventi in lingua inglese.