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UN MOTIVO IN PIÙ PER ARRAMPICARE
Climbing for a Reason è il progetto nato dall’intuizione del climber Lucho Birkner che ha deciso di far crescere le piccole comunità meno fortunate grazie a qualcosa di semplice come arrampicare sulle rocce
di Susanna Marchini
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Il sogno di molti climber è avere accesso alle vie di arrampicata più remote e selvagge del mondo. C’è chi come Lucho, grazie al suo talento e alla sua dedizione, ce l’ha fatta, viaggiando in molti paesi alla ricerca del perfect spot. Ma cosa succede quando attraversi dei luoghi incontaminati e non vuoi semplicemente essere di passaggio? Lucho Birkner, climber cileno, ha pensato di lasciare una traccia più profonda nelle comunità che lo hanno ospitato durante le sue imprese e così, insieme al fotografo Mateo Barrenengoa, ha fondato Climbing for a Reason, il progetto che porta l’arrampicata in alcune delle zone meno fortunate del mondo. Oggi, siamo qui a parlare con Lucho grazie a Giorgia Bernabò, prima volontaria italiana che ha preso parte alla tappa di Musoma, in Tanzania.

Da cosa nasce Climbing for a Reason?
Ho iniziato a scalare 18 anni fa e mi sono tuffato nella disciplina in maniera dirompente. Sono passato molto velocemente dal non scalare a farlo tutti i giorni. Ho iniziato subito a fare progressi e a trovare degli sponsor che mi hanno dato la possibilità di viaggiare. In particolare, uno di loro mi ha chiesto di portare avanti dei progetti che non fossero solo legati all’apertura di nuove vie, ma anche alla comunità del posto dove mi recavo. Abbiamo quindi iniziato sviluppando la serie Abriendo caminos e successivamente il progetto Raìces sviluppato in Cile per connettere l’arrampicata alle diverse comunità indigene presenti sul territorio, investigando come ci relazionavamo in maniera diversa alle rocce. Durante questi viaggi, mi resi conto in fretta che in ogni località che frequentavo c’era sempre un gruppo di turisti stranieri che scalava e una moltitudine di bambini, ragazzi, adulti della zona che avevano vissuto tutta la vita davanti a quelle rocce senza mai considerarle, perché non avevano mai avuto accesso alle attrezzature e agli insegnamenti. Climbing for a Reason quindi è nato proprio dal desiderio di coinvolgere queste persone nella disciplina che più mi appassiona e trasformarle in scalatori delle rocce che hanno sempre solo guardato. Credo che fornendo gli strumenti e le conoscenze per praticare questa attività, molti bambini per esempio possano avere più opportunità, sia nella vita che dal punto di vista economico. Se diventano utilizzatori e protettori di questi luoghi incantati, possono lavorare come guide, accompagnare i turisti, viaggiare e far fiorire la loro comunità per accogliere più visitatori.
Qual è stata la prima tappa ufficiale del progetto?
Abbiamo cominciato otto anni fa in India. Partì con la mia compagna per aprire nuove vie e scrissi a un ragazzo che si trovava nella località da molto tempo per insegnare ai bambini a scalare. Mi chiese di organizzare dei workshop e parlare con loro per motivarli. Quando arrivai sul posto, la situazione era piuttosto critica; c’erano 30 bambini che scalavano con due imbraghi e scarpette troppo grandi. Alcuni le perdevano a metà parete durante le ascensioni. Nonostante i ragazzini ridessero, questo episodio mi diede molto da pensare. Quando tornai in Cile, iniziai una massiccia raccolta fondi per inviare del materiale nuovo che potesse durare per anni.
A oggi, quante tappe ha fatto il progetto nel mondo?
Abbiamo cercato di organizzarne uno all’anno. Finora abbiamo realizzato due progetti in Cile, uno nella Patagonia cilena e l’altro nell’area centrale di Santiago. Poi ci siamo spostati a nord e lo abbiamo organizzato in Messico e in Suriname, dove abbiamo aperto le prime vie attrezzate del paese. Successivamente siamo stati in Nepal e poi in Pakistan, dove il nostro scopo era coinvolgere le bambine musulmane. Ora siamo in Tanzania e ci stiamo concentrando sul trasformare i partecipanti in guide per attrarre più viaggiatori.
Come scegliete le aree geografiche dove portare queste attività?
Ho due modi per agire: il primo è prendere la mappa e cominciare cercare rocce nei paesi poco visitati, o che vengono visitati per altri scopi. Una volta trovate, faccio una ricerca per capire se c’è qualcuno che scala nella nazione o se qualche straniero si è già recato sul posto a scalare e può darmi informazioni. Se riesco a individuare un referente, presento il progetto e provo a mettermi in contatto con una scuola o un orfanotrofio. Per esempio, nel progetto a Musoma, è stato grazie a Benedetta Serra, volontaria dell’orfanotrofio che aveva notato la conformazione rocciosa del territorio, che Climbing for a Reason ha potuto istallarsi nella zona. È importante che i bambini coinvolti vivano vicino alle rocce e che le possano raggiungere in autonomia, camminando. Le rocce individuate devono anche essere attrattive da un punto di vista qualitativo per motivare volontari e turisti anche nel futuro a frequentare il sito. L’altro modo, invece, è quando vengo contattato direttamente dalle persone che vengono a conoscenza del progetto e vorrebbero riprodurlo nel loro paese. In questo caso, facciamo delle ricerche in base al materiale che ci mandano. Se la roccia è buona e il background sociale coerente, vamos!


