lewis carroll Alice nel Paese delle Meraviglie Traduzione di Aldo Busi Note di Stefania Larzeni
prefazione “Nel Labirinto della Mente” di Stefania Larzeni
Si è voluto realizzare una rivisitazione di “Alice nel Paese delle Meraviglie” facendo un focus sulle malattie psichiche associate ai vari personaggi del libro. Una scelta dettata dalla voglia di far chiarezza sullo stato emotivo e psicologico dell’autore, anch’egli affetto da molte patologie citate in questa rivisitazione, oltre a fare una panoramica psichiatrica della società dell’epoca. Come viene in seguito riportato, Lewis Carroll soffriva di balbuzie infantile ed emicrania delegati ai personaggi del Dodo e del Re di Cuori. Per quanto riguarda la società dell’epoca è bene evidenziare l’assunzione saltuaria di oppiacei e derivati oltre all’instabilità mentale dei cappellai del XIX sec. data dall’intossicazione da mercurio con cui erano realizzati i cappelli. Per semplificare ulteriormente la lettura ad ogni capitolo son segnalate, in un labirinto composto da dodici “corridoi” concentrici, le varie patologie dello stesso. Ogni patologia ha un colore e icone differenti in base ai personaggi e agli elementi che l’hanno stimolata. In seguito si scoprirà che il labirinto non è nient’altro che una mappatura del cervello, infatti ogni icona sarà posta nella sede anatomica del cervello disturbata. Un labirinto della mente dell’autore.
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legenda adhd (difficoltĂ di concentrazione)
Alice assunzione stupefacienti allucinazioni - macromatognosia
Brucaliffo
Alice
disturbo dissociativo dell’identitĂ
Alice
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pianto patologico-depressione
Tartaruga di mare
Alice
balbuzie
Dodo agnosia visiva
Duchessa intossicazione da mercurio
Cappellaio Matto
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narcolessia
Ghiro ansia-proccupazione
Bianconiglio emicrania con aura
Re di Cuori
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Alice nel Paese delle Meraviglie
“E scivola nel pomeriggio d’oro”
E scivola nel pomeriggio d’oro piano la barca col pigro equipaggio; un remo qua, uno là, senza perizia manovran le braccine, nel miraggio di dare un qualche senso razionale al nostro zigzagar di vasto raggio. Ah, mie Tre-mende! in quest’ora di pace con questo tempo di sogno pretendere una storia dal mio fiato fugace che non basta a far muovere una piuma! Ma che può mai una voce allo stremo contro tre lingue e tutte con un remo? E già dardeggia Prima imperiosa il suo editto: “Dài, su, comincia!” mentre Secunda, più cerimoniosa, “mettici dentro nonsensi a palate!” Tertia interviene con qualche sua chiosa almeno trentatré volte al minuto.
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All’improvviso è calato il silenzio tre fantasie rincorrono a gogò il sogno della bimba in un paese di meraviglie inedite e di “Oibò!” di chiacchiericci con lepri e stregatti – ma poi non sanno se crederci o no. E quando ormai la storia ha prosciugate le polle della mente che racconta invano tenta l’esaurito vate di darci un taglio e piano esala “il resto un’altra volta...” ma le tre sfrenate vocine: “ma questa è già un’altra volta!” Ed il Paese delle Meraviglie nacque così, cullato dall’acqua, schizzaron pazze fuori le sue figlie e ora che la storia è terminata noi verso casa dirigiam le chiglie: la luna al sole chiede compermesso. Alice mia, con mano tenerissima deponi questa bambinella storia in mezzo ai sogni che i fanciulli intrecciano col mistico nastro della memoria: come il serto che il pellegrino colse nelle lande di Tantotempofà.
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I Nella tana del Coniglio
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Alice cominciava a essere stufa di starsene seduta vicino a sua sorella sulla riva del fiume, senza niente da fare; aveva sbirciato un paio di volte nel libro che sua sorella stava leggendo, ma non c’erano né figure né dialoghi, “e a che pro un libro,” pensava Alice, “senza le figure e i dialoghi?” Così se ne stava a riflettere nella sua testolina (per quanto era possibile, perché faceva un caldo del diavolo e le cascavano gli occhi e la concentrazione) se il piacere di intrecciare una coroncina di margherite valesse la noia di alzarsi per coglierle, quando dal nulla un Coniglio Bianco con gli occhi rosa le passò accanto correndo a tutta birra. Niente di veramente insolito in ciò, né a Alice sembrò del tutto fuor dal comune sentire il Coniglio che diceva fra sé e sé “Oh cielo! Che ritardo! Siamo già nel Terzo Millennio e del tutto L’ansia è uno stato della mente in cui si è costantemente preoccupati e spaventati. Tra le paure sono incluse tutte quelle situazioni in cui è necessario dimostrare di fronte ad altre persone, le proprie abilità. Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione con Iperattitvità è caratterizzato da inattenzione, impulsività e iperattività motoria. Classificato come disturbo neuropsichiatrico dell’età evolutiva esso compromette numerose tappe dello sviluppo e dell’integrazione sociale del bambino. Rappresenta la causa maggiore di disturbi della condotta. Il campo degli studi e ricerche a livello mondiale riguarda ogni aspetto del disturbo, nonchè i vari interventi di trattamento psicoeducativi, psico-sociali, comportamentali ma anche farmacologici con psicostimolanti e psicofarmaci alternativi.
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invano! Gambe in spalla!” (quando poi ci ripensò, le venne in mente che avrebbe dovuto meravigliarsene, ma sul momento tutto le sembrò così naturale); quando però il Coniglio tirò fuori un cipollone dal taschino del panciotto e, consultatolo, subito riprendeva a correre. Alice balzò in piedi, fulminata dal pensiero che non aveva mai visto prima un coniglio né con un taschino del panciotto né con un orologio da tirarne fuori e, morendo di curiosità, prese a inseguirlo attraverso il prato e ebbe la fortuna di fare in tempo a vederlo gettarsi sotto la siepe, dentro una tana grossa così. Subito Alice vi si infilò dentro, senza neppure darsi pena di chiedersi come diavolo avrebbe fatto a riuscirne. La tana per un po’ era dritta come una galleria, poi virò improvvisamente a muso ingiù ma così improvvisamente che Alice non ebbe neppure il tempo di frenare: si trovò ribaltata a gambe all’aria, giù per un pozzo che sembrava senza fine. O il pozzo era molto profondo o lei stava precipitando molto lentamente, dato che, durante la discesa, aveva tutto il tempo di guardarsi attorno e di chiedersi: “E subito dopo di adesso che succederà?” Dapprima cercò di guardare giù per vedere dove mai sarebbe finita, ma faceva troppo buio per distinguere checchessia, poi spostò lo sguardo verso le pareti del pozzo e si accorse che erano piene di armadietti e di scaffali, qui e là vide delle carte geografiche e dei quadri trattenuti da mollette per il bucato. Seguitando a cadere, riuscì a tirar giù al volo un barattolo da una delle scansie; sull’etichetta c’era scritto “marmellata d’arance”, ma con suo grande disappunto era vuoto: non
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le andava di lasciar cadere il barattolo per il timore di uccidere qualcuno, e così fece in modo di riporlo in uno degli armadietti che precipitava accanto a lei. “Benone!” si disse Alice. “Dopo una caduta come questa, cosa vuoi che sia un capitombolo giù dalle scale? Che figura coraggiosa che farò a casa! Ah sì, non mi scapperebbe un lamento nemmeno se mi cascasse il mondo addosso!” (per forza, con tutta quella terra in bocca!) Giù, giù, giù. Avrebbe mai finito di cadere? “Chissà quanti chilometri è che sto cadendo!” disse a voce alta. “Starò avvicinandomi più o meno al centro della terra. Vediamo un po’: dovrebbe fare un seimila chilometri e qualche di profondità, penso...” (giacché, dovete sapere, Alice aveva imparato molte cose del genere durante le lezioni a scuola, e benché questa non fosse l’occasione più adatta per far sfoggio di cultura, dato che il pubblico era scarsino, tuttavia era sempre il momento buono per fare un po’ di ripasso) “... sì, dovrebbe essere la distanza esatta... ma allora chissà a quale Latitudine o Longitudine mi trovo!” (Alice non aveva la minima idea né sulla Latitudine né sulla Longitudine, ma erano pur sempre dei gran bei paroloni da tenere pronti.) A questo punto riattaccò: “Chissà se sto attraversando tutta la terra! Che numero sbucare fra quella folla di gente che cammina a testa in giù! Tantipodi, se non erro...” (Stavolta fu abbastanza contenta che non ci fosse nessuno a ascoltarla, questa parola non le appagava l’orecchio) “... ma dovrò chiedergli il nome del paese, naturalmente. Scusi, signora, qui siamo in Nuova
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Zelanda o in Australia?” (e mentre parlottava cercò di fare la riverenza ‒ figurati, fare la riverenza intanto che stai precipitando nel vuoto! Credete di esserne capaci voi?) “Penserà che io sia una paesanella ignorante! No, non sarà proprio il caso di far domande: ci sarà pure un cartello stradale da qualche parte”. Giù, giù, giù. Non c’era nient’altro da fare, così Alice riprese subito a parlottare: “Dinah sentirà la mia mancanza stasera, e tanto, credo!” (Dinah era la gatta.) “Spero che si ricorderanno del suo piattino di latte all’ora del tè. Cara la mia Dinah, come vorrei che tu fossi quaggiù con me! Non c’è ombra di topi qui in giro, ma potresti prendere un pipistrello, che se non lo sai è quasi uguale a un topo. Chissà se i gatti ne van matti”. E a questo punto Alice cominciò a avere sonno e, come se stesse sognando, continuava a ripetersi: “I gatti ne van matti? I gatti ne van matti?” o anche: “I matti van a gatti? I matti van a gatti?” poiché, visto che non sapeva dare una risposta a nessuna delle due domande, non contava molto chi andava matto di chi. Sentì che le si stavano chiudendo gli occhi e aveva appena cominciato a sognare di stare mano nella zampa di Dinah e di dirle, con la massima serietà: “E adesso, Dinah, dimmi la verità: l’hai mai mangiato un pipistrello?”, quando improvvisamente, patapluff ! era finita sopra un mucchio di foglie secche. Fine della caduta. Alice non si era fatta nemmeno un graffio e l’attimo dopo era già in piedi. Guardò in su, ma era tutto buio; davanti a lei c’era un altro lungo corridoio, in fondo al quale scorse il Coniglio Bianco con le zampe più che mai in spalla. Non c’era un istante da perdere: Alice si mise a correre come il vento, e fece appena
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in tempo a sentirlo dire, mentre svoltava l’angolo, “Ah, povere le mie orecchie! Ah, povere le mie basettine! Che tardi che è! Sarà passato come minimo un altro Mille e non più Mille!” Gli era a poche spanne quando a sua volta girò l’angolo, ma il Coniglio era sparito; Alice si ritrovò in un atrio lungo e basso rischiarato da una fila di lampade appese al soffitto. L’atrio era un girotondo di porte, ma erano tutte chiuse, e dopo averle passate in rassegna provandone le maniglie una per una, scoraggiata, Alice si mise a camminare avanti e indietro, chiedendosi come diamine avrebbe fatto a uscire di lì. Improvvisamente si imbatté in un tavolino a tre gambe, di vetro massiccio; sopra non c’era niente, a parte una minuscola chiave d’oro: Alice pensò subito che poteva essere la chiave di una delle porte dell’atrio; ma, ahimè, o le serrature erano troppo grandi o la chiave era troppo piccola; sia come sia, non ne apriva neanche una. Ma mentre faceva un secondo giro si trovò davanti a una tenda bassa bassa che in precedenza non aveva notato: dietro c’era una porticina alta circa trenta centimetri. Infilò la piccola chiave d’oro nella serratura e, urrà! si incastrò perfettamente. Alice aprì la porta e scoprì che dava su un piccolo corridoio, non più grande della tana di un topo: si inginocchiò e il suo sguardo si posò sul giardino più incantevole di questa terra. Com’era impaziente di uscire da quell’antro scuro e zuzzerellare fra quelle aiuole di fiori variopinti e quelle fontanelle ristoratrici, ma non riusciva neppure a infilare la testa in quella porta! “E mettiamo di farcela con la testa,” pensò la povera Alice, “non
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mi servirebbe a niente se devo lasciarmi dietro le spalle. Oh, come vorrei ritirarmi come un telescopio! Potrei farcela, se soltanto sapessi da che parte cominciare.” Converrete infatti che di recente le erano capitate tante di quelle cose fuori dal normale che Alice cominciava a pensare che ne restavano solo pochissime davvero impossibili. Siccome le sembrava proprio inutile star lì a aspettare davanti alla porticina, ritornò al tavolino, con la vaga speranza di trovarci sopra un’altra chiave, o almeno un manuale di istruzioni per accorciare la gente come i telescopi: stavolta vi trovò una piccola bottiglia (“sono sicura che prima non c’era,” disse Alice) con attorno al collo un’etichetta che in armonioso e cubitale stampatello diceva: “bevimi”. Si faceva presto a dire “bevimi”, ma la piccola e saggia Alice non era tipo da ubbidire così in quattro e quattr’otto. “No, diamoci un’occhiatina prima,” disse, “per vedere se c’è scritto ‘veleno’ o no”. Aveva letto parecchie graziose storielline a proposito di bambini finiti arrosto o sbranati dalle bestie feroci e via di raccapriccio in raccapriccio, e tutto perché non avevano fatto mente locale a quelle semplici norme di prudenza impartite loro dagli amici, tipo: un attizzatoio rovente finirà per scottarti se lo tieni in mano troppo a lungo; oppure: se ti tagli un dito fino all’osso con un coltello, di solito sanguina, e lei non se l’era mai scordaLa piccola porta è la metafora delle tante difficoltà della vita. C’è chi come Alice trova espedienti per superare con facilità questi impedimenti assumendo stupefacenti e bevendo (alcool).
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to che, se prendi una bottiglia con su “veleno” e alzi il gomito, quasi di sicuro prima o poi ti si strizza il pancino. A ogni buon conto, siccome su quella bottiglia non c’era scritto “veleno”, Alice si arrischiò a assaggiarne il contenuto e, trovandolo davvero squisito (aveva infatti un gusto misto di crostata di ciliegie, crema, ananas, tacchino arrosto, caramella mou e pan tostato e imburrato), se la scolò in un soffio. “Che strana sensazione!” disse Alice. “Mi sembra di restringermi come un telescopio!” Proprio così: era alta non più di venticinque centimetri, e il viso le si illuminò al pensiero che adesso era della statura giusta per passare da quella porta difilato nell’incantevole giardino. Prima, però, aspettò qualche secondo per vedere se continuava a accorciarsi: ciò la rendeva un po’ nervosetta; “non si sa mai,” disse Alice “che finisco consumata tutta come una candela. Chissà che faccia avrei allora!” E cercò d’immaginare com’è la fiammella di una candela da spenta, poiché non riusciva a ricordare di averne mai vista una. Microsomatognosia Nel 1952 C.W. Lippman pubblicò un articolo in cui descriveva un raro fenomeno psichico di alterazione della percezione dell’immagine corporea, riscontrato in alcuni soggetti emicranici e tossicodipendenti. Questi pazienti avevano la sensazione che il proprio corpo o parti di esso divenissero più grandi o molto più piccoli. J.Todd, nel descrivere questo fenomeno, conosciuto oggi come micro o macrosomatognosia, coniò l’espressione “Sindrome di Alice nel paese delle meraviglie” per analogia con quanto era sperimentato nel famoso romanzo.
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Dopo un po’, vedendo che non succedeva più niente, decise di entrare nel giardino senz’altro indugio ma, povera Alice! quando giunse alla porta si accorse di essersi dimenticata la piccola chiave d’oro, e quando ritornò al tavolo per prenderla... non ci arrivava più: riusciva benissimo a vederla attraverso il vetro e tentò con tutte le sue forze di arrampicarsi, ma la gamba del tavolo era troppo scivolosa, e quando fu allo stremo, la povera, piccola creatura ricadde a sedere e pianse. “Su, su, non serve a niente piangere così,” si rimbeccò bruscamente. “Ti dò un secondo di tempo per farla finita.” Di solito si dava dei buoni consigli (anche se li seguiva molto raramente) e talvolta si strapazzava così di brutto da farsi venire le lacrime agli occhi; una volta si era tirata le orecchie da sola per aver barato con se stessa a una partita di croquet di cui era anche l’avversaria, poiché questa insolita bambina ci teneva molto a dar da intendere di essere due persone. “Ma adesso non serve a nessuno essere due,” pensò la povera Alice. “Guarda qui, ce n’è rimasta così poca di me che non basterebbe neanche per farne Per disturbo dissociativo dell’identità s’intende la condizione in cui una persona ha in sè schermi distinti identità ciascuno con il proprio modello di percepire e interagire con l’ambiente. Questa diagnosi è conosciuta anche come disturbo della personalità multipla. La diagnosi richiede almeno due personalità di routine che prendano il controllo del singolo comportamento seguito da perdita di memoria che va oltre la dimenticanza normale: inoltre, i sintomi possono essere associati a un frequente consumo di droga o ad una condizione medica generale.
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una di persona rispettabile!”
Ma subito l’occhio le cadde su una scatolina di vetro che si trovava sotto il tavolo: l’aprì e dentro c’era una minuscola torta su cui un bellissimo ghirigoro di uva sultanina formava la parola “mangiami”. “Ah, ti mangio sì,” disse Alice, “e se mi fai allungare posso afferrare la chiave, se mi fai rimpicciolire posso strisciare sotto la porta, cosicché di riffa o di raffa arrivo nel giardino, e non m’importa un fico secco di quello che succederà!” Ne mangiò un pezzettino e si chiese con un nodo in gola “Da che parte? Da che parte?”, premendosi la mano sulla testa per sentire da che parte si muoveva, ma fu molto sorpresa di scoprire che restava tale e quale a prima. Non per scoprire l’acqua calda, ma è quel che succede di solito quando si mangia la torta, e Alice si era ormai così abituata a aspettarsi un fenomeno dietro l’altro che le sembrava stupido e noioso che la vita riprendesse il suo corso normale. E così si rimboccò le maniche, e in un attimo si era sbafata anche la torta.
Macrosomatognosia Assunzione di stupefacenti “... le sembrava stupido e noioso che la vita riprendesse il suo corso normale.”
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II In un lago di lacrime
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“Sempre più stranissimo!” esclamò Alice (era così stupefatta che per un istante si era del tutto dimenticata come si esclama senza strafare). “Adesso mi sto allungando come il più gran telescopio mai esistito! Ciaaao piedi!” (infatti quando abbassò lo sguardo le parve di veder sparire i suoi piedi, tanto se ne andavano remotamente per conto loro). “Oh, poveri piedini miei, chi vi metterà le calze e le scarpe adesso, cari? Io no di certo! Sarò troppo fuori portata per occuparmi di voi, bisognerà che cerchiate di arrangiarvi... Ma devo essere gentile con loro,” pensò Alice, “altrimenti non andranno più dove voglio andare io! Vediamo un po’: gli regalerò un paio di stivaletti nuovi ogni Natale!” E metteva a punto fra sé i vari dettagli. “Glieli faccio arrivare per corriere,” pensò, “che cannonata: mandare regali ai propri piedi! E che razza di indirizzo! Al Pregiatissimo Piede Destro di Alice Tappeto davanti al Caminetto presso Parafuoco (da Alice con amore)
Oh cielo, Alice, resta con i piedi per terra!” E in quell’istante la sua testa andò a sbattere contro il soffitto dell’atrio: adesso era diventata alta tre metri e passa, e subito
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s’impossessò della piccola chiave d’oro e si precipitò verso la porta che dava sul giardino. Povera Alice! tutto quel che riuscì a fare fu coricarsi su un fianco e guardare dentro l’apertura con un occhio solo; passare dall’altra parte era impresa più che mai disperata: si sedette e scoppio di nuovo in un pianto dirotto. “Dovresti vergognarti di te stessa,” disse Alice, “una ragazza grande e grossa come te!” (poteva ben dirlo!) “lì a frignare così! Dacci un taglio, per favore!” Ma lei continuo lo stesso, versando litri e litri di lacrime, finché non le si formò una larga pozza attorno, profonda una decina di centimetri, che allagò metà atrio. Dopo un po’ in lontananza udì un flebile scalpiccio di passi e si asciugò gli occhi in fretta e furia per vedere quest’altra novità. Era il Coniglio Bianco di ritorno, elegantissimo, con un paio di guanti bianchi di capretto in una mano e un ampio ventaglio nell’altra: si avvicinava trotterellando a tutta andatura, senza Disturbo dissociativo dell’identità “Dovresti vergognarti di te stessa,”... “una ragazza grande e grossa come te!”... “lì a frignare così! Dacci un taglio, per favore!” La depressione è una patologia dell’umore caratterizzata da un insieme di sintomi cognitivi, comportamentali, somatici ed affettivi che sono in grado di diminuire in maniera da lieve a grave il tono dell’umore, compromettendo la vita sociale e privata di una persona. La depressione fa parte dei disturbi dell’umore, insieme ad altre patologie come la mania e il disturbo bipolare.
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per questo smettere di borbottare fra sé e sé: “Già l’Anno Z e r o ! Oh! la Duchessa, la Duchessa! Oh! Sarà troppo furiosa che l’ho fatta aspettare!” Alice era cosi disperata che si sentiva disposta a chiedere aiuto al primo venuto, cosicché, quando il Coniglio le fu a tiro, comincio con voce bassa e timida: “Per piacere, signore...” Il Coniglio ebbe un violento sobbalzo, lasciò cadere i guanti e il ventaglio e sparì nelle tenebre come un fulmine. Alice raccolse il ventaglio e i guanti e, siccome l’atrio era surriscaldato, prese a farsi vento senza smettere di parlare: “Che roba! Roba dell’altro mondo! Tutto il mondo, oggi, è roba dell’altro mondo! E pensare che fino a ieri le cose avevano un capo e una coda! E se mi avessero scambiata stanotte? Vediamo un po’: stamattina, quando mi sono svegliata, ero proprio la stessa? Mi sembra di ricordare che un po’ diversa mi sentivo, sotto sotto. Ma se non sono la stessa, allora domando e dico: chi cavolo sono? Ah, questa si che è una domanda da centoventidue milioni!” E comincio a passare in rassegna tutte le bambine più o meno della sua età che conosceva, casomai l’avessero scambiata con una di loro. “Ada non posso essere di sicuro,” disse, “lei ha tutti quei boccoli
Ansia - Preoccupazione Disturbo dissociativo dell’identità “chi cavolo sono?”
