Genius Loci 2

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“Il libro è indefinibile. Quando lo si tiene in mano non è che carta: il libro è altrove.” “A book is beyond definition. When you hold it in your hands, it’s just paper. The book is elsewhere.” R. Escarpit




www.glgeniusloci.com

Anno due numero 2 Luglio / Agosto 2011 Editore

STILNOVO DESIGN - OLBIA

Direttore Responsabile FAUSTO LIGIOS

Direttore Editoriale VERONICA ASARA

Grafica

ANTONELLO MURGIA MATTEO SANTORU

Fotografia

PEPE PERALTA FAUSTO LIGIOS ANTONELLO MURGIA

Si ringrazia:

colophon

Comune di Oliena, Maria Grazia Rubanu e le donne di Oliena; Ittica Cabras; Vincenzo Caccamo; I monaci Benedettini del Monastero di San Pietro di Sorres; Dott. Collu del Museo Nivola; Roberto Ziranu; Tommaso Sussarello, Geasar; Azienda Iliana; Comune di Ottana; Assessorato al Turismo Commercio e Artigianato della Regione Sardegna. I traduttori: Inglese: Alice Crozier Maria Pia Pirina per il Gallurese; Nino e Italina Pugioni per l’Olianese; Regina e Maria Bonaria Obino per il Campidanese; Mario Dente per l’Ottanese.

Stampa Tipografia Gallizzi - Sassari DISTRIBUZIONE GRATUITA IDEATO, CREATO E STAMPATO INTERAMENTE IN SARDEGNA

4 rivista disponibile online

In fase di registrazione presso il Tribunale di Tempio Pausania.


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fotoŠ pepeperalta|sardigna


Editoriale Editorial

Un pane non ordinario

CONTENUTI

CONTENTS

No ordinary bread

Bottarga eccellenza di Sardegna Botargo Sardinia’s excellence San Pietro di Sorres

Il restauro del libro antico

the restoration of ancient books

Nel buio fotografando il Jazz In the dark Shooting jazz

Museo Nivola Nivola Museum

L’anima fluida del ferro The liquid soul of iron

Aromaterapia e piante endemiche sarde

Aromatherapy and endemic Sardinian plants

Caratzas il carnevale di Ottana 6

the carnival in Ottana


Photographers Fausto Ligios nasce a Sassari nel 1973. Nel 1999 si laurea in Scienze Politiche, indirizzo politico sociale, con una tesi sul movimento punk e le controculture giovanili. Giornalista professionista, dal 2002, e fotografo, dal 2004 vive e lavora a Santa Teresa Gallura. Nel 2006 fonda f/64 Progetto Fotografia Sardegna (www.f64sardegna.org). Collabora da anni come fotografo e giornalista con diverse testate isolane come libero professionista. Ha pubblicato: 30 Buttìos (Magnum Edizioni, 2005), Viseras (Webber Editore, 2007), “Si, noi vogliamo...”. Quando i giovani ci mettono la faccia (f/64 Progetto Fotografia Sardegna, 2009), Catalogo LUGHENDE fotografia 2010 (Soter Editrice, 2010), Carrasecare. Il Carnevale Sardo (Edizioni CHIAROSCURO fotografia, 2011) Pepe Peralta nasce a Quartu S.E. nel 1975.

foto© pepeperalta|sardigna

Nel 2007 si laurea in Scienze dell’Architettura in Alghero. Si avvicina alla fotografia nel 1997 e ha all’attivo diverse mostre e proiezioni sugli aspetti culturali e naturalistici della Sardegna. Alcuni suoi scatti sono stati pubblicati in riviste, libri, brochure pubblicitarie e portali web. E’ possibile vedere i suoi lavori nel suo sito: www.flickr.com/photos/arkimastru Collabora con l’editore Enrico Spanu e col fotografo di natura Giuseppe Sedda con la pubblicazione di uno scatto di Aquila chrysaetos nel libro “Animali di Sardegna”. Collabora con la rivista ornitologica sarda “Aves ichnusae”. E’ comparso con una intervista sulla attività di fotografo sulla rivista identitaria “Lacanas” (Editore Paolo Pillonca) (2010). Ha frequentato la Scuola Internazionale di Fotografia – Seminario di Fotografia del Paesaggio (2008).

Antonello Murgia nasce a Sassari nel 1969, da bambino dimostra notevoli doti nel disegno, che si conserveranno e svilupperanno nel trascorrere degli anni. Si laurea nel 1995 allo IED (Istituto Europeo di Design) di Cagliari, con indirizzo “grafica pubblicitaria”e segue diversi corsi e seminari di fotografia. Vive a Londra tra la fine degli anni 90 e i primi anni 2000 dove segue alcuni corsi di specializzazione sul reportage fotografico e sulla fotografia pubblicitaria. La condivisione di un appartamento con un fotoreporter inglese gli consente di approfondire i sistemi di sviluppo e stampa del negativo bianconero in camera oscura. Il connubio tra l’arte del disegno grafico e della fotografia si concretizzano in una innata tendenza alla composizione dell’immagine trasposta su foglio o pellicola. Oggi vive ad Olbia con la sua famiglia, dove si occupa principalmente della realizzazione di reportage fotografici e fotografia pubblicitaria, oltre che di grafica pubblicitaria.


Editoriale

Una questione di lingua naturale e identità. Quale è la forma che abbiamo voluto dare a Genius Loci? Il primo Genius Loci era una scommessa oppure un esperimento. Si voleva sperimentare un nuovo modo di raccontare “il carattere di un luogo”, dando centralità all’immagine rispetto ai contenuti. E’ una formula che è stata gradita e che teniamo a conservare. Quest’anno ampliamo l’esperienza inserendo un elemento caratteristico di spicco: la lingua. Ovunque la lingua, è legata a doppia mandata alla cultura locale; anzi direi che ne è espressione primaria. In Sardegna la questione linguistica assume una valenza particolare a causa della multiformità della sua espressione sul territorio. A seguito di decennali studi orientati a stabilire se il Sardo fosse una lingua o un dialetto, nel 1996 la Regione Sardegna riconosce l’ufficialità della lingua Sarda, seppur minoritaria. Dal 2006 esiste la cosiddetta “LSC,” Limba Sarda Comuna, varietà scritta e sperimentalmente adottata per la redazione di documenti ufficiali. Andando oltre le vicende meramente formali che troppo spesso tralasciano l’esperienza comune delle cose, la nostra piccola impresa editoriale vuole invece distinguere gli idiomi, che sono cosi differenti tra loro da illustrare un universo di lingue di origini e matrici diverse per ciascuna area geografica sarda. Non ci aspettiamo una lettura attenta dei diversi dialetti da parte di chi, seppur appassionato di Sardegna, si avvicina alla nostra isola come visitatore. Vogliamo, tuttavia proporne un lato dal quale non si può prescindere se si vuole scoprire la cultura sarda, e per il quale si lotta affinché non si smarrisca arrendendosi alla modernità. Veronica Asara

Cal’ è la folma ch’aemu ‘ulutu dà a “Genius Loci”? Lu primmu “Genius Loci” è statu una scummissa o forsi un ispirimentu. Vuliami pruà a raccontà in manera noa e diversa lu carattili di un locu dendi più impultanzia a li magghjni chi no a li parauli. Chistu modu di spiegà li cosi pari chi sia piaciutu e propiu pal chissu lu ‘ulemu mantiné. Abannu allalghemu lu spirimentu cu una nuotai di spiccu: la linga. Sapemu be’ chi la linga è liata a “funi folti” a la cultura, anzi, possu di’ ch’è lu primmu e più impultanti modu pal pudella esprimì. In Saldigna la chistioni di la linga è diversa da dugn’altu locu, palchì in tuttu lu territoriu si ni poni cuntà paricchj folmi. Dapoi d’anni e anni di studii pal decidì siddhu lu “saldu” è una linga o un dialettu, in lu 1996 la Regioni di la Saldigna l’ha ricunnisciutu come linga.


Editorial

A matter of natural language and identity What shape have we decided to give to Genus Loci? The first Genius Loci was a bet, or maybe an experiment.