Quali sono le tappe che ti ha dato più soddisfazioni?
La Tanzania è un posto incredibile per arrampicare, il progetto sta funzionando bene. Abbiamo già molte richieste di persone che partiranno a giugno, luglio e a novembre. Il luogo è comodo, c’è un lago meraviglioso dove nuotare, le pareti sono tante e con un’ottima conformazione. I bambini sono affascinati dall’arrampicata, si allenano tutti i giorni, hanno un futuro promettente. Alcuni scalano solo da pochi mesi e hanno già raggiunto dei gradi elevati. Sono molto contento anche del progetto che abbiamo installato in Suriname, dove abbiamo creato il primo settore per l’arrampicata sportiva nella giungla amazzonica. Oggi, dopo tre anni, c’è una comunità formata da 20 climber che si allenano cinque volte a settimana. Hanno costruito tre muri attrezzati in diverse scuole e sono in grado di accompagnare i viaggiatori per scalare nella giungla. Il Pakistan è stato sicuramente uno dei progetti più incredibili dal punto di vista emotivo perché lì le ragazze non possono neanche fare sport. A Musoma, grazie a Benedetta, Giorgia e Javiera, è stato anche attivato il progetto Let Them Learn, per trovare degli sponsor per le ragazze dell’orfanotrofio Jipe Moyo Centre che sono state salvate dalla violenza e dalle mutilazioni genitali.
Dove ti piacerebbe andare adesso?
La verità è che riceviamo continue richieste, quindi ora non mi resta che tornare a casa in Cile, sedermi davanti al computer e iniziare a esaminarle tutte. Sono stato contattato dall’Angola, dall’Honduras, dal Mozambico. E sembrano tutti dei posti incredibili.
Cosa c’è nel futuro di Climbing for a Reason?

Mi piacerebbe coinvolgere un paio di bambini tanzaniani, tra quelli più motivati che scalano ogni giorno e riuscire a portarli fuori dal loro paese per diventare ambassador di Climbing for a Reason e diventare un esempio per tutti. Sono orfani, non hanno mai visto il mare, non hanno mai visto altre rocce. Per loro uscire dal paese può essere una grandissima opportunità. Lo scopo finale potrebbe essere riuscire a far incontrare nel futuro un partecipante per ogni nazione che è stata coinvolta nel progetto e farli scalare tutti insieme fuori dalla loro routine.

In che modo i brand e le istituzioni sostengono questo progetto?