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nei capelli e io sono liscia come un olio; mai più posso essere Mabel, io so un saeco e una sporta di cose e lei, oh! lei non sa un’acca! Inoltre lei e lei e io io e... uffa, ho perso il filo! Proverò a vedere se le cose che sapevo sono ancora al loro posto. Dunque: quattro per cinque dodici, quattro per sei tredici, quattro per sette... povera me, di questo passo non arriverò mai a venti! Comunque la tavola pitagorica non conta, proviamo con la Geografia. Londra è la capitale di Parigi e Parigi è la capitale di Roma, che è... no, va’ al tuo posto! Devo proprio essere stata scambiata con Mabel! Proverò a ripassare Piccol’ape...” e si mise con le mani intrecciate sul grembo come quando ripeteva una lezione e cominciò a recitare, ma le uscivano dei suoni aspri e strani, e non è che le venissero proprio le stesse parole delle altre volte: “Piccol’ape... ste di un coccodrillo spruzza e sguazza la tua coda in crociera lungo il Nillo fra la densa sua fanghiglia e ti agghindi scaglia a scaglia con la melma più di moda! “0 soave sogghignare, o sbadigli sopraffini, zanne senza fil di tartaro son quelle! è un’autentica delizia per granchietti e pesciolini varcar la soglia delle tue mascelle!”
“Non sono le parole esatte, ci giurerei!” disse la povera Alice, e di nuovo gli occhi le si riempirono di lacrime mentre riprendeva: “Sta’ a vedere che alla fin della suonata sono proprio Mabel, e mi toccherà far trasloco in quella sua baracchetta sciatta sciatta e avrò sì e no uno straccio di giocattolo e, oh, quante cose che
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dovrò imparare daccapo! No, qui bisogna prendere una decisione: se sono Mabel non mi sposterò di un millimetro! Inutile che ficchino dentro la testa per convincermi ‘Vieni su, tesoro!’ Mi limiterò a guardarli dal basso in alto e dirò: ‘Ma allora chi sono? Prima me lo dite e poi, se mi andrà di essere quella persona, ritorno su, altrimenti sto qui finché non sono diventata qualcun altro’... ma, oh cielo!” gridò Alice prorompendo in un pianto dirotto, “come vorrei che mettessero dentro la testa! Sono così stufa di marcire qui dentro tutta sola!” Detto questo, si guardò le mani, e fu stupita di vedere che, mentre parlava, si era infilata uno dei guantini bianchi di capretto del Coniglio. “Ma come ho fatto?” pensò. “Forse sto rimpicciolendo di nuovo.” Si alzò e si avvicinò al tavolo per prendersi le misure e scoprì che, a occhio e croce, era alta poco più di mezzo metro e continuava a restringersi rapidamente; finalmente capì: era tutta colpa del ventaglio! Folgorata lo lasciò cadere di mano, appena in tempo per evitare di rimpicciolire fino a sparire del tutto. “Per un pelo!” disse Alice, spaventata un bel po’ dall’improvviso cambiamento, ma anche felicissima di esserci ancora. “E adesso, giardino, a noi due!” E a tutta velocità ritornò alla piccola porta; ma, ahimè, la piccola porta era sempre chiusa e la piccola chiave d’oro giaceva ancora sul tavolo di vetro “e è peggio che andar di notte,” pensò la povera bambina, “perché
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non sono mai stata tanto piccolina, mai! E devo dire che questa volta l’ho fatta grossa, troppo!” E così dicendo, un piede le scivolò via e, splash! si ritrovò dentro l’acqua salata fino al mento. Lì per lì pensò di essere caduta, chissà come, in pieno mare, “se è così ritornerò in treno,” si disse. (Alice era stata al mare una sola volta in vita sua e aveva concluso che, dovunque si vada sulla costa inglese, trovi un sacco di macchine da bagno, bambini che spalettano nella sabbia, una fila di pensioni e, dietro al tutto, una stazione ferroviaria.) Ben presto, tuttavia, si rese conto di trovarsi nel lago di lacrime piante da lei stessa quando ancora era alta tre metri. “Sarebbe stato meglio se non avessi pianto tanto!” disse Alice nuotando in tondo alla ricerca di un approdo. “Adesso sarò messa in castigo, credo: mi faranno annegare nelle mie stesse lacrime! Roba dell’altro mondo! Ma già, tutto il mondo, oggi, è roba dell’altro mondo!” In quel preciso istante udì qualcosa che sguazzava un po’ più in là nel lago e a nuoto gli si accostò per vedere di che si trattava: in un primo momento le era sembrato un tricheco o un ippopotamo, ma poi si ricordò di quanto era piccola e si rese conto che era soltanto un topo scivolato dentro come lei. “Servirà a qualcosa ora mettersi a parlare con questo topo?” pensò Alice. “Tutto è così svitato da queste parti che non mi stupirebbe se sapesse parlare; a ogni modo, tentar non nuoce.” Detto fatto: “O Topo, sai come si esce da questo lago? Sono stanchissima di nuotare avanti e indietro, o Topo!” (Alice pensava che questo era il modo più appropriato di rivolgersi a un
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topo; non l’aveva mai fatto prima, ma ricordava di aver visto nella Grammatica Latina di suo fratello “Un topo – di un topo – a un topo – un topo – O topo!”). Il topo la squadrò in maniera alquanto indiscreta e le sembrò che le strizzasse uno dei suoi due occhietti, ma non disse niente. “Forse non parliamo la stessa lingua,” pensò Alice. “Forse è un topo francese, arrivato qua con Guglielmo il Conquistatore,” (con tutta la sua conoscenza della storia, a Alice non era mai troppo chiaro quando era successo questo e quello). Non si diede per vinta e disse: “Où est ma chatte?” che era la prima frase del suo sussidiario di francese. Con un guizzo repentino il Topo quasi uscì dall’acqua e sembrò rabbrividire fino alla radice dei peli dallo spavento. “Oh, scusami tanto!” gridò Alice tutto d’un fiato, temendo di aver ferito la sensibilità della povera bestiola, “m’ero completamente scordata che a te i gatti non piacciono.” “Se mi piacciono i gatti!” squittì il Topo, con un urlo stridulo e impetuoso. “Ti piacerebbero i gatti a te se fossi me?” “Bo’, forse no,” disse Alice con voce conciliante, “non prendertela per così poco! Eppure, la mia gatta Dinah... sono sicura che ti incapricceresti dei gatti, se la vedessi. È così tranquilla, un tesoro,” continuò Alice quasi fra sé, nuotando pigramente nel lago, “e si acciambella davanti al camino, facendo le fusa, leccandosi le zampe e lavandosi tutta... e che cosina soffice da coccolare... e che folgore a prendere i topi, un fenomeno, oh! ho fatto una gaffe!” gridò di nuovo Alice, poiché stavolta al Topo gli si erano rizzati tutti i peli, e lei aveva la sensazione che si fosse offeso a morte. “Be’, cambiamo argomento completamente, se proprio ti
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dà tanto fastidio.” “Cambiamo?” gridò il Topo, che stava tremando fino alla punta della coda. “Come se io avessi mai parlato di una cosa del genere! La nostra famiglia i gatti li odia da generazioni: esseri malvagi, meschini, grossolani! Non voglio neanche sentirli nominare!” “Da me mai più!” disse Alice, che non vedeva l’ora di parlare di qualcos’altro. “E i... e a te... ti piacciono i cani?” Il Topo non rispose, perciò Alice andò avanti con veemenza: “C’è un cagnolino così carino vicino a casa nostra, mi piacerebbe proprio fartelo conoscere! Un piccolo terrier, con gli occhi vispi, sai, pelo marrone, tutto ricciolino! E se gli getti qualcosa corre a prenderlo, e si mette a sedere tutto impettito e reclama la sua cena, e tutta una serie di cose... me ne ricorderò sì e no la metà... Il contadino, il suo padrone, dice che è così utile, vale più di cento sterline! Dice anche che fa fuori tutte le pantegane e... Altra gaffe!” esclamò, vedendo il Topo che fuggiva sbracciandosi a nuoto come se avesse il fuoco alla coda, provocando un mezzo fortunale nel lago. Allora lo chiamò con dolcezza: “Sorcetto caro, dai, torna indietro, non parleremo più né di gatti né di cani, se ti stanno così indigesti!” Quando il Topo la udì, fece muso-coda e con comodo rifece il tratto a nuoto; era sbiancato in muso (per la rabbia, pensò Alice) e bisbigliò con voce tremula: “Tocchiamo riva che ti racconterò la mia storia, così capirai perché odio gatti e cani”. Era l’ora di muoversi, poiché il lago si stava affollando fino all’inverosimile di uccelli e altri animali che vi erano caduti
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dentro; c’erano un’Anitra e un Dodo, un Lorichetto e un Aquilotto, e molte altre strane creature. Alice faceva strada e l’intera brigata nuotò fino a riva.
La balbuzie è un disturbo del linguaggio in cui il flusso del discorso viene interrotto da ripetizioni involontarie e prolungamenti di suoni, sillabe, parole o frasi, e in silenzio involontario pause o blocchi in cui il balbuziente non è in grado di produrre suoni. I balbuzienti hanno delle differenze anatomiche nel cervello, in particolare a livello di una regione chiamata planum temporale, implicata nel controllo del linguaggio. Per quanto riguarda Lewis Carroll aveva una balbuzie infantile e la parodia del suo difetto è affidata al personaggio di Dodo (“Do-do-Dodgson”).
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III Carosello elettorale e codazzo di miserie
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Era proprio un bel campionario quello che si radunò sulla riva – gli uccelli con le penne inzaccherate, gli animali con la pelliccia incollata alla pelle e tutti grondanti, esausti e di pessimo umore. Innanzitutto, naturalmente, bisognava pensare a come asciugarsi: ci fu una consultazione, e dopo alcuni minuti a Alice sembrò del tutto naturale rivolgersi a loro familiarmente come se li conoscesse da una vita. Per la verità, ebbe un’accesa discussione con il Lorichetto, che finì per impermalosirsi e troncò col dire “Sono più vecchio di te, lo saprò ben io!” Cosa che a Alice non andava giù se prima non sapeva quanti anni aveva il Lori, e siccome questo qua si rifiutava di rivelare la propria età – categoricamente –, non ci fu altro da aggiungere. Alla fine il Topo, che sembrava godere di una certa autorità fra gli astanti, annunciò: “Sedetevi e ascoltatemi. Io vi farò seccare in un battibaleno!” Si misero immediatamente a sedere in cerchio, con il Topo al centro. Alice gli teneva gli occhi incollati addosso, poiché era sicura di beccarsi un raffreddore se non si fosse asciugata alla svelta. “Hemhem!” disse il Topo aggrottando la fronte. “Siete tutti pronti? Ve la dico io la cosa che secca di più. Silenzio lì in fondo, per piacere! ‘Guglielmo il Conquistatore, la cui causa era spalleggiata dal Papa, fu presto messo sotto dagli Inglesi che volevano essere sottomessi, perché erano a corto di capi e adusi ormai agli usurpatori e ai conquistatori. Edwin e Morcar, conti di Mercia e di Northumbria...’” “Uffa!” disse il Lorichetto scuotendosi con un brivido. “Mi perdoni,” disse il Topo, accigliandosi, ma rispettoso delle
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forme. “Ha detto qualcosa?” “Io no!” s᾿affrettò a dire il Lorichetto. “Ah, volevo ben credere!” disse il Topo. “Allora vado avanti. ‘Edwin e Morcar, i conti di Mercia e di Northumbria, si pronunciarono in suo favore, e persino Stigand, il patriottico arcivescovo di Canterbury, trovò la qualcosa consigliabile...’” “Trovò che?” disse l᾿Anitra. “La qualcosa,” rispose il Topo alquanto seccato. “Lei saprà certamente cosa significa la qualcosa.” “Altroché se lo so, quando trovo qualcosa io,” disse l᾿Anitra, “di solito si tratta di una rana o di un lombrico. La mia domanda è che cos᾿è che trovò l’arcivescovo.” Il Topo non fece caso alla domanda e proseguì imperterrito “‘... trovò la qualcosa consigliabile tanto che si unì a Edgar Atheling per muoversi all’incontro di Guglielmo e offrirgli la corona. Da principio Guglielmo si comportò con moderazione. Ma l’insolenza dei suoi Normanni...’ Come ti senti adesso, cara?” chiese rivolgendosi a Alice. “Più bagnata di prima,” disse Alice con voce malinconica, “non mi sembra che faccia alcun effetto sui vestiti.” “In tal caso,” disse il Dodo solennemente alzandosi in piedi, “propongo di aggiornare l’assemblea per l’adozione immediata di più drastici rimedi...” “Parla come ti ha insegnato tua mamma!” disse l᾿Aquilotto. “Non conosco il significato di metà di quei paroloni lunghi lì e mi taglio il becco se lo sai tu!” E l᾿Aquilotto abbassò la testa per sogghignare sotto i baffi;
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si udirono i risolini di alcuni altri volatili. “Quel che volevo dire,” disse il Dodo con tono offeso, “era che la cosa migliore per asciugarsi sarebbe un Carosello elettorale.” “Che cos᾿è un Carosello elettorale?” disse Alice: non che ci tenesse molto a saperlo, ma il Dodo aveva lasciato cadere una pausa come se qualcuno dovesse prendere la parola, ma nessuno si era sognato di farlo. “Be’,” disse il Dodo, “il modo più democratico per spiegarlo è farlo.” (E nel caso aveste voglia anche voi di sperimentarlo in un giorno d’inverno, adesso vi dirò come lo organizzò il Dodo.) Innanzitutto tracciò la pista, una specie di cerchio (“cerchio o quadrato basta che sia una pista,” disse lui) e poi tutta la brigata fu piazzata lungo il circuito in ordine sparso. Non ci fu alcun “Uno due tre via!”, ma ognuno prese a correre secondo come gli girava e ognuno si ritirava a capriccio, cosicché non era tanto facile stabilire se si era tagliato un traguardo. Tuttavia, dopo che tutti quanti avevano corso una buona mezz᾿ora e erano tutti belli asciutti, il Dodo tagliò corto: “Fine della gara!” e tutti gli si radunarono intorno, ansimanti, e gli chiesero: “Ma chi ha vinto?” A questa domanda il Dodo non poteva rispondere senza farsi venire un᾿emicrania, e rimase un tempo incalcolabile coll’indice appoggiato alla fronte (la classica posizione di Shakespeare
Balbuzie
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che si vede nelle illustrazioni) mentre gli altri aspettavano zitti zitti. Finalmente il Dodo disse: “Hanno vinto tutti e i premi andranno a tutti ”. “Ma i premi chi ce li dà?” si levò un gran coro di voci. “Che domanda, lei, naturalmente,” disse il Dodo indicando Alice, e in un istante tutta la combriccola le si fece attorno e scoppiò un gran parapiglia: “I premi! I premi!” Alice non sapeva proprio che pesci pigliare e disperata si ficcò una mano in tasca e tirò fuori una scato-letta di fruttini (per fortuna lì l᾿acqua salata non era entrata) e li distribuì in giro. Ce n᾿era uno per ciascuno, neanche a farlo apposta. “Ma anche lei deve ricevere un premio, no?” disse il Topo. “È logico” rispose il Dodo con severità. “Cos’altro hai lì nella tasca?” continuò girandosi verso Alice. “Solo un ditale,” disse Alice affranta. “Da’ qui” disse il Dodo. Poi le si fecero di nuovo attorno, mentre il Dodo con fare cerimonioso le porgeva il ditale scandendo “Noi ti preghiamo di accettare questo elegante ditale,” e, finito questo breve discorso, scrosciò un applauso generale. Alice trovava tutto questo assurdo, ma ognuno aveva un’aria così compassata che non osò ridere e, dato che non le veniva niente da dire, si limitò a fare un inchino e a prendere il ditale con l’aria più solenne che poteva. Poi si accinsero allo sgranocchiamento dei fruttini: il che fu causa di un certo rumore e di non poca confusione, dato che gli uccelli più grandi protestavano di non averne nemmeno sentito
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il sapore e quelli piccoli si strozzavano e bisognava dargli delle gran pacche sulle piume. Tuttavia, anche quest’operazione fu condotta a termine e tutti si disposero di nuovo in cerchio e pregarono il Topo di raccontare ancora qualcosa. “Se ti ricordi, mi hai promesso di raccontarmi la tua storia,” disse Alice, “e perché odi tanto i... G e i C” aggiunse in un soffio, quasi temendo di offenderlo di nuovo. “Il mio è un lungo codazzo di miserie,” disse il Topo sospirando, volgendosi a Alice. “Ah per essere lungo è lungo davvero,” disse Alice abbassando lo sguardo meravigliato sulla coda del Topo, “ma cosa c’entrano le miserie?” E cominciò a almanaccarci sopra, mentre il Topo raccontava; ecco cosa ne venne fuori: “Disse Cagnazzo ad un topo, visto né prima né dopo, ‘vieni con me in tribunale e io ti querelerò. O che bel dì del giudizio voglio levarmi ‘sto sfizio, una giornata ideale, stavo annoiandomi un po’.’ Rispose il topo al bastardo: ‘Mister, con tutto il riguardo, senza giurati né giudici chi voterà la mia sorte?’ ‘Giurisprudenza è il mio pane’ dice quella volpe di un cane ‘fidati, in quattro e quattr᾿undici emetto un verdetto di morte!”
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“Distrattona!”disse il Topo a Alice severamente. “Che ti frulla in testa, eh?” “Scusami tanto,” disse Alice con ogni umiltà, “sei arrivato alla quinta curva, se non sbaglio...” “Mi prendi in giro?” urlò il Topo su tutte le furie. “No, davvero: a zig-zag” disse Alice, precisina come sempre. “Cerca di rigare dritto!” disse il Topo balzando in piedi e allontanandosi. “Mi stai oltraggiando con i tuoi nonsensi!” “Ma io non intendevo!” supplicò la povera Alice. “Sai che hai una bella coda di paglia?” Il Topo per tutta risposta emise solo un borbottio. “Torna qui, ti prego, a scodinzolare le tue miserie!” gli gridò dietro Alice. E tutti le fecero eco: “Sì, dài, per la miseria!” Ma il Topo si limitò a scuotere la testa e accelerò il passo. “Peccato che non sia rimasto!” sospirò il Lorichetto, non appena fu scomparso del tutto. E una vecchia Gambera approfittò per dire a sua figlia: “Ah, mia cara! Che ciò ti sia di lezione a non perdere mai la pazienza”. “Che ti venga un granchio, ma” disse la Gamberina, con una certa stizza. “Riusciresti a far uscire dai gangheri anche una perla d’ostrica, tu!” “Come vorrei che la nostra Dinah fosse qui, ah!” disse Alice alzando la voce, senza rivolgersi a nessuno in particolare. “Lei sì che ce lo riporterebbe indietro d’un balzo!” “E chi è Dinah, se non sono indiscreto?” disse il Lorichetto. Alice rispose tutta eccitata, poiché era sempre pronta a tessere le lodi del suo tesoruccio: “Dinah è la nostra gatta. È un vero fenomeno di topicida, non te l᾿immagini nemmeno! e, caspita,
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dovresti vederla alle prese con gli uccelli! Te lo dico io, non fa in tempo a vederne uno che l’ha già divorato!” Questo discorso suscitò vivace reazione nell’uditorio. Alcuni uccelli se la batterono di corsa, una vecchia Gazza prese a imbacuccarsi con ogni cura lasciando cadere un “Meglio rientrare, l’aria notturna non è proprio un toccasana per la mia gola!” e una Canarina chiamò a raccolta i suoi pargoletti dicendo con una vocina tremula “A nanna, carini della mamma! Carosello è finito da un pezzo!” Con i più svariati pretesti a uno a uno tagliarono la corda e in un batter d᾿occhio Alice si ritrovò da sola. “Facevo meglio a non nominare Dinah!” disse fra sé in tono malinconico. “Sembra che quaggiù non la digerisca nessuno, eppure sono certa che è la micetta migliore del mondo. Oh, mia cara Dinah! Chissà se mai più ti rivedrò!” E a questo punto Alice scoppiò a piangere di nuovo, perché si sentiva tanto sola e giù di corda. Dopo un poco, tuttavia, udì di nuovo un trepestio in lontananza e alzò gli occhi eccitata, quasi sperando che il Topo avesse cambiato idea e stesse tornando indietro per finire la sua storia.
Pianto patologico - depressione
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IV Senza Billyetto non si può entrare
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Era il Coniglio Bianco, che se ne tornava trotterellando con insolita lentezza, guardandosi attorno preoccupato, come se avesse perduto qualcosa, e Alice lo udì borbottare tutto da solo: “La Duchessa! La Duchessa! Oh, povere le mie zampe! Oh, la mia pelliccia, le mie basettine! Mi farà giustiziare, com’è vero che i Reali sono reali! Ma dove posso averli persi, dove?” Alice comprese subito che stava cercando il ventaglio e i guanti bianchi di capretto e, premurosa come sempre, cominciò anche lei a ispezionare il terreno, ma non si vedevano da nessuna parte – da quando aveva fatto quella nuotata nel lago tutto il paesaggio era cambiato, e il grande atrio, il tavolo di vetro e la porticina erano completamente svaniti. Il Coniglio ben presto si accorse di Alice, che continuava a scrutare per terra, e la richiamò all’ordine con tono collerico: “Insomma, Marianna, che ci fai da queste parti? Vattene subito a casa e portami un paio di guanti e un ventaglio! Spicciati!” e Alice ne fu così terrorizzata che corse come una saetta nella direzione da lui indicata, senza neppure tentare di chiarire l’equivoco. “Mi ha scambiata per la colf,” si disse sempre correndo. “La faccia che farà quando si accorge chi sono io! Ma è meglio portargli i suoi guanti e il suo ventaglio... sempre che li trovi.” Mentre finiva la frase, capitò davanti a una piccola casa linda linda, sulla cui porta c’era una targa d’ottone tirata a lucido con il nome
Ansia - Preoccupazione
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“B. Coniglio” inciso sopra. Entrò senza bussare e corse di sopra, con la paura d’incontrare la vera Marianna e di essere buttata fuori prima di aver trovato guanti e ventaglio. “Robe dell’altro mondo!” si diceva Alice. “Fare da galoppina a un coniglio! Di questo passo anche Dinah mi impartirà le commissioni!” E prese a immaginarne le conseguenze: “‘Signorina Alice! Venga subito qua e si prepari per andare a passeggio!’ ‘Vengo subito, signora istitutrice! Sto facendo la guardia a questo buco qua finché Dinah non ritorna, altrimenti mi scappa il topo che c’è dentro. ’ Però non credo,” proseguì Alice, “che continuerebbero a tenerla in casa se cominciasse a dar ordini alla gente in questo modo!” Nel frattempo, era giunta a una stanzetta immacolata con un tavolino davanti alla finestra, sopra il quale (proprio come aveva sperato) c’erano il ventaglio e due o tre paia di minuscoli guanti bianchi di capretto: prese il ventaglio e un paio di guanti, e stava appunto per andarsene quando l’occhio le cadde su una piccola b ottig lia accanto allo specchio. Questa volta niente etichetta “bevimi”, ma a ogni buon conto la stappò e se la portò alle labbra. “Scommetto che sta per capitarmi qualcosa di interessante,” si disse, “come ogni volta che mangio e bevo qualcosa; voglio proprio vedere che effetto fa questa bottiglia. Speriamo che mi faccia crescere di nuovo, perché sono proprio stufa di essere una cosina così piccina!”
