Deliri Giovanili Racconti scritti nel tempo che fu.
Stefano Maria Palombi Edition 01/2019
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Deliri Giovanili Racconti scritti nel tempo che fu.
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Ero giovane. E non sapevo che farmene. Ogni tanto scrivevo un racconto o qualche delirante monologo. E ogni tanto dipingevo pesci e facce e angeli. Avevo messo in cornice una pagina di On the road che terminava cosĂŹ: “Non avevo niente da offrire a nessuno, eccetto la mia confusione.â€?
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In Memoria di.
Usava quella cazzo di video8 per fare qualsiasi cosa. Tony Formichello. Tanto le cassette le rubava. E con questa scusa pisella si rubava anche la fottuta vita degli altri. Tony Formichello, che nome di merda. A quel tempo eravamo noi. Io, lui e quella smandrappata della sua telecamera. A volte, quando tornavamo a casa dopo aver finito il turno di notte, i Fegati Spappolati del Tufello ci davano dei pigliainculo. Io m’incazzavo a morte mentre lui sculettava entusiasta riprendendo la scena. Tony Formichello, quello che non dormiva senza essersi ripassato prima la giornata. Senza essersi ringoiato la merda vomitata in ventiquattro ore. Io aprivo gli occhi e la prima cosa che vedevo era un punto rosso luminoso. Non era il sole all’alba, né una cappella di pisello, era la spia della sua maledetta in azione. Mercoledìventinovegiugnooreottoetrentaquattro: gliel’ho date di brutto. Poi, mi è toccato rivedere tutto al rallenty. Tony Formichello e chi cazzo se lo dimentica più? Con quei pantaloni a zampa di elefante tantoprimaopoitornanodimoda.
Adesso vogliono sapere se era bello. Difficile a dirsi. Con quella faccia da stronzo nascosta dietro a quella stronza telecamera. Probabilmente sì. Visto che non c’era una mia ragazza che non finisse a fare le capriole con lui. Il tutto con prove filmate, naturalmente. Adesso vengono da me e vogliono sapere dei suoi duri inizi. Di quando per una Simmenthal ci riempivamo di morsi e per un piatto di puntarelle ci strappavamo i capelli. Vogliono sapere tutto. Fino a che età ha portato i pantaloni corti, quanto era lungo il suo affare o profondo il suo back non so che. C’è perfino chi ha la faccia di bronzo di offrirmi della grana per qualche metro di materiale inedito. Come se quelle migliaia di chilometri di riprese non fossero sufficienti. Come se non ne avessi abbastanza di accendere la tivvù e vedermi girare in mutande e canotta o mentre mi faccio il bidé. Con tanto di commento critico e dibattito. Ma porca di quella porca zozza, è possibile che nemmeno la notte di capo d’anno? Che neanche la domenica delle palme? Tony Formichello, e giù domande, domande, domande. E pensare che prima, l’unica cosa che gli chiedevano tutti era se per caso non poteva andarsene una volta per tutte a fare in culo.
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La forza del pensiero
Sfasciare tutto. Ecco cosa volevamo. Armadi, automobili, appartamenti, facce. Ci volevamo bene e il nostro pezzo preferito era Destination anywhere. Nel gruppo c’era solo una donna. Me la baciavo io. Se la baciavano tutti. Quando correvamo lungo i vagoni della metro gridando «Guai, guai a chi ci tocca», io mi sentivo come non mi sono mai più sentito. Comunque sia, nel giro di sette mesi finimmo tutti in vacanza a Regina Coeli. All’inizio, le cose andarono bene anche lì. Mettemmo a soqquadro la sala mensa e facemmo esplodere l’orgoglio del direttore, un 28 pollici nuovo di zecca. Ci separarono. Una volta fuori, decisi di mettermi in proprio. Dapprima, piccole cose: telefoni pubblici, qualche deflettore di BMW, un paio di vetrine. Poi, anche qualcosa di più ambizioso, di cui però ora preferisco non parlare. La notte non riuscivo a dormire, così capitava che salissi in sella al mio Motobecane per attraversare il buio in cerca di qualche bel muro su cui scrivere o di qualche vetrina da rompere.