Da lu 2006 esisti chissa chi chjamani LSC, Limba Sarda Comuna, una linga costruita a taulinu pa’ scrì li documenti ufficiali. Noi, però, lassemu paldì chisti ‘spirimenti chi no si basani innantu a l’esperienza cumuna di li cosi e di la ‘ita. Chista nostra impresa, inveci, vo’ tiné distinti li linghi o dialetti chi so’ cussì diffarenti unu da l’altu tantu di facci ‘idè un mundu di modi di faiddhà nati in manera diversa da un locu a l’altu di la Saldigna. Celtamenti no ci aspittemu chi ca’ veni da fora a visittà la tarra nostra, puru siddhu l’è a geniu, possia ligghj’ cu attenzioni chissu chi scrimu in li diversi lingagghj. Però no pudemu fa’ a mancu di prupunì ancora chistu latu di la cultura salda, si la ‘ulemu cumprindì meddhu e siddhu la ‘ulemu mantiné, pa’ no paldilla arrindendici in tuttu a la modernitai. Traduzione in gallurese a cura di Maria Pia Pirina

foto© pepeperalta|sardigna

We wanted to try out a new way of telling about “the character of a place”, giving a prime post to the visual aspect over its written contents. The formula was appreciated and we want to continue along these lines. This year we are extending the experience by including a significant and characteristic element: the language. Everywhere, language is closely linked to local culture; I would even call it the primary expression. In Sardinia, the language issue takes on particular importance due to the multiform aspects of its expression on the territory. Following decades of studies oriented towards deciding whether Sardinian is a dialect or a language, in 1996 the Region of Sardinia recognised the official language of Sardinia, though it belongs to a minority. Since then there has been the socalled LSC, “Limba Sarda Comuna” [Common Sardinian Language], a written and experimental variety adopted in the official edition of documents. Going beyond the merely formal aspects of things that all too often leave out common experience, our little publishing company wants to focus on the linguistic differences that stand out among a universe of languages of different origins and frameworks for each geographical area in Sardinia. We don’t expect visitors to give an in-depth reading to the different dislects of the island, even though they love the place. We want to propose an aspect that can’t be neglected if one wants to discover Sardinian culture, and for which there is an ongoing battle to prevent it from giving up its identity in favour of modernness.


Le tante verità delle immagini Siamo continuamente bombardati da immagini. E una fotografia vale più di mille parole. “Bè, allora che aspettiamo? Facciamo una rivista con tante fotografie e limitiamoci nei testi”. Questo, in sintesi, potrebbe essere il dialogo tra un ipotetico editore e un suo corrispettivo direttore responsabile. Questo, in verità, potrebbe essere il motivo della nascita e l’evolversi di Genius Loci. A volte, però, le apparenze potrebbero non essere vere e i dialoghi non così scontati. Genius Loci è in realtà un esperimento editoriale pensato miscelando due linguaggi, due modi di comunicare diversi nella forma e nelle origini: idioma sardo e fotografia d’autore, ovvero il primo quasi dimenticato nonostante gli sforzi “ufficiali”, l’altro reduce di guerra ferito perché se ne è abusato sino all’eccesso. E allora, chi ce lo fa fare? Nonostante questo noi puntiamo su entrambi. Sulla buona fotografia crediamo molto. La scrittura è lineare, ha un inizio ed una fine, è sequenziale, è logica. Il testo scritto ha bisogno di tempo per essere letto. Viceversa, l’immagine è circolare, si può cominciare a guardare da qualsiasi parte, ci si può concentrare su un particolare e poi si può ricominciare il percorso visivo a ritroso, quante volte si vuole. Ma quello che ci piace e che vi sono tante potenziali interpretazioni di un’immagine esattamente quanti sono gli sguardi che vi si posano sopra. Quindi non la verità ma tante verità, tante quante le persone che si soffermeranno sulla nostra rivista. E spero siano molte. Fausto Ligios

So’ tanti li ‘iritai di li magghjni Semu sempri bumbaldati da li magghjni. E una fotografia vali più di middhi parauli. “Beh, e tandu cosa semu aspittendi? Femu un giornali cu’ un be’ di fotografii e pochi parauli”. Chistu podaria esse lu cuntrastu di unu chi vo’ pubblicà un giornali cu’ lu so’ direttori responsabili. Chistu, a di’ la ‘iritai, podaria esse lu muttiu di la nascita e di l’evoluzioni di “Genius Loci”. Di li ‘olti, però, l’apparenza podaria esse diversa da la realtai e li cuntrasti ch’aemu dittu podariani no esse cussì semplici. A di’ la ‘iritai “Genius Loci” è unu ‘spirimentu pinsatu miscendi dui lingagghj, dui modi di cumunicà diversi pal comu si presentani e pal comu so’ nati: linga salda e fotografia d’autori, la primma guasi sminticata ancora si s’è fattu unu sfolzu di la Regioni pal mantinella, l’alta


The many truths of pictures We are constantly bombarded by pictures. “A picture is worth a thousand words.” “Well, what are we waiting for? Let’s have a magazine with lots of photos and keep the texts to a minimum.” This might be the reason behind a conversation between a hypothetical publisher and his editor in chief. Frankly, this could be the reason for the birth and evolution of Genius Loci. Sometimes, though, appearances may not be what they seem to be and conversations may not be as obvious as they appear. Genius Loci is actually an editorial experiment with a nucleus mixing two languages, two ways of communicating in different forms and with different origins: the Sardinian language and outstanding photos; that is to say, the first almost forgotten in spite of the official “efforts” of preservation, the other a wounded war hero because of excessive abuse. So… why do we go on with the project? In spite of all the difficulties, we focus on the positive aspects of language and art. We strongly believe in good photography. Writing is straightforward: it has a beginning and an end. It’s sequential. It’s logical. It takes time to read a written text. On the contrary, images are circular: we can start looking from any point; we can stop to focus on a particular detail and then look at the rest, going in the opposite direction. We can follow the procedure over and over again, as many times as we like. But what really makes the difference is that there are so many potential interpretations of a picture: as many interpretations as there are eyes to look at it. So it isn’t a question of the truth but of many truths, as many truths as there are people who stop to take in our magazine. And I hope there will be many.

talmenti abusata chi pari un reduci di guerra firutu. E tandu, ca’ ci lu faci fa’? Eppuru noi cuntemu innant’a tutt’e dui. Illa bona fotografia vi cridimu avveru. La scrittura è semplici: cumencia da un puntu e cu un puntu compri, no si po’ ligghj’ cumincendi da mezu o da la fini. Inveci la magghjna no ha un principiu o una fini, si po’ cumincià a figghjulà da cassisia palti, ci si po’ concentrà innant’a un particolari e poi si po’ turrà in daretu, si po’ pultà lu sguardu in tundu cantu ‘olti ‘ulemu. Ma la cosa chi ci attira di più è chi una magghjna po’ esse, più che vista, compresa in tanti modi diversi, cantu so’ li sguardi chi li cascani innantu. Quindi no una ‘iritai ma tanti ‘iritai cantu so’ li passoni chi arani a figghjulà la nostra.


Un pane non ordinario No ordinary bread “Dal fondo di quali millenni fosse venuto quel pane Dio solo lo sa: forse lo avevano portato gli ebrei che erano stati risospinti dall’Africa, nei tempi dei tempi. Il lavoro aveva la solennità di un rito, anche perché si protraeva fino alla mattina, e le ore tarde portavano il silenzio: i ragazzi sgusciavano nella porticina stretta, avvampavano al calore, s’inebriavano del profumo di pane e di ceppi ardenti di lentischio, rapiti dai guizzi delle fiamme sulle pareti fumose, ma anche un poco intimiditi da quelle donne operose […]. Era un momento di gioia per loro e per i ragazzi, che si sentivano tutti uniti da quella cosa ineffabile e senza padroni che è la vita .” Il giorno del giudizio – Salvatore Satta 12

“God only knows how many centuries that bread saw its beginnings: perhaps it was the Jews that brought it when they were driven away from Africa, long, long ago. The kneading had the solemnity of a ritual, going on until morning; and the late hours brought silence. The children scuttled out of the narrow doorway, blushed with the heat, inebriated with the aroma of the bread and the burning lentisk logs, hypnotised by the flashing reflection of the flames on the smoky wall - but also a little daunted by those women hard at work […]. It was a time of joy for them and for the children who felt united by the intangible aspect of it all and without anyone to give them orders: that’s what life is all about.” Judgement Day – Salvatore Satta


a cura di Maria Grazia Rubanu - Fotografia Antonello Murgia COMUNE DI OLIENA

“E itte seis a’hende? ‘harasande e cocchende. E itte seis cumbinande? Cocchende e ‘harasande” Filastrocca che ripetevano le bambine mentre imitavano il lavoro delle adulte