Al momento abbiamo due finanziatori principali per avere un fondo base a cui accedere, mentre i brand che collaborano con noi ci forniscono l’attrezzatura. Inoltre, esiste un crowdfunding dove tutti possono fare delle donazioni spontanee. Questo ci permette di aumentare la qualità del progetto, sono gli aiuti che impattano sulle scelte extra. Per esempio, grazie alle donazioni ricevute negli ultimi mesi, siamo riusciti a cambiare tutti i letti dell’orfanotrofio in Tanzania, installare una lavanderia, i bagni e un impianto di biogas per cucinare.
Inquadra il Qr Code per aderire alla campagna crowfunding del progetto
PALESTRA CHE VAI, MARCHIO CHE TROVI
Sono sempre di più le aziende che investono nelle sale di roccia per avvicinarsi ai clienti. Grazie a eventi, sponsorizzazioni mirate e test prodotto di Pietro Assereto
Con la grande crescita del settore outdoor negli ultimi anni, abbiamo assistito anche al boom dell’arrampicata. Complice anche la risonanza olimpica, è probabilmente l’attività che ha goduto maggiormente di questa situazione. Il climbing è passato da uno sport di nicchia a uno più di massa e a trarne beneficio sono state soprattutto le palestre. Quest’ultime, infatti, erano popolate da persone che avevano iniziato ad arrampicare outdoor e che le sfruttavano per l’allenamento. Ora invece sono animate non solo da amanti della montagna, ma anche da persone che vedono nell’arrampicata una vera e propria alternativa al fitness. Naturale quindi che i brand vedano terreno fertile per fidelizzare i propri clienti e avvicinarne di altri, tramite eventi, sponsorizzazioni e test prodotto.
È il caso di La Sportiva che da anni porta avanti una collaborazione di successo con la palestra Rockspot di Milano. Qui, il 14 aprile, è andato in scena il Kick Off Event del Climb World Tour, un progetto ambizioso del brand di Ziano di Fiemme dedicato a tutti gli appassionati di arrampicata che ha come obbiettivo quello di generare nuovi punti di contatto e rafforzare la conoscenza della qualità produttiva del marchio. Il tour toccherà oltre 100 destinazioni verticali, da Tokyo a Salt Lake City, in 23 Paesi differenti e durerà fino a novembre. Le tappe saranno eventi aperti al pubblico basati sulla filosofia del Test&Feel: provare il prodotto e imparare a percepire il proprio piede, acquisendo sensibilità e esperienza sul campo. All’incontro Rockspot erano presenti gli atleti Marcello Bombardi, Stefano Ghisolfi e Wafaa Amer, i quali hanno spiegato le tre principali tecnologie presenti nelle scarpette La Sportiva: P3 System, Dynamic Technology e No Edge Concept.



“ Un progetto ambizioso e una sfida affascinante per noi: celebrare l’arrampicata in tutti i continenti, portando la marca sempre più a contatto con le persone, esperti, neofiti e utenti professionali, con l’obiettivo di condividere esperienze conoscenza di prodotto e perché no, fare festa insieme”
Vittorio
Barrasso, brand & communication corporate manager di La Sportiva
Un altro evento al quale abbiamo presenziato è stato quello di Unparallel, questa volta alla Big Walls di Brugherio (MB). Il brand californiano, distribuito in Italia dal 2020 da SCOTT, ha organizzato un test tour in alcune palestre, facendo provare un set di scarpette ai presenti. Il tour si svolge in due fasi intervallate dall’estate. Per la prima sono state organizzate tre date in altrettante palestre della Lombardia e del Piemonte: oltre alla Big Walls, la Pan&Sport a Quincinetto (TO) e La Mole a Torino. Presenti alle tappe i due atleti Marco e Andrea Zanone, che raccontano le caratteristiche e le particolarità dei prodotti. Marco e Andrea, in passato utilizzatori del marchio Five Ten (il fondatore di Unparallel, Sang Lee, ha iniziato a produrre calzature esclusivamente per il marchio di proprietà adidas) e grandi estimatori della gomma utilizzata Stealth Rubber, hanno ritrovato lo stesso feeling nei prodotti made in California a tal punto da diventarne prima testimonial e, da quest’anno, atleti ufficiali. I primi feedback sul tour sono stati molto positivi e il brand ha percepito molta curiosità da parte dei climber nei confronti dei propri prodotti: l’idea è, dunque, quella di allargare l’esperienza nel nord-est e in centro Italia.

Ognuno Trova La Sua Via
Per Camilla Moroni, atleta The North Face, il climbing è uno sport equo dove donne e uomini si approcciano alla medesima roccia, ma a modo proprio di Sara Canali


The North Face supporta le donne e lo ha fatto lanciando, in occasione del Women’s Day l’8 marzo, una campagna con l’obiettivo di celebrare le pioniere dei propri sport. Il fine è stato quello di incoraggiare tutte le appassionate ad avere un ruolo di primo piano in un mondo che non è sempre destinato a loro e, per farlo, il brand americano ha messo in risalto i successi di donne in grado di plasmare il proprio futuro. Tra le protagoniste anche Camilla Moroni, 21 anni, atleta delle Fiamme Oro nonché campionessa italiana giovanile boulder U18 nel 2017 e nel 2018. Nel settembre 2021, ad appena 20 anni, ha conquistato l’argento in Coppa del Mondo, chiudendo tutti e quattro i blocchi di un avvincente ultimo turno di gara.