Faceva freddo e senza parabrezza il vento mi bruciava la faccia. Ma a me stava bene così. Entrai in una band che, manco a farlo apposta, si chiamava Black & Dekers. Suonavamo malissimo, ma i testi erano una bomba. L’autore si svegliò una mattina con un mandato di cattura per colazione. Dalla latitanza ci spedì un paio di pezzi niente male, poi più nulla. Così andò tutto a puttane. A proposito, in quei giorni stavo con una con cui mi piaceva stare. Ma non durò molto. Gettai dalla finestra della casa di sua madre una poltroncina in stile, e così finì per darsi alla latitanza anche lei. A forza di andare a zonzo con la mia belva, mi buscai una polmonite bilaterale. Restai immobilizzato a letto per tre mesi, a pensare sempre alla stessa cosa: come far cadere il lampadario con la sola forza del pensiero. Ora sono un dirigente di una grande multinazionale. Vivo con un criceto e sei piante grasse. La notte resto spesso in ufficio e metto a tutto volume The best of Lucio Battisti. La mia storia finisce così, senza un finale. In effetti, qualche altra cosa avrei potuto raccontarvela. Ma la voglia di alzarmi e sbattere al muro la macchina da scrivere è troppo forte.
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Era lì
Tu eri calma. Gli hai detto: «Ti sei dimenticato lo spazzolino». E la curva dei tuoi tifosi è esplosa in un boato. La sua valigia sempre più pesante, e tu sempre più leggera. Un gioco di prestigio. Glielo avevi detto la sera prima, mentre tornavate in macchina dal lavoro. C’era il solito corteo funebre di facce stanche, gli U2 urlavano e tu parlavi piano. Lui ha abbassato il volume. Non aveva capito bene, o lo sperava. Tu hai ripetuto tutto di nuovo. Lui è stato zitto. Poi è stato dolce. Poi si è incazzato, poi dolce di nuovo. Ma se lui era il Belgio, tu ormai eri la Nuova Zelanda. Migliaia di chilometri tra di voi. Adesso ti sentivi come in un film, ti sentivi una stronza, ti sentivi bene. Tornare a casa e sbracarsi sul letto, uscire alle tre di notte, mangiare con le mani, andare al cesso con la porta aperta, sentire dodici volte di seguito lo stesso pezzo dello stesso disco. La vita era lì. Tu dove eri stata finora?
Lo sentivi muoversi in camera, a scatti. Mentre te ne stavi sdraiata a pancia sotto sul divano, con quel tuo culo simpatico rivolto verso il cielo. Improvvisamente la porta di casa si è chiusa. Allora ti sei alzata. Hai fatto due passi, e hai pensato ad un milione di cose nello stesso momento. Ma non a me.
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Il valzer del moscerino
A volte mi chiedo come sia stato possibile. Se sia successo davvero. Poi mi guardo le mani ustionate e i dubbi vanno a farsi fottere. Si, d’accordo, non ero proprio un angioletto. Però, già, però l’avevo fatto. D’interrogatori ne avevo subiti tanti nei giorni che seguirono il fatto. Ma di uno mi ricordo bene. Lo spicchio della mia luna inondava, con la sua lampadina, la stanza di una luce timida. Mentre fuori la luna di tutti, grassa e sfacciata, colorava la notte di grigio. Io me ne stavo sdraiato nel mio letto, con gli occhi aperti e le mani chiuse in due fasciature bianche.
Loro parlavano tra loro, come se fossi morto. Poi, ogni tanto, come rivolti al mio spirito, facevano qualche domanda. Ma gli spiriti, si sa, sono capricciosi, così io non rispondevo. Avevo ben altro da fare. Cantare, ad esempio, tra me e me il Valzer del moscerino. L’inizio era fantastico: «Peppone russava in un grande giardino e sul suo nasone volò un moscerino». Bello. Quasi meglio che correre nudo per il corridoio. Io lo sapevo bene perchè l’avevo fatto, e forse quella sera glielo avrei anche detto, se solo me lo avessero domandato. Ma loro no. Continuavano a chiedermi cose strane, cose a cui non saprei rispondere neanche ora. Comunque non credo che mi avrebbero capito. La vita ti allena tutti i giorni a prenderlo nel culo. E il fatto che io avessi dato fuoco all’asilo dopo che una maestra quattr’occhi mi aveva messo in castigo perché avevo scritto su un muro «Lazio merda», gli sarebbe forse sembrato eccessivo.