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Ricordo ancora quando da bambina mi svegliavo inebriata dal quel profumo che permeava tutta la casa. Quando madrina Loche doveva fare il pane si cominciava presto, verso le due del mattino; se la scuola era finita, mamma mi portava con sé avvolta in una coperta e mi metteva nel divano del soggiorno perché continuassi a dormire. La coperta era calda e il divano comodo ma, nella notte, puntualmente mi svegliavo, non appena le donne iniziavano a cuocere il pane. Andavo di corsa, con i capelli scarmigliati e le scarpe slacciate verso sa “cuchina ‘e cocchere” (la cucina con il forno per il pane) dove si ripeteva un antico rito, le cui lontane origini si perdono nel tempo. Ogni volta nel mio viso si ripeteva la stessa meraviglia nell’osservare quelle sfoglie leggere che, infilate nella grande bocca rossa del forno, si gonfiavano e diventavano tonde palle fumanti e profumate. Qualche volta, soprattutto in inverno, il pane lievitava a fatica e le donne lo avvicinavano al fuoco per farlo intiepidire, in modo che la cottura fosse ottimale. Una volta passate per la prima cottura le sfoglie venivano divise con un coltello in due dischi separati sistemati uno sopra l’altro. Poi il pane veniva rimesso in forno per la tostatura, fino ad assumere un bel colore rosa vivo: la “carasatura” da cui il pane prende il nome. Solo diventata più grande ho potuto assistere a tutto il processo e capire l’enorme mole di lavoro che andava dal mettere insieme gli ingredienti più semplici: farina di grano duro, sale, acqua e lievito, all’impastare il pane e al fare le forme che poi dovevano essere cotte. C’era lavoro, fatica e paura: paura che il lavoro potesse non riuscire al meglio. Il procedimento era faticoso e lungo, perché solo una manipolazione continua poteva garantire la bontà del pane. Gli ingredienti venivano lavorati con la forza delle braccia e, quando la pasta era pronta, veniva posta in un recipiente, coperta con un telo tiepido e lasciata lievitare. Le donne prendevano posto, sempre lo stesso, e iniziavano la lavorazione con il mattarello (su tuttureddu), stendendo il pane sopra “su taggeri”, un tagliere di legno a forma tonda. Il processo continuava con il passaggio del pane di mano in mano, dalla prima donna che spesso era un’apprendista, alla più esperta, fino ad ottenere una sfoglia sempre più sottile, spessa qualche millimetro. Finito il giro la lavorazione terminava e le sfoglie di pane venivano poste (così come avviene ancora) nelle lunghe tele di lana, tessute apposta per quest’uso. Le sfoglie, separate le une dalle altre, riposavano fino a raggiungere il giusto punto di lievitazione per poi passare al forno. Spesso in un angolo, come accadeva a me da piccola, si vedevano le bimbe che ripetevano il lavoro delle grandi in un gioco d’imitazione che rappresentava anche una modalità educativa consolidata.

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carasau

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I still remember when I was little and I woke up inebriated by that aroma that went all through the house. When my godmother Loche was going to make bread, everything got under way very early, at about 2:00 in the morning. If we were out of school Mama brought me with her, wrapped in a blanket, and put me on the sofa in the living room so I could go on sleeping. The blanket was warm and the sofa was comfortable, but during the night, I regularly woke up as soon as the women started baking the bread. I ran, with my hair tangled and my shoes untied, to the kitchen – “sa cuchina ‘e cochere” – where an ancient ritual was taking place, its roots lost in time. Every time my face showed the same amazement as I watched those light sheets of dough that, once they entered the oven’s big red mouth, puffed up and became round smoky balls that smelled wonderful. When they came out of the oven, the sheets were split with a knife to become two separate discs, then would then go back into the oven to be toasted. The process is called “carasatura”, and it gives this particular kind of bread its name. Only when I was older could I see the entire process, starting when the basic ingredients are put together: durum wheat flour, salt, water, and yeast. The dough is kneaded and made into the shapes which are later baked. Today the procedure has changed. Kneading is not entirely done by hand because almost every house has its own machine to do the job, and perhaps even one to roll out the dough to just the right thickness. What never changes is the convivial aspect: a few women getting together to work. Making bread involves at least three women. Sometimes they’re neighbours, or sisters, or sisters-in law: the essential nucleus of civilisation in the small towns of the Barbagia area, in the very heart of Sardinia. They help one another; favours are returned; a sort of evolutionary cycle is maintained, with all the characteristics of the ritual. When the work was entirely manual the procedure was more tiring and longer because only continuous kneading ensured the quality of the bread. Then after the dough had risen, the women took their places, often the same every time, and the rolling pin (su tuttureddu) came into action, rolling out the bread on “su taggeri”, a round wooden board. The bread went from one pair of hands to another, the rolling continued, and the final result was a fine layer, only bar millimetres thick. The end of the kneading was the end of the round and the rolled-out layers were placed on long woollen cloths, woven just for this purpose. That’s still a part of the process. The layers were separated from each other and allowed to rise just to the right point before baking. Often, in a corner, like me when I was a child, the little girls could be seen imitating the work they had observed the adults doing. This imitation was a consolidated form of education.

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Finita la lavorazione si poteva iniziare a cuocere il pane, la donna che passava al forno per la prima cottura era in genere la più esperta; non si poteva rischiare di rovinare neppure un pane. Le altre lo dividevano nelle due sfoglie e, se c’era un’aiutante in più iniziava a stendere le tele per farle asciugare. Le vicine venivano a chiedere un po’ di brace, o di lievitomadre o magari un “panemodde”, la riposta era sempre affermativa: la povertà andava di pari passo con la solidarietà reciproca. A mezzogiorno si mangiava tutte insieme, non si organizzavano lauti pasti, ma si usufruiva di quello che c’era, spesso verdura di stagione: fagiolini, fave, finocchietti selvatici, cose buone da mangiare con il “panemodde”, il pane non ancora tostato, morbido e perfetto per fare scarpetta. Era il momento in cui si raccontavano storie e magari si faceva qualche pettegolezzo, poi si passava alla tostatura del pane e alla conclusione del duro lavoro. Oggi il procedimento è in parte cambiato, non si impasta più solo con le mani, quasi in ogni casa c’è una piccola impastatrice e magari una sfogliatrice, ma rimane inalterato l’aspetto conviviale: l’incontro di alcune donne che si uniscono per lavorare insieme. Fare il pane è un’attività che coinvolge almeno tre donne, che siano vicine di casa, sorelle o cognate: il nucleo essenziale della civiltà nei piccoli paesi della Barbagia. Le une aiutano le altre, ci si scambia reciprocamente il favore, mantenendo in vita una sorta di ciclo evolutivo, che ha tutte le caratteristiche di un rituale. La ritualità si vede anche nel modo di salutare: oggi come ieri avviene che dopo il lungo lavoro della notte, la mattina qualcuno, che sia della casa o un ospite, si affacci nella “cuchina ‘e cocchere” e saluti così: “Ave Maria”, le donne sollevano un attimo il capo e rispondono: “grascia prena” (piena di grazia) e nient’altro. “Deus bos Vardet” (Dio vi guardi), continua il nuovo arrivato, “Deus vardet a tottus” (Dio guardi tutti) rispondono in coro. È un sistema di domande e risposte che mantiene una sorta di solennità e fa parte del complesso rituale che caratterizza questo lavoro. Sono formule ricche di significato e molto sentite, soprattutto in passato, quando tutte le attività, dal fare il pane al lavoro nei campi, alla pastorizia, erano quasi riti sacri, perché da essi dipendeva la sopravvivenza quotidiana. Il pane carasau era l’alimento principale, il pane dei pastori, proprio per la sua caratteristica di durare nel tempo e di resistere inalterato agli spostamenti con le greggi. Un tempo era il ritmo della pastorizia nomade a dettare quello della società insieme alla natura e il pane era il lavoro delle donne. Oggi questa ritualità si ripete in momenti importanti per l’esistenza, che mantengono una caratteristica di coralità, come avviene appunto quando le donne si riuniscono per fare il pane. Ho imparato così, tra il sonno e la veglia, come si fa il pane.

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Today, just as in the past, following the night’s long hours of work, in the morning, someone – either a guest of a member of the household – looked into sa cuchina ‘e cochere and asked, “Cochende?” (Is it baking?). The women briefly looked up and answered, “Eja, cochende” (Yes, it’s baking.). No more. “Deus bos Vardet” (God watch over you) the new arrival continues. “Deus vardet a tottus” (God watch over all), comes the answer in chorus.

This system of questions and answers maintains a sort of solemnity and belongs to the complex of rituals that characterises this tiring work. Carasau bread was for the shepherds, because it lasted so well and didn’t suffer for moving about following the flocks. Today this rituality is repeated in important existential moments, as it maintains its choral characteristics: exactly like when the women get together to make bread.

