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Make a Mark
Spazio Di Paolo Italia
Denomination Australia Smith Lumen Italia Anagrama Messico
L’INCUBATORE CHE ACCELERA L’INNOVAZIONE DEL PACKAGING NEL SEGMENTO WINE & SPIRITS
Lanciato congiuntamente da Avery Dennison, Estal e Leonhard Kurz a Luxe Pack Monaco 2021, “Make a Mark” ha catalizzato l’attenzione dei più importanti brand e player dell’industria del packaging.
Make a Mark è una piattaforma di collaborazione triennale creata per accelerare l’innovazione tecnologica nel packaging di vino e liquori e fornire ai brand owner un’anteprima delle future tendenze del packaging design. Il focus è diretto a stimolare la creatività dei designer con un’attenzione particolare a lusso e sostenibilità. Senza i vincoli di tempo e costi, diciotto tra le migliori agenzie di packaging design a livello globale sono state chiamate a osare e a spingere la loro creatività oltre i confini e aprire nuovi orizzonti nell’innovazione del packaging. Il brief era quello di soddisfare la doppia esigenza dei brand di fare la differenza sullo scaffale catturando l’attenzione del consumatore, nel rispetto dell’ambiente. I pionieristici progetti di packaging design che sono nati grazie a Make a Mark sono stati poi sviluppati da leader della filiera del packaging di lusso come Estal per le bottiglie di vetro, Avery Dennison per i materiali autoadesivi per etichette, Kurz – il cui rivenditore unico per l’Italia è Luxoro – per gli elementi decorativi e molti altri attori chiave del settore come etichettifici, produttori di capsule e tappi. «Il progetto Make a Mark non è un contest di packaging design e il libro “Make a Mark” non è un catalogo che raccoglie le tendenze attuali del packaging design» ha detto Vladimir Tyulpin, Market Segment Leader - Wine & Spirits di Avery Dennison. «Si tratta piuttosto di una rassegna di prototipi creati dai designer pionieri del settore che aprono la strada verso la nuova era del packaging design del vino e dei liquori. Make a Mark è un progetto ambizioso, che ha impegnato più di quaranta partner per molti mesi per riuscire prima a creare e poi a sviluppare dei progetti di packaging così avveniristici». Stéphane Royère, Direttore della Business Unit Packaging e Print di Leonhard Kurz, ha avuto l’onore di presentare la Make a Mark Design Gallery a Sua Altezza il Principe Alberto II, in visita allo stand. «Sua Altezza ha apprezzato molto il nostro progetto, ma la prossima edizione di Make a Mark sarà ancora più ambiziosa. Stiamo già lavorando per l’edizione 2022 su alcune idee che renderanno Make a Mark sempre più interessante per i brand che desiderano investire nel packaging per fare la differenza sullo scaffale e impattare sempre meno sull’ambiente». Ai brand serve una creatività finalizzata a un reale avanzamento tecnologico. L’accelerazione costante del business al tempo della globalizzazione non lascia spazio alle promesse. I brand vogliono proposte concrete. L’esigenza primaria dei brand è quella di creare dei packaging che siano accattivanti, ma allo stesso tempo sostenibili. «La nostra Make a Mark Design Gallery all’ultima edizione di Luxe Pack ha suscitato tanto interesse da parte dei brand più importanti
JVD Estudio Cile
Ruska Martin Associates Germania Servaire & Co Francia
del segmento Wine & Spirits, ma anche della cosmetica. Make a Mark ha liberato la creatività di alcuni dei più premiati studi di packaging design a livello mondiale, “spronando” noi player della filiera del packaging a sviluppare in tempi brevi nuove tecnologie e nuovi materiali che sono davvero all’avanguardia in termini di sostenibilità. Anagrama dal Messico, Boldrini & Ficcardi dall’Argentina, Butterfly Cannon e Pocket Rocket Creative dal Regno Unito, Chad Michael Studio dagli USA, Denomination dall’Australia, Dragon Rouge dalla China, JVD Estudio dal Cile, MARK Studio dal Sud Africa, Motherland dalla Svezia, Rita Rivotti dal Portogallo, Ruska Martín Associates dalla Germania e dalla Spagna, Series Nemo e Supperstudio dalla Spagna, Servaire & Co e Studio Créa’ Design dalla Francia, Smith Lumen e Spazio Di Paolo dall’Italia sono tra le agenzie di packaging design più premiate del mondo e ci hanno permesso di dimostrare che il lusso è sostenibile» ha detto Gerard Albertí, CEO di Estal. A conferma di questo successo, 3 dei 18 progetti presentati sono già stati venduti in esclusiva a importanti brand, mentre la vendita di un quarto è in via di finalizzazione. Un’edizione limitata di campioni di etichette e ulteriori informazioni sul libro e sull’iniziativa Make a Mark sono disponibili su makeamark.world.