Possiamo dire che arrampichi da sempre e non sarebbe un’esagerazione. Quando il primo incontro con la roccia?
Ho una vecchia fotografia a casa che mi hanno scattato i miei genitori. Ho un anno e mezzo e mio padre Riccardo mi tiene attaccata alla roccia: eravamo a Finale Ligure ed è stato il mio battesimo. I miei sono due scalatori appassionati e mi hanno sempre portata con loro ogni volta che andavano in falesia e in montagna. Ovviamente all’inizio per me era un gioco, mi divertivo nel bosco, mi facevano al massimo fare i pendoli, ovvero quando ti attacchi alla corda e dondoli nel vuoto. Poi, piano piano, ho iniziato a scalare appassionandomi sempre più fino a quando ho cominciato ad avere un’improvvisa paura del volo. Questo mi ha fatto fermare, anche se non avevo smesso di amare il climbing. Dovevo cercare di farlo in un modo diverso: è allora che ho scoperto la palestra dove ho cominciato a fare blocchi e a partecipare alle prime gare regionali. Da allora non ho più smesso e sono tornata anche in falesia, superando le mie paure e, anzi, divertendomi.
Cosa ti ha appassionato di questo sport?
L’arrampicata è la mia vita e ora anche il mio lavoro visto che sono entrata nel corpo sportivo della Polizia di Stato. Per me non può esistere climbing indoor senza l’attività outdoor: sono complementari e le ritengo fondamentali allo stesso modo. Senza una non posso fare l’altra. Le gare mi portano ad accumulare stress. Allora vado a riposare la testa outdoor, sperimento cose diverse, vie lunghe, trad permettendomi di vivere la mia passione in un modo più rilassato, un vero e proprio sfogo. Al contempo però non posso fare a meno della competizione perché mi dà adrenalina.
Climbing, un affare di famiglia: com’è scalare con i propri genitori?
C’è della (sana) competizione tra di voi?
Per loro è un amore che è nato in Università, si sono conosciuti a un corso CAI e avevano iniziato ad andare in falesia e a viaggiare per arrampicare. Mi hanno sempre spronato a fare di più tanto che oggi mio padre è il mio allenatore: non trovavamo un tecnico che ci soddisfacesse. Lui non c’entra nulla con il mondo dello sport, è un ricercatore di fisica, ma ha cominciato a studiare per potermi allenare e vi applica il suo metodo scientifico. Se all’inizio il nostro rapporto da allenatore-atleta non era semplice, con il tempo abbiamo preso le giuste misure e ora andiamo quasi sempre d’accordo, collaboriamo per creare gli allenamenti e parliamo molto. Anche mia sorella è stata portata in falesia, ma alla fine ha optato per l’equitazione.
Cosa fai quando non arrampichi?
Sto studiando a rilento biotecnologie all’Università. Allenandomi due volte al giorno non mi resta molto tempo libero. Spesso a fine stagione mi piace andare a sciare, qualche giorno vado al mare, ma mai una vacanza intera in spiaggia. Non posso farcela.
Più di una volta hai sottolineato che “uomini e donne si aggrappano entrambi alla stessa roccia o maniglia, ma ognuno lo fa nel proprio modo unico”. Cosa volevi dire? Che il climbing è uno sport che non guarda in faccia al genere?
Per me l’arrampicata è un rapporto con la natura, una sfida personale che ognuno ha con se stesso. Lo ritengo uno sport paritario, dove spesso uomini e donne riescono ad avere lo stesso grado e quindi possono scalare insieme. Anzi, con certi stili più tecnici, le donne riescono a fare qualcosa di più degli uomini sfruttando la propria fisicità. La cosa bella è che, per arrivare in cima, spesso c’è più di un metodo o di una via e ognuno può trovare la sua strada per salire. Da quando Lynn Hill ha fatto la salita del Nose in libera prima di qualsiasi altra persona, uomo e donna che fosse, il climbing al femminile ha acquisito un grande valore. Negli ultimi anni ho visto sempre più donne nelle competizioni e con un livello sempre più alto.
Quando sei entrata nel team di The North Face?
Sono entrata a far parte del team lo scorso ottobre come testimonial di una campagna che raccontava come l’arrampicata sia uno sport equo, in linea con quelle che sono le mie idee e quello che spero di poter rappresentare. Ora sono anche membro del development team del brand.
The Golden Girl
Janja Garnbret, la prima climber donna a vincere la medaglia d’oro olimpica, si racconta di Eliana Codega
Janja Garnbret ha 24 anni, è nata in Slovenia, ed è una delle climber più famose e più di successo di tutti i tempi: ha vinto tutto quello che c’è da vincere nell’arrampicata sportiva, incluse le Olimpiadi. È apparsa anche sulla lista Forbes 30 Under 30, come una degli individui europei più influenti nel campo di Sports&Games. Le abbiamo posto alcune domande riguardo la sua carriera, le sue vittorie e i suoi rapporti con gli sponsor.