Macrosomatognosia
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E così fu, e molto prima di quanto si aspettasse: non aveva neppure scolato mezza bottiglia che si ritrovò con la testa schiacciata contro il soffitto e dovette piegarsi per non rimetterci l’osso del collo. Posò immediatamente la bottiglia, dicendo fra sé e sé: “È più che sufficiente... adesso basta crescere, però... già così non posso più uscire dalla porta... Ah, se non avessi alzato tanto il gomito!” Ahilei! Troppo tardi! Continuò a crescere e ben presto dovette mettersi in ginocchio sul pavimento; un altro minuto, e non aveva più spazio nemmeno per stare in quella posizione e provò a sdraiarsi appoggiando un gomito alla porta e piegando l’altro braccio dietro la testa. Ma non smetteva di crescere e, quale ultima via di scampo, infilò un braccio fuori dalla finestra e un piede su per il caminetto pensando: “Ora sono proprio fritta, in ogni caso. Dove andrò a finire?” Fortunatamente, la piccola bottiglia magica aveva ormai esaurito il suo effetto e Alice smise di crescere, ma che scomodità! e dato che per lei non sembrava esserci alcuna speranza di uscire sana e salva da quella stanza, nessuna meraviglia se si sentiva tanto infelice. “Stavo meglio a casa mia,” pensava la povera Alice, “almeno là non si passa il tempo a crescere e a restringersi e a essere messe in riga da topi e conigli. Quasi quasi era meglio se non cadevo apposta in quella tana... eppure... eppure... è piuttosto insolito Assunzione alcool, allucinazioni, macrosomatognosia “...Ah, se non avessi alzato tanto il gomito!”
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questo tran-tran qui. Chissà cosa diamine mi è successo! Quando leggevo le fiabe, e ne succedevano di tutti i colori, non ci credevo, e invece eccomi qui nel bel mezzo di una fiaba! Bisognerebbe scrivere un libro su di me, sarebbe un best seller! Da grande me ne scriverò uno io... Ma io sono già grande adesso!” aggiunse con voce piena di tristezza, “e poi qui non c’è spazio per diventare ancora più grande.” “Però,” pensò Alice, “questo significa che non diventerò mai più vecchia di così! certo che non sarebbe male, da una parte... non diventare mai vecchia... però... sempre quelle lezioni da studiare! Oh, questo no e poi no!” “Sciocchina d’un’Alice!” si rispose tutta da sola. “Come faresti a studiare qui? Ma se non c’è spazio nemmeno per una pagella, figuriamoci per un sussidiario!” E andava avanti così, considerando prima ogni medaglia e poi il suo rovescio, e diede vita a una conversazione piuttosto animata; ma dopo qualche minuto avvertì una voce dall’esterno e si interruppe per ascoltare. “Marianna! Marianna!” diceva la voce. “Portami i guanti seduta stante!” Poi si udì un trepestio di piedini su per le scale. Alice sapeva che era il Coniglio che la veniva a cercare e si mise a tremare fino alle fondamenta, dimenticando che ormai lei era mille volte più grande del Coniglio e non aveva proprio di che temerlo. Diaturbo dissociativo dell’identità “Sciocchina d’un’Alice!” si rispose tutta da sola.
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Ora il Coniglio era arrivato davanti alla porta e tentava di aprirla ma, siccome si apriva verso l’interno e il braccio di Alice vi era schiacciato contro, i suoi sforzi furono inutili. Alice lo sentì dire a se stesso: “Faccio il giro e passerò dalla finestra”. “Provaci!” pensò Alice e, dopo aver aspettato finché non le parve di sentire il Coniglio sotto la finestra, distese una mano e di colpo la richiuse a pugno. Non afferrò niente, ma udì un grido strozzato e poi qualcosa che cadeva e un rumore di vetri rotti, per cui concluse che probabilmente era caduto in una serra o qualcosa del genere. Subito dopo si levò una voce rabbiosa – quella del Coniglio: “Nane! Nane! Dove sei?” e quindi una voce mai udita prima: “Ma qui sono! A sterare i pomi, vo-strodore!” “Ti cadesse una patata in testa, frescone!” disse il Coniglio ancora più furioso. “Datti una mossa e tirami fuori di qui!” (altro rumore di vetri rotti). “Dimmi un po’, Nane, che c’è là nella finestra?” “Ka te vegna ’n... xé un bracio, vostrodore!” (“vostro onore” non gli veniva mai). “Un braccio, rimbesuito! Di quella misura! Un braccio che riempie tutta la carpenteria!” “Ka te vegna... vostrodore: ma sempre un bracio el xé!” “Be’, lì ci sta come i cavoli a merenda: va’ a portarlo via!” Dopodiché ci fu un lungo silenzio e Alice riusciva solo a sentire dei brontolii ogni tanto, tipo “Ma gnanca, ma gnanca, ma gnanca per sogno, vostrodore!” e “Fa’ quel che
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ti dico, fifone!” e alla fine lei distese di nuovo la mano e serrò ancora il pugno. Stavolta gli strilli furono due, più il solito rumore di vetri rotti. “Ma quante serre che hanno qui!” pensò Alice. “Chissà che stanno facendo adesso! Quanto a tirarmi fuori dalla finestra, magari ce la facessero! Non mi va di stare qui un minuto di più!” Per un po’ rimase in ascolto senza udire nient’altro, poi, finalmente, le giunse un cigolio di piccole ruote di carro e il brusio di parecchie voci che parlavano tutte assieme: “Dov’è l’altra scala? – Bo’, io dovevo portarne una sola. È Billyetto che ha l’altra. – Billy! Portala qui, cretino! – Qua, portatele in quest’angolo. – No, prima legale assieme. — Ma se non arrivano neanche a metà! – Oh, bastano e avanzano, non fare il difficile. – Qua, Billyetto! Tieni bene questa corda. – Ma il tetto reggerà? – State attenti, c’è una tegola che traballa! – Oh, sta cadendo! Attenti alla testa! (forte schianto) Chi è stato? — Billyetto, chi altri? – Chi scende giù dal camino? – No, eh! io no! Vacci tu! – Stai fresco! – Tocca a Billyetto andarci! – Billy, il padrone ha detto che devi andare giù per la cappa del camino”. “Oh, allora tocca a Billyetto imbucarsi nella cappa del camino!” disse Alice tra sé. “Sì, sembra proprio che scarichino tutto sulle spalle di Billyetto, non vorrei essere al suo posto neanche per sogno: questo caminetto è stretto per un coriandolo, figuriamoci per un Billyetto! Riesco appena a tirare un calcio!”
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Ritirò il piede più in giù che poté e aspettò finché non sentì un animaletto (non riuscì a capire di che specie fosse) che strisciava e raspava nella cappa proprio a un tiro d’alluce e dicendosi “Questo è Billyetto”, sferrò un bel calcio e restò in attesa delle conseguenze. La prima cosa che udì fu un coro generale di “È Billyetto o un piccione viaggiatore?”, poi la voce del Coniglio: “Prendetelo al volo, ehi, voi laggiù vicino alla siepe!”, quindi silenzio e poi una confusione di voci “Tienigli su la testa! – Un goccino di grappa! – Così lo strafoghi! – Com’è andata, compare? – Che ti è successo? Raccontaci! Raccontaci!” Alla fine si udì una vocina debole e stridula (“È Billyetto,” pensò Alice): “Per quello che mi ricordo... Basta, grazie, sto già meglio... Cosa vi racconto cosa, che mi sembra di avere le farfalle nel cer vello... tutto quel che so è che a un tratto mi è piombato il mondo addosso e tràcchete! mi son trovato in orbita!” “Atterraggio perfetto!” lo consolarono gli altri. “Dobbiamo dar fuoco alla casa!” disse il Coniglio, al che Alice si mise a gridare più che poté: “Se lo fate, mando Dinah a fare i conti con voi!” Cadde un silenzio mortale, e Alice pensò: “Chissà cosa stanno macchinando! Se avessero un po’ di cervello, cercherebbero di scoperchiare il tetto”. Dopo un paio di minuti il bailamme ricominciò, e Alice udì il Coniglio che diceva: “Tanto per cominciare, una bella carriola piena”.
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“Una carriola piena di che ?” pensò Alice. Ma la risposta giunse quasi subito, sottoforma di una gragnuola di sassolini che si abbatté parte contro la finestra e parte sulla sua faccia. “Adesso mi sentono,” si disse, e si mise a gridare “Se fossi in voi non lo farei la seconda volta!”, il che produsse un altro silenzio di tomba. Alice notò, con un certo stupore, che i ciottoli, non appena toccato il pavimento, si trasformavano in pasticcini ed ebbe un lampo di genio. “Se ne mangio uno,” pensò, “qualcosa deve cambiare nella mia statura e, siccome non è possibile crescere più di così, deve farmi diventare più piccola, no?” Così inghiottì un pasticcino, e fu felice di scoprire che stava restringendosi a rotta di collo. Non appena fu abbastanza piccola da passare attraverso la porta, corse fuori dalla casa e trovò una piccola folla di animaletti e di uccelli in attesa. Billyetto, che altri non era che un piccolo ramarro, si trovava in mezzo a loro, sorretto da due porcellini d’India che gli stavano somministrando qualcosa da una bottiglia. Non appena Alice compar ve, tutti le si avventarono contro, ma lei si mise a correre veloce come il lampo e in men che non si dica si mise in salvo nel folto di un bosco.
Microsomatognosia
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“La prima cosa da fare,” si disse Alice mentre vagava per il bosco, “è tornare alla mia statura normale e la seconda trovare il modo di entrare in quel giardino così incantevole. Questo mi sembra un fior fiore di piano.” Il piano di Alice, effettivamente, non faceva una grinza, semplice e ben congegnato: il suo unico punto debole era che non aveva la minima idea di come realizzarlo; e, mentre scrutava ansiosamente qui e là fra gli alberi, un acuto latrato proprio sopra di lei le fece alzare di scatto la testa. Un cucciolo enorme la stava guardando dall’alto con occhioni grandi grandi e, allungando una zampa più che poteva, cercava di sfiorarla. “Povero piccolino!” disse Alice per ingraziarselo, e tentò di emettere un fischio, ma le labbra le tremarono al pensiero che fosse affamato e che probabilmente se la sarebbe fatta fuori in un boccone malgrado tutte le sue moine. Senza sapere bene quello che faceva, raccolse un rametto e lo porse al cucciolo, che spiccò un balzo subitaneo e formidabile, e mugolando di gioia si avventò sul rametto come per acchiapparlo; allora Alice, per evitare di essere spiaccicata, corse dietro un grosso cardo ma, non appena riemerse dal nascondiglio, il cucciolo si avventò di nuovo sul ramoscello e nella smania di afferrarlo finì ruzzoloni per terra. Alice pensò che giocare con questo cucciolo era pericoloso come con un cavallo da tiro e, poiché rischiava a ogni istante di finire sotto le sue zam-
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pe, si riparò di nuovo dietro il cardo. Il cucciolo dette inizio a una serie di cariche al ramoscello, correndo ogni volta un poco in avanti e molto all’indietro, senza smettere di abbaiare rabbiosamente, finché non si mise a sedere a una distanza rassicurante, tutto affannato, con la lingua penzoloni e gli occhioni socchiusi. Alice realizzò: “O adesso o mai più”, e senza perdere un istante se la diede a gambe e seguitò a correre finché, esausta e senza fiato, non udì il latrare del cucciolo echeggiare ormai lontano alle sue spalle. “E pensare che era un cucciolino così carino!” disse, concedendosi un riposino appoggiata contro un gambo di ranuncolo e facendosi aria con una delle foglie. “Quanto mi sarebbe piaciuto insegnargli dei giochini se... se solo fossi dell’altezza giusta per farlo! Oh, cielo! Stavo per dimenticarmi che devo crescere di nuovo! Vediamo un po’... come si può fare? Deduco che dovrò mangiare o bere qualcosa da mangiare o da bere, ma il problema è: cosa?” Che il problema fosse “Cosa?” non c’era dubbio. Alice si diede uno sguardo intorno, fra i fiori e i fili d’erba, ma non riusciva a scorgere niente di commestibile o potabile per lei. Lì accanto cresceva un grosso fungo, più o meno della sua altezza, e, dopo aver guardato sotto e da entrambi i lati e dietro, le sembrò anche il caso di dare un’occhiata in cima. Si alzò sulle punte dei piedi e sbirciò sopra la cappella: subito il suo sguardo incrociò
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quello di un grande bruco celeste seduto in pizzo al fungo con le braccia conserte, che fumava uno smisurato narghilè senza dare il minimo peso né a lei né a qualsiasi altra cosa al mondo.
L’assunzione di stupefacenti rende il soggetto in uno stato di trans, immerso nel suo mondo non bada a ciò che gli accade attorno. “... senza dare il minimo peso né a lei né a qualsiasi altra cosa al mondo.”
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V Larvato consiglio di Bruco
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Il Bruco e Alice rimasero a guardarsi per qualche tempo in silenzio: alla fine il Bruco si tolse di bocca il narghilè e le si rivolse con voce languida e sonnacchiosa. “Chi sei tu?” disse il Bruco. Poco incoraggiante come inizio per una conversazione. “Io... ora come ora non saprei, signore,” rispose Alice alquanto timidamente, “al massimo potrei dirle chi ero quando mi sono alzata stamattina, ma da allora c’è stata una tale baraonda di cambiamenti.” “Che vuoi dire?” disse il Bruco severamente. “Spiegati!” “Spiacente ma non posso spiegarmi, signore,” disse Alice, “perché io, vede, non sono più io.” “Non vedo,” disse il Bruco. “Mi dispiace, signore, ma più chiaro di così...” disse Alice con molto belgarbo, “il fatto è che io per prima non ci capisco niente; e passare da una corporatura all’altra parecchie volte nello L’assunzione di stupefacenti, in particolar modo di oppiacei, rende il soggetto in uno stato di calma e tranquillità, aumentando il bisogno di riposare, dormire. La parte anatomica del cervello interessata è l’ipotalamo che controlla principalmente le emozioni e gli stati d’animo, ma son compromesse anche la parte della parola e della vista. “... si tolse di bocca il narghilè e le si rivolse con voce languida e sonnacchiosa” Disturbo dissociativo dell’identità Alice è confusa, non sa più chi è, e la sua memoria non le è d’aiuto. “perché io, vede, non sono più io.”
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stesso giorno sapesse come confonde le idee.” “Macché!” disse il Bruco. “Ma, forse perché lei non ha ancora fatto la prova,” disse Alice, “ma quando dovrà trasformarsi in una crisalide... e prima o poi le capiterà... e poi da crisalide in farfalla, vedrà che si sentirà un po’ sottosopra anche lei.” “Storie,” disse il Bruco. “Be’, forse la sensibilità di un Bruco è differente,” disse Alice, “in ogni modo, sono sicura che a me sembrerebbe molto strano.” “A te!” disse il Bruco con sufficienza. “Chi sei tu?” Cosa che li riportò a dove avevano cominciato. Alice era un po’ seccata che il Bruco le rispondesse solo a monosillabi e, alzandosi un po’ di più sulle punte, disse altezzosa: “Credo che spetterebbe a lei dirmi prima chi è lei”. “Perché?” disse il Bruco. La domanda la colse di contropiede; poiché non le veniva in mente alcun ragionevole cavillo e il Bruco sembrava avere la luna tutta storta, gli girò le spalle e fece per andarsene. “Torna qui!” le gridò il Bruco. “Ho una cosa importante da dirti!” L’invito era allettante, senza dubbio. Alice si voltò e tornò sui suoi passi. “Mai perdere le staffe,” disse il Bruco. “Tutto qui?” disse Alice, facendo uno sforzo per celare la sua stizza. “No,” disse il Bruco. Alice pensò che in fondo poteva anche aspettare, visto che
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tanto non aveva niente da fare e poi chissà che non ne venisse fuori qualcosa d’interessante. Per diversi minuti, il Bruco continuò a tirare di pipa senza dire una parola, ma finalmente sciolse le braccia, si tolse di bocca la cannula del narghilè e disse: “E così credi di essere cambiata, eh?” “Temo proprio di sì, signore,” disse Alice. “Non riesco a far star fermi i ricordi... e non riesco a mantenere la stessa dimensione per più di dieci minuti!” “Che ricordi non riesci a far star fermi?” disse il Bruco. “Per esempio, ho cercato di recitare Piccol’ape ma mi è venuta tutta differente!” rispose Alice in tono davvero malinconico. “Recita Caro, vecchio, buon papà,” disse il Bruco. Alice si mise a braccia conserte e cominciò: “Caro, vecchio, buon papà” strillò un giorno [al Padre il Figlio “che con il busto tieni il lardo su, e alla chioma ben fonata fai la tinta bianco giglio, perché cammini sempre a testa ingiù?” Replicò il Papà al Figliolo: “Quando ero un [giovinetto temevo per i postumi al cervello, ma or che so di non averne mai avuto neanche un [etto è di un bello ma di un bello strabello!” Ribadiva il Figlio: ”Vecchio, vecchio sei, vecchio e
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[stravecchio, trasudi trippa, sugna e ciccie unte; ma perché, sant’uomo, quando ti contempli nello [specchio cominci a piroettare sulle punte?” “Fin da giovane ho sfoggiato gran beltà e grazia [apollinea” disse il Papà, scuotendo i grigi boccoli “Silfid-Crem” è il mio segreto, un segreto per [la linea; ricorda: Silfid-Crem e ti dinoccoli.“ Disse il Figlio: “Vecchio sei, caro mio, vecchio e [schiodato, riesci appena a biascicare un po’ di strutto; tuttavia, o mangia-a-sbafo, come fai così sdentato a sbafar un’oca, zampe becco e tutto?” “Se sapessi, in gioventù, la vitaccia coniugale che ho fatto litigando con tua madre! a forza di citarla e querelarla in tribunale mi son venute le mascelle quadre!” “Sei più vecchio di Noè, la tua faccia è un ring di [rughe c’hai il Parkinson, l’Alzheimer e altri guai, tuttavia riesci a tenere in equilibrio quattro [acciughe
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sulla punta del naso: come fai?” “Ho risposto a tre domande, e mi giran come pale” fa papà. “Saputello, quante arie che ti dai per qualche quiz, e oltretutto senza sale, smamma, Mike, o ti cavo lingua e carie!”
“Non me la conti giusta,” disse il Bruco. “Sì, temo che sia un po’ diversa,” disse Alice timidamente. “È stata cambiata qualche rima qua e là.” “È sbagliata dalla a alla zeta,” disse il Bruco con fermezza, e per qualche istante calò il silenzio. Il Bruco fu il primo a romperlo. “Di che grandezza vorresti essere?” chiese. “Oh, non è una questione di grandezza,” disse Alice tutto d’un fiato, “è che a nessuno piacerebbe cambiare così spesso, che credi.” “Io non credo niente,” disse il Bruco. Alice non disse altro, era la prima volta in vita sua che le capitava un tal bastiancontrario; quel bruco metteva a dura prova la sua pazienza. “Come sei adesso ti va bene?” disse il Bruco. “Ecco, mi piacerebbe essere un po’ più grande, signore, se non le dispiace...” disse Alice. “Sette centimetri è un tale strazio di statura...” “Ma se è la statura ideale!” disse il Bruco con tono irato, ergendosi in tutta la sua altezza: sette centimetri giusti.
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“Ma non ci sono abituata!” piagnucolò la povera Alice. E fra sé e sé pensò: “Se almeno queste bestioline non fossero così permalose!” “Col tempo ti ci abituerai,” disse il Bruco; si rificcò in bocca la cannuccia e riprese a tirare. Stavolta Alice attese pazientemente che si decidesse a parlare di nuovo. Dopo un paio di minuti il Bruco si tolse la cannuccia di bocca, fece un po’ di sbadigli e si diede una rimescolatina. Poi prese a calarsi giù dal fungo e mentre si allontanava strisciando sull’erba buttò là: “Un lato ti farà diventare più alta e l’altro lato più piccola”. “Un lato di che? L’altro lato di che?” pensò Alice fra sé e sé. “Del fungo,” disse il Bruco, proprio come se l’avesse chiesto a alta voce, e l’istante dopo era già scomparso di vista. Alice rimase pensierosa a contemplare il fungo per un po’, cercando di scoprire quali erano i suoi due lati: impresa non da poco, essendo il fungo perfettamente rotondo. Infine lo cinse con le braccia e, tendendole più che poteva, staccò un pezzettino dall’orlo con entrambe le mani. “E adesso da che parte parto?” si disse fra sé e sé, e mordicchiò un pochino il pezzetto nella mano destra per provarne l’effetto. Macrosomatognosia Il fungo completamente rotondo, come tutte le droghe, può avere reazioni diverse in base a come lo si assume. Reazioni più lievi o molto pesanti e improvvise. In questa trasformazione Alice non si aspetta un ingrandimento così brusco e veloce.