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M’ammento, ‘hommente siad oje, ’hì dae minoredda mi is’hidavo alligra ’ha b’aviada in dommo une bellu vra’hu de pane ‘hottu. Infattis ‘hando nonna Loche deppia cocchere, si pesavada intro ’e notte, tando mamma mi che pi’havada imboli’hà in d’una manti’hedda e mi che lassava drommia in s’apposentu vonu. Sa manta idi ’hejente e s’ottomana commoda, ma cada vorta mi ch’is’hidavo ’hando cominciavan’a cocches. Ego m’ispantavo ‘hando che vidio intro ‘e sa vu’ha manna e ruja de su urru sas tundines lepias ‘hi si ch’uffravana ‘hantu a una boccia, manna manna e prena de ummu profummau. Pompiavo tottu su ’hi a’ahia ‘hin sos ocros irbarriottaos. ‘Hando che lu vo’havana da-e su urru, l’apperiana ‘hin d’unu lippucciu (l’is’hoprecavana) nd’essiada duos piggios e los poniana a pira a pare. Carchi vorta, mesche in iverru, dae su vrittu, su pane istentavada a bennes de cocchere e tando l’increjavana, lu torravana a su urru pro l’illenare e lu poniana in sas telas ’hejentes pro unu trettu, vinas hì non che veniada de cocchere. ‘Hando che idi tottu is’hoprecau lu pi’havana a piggiu a piggiu e lu ghettavana torra a su urru pro lu ‘harasare: si idi ‘hottu vene ch’essiada bellu holore rosa perpere. Si harasavada agai deppiada durare meda in sos huviles. Solu a manna però appo ‘humpresu tottu su travagliu e su sudore ‘hi bi ‘heriada pro a’ahere sa messa ‘e su pane. Travagliu, sudore, timmingiu: timmingiu ‘hi sa aina essered’andà male. Innantis, inturtavana issu la’heddu arina de tridi’hu vonu ‘hin abba, sale e s’irmentaggiu e a forcia ‘e braccios lu ‘hariavana a ‘hancios minores. ‘Hando sa pasta ch’i pronta l’ammaniavana e la poniana issu hanisteddu, cuccuggià e in lo’hu tepiu. ‘Hommo si podiada incuminciare a pesare: settias in tundu, cadauna ‘hin su tuttureddu e su taggeri suo, sa prima (carchi vorta idi una isc’hente) pi’hava sa boccia e cuminciavad’ a l’isterrere, ’hene tuttureddu, e lu passavada a s’attera ’hi che lu a’ahia prus mannu e gai vinas a s’urtima ’hi l’affini’havada e che lu poniada in sa tela vinas a che ’haere unu vintinariu in cada undu. ‘Hando ch’i tottu pesau s’incumminciavada a cocches e sa cocchidore idi una emmina isperimentà. Una o duas is’hopreccavana, poniana vene sos piggios e si nde ju’hiada che li tro’hiana sa pippinitta. Si b’aviada un’aggiudante in prus cuminciavada a istendes sal telas pro las asciuttare. A mesudie, o ‘hando andava bene, si gustavada e si magni’havada su ‘hi b’idi, su prus de sas vortas idi vasoleddu, ava, inucru, ’hosa vona de imbrattu, de pi’hare a carcaglios ‘hissu panemodde. Si ‘hontavana ‘hontos, brullas, istraccallerios. Poi si ‘harasavada e s’aìna ch’id’atta. Sas vi’hinas veniana a che pi’hare unu pa’hu e braja, cali’huna unu ‘hanciu de irmentaggiu e cali’huna vingias unu panemodde. Oje s’aina si ahede unu pahu differente: non s’inturtada, non si ‘hariada né si pesada a manos agai belle in cada dommo b’ada macchinarios ‘hi illeviana su travagliu. Su ‘hi est semper bellu es ‘hi sas emminas (siana sorres, ‘honnadas o vi’hinas) si riunini e s’aggiudana tra pare e si torrana

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su tempus. Atteras vortas ‘hust’aìna idi su “’horo” de sas viddas ‘hommente sa nostra. Sas emminas ini sas “sacerdotessas” de ‘husta aina, ‘hi si no idi sa prus importante de si’huru idi una de sas primmas. A galu ‘hommo su cocchingiu mantenede carchi ’hosa de religiosu ‘hi si viede vingias in su modu ‘e saludare o de ringrasciare: imbeces de “bongiorno” si navada “Ave Maria” e sa risposta idi “grascia prena”; ‘hando cali’hunu intravada a umbe s’idi a’hende sa aìna deppia narrere “Deus


bos vardede” e tottus rispondiana “Deus vardede a tottus”; si davana unu panemodde si torravana sas grascias nande “pro more ‘e Deus siada” e si rispondiada “tottu siada pro more suo”. ‘Hustas non fini allegas boidas ma ini sentias agai su pane e tottus sas aìnas (dae s’agliola ass’u travagliu de pastores e massajos) marcavana su tempus paris issa natura e ini quasi hosas sacras. Su pane idi sacru agai bi nd’aviada pa’hu e idi s’alimentu pri-

mariu e ‘hando mancavada idi gana netta. Non pro nudda issa preghiera dessu “Babbu nostru” sa gente s’invocada à Deus pro li dare “su pane nostru de dogna die” Appo imparau goi, intessonnos, ‘hommente si ‘hahede du pane.

Traduzione in Olianese di Italina Boi e Nino Pugioni

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www.f64sardegna.org f64sardegna@gmail.com Mobile: 349 77 03 741

f/64 Progetto Fotografia Sardegna è un laboratorio di idee che ruota attorno a un’unica passione: la fotografia. Nata nel 2006 da un gruppo di fotografi residenti a Santa Teresa Gallura, è divenuta nel tempo un punto d’incontro e focolaio creativo, un luogo di sperimentazione e di intreccio di culture fotografiche dove realtà diverse si fondono per sviluppare idee e lavori di gruppo. I fotografi dell’associazione si relazionano con il mondo attraverso il loro sguardo, condividendo esperienze comuni di carattere tecnico e umano. Il rapporto è finalizzato alla creazione di progetti fotografici (mostre, pubblicazioni, eventi), ovvero raccontare attraverso l’immagine fotografica esperienze singole e collettive. Concentrare il proprio operato sugli stimoli forniti dall’attualità e dai risvolti sociali, senza tralasciare le antiche e millenarie tradizioni sarde, puntando l’obiettivo su una fotografia contemporanea e sul principio dell’indipendenza ideologica del fotografo. f/64 nel tempo è diventata una galleria per artisti che hanno usato la fotografia come linguaggio comunicativo.

foto: Fausto Ligios

foto: Dario Apostoli foto: Gianni Petta

L’associazione in cinque anni di attività ha organizzato più di 20 mostre ospitate in varie parti della Sardegna: Santa Teresa Gallura in primis senza dimenticare Palau, Olbia, Cossoine, Sassari, Gubbio, totalizzando complessivamente circa diecimila visitatori. L’ultimo sforzo è “Fotografando Lungòni. Monumenti teresini nelle immagini”, una mostra (dal 10 al 31 agosto 2011 presso il Centro didattico polivalente di “Lu Brandali” a Capo Testa) a conclusione dell’omonimo seminario di fotografia tenuto da Salvatore Ligios, docente di fotografia dell’Accademia di Belle Arti di Sassari, e organizzato in collaborazione con Su Palatu Fotografia Associazione Culturale e il contributo economico dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Santa Teresa Gallura. foto: Gianmario Cutroneo

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eccellenza di Sardegna “La gente che vive del mare, vive con il mare. I muggini si pescano con le mani. Uomini di mare, cotti dal sole e asciugati dalla salsedine donano al mondo l’eccellenza”.

BOTARGo salted mullet roe: sardinia’s excellence

“People who get their living from the sea live with the sea. Mullets are caught by hand. Men of the sea, baked by the sun and dried by the salt bring this excellence to the world.”.

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Lontani echi del passato portano le origini di questa prelibatezza ai tempi dei fenici. Il popolo del mare per antonomasia trasmise l’arte della lavorazione delle uova di muggine alle popolazioni nuragiche presenti sulle coste Sarde, In particolare li dove ancora si trovano resti di insediamenti punici, lungo la costa dell’oristanese, del cagliaritano e del Sulcisiglesiente. Fù poi grazie agli arabi che il mondo conobbe la bottarga e sempre a loro si deve il suo nome (dall’arabo battarickh). La bottarga era uno dei cibi di marinai e pescatori e costituiva un alimento perfetto , in grado di conservarsi a lungo e dotata di un alto contenuto proteico. Nel tempo diventa punto cardine della cultura gastronomica e culinaria delle coste Sarde. Cosi le “baffe ambrate” di bottarga di muggine diventano prodotto pregiatissimo e quasi introvabile fino agli anni 70.