Mark Studio Sudafrica
Avery Dennison www.averydennison.com Kurz www.kurz-world.com | www.luxoro.it Estal www.estal.com
The World Of Steve McCurry, MAAG Halle, Zurigo ©Roberto Bernè
Biba Giacchetti
La comunicazione La comunicazione d’autore di Sudest57
di SIMONE AZZONI
È una curatrice entusiasta e vulcanica, Biba Giacchetti, e non potrebbe essere altrimenti visto il lavoro che porta avanti da quasi vent’anni con Sudest57, l’agenzia che ha fondato a Milano insieme a Giuseppe Ceroni. Dopo la maturità in Francia, la laurea in legge a Roma e una carriera nella comunicazione negli anni Ottanta, la svolta è arrivata quando ha deciso di coniugare lavoro e passione e si è concretizzata con l’incontro con Elliott Erwitt negli anni ’90, quando Giacchetti lavorava per Magnum. Con lui si è sviluppata quella che sarebbe diventata l’identità di Sudest57: unire la visione dei grandi fotografi con le esigenze delle aziende, sia a livello corporate che di prodotto. L’agenzia oggi rappresenta Elliott Erwitt, Steve McCurry, Dario Mitideri, Duane Michals, James Nachtwey; accanto ai grandi maestri ci sono anche giovani promesse come Joey L.
Simone Azzoni
È critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea allo IUSVE. Insegna Lettura critica dell’immagine all’Istituto di Design Palladio di Verona. Ha curato numerose mostre di arte contemporanea in luoghi non convenzionali. È co-direttore artistico del festival della Fotografia Grenze. È critico teatrale per riviste e quotidiani nazionali. Organizza rassegne teatrali di ricerca e sperimentazione. Tra le pubblicazioni recenti Frame - Videoarte e dintorni per Libreria Universitaria, Lo Sguardo della Gallina per Lazy Dog Edizioni e, per Mimemsis, Smagliature (2018). Teatro e fotografia. Conversazione con Enrico Fedrigoli è il suo ultimo libro.
È
È l’agenzia di Elliott Erwitt, Steve McCurry, Duane Michals e molti altri. Accanto a loro ci sono anche molte giovani promesse della fotografia. Si chiama Sudest 57 ed è nata nel 2002 da Biba Giacchetti e Giuseppe Ceroni con l’obiettivo di portare la visione dei grandi fotografi nella comunicazione delle aziende, sia a livello corporate che di prodotto. Biba Giacchetti ci racconta tutto in questa intervista.
Quali obiettivi avevate all’inizio, e come si è evoluta la mission di Sudest57?
Come definiresti l’agenzia Sudest57? C’è una “linea editoriale” che detta le scelte? Da cosa è riconoscibile immediatamente?
Cosa si impara a stare accanto a un maestro come Erwitt? Come si equilibra il suo punto di vista con la necessaria autonomia del proprio?
Quali competenze servono per fare il tuo lavoro?
Che cosa ti colpisce quando guardi una fotografia?
Con quali criteri individuate un talento che merita di essere accompagnato, seguito e promosso? Sudest57 è nata con l’idea, unica a quel tempo, di mettere in contatto grandi autori della fotografia internazionale con aziende per creare progetti di comunicazione. Fino a quel momento le aziende avevano utilizzato solo fotografi commerciali. Trovarsi al cospetto di un grande autore di libri e mostre come Elliott Erwitt, per esempio, era sorprendente e considerato anche un azzardo. Ci siamo concentrati per alcuni anni su questa nostra unicità. Il settore culturale, che oggi ha preso il sopravvento nella nostra attività, è stato invece sviluppato una decina d’anni fa sulla base di specifiche richieste dei nostri interlocutori. Oggi quindi ci occupiamo principalmente di grandi mostre di fotografia, di vendita di stampe fine art e della realizzazione di monografie. Lavoriamo ancora per le aziende, ma in modo più marginale.
Elliott Erwitt. Siamo famosi per essere quelli di Steve McCurry, ma l’anima di tutto, il maestro, quello che ha dato l’imprinting, quello che mi ha insegnato il lavoro, la critica, il pensiero, insomma tutto e anche di più, è Elliott. Senza di lui non esisteremmo. E quando facciamo scelte di qualunque genere, l’asticella è sempre la stessa: cosa ne penserebbe Elliott? Rigore, estetica, sostanza e ironia: ecco i pilastri. Come lui odiamo i trucchetti e le cose costruite. Cerchiamo interpretazioni della realtà. Questo è Elliott e a questo cerchiamo di assomigliare.
Ogni singola parola, ogni gesto di Elliott è stato il regalo più grande che mi è stato fatto. No no, nessuna autonomia di pensiero, lui alza un sopracciglio e io mi adeguo, ha sempre ragione lui. Certo gli ho dato una piccola delusione, quando mi ha chiesto quale fotografia volessi in regalo e ho risposto: «Il bacio nello specchietto». «Anche tu? – mi ha detto – ma perché?». Non è la sua fotografia preferita, ma se ne è fatto una ragione! A parte i ricordi, dopo tanti anni di lavoro insieme, anche sul campo, ho costruito con lui una mostra inedita. Sono arrivata a New York con la mia selezione, e abbiamo discusso immagine per immagine. La mostra era “Family” per il Mudec Foto di Milano. Uno dei momenti più emozionanti del mio percorso.