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Un istante dopo sentì un colpo violento sotto il mento: era andato a sbatterle sul piede! Era terrorizzata a morte da questo cambiamento così rapido, ma capì che non c’era tempo da perdere e si sbrigò a mangiare l’altro pezzo di fungo. Aveva il mento così schiacciato contro il piede che faticava persino a aprire la bocca, ma infine ce la fece e riuscì a mandar giù un bocconcino del pezzo nella mano sinistra. “Oh, finalmente la mia testa è libera!” disse Alice tutta contenta, ma un momento dopo, con terrore, scoprì che non c’era verso di rintracciare le proprie spalle: guardò in basso, ma tutto quello che riuscì a vedere fu un collo di lunghezza smisurata; sembrava uno stelo in flessuoso equilibrio su un mare di foglie verdi laggiù in fondo, sotto di lei. “Cosa sarà mai tutta quella roba verde?” disse Alice. “E dove sono andate a finire le mie spalle? Sventurate manine, com’è che non riesco a vedervi?” Mentre parlava le mosse avanti e indietro, ma non successe nulla, a parte un leggero fremito laggiù fra le foglie verdi. Poiché sembrava che non ci fosse alcuna possibilità di portarsi le mani fino alla testa, cercò di portare la testa fino alle mani, Microsomatognosia Impaurita Alice cerca di sistemare il misfatto mangiando un altro pezzo di fungo quasi non riuscisse a farne a meno. Assuefazione da stupefacenti. “... non c’era tempo da perdere e si sbrigò a mangiare l’altro pezzo di fungo.”
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e fu piacevolmente sorpresa di scoprire che il collo si piegava senza sforzo in ogni direzione, come un serpente. Era appena riuscita a curvarlo in un zig-zag pieno di grazia e stava per tuffarlo dentro le foglie (che scoprì essere nient’altro che le cime degli alberi sotto cui prima aveva girellato), quando un sibilo acuto la fece ritrarre precipitosamente: un grosso piccione le era andato a sbattere sulla faccia e con le ali le stava mollando un frullo di ceffoni. “Serpente!” strillò il Piccione. “Ma che serpente e serpente!” disse Alice indignata. “Fila via!” “Serpente serpente serpente!” ripeté il Piccione in tono più pacato e, con una specie di singulto, aggiunse: “Le ho provate tutte, ma con voi non c’è niente da fare!” “Si può sapere di cosa stai parlando?” disse Alice. “Ho provato tra le radici, e ho provato in riva al fiume, e ho provato tra le siepi” continuò il Piccione senza darle retta, “ma questi serpenti! Niente li ferma!” Alice era sempre più perplessa, ma ritenne inutile fare alcun commento finché il Piccione non avesse finito. “Come se non fosse già un bel grattacapo covare le uova,” disse il Piccione. “Devo anche sempre stare sul chi va là coi serpenti, giorno e notte! Tre settimane che non chiudo occhio!” “Poverino! Che vita!” disse Alice, cominciando a capire. “E non ho fatto in tempo a trovare l’albero più alto del bosco,” continuò il Piccione, alzando la voce fino al garrito, “e a illudermi di essermi liberato di loro e ecco che ti saettano giù dal cielo! Uffa, Serpente!”
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“Ma io non sono un serpente, ti dico!” esclamò Alice. “Io sono una... una...” “Insomma, che cosa sei tu?” disse il Piccione. “Non star lì a inventarne una di sana pianta!” “Io... sono una bambina,” disse Alice, piuttosto dubbiosa, pensando a tutti i cambiamenti che aveva subito quel giorno. “E io dovrei berla?” disse il Piccione, in tono di profondo disprezzo. “Ho visto tante bambine in vita mia, ma una col collo come il tuo... No, no, tu sei un serpente, confessa! Adesso sta’ a vedere che mi dirai di non aver mai assaggiato un uovo!” “Certo che ho assaggiato le uova!” disse Alice, che era d’indole sincera, “ma solo perché le bambine mangiano le uova come i serpenti, tutto qui!” “Non ci credo!” disse il Piccione, “ma se è vero, allora sono una specie di serpenti anche loro, punto e basta.” A questo Alice non aveva pensato. Ammutolì per un paio di minuti, il che diede al Piccione l’opportunità di aggiungere: “Stai cercando le uova, è chiaro come il sole, perciò, bambina o serpente, che differenza fa?” “Be’, per me ne fa!” disse Alice d’un fiato. “Si dà il caso che non sono a caccia di uova e, anche se lo fossi, non vorrei certo le tue: io non bevo le uova crude.” “Be’, e allora striscia al largo!” brontolò il Piccione tornando Disturbo dissociativo dell’identità “Io... sono una bambina, disse Alice, piuttosto dubbiosa...”
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a accovacciarsi nel suo nido. Alice cercò di abbassarsi più che poteva, ma il collo le si impigliava nei rami e di tanto in tanto doveva fermarsi per districarlo. Dopo un po’ le venne in mente che nelle mani teneva ancora i pezzettini del fungo e si pose all’opera con grande diligenza, dando un morsettino prima all’uno e poi all’altro, ora crescendo ora accorciandosi, fino a che non riuscì a ripristinare la sua statura normale. Era passato tanto di quel tempo da quando era pressappoco della misura giusta che in un primo momento si sentì molto strana, ma in pochi minuti vi si riabituò e si mise a camminare parlando con se stessa come al solito: “Evviva, sono a metà dell’opera! Però, tutti questi cambiamenti fan girare la testa, non si sa mai quello che si diventa da un momento all’altro!Comunque adesso sono tornata quella di prima; e adesso, mio bel giardino, a noi due... È una parola! Come faccio a entrarci?” Mentre se lo chiedeva, improvvisamente capitò in una radura dove c’era una casetta alta poco più di un metro. “Chiunque ci abiti,” pensò Alice, “non è proprio il caso di comparirgli davanti alta così , oh no! gli farei venire un colpo dallo spavento!” Perciò ricominciò a rosicchiare il pezzettino della Macrosomatognosia e Microsomatognosia Mangia altri pezzi di fungo, avendo reazioni sempre più frequenti e incontrollabili. “... prima all’uno e poi all’altro, ora crescendo ora accorciandosi...”
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mano destra e non si azzardò a avvicinarsi alla casa prima di essersi ridimensionata sui venti centimetri.
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VI Porco d’un pepe
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Per un minuto o due rimase imbambolata a guardare la casa, incerta sul da farsi, allorché all’improvviso dal bosco sbucò di corsa un valletto in livrea (dedusse che era un valletto proprio dalla livrea, altrimenti, a giudicare dalla faccia, avrebbe giurato che era un pesce) e, raggiunto l’ingresso, bussò con forti colpi cadenzati. La porta fu aperta da un altro valletto in livrea, faccia tonda e occhi sporgenti come una rana; entrambi i valletti, notò Alice, avevano i capelli incipriati, con i riccioli a incorniciargli il muso. Piena di curiosità, strisciò furtivamente fuori dal bosco per ascoltare. Il Valletto-Pesce si sfilò di sotto il braccio una lettera grande quasi quanto lui e la porse all’altro, proclamando solennemente: “Per la Duchessa. Un invito da parte della Regina a giocare a croquet”. Il Valletto-Rana ripeté, con lo stesso tono solenne, cambiando solo l’ordine delle parole: “Da parte della Regina. Un invito per la Duchessa a giocare a croquet”. Dopodiché entrambi fecero un inchino e i loro riccioli s’ingarbugliarono insieme. Alice scoppiò in una tale risata che dovette correre di nuovo nel bosco per paura che la sentissero e, quando tornò a dare un’occhiatina fuori, il Valletto-Pesce non c’era più e l’altro se ne stava seduto per terra vicino alla porta, con la testa per aria come un citrullo. Alice avanzò timidamente fino alla porta e bussò. “Invano ti affanni a bussare,” disse il Valletto, “e per due motivi. Primo perché sto dalla stessa parte della porta in cui sei tu, secondo perché con il baccano che fanno là dentro non ti può
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sentire nessuno.” E dall’interno proveniva davvero un rumore incredibile... un continuo urlare e starnutire, e di tanto in tanto uno schianto violento, come di un piatto o un bricco andato in frantumi. “E allora, per favore,” disse Alice, “come faccio a entrare?” “Il tuo bussare avrebbe già più senso,” continuò il Valletto, senza prestarle attenzione, “se la porta stesse fra te e me. Per esempio, se tu fossi dentro potresti bussare e io ti farei uscire.” Continuava a tener alzati gli occhi al cielo mentre parlava, cosa che a Alice parve decisamente incivile. “Ma forse non lo fa apposta,” si disse, “ce li ha piantati in testa quasi sul cocuzzolo... Be’, in ogni modo potrebbe anche rispondere alle mie domande Come faccio a entrare?” ripeté a voce alta. “Io resto seduto qui,” fece il Valletto, “fino a domani...” In quell’istante la porta di casa si aprì e una grossa zuppiera sfrecciò in direzione del Valletto, gli mancò il naso per un pelo e andò a fracassarsi contro un albero poco più in là. “... o forse fino a dopodomani,” continuò lui nello stesso tono, come se non fosse successo niente. “Come faccio a entrare?” chiese Alice, quasi gridando. “E perché dovresti entrare?” disse il Valletto. “Se lo sai, rispondi.” Lo sapeva, eccome, solo che a Alice non andava che le si rivolgesse a quel modo. “È davvero terribile,” borbottò fra sé e sé, “il modo di ragionare di tutte queste bestie. C’è da diventare pazze!” Il Valletto pensò che fosse venuto il momento buono per ripe-
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tere la sua osservazione, con qualche variante: “Io resto seduto qui,” disse, “per giorni e giorni, salvo brevi pause”. “Ma, e io che farò?” disse Alice. “Quel che ti pare,” disse il Valletto, e si mise a fischiettare. “Uffa, con questo qua è tutto fiato sprecato,” disse Alice disperata, “è completamente cretino!” Aprì la porta e entrò. Si ritrovò in un’ampia cucina ricolma di fumo dal pavimento al soffitto; al centro, su uno sgabello a tre gambe, sedeva la Duchessa intenta a cullare un lattante; la cuoca, china sul fuoco, rimestava in una grossa pignatta che si sarebbe detta piena di minestra. “Ci deve essere troppo pe... eccì! pepe in quella mi... eccì! minestra,” starnutiva Alice fra sé. Di sicuro ce n’era troppo nell’aria. Persino la Duchessa starnutiva di quando in quando, e il neonato starnutiva e strillava alternativamente senza un attimo di sosta. Gli unici a non partecipare allo starnutamento generale erano la cuoca e un grosso gatto che si crogiolava sul focolare sogghignando da un orecchio all’altro. “Vorrebbe spiegarmi per favore,” disse Alice un po’ intimidita, poiché non sapeva se stava bene che una bambina parlasse per prima, “perché il suo gatto sogghigna in quel modo?” “È un gatto del Chiantishire,” disse la Duchessa. “ecco perché. Porc...!” Pronunciò l’ultima parola con una tale violenza che Alice fece un balzo, ma subito si rese conto che era rivolta al lattante e non a lei, così si fece coraggio e proseguì:
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“Non sapevo che i gatti del Chiantishire sogghignano sempre, anzi, non sapevo neanche che i gatti potessero sogghignare.” “Tutti sanno farlo,” disse la Duchessa, “e quasi tutti lo fanno.” “Io non ne conoscevo neanche uno,” disse Alice con ogni riguardo, contentissima di aver iniziato una conversazione. “È che sei un’ignorante,” disse la Duchessa, “tutto qui.” Ad Alice non piacque affatto il tono di quell’osservazione e pensò che fosse meglio tentare con qualche altro argomento. Mentre ne cercava uno, la cuoca tirò giù dal fuoco la pignatta e subito si mise a bersagliare la Duchessa e l’infante con tutto quello che aveva sottomano... per prime arrivarono le molle del caminetto, poi ci fu una grandinata di casseruole, piatti e vassoi. La Duchessa non ci faceva caso neanche quando veniva colpita, e l’infante urlava già tanto per conto suo che era L’agnosia è un disturbo della percezione caratterizzato dal mancato riconoscimento di oggetti, persone, suoni, forme, odori già noti, in assenza di disturbi della memoria e in assenza di lesioni dei sistemi sensoriali elementari. Può presentarsi separatamente in relazione a ciascuno dei cinque sensi e per ogni senso sono riscontrabili diversi tipi di agnosia (prosopoagnosia, agnosia musicale, stereoagnosia o agnosia tattile, agnosia visuo-motoria, ecc.). In pratica, la persona affetta da agnosia può utilizzare una forchetta invece di un cucchiaio pensando di aver scelto il cucchiaio, oppure una scarpa al posto di una tazza o come nel caso della Duchessa scanbiare un maialino per il figlio. Spesso è associata a lesioni riguardanti aree posteriori del cervello.
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impossibile stabilire se era per colpa dei colpi o no. “Oh, insomma, stai attenta a quel che fai!” Alice saltava qua e là mortalmente terrorizzata. “Oh, addio nasino bello!!” gridò quando un tegame di insolita grandezza volò rasente il naso del piccolo ci mancò un pelo che non glielo staccasse di netto. “Se ognuno si facesse i cavoli suoi,” ringhiò la Duchessa inviperita, “il mondo girerebbe un bel po’ più svelto.” “Il che non ci porterebbe affatto avanti,” disse Alice, felice di poter esibire un assaggio della sua cultura. “Pensi un po’ che faticaccia per il giorno e la notte! Vede, la Terra impiega ventiquattr’ore a ruotare intorno al suo asse...” “A proposito di asce,” disse la Duchessa, “tagliale la testa!” Alice gettò un’occhiata preoccupata alla cuoca per vedere se intendeva approfittare del suggerimento, ma la cuoca era tutta presa a rimestare nella minestra e non sembrava prestarle alcuna attenzione, perciò Alice si azzardò a riprendere la tirata: “Ventiquattro ore, mi sembra; o sono dodici? Io...” “Oh, non mi scocciare!” disse la Duchessa. “Le cifre mi fanno venire la scarlattina!” E riprese a cullare il piccolo, canticchiandogli una specie di ninnananna e scuotendolo con violenza alla fine di ogni verso: “Niente scale di seta col tuo piccoletto, ma una sberla santissima ad ogni starnuto: lo fa solo per farti dispetto e irrorarti la faccia di sputo.”
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coro (al quale presero parte anche la cuoca e il lattante): “Dadaumpa! Dadaumpa! Umpa!”
Quando la Duchessa attaccò la seconda strofa della canzone, prese a sballottare il neonato in su e in giù, e il poveretto urlava tanto che Alice quasi non sentì le parole: “Gliene voglio cantar quattro e più al mio dodo poi alé! altra sberla per ogni starnuto: così a forza di pepe nel brodo gli si affinerà fino il fiuto.”
coro “Dadaumpa! Dadaumpa! Umpappà!”
“Cia’, prendilo un po’ in braccio!” disse la Duchessa a Alice lanciandole il pargolo. “Devo andare a farmi bella per giocare a croquet con la Regina,” e si diresse verso la porta. Mentre usciva, la cuoca le tirò dietro una padella, ma la sbagliò per un soffio. “Che padella!” commentò la Duchessa. Alice prese il bimbo al volo, impresa non facile, dato che era una creaturina dalle fattezze strampalate che brancicava con gambe e braccia in ogni direzione, “neanche fosse una stella marina,” pensò Alice. Il povero esserino sbuffava come una locomotiva quando le arrivò addosso e continuava a raggomitolarsi e
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a stiracchiarsi, tanto che dopo un minuto trascorso senza farlo cadere le parve di aver stabilito un record. Una volta trovato il modo meno disastroso di cullarlo (che consisteva nel comprimerlo in una specie di nodo, tenendolo ben saldo per l’orecchio destro e il piede sinistro affinché non si sciogliesse), uscì fuori all’aria aperta. “Se non lo porto via,” pensò Alice, “me lo ammazzeranno in pochi giorni. Non sarebbe un assassinio lasciarlo dove si trova?” Pronunciò le ultime parole a voce alta e la piccola creaturina, per tutta risposta, grugnì omettendo, per una volta, di starnutire. “Non grugnire,” disse Alice, “non è certo questo il modo più indicato per esprimersi.” Il pargoletto grugnì di nuovo e Alice gravemente preoccupata si chinò su di lui per vedere cosa avesse. Non si poteva certo negare che il suo naso fosse molto all’insù, più simile a un grugno che a un naso vero e proprio; inoltre gli occhi erano decisamente troppo piccoli per un bambino; Alice, nell’insieme, non ne fu affatto entusiasta. “Ma forse stava solo singhiozzando,” pensò, e lo guardò di nuovo dritto negli occhi, per vedere se dentro c’erano lacrime. No, non c’erano lacrime. “Se ti stai trasformando in un porcello, caro mio,” disse Alice tutta seria, “non voglio aver più niente a che fare con te, intesi?” Il poveretto singhiozzò di nuovo (o forse grugnì, chi poteva dirlo?) e i due rimasero in silenzio per un po’. “E adesso che me ne faccio di questa creaturina appena arrivo a casa?” Alice aveva appena terminato di formulare questo
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pensiero quando la creaturina grugnì di nuovo, ma così forte che, allarmata, riabbassò lo sguardo su di lui. Questa volta non potevano esserci dubbi: era né più né meno un maialino, e di colpo si rese conto che sarebbe stato piuttosto assurdo continuare a portarselo dietro. Perciò lo posò a terra e sospirò sollevata vedendolo trotterellare tranquillamente verso il bosco. “Se fosse diventato grande,” si disse, “come bambino sarebbe stato orribilmente brutto, ma come maialino non mi sembra affatto male.” E cominciò a passare in rassegna gli altri bambini di sua conoscenza che come porcelli avrebbero sfondato, dicendosi “se solo si conoscesse il modo per trasformarli...” quando si arrestò un po’ stupita nel vedere il Gatto del Chiantishire seduto sul ramo di un albero pochi metri più in là. Il Gatto, vedendola, si limitò a sogghignare. “Sembra una buona pasta,” pensò Alice; ma aveva le unghie molto lunghe e tantissimi denti, e lei ritenne opportuno trattarlo con ogni riguardo. “Mammolino del Chiantishire,” cominciò un po’ impacciata, perché non sapeva se avrebbe gradito il nome: il gatto si limitò a allargare il sogghigno. “Per ora tutto liscio,” pensò Alice e proseguì: “Mi dici, per piacere, che strada devo prendere?” “Dipende più che altro da dove vuoi andare,” disse il Gatto. “Non m’interessa tanto dove...” disse Alice. “Allora una strada vale l’altra,” disse il Gatto. “... basta che arrivi da qualche parte,” soggiunse Alice a mo’ di chiarimento. “Oh, questo è garantito al limone,” disse il Gatto, “basta che
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metti un piede dopo l’altro e ti fermi in tempo.” Alice dovette ammettere che era la sacrosanta verità, perciò provò a fare un’altra domanda. “Che razza di gente abita da queste parti?” “Da quella parte,” disse il Gatto agitando la zampa destra, “abita un Cappellaio e da quest’altra,” agitando l’altra zampa, “abita una Lepre Marzolina. Va’ pure da chi ti pare: sono matti tutti e due.” “Ma io non voglio andare fra i matti,” osservò Alice. “Oh, non puoi evitarlo,” disse il Gatto, “noi qui siamo tutti matti. Io sono matto, tu sei matta.” “Come fai a sapere che io sono matta?” disse Alice. “Per forza che lo sei,” disse il Gatto, “altrimenti non saresti venuta qui.” A Alice questo non parve affatto un argomento probante, tuttavia non ribatté e disse: “E come fai a sapere che tu sei matto?” “Tanto per cominciare,” disse il Gatto, “i cani non sono matti. Sei d’accordo?” Tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima del XIX la produzione di cappelli di feltro passava attraverso un processo chiamato “carotatura” che consisteva nell’immergere le pelli di animali in una soluzione color arancione di nitrato di mercurio. Questo processo separava il pelo dalla pelle, compattandolo. La tossicità della soluzione e dei suoi vapori causarono moltissimi casi di avvelenamento tra i fabbricanti di cappelli che si manifestarono con sintomi quali tremori, instabilità emotiva, insonnia, demenza e allucinazioni, timidezza, reclusione, facile rossore, irritabilità, rissosità.
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“Bo’, sì” disse Alice. “Bene,” riprese il Gatto, “come saprai un cane quando è arrabbiato ringhia e quando è contento muove la coda. Io, invece, ringhio quando sono contento e muovo la coda quando sono arrabbiato. Perciò sono matto.” “A casa mia questo si chiama fare le fusa, mica ringhiare,” disse Alice. “Chiamalo come ti pare,” disse il Gatto. “Vai a giocare a croquet con la Regina oggi?” “Magari!” disse Alice, “ma ancora non sono stata invitata.” “Allora ci vediamo là,” disse il Gatto, e svanì. Alice non se ne stupì granché, abituata com’era ormai a ogni sorta di stranezze. Mentre stava ancora fissando il ramo rimasto vuoto, il Gatto improvvisamente ricomparve. “A proposito, che ne è stato del frugolino?” disse il Gatto. “Quasi dimenticavo di chiedertelo.” “Si è trasformato in un porco,” disse Alice tranquilla, come se il felino fosse ritornato in modo normale. “Tipico dei maschi,”12 disse il Gatto, e svanì di nuovo. Alice non si mosse, quasi si aspettasse di vederlo comparire di nuovo, ma ciò non accadde, e dopo qualche minuto s’incamminò nella direzione dove avrebbe dovuto abitare la Lepre Marzolina. “Di cappellai ne ho già visti altri,” si disse, “molto più interessante la Lepre Marzolina e, chissà, visto che siamo in maggio, forse non sarà proprio matta scatenata... almeno non come a marzo.” E così dicendo alzò lo sguardo e ecco il solito Gatto, seduto su
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un altro ramo. “Hai detto ‘porco’ o ‘orco’?” disse il Gatto. “Ho detto ‘porco’” rispose Alice, “e vorrei tanto che non continuassi a apparire e a scomparire, mi stai tirando scema!” “D’accordo,” disse il Gatto, e stavolta svanì molto lentamente, cominciando dalla punta della coda per finire con il sogghigno, che rimase ancora per qualche istante dopo che il resto non c’era più. “Che roba! Ne ho visti di gatti senza sogghigno,” pensò Alice, “ma un sogghigno senza gatto! È la cosa più da svaniti che abbia mai visto in vita mia!” Non aveva fatto molta strada allorché avvistò la casa della Lepre Marzolina: doveva proprio essere la casa giusta, perché i camini erano a forma di orecchia e il tetto era fatto di pelliccia. Era una casa così grande che non le andava l’idea di avvicinarvisi prima di aver rosicchiato un altro po’del fungo nella mano sinistra e di essere cresciuta fino a circa mezzo metro: ma anche così si appropinquò timidissimamente, dicendosi: “E se fosse proprio molto scatenata? Quasi quasi era meglio se andavo a trovare il Cappellaio”.