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Forse avrai pianto
Ti avevano lasciato solo finalmente, sembrava stessi meglio, erano passati due giorni da quando avevi smesso di gridare assurdità. Tuo figlio era triste e imbarazzato, non ti riconosceva più. Perdio, a ottantatré anni, tutto il giorno in piedi sul letto ad agitarsi e a prendere per il culo il mondo! Tua nuora era allibita. Non parlava, occupata probabilmente a valutare la possibilità e i rischi che il tuo male fosse ereditario. Gli unici a divertirsi, oltre a te naturalmente, erano i due gemelli che, approfittando della confusione, perseguivano indisturbati le loro azioni di terrorismo domestico. Parlavi bene, soprattutto al mattino, poi, ad essere sinceri verso sera che diavolo stessi dicendo proprio non si capiva. Se eri felice in quei momenti, io non lo so, certo è che eri vivo, maledettamente vivo. Avevi i giorni contati, dicevano.
Poi, improvvisamente, sei rimasto muto per quaranta ore e più, con gli occhi tristi guardavi la radio cantare. Il peggio, pensarono, era passato. Mi sembra di vederti mentre scendi dal letto col tuo pigiama preferito e ti aggiri furtivo nella casa deserta, col cuore traballante e i piedi nudi. Una frase ritornava puntuale nei tuoi monologhi. Aveva a che fare con un abete. Sfidavi le ingiustizie e difendevi un albero. Nessuno capiva. Al sedicesimo cassetto aperto, ecco le chiavi, tra i reggiseno e le mutande. Sul terrazzo, in un angolo, triste e malandato, un abete annoiato nel suo vaso. Di non aver capito un tubo, tuo figlio non se lo sarebbe perdonato mai. Non erano passati sei minuti ed eri già in viaggio. Era bello guidare dopo tanto tempo, con al fianco il tuo migliore amico e nelle orecchie una canzone del Boss. Andavi piano, non per prudenza ma per curiosità. Ti sentivi bene e la strada era piena di cose da osservare. Ti hanno visto gridare sorridendo dal finestrino aperto, parole coperte dalla musica e dai rumori. Le ultime case, le curve e i rettilinei. La pianura, le colline e i primi alberi. Ora andavi più forte. L’aria era tiepida e malinconica, l’inverno era in arrivo sul binario tre.
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La casa col fienile rosa c’era ancora, meno male avrai pensato, due bambine e un gatto: sei occhi grigi su di te. Le sfumature di verde, di rosso, di azzurro. Nei campi, tra gli alberi, in cielo. Che starnuto! Salute vecchio mio. «Ancora pochi chilometri e ce l’abbiamo fatta», avrai sussurrato al tuo silenzioso compagno di viaggio. Il bosco era lì paziente ad attenderti, il vento profumava di erba bagnata e foglie asciutte. Trovare il posto adatto e scavare la buca fu un gioco da ragazzi, anche se in molti si chiesero come eri riuscito a farcela in quelle condizioni. Conoscendoti, so che ti sarai emozionato nel vedere il tuo amico, finalmente libero dal vaso e con le radici affondate nella terra umida, piegarsi con i suoi fratelli alle carezze di un maestrale antico. Forse avrai pianto, per i tuoi e i nostri giorni gettati via, prigionieri di un vaso di coccio. Forse avrai pianto, ma quando ti ho trovato, sorridevi. Sorridevi e non respiravi più.
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L’arancione del cielo
Scendevamo lungo una strada bianca. Scossi, silenziosi. Seduti sul cassone del truck di famiglia. Io pensavo ai cazzi miei, anzi alle sue cosce. Il piccolo fumava un rametto di olmo. Aspirava tutto serio e poi apriva la bocca. Una nuvoletta di vapore usciva diligente. Faceva freddo anche quella mattina. Ma i giorni precedenti erano stati anche peggio. Mio padre non aveva chiuso occhio. Lui capiva tutto con un po’ di anticipo. Ci ho pensato poi, tante volte. Doveva essere dura per lui. Sentire quelle cose, avere in testa quelle immagini. Certo, tante rotture in meno, ma anche quante sorprese perse. E ora che è passato il tempo e gli anni cominciano a prendermi per il culo, io mi scopro simile a lui. E da questo strano movimento interiore sono spaventato. Allora penso a quando eravamo diversi. Allora penso a noi, in quella mattina spazzata dalla tramontana mentre scendevamo verso la valle degli ulivi. Dei nostri ulivi.