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Il racconto della pesca di muggini che arriva dai nostri nonni e bisnonni, ci rivela un mondo fatto di semplice e dura quotidianità, dove la peschiera rappresentava, oltre il luogo di lavoro, anche centro della vita sociale della comunità. In vari testi, e in tanti racconti si parla della pesca del muggine come un evento dal fascino ineluttabile, come di quei rituali di cui si tramanda ma di cui si è perso il significato. I pescatori vivevano ai lati della peschiera in capanni costruiti per le loro famiglie. Quando si aprivano le chiuse i pesci entravano in peschiera e non potevano più uscirne: per questo la vasca principale era denominata “vasca della morte”. L’acqua cominciava a brulicare e i pescatori si gettavano all’interno, che fosse caldo o freddo, per la pesca rigorosamente a mano. Venivano ripagati del lavoro dal padrone della peschiera che li ricompensava lasciando loro una parte del pescato; fuori dalla peschiera, nel piazzale antistante si iniziavano le


Faraway echoes from the past bring us the origins of this delicacy from the time of the Phoenecians. These people from the sea above all others transmitted the art of working mullet eggs to the nuragic populations present on the coasts of Sardinia, especially in the areas of Oristano, Cagliari and Sulcis-Iglesias. It was then thanks to the Arabs that the world came to know botargo, and from them that it got its name (from the Arabian “battarickh”). Botargo was one of the foods for sailors and fishermen. It was perfect: it could be preserved for a long period of time and was high in protein. As time went on it became a prime element in cuisine of the Sardinian coasts. Thus the ‘amber moustaches’ of botargo became a delicacy, almost impossible to find up until the seventies. Tales of mullet fishing that have been handed down from our

grandfathers and great-grandfathers open up to us a world of hard and simple day to day life where the fishing tank was not only the work-place but also for the centre of social life in the community. Many texts and stories speak of mullet fishing as a fascinating and inescapable event, like those rituals that are handed down but whose meaning has been lost in time. The fishermen lived alongside their tanks in sheds built for their families. When the dams were opened the fish entered the nets and could no longer escape: that’s why the main tank was called “the death tank”. The water started churning and the fishermen jumped in, whether the water was warm or cold, to catch the fish exclusively by hand. They were repaid for their work by the owner of the tank, who let them keep part of what they had caught. Just a short distance

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trattative tra il venditore, cioè il padrone della peschiera e i compratori provenienti da vari punti dell’isola. Ad oggi la bottarga è uno dei prodotti tipici sardi più apprezzati sulla penisola e all’estero e il mercato si è aperto ad una manciata di piccole aziende che producono la bottarga ancora come tramanda la tradizione. La preparazione delle uova di muggine si articola ancora in poche e definite fasi; estrazione manuale delle uova, la salagione, la pressatura e l’essiccazione, fasi che si mantengono immutate nelle produzioni artigianali , che rendono il prodotto peculiare rispetto alle numerose e sempre in crescita produzioni industriali.

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La fase certamente più delicata è quella dell’essiccazione che avviene, ancora oggi nella produzione non industriale, in modo naturale, senza l’ausilio di essiccatori, senza coloranti, conservanti o additivi diversi dal prezioso sale marino. Il rispetto per la tradizione e la cura nel mantenere il prodotto il più originale possibile garantiscono l’arrivo sulle nostre tavole di una prelibatezza genuina e unica. Il gusto è quello incontaminato del mare dai cui proviene, forte e delicato insieme, dalla connotazione spiccata e aromatica, accompagna egregiamente primi piatti contorni e antipasti.


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away from the tank in the square, bargaining began between the seller – the owner of the tank – and the buyers coming from all over the island. Still today botargo is one of the most highly appreciated typical Sardinian products on the continent and abroad. A handful of small firms have opened who produce botargo today according to the traditional procedure. Preparation of mullet eggs still consists in a few clear stages: extraction of the eggs by hand, salting, pressing, and drying. This procedure has not changed in the artisan dimension; this makes the product peculiar compared to what comes from the nume34

rous and growing number of industrial plants. Certainly the most delicate phase is drying. In the non-industrial production the procedure is still natural, using no machines, no artificial colouring, no preservatives or additives other than precious sea salt. Respect for tradition and care given to maintaining the product as original as possible ensure its arrival on our tables as a genuine and unique delicacy. The flavour in unmistakeably from the sea: at the same time delicate and strong, with a pronounced aromatic aspect. It is a perfect companion for first dishes, vegetables and hors d’oeuvres.


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La Ricetta: Fregola Sarda con bottarga e vongole

Recipe: Sardinian “Fregola” with botargo and clams

Ingredienti per 5 persone: 400gr di fregola sarda, 250gr di arselle o vongole veraci, 3 pomodorini camona o pachino, ½ bicchiere di vernaccia, 1 bottarga di muggine, 1 foglia di alloro fresco, 1 spicchio d’aglio, 1 pezzetto di peperoncino, prezzemolo, olio d’oliva, sala q.b.

Ingredients for 5 people: 400 grams of Sardinian “fregola”, 250 grams or mussels, 3 camona or cherry tomatoes, 1/2 glass of “vernaccia” wine, 1 mullet botargo, 1 fresh laurel leaf, 1 clove garlic, parsley, olive oil, red pepper and salt to taste.

Preparazione: in una padella grande profumate l’olio con l’aglio, il peperoncino e la foglia di alloro che toglierete appena imbiondite. Aggiungete le vongole, bagnate con il vino e fate evaporare. A questo punto unite i pomodorini tagliati a piccoli pezzi e fate cuocere il tutto a fuoco molto lento grattugiando un po di bottarga. Nel frattempo portate ad ebollizione 3 lt. di acqua abbondantemente salata nella quale cuocere la fregola per 5 min. Scolare (conservare un mestolo di acqua di cottura) e versare nella padella con tutti gli altri ingredienti. Mantecate con un mestolo di legno a fuoco molto lento, completate la cottura della fregola per circa 15 min, aggiungendo a poco a poco l’acqua di cottura tenuta da parte. Terminare con una ulteriore abbondante grattugiata di bottarga insieme ad un ciuffo di prezzemolo finemente tritato e un filo d’olio.

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Preparation: in a large pan, heat the garlic, red pepper and laurel leaf in the oil to give taste. Remove as soon as they become golden. Add the clams. Pour on the wine and allow it to evaporate. Add the tomatoes, cut in small pieces, and cook slowly, grating into it a little botargo. Meanwhile, bring 3 litres of water to a boil. Add salt and cook the “fregola” for 5 minutes. Drain, keeping aside a ladle-full of the water, and pour the fregola into the pan with the other ingredients. Mix vigorously with a wooden spoon over low heat about 15 minutes longer, gradually adding the water from the boiled fregola. The final touch is another sprinkle of grated botargo, minced parsley, and a small amount of oil.


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La Ittica Cabras, è una giovane e dinamica azienda nata nel 1999 ma la sua tradizione ha radici piuttosto lontane: tre generazioni di pescatori. La bottarga della Ittica Cabras, preparata artigianalmente dalla Sig.ra Amadu cosi come vuole la tradizione, è il risultato della scelta delle migliori materie prime, della lavorazione rigorosamente artigianale, ma soprattutto di un ingrediente unico: l’amore per il mestiere e la responsabilità del ricordo.

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Il laboratorio di restauro del libro antico

SAN PIETRO di SORRES Laboratory for the restoration of ancient books 40

A cura di Alice Crozier | fotografia: Antonello Murgia


Non avrei mai pensato che si potessero lavare i libri. Non l’avrei pensato, cioè, prima di vedere tanti esempi di “prima” e “dopo” - “casi clinici” consistenti in vecchie copertine con le pagine che racchiudono in via di disfacimento, per via di muffe, parassiti dannosissimi seppur quasi invisibili, topi. Ne rimangono pagine e copertine sbriciolate con grandi pezzi mancanti…avrei liquidato i “casi” in questione con una frase di sincero dispiacere ma sempre di circostanza, tipo, “Oh, che peccato! Se si fosse intervenuto prima…ma a questo punto, cosa ci vuoi fare?” E invece, si fa. Li si riporta “in vita”, per così dire. E il lavaggio non è che una di tante fasi di questa operazione. Torniamo all’inizio di questa visita tutta particolare.

Si arriva sul piazzale della maestosa basilica di San Pietro di Sorres, vicino a Borutta, in provincia di Sassari. Nel XII secolo, era centro diocesano; il Beato Goffredo di Meleduno ne era vescovo. Un paio di secoli dopo, ha avuto inizio il declino della zona, e all’inizio del secolo XIX la chiesa era stata abbandonata. Nel 1950, ormai ridotto a fienile e ovile, il lavoro per restaurarla ha avuto inizio; 5 anni dopo è arrivato un gruppo di monaci benedettini da Parma per vivere e lavorare li, e oggi, grazie al loro impegno, il centro tutto l’anno accoglie visitatori che vengono per qualche ora o qualche giorno, per studiare, ritrovare la quiete interiore, avere un consiglio spirituale.

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It would never have occurred to me that books could be washed. That is, the idea would never have crossed my mind before seeing so many cases of “before” and “after – “clinical cases” consisting of old book covers with the pages between them well on their way to disintegration due to mould, parasites no less for being almost invisible, and mice. What remains is crumbling pages and covers with big pieces missing… “cases” I would have more or less tactfully dismissed, saying something like, “Oh, what a pity! If only someone had done something sooner! But at this point, what can be done?” But instead, something is done. We might say that they are “brought back to life”. And washing the pages is just one of many steps in the whole procedure. Let’s start from the beginning of this unique visit.

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We reach the square in front of the majestic basilica of San Pietro di Sorres, near Borutta, in the province of Sassari, about half an hour’s drive away. Back in the twelfth century it was the centre of the diocese and the Blessed Goffredo of Meleduno was the bishop. Only a couple of centuries later, the area had started to decline, and by the beginning of the nineteenth century, the church had been abandoned. It was only in 1950, when it had become a hay barn and sheep fold, that restoration began. Five years later a group of Benedictine monks from Parma arrived to live and work there, and today, thanks to their dedication, the centre welcomes visitors who come for a few hours or a few days, to study, find inner peace, or have spiritual counselling.