Com’è iniziato il tuo rapporto con l’arrampicata? Cosa ti appassiona di più di questo sport? Sono sempre stata una bambina molto attiva che arrampicava su tutto quello che trovava intorno a sé, che fossero alberi o mobili. Quindi, quando mi sono approcciata per la prima volta all’arrampicata su “muri veri”, sembrava che avessi finalmente trovato il parco giochi che avevo sempre sognato. Amavo la sensazione di essere leggera e forte allo stesso momento. In generale, il movimento che si effettua usando le braccia e i piedi per arrampicarsi è qualcosa di molto ovvio, per questo credo che l’arrampicata sia uno sport molto logico. Aggiungi il fatto che è estremamente divertente e che puoi condividere le esperienze con gli altri, questo è quello che rende magica l’arrampicata per me.

Come descriveresti il tuo stile di arrampicata?

Controllato quando necessario, dinamico e fluido quando sento che è la mossa giusta.
Che tipo di relazione hai sviluppato con i tuoi sponsor?
Mi sento privilegiata nel poter scegliere con chi lavorare. Ci sono una storia diversa e una relazione diversa con ognuno di loro, quindi è difficile generalizzare. C.A.M.P., per esempio, è stato il mio primo sponsor. Ero cliente di Rhino Skin anche prima di diventare loro ambassador e progetti come il 360climb, sul camino più alto d’Europa, non sarebbero stati possibili senza Red Bull.
Sei mai stata coinvolta nella progettazione o nel test dei prodotti di arrampicata dei tuoi sponsor?
Certo. Per esempio con 5.10, ho rivisto e “corretto” il tallone della loro scarpetta Hiangle in occasione delle Olimpiadi. È stato un processo durato diversi mesi. La prima intenzione era ovviamente avere la scar- petta perfetta per me, il secondo passo è stato quello di portare i miglioramenti nel mercato e renderli accessibili a tutti gli altri climber.
Sul tuo sito scrivi: “Cerco di non preoccuparmi di essere famosa e di successo, provo solo a focalizzarmi sul divertimento”. Hai solo 24 anni e hai già vinto così tanto: sei Campionati Mondiali, tre Campionati Europei, 37 Coppe del Mondo, 10 Coppe del Mondo “generali” e una medaglia oro olimpica. Tra tutti i trofei che hai vinto, qual è quello di cui vai più fiera?
La vittoria delle Olimpiadi è la cosa che spicca di più. La pressione era enorme ed era alimentata dal fatto che si trattava dell’evento sportivo più grande al mondo, dalle aspettative personali che mi ero posta e dal fatto che tutti mi dicevano che avrei vinto. Dopo la vittoria ero sia felice che distrutta.
Come ci si sente a essere la prima donna ad aver vinto la medaglia oro olimpica in questa disciplina? Sono sollevata del fatto che tutto sia andato bene, contro tutte le probabilità. Quello che rimarrà con me dopo questa esperienza è l’aver voluto qualcosa talmente tanto e averci lavorato ogni giorno per ottenerlo.
Forbes ti ha scelta come una degli individui più influenti under 30 nel campo di Sports&Games. Sei una delle poche donne e l’unica climber. Come pensi di poter ispirare le giovani donne che vogliono perseguire il sogno dell’arrampicata?
Quello che voglio che passi è che tu puoi ottenere i tuoi obiettivi se credi in te stessa e dai tutta te stessa. Ma non gira tutto attorno al duro lavoro: è la combinazione divertimento e impegno che ti dà la capacità di raggiungere tutti i tuoi obiettivi.
In un’intervista hai detto: “Il desiderio per le medaglie d’oro non è abbastanza, devi amare il processo che ti porta a queste vittorie”. Come ti stai preparando per le Olimpiadi di Parigi del 2024?
La ricetta è sempre quella che ho menzionato prima. Sembra facile, ma spesso è difficile non farsi prendere troppo dalla routine.
E ancora: “Finirò la mia carriera quando finirò di divertirmi”. Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro?
Adesso, il mio focus è sulle Olimpiadi di Parigi del 2024, dopo vedremo. Non sembra però che non avrò più obiettivi da poter perseguire.