Sono sicuro di ricordarmi che il camion si fermò picchiando su qualcosa, forse un masso. Sberla in arrivo, pensai. Invece mia sorella grande non rimediò niente. Neanche uno sguardo. Ci guardammo tra noi e respirammo forte la paura. Ci avvicinavamo a passi lenti e pesanti verso i grandi vecchi. Alberi che il nonno di mio nonno aveva piantato uno ad uno. Una buca di trenta centimetri, mai la terra sopra il nodello, l’invaso e poi il letame. Maturo, mi raccomando, il letame. Il piccolo scese e noi, vigliacchi, dietro. Pochi passi e ci fermammo di nuovo. Lui camminava. Vedevo le sue spalle, le braccia lungo il corpo, le mani che si aprivano e chiudevano come lucciole. Arrivò di fronte al primo. Gli girò intorno, lo toccò delicatamente con le mani, ci appoggiò su la testa. Una volta, quando ero caduto dal tetto della stalla, lo aveva fatto anche con me. Poi, un urlo. Il ghiaccio si era preso tutto. Non so più cosa successe subito dopo. Mi ricordo solo il rumore bastardo delle motoseghe. Mio padre stava lì, mia madre qualche passo indietro, ad assistere all’esecuzione. Accovacciato, mentre loro cadevano giù. Io non so che cosa provavo in quei momenti. Le vibrazioni della motosega, che riuscivo a tenere a stento, mi agitavano fuori e mi calmavano dentro. Faceva freddo, quello me lo ricordo bene. Ma restammo lì tutto il giorno. Fino a che l’arancione del cielo non divenne viola e poi nero. Gli ho voluto bene a mio padre. Sì che gliene ho voluto. Eppure ogni volta che vedo un ulivo, il mio primo pensiero non vola mai a lui, ma alle cosce di quella lei.
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Le mani addosso
Era un piano perfetto. Noi eravamo forti, e lui un infame. Dubbi zero. Unanimità nella condanna. La riunione finì in fretta, c’erano le partite di coppa in tv. Tornai a casa con il cuore gonfio. La notte prima non è mai tanto facile. Ti alzi continuamente, controlli che gli arnesi siano okey, dai un’occhiata alla sveglia e poi ti ributti giù. Non vedi l’ora che sia domani, anche se sai che potrebbero non essercene altri, di domani. In genere finisco per non chiudere occhio, ma la mattina dopo sono pronto all’uso. Io ero solo, gli altri divisi in due gruppi di due. Eravamo ai nostri posti. Non ci fu molto da attendere. Usciva tranquillo e beato, il bastardo. Le vite che aveva rubato non sembravano pesargli neanche un po’. «Meglio così», pensai mentre prendevo la mira. «Sarà tutto più facile». Sparammo in tre, quasi contemporaneamente, da tre posizioni diverse.
Rimase in piedi reggendosi lo stomaco e con gli occhi spalancati in un volto sbalordito. Voleva farci credere che non se l’aspettava, il maledetto. «Bugiardo e infame fino alla fine», gli gridai. Quando sentii il corpo cadere a terra ero già in sella alla mia moto. Nessuno alle mie spalle, eccetto il suo cadavere e la mia coscienza. Abbandonai la moto e proseguii a piedi. Era appena iniziata l’ora legale e le sere erano lunghe e dolci, come i baci quando non si fa l’amore. E io mi sentivo bene nelle pagine di quel libro di storia che cresceva ad ogni nostra azione. A casa avrei voluto raccontarle tutto, ma non potevo. Quindi decisi di fare l’amore, ma non poteva lei. Mi misi a letto, pensai che eravamo stati perfetti. Nessuna perdita, nemico annientato. Un’operazione da manuale. Mi addormentai subito. La luce del mattino mi svegliò, mentre filavo palla al piede verso la porta avversaria. Meccanicamente mi girai a destra. C’era, come al solito, un pensiero d’amore del mio amore: il vassoio con il tè e i giornali. Non ci fu neanche bisogno di cercare, perché lo trovai lì, in prima pagina. Quello che avevamo fatto fuori il giorno prima, non era l’infame, il trafficante, l’assassino, ma un fottuto insegnante di pianoforte, sposato, con due figli piccoli e un terzo in arrivo. Aveva ragione di essere sbalordito, pensai. Poi mi alzai, lei era in cucina. La raggiunsi e la pregai in ginocchio di farsi mettere le mani addosso.