Macrosomatognosia
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VII Un tè fuori di sé
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Davanti alla casa, seduti a un tavolo sistemato sotto un albero, la Lepre Marzolina e il Cappellaio stavano prendendo il tè: in mezzo a loro era seduto un Ghiro semiaddormentato su cui gli altri due tenevano i gomiti appoggiati facendo conversazione al di sopra della sua testa. “Molto scomodo per il Ghiro,” pensò Alice, “però, visto che dorme, forse non ci fa neanche caso.” Il tavolo era grande, ma i tre se ne stavano pigiati in un angolo. “Tutto esaurito! Tutto esaurito!” presero a gridare scorgendo Alice che veniva verso di loro. “Esauriti sarete voi!” disse Alice indignata, e si sedette in un’ampia poltrona a un capo del tavolo. “Un goccetto di vino?” disse la Lepre Marzolina in tono incoraggiante. Alice guardò bene tutt’attorno, ma c’era soltanto il tè. “Io non lo vedo, il vino,” osservò lei. “Bella scoperta, non c’è!” disse la Lepre Marzolina. “E allora non è stato da persona beneducata offrirmelo,” La narcolessia è un disordine neurologico caratterizzato da una incontrollabile ed improvvisa sonnolenza diurna. La narcolessia è una malattia cronica che spesso si manifesta per la prima volta durante l’adolescenza con grave e significativa disabilità. L’eccessiva sonnolenza diurna è caratterizzata da numerosi e ripetuti episodi di sonno diurno della durata di circa 10-20 minuti dopo i quali l’individuo si sente temporaneamente rinvigorito. Questa sonnolenza è spesso descritta come irresistibile. Gli attacchi di sonno sono indipendenti dalle ore dormite durante la notte dal paziente. Gli altri sintomi caratteristici della narcolessia includono la cataplessia, le allucinazioni ipnagogiche e le paralisi nel sonno.
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disse Alice indispettita. “Sei stata beneducata tu a sederti senza essere stata invitata,” disse la Lepre Marzolina. “Non sapevo che la tavola fosse tutta vostra,” disse Alice, “è apparecchiata altro che per tre!” “Sarebbe ora che ti tagliassi i capelli,” disse il Cappellaio. Era rimasto a guardare Alice per un bel pezzo con grande curiosità e queste erano le sue prime parole. “Non sta bene criticare gli altri,” disse Alice con una certa severità, “è da maleducati.” Il Cappellaio sgranò gli occhi nel sentire ciò, ma si limitò a dire: “Che differenza c’è fra un corvo e un tavolino?” “Oh, adesso viene il bello!” pensò Alice. “Sono contenta che comincino a fare gli indovinelli – ci si può arrivare!” soggiunse a voce alta. “Vuoi dire che pensi di poter trovare la risposta?” disse la Lepre Marzolina. “Proprio così!” disse Alice. “Allora dovresti dire quello che pensi,” continuò la Lepre Marzolina. “Lo faccio sempre,” rispose Alice d’un fiato. “Almeno... almeno penso quel che dico... che è la stessa cosa, no?” “Non è la stessa cosa per niente,” disse il Cappellaio. “Sarebbe come dire che ‘vedo ciò che mangio’ è la stessa cosa di ‘mangio
Intossicazione da mercurio, sbalzi d’umore, irritabilità
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ciò che vedo’!” “Sarebbe come dire,” aggiunse la Lepre Marzolina, “che ‘mi piace ciò che prendo’ è la stessa cosa di ‘prendo ciò che mi piace’!” “Sarebbe come dire,” soggiunse il Ghiro, che sembrava parlare nel sonno, “che ‘respiro quando dormo’ è la stessa cosa di ‘dormo quando respiro’!” “Ma è la stessa cosa per te!” disse il Cappellaio, e qui la conversazione languì, e i convitati rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre Alice passava in rassegna tutto quello che sapeva su corvi e tavolini, cioè non molto. Fu il Cappellaio a rompere il silenzio. “Quanti ne abbiamo oggi?” disse, rivolto a Alice: aveva tirato fuori l’orologio di tasca e lo guardava perplesso, scuotendolo di continuo, e portandoselo all’orecchio. Alice stette a pensarci un momento e poi disse: “Quattro”. “Sgarra di due giorni!” sospirò il Cappellaio. “E te l’avevo detto io che il burro non andava bene per le rotelle” aggiunse, guardando storto la Lepre Marzolina. “Ma era Burro Imparzialmente Scremato!” si scusò remissiva la Lepre Marzolina. “Sì, ma devono esserci finite dentro delle briciole,” brontolò il Cappellaio, “non avresti dovuto spalmarlo dentro con il coltello del pane.” La Lepre Marzolina prese l’orologio e se lo rigirò fra le mani con aria desolata, quindi lo pucciò nella sua tazza di tè e tornò a guardarlo, ma non le venne in mente nient’altro che la sua osservazione di prima, “Il Burro Imparzialmente Scremato è il
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migliore, ti dico.” Alice sbirciò da sopra le sue spalle, incuriosita. “Che orologio strano!” osservò. “Dice i giorni del mese, ma non le ore del giorno!” “E perché dovrebbe?” borbottò il Cappellaio. “Il tuo orologio segna forse che anno è?” “Certo che no,” ribatté prontamente Alice, “ma solo perché un anno resta tanto di quel tempo tutto in una volta.” “Be’, il mio nemmeno,” disse il Cappellaio. Alice non sapeva più che pesci pigliare. L’osservazione del Cappellaio sembrava non avere alcun significato, eppure stavano parlando la stessa lingua. “Temo di non capire,” disse più gentilmente che poté. “Il Ghiro si è riaddormentato,” disse il Cappellaio, e gli versò un po’ di tè bollente sul naso. Il Ghiro scosse la testa seccato e disse senza aprire gli occhi: “Ma certo, ma certo, è proprio quello che stavo per dire io”. “Allora hai risolto l’indovinello?” disse il Cappellaio rivolgendosi di nuovo a Alice. “No, mi arrendo,” rispose Alice. “Qual è la soluzione?” “Non ne ho la più pallida idea,” disse il Cappellaio. “Io neanche” disse la Lepre Marzolina. Alice sospirò spazientita. “Mi pare che potreste impiegare meglio il vostro tempo,” disse, “invece di gingillarvi con esso facendo indovinelli senza risposta.” “Se tu conoscessi il Tempo come lo conosco io,” disse il Cappellaio, “non parleresti di gingillarti con esso. È un lui, lui.”
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“Non capisco che vuoi dire,” disse Alice. “Naturale che no!” disse il Cappellaio scuotendo sdegnosamente la testa. “Scommetto che tu col Tempo non c’hai mai neanche parlato!” “Forse parlato no,” rispose Alice cautamente, “ma so che quando studio musica devo battere il tempo.” “Ah, ecco spiegato tutto!” disse il Cappellaio. “Lui non tollera di essere battuto. Invece, se fossi in buoni rapporti con lui, ti sistemerebbe le lancette secondo come ti gira. Per esempio, immagina che siano le nove del mattino, ora di cominciare le lezioni: basterebbe dirgli una parolina e via che le lancette si spostano in un batter d’occhio su mezzogiorno e trenta, pronto in tavola!” (“Magari!” mormorò tra sé e sé la Lepre Marzolina.) “Sarebbe il massimo, proprio...” disse Alice, pensierosa, “ma poi... potrei anche non aver fame.” “Non subito, forse,” disse il Cappellaio, “ma potresti tenerlo fermo su mezzogiorno e trenta finché ti pare.” “È così che fate voi?” chiese Alice. Il Cappellaio scosse tristemente il capo. “Io no!” rispose. “Abbiamo litigato il marzo scorso... giusto prima che lei diventasse matta, capisci...” (e agitò il cucchiaino verso la Lepre Marzolina) “... è stato al super-festival organizzato dalla Regina di Cuori, io dovevo cantare ‘Brilla brilla pipistrella se sei ciucca sei più bella.’
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Forse conosci la canzone?” “Ho già sentito una cosa simile,” disse Alice. “Poi fa così,” continuò il Cappellaio, “ricordi? ‘Voli sghemba a notte fonda ciucca marcia ma gioconda. Brilla, brilla...’”
A questo punto il Ghiro si riscosse e si mise a canterellare nel sonno “Brilla brilla brilla brilla...”
e continuò così a lungo che dovettero dargli un pizzicotto per farlo smettere. “Morale: non avevo neppure finito la prima strofa,” disse il Cappellaio, “che la Regina balzò in piedi e gridò con voce sincopata ‘Staàm — mazzàndoiltémpò! Bò — ìadàc — ciuntàgliò!’” “Brrrr, che sanguinaria!” esclamò Alice. “E da allora,” continuò il Cappellaio con voce lamentosa, “lui non vuole più fare niente di quel che gli chiedo. Adesso sono sempre le sei.” Alice ebbe un lampo d’intuizione: “Allora è per questo che ci sono tutte queste tazze da tè!” “Sì, proprio per questo,” disse il Cappellaio con un sospiro. “È sempre l’ora del tè e non abbiamo neanche un minuto per sciacquare le tazze fra un sorso e l’altro.” “Così dovete sempre cambiare posto, vero?” disse Alice.
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“Proprio così,” disse il Cappellaio, “man mano che le tazze sono sporche ci spostiamo.” “Ma che succede quando ricominciate il giro?” si arrischiò a chiedere Alice. “E se cambiassimo argomento?” interruppe la Lepre Marzolina con uno sbadiglio. “Mi sta andando il latte alle ginocchia. Propongo che la signorina qui presente ci racconti una storia.” “Spiacente ma non ne so,” disse Alice piuttosto allarmata dall’invito. “Allora tocca al Ghiro!” urlarono insieme gli altri due. “Sveglia, Ghiro!” E presero a pizzicarlo da una parte e dall’altra. Il Ghiro aprì lentamente gli occhi. “Mica dormivo,” disse con una vocina roca roca. “Ho sentito tutto quello che stavate dicendo, carini.” “Raccontaci una storia!” disse la Lepre Marzolina. “Sì, ti prego!” supplicò Alice. “E un po’ alla svelta anche,” concluse il Cappellaio, “o ti riaddormenti prima di averla terminata.” “C’erano una volta tre sorelline,” cominciò il Ghiro in tutta fretta, “chiamate Elsie, Lacie e Tillie, che vivevano in fondo a un pozzo...” “E di che cosa vivevano?” disse Alice, che nutriva sempre un profondo e vivace interesse per le questioni di cibarie. “Vivevano di melassa,” disse il Ghiro dopo averci pensato un
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paio di minuti. “Ma non sta né in cielo né in terra!” osservò Alice più gentilmente che poteva. “Si sarebbero ammalate.” “Infatti lo erano,” disse il Ghiro. “Ammalatissime” Alice cercava d’immaginarsi una vita così fuori dal comune, ma era roba da perderci la testa, così continuò: “Ma perché abitavano in fondo a un pozzo?” “Ma prendine di più di tè,” disse la Lepre Marzolina a Alice, con estrema serietà. “Se finora non ne ho avuto nemmeno una goccia,” rispose Alice piccata, “non posso certo prenderne di più.” “Vuoi dire che non puoi prenderne di meno,” disse il Cappellaio; “prenderne di più di niente è facilissimo.” “A te nessuno ti ha chiesto niente,” disse Alice. “E poi sarei io quello che critica!” esclamò il Cappellaio trionfante. Alice non sapeva proprio cosa ribattere, perciò si versò un po’ di tè e prese una tartina imburrata, quindi si rivolse al Ghiro e ripeté la domanda: “Perché queste tre sorelline abitavano in fondo al pozzo?” Il Ghiro impiegò di nuovo un paio di minuti per pensarci su e poi disse: “Era un pozzo di melassa”. “Ma non esistono!” saltò su Alice alquanto stizzita, ma il Cappellaio e la Lepre Marzolina le fecero “ssst!” e il Ghiro immusonito osservò: “Cerca di essere un po’ più educata, se no la storia te la finisci da sola!” “No, per favore, va’ avanti!” disse Alice. “Non ti interrompo
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più. Dopotutto può darsi che uno ne esista.” “Altro che uno!” disse il Ghiro indignato. Ma continuò ugualmente. “Orbene devi sapere che le tre sorelline stavano imparando a disegnare schizzi...” “Schizzi di che cosa?” disse Alice, dimenticandosi subito della promessa. “Di melassa,” disse il Ghiro, stavolta senza un attimo di riflessione. “Voglio una tazza pulita,” disse il Cappellaio. “Spostiamoci tutti di un posto.” Detto fatto, il Ghiro lo seguì: la Lepre Marzolina andò al posto del Ghiro e Alice piuttosto contrariata prese il posto della Lepre Marzolina. L’unico a essere avvantaggiato dal cambiamento era il Cappellaio, mentre Alice era messa molto peggio di prima, visto che la Lepre Marzolina aveva appena rovesciato il bricco del latte nel suo piatto. Alice non voleva offendere ancora una volta il Ghiro e con molta cautela modulò un “Ma... io non capisco. Da dove li prendevano ‘ste sorelline ‘sti schizzi di melassa?” “Se si possono prendere schizzi d’acqua da un pozzo d’acqua,” disse il Cappellaio, “converrai che si potranno anche prendere schizzi di melassa da un pozzo di melassa, no? Grulla!” “Ma loro stavano dentro il pozzo!” disse Alice al Ghiro, decidendo di sorvolare su quest’ultimo epiteto. “Ma certo che stavano dentro il pozzo,” disse il Ghiro. “Non farmi uscire pozzo!” Questa risposta sconcertò a tal punto la povera Alice che per un
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po’ lo lasciò continuare senza interromperlo. “Imparavano a disegnare schizzi,” continuò il Ghiro, sbadigliando e fregandosi gli occhi, sentendosi cascare dal sonno “e schizzavano cose di ogni genere... tutte quelle che cominciano per emme.” “E perché per emme?” disse Alice. “Perché no?” disse la Lepre Marzolina. Alice non fiatò. Nel frattempo il Ghiro aveva abbassato le palpebre e era già bell’e in coma quando, grazie a un pizzicotto del Cappellaio, si svegliò di soprassalto con uno squittìo e continuò: “... cose che cominciano per emme, come macachi, meteoriti, memoria, massima... sai che si dice ‘in linea di massima’. Hai mai visto lo schizzo di una linea di massima?” “Per la verità, adesso che me lo chiedi,” disse Alice molto confusa, “non mi pare...” “Allora faresti meglio a star zitta,” disse il Cappellaio. Quest’altra villania era più di quanto Alice potesse sopportare: si alzò profondamente disgustata e si allontanò; il Ghiro si addormentò di botto, e gli altri due non sembrarono fare alcun caso alla sua partenza, benché lei di tanto in tanto si voltasse a guardarli, forse sperando che l’avrebbero richiamata indietro: l’ultima cosa che vide fu che stavano cercando di pucciare il Ghiro nella teiera.
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“Comunque lì non ci ritorno più,” disse Alice incamminandosi per il bosco. “È il tè più stupido che abbia mai preso in vita mia!” E nel dire ciò, notò che uno degli alberi aveva una porta d’ingresso. “Questo sì che è strano!” pensò. “Ma oggi tutto è strano. Tanto vale entrarci subito.” E entrò. E di nuovo si ritrovò nel lungo atrio accanto al tavolino di vetro. “Stavolta ce la devo fare,” si disse, e cominciò col prendere la piccola chiave d’oro e aprire la porta che dava sul giardino. Poi si mise a sbocconcellare il fungo, di cui aveva conservato un pezzetto in tasca, e quando fu alta non più di trenta centimetri entrò nel piccolo corridoio: dal quale — finalmente! — passò nel bel giardino, tra le aiuole rilucenti di colori e i freschi zampilli delle fontane.
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VIII Il croquet della Regina
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Vicino all’entrata del giardino c’era un grande rosaio di rose bianche, ma tre giardinieri erano tutti indaffarati a dipingerle di rosso. Alice pensò che la cosa era davvero strana e si avvicinò per osservarli meglio; uno dei giardinieri diceva “Occhio, Cinque, non vedi che mi inzaccheri tutto di vernice?” “Non è colpa mia,” disse il Cinque risentito, “è il Sette che mi ha urtato il gomito.” Al che il Sette sollevò lo sguardo e disse: “E bravo Cinque! La colpa è sempre degli altri!” “Tu faresti meglio a tenere la bocca chiusa,” disse il Cinque. “Solo ieri ho sentito la Regina dire che meriteresti di essere decapitato.” “E perché?” disse quello che aveva parlato per primo. “Fatti gli affari tuoi, Due!” disse il Sette. “Sì, e tu fatti i tuoi!” disse il Cinque. “Te lo dirò io il perché... perché alla cuoca hai portato i bulbi di tulipano invece delle cipolle.” Il Sette scaraventò via il pennello, e stava già dicendo “Ah, di tutte le ingiustizie che ho visto...” quando lo sguardo gli cadde su Alice che li stava osservando e tacque di colpo. Anche gli altri si guardarono intorno e tutti quanti fecero un profondo inchino. “Vi spiacerebbe dirmi,” fece Alice leggermente intimidita, “perché state dipingendo quelle rose?” Il Cinque e il Sette non dissero niente, ma guardarono il Due. Il Due, a bassa voce, cominciò: “Vede, signorina, il fatto è che questo qui avrebbe dovuto essere un rosaio di rose rosse e noi
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per errore ne abbiamo piantato uno di rose bianche e, se la Regina venisse a saperlo, sa, ci farebbe tagliare la testa a tutti. Così, come vede, signorina, stiamo facendo del nostro meglio, prima che lei arrivi, per...” In quel momento il Cinque, che non aveva mai smesso di guardare dalla parte opposta del giardino, gridò: “La Regina! La Regina!”, e immediatamente i tre giardinieri si buttarono faccia a terra. Si sentì un rumore di passi in marcia e Alice si guardò intorno, impaziente di vedere la Regina. Per primi comparvero dieci soldati armati di picche; erano della stessa sagoma dei tre giardinieri, piatta e bislunga, con le mani e i piedi agli angoli. Dietro di loro procedevano dieci cortigiani: erano tutti inquadrati dalla testa ai piedi, e marciavano anch’essi a due a due come i soldati. Poi venivano i dieci infanti reali: sfilavano a coppie, i tesorucci, saltellando gaiamente mano nella mano, tutti impataccati di cuori. Seguivano gli ospiti, per lo più Re e Regine. Tra di loro Alice scorse anche il Coniglio Bianco, che stava parlando concitatamente e a ogni frase sorrideva pieno di nervosismo: le passò accanto senza neppure notarla. Poi veniva il Fante di Cuori, che sopra un cuscino di velluto cremisi recava la corona del Re; e finalmente a concludere questo magnificente corteo, apparvero il re e la regina di cuori. Alice si chiese se doveva lasciarsi cadere bocconi come i tre
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giardinieri, però non ricordava affatto di aver mai sentito parlare di una simile regola ai cortei “e inoltre, a che serve un corteo,” si chiese, “se la gente deve stare con la faccia a terra senza poterlo vedere?” Così rimase ferma dov’era e attese. Quando il corteo arrivò davanti a Alice tutti si fermarono di colpo a guardarla e la Regina disse con voce imperiosa: “Chi è quella lì?” Il Fante di Cuori, a cui era indirizzata la domanda, si limitò a chinare il capo sorridendo. “Idiota!” disse la Regina, scuotendo la testa spazientita, e rivolgendosi a Alice continuò: “Come ti chiami, cocca?” “Mi chiamo Alice, a Vostra Maestà piacendo,” disse Alice con la dovuta compitezza, ma aggiungendo fra sé e sé: “Insomma, si tratta solo di un mazzo di carte, in fondo! Non c’è proprio da avere paura!” “E chi sono ‘sti qua?” chiese la Regina, indicando i tre giardinieri che erano rimasti prosternati a faccia in giù. Infatti fin quando quei tre continuavano a starsene coperti a quel modo, la Regina non avrebbe mai potuto sapere se erano giardinieri, soldati, cortigiani o magari figli suoi: il disegno che avevano sulla schiena era identico a quello di tutto il mazzo! “Come faccio a saperlo, io?” disse Alice, sorpresa del suo stesso coraggio. “Non è mica affar mio!” La Regina diventò paonazza dalla rabbia e, dopo averla fissata un istante con occhi da belva, urlò: “Boia, dacci un taglio! Boia, dacci...” “Dacci un taglio tu!” disse Alice, a voce molto alta e decisa, e la Regina azzittì.
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Il Re le posò la mano sul braccio e disse timidamente: “Cerca di capire, mia cara, è solo una bambina!” La Regina con un gesto d’ira sì staccò da lui e disse al Fante: “Voltali!” Il Fante ubbidì, facendo molta attenzione a toccarli soltanto con un piede. “At-tenti!” strillò la Regina e i tre giardinieri scattarono in piedi all’istante e presero a fare inchini al Re, alla Regina, agli infanti reali e a chiunque altro. “Piantatela!” gridò la Regina, “che mi fate girare la testa!” Quindi, volgendosi verso il rosaio, continuò: “Cosa stavate combinando lì?” “A Vostra Maestà piacendo,” disse il Due con tono che più umile non si può e piegando un ginocchio fino a terra mentre parlava, “stavamo cercando di...” “Lo vedo!” disse la Regina, che nel frattempo aveva esaminato le rose. “Boia, dacci un taglio!” e il corteo riprese la marcia, meno tre soldati rimasti indietro per giustiziare i tre sventurati giardinieri, i quali corsero da Alice per farsi proteggere. “Nessuno vi decapiterà!” disse Alice, e li nascose in un grosso vaso di fiori lì vicino. I tre soldati perlustrarono avanti e indietro per un paio di minuti, poi, non trovandoli, si accodarono come se niente fosse a tutti gli altri. “Dato, il taglio?” urlò la Regina. “Hanno tagliato, a Vostra Maestà piacendo!” gridarono i soldati in coro.