Sul gradino fuori dalla chiesa si riesce ancora appena a leggere una firma antichissima: Mariane Maistro, al quale viene attribuito il lavoro iniziale di costruzione, a partire dal 1170. Ogni dettaglio della struttura ha un messaggio di fede, di vita spirituale. Invitiamo i lettori a visitare il sito a www.sanpietrodisorres. net per maggiori informazioni. Riprendiamo la visita affascinante del laboratorio di restauro. È come se il tempo prendesse un’altra dimensione, come se l’impossibile diventasse un fatto pratico del lavoro quotidiano. Qui oggetti un tempo preziosi, poi diventati inutili ‘casi di-

sperati’ per i danni causati dal tempo, tornano ad essere preziosi più che mai per le meraviglie che racchiudono e soprattutto il lavoro meticoloso che ha permesso loro di non perire per sempre. Torchi antichi sono insostituibili; un telaio vede donare nuove rilegature a vecchi volumi; vasche servono per la pulizia e il trattamento di vecchi fogli; finissimo velo di riso giapponese permette di ricostruire pagine severamente danneggiate. Un’intera stanza sembra ospitare dei candidi uccelli in volo: particolarissimi, con il loro carico di parole antiche, le pagine bianche appena lavate e pressate vengono appese ad asciugare.

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On the step in front of the church it is barely possible to read an ancient signature: Mariane Maistro: in all probability he is the one who started the initial building, in 1170. Every detail bears a message of faith and spiritual teaching. We invite readers to visit the site at www.sanpietrodisorres.net for further information. Back to the fascinating tour of the laboratory of book restoration. Time seems to take on a new dimension: impossible feats become apparently ordinary events in a day’s work. It is here that once precious objects, which had become hopeless cases due to time-wrought damage, return to their original value. Within them lies the same treasure, now further enhanced by the meticulous labour that has kept it from perishing. Ancient presses are irreplaceable; a loom yields new bindings for old volumes; vats with various liquids serve the purpose of cleaning and treating the damaged pages; amazingly fine Japanese veil makes it possible to reconstruct the missing parts. An entire room is dedicated to what looks like candid birds in flight: with their ancient words, the freshly laundered and pressed white pages are hung to dry. Who is the specialist who looks after all this? His name is Don Gregorio Martin. In 1956 he was working in the book restoration laboratory in the monastery of Praglia, but since 44

1970 he has been here at San Pietro di Sorres. His wise hands have brought over 3000 volumes back to “life”, in harmony with the principles joining work and prayer in the Rule of St. Benedict. With love and passion, Don Gregorio’s work has made this laboratory a point of reference for the island, both for private collectors and others in need of the service, such as parish archives, town records and museums. Among his very particular patients, there is a tiny rule of St. Francis, a papyrus manuscript of the Divine Comedy, and even an autograph letter of Gabriele D’Annunzio. But Don Gregorio has not been involved only with paper and the like. If you visit the Garibaldi Museum on the Island of Caprera, you can see an old carriage and a saddle, both at one time belonging to Giuseppe Garibaldi. Also in this case, their restoration was the work of Don Gregorio’s expertise. He claims to do no miracles, though to a casual observer, that’s how it might appear. True, his activity is a job, but the term “job” is too restrictive. Without that special feeling, that extent of experience, even passion, what takes place in the laboratory would be impossible. Rather than a “job”, what Don Gregorio accomplishes is a mission.


Chi è lo specialista che cura tutto questo? Si chiama Don Gregorio Martin. Nel 1956 era il responsabile del laboratorio di restauro nel monastero di Praglia, ma da 1970 è qui a San Pietro di Sorres. Le sue mani sapienti hanno restituito ben oltre 3000 volumi a “nuova vita”, in armonia con i principi di lavoro e preghiera della Regola di San Benedetto. Con amore e passione, il suo lavoro ha fatto sì che questo laboratorio sia diventato punto di riferimento per l’Isola, sia per collezionisti privati, archivi parrocchiali, comuni e musei. Tra i suoi pazienti molto particolari, conta una piccolissima regola di San Francesco, un manoscritto in papiro della Divina Commedia, e persino una lettera autentica di Gabriele D’Annunzio.Ma Don Gregorio non si è occupato solo di carta e ciò che la circonda. Se andate al Museo di Garibaldi sull’Isola di Caprera, potrete vedere una vecchia carrozza e una sella, un tempo di Giuseppe Garibaldi. Anche questa volta, il restauro è opera delle mani di Don Gregorio. Non si attribuisce miracoli, anche se, tutto considerato, potrebbe quasi sembrare così. Sì, il suo è sicuramente un lavoro,

ma forse “lavoro” è troppo poco. Senza un amore particolare, tanta esperienza, una particolare passione, quello che realizza non sarebbe possibile. Più di un lavoro, il restauro del libro per Don Gregorio è una missione.

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Nel Buio fotografando il Jazz

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In the dark

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Nel buio... è un viaggio che raccoglie volti, gesti e scorci catturati durante diverse manifestazioni musicali isolane. Mischia intimità e performance di artisti più o meno noti al grande pubblico. L’obiettivo cambia spesso angolazione per descrivere i luoghi dove le note risuonano.

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In the dark‌ along the way, the journey collects faces, gestures and glimpses caught during a variety of musical exhibitions on the island. It combines intimacy and the performances of more or less famous artists. The lens frequently changes angle in order to describe the places from which the notes echo.

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Oggetti isolati dal loro contesto esprimono l’assenza o la presenza del musicista, disegnano paesaggi di ottone e di legno, di corde e metallo luccicante filtrati dall’utilizzo del bianco e nero come linguaggio espressivo.

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Objects isolated from their natural context convey the message of the presence or absence of the artist, designing brass and wooden landscapes, punctuated by the addition of strings and flashing metal, filtered by the use of black and white as the language of expression.

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Ogni foto viaggia in maniera autonoma, quasi a voler raccontare una storia. Tutte sono accomunate da un nero profondo e avvolgente. Oggetto degli scatti sono ombre che si allungano sugli spartiti o sui palcoscenici, luci e microfoni, segni, mani che muovono energie sospese e poi i musicisti con i loro sguardi, i propri strumenti, le personali ricerche. Musica e atmosfera, la vita in mille sfumature diverse.

Each photo travels autonomously, as though wanting to tell a story. What brings them all together is a deep, enveloping blackness. The object of the shutter snaps are shadows stretching across the sheet music or stages, lights and microphones, signals, hands that move suspended energies, and then the musicians with their significant glances, each with his own instruments, his own personal search. Music and atmosphere; life in a thousand different nuances.

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Ricerca continua del dettaglio, esaltata con intensi chiaroscuri, messa in scena di quella che è la vitalità del momento, scaturita dalle note ma anche dall’istante in cui queste si riflettono su un piano visivo, fermando l’attimo con uno scatto.

The search for details goes on, highlighted by intense chiaroscuros, put on exhibition by the vitality of that particular moment, set off by the notes but also by the instant in which the notes become mirrored on a visual plane, freezing that particular moment with the snap of the shutter.

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ll marchio ISOLA, creato nel 1957 dalla Regione Autonoma della Sardegna, certifica l’autenticità delle produzioni dell’Artigianato Sardo, ne garantisce l’alta qualità e l’unicità sulla base di rigorosi criteri di rispetto di tutti i valori tecnici ed artistici codificati dalla tradizione. The ISOLA trademark, created in 1957 by the Regional Government of Sardinia, certifies the authenticity of products authentic Sardinian products and guarantees their high quality and unique features on the basis of strict criteria of respect for all the technical and artistic values codified by tradition.