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Odio
Ho iniziato a scrivere perché odio quei pezzi di merda figli di psicologi, che scrivono storie cattive, storie piene di merda. Loro, gli stronzi, che la merda non sanno nemmeno come è fatta, la merda. Loro, che sono giovani, che fanno i duri e fanno a gara su chi la spara più grossa. Loro, che raccontano di morti ammazzati senza aver mai visto gli occhi di un morto ammazzato a colpi di pistola vicino a una pompa di benzina, vicino al millenovecentosettantasette. Loro, che raccontano di stupri e sesso estremo nelle loro storie ma che, se una donna gli prende il cazzo in bocca, pensano:«Oddio, ma questo non è un rapporto protetto!». Loro, che odiano i genitori, che li hanno messi al mondo, a questo porco mondo e, per di più, con un rapporto, evidentemente, non protetto. Odio dunque per voi genitori che chiedete a un amico importante, e al di sopra di ogni sospetto, di far ben recensire questo odio. Andate a fare in culo, falsari. Voi e i vostri computer e le vostre camerette, da dove sfornate copie di copie di copie. State in campana, perché l’odio che raccontate è finto, mentre il mio è odio vero.
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Una ragnatela al giorno
Speravo che lei continuasse a tacere. Dovevo pensare solo a me. Non ero disperato, ma stanco. E il motivo di una canzone continuava a fare le prove dentro alle mie orecchie. Pochi accordi e poi di nuovo da capo. Mi ero quasi dimenticato dell’appuntamento con il medico, forse stavo meglio. Sentivo la nostalgia della cedrina, ecco cosa sentivo, mentre aprivo le finestre che danno sul terrazzo. In bagno, davanti allo specchio, mi osservai, ero così diverso da come mi pensavo. Accusai lo specchio e sorrisi compiaciuto alla mia fantasia. Leggevo una pagina al giorno, i pensieri si nascondevano tra le parole e, beffardi, mi conducevano altrove. Si era sparsa la voce o forse era solo la mia paranoia: il telefono comunque taceva.
Gridare tutto a tutti? Non lo feci. Che desideravo? Sedermi ai piedi della mia montagna ed ascoltarla sussurrare. Scendevo le scale. Perdio ancora bollette! Che cosa le avevo detto per allontanarla da me? Non ricordavo bene. Quella scena l’avevo provata troppe volte e ora facevo confusione. Speravo che continuasse a tacere. Bugiardo. Si era spaventata ma era pronta a combattere, forse. Era difficile guardarsi intorno senza sanguinare, lei era in ogni cosa. Dovevo pensare solo a me. Come il piccolo ragno che abita nel vaso delle piante grasse, ogni giorno costretto ad inventarsi una nuova ragnatela, perché qualche stronzo più grande di lui va lì e gliela distrugge. Lo stronzo ero io. Quel ragnetto testardo, infatti, continuava a fissare i fili della sua maison alla mia sedia preferita. Quando la mia vita divenne improvvisamente simile alla sua, con una ragnatela da inventare ogni giorno, e uno stronzo più grande di te pronto a distruggerla, io decisi di regalargli la mia sedia e cambiai abitudini. Due combattenti per la vita in un terrazzo di nove metri quadri sarebbero stati troppi. Facevo fatica a camminare, mi appoggiavo al muro, tra foglie di glicine e manifesti punk, a guardare le donne e i bambini. Avrei voluto una foto, possibile che non ci fosse uno straccio di fotografo pronto a immortalarmi! Immortalarmi? Cazzo. Ancora musica dentro di me, avevo tante cose da dire. Mi intervistavo, ma le domande erano sempre scontate e banali, come quelle che fanno ai calciatori. O forse mi parevano tali perché in realtà la cosa che volevo dire veramente non riuscivo a dirla mai. Io mi volevo bene perché non avevo mai tradito nessuno. Le prime luci, timide come lucciole, vecchi e ragazzini che ballavano rincorrendo un pallone incantatore. Ero con loro. Ed anche altrove, lungo la cresta di una montagna rossa, tra le onde e le risate di una traversata, nel silenzio dell’amore con la mia donna. No, comunque sarebbe andata, non sarei morto. Era cambiata la luce, mi guardai le mani e risi.
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Stefano come me
Lo studio è al terzo piano. Sulla porta c’è la targa, leggermente storta. Gli altri non ci fanno caso, ma io sì. Tutte le mattine penso che dovrei farla mettere a posto. Tutte le mattine me la ritrovo lì. Sopra c’è scritto «Studio legale» e il mio cognome. Non ho molti clienti. C’è Walter, accusato di banda armata. Il suo caso mi ha tenuto spesso sveglio. Poi ho scoperto che pensavo a lui soprattutto per pensare alla sua donna. Si chiama Mara, viene a trovarmi ogni settimana. Parliamo di Walter. Di come sta, di che cosa può aver bisogno. A volte ho una lettera da consegnarle. Spesso viene con un bambino. È il loro figlio e si chiama Stefano. Come me.