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“Boiakan, così si fa!” strillò la Regina. “Sai giocare a croquet?” I soldati rimasero in silenzio e guardarono Alice, poiché la domanda era evidentemente rivolta a lei. “Sì!” gridò Alice. “Allora, gambe in spalla!” ruggì la Regina, e Alice si unì al corteo, curiosissima di vedere che piega avrebbero preso gli eventi. “Giornata incantevole... nevvero?” disse timidamente una vocina al suo fianco. Stava camminando accanto al Coniglio Bianco, che le inviava occhiate cariche d’ansia. “Certo,” disse Alice. “Dov’è la Duchessa?” “Ssst! Ssst!” disse il Coniglio più piano che poté, guardandosi attorno preoccupato; poi, sollevandosi sulle punte delle zampe, avvicinò la bocca all’orecchio di Alice e bisbigliò: “È stata condannata a morte”. “Ma che cos’ha fatto?” disse Alice. “Hai detto ‘che peccato’?” chiese il Coniglio. “No,” disse Alice, “non penso affatto che sia un peccato. Ho detto ‘ma che cos’ha fatto?’” “Ha dato una tale tirata di orecchie alla Regina che gliele ha fatte venire anche agli alluci” cominciò il Coniglio. Alice sbottò in una risatina soffocata. “Oh, ssst!” bisbigliò il Coniglio terrorizzato. “La Regina ti sente! Sai, la Duchessa era arrivata in ritardo, e la Regina le ha detto...”
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“Ai vostri posti!” tuonò la Regina, e subito tutti si misero a correre in tutte le direzioni e a sbattere l’uno contro l’altro; tuttavia, dopo un paio di minuti, ognuno fu al proprio posto e ebbe inizio la partita. Alice non aveva mai visto prima un campo da gioco così squinternato, tutto buche e gibbi; le palle erano dei porcospini vivi, le mazze dei fenicotteri vivi e i soldati dovevano piegarsi in avanti fino a toccare terra coi palmi per formare degli archetti. All’inizio la cosa più difficile per Alice fu maneggiare il suo fenicottero: riusciva senza troppi problemi a tenergli stretto il corpo sotto il braccio, lasciando le zampe penzoloni, ma appena era arrivata a fargli allungare bene il collo e a posizionargli la testa per la mazzata al porcospino, il fenicottero si girava a guardarla in faccia con un’espressione così rincitrullita che lei non poteva fare a meno di scoppiare a ridere. Quando poi era riuscita a rimetterlo con la testa in giù e stava per assestare il colpo, si accorgeva con sommo rincrescimento che il porcospino si era già tutto sballato e stava zampettando via. E per colmo di sventura, c’era sempre una buca o un gibbo a sbarrarle la strada da qualsiasi parte volesse spedire il porcospino e, poiché i soldati continuavano a raddrizzarsi e a spostarsi in altre zone del campo, Alice arrivò ben presto alla conclusione che quel gioco era troppo complicato per lei. I giocatori giocavano tutti insieme, senza aspettare il loro turno, bisticciando senza sosta e facendo a gomitate per accaparrarsi i porcospini; non passò molto tempo che alla Regina già le giravano i santissimi, e si mise a pestare i piedi e a gridare
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“Boia, un bel zac a quello lì!” o anche “Boia, un bel zac a quella là!” a una media di una volta al minuto. Alice cominciava a sentirsi molto a disagio: a dire il vero fino a quel momento non aveva ancora avuto alcun battibecco con la Regina, ma sapeva anche che poteva accadere da un istante all’altro, “e allora,” pensò, “che ne sarà di me? Qui vanno matti per decapitare la gente, anzi, è un miracolo che ci sia ancora qualcuno con la testa sulle spalle!” Si stava guardando attorno chiedendosi se ce l’avrebbe fatta a svignarsela senza farsi notare, quando percepì qualcosa di strano materializzarsi nell’aria: dapprima la cosa la riempì d’inquietudine ma, dopo averla messa a fuoco per un po’, stabilì che si trattava di un sogghigno e fra sé e sé disse: “È il Gatto del Chiantishire, finalmente posso scambiare quattro chiacchiere”. “Come va la vita?” disse il Gatto non appena ebbe bocca sufficiente per aprirla. Alice rimase in attesa finché non apparvero anche gli occhi, e poi gli fece un cenno col capo. “È inutile parlargli finché non gli sono spuntate le orecchie,” pensò, “e se non tutt’e due almeno una.” Nel giro di un minuto comparve l’intera testa: Alice depose il suo fenicottero e prese a fargli la cronaca della partita, rincuorata di avere qualcuno che le prestasse ascolto. Il Gatto, pensando forse di essersi messo in vista a sufficienza, non ritenne opportuno far apparire altro. “Non mi pare che stiano giocando con lealtà,” protestava Alice, “e poi battibeccano tutti con quanto fiato hanno in gola
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che uno non riesce neanche a sentire la propria voce... e le regole poi, così imprecise, ammesso che ce ne siano, non le rispetta nessuno... e non hai idea che confusione con questi arnesi vivi; per dirtene una: vedi quell’archetto che se la sta filando verso il fondo del campo? dovrebbe essere qui a farsi infilare da me! Un minuto fa stavo per bocciare il porcospino della Regina, solo che appena ha visto il mio ha fatto dietrofront. Ma si può?” . “Ti piace la Regina?” disse il Gatto a bassa voce. “Neanche un po’!” disse Alice, “è così sfacciatamente...” – in quell’istante si rese conto che la Regina si trovava proprio dietro di lei e stava allungando le orecchie – “... brava che non vale neanche la pena di continuare la partita; ha la vittoria in tasca.” La Regina sorrise e passò oltre. “Con chi stai parlando?” disse il Re avvicinandosi a Alice e guardando con profonda curiosità la testa del Gatto. “È un mio amico del Chiantishire... un Gatto,” disse Alice, “mi permetta di presentarglielo.” “La sua cera non mi piace per niente,” disse il Re, “tuttavia, gli sia concesso di baciarmi la mano, se gli va.” “Ne farei a meno, grazie,” osservò il Gatto. “Non fare l’impertinente,” disse il Re, “e non guardarmi a quel modo!” Intanto, mentre parlava, il Re si era messo dietro Alice. “Anche un gatto, caro te, può guardare in faccia un re,” disse Alice. “Devo averlo letto da qualche parte, ma non so dove.”
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“Comunque sia, bisogna toglierlo di mezzo,” tagliò corto il Re e gridò alla Regina che stava passando in quel momento: “Mia diletta! Avrei una bella gatta da pelare, anzi, un gatto un po’ così: ti va di pelarlo tu?” La Regina aveva un solo modo di sistemare ogni grattacapo, grande o piccolo: “Boia, dacci un taglio!” esclamò senza neppure dargli prima un’occhiatina. “Andrò io stesso a prendere il boia,” disse il Re prontamente, e corse via. Alice pensò che tanto valeva tornare indietro e vedere come procedeva la partita, poiché in lontananza sentiva la voce della Regina che urlava come un’ossessa. L’aveva già sentita condannare a morte tre giocatori per aver perso il turno e la cosa non le garbava affatto, dal momento che nella partita regnava ormai una tale confusione che non sapeva mai se toccava battere a lei o no. A ogni buon conto se ne andò a cercare il suo porcospino. Il porcospino stava ingaggiando una lotta con un altro porcospino, il che parve a Alice una splendida occasione per sbattere due palle una contro l’altra e segnare due punti in un colpo solo: la sola difficoltà era costituita dal suo fenicottero che, dopo aver attraversato tutto il campo di gioco, ora stava dibattendo le lunghe ali nel vano tentativo di volarsene su un albero. Quando finalmente riuscì a riacchiappare il fenicottero e a riportarselo indietro, la lotta era finita e i porcospini erano scomparsi. “Fa niente,” pensò Alice, “tanto anche gli archetti
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se ne sono andati tutti nell’altra metà campo.” Così, imbracciato stretto il fenicottero per evitare che scappasse di nuovo, tornò sui suoi passi per riprendere almeno due delle quattro chiacchiere col suo amico ti vedo-non ti vedo. Ma con suo grande stupore, intorno al Gatto del Chiantishire trovò radunata una gran folla: c’era una bega clamorosa tra boia, Re e Regina, che vociavano tutti insieme, mentre gli altri non dicevano neanche ba, e avevano tutti l’aria di desiderare di trovarsi altrove. Non appena Alice comparve, i tre la chiamarono a sistemare la vertenza e le ripeterono ognuno le proprie ragioni ma tutti in una volta, cosicché le fu difficile capire esattamente quel che dicevano. La tesi del boia era che nessuno può tagliar via una testa se non c’è un corpo da cui tagliarla via, che non gli era mai capitata una cosa del genere prima e che non intendeva certo cominciare adesso, alla sua età. La tesi del Re era che tutto ciò che ha una testa può essere decapitato, e che era ora di finirla coi distinguo. La tesi della Regina era che, se qualcosa non veniva fatto entro zero secondi, avrebbe fatto giustiziare tutti, nessuno escluso. (Era stata quest’ultima minaccia a conferire all’intero gruppo quell’aria tanto tetra e inquieta.) A Alice non venne niente di meglio da dire se non “Il Gatto appartiene alla Duchessa: fareste meglio a chiederlo a lei un parere”. “È al fresco,” disse la Regina al boia, “portamela qui.” E il boia
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fendette l’aria come una falce. Non appena il boia se ne fu andato, la testa del Gatto cominciò a sfumare e, prima che fosse di ritorno con la Duchessa, era completamente scomparsa, cosicché il Re e il boia si misero a correre in lungo e in largo come matti, cercandola dappertutto, mentre gli altri riprendevano la partita dove e soprattutto come l’avevano l’asciata.
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IX La storia della Tartaruga d’Egitto
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“Non puoi immaginarti come sono lieta di rivederti, vecchia mia!” disse la Duchessa prendendo Alice a braccetto e mettendosi a passeggiare insieme a lei. Alice fu molto contenta di trovarla così di buon umore e pensò che forse era stato soltanto il pepe a imbestialirla a quel modo quando si erano incontrate nella cucina. “Quando io sarò una duchessa,” si disse (ma con tono non molto fiducioso), “terrò sempre il pepe alla larga dalla mia cucina. La minestra può farne benissimo a meno... e poi forse è proprio il pepe che rende la gente così infiammabile...” continuò, molto soddisfatta di aver enunciato una specie di regola nuova, “e l’aceto la rende acida... e la camomilla la rende amara... e... e le caramelle d’orzo e i dolci fan diventare mansueti i bambini. Oh, se soltanto gli adulti le sapessero queste cose, Alcuni studi fondati sulle moderne tecniche di elaborazione di immagini hanno indicato quali potrebbero essere le regioni cerebrali il cui cattivo funzionamento spiegherebbe i sintomi dell’ADHD. Stando a questi lavori, sembrerebbero interessati la corteccia pre-frontale destra, coinvolta nella programmazione del comportamento, nella resistenza alle distrazioni e nello sviluppo della consapevolezza di sé e del tempo, il nucleo caudato e il globo pallido che agiscono interrompendo le risposte automatiche per consentire una decisione più accurata da parte della corteccia e per coordinare gli impulsi che attraverso i neuroni raggiungono le diverse regioni della corteccia. L’esatto ruolo del verme del cervelletto non è stato ancora chiarito, ma indagini recenti fanno ritenere che abbia a che fare con l’essere più o meno motivati. Alice in questo momento è immersa nei suoi pensieri dimenticandosi della Duchessa che imperterrita continua il suo monologo.
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non sarebbero tanto di manica stretta coi dolci, non ho ragione?” Nel frattempo si era completamente dimenticata della Duchessa e ebbe un lieve soprassalto quando sentì la sua voce che in un orecchio le diceva: “È perché sei occupata a pensare che ti dimentichi di conversare, mia cara. E la morale è... adesso come adesso mi sfugge, ma fra un po’ mi verrà in mente”. “Forse non ce n’è una,” azzardò Alice. “Via, via, sventatella!” disse la Duchessa. “Ogni cosa ha la sua morale, basta trovarla.” E, parlando, si stringeva forte contro il fianco di Alice. A Alice non andava che le stesse così sulle coste: primo, perché la Duchessa era molto brutta e secondo perché il suo mento le arrivava giusto all’altezza della spalla, e si trattava di un mento scomodissimamente aguzzo. Comunque, non voleva essere sgarbata e lo sopportò meglio che poteva. “Sembra che adesso la partita proceda un po’ meglio,” disse Alice. “Già,” disse la Duchessa, “e la morale è... Oh, ‘l’amour, l’amour! è l’amore che fa girare il mondo’!” “Qualcuno ha detto,” bisbigliò Alice, “che è chi bada agli affari suoi che fa girare il mondo.” “Ah, come no! È più o meno lo stesso,” disse la Duchessa, affondando ancor più il suo mentuzzo appuntito nella spalla di Alice e aggiungendo “e la morale è... ‘Chi semina suoni raccoglie senso’.” “Che pallino trovare la morale di tutto!” pensò Alice.
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“Scommetto che ti stai chiedendo perché non ti metto un braccio attorno alla vita,” disse la Duchessa dopo una pausa. “È che temo un po’ la reazione del tuo fenicottero. Che dici, mi avventuro?” “Pizzica, “ rispose Alice prudente, per niente entusiasta, di subire quell’esperimento. “Verissimo,” disse la Duchessa, “fenicotteri e mostarda pizzicano entrambi. E la morale è: ‘Uccelli della stessa covata fan sempre rimpatriata’.” “Solo che la mostarda non è un uccello,” fece notare Alice. “Esatto, come al solito,” disse la Duchessa. “Hai il dono della chiarezza, tu!” “È un minerale, credo,” disse Alice. “Ma certo,” disse la Duchessa, che sembrava disposta a mostrarsi d’accordo su qualsiasi affermazione di Alice, “c’è una ricca miniera di mostarda nei paraggi e la morale è... ‘Più ce n’è per me, meno cene per te’.” “Oh, ci sono!” esclamò Alice, che non aveva fatto caso a quest’ultima osservazione. “È un vegetale. Non ne ha l’aria, ma lo è.” “Sono assolutamente d’accordo,” disse la Duchessa, “e la morale è... ‘L’apparenza dona’ o, se preferisci, in parole povere: ‘Non pensare neppure per un istante di non essere diversa da ciò che può sembrare agli altri che tu sia stata o potresti essere stata non è diverso da ciò che saresti sembrata loro differente da come sei’.” “Forse lo capirei meglio,” disse Alice molto educatamente,
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“con un disegnino, ho paura di non riuscire a orientarmi se me lo dice così.” “Questo è niente in confronto a ciò che potrei dire se volessi,” rispose la Duchessa tutta compiaciuta. “Oh, la prego, non vale la pena di spendere una parola di più per spiegarmelo,” disse Alice. “Oh, nessuna pena!” disse la Duchessa. “Ti regalo tutto quello che ho detto finora.” “Capirai che regalo!” pensò Alice. “Per fortuna che ai compleanni la gente non fa regali simili!” Ma non si arrischiò a dirlo a alta voce. “Pensi ancora?” chiese la Duchessa, con un’ennesima trivellatina di mento. “Avrò ben il diritto di pensare!” ribatté Alice, che cominciava a innervosirsi. “Né più né meno il diritto,” disse la Duchessa, “che i porci hanno di volare; e la mora...” Ma a questo punto, con grande stupore di Alice, la voce della Duchessa si affievolì proprio nel bel mezzo della sua parola preferita “morale” e il braccio sotto il suo prese a tremare. Alice alzò gli occhi e si vide davanti la Regina, braccia conserte, con un’espressione da finimondo. “Che splendida giornata, Maestà!” cominciò la Duchessa a voce bassa e sottomessa. “Non te lo ripeto più,” urlò la Regina, battendo il piede rabbiosa: “o via tu o via la tua testa. Hai un batter d’occhio per decidere.”
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La Duchessa scelse “via tu”, e si eclissò. “Dài, che andiamo avanti col match,” disse la Regina a Alice, e Alice era così terrorizzata che non riuscì a spiccicar parola, ma la seguì lentamente verso il campo di croquet. Gli ospiti avevano approfittato dell’assenza della Regina per riposarsi all’ombra, ma appena la videro, tornarono di corsa a giocare, mentre la Regina faceva notare, en passant, che un ritardo di un solo menchenonsidica sarebbe costato un bel po’ di tagli da darci. Per tutto il tempo della partita la Regina non smise un istante di baccagliare con tutti e di strillare “Boia, un bel zac a quello lì!” (o anche “Boia, un bel zac a quella là!”) all’indirizzo di questo e quel giocatore. I condannati a morte venivano presi in custodia dai soldati, i quali, per far ciò, dovevano piantar lì di fare gli archetti, cosicché, nel giro di una mezz’ora, non c’era più nemmeno un archetto e tutti i giocatori, tranne il Re, la Regina e Alice, erano sotto sorveglianza in attesa di essere decapitati. Allora la Regina, ormai a corto di fiato, abbandonò il campo. “Non hai ancora visto la Tartaruga d’Egitto?” chiese a Alice. “No,” disse lei, “non so neanche cosa sia una Tartaruga d’Egitto.” “È quella roba che ci fanno il Brodo di Tartaruga d’Egitto,” disse la Regina. “Mai vista né sentita,” disse Alice. “E allora seguimi,” disse la Regina, “che ti racconterà la sua storia.”
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Mentre si allontanavano insieme, Alice sentì il Re che a bassa voce diceva alla compagnia: “Tutti graziati in blocco”. “Ah, questa sì che è una bella notizia!” si disse fra sé e sé, poiché quel fuoco di fila di “Boia, un bel zac!” l’aveva depressa un bel po’. Di lì a poco si imbatterono in un Grifone, che se ne stava steso al sole a sonnecchiare. “Sveglia, pelandro!” disse la Regina, “e conduci questa giovane dama a vedere la Tartaruga d’Egitto che vuole ascoltare i suoi geroglifici. Io vi lascio, ho un paio di decapitazioni da sbrigare prima di pranzo,” e se ne andò, lasciando Alice sola con il Grifone. A Alice non piaceva affatto l’aspetto di quella creatura, ma pensò che tutto sommato era più al sicuro con lui che con quella sanguinaria di una Regina, e rimase dov’era. Il Grifone si mise a sedere stropicciandosi gli occhi, poi seguì la Regina con lo sguardo finché non fu sparita, quindi ridacchiò. “Che cartolina!” disse, più a se stesso che a Alice. “Dov’è la cartolina?” disse Alice. “È lei, no?” disse il Grifone. “È tutto un paesaggio della sua immaginazione, mica decapitano mai nessuno, che credi. Seguimi!” “Tutti dicono ‘seguimi!’ da queste parti,” pensò Alice mentre lo seguiva lemme lemme. “Non ho mai ricevuto tanti ordini in vita mia, mai!” Non avevano fatto molta strada quando in lontananza scorsero la Tartaruga d’Egitto, seduta triste e sola sul cocuzzolo di una roccia e, più si avvicinavano, più Alice poteva sentirla
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singhiozzare come se avesse il cuore spezzato. Ne provò una gran compassione. “Che dispiaceri ha?” chiese al Grifone, e il Grifone rispose, più o meno con le stesse parole di prima: “È tutta una sua immaginazione, mica ha dispiaceri, che credi. Seguimi!” Così giunsero davanti alla Tartaruga d’Egitto che li guardò con i grandi occhi colmi di lacrime, ma non disse niente. “Questa giovane dama,” disse il Grifone, “è venuta a ascoltare i tuoi geroglifici, pensa un po’!” “Glieli racconterò,” disse la Cleopatra col guscio, in tono cavernoso. “Sedetevi, voi due, e non dite una parola finché non avrò finito.” Così si sedettero e nessuno aprì bocca per alcuni minuti. Alice stava pensando “Chissà come farà a finire se non comincia neanche”, ma restava pazientemente in attesa. “Una volta,” disse finalmente, con un sospirone, la Tartaruga d’Egitto, “io ero una tartaruga vera.” Queste parole furono seguite da un silenzio molto, molto lungo, interrotto solo di tanto in tanto da un’esclamazione tipo “Hjckrrrh!” del Grifone e dal continuo singhiozzare della Tartaruga d’Egitto. Alice era sul punto di alzarsi e di dire “Molte grazie, signora, per avermi profilato la sua storia così interessante”, ma non poteva fare a meno di pensare che doveva essercene attaccato un altro pezzo, così rimase quieta
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senza dire niente. “Quando eravamo piccole,” disse finalmente la Tartaruga d’Egitto, più placida, ma sempre con un bel singhiozzo di tanto in tanto, “andavamo a scuola in fondo al mare. La maestra era una vecchia Tartaruga... noi però la chiamavamo Testuggine...” “Perché la chiamavate Testuggine se non lo era?” chiese Alice. “Testuggine perché a forza di test ti faceva venire la ruggine, no?” disse la Tartaruga d’Egitto perdendo la pazienza. “C’hai proprio la zucca dura!” “Dovresti vergognarti di fare delle domande così allocche!” aggiunse il Grifone, e entrambi ammutolirono scandalizzati, lo sguardo fisso sulla povera Alice che avrebbe voluto sprofondare sotto terra. Finalmente il Grifone disse alla Tartaruga d’Egitto “Va’ avanti, balorda! non vorrai mica metterci tutto il santo giorno!”, e lei proseguì con queste parole: “Sì, tu non ci crederai, ma noi andavamo a scuola in fondo al mare...” “Non ho detto che non ci credo!” la interruppe Alice. “Invece l’hai detto!” ribatté la Tartaruga d’Egitto. “Ma statti zitta!” aggiunse il Grifone prima che Alice potesse di nuovo aprire bocca. “Ricevemmo la migliore educazione... infatti andavamo a scuola tutti i giorni...” “Andavo a scuola anch’io tutti i giorni,” disse Alice, “non vedo cosa ci sia da vantarsi tanto.” “Coi corsi extra?” chiese la Tartaruga d’Egitto con voce
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preoccupata. “Sì,” disse Alice, “studiavamo francese e musica.” “E bucato?” domandò la Tartaruga d’Egitto. “Ma fammi il piacere!” disse Alice indignata. “Ah, allora non era una scuola delle migliori!” disse la Tartaruga d’Egitto con tono di profondo sollievo. “Nella nostra, invece, in calce alla fattura della retta c’era scritto: ‘francese, musica e bucato – extra’.” “Chissà che te ne facevi del bucato,” disse Alice, “vivendo sott’acqua!” “Purtroppo non potevo permettermelo,” disse la Tartaruga d’Egitto con un sospiro. “Ho frequentato solo i corsi normali.” “Che consistevano in...?” “Naturalmente, tanto per cominciare, a scansare le locali e a arricciare le consolanti,” rispose la Tartaruga d’Egitto, “e poi le quattro operazioni dell’Aritmetica: Ambizione, Soggezione, Mortificazione e Derisione.” “‘Mortificazione’ mi giunge nuova,” si arrischiò a dire Alice. “Cos’è?” Il Grifone alzò le zampe al cielo dalla sorpresa. “Cosa? Mai sentito parlare di Mortificazione!” esclamò. “Saprai, spero, cosa significa ‘Vivificazione’?” “Sì,” disse Alice un po’ dubbiosa, “significa... rendere... una cosa più... viva.” “Allora,” continuò il Grifone, “se non sai che cosa significa mortificare, devi proprio essere una sempliciotta.”