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Inaugurato nel 1995, il Museo Nivola è situato a sud-est di Orani, sul declivio della collina denominata Su Cantaru (La Fontana). Il sito offre suggestive vedute sul paese e sul paesaggio circostante. Il complesso museale si articola in quattro ambienti: gli spazi esterni, l’antico lavatoio adeguato a spazio espositivo, gli uffici di servizio e un padiglione di nuova costruzione, inaugurato nel 2004, situato nell’area sottostante. E’ in corso di completamento il Parco, suggestiva cornice al complesso, destinato alla realizzazione di eventi culturali e alla fruizione pubblica. Il progetto di ristrutturazione del lavatoio e di costruzione degli annessi del Museo è degli architetti Peter Chermayeff e Umberto Floris, il progetto del Padiglione si deve allo stesso Chermayeff e all’architetto Sebastiano Gaias. Il Museo e le opere esposte sono di proprietà della Fondazione omonima, istituita nel 1990 al fine di promuovere lo studio sistematico e la valorizzazione dell’opera dell’artista oranese. Il percorso espositivo si sviluppa a partire dal cortile d’ingresso, caratterizzato da un’antica fontana che rimanda all’origine della struttura: il lavatoio comunale, risalente ai primi decenni del Novecento. Dal vascone si diparte una canaletta d’acqua che attraversa il cortile, per riversare il liquido vitale nella parte sterrata, riunendo insieme le materie prime amate da Nivola fin dall’infanzia, divenute successivamente fonti permanenti della sua ispirazione : la terra, la pietra, la calce, il cemento, la natura stessa. All’ingresso, quasi numi tutelari, sono le sculture monumentali maschili e femminili in marmo, bronzo e travertino. Le opere sono espressione dei temi cari all’artista e della sua poetica, saldamente legata alle origini mediterranee, ma capace di esprimersi con un linguaggio universale: sono le divinità ancestrali, gli eterni simboli del maschile e del femminile, le fonti e il sentimento della vita. La Magna Mater (Grande Madre) si apre come una creatura celeste, con la sua straordinaria semplicità, riportandoci al mondo rassicurante dell’infanzia. Su Muru pringiu (Il Muro gravido) col grembo prominente, nell’attesa del figlio meraviglioso, materializza la speranza di un futuro migliore. Le figure maschili sembrano, invece, derivare dalle rocce: semplici, potenti e compatte, sono attrezzate per il lavoro e per la lotta, come antichi guerrieri. Dal cortile si accede alla struttura dell’ex lavatoio che mostra al suo interno, in un ambiente di raffinata semplicità, un’antologia significativa della produzione di Nivola, dalla fine degli anni ’50 (Ritratto della madre e del fratello, 1957) al 1988, anno della sua scomparsa. In questi anni l’artista vive una nuova consapevolezza, come se avesse scoperto col trasferimento negli Stati Uniti il significato più profondo dell’essere sardo e volesse offrire i valori della sua terra e della sua cultura all’umanità intera. La sua opera diventa una rilettura

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dell’infanzia, la nostalgia del Mediterraneo individua nei valori ancestrali il senso di un possibile approdo per il futuro. Tra le opere più tarde, i Mestieri, compatte figure maschili in bronzo che stemperano nella giocosa aggiunta di oggettisimbolo, la durezza del ricordo di un mondo arcaico segnato dal lavoro e dalla fatica; e le figure mitiche maschili e femminili realizzate in cemento, marmo e bronzo, simili a quelle collocate nel cortile e negli spazi esterni del Palazzo del Consiglio Regionale di Cagliari. L’esposizione documenta anche altre direzioni della ricerca dell’artista attraverso il Modello per il monumento alla Brigata Sassari (mai realizzato), del 1963, e la vasta produzione in argilla. Delle sculture in terracotta realizzate a partire dai primi anni ’60, il Museo espone alcuni esempi di Letti e Spiagge. L’argilla è considerato il materiale più congeniale a Nivola. La sua mano è veloce e fluida, l’atto del plasmare lo riporta al mondo dell’infanzia, al gesto femminile fondativo del fare il pane, atto nutrizionale legato alla vita. Anche il letto è la metafora del processo esistenziale, dalla nascita alla morte, attraverso l’amore, la più segreta delle esperienze umane, che l’artista rappresenta nella penombra, con riservatezza, ma di cui, nei ritmi delle superfici, nelle impronte lasciate dai corpi, nell’ammasso convesso delle lenzuola, non nasconde l’irresistibile vitalità. Le infinite potenzialità del plasmare sono colte pienamente dall’intuitiva intelligenza dell’artista: i lettini su cui si adagiano le figure non sono uno sfondo passivo, ma un elemento attivo della narrazione.


Le Spiagge, del 1972, amplificano gli spazi rispetto ai Letti generando diverse prospettive su paesaggio infiniti o su figure ammassate in un’orgia pulsante di vita. Le terrecotte si caratterizzano, inoltre, per un particolare effetto, ottenuto col frapporre fra la mano e la creta una sottile tela. Il Padiglione espone una serie di opere realizzate con la tecnica del sand-casting (colata di gesso o cemento su stampo di sabbia), che portò l’artista all’apice del successo in America. Con questa tecnica personalissima, che tanto aveva interessato Le Corbusier, Nivola realizzò alcune delle ormai celebri pareti: dallo showroom Olivetti di New York (il Bozzetto murale è esposto in questo padiglione), alla facciata del Brid-

geport Post Newspaper di Bridgeport, al Mutual Hartford Insurance Company di Hartford. Il Museo si arricchirà a breve di un importante ampliamento, dotato di nuovi spazi dedicati all’esposizione permanente destinati a ricomporre, anche con l’ausilio di strumenti multimediali, l’intero percorso artistico di Nivola. Gli ambienti consentiranno, inoltre, l’allestimento di mostre temporanee e la realizzazione di laboratori didattici. Saranno anche presenti una biblioteca specialistica, un archivio, un auditorium e un book-shop. Margherita Coppola | Conservatore Museo Nivola

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The Nivola Museum is located Southwest of Orani on the hill called Su Cantaru (the Fountain). Visitors can appreciate impressive views of the surrounding landscape from the museum. The inauguration was held in 1995. The museum features four sectors: the external spaces, the old washhouse with what is now an exposition area, offices and a new pavilion which was inaugurated in 2004, just below the rest. Work to complete the park is under way: another picturesque setting for the complex, destined to cultural events and public use. The plans to refurbish the washhouse and to build annexes to the museum were drawn up by architects Peter Chermayeff and Umberto Floris. Plans for the pavilion are by Chermayeff and architect Sebastiano Gaias. The museum and works on exhibit are property of the same foundation, instituted in 1990 to promote systematic study and appreciation of the work of the artist from Orani. The itinerary of the exhibition starts in the entrance to the courtyard, with its typical old fountain dating back to the origin of the building: the communal washhouse, built in the first decades of the twentieth century. A small channel of water leads from the big washing tank across the courtyard, to empty into the dirt, uniting the raw materials so well-loved by Nivola from his childhood. The earth, the stone, mortar, cement, nature itself became permanent sources for his inspiration. At the entrance, almost like tutelary sprits, stand the monumental masculine and feminine sculptures in marble, bronze, and travertine. The works are expression of the themes dearest to the artist’s heart and to his poetry, closely bonded to his and their Mediterranean roots, but able to express themselves in a universal language: they are ancestral divinities, the eternal symbols of male and female, sources and sentiment of life. The Magna Mater (Great Mother) opens up like a heavenly being with extreme simplicity, taking us back to the reassuring world of childhood. Su Muru Pringiu (The Pregnant Wall) with its abdomen protruding, expecting the wonderful child, materialises the hope of a better future. The masculine figures, on the other hand, seem to derive from the rocks: simple, powerful and compact, they are equipped for work and battle, like ancient warriors. From the courtyard, visitors can access what was once the interior of the washhouse, in an environment of refined simplicity: a meaningful anthology of Nivola’s production from the end of the fifties (Portrait of mother and brother, 1957) to 1988, the year of his death. In these years the artist lives a new awareness, as though with his move to the United States, he had discovered, deeper meaning to his Sardinian roots and wanted to offer the treasures of his homeland and culture to all of humanity. His works become a new reading of childhood; nostalgia for the Mediterranean identifies in an-

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cestral values the sense of a possible harbour for the future. Among his later works, Mestieri, compact bronze masculine figures are softened by the playful addition of symbolic objects; the hardness of memory of an archaic world bearing the signs of work and fatigue; and the mythological masculine and feminine figures in cement, marble and bronze, similar to those located in the courtyard and outdoor areas of the Regional Council Building in Cagliari. The exhibit also documents other directions of the artist’s research through the Model for the Monument to the Sassari Brigade [Modello per il monumento alla Brigata Sassari] (never built), 1963, and the vast clay production. From the terracotta sculptures produced from the early


sixties, the Museum exhibits some examples of Beds and beaches. Nivola considers clay his most congenial material. His hand is fast and fluid; the moulding action takes him back to the world of his childhood, to the essential feminine gesture of kneading bread, a nutritional action connected with life itself. Likewise, the bed is a metaphor of the existential process, from birth until death, through love, the most secret of human experiences. The artist respectfully chooses semidarkness for the representation, without hiding the irresistible vitality in the rhythms of surfaces and the indentations left by bodies in the convex mass of sheets. The infinite potential of moulding is fully captured by the artist’s intuitive intelligence: the beds where the figures lie are not a passive background but an active element in the narration. Beaches [Spiagge] from 1972, amplifies spaces, compared to Beds, giving rise to various perspectives on an infinite number of landscapes or a mass of figures in a throbbing orgy of life. The terracotta statues are typified, furthermore, by a particular effect obtained by placing a light piece of cloth between the hand and the clay. The Pavilion shows a series of works produced with the technique of sand-casting, pouring plaster or cement into a sand mould, which took the artist to the peak of his success in