Io faccio con lui le stesse cose che mi faceva fare mio nonno quando lo venivo a trovare qui, allo studio. Prima un giretto per salutare la segretaria e qualche contrabbandiere in sala d’aspetto, poi a saccheggiare l’armadietto della cancelleria, così pieno di blocchi, matite blu e rosse, penne, gomme da cancellare. Mi piace ripetere quel rito. Mi piace vedere come Mara mi guarda quando tengo suo figlio in braccio. Mara ha occhi belli. E io penso spesso a quegli occhi. Ma subito dopo penso a Walter. Solo una piccola deviazione di percorso ha fatto sì che il mio destino sia stato diverso dal suo. Il giovedì lo vado a trovare. Parliamo di Mara e di Stefano. Di come stanno, di che cosa possono aver bisogno. A volte, ho una lettera o qualche fotografia da consegnargli. E poi faccio con lui le stesse cose che mio nonno faceva con i suoi clienti. Parliamo di calcio, di libri, di compagni di cella. Niente domande sul perché e sul per come. Così tra una battuta sulla Lazio in serie B e un commento su Queneau, la verità viene fuori. E io so come difenderli. Mara viene a trovarmi sempre più spesso. E sempre più spesso i suoi occhi trovano i miei. Forse ho individuato un punto debole nella tesi accusatoria. Mentre dormivo la strada da seguire nella difesa mi è sembrata chiara. Nello stesso istante mi è sembrato chiaro anche il fatto che mi sto innamorando di lei, di Mara. Ho parlato ieri con un teste, le sue parole possono essere determinanti. Ho chiesto a Mara che cosa ne pensasse. Lei mi ha risposto che mi vuole bene. Qualche sera fa, mentre mi aggiravo per lo studio in cerca di un posto dove posare un regalo di un vecchio cliente di mio nonno ha suonato il campanello della porta. Era lei. Mi ha visto con il pollo in mano, il regalo era lui, ed è scoppiata a ridere come una matta.
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Non l’avevo mai vista ridere. Mi ero perso lo spettacolo dell’anno. Sto dedicando quasi tutto il mio tempo a Walter. Sarà decisiva la grinta con cui affronterò la difesa. Lo sento, dipende solo da me. Mentre salivamo in ascensore, noi due soli, ci siamo trovati vicinissimi. Le brillavano gli occhi. Io vado avanti senza farmi domande. Di fronte allo specchio, faccio le prove dell’arringa. E a letto, provo a pensare come sarebbe con lei. Il giorno del processo si avvicina, e Mara si avvicina sempre di più a me. La dolcezza sta cedendo il passo alla rabbia. L’idea di questo amore con una scadenza scritta sopra, come il latte o una mozzarella, mi fa incazzare. I giorni se ne sono andati via veloci. Domani c’è il processo. Mara mi ha invitato a dormire da lei. Le ho detto di sì, ma non ci sono andato. Ho passato la notte a urlare in silenzio e a piangere senza lacrime. Poi, armato di cacciavite, ho salito di corsa le scale che portano al mio studio. Ho allentato le viti e raddrizzatola targa. Respirando a fatica, mi sono allontanato. Domani Walter sarebbe stato libero.
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“Hey!” (Roma Romania)
Più che metterle le mani addosso avrei voluto che mi traducesse le parole di quella canzone. E poi, sì, metterle le mani addosso. Avevo scritto una poesia per lei, per me, per il Tevere. Lei diceva che era triste, la poesia. Al fiume, invece, era piaciuta. I giorni erano neri o bianchi, come i quaderni su cui scrivevo, come i suoi capelli e la sua pelle. Non sapeva nuotare nel loro mare, dicevo io, ma nel mio sì. Avevo scritto parole per lei. E a lei piacevano quelle parole, ne aveva bisogno e le portava con sé in guerra e in pace. E lei, che sola non stava mai, a volte restava sola con quelle parole. Forse amava loro, forse amava me. Parlavamo una nostra lingua, fatta di cielo, armature, miracolo, incredibile, oltre.