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Alice non ebbe il coraggio di approfondire la questione; si rivolse alla Tartaruga d’Egitto e disse “Quali erano le altre materie?” “Be’, c’era la Scoria,” rispose la Tartaruga d’Egitto, contando le materie sulle squame delle nocche, “Scoria antica e moderna, con Mareografia. La prof di Disdegno era una vecchia anguilla che veniva su una volta la settimana: ci insegnava Disdegno, Frittura Su Tela e Findus Affresco Alla Mia Maniera.” “Cos’era, più o meno?” disse Alice. “Be’, non lo so nemmeno io. Roba da brivido, comunque. Nemmeno il Grifone l’ha mai imparato.” “E chi aveva tempo?” disse il Grifone. “Ho fatto il classico, io. E il mio maestro era un vecchio granchio con la barba.” “Io non ho mai preso lezioni da lui,” disse la Tartaruga d’Egitto con un sospiro. “Insegnava Amorgreco e Latinlover, mi si dice.” “Esatto, esatto!” disse il Grifone, sospirando a sua volta, e i due animali si nascosero la faccia fra le zampe. “E quante ore avevate al giorno?” disse Alice, impaziente di cambiare argomento. “Il primo giorno dieci!” disse la Tartaruga d’Egitto, “il secondo nove e così via.” “Che orario strano!” esclamò Alice. “Ma è per questo che sono chiamate ore d’istruzione,” osservò il Grifone: “Perché si distruggono”. Questa qui Alice non l’aveva mai sentita, e ci pensò sopra per un po’ prima di fare la seguente osservazione: “Allora
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l’undicesimo giorno era vacanza”. “Certo che lo era,” disse la Tartaruga d’Egitto. “E il dodicesimo che facevate?” continuò Alice incuriosita. “Basta parlare di scuola,” tagliò corto il Grifone. “Dille qualcosa della ricreazione adesso.”
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X Le aragoste fan quadriglia
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La Tartaruga d’Egitto sospirò profondamente e si asciugò gli occhi col dorso di una pinna. Guardò Alice e cercò di parlare ma, per un minuto o due, non emise che singhiozzi. “Neanche le fosse andata di traverso una lisca,” disse il Grifone, e si mise a scuoterla e a darle delle gran pacche sul guscio. Finalmente la Tartaruga d’Egitto recuperò la voce e, con le guance rigate di pianto, riprese a parlare: “Forse non avrai vissuto molto in fondo al mare...” (“Infatti” disse Alice)... “e forse non sei mai stata presentata a un’aragosta...” (Alice cominciò a dire “Una volta ne ho assagg...” ma si fermò in tempo e disse “No, mai”) “... quindi non puoi nemmeno immaginare che delizioso spettacolo sia una quadriglia di aragoste!” “Infatti,” disse Alice. “Che razza di ballo è?” “Dunque,” disse il Grifone, “prima ci si mette in fila lungo la spiaggia...” “In due file!” gridò la Tartaruga d’Egitto. “Foche, tartarughe e così via; poi, quando hai fatto piazza pulita delle meduse...” “Cosa che di solito porta via un bel po’ di tempo...” interruppe il Grifone. “... fai due passi avanti...” “Ognuno in coppia con un’aragosta!” gridò il Grifone. “Va da sé,” disse la Tartaruga d’Egitto, “fai due passi avanti, un inchino alla dama...”
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“... changez les aragostes, e ricomponiamo i ranghi,” continuò il Grifone. “Poi, attenta,” continuò la Tartaruga d’Egitto, “scagli le...” “Le aragoste!” urlò il Grifone, spiccando un gran balzo. “... in mare più lontano che puoi...” “Le rincorri a nuoto!” strillò il Grifone. “Capriola acquatica!” gridò la Tartaruga d’Egitto, piroettando e contorcendosi selvaggiamente. “Encore: changez les aragostes!” urlò il Grifone. “Si rivà a riva e... Fine della prima figura,” disse la Tartaruga d’Egitto, con voce improvvisamente spenta, e le due creature, che avevano continuato a saltabeccare qui e là come invasate, tornarono a sedersi moge moge e guardarono Alice con immensa tristezza. “Deve essere proprio un amore di quadriglia,” disse Alice timidamente. “Ti piacerebbe vederne un saggio?” disse la Tartaruga d’Egitto. “Altroché!” disse Alice. “Proviamo la prima figura!” disse la Tartaruga d’Egitto al Grifone. “Possiamo farla anche senza aragoste, sai. Chi canta?” “Tu, per forza,” disse il Grifone. “Io mi sono dimenticato le parole.” Così aprirono solennemente le danze facendo girotondo attorno a Alice, pestandole un alluce di tanto in tanto quando le passavano troppo vicino, e dondolando le zampe anteriori per segnare il ritmo, mentre la Tartaruga d’Egitto prendeva a cantare con voce strascicata e tristissima:
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“Vuoi sgusciare un po’ più in fretta?” disse [Tonno a Lumachina “C’è qui un polpo che c’insegue, mi sta [proprio su una spina Aragoste e tartarughe già quadriglian [con baldanza Siamo attesi sulla spiaggia, la permetti [questa danza? Vero o no, è vero o no, che permetti [questa danza? Vero o no, è vero o no, che permetti [questa danza? Non immagini neppure che delizia [si nasconda Nel venir, con le aragoste, sbalestrati [in mezzo all’onda.” Ma diffida Lumachina: “Troppo al largo! [Che distanza! Tante grazie, signor Tonno, non permetto [questa danza. Vorrei sì, ma grazie no, non permetto [questa danza. Vorrei sì, ma grazie no, non permetto [questa danza”. “Ma che importa la distanza?” le ribatte [il viscidone “C’è una terra dopo il mare, sai, in quella
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[direzione! Non capisco, no davvero, la tua strenua [intolleranza: Vieni qua, cara lumaca, e permettimi [‘sta danza. Vero o no, è vero o no, che permetti [questa danza? Vero o no, è vero o no, che permetti [questa danza?”
“Tante grazie, molto interessante come danza,” disse Alice, sentendosi sollevata adesso che finalmente era finita, “e quanto mi piace questa strana canzone sul tonno!” “Oh, quanto ai tonni,” disse la Tartaruga d’Egitto, “ti sarà capitato di vederli, immagino!” “Sì,” disse Alice, “ne ho visti spesso a pra...” s’interruppe appena in tempo. “Non ho idea di dove si trovi Prà,” disse la Tartaruga d’Egitto, “ma se li hai visti così spesso saprai certo che faccia hanno.” “Credo di sì,” rispose Alice pensierosa. “Sono rotondi, a forma di scatola, e sono tutti fatti a pezzettini...” “Pezzettini? Tu vaneggi!” disse la Tartaruga d’Egitto: “I pezzettini verrebbero lavati via in un fiat, nel mare. È vero che sono a forma di scatola rotonda, e sai perché?” A questo punto la Tartaruga d’Egitto sbadigliò e chiuse gli occhi. “Diglielo tu il perché, e anche il percome,” disse al Grifone. “Ordunque,” disse il Grifone, “i tonni avevano voluto andare a
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ballare con le aragoste. Di conseguenza erano dei portoghesi e furon fatti volare in mare. Di conseguenza, siccome il volo non finiva mai, cominciarono a girargli le scatole. Di conseguenza gli girarono talmente tanto, che finirono per diventare tondi e non riuscirono più a cambiare forma. Ecco perché.” “Grazie,” disse Alice, “molto interessante. Mai saputo tanto sul tonno in vita mia.” “Oh, posso dirti altro che questo,” disse il Grifone. “Sai perché si chiama tonno?” “Non c’ho mai pensato,” disse Alice. “Perché?” “Lo usano negli ateliers!” proclamò il Grifone solennemente. “Negli ateliers!” ripeté Alice con tono incantato. “Sì, per la collezione autunno-inverno sono indicati i tonni caldi, per le situazioni informali va benissimo il tonno sportivo. In ogni caso è indispensabile il sandwich francese di tonni.” “Sarebbe a dire?” domandò Alice stupefatta. “Il tonn-sur-tonn, no?” “E quali sono i capi più di moda?” “Papaline, mante a rombi con la cernia sul davanti e scarpe nei colori muggine o verdone,” rispose il Grifone con malcelata impazienza. “Queste cose te le può dire qualsiasi pesce-ago!” “Se io fossi stata al posto del tonno,” disse Alice, i cui pensieri ruotavano ancora attorno alla canzone, “avrei detto al polpo ‘sta’ alle larghe, per piacere! non ti vogliamo con noi!” “Erano obbligati a avercelo alle calcagna,” disse la Tartaruga d’Egitto. “Un pesce chic è immancabilmente in compagnia di un polpo.”
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“Ma dici sul serio?” disse Alice, passando di sorpresa in sorpresa. “Certo!” disse la Tartaruga d’Egitto. “In ogni storia dev’esserci sempre un polpo di scena! e poi se un pesce venisse da me per annunciarmi che mi lascia, io gli risponderei ‘ti venisse un polpo!” “Volevi dire ‘un colpo’?” “Volevo dire esattamente quel che ho detto,” rispose la Tartaruga d’Egitto, offesa. E il Grifone aggiunse: “Dài, adesso facci ascoltare le tue di avventure”. “Potrei raccontarvi le mie avventure... cominciando da stamattina,” pigolò Alice, “ma sarebbe inutile risalire a ieri, perché allora ero una persona del tutto differente.” “Spiegati meglio,” disse la Tartaruga d’Egitto. “No, no! Prima le avventure,” disse il Grifone con tono impaziente, “le spiegazioni portano via tanto di quel tempo!” Così Alice prese a raccontare le sue avventure a partire dalla prima volta che aveva visto il Coniglio Bianco. Dapprincipio la cosa la inquietava un po’, i due animali le stavano così a ridosso, uno per parte, e tenevano gli occhi e le bocche così spalancati; ma più andava avanti, più prendeva coraggio. I suoi ascoltatori se ne rimasero buoni finché non arrivò al punto in cui recitava al Bruco Caro, vecchio, buon papà con tutte le parole cambiate; a quel punto la Tartaruga d’Egitto tirò un profondo respiro e disse: “Molto strano!” “Più strano di così si muore,” disse il Grifone. “Tutte le parole cambiate!” ripeté la Tartaruga d’Egitto
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pensierosa. “Mi piacerebbe sentirla provare a ripetere qualcosa adesso. Dille di cominciare pure.” E guardò il Grifone come se gli riconoscesse una certa autorità su Alice. “Alzati in piedi e recita Questa è la voce del fanagotta” disse il Grifone. “Qui tutti gli animali continuano a darti ordini e a farti recitare le lezioni!” pensò Alice. “Tanto varrebbe essere a scuola!” Tuttavia si alzò e cominciò a ripeterla, ma aveva la testa così sottosopra per via della quadriglia delle aragoste che faceva fatica a rendersi conto di quello che diceva, e le parole le uscirono fuori un po’ strampalate: “Questa è la voce dell’Aragosta, che si lamenta, e che [protesta: ‘Non mi scottate, sono già tosta, ho troppo sole sopra [la testa’. Come un pavone con la sua coda, così la lady non [bada a spese: sfoggia le chele all’ultima moda, tutta in paillettes di [maionese. Quando la spiaggia è ancora asciutta si fa venire gaie [mattane, e a mo’ di scherno, pinza e sculetta: ‘Chi c’ha paura del [pescecane?’ Ma quando sale l’alta marea e mille squali battono il [crawl con l’acqua in bocca resta in apnea e non la senti far
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[neanche: ‘oh’.”
“Completamente differente da come ero abituato a sentirla io da bambino,” disse il Grifone. “Ah be’, quanto a me, mai sentita prima,” disse la Tartaruga d’Egitto, “ma mi pare insolitamente assurda.” Alice non disse niente: si mise a sedere nascondendosi la faccia fra le mani, chiedendosi se qualcosa avrebbe mai ripreso a girare per il suo verso di sempre. “Non mi spiacerebbe se me la spiegassi,” disse la Tartaruga d’Egitto. “Non è in grado di spiegartela,” si affrettò a dire il Grifone. “Va’ avanti con la prossima strofa.” “Ma questa faccenda delle paillettes di maionese!” insisteva la Tartaruga d’Egitto. “Almeno sapere chi era il suo stilista!” “Spendacciona com’era, doveva averne parecchi,” disse Alice, ma si sentiva così spaesata che non vedeva l’ora di cambiare argomento. “Dài, la prossima strofa,” insistette il Grifone, “’Finché un bel giorno...’” Alice non osò disubbidire, anche se sapeva che tutte le parole si sarebbero accavallate come al solito e, con voce tremante, proseguì: “Finché un bel giorno, o meglio una sera, lì dalle [suore, con aria assorta ti vedo il Gufo con la Pantera sbocconcellarsene una
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[un po’ morta, ma la Pantera in un baleno si prese cosce, petto ed [ossario, e la testina con il ripieno, lasciando al Gufo saio e [rosario. Quando la suora fu tutta assunta, il Gufo allora poté [intascarne quale graziosa, speciale aggiunta, tutte le briciole e [un po’ di carne ma la Pantera è insoddisfatta; chiede il dessert, la [mangia-a-ufo, e con un balzo d’ottima fatta e un gran ruggito si [mangia il...”
“Che senso ha recitare tutta questa solfa,” la interruppe la Tartaruga d’Egitto, “se poi non ce la spieghi? È di gran lunga la poesia più macellaia che abbia mai sentita!” “Sì, anch’io credo che faresti meglio a troncarla lì,” disse il Grifone a Alice, che fu ben contenta di ubbidire. “Vogliamo provare un’altra figura della quadriglia delle aragoste?” propose il Grifone. “O preferisci che sia la Tartaruga d’Egitto a cantarci qualcosina?” “Oh sì, una canzone, per favore! Se alla Tartaruga d’Egitto non dispiace...” fece eco Alice con tale fretta che per poco il Grifone non si offese. “Hm! Tutti i gusti son gusti... Cantale Il Brodo delle Star, falla contenta, vecchia mummia!” La Tartaruga d’Egitto tirò un sospiro infinito e, con voce rotta
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qui e là dai singhiozzi, prese a cantare: “Oh, brodo di star, oh, doppio sapore, del brodo di carne tu sei il successore! Dalla fondina d’oro zecchino sale un sapore di strutto equino! Brodo, bel brodo, oh che bel brodo! Brodo, bel brodo, oh come godo! “Oh, brò-ooòdo, oh brò-ooòdo! Bel brò-ooòdo, ti lò-ooòdo! Brò-ò-ò-do di sera! Bel sò-ò-nno si spera! “Chi se ne frega di arrosti e lessi noi solo brodo, mica siam fessi! Chi non darebbe un occhio per l’odorino che sale su [da bel brodo! Brodo, bel brodo, è bello todo! Il brodo bello delle — un! — Stàààààààààààr!”
“Taca banda!” gridò il Grifone, e la Tartaruga d’Egitto non aveva ancora cominciato a ripetere il ritornello che in lontananza si udì un urlo: “Comincia il processo!” “Seguimi!” gridò il Grifone e, presa per mano Alice, la trascinò via senza attendere la fine della canzone. “Di che processo si tratta?” chiese Alice, ansante per la corsa. “Seguimi!” disse il Grifone per tutta risposta accelerando ulteriormente l’andatura, mentre sempre più deboli, portate
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dalla brezza che spirava alle loro spalle, si dileguavano le note malinconiche della Tartaruga d’Egitto: “Oh, bro-ooodo crepuscolare! Brodo bellissimo da sorbettare!�
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XI Chi ha sgraffignato le pizzette?
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Quando i nostri eroi giunsero sul posto, trovarono il Re e la Regina seduti sul loro trono e attorniati da una gran folla fra cui figuravano uccellini e bestiole di ogni specie, oltre all’intero mazzo di carte: il Fante, tutto incatenato, stava in piedi fra due carcerieri, al cospetto delle Loro Maestà; vicino al Re c’era il Coniglio Bianco con una tromba in una mano e un rotolo di pergamena nell’altra. Al centro della corte c’era un tavolo su cui faceva bella mostra di sé un gran vassoio di pizzette: avevano un aspetto così invitante che a Alice venne l’acquolina in bocca. “Se si sbrigassero col processo!” pensava, “e passassero direttamente al rinfresco!” Ma questa sembrava più che altro una pia illusione e così, per ingannare l’appetito, cominciò a guardarsi attorno. Alice non aveva mai messo piede in un tribunale prima d’ora, ma ne aveva sentito parlare a scuola, e scoprì compiaciuta di conoscere il nome di tutte le cose che vedeva. “Quello è il giudice,” si disse, “con la sua parruccona.” Il giudice, fra l’altro, era proprio il Re; e dato che sopra la lunga parrucca portava la corona, non sembrava molto a suo agio, e la mise non gli donava di certo. “E quello è il banco della giuria,” pensò Alice, “e quelle dodici creature,” (era obbligata a chiamarle “creature”, perché fra esse c’erano anche animali e uccelli) “devono essere i giurati.” Quest’ultima parola se la ripeté a bassa voce due o tre volte, tanto era fiera di se stessa, poiché pensava, e a ragione, che ben poche bambine avrebbero saputo precisarne il significato. Per quanto, anche “la giuria” poteva andare.
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I dodici giurati erano alle prese con delle lavagnette. “Che stanno facendo?” sussurrò Alice al Grifone. “Non è possibile che abbiano qualcosa da scrivere prima che il processo sia cominciato.” “Stanno prendendo nota del proprio nome,” bisbigliò per tutta risposta il Grifone, “per timore di dimenticarselo prima che il processo finisca.” “Roba da chiodi!” s’indignò Alice a voce alta; ma subito si morse la lingua, poiché il Coniglio Bianco gridava “Silenzio in aula!” e il Re inforcava gli occhiali e si guardava nervosamente attorno per individuare chi aveva parlato. Alice intanto riuscì a vedere, meglio che se avesse sbirciato alle loro spalle, che tutti i giurati stavano trascrivendo “Roba da chiodi!” sulle loro lavagne, e s’accorse perfino che uno di loro non sapeva come si compita “chiodi” e lo stava chiedendo al vicino. “Chissà che pastrocchi su quelle lavagne alla fine del processo!” pensò Alice. Uno dei giurati aveva un gessetto che strideva. La qual cosa, va da sé, per una bambina come Alice era assolutamente intollerabile, cosicché andò a mettersi dietro il giurato e, alla prima occasione, glielo fece sparire. Lo fece con una tale sveltezza che il povero animaletto (si trattava di Billyetto, cento grammi di Ramarro) non riusciva a capacitarsi della sua sparizione e dopo averlo cercato per mari e monti, fu costretto a scrivere con un dito per tutta la durata del processo, con scarsi risultati, perché un dito non ha mai lasciato scritto niente su una lavagna. “Araldo, leggi l’accusa!” disse il Re.
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A queste parole il Coniglio Bianco diede tre squilli di tromba, svolse il rotolo di pergamena e lesse quanto segue: “Bolli bollori, Reginadicuori bolle bollette, apprestò le pizzette bolle bollate, in un bel giorno d’estate bolli bollori, ma Fantedicuori bolle bollette, rubò le pizzette bolle bollate, e non le ha più ridate!”
“Dateci dentro con il verdetto,” disse il Re alla giuria. “Non ancora, non ancora!” si affrettò a interromperlo il Coniglio. “C’è un sacco di altra roba che viene prima!” “Chiama il primo testimone,” disse il Re; e il Coniglio Bianco diede tre squilli di tromba e chiamò: “Primo testimone!” Il primo testimone era il Cappellaio. Si fece avanti con una tazza di tè in una mano e una fetta di pane e burro nell’altra. “Perdonate, Vostra Maestà,” cominciò, “se mi presento insieme a costoro, ma non avevo ancora finito il mio tè quando sono stato mandato a chiamare.” “Avresti dovuto finire,” rispose il Re. “Quand’è che hai cominciato?” Intossicazione da mercurio Tra i sintomi c’è anche l’aumento della fame, i soggetti son in un continuo stato di iperattività mangiando a volte la maggior parte del tempo della loro giornata.