Servono delle doti di base: passione, pervicacia, umiltà, tanto studio dei classici. Io ho avuto la fortuna di avere un maestro eccezionale e capisco che non capita a tutti. Ma anche i libri possono essere dei buoni maestri. Libri di fotografia e di storia dell’arte. Quanto alle facoltà universitarie, dipende da chi sono i docenti. E appunto dalla loro umiltà. E infine, è fondamentale il confronto con il lavoro degli altri, catturare gli stimoli, attivare una fase critica.
L’eleganza compositiva, la storia che racconta e se riesce ad esprimere una verità. Questo mix fa sì che ti si imprima nella mente, e si manifesti quando meno te l’aspetti. Come una musica.
Vediamo tanti talenti, vediamo mostre, incontriamo ragazzi ai festival, siamo sommersi dai libri ed è davvero raro che qualcuno ci emozioni, che abbia un linguaggio personale, e che sia coerente nel suo percorso. Quando ne incontriamo uno lo percepiamo già alla terza immagine che ci mostra. Ci deve piacere, tanto nelle sue immagini quanto come persona. Lo capiamo subito. Ci viene voglia di possedere fisicamente le sue stampe!
Bamiyan, Afghanistan, 2007 © Steve McCurry Santa Monica, California, 1955 © Elliott Erwitt
Il lavoro che avete fatto con Steve McCurry in Italia mi sembra non abbia eguali in Europa. Tutti lo conoscono e non c’è forse regione italiana che non abbia ospitato una sua esposizione. Ritenete di aver formato anche un gusto nei visitatori?
Quali caratteristiche deve avere una mostra per non essere una “ulteriore mostra fra le tante”?
Cosa consiglieresti a un giovane fotografo all’inizio del suo percorso? Conta tenere sott’occhio Instagram? Conta piuttosto partecipare a concorsi e festival?
Il segreto è non essere noiosi.
Quello che ho imparato in 25 anni di professione interamente dedicata alla fotografia, è che ci sono dei momenti in cui un certo autore incontra il gusto del pubblico. Per anni abbiamo promosso Elliott e lavorato unicamente con lui; Steve veniva proposto ma non lo voleva nessuno. Poi abbiamo iniziato a creare delle mostre che coniugassero le immagini con delle vere e proprie installazioni e ci siamo avvalsi del genio di Peter Bottazzi e Titta Buongiorno, un architetto scenografo e una light designer, per gli allestimenti. Io di mio, ho inventato l’idea che le mostre di fotografia non dovessero mai più avere un percorso obbligato e noiosissimo. Volevo mescolare tutto, anni, paesi, situazioni e lasciare le persone libere di muoversi come volevano. Steve ha accettato. Si è fidato, ed è stato un boom. In Italia sono più di 40 le mostre fatte, la lista di attesa è lunga, e adesso ci occupiamo anche delle mostre europee. Certo le immagini di Steve raccontano delle storie, certo la selezione che curo è lunga e laboriosa, e si incentra principalmente sul mio gusto personale, ma io credo che anche il modo di presentarle, il buio, le luci di Titta, abbiano creato un linguaggio pop che è uscito dai confini degli appassionati di genere. Parliamo a tutti. Questo è quello che mi piace fare. Parlare a tutti.
Per rispondere a questa domanda servirebbe un trattatello, per esempio già quattro ragazzi hanno fatto delle tesi sulle nostre mostre, e devo dire che quelli del Politecnico di Milano erano preparatissimi! Devono essere considerati molti elementi: il dialogo con lo spazio, il rispetto dello spazio e delle fotografie dell’autore, ma non basta. Il segreto è non essere noiosi. Ho visto decine e decine di mostre con immagini bellissime, in spazi meravigliosi che erano però mortalmente noiose. Le installazioni site specific, pensate per costituire un legame tra spazio e immagine sono essenziali, come lo sono le luci. Infine la distribuzione delle immagini deve essere fatta con lo schema della sinfonia. Introduzione, tema, momenti seri alternati a momenti allegri. L’occhio non deve mai annoiarsi. Il curatore deve essere un regista. Deve sparire, fare il suo lavoro e consegnare la mostra ai visitatori. Qualunque altro metodo è perdente. Il curatore non deve esprimere il suo ego e la sua impronta. Non è lui che va in scena. Sta qui il segreto dello straordinario successo che abbiamo avuto.
Conta tutto. Conta vedere mostre, capire il lavoro degli altri, osservare a lungo libri, montare progetti personali che abbiano coerenza e poi proporli alle fondazioni, ai premi, ai festival. Conta presentare il proprio lavoro in prima persona, raccontandone la genesi, il percorso. Conta andare a trovare i maestri, parlare con loro, come Nino Migliori, Sabine Weiss, Gianpaolo Barbieri... Le strade, oggi più che mai, sono aperte, esistono strumenti eccezionali per un confronto diretto, dagli NFT, alle piattaforme come Instagram, YouTube... e, soprattutto, consiglierei di non arrendersi.