Nessuno poteva capire, a volte non capivamo nemmeno noi. Succedevano strane cose. Io pensavo a noi due in volo sopra la città e Chagall e la sua Bella arrivavano a Roma. Davanti a quel quadro io ero lui, lei era Bella, triste per il cielo. Quando parlavamo, parlavamo di noi, il mondo attorno scompariva, il tavolino si sollevava da terra con teiera, tazze e gin tonic. Insieme eravamo davvero pericolosi. Lei camminava appena dietro di me, come una sposa indiana, «Non so perché», mi diceva con un filo di voce e di sorriso. E io non sapevo perché quando lei non aveva voglia di mangiare non avevo voglia di mangiare neanche io. Le notti erano inferno o paradiso, come un viaggio africano tra troppa vita e troppa morte. Poi, improvvisa, arrivava l’armonia e io sentivo il mio cuore rallentare, quasi non battere più. Allora gridavo al miracolo e osservavo lei trasformarsi in me e cercavo uno specchio per vedermi con i suoi capelli e le sue labbra consumate dai miei baci. Erano attimi benedetti e li avremmo pagati a caro prezzo. Lei era il fuori, io ero il dentro, nei nostri giochi, nelle nostre battaglie, nel nostro ring. Io la portavo nei miei libri, nei miei viaggi, nelle mie poesie o forse erano loro che mi avevano portato da lei. Un bacio al sapore di cioccolato era il premio. Mi guardava e diceva «Come sei ? Come sei!». In quei giorni cercavo una storia da raccontare ma le parole che uscivano dal profondo di me erano solo per lei. Poi, tutt’a un tratto, un muro ci divideva, io la spedivo migliaia di chilometri da me, lei iniziava a girare con un vetro antiproiettile attorno, indossava l’armatura più resistente e preziosa e saliva
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sul palcoscenico con la maschera più dura e impenetrabile. Lasciarla lì o combattere, la sfida era sempre la stessa. Ogni tanto lasciava cadere una perla luminosa e io mi gettavo a capofitto per raccoglierla. Più andavo giù, più l’acqua era calda e trasparente. Perché quello non era il mare ma il suo abisso. Le foglie dei platani, dei miei platani, avevano conosciuto cielo e ora conoscevano terra. Proprio come noi. Io che avevo capito tutto, non capivo più niente. Lei che aveva sentito tutto, ora cosa sentiva? Io che avevo appena messo via la spada, come l’angelo di Castello, sfoderavo di nuovo la penna e iniziavo a scrivere. Senza sapere se abbandonarci lì o portarci in salvo. Ascoltavo musica, lo stesso pezzo mille volte e lo marchiavo a fuoco con le nostre iniziali. Non capiva la mia rabbia, ma sorrideva complice quando le dicevo che una vita non basta e quando mi baciava mi mordeva piano le labbra. E io ero felice come un cercatore di diamanti nel giorno di paga. Sorridevo e lei apriva gli occhi appena e appena vedeva il mio sorriso, con gli occhi mi diceva ancora e ancora. Su una cosa eravamo d’accordo, o tutto o niente, “death or glory”, come urlavano i Clash. Lei era una calamita, tutti la volevano, ma intanto adesso lei voleva me. Ci eravamo parlati con un anno di ritardo, lei sapeva che prima o poi sarebbe successo, io sapevo che tutto si sarebbe deciso in un attimo. E che, passato quell’attimo, non sarebbe successo più. Giravamo a piedi per i vicoli della mia città e delle mia guerra di ragazzo, parlando della sua città e della sua guerra di ragazza. Odiava la tristezza, la parola utopia e i miei guanti di lana la capivano meglio di me. Quando le scrivevo, lei cercava le parole cancellate, sicura che il segreto di tutto fosse sepolto là sotto.
Al telefono mi diceva «Hey» e io che le ho detto tanto non le ho mai detto quanto mi piaceva quel «Hey». Poi sapevamo ridere, ma io avrei voluto assaggiare almeno una volta le sue lacrime. Mi aveva sognato perso nella foresta dell’Amazzonia e invece ero perso nella foresta delle mie parole, dei suoi dubbi e del loro mondo di merda. Truffaut mi aveva aiutato, ma non c’era nessuno che potesse salvarmi davvero. In vespa si moriva di freddo e io cantavo le canzoni della curva sud.