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Il Cappellaio guardò la Lepre Marzolina, che l’aveva seguito nell’aula a braccetto col Ghiro. “Il quattordici marzo, mi pare,” disse. “Il quindici,” disse la Lepre Marzolina. “Il sedici,” disse il Ghiro. “A verbale,” disse il Re alla giuria, e la giuria si affrettò a riportare sulle lavagne tutte e tre le date, poi ne fece la somma e calcolò quanto faceva in lire e caramelle. “Togliti il cappello,” disse il Re al Cappellaio. “Non è mio,” disse il Cappellaio. “Rubato!” esclamò il Re rivolgendosi alla giuria, che prese immediatamente nota della cosa. “Li tengo per venderli,” si giustificò il Cappellaio. “Di miei non ne ho. Faccio il cappellaio.” A questo punto la Regina inforcò gli occhiali e si mise a fissare con insistenza il Cappellaio, che sbiancò e cominciò a tremare. “Fa’ la tua deposizione,” disse il Re, “e non essere nervoso o ti faccio giustiziare a tambur battente.” La cosa non sembrò incoraggiare il testimone, che prese a spostare il peso del corpo da un piede all’altro, guardando di sottecchi la Regina e, confuso com’era, staccò con un morso un grosso pezzo di tazza invece che di pane imburrato. Proprio in quest’istante Alice provò una sensazione stranissima di cui per un po’ non riuscì a comprendere la causa: Macrosomatognosia Non si sa la causa
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stava di nuovo mettendo su centimetri; dapprima pensò che era meglio alzarsi e uscire dall’aula, ma poi decise di restare dov’era, almeno finché ci fosse stato spazio a sufficienza. “Ti sarei grato se non mi schiacciassi in questo modo,” disse il Ghiro, che era seduto accanto a lei, “non riesco nemmeno a respirare.” “Non posso farci niente,” disse Alice completamente disarmata, “sto diventando grande.” “Non hai alcun diritto di farlo qui,” disse il Ghiro. “Non dire asinate,” disse Alice in tono più deciso, “anche tu cresci, sai.” “Certo, ma almeno cresco a un ritmo ragionevole, io,” disse il Ghiro, “mica in modo ridicolo come te.” Si alzò indignatissimo e andò a mettersi dalla parte opposta dell’aula. Per tutto questo tempo la Regina non aveva smesso un istante di fissare il Cappellaio e, proprio mentre il Ghiro attraversava l’aula, disse a uno degli uscieri “Portami la lista dei cantanti dell’ultimo superfestival!”, al che l’infelice Cappellaio prese a tremare in modo tale che gli si sfilarono entrambi gli stivali. “Fa’ subito la tua deposizione,” ripeté il Re con voce collerica, “altrimenti te lo curo io il nervosismo!” “Sono un povero cristo, Vostra Maestà,” cominciò il Cappellaio con voce tremula, “... e non avevo nemmeno cominciato a bere Narcolessia I soggetti affetti da questo disturbo spesso son iperattivi circa 20 minuti prima di avere un’altra ricaduta di sonno.
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il tè... non più di una settimana fa... e poi quelle tartine imburrate così fine... Brilla brilla biondo tè... Tutto comincia con un tè...” “Tutto comincia con un ti, vorrai dire!” disse il Re seccatissimo. “Mi prendi per il sedere? Va’ avanti.” “Sono un povero cristo,” continuò il Cappellaio “e da allora quasi tutto cominciò a brillare... ma la Lepre Marzolina ha detto...” “Non è vero!” lo interruppe a precipizio la Lepre Marzolina. “Sì, invece!” disse il Cappellaio. “Obiezione!” disse la Lepre Marzolina. “Accolta!” disse il Re, “non tenete conto di quanto detto dal teste.” “Be’, comunque il Ghiro ha detto...” continuò il Cappellaio, guardandosi attorno per paura di essere smentito anche stavolta: ma il Ghiro non negò un bel niente, poiché era mezzo addormentato. “Dopodiché,” continuò il Cappellaio, “mi preparai delle altre tartine imburrate...” “Ma cos’è che ha detto il Ghiro?” chiese uno della giuria. “Ah, questo non me lo ricordo,” disse il Cappellaio. “Devi ricordartelo,” osservò il Re, “se non vuoi esser fatto a fettine.” L’infelice Cappellaio lasciò cadere tazza e tartina e cadde ginocchioni. “Sono un povero cristo, Maestà,” riprese. “Sei un povero parlatore, su questo non ci piove,” disse il Re. A questo punto una porcellina d’India tentò un applauso che gli uscieri fecero abortire sul nascere. (Poiché “far abortire sul
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nascere” è un’espressione un po’ difficile, vi voglio spiegare in che cosa consiste: gli uscieri hanno in dotazione un grande sacco con lacci all’imboccatura; presero la porcellina, ce la buttarono dentro a testa in giù e poi ci si sedettero sopra.) “Finalmente ho visto come si fa,” pensò Alice. “Ho trovato tante di quelle volte nei giornali che alla fine dei processi ‘c’è stato un tentativo di applauso abortito sul nascere grazie all’intervento della forza pubblica’ e non avevo mai capito che volesse dire.” “Se non hai altro da dire, puoi anche ritirarti,” continuò il Re. “Non posso ritirarmi,” disse il Cappellaio, “non sono mica un cuffiotto infeltrito.” “Allora puoi anche sederti,” rispose il Re. Altro applauso da parte di un porcellino d’India, nuovamente abortito. “Bene, e con questo abbiamo abortito anche l’ultimo porcellino d’India!” pensò Alice. “Adesso sì che possiamo andare avanti.” “Potrei finire il mio tè?” disse il Cappellaio, con uno sguardo colmo d’apprensione all’indirizzo della Regina, che stava scorrendo la lista dei cantanti. “Puoi andare,” disse il Re, e il Cappellaio lasciò il tribunale in tutta fretta, senza neanche rimettersi gli stivali. “... e lasciar giù la testa all’ingresso!” aggiunse la Regina rivolta a uno degli uscieri, ma il Cappellaio era scomparso
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ancor prima che questi potesse raggiungere la porta. “Avanti il secondo testimone!” disse il Re. Il secondo testimone era la cuoca della Duchessa. Si fece avanti con la pepiera in mano, ma Alice aveva già indovinato chi era ancora prima che entrasse in aula, poiché la gente vicina all’entrata aveva cominciato improvvisamente a starnutire. “Fa’ la tua deposizione,” disse il Re. “Manco morta,” disse la cuoca. Il Re lanciò uno sguardo ansioso al Coniglio Bianco, che disse a bassa voce: “È Vostra Maestà che deve interrogare questo testimone”. “E va bene: se devo, devo,” disse il Re, avvilito, e, dopo aver incrociato le braccia e corrugato la fronte fin quasi a far sparire gli occhi, disse con voce impostata “Di che sono fatte le pizzette?” “Pepe, perlopiù,” disse la cuoca. “Melassa,” disse una voce sonnacchiosa alle sue spalle. “Arrestate quel Ghiro!” strillò la Regina. “Decapitate quel Ghiro! Buttatelo fuori dall’aula! Abortitelo! Pizzicatelo! Strappategli i baffi!” Per qualche minuto regnò una gran confusione nell’aula, si dovette buttar fuori il Ghiro e quando tutti si rimisero a sedere la cuoca era scomparsa. “Fa niente!” disse il Re con evidente sollievo. “Avanti il prossimo testimone!” e sottovoce alla Regina “Penso proprio, mia adorata, che dovresti interrogare tu il
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prossimo testimone. Mi è venuta una tale emicrania!” Alice osservava il Coniglio Bianco che scartabellava freneticamente nell’elenco, curiosa di sapere chi sarebbe stato il prossimo teste “... perché, a dire la verità, finora più che teste di cavolo...” disse fra sé e sé. Immaginatevi la sua sorpresa allorché il Coniglio Bianco, con la sua vocina acuta e stridente, lesse: “Alice!”
L’emicrania con aura interessa il 10-15% dei casi. Si preannuncia con sintomi che arrivano da 5 a 20 minuti prima dell’attacco e durano per circa un’ora: annebbiamenti della vista, comparsa di lampi colorati, visione deformata degli oggetti, spesso anche vomito, fotofobia, fonofobia, talvolta formicolii e crampi. Il dolore colpisce di solito una metà del capo. Dai diari di Carroll si è trovato registrato che soffriva probabilmente di questa forma emicranica In un disegno fatto di suo pugno, l’autore illustra l’aura neurologica che precede la sua emicrania nella forma di unun buco nero nel campo visivo.
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XII Alice alla sbarra
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“Presente!” gridò Alice, dimenticandosi nell’emozione del momento che negli ultimi minuti era cresciuta a dismisura, e balzò in piedi con tanta forza che con un lembo della vestina rovesciò il banco dei giurati e li spedì a capofitto fra la folla, dove rimasero incastrati a gambe all’aria, in una buffa baraonda che le fece venire in mente quando una settimana prima aveva rovesciato per sbaglio una vaschetta di pesci rossi. “Oh, mille scuse!” esclamò tutta mortificata, e cominciò a raccattarli in fretta e furia, perché aveva in mente l’episodio dei pesci rossi e temeva che, se non avesse rimesso a posto i giurati al più presto, sarebbero morti asfissiati. “Il processo non può continuare,” proclamò solennemente il Re, “finché tutti i giurati non sono tornati a posto... E dico tutti,” sottolineò, guardando severamente Alice. Alice guardò il banco degli imputati e vide che, nella concitazione del momento, aveva messo il Ramarro a testa in giù, e la povera bestiola muoveva mestamente la coda, dato che non poteva fare altro. Allora Alice lo afferrò e lo raddrizzò; “non che voglia dire molto,” pensò, “credo proprio che in un processo nessuno fa caso se un Ramarro è messo per così o per cosà.” Non appena la giuria si fu ripresa dallo shock da defenestrazione, e gessetti e lavagne furono ritrovati e restituiti, ognuno cominciò molto diligentemente a fare una relazione sul capitombolo, tutti tranne il Ramarro, che sembrava troppo occupato a guardare a bocca aperta il soffitto dell’aula. “Che cosa sai di questa faccenda?” domandò il Re a Alice. “Niente,” disse Alice.
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“Niente niente?” insistette il Re. “Niente niente,” disse Alice. “Ciò è invero rilevante,” disse il Re, rivolgendosi alla giuria. Avevano appena cominciato a trascrivere questa frase sulle lavagne, quando il Coniglio Bianco intervenne: “Irrilevante, vorrà certo dire sua Maestà,” disse ostentando grande rispetto, ma accigliato e facendo le boccacce al Re. “Irrilevante, volevo dire, certo,” disse il Re prontamente, e fra sé e sé continuò a bassa voce: “rilevante... irrilevante... irrilevante... rilevante...” come per provare quale suonava meglio. Qualche giurato scrisse “rilevante” e qualche altro “irrilevante”, constatò Alice, che era abbastanza vicina da poter sbirciare nelle lavagne; “Ma tanto cosa cambia?” pensò. A questo punto il Re, che per un po’ era stato intento a scrivere nel suo taccuino, gridò: “Silenzio!” e leggendo a alta voce sentenziò: “Articolo Quarantadue: Tutte le persone alte più di un chilometro devono abbandonare il tribunale”.
Tutti gli sguardi si appuntarono su Alice. “Non sono mica alta un chilometro, io,” disse Alice. “Invece sì,” disse il Re. “Un paio di chilometri a occhio e croce,” aggiunse la Regina. “Be’, fatti vostri, io da qui non mi muovo,” disse Alice, “e inoltre, quest’articolo non esiste: te lo sei inventato lì per lì.” “Ma se è il più antico di tutto il codice,” disse il Re. “E allora dovrebbe essere il numero Uno,” disse Alice. Il Re impallidì e chiuse di scatto il taccuino. “La giuria si ritiri per discutere il verdetto,” disse con voce fioca e tremante.
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“Prego, Maestà, ci sono altre prove da esaminare,” disse il Coniglio Bianco, balzando immediatamente in piedi. “Questo foglio, che è appena stato trovato...” “Che c’è scritto?” disse la Regina. “Non l’ho ancora aperto,” disse il Coniglio Bianco, “ma si direbbe una lettera, scritta dal prigioniero a... a qualcuno...” “Deve proprio essere così,” disse il Re, “a meno che non sia stata scritta a nessuno, il che è raro, non ti pare?” “A chi è indirizzata?” disse uno dei giurati. “Non c’è indirizzo,” disse il Coniglio Bianco, “sulla busta non c’è scritto niente.” E, spiegato il foglio mentre parlava, aggiunse: “No, non è una lettera: è una poesia”. “È di pugno del prigioniero?” chiese un altro giurato. “No, appunto,” disse il Coniglio Bianco, “è questa la cosa più strana.” (La giuria apparve perplessa). “Avrà imitato la calligrafia di qualcun altro,” disse il Re. (La giuria si rasserenò). “A Vostra Maestà piacendo,” disse il Fante, “non l’ho scritto io e nessuno può provare il contrario: non c’è nessuna firma.” “Se non l’hai firmato,” disse il Re, “ciò non fa che peggiorare la situazione. Dovevi avere in testa qualche malefatta, altrimenti avresti apposto la tua firma come ogni uomo dabbene.” Al che scrosciò un gran battimani: era la prima cosa realmente sensata che il Re avesse detto in tutto il giorno. “Ciò prova la sua colpevolezza, naturalmente,” disse la Regina, “e allora, boia dacci...” “Non prova proprio un bel niente!” disse Alice. “Ma se non sap-
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piamo neanche di che cosa parla!” “Leggila,” disse il Re. Il Coniglio Bianco inforcò gli occhiali: “Da dove devo iniziare, Maestà?” chiese. “Inizia dall’inizio,” disse il Re con solennità, “e va’ avanti finché non arrivi alla fine: poi, fermati.” Sul tribunale calò un silenzio di tomba mentre il Coniglio Bianco leggeva quanto segue: “Io ho saputo da voscienza che tu sei stato da lei e hai tenuto conferenza con lui sui difetti miei: quella ha detto – bontà vostra – che son meglio di [mia nuora, e per far girar la giostra mi travesto anche da suora. Lui ha scritto, sciagurato, a loro che non son partito e che ciò sia oro colato lo sappiamo a menadito: ma se lei gioca pesante, e tien duro fino in fondo sebben lui non valga niente, che sarà di te al mondo? Io ne ho date un paio a lei, lei ne ha date quattro a voi tu, carino come sei, sei e più ne hai rese a noi, élleno son ritornate poi da quello lì a te stesso e ciò benché siano state prima tutte in mio possesso. Se a noialtri o a lorsignori vi dovesse capitare di finire, dentro o fuori, invischiati in quest’affare
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ei confida se colui che darai tu aiuto agli uni e che grazie a te il de cuius non cadrà come taluni. Stando a quanto gli risulta (prima ch’ella avesse [accessi della bile più inconsulta) tu sei stata, insieme a essi, un ostacolo, qualcosa che si è messo sul tragitto fra quei tizi, questa cosa, lui, voialtri e il sottoscritto. Perciò non dire a chi sai che lei preferiva gli altri, no, codesto tu giammai devi farlo, siamo scaltri, è un segreto e tale resti, a prescindere dal resto, fra te, che attenzion mi presti, e chi scrive questo [testo. ”
“Questa è certamente la testimonianza più rilevante esibita finora,” disse il Re fregandosi le mani. “E adesso lasciamo che i giurati...” “Se per caso uno di loro può spiegarmela,” disse Alice (era talmente cresciuta negli ultimi minuti che non aveva affatto paura a interromperlo), “gli dò una bambolina. Io non credo che ci sia un atomo di senso in questi versi.” I giurati riportarono tutti sulle loro lavagne “Ella non crede che ci sia un atomo di senso in questi versi”, ma nessuno cercò di spiegare in qualche modo la poesia. “Se non c’è nessun senso,” disse il Re, “tanto meglio, ci risparmiamo un mare di fatica, dato che possiamo fare a meno di
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cercarne uno,” continuò scorrendo di nuovo il foglio aperto sulle ginocchia. “Però, secondo me, a ben guardare, un qualche senso c’è... ‘mi travesto anche da suora’... porti un cilicio sotto la corazza, confessa!” intimò, rivolto al Fante. Il Fante scosse tristemente la testa. “Ho la faccia di uno che fa ‘ste cose?” disse – e c’era da credergli, dato che era fatto tutto di cartone a uno strato. “Va be’, passiamo avanti,” disse il Re, e continuò a borbottare fra sé e sé: “E che ciò sia oro colato, lo sappiamo a menadito’... è il verdetto della giuria, ovviamente... ‘ma se lei gioca pesante, e tien duro fino in fondo’... deve trattarsi della Regina... ‘Che sarà di te al mondo?’... Lo so io cosa!... ‘Io ne ho date un paio a lei, lei ne ha date quattro a voi’... ecco cosa ne ha fatto delle pizzette!...” “Ma dice anche ‘élleno son ritornate poi da quello lì a te stesso’,” disse Alice. “Eccole lì!” disse il Re in tono trionfante, puntando l’indice sulle pizzette sulla tavola. “È una prova schiacciante. E ancora... ‘prima ch’ella avesse accessi della bile più inconsulta’... ma tu non hai mai avuto accessi di bile, mia diletta, nevvero?” disse alla Regina. “Mai!” disse la Regina più furiosa che mai, tirando dietro un calamaio al Ramarro e centrandolo in pieno. (Il povero Billyetto aveva smesso di scrivere con un dito, scoprendo che sulla lavagna non restava traccia alcuna, ma ecco che ora riprendeva in tutta fretta usando l’inchiostro che gli stava colando giù dalla faccia, finché ce ne fu.) “Questa cosa non ti è accessi-bile,” disse il Re, guardandosi
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attorno con un sorrisetto sulle labbra. Ci fu un ulteriore silenzio di tomba. “È un gioco di parole!” esclamò il Re in tono risentito, e tutti scoppiarono a ridere. “Che la giuria emetta il suo verdetto,” disse il Re, per la ventesima volta o giù di lì. “No, no!” disse la Regina. “Prima l’esecuzione, poi il verdetto.” “Che asinate!” disse Alice a alta voce. “Questa poi, giustiziare prima del verdetto!” “Chiudi il becco!” disse la Regina, facendosi scarlatta. “Chiudilo tu!” disse Alice. “Boia, un bel zac a quella lì!” strillò la Regina con quanto fiato aveva in corpo. Nessuno si mosse. “Ma a chi credete di far paura voi?” disse Alice (cresciuta nel frattempo fino alla sua statura di sempre). “Non siete altro che un mazzo di carte!” A questo punto tutto il mazzo di carte si sollevò in aria e le sciamò addosso in picchiata: Alice levò un grido-lino, un po’ per la paura un po’ per la collera, e cercò di scacciarle agitando le braccia, quand’ecco si ritrovò sdraiata sulla riva del fiume, con la testa sul grembo di sua sorella, che con delicatezza le stava togliendo dal viso le foglie morte cadute dagli alberi. “Svegliati, Alice, tesoro!” disse la sorella. “Perdinci, questo sì che si chiama dormire!” “Oh, che sogno strano ho fatto!” disse Alice, e cominciò a Macrosomatognosia (cresciuta nel frattempo fino alla sua statura di sempre)
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raccontarle tutto quanto riusciva a ricordare delle meravigliose avventure che voi avete appena finito di leggere e, non appena ebbe finito, la sorella le diede un bacino e disse: “Strano davvero, cara, questo sogno, ma adesso corri a casa a bere il tè: si sta facendo tardi”. Alice si alzò e corse via, rincorsa dal suo sogno meraviglioso. Ma sua sorella restò seduta, con la testa appoggiata alla mano, a guardare il sole al tramonto e a pensare alla piccola Alice e alle sue meravigliose Avventure, finché anche lei non cominciò a sognare... Dapprima sognò Alice che di nuovo le cingeva le ginocchia e sollevando il volto la guardava negli occhi con gli occhi accesi di curiosità – udì distintamente le cadenze della sua voce e vide quel buffo scarto della testolina ricacciare indietro la ciocca ribelle che le cascava eternamente sugli occhi – e mentre ascoltava, o sembrava ascoltare, intorno a lei il luogo si animò delle strane creature sognate dalla sorellina. L’erba alta frusciò ai suoi piedi al rapido passaggio del Coniglio Bianco... il Topo sguazzava nel lago accanto a lei, schizzando dappertutto... udì il tintinnìo delle tazze da tè mentre la Lepre Marzolina e i suoi amici erano alle prese con la loro merenda senza fine, e anche la voce isterica della Regina che ordinava l’ennesimo bel zac fra capo e collo dei suoi infelici ospiti... e di nuovo l’infante porcellino starnutì sulle ginocchia della Duchessa, mentre piatti e piattini si schiantavano in mille pezzi tutt’intorno... ancora una volta il grido del Grifone, lo scricchiolìo del gessetto del Ramarro e gli applausi
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dei porcellini d’India, subito abortiti, riempirono l’aria, confondendosi con i singhiozzi lontani della disgraziata Tartaruga d’Egitto. E se ne stava immobile a occhi chiusi, cercando di convincersi che anche lei era nel Paese delle Meraviglie, sebbene sapesse che bastava riaprirli e tutto sarebbe ripiombato nella grigia realtà – l’erba avrebbe frusciato per il vento e il lago si sarebbe increspato allo stormire delle canne... il tintinnìo delle tazze si sarebbe trasformato nei campanelli delle pecore e le grida concitate della Regina in quelle del pastorello... e gli starnuti dell’infante, il grido del Grifone e tutti gli altri strani rumori si sarebbero fusi (lo sapeva bene) nell’indistinto gridìo della fattoria in piena attività, mentre il muggito lontano delle mandrie avrebbe sostituito i singhiozzi disperati della Tartaruga d’Egitto. Infine si immaginò di avere davanti la sua stessa sorellina già diventata donna: aveva conservato, negli anni più maturi, il cuore semplice e amoroso dell’infanzia. La vide chiamare attorno a sé altri bambini e i loro occhi accendersi di curiosità per tanti racconti straordinari, forse per lo stesso sogno del Paese delle Meraviglie di tanto tempo fa, e ancora suoi sarebbero stati i loro piccoli dispiaceri e suo il piacere delle loro piccole gioie: Alice si sarebbe ricordata di Alice bambina e dei bei giorni d’estate.
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“Inizia dall’Inizio e vai Avanti finchè non arrivi alla Fine: poi, Fermati”
Il labirinto mentale di Lewis
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indice
3 4
prefazione legenda
7
Alice nel Paese delle Meraviglie
9
“E scivola nel pomeriggio d’oro”
11 21 31 39 51 63 75 87 99 111 123 133
i. ii. iii. iv. v. vi. vii. viii. ix. x. xi. xii.
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Il labirinto mentale di Lewis
“Nel Labirinto della Mente” di Stefania Larzeni
Nella tana del Coniglio In un lago di lacrime Carosello elettorale e codazzo di miserie Senza Billyetto non si può entrare Larvato consiglio di Bruco Porco d’un pepe Un tè fuori di sé Il croquet della Regina La storia della Tartaruga d’Egitto Le aragoste fan quadriglia Chi ha sgraffignato le pizzette? Alice alla sbarra