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Una notte, dopo l’ennesima battaglia, lei mi stringeva forte e io pensavo al lento, tormentato, meraviglioso cammino della mia bocca, delle mie mani, delle mie spalle, della parte più nascosta e sconosciuta di me, verso la bocca, verso le mani, verso le spalle, verso la parte più nascosta e sconosciuta di lei. Quel pensiero, lo sapevo, sarebbe stato per sempre con me e mi avrebbe reso vivo anche sul letto di morte. Ma, oggi, cazzo, mi faceva morto in una sera così piena di vita. Quando la accarezzavo, le mie mani sentivano cicatrici invisibili alle mani cieche degli altri. Io avevo gli occhi spalancati e le mani nude e a lei piaceva vedermi così. Perché mi aveva cercato per tanti paesi del mondo, tutte le notti, fino a che le notti e i paesi erano finiti. Lei era l’aria che io avevo lasciato entrare in corsa dal finestrino. Ed era un’aria profumata, di cielo e di terra, di un profumo che mi aveva risvegliato, che non mi faceva dormire più. Ero illuminato e quella luce mi illuminava il viso anche nel buio di un funerale. Quando gli occhi di una cugina mi osservavano e capivano. Avevamo tutto e quindi tutto da perdere, come in quella canzone di Ben Harper. La vita di noi senza di noi era dolce e terribile, ricca sfondata e povera in canna, non era più la stessa vita. I flashback ti sorprendevano alle spalle e ti lasciavano senza fiato e parole. Ed era così per tutti e due. Un giorno, ci saremmo visti in un paese lontano, lontano da questo fiume, da questi angeli, da questo inferno. Io l’avrei aspettata seduto in un caffè, lei sarebbe arrivata dopo, come sempre, avrebbe camminato verso di me e dopo?
Le chiedevo sempre «E dopo cosa farai? Avrai l’armatura addosso o ti piegherai su di me e incurante del mondo mi bacerai così e così?». E così ci baciavamo. A volte mi svegliavo sul piede di guerra, dissotterravo l’ascia, mi infilavo la maglietta con il Che e Maradona e partivo all’attacco di quel mondo che mi soffocava, che mi voleva togliere l’aria, l’aria che entrava in corsa dal mio finestrino. Lei mi diceva, «Combatti contro di loro, ma non distruggere noi». Ma poi era lei a distruggerci, perché dimenticava il bello delle mie parole e iniziava ad avvelenarsi con il brutto delle mie più brutte e rabbiose.
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Ogni volta che sbagliavo, che non le davo il tempo di arrivare dall’altro mondo nel mio, appariva la stessa scritta beffarda che salutava i miei casini al computer: «Fatal Error!». Ma poi bastava un niente per rispedirci in orbita, nel nostro cielo. Io mettevo Police on my back a tutto volume e lei ballava girando su se stessa. Meravigliosa zingara, punk e ribelle. Ve l’ho già detto, io diventavo lei e lei diventava me. Fausto, l’artista mendicante, ci avrebbe esposti tra le opere surreali della sua commovente galleria a cielo aperto. Chissà che titolo avrebbe scelto per noi. Aveva orecchie che solo le africane hanno, così le aveva detto un dottore. Io ci sussurravo dentro «Sono un pazzo, pazzo di te». E osservavo la mia voce sorvolare il deserto del Sahel e quel fiore di donna di nome Clarisse e poi la squadra senza scarpe degli Yassets, fino alla cima più alta dei Monti Nuba. Potevamo ucciderci e, senza aspettare tre giorni, resuscitare. Per me era montagna, fondo del mare, vento della Cordigliera, quando tra le mie braccia mi diceva allontanandomi «Ste’, resta, resta con me». Quando sono partito avrei voluto portarla dentro al mio cuore e dentro ai miei occhi, ma non era stato possibile, perché lei era già lì, dall’altra parte del mondo, ad aspettarmi. Vestita da nuvola o avvolta in un lungo abito francese degli anni Venti. Usava la parola “amore” con la stessa cautela e lo stesso rispetto con cui un dinamitardo maneggia la nitroglicerina. Delle droghe non mi era mai fregato niente, eppure, quando lei non c’era, capivo, per la prima volta bene, cosa vuol dire stare senza. Stupefacenti eravamo noi. Io e lei, lei ed io. Scrivevo senza fermarmi e senza pensare. Senza rileggere e, alla fine, era quasi tutto vero. Perché quella che c’era tra noi era una storia bella. Una storia più facile da scrivere che da vivere.
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Deliri Giovanili. Concept: SMP+ e LOLAETLABORA Texts: Stefano Maria Palombi Immagini: Stefano Maria Palombi Progetto grafico: LOLAETLABORA www.stefanopalombi.com
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