America. With this highly personal technique, which had deeply interested Le Corbusier, Nivola produced some of his now famous walls: from the Olivetti showroom in New York (the Mural Sketch is on exhibit in this Pavilion), to the face of the Bridgeport Post Newspaper in Bridgeport, to the Mutual Hartford Insurance company of Hartford. The Museum will shortly be further enriched with the important addition of new spaces dedicated to permanent exhibitions destined to recompose, with the help of multimedia, Nivola’s entire artistic itinerary. The environments will also make possible the organisation of temporary exhibitions and the realisation of didactic laboratories. In addition,here will be a specialised library, an archive, an auditorium and a bookshop. Margherita Coppola | Keeper of the Nivola Museum

Interno ed esterno museo delle sculture: Archivio Fondazione Nivola- foto Giorgio Dettori. Interni museo sand casting e foto Madre di Nivola: Archivio Ilisso Panoramica Parco Nivola e foto fontana parco: Archivio Fondazione Nivola - foto Roberto Moro

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A cura di Veronica Asara Fotografia: Antonello Murgia

L’ANIMA FLUIDA DEL FERRO ...e il suo desiderio più grande rimane quello di pensare ai suoi oggetti all’interno di ogni casa, come presenza fuori dal tempo; oggetti che rimarranno oltre il trascorrere degli anni. Mi sono sempre chiesta cosa significa “forgiare il ferro”, non trovando una vera corrispondenza con quello che definirei meglio ”domare il ferro”. Il lavoro del fabbro, cioè di colui che impone la sua creatività sull’elemento più tenace e resistente ha una connotazione simile alla tauromachia, con in più la raffinatezza dell’espressione artistica. Nelle mani di Roberto il ferro sembra un suo prolungamento; assume un aspetto docile e plasmabile quasi fossero un’unica materia. Ciò che ne scaturisce è un ricciolo oppure una vela o un intersecarsi di fili senza apparente schema geometrico. Un movimento che rivela l’anima fluida del metallo. Lui dice: “Non artista, meglio artigiano” ma è molto difficile

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The liquid soul of iron … and his greatest desire remains that of visualising his objects in every house, a presence that transcends time; objects that will remain beyond the passing years.

dargli ragione. Roberto Ziranu, fabbro di quinta generazione, ama raccontare aneddoti del suo passato nella bottega del padre Silverio ad Orani. E’ li che crescendo ha visto ed imparato. Tempi duri, e lavoro duro senza l’ausilio di nessuna tecnologia oggi disponibile. Una scuola che forgia l’anima oltre che la materia. Con i suoi fratelli aiutava il padre in bottega e ognuno di loro veniva ricompensato sulla base dell’impegno speso. Oggi il suo laboratorio è a Nuoro e la sua produzione spazia nel genere e nella tipologia degli oggetti. Cosi possiamo ammirare classiche testate di letti che rievocano antiche stanze di case di Barbagia oppure oscillanti sfere


che rimandano ad un moderno pendolo di Focault. Si respira un’aria di continuità e sperimentazione, non volendo abbandonare la strada già spianata dagli avi cercando però una propria identità artistica che non sia un’alternativa. Camminare di pari passo con il passato orientati al futuro, onorando in tal modo la fatica già espressa da padri, nonni e zii. Ed è palese nel suo atteggiamento la sincera riverenza nei riguardi del passato, li dove ci si impegnava più alla produzione necessaria alla quotidianità rurale che all’arte. Infatti si ricorda bene di quando suo nonno passava le ore in bottega a battere sul ferro che diventava una zappa oppure un ferro di cavallo. Si rammarica di non poter mostrare oggetti prodotti da suo nonno o dal suo bisnonno, tuttavia mantiene esposti nella sua bottega come reliquie gli strumenti da loro utilizzati. Con il tempo, ha affinato un suo stile inconfondibile, ha esposto le sue opere in svariate location in Sardegna e oltre; ha conquistato premi autorevoli tanto da essere considerato tra i più grandi maestri italiani del ferro. Ha collezionato clienti importanti che lo hanno catapultato nell’olimpo degli artigiani “eletti”, ha sperimentato quella impagabile soddisfazione del consenso del pubblico verso la sua produzione. Non per questo si ritiene “arrivato” anzi...l’esperimento è in continua evoluzione...


I have always wondered what it meant to “forge iron”, since I couldn’t find a real correspondence with what I would better define “taming iron”. The smith’s work, that is, the person who imposes his creativity on the toughest and most resistant element, has a connotation near that of bullfighting, with the addition of the refined artist’s touch. In Roberto’s hands, iron seems to be an extension of his person: it takes on a docile, mouldable aspect as though they were made of the same stuff. What emerges is a curl or a sail or a weaving together of wires with no apparent geometric pattern. A movement that reveals the fluid soul of metal. He says, “Not ‘artist’; better ‘artisan’” but it’s hard to say he’s right. Roberto Ziranu, fifth generation ironmonger, loves to tell stories about his past in his father, Silverio’s, shop at Orani. That’s where he grew up, watching and learning. Hard times, and hard work without any of the helpful technology available today. A school that forges not only matter but also the soul. He and his brothers worked together to help their father in the shop and were rewarded according to how hard they had worked. Today his laboratory is in Nuoro and his production ranges in genre and type of objects. We can admire classic headboards that remind us of the old houses in Barbagia, or swinging spheres that bring to mind a Foucault pendulum. Continuity and experimentation are in the air, not to risk abandoning the road cleared by ancestors in search of their artistic identity rather than an alternative. Walking along with the past and looking towards the future, he honours the efforts already put forth by his father, grandfather, and uncles. His sincere reverence for the past is evident in is attitude: in those times emphasis was more on objects necessary for daily life in the country, rather than art. He well remembers when his grandfather spent hours in the shop, beating iron that would become a hoe or a horseshoe. He is sorry not to be able to show objects produced by his grandfather or great-grandfather, but their tools are on exhibit in his shop as though they were relics. In time, he has perfected his own personal unmistakeable style. His work has been exhibited in numerous locations in Sardinia and elsewhere. He has won awards important enough to earn him the reputation of one of the greatest Italian masters of iron. He has collected important clients who have catapulted him into the Olympus of “elite” artisans. He has experienced the priceless satisfaction of public appreciation for his production. Yet, he doesn’t feel that he has reached his peak: on the contrary…his experiments continue to evolve…

Nuoro via Limbara, 16 0784 26 20 03 | Mob 338 56 31 444 www.robertoziranu.com info@robertoziranu.com


L’Antologia della Femina Agabbadòra è un contributo importante nella comprensione di un contesto e di una figura che ha operato in Sardegna per moltissimi anni, ponendo fine all’agonia dei malati terminali, sempre all’interno di precisi codici etici. Un lavoro che si lascia alle spalle la narrazione romanzata, la leggenda o il senso del mistero e “aggredisce” il tema, dando voce a testimoni di tutti i generi: figure del quotidiano, letterati, etnografi, uomini di chiesa, magistrati, medici, studiosi, estensori di tesi di laurea. 330 pagine, con otto capitoli, che vanno dall’etimologia della parola “agabbadòra”, alle diverse testimonianze, alla ricerca di quanto si trova sulla rete, all’editoria che se ne è occupata, oltre, naturalmente una ricca bibliografia. Il libro è corredato da belle foto in bianco e nero, che rappresentano i diversi momenti di questa storia. Il costo del libro è di 20 euro IN VENDITA ONLINE www.galluras.it E NELLE LIBRERIE

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w w w.g a ll u r a s .i t 71


A romaterapia e piante endemiche sarde in collaborazione con l’azienda Iliana Fotografia: Antonello Murgia

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A rom athe r apy

and endemic Sardinian plants

a cura del Dott. Erborista Massimo Ghiani Quando ci si avvicina alla terra, mentre ancora spumeggiano le onde sotto la chiglia, l’istinto è quello di chiudere gli occhi e inspirare in un gesto di familiare meraviglia. L’elicriso, è lui che da il benvenuto o il bentornato, dirigendo l’immaginazione verso un infinito di colori. La Sardegna ancora prima di sorprendere gli occhi, inebria con i suoi profumi unici che lasciano il ricordo di una terra seducente e affascinante come nessun’altra.

When one draws near to the earth, while the waves are still frothy below the keel, you instinctively want to close your eyes and breathe in deeply in amazement. Helichrysum is there to welcome you, be it your first visit or a return, sending the imagination towards an infinite variety of colours. Even before Sardinia surprises the eyes, it inebriates you with its unique aromas that leave their memory of a seductive, fascinating land unlike any other.

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In un’isola come la Sardegna, dove la natura si esprime in tutta la sua maestosità, le erbe officinali hanno svolto un ruolo di primaria importanza fin dalla notte dei tempi. Utilizzate per insaporire i piatti tipici o per la produzione di unguenti da utilizzare per la cura del corpo e dello spirito, hanno messo in luce delle virtù assai rare e preziose. Le piante aromatiche endemiche sarde sono quelle tipiche del bacino del mediterraneo, tra le più utilizzate risaltano: l’elicriso sardo-corso, la lavanda sthoecas, il timo erba-barona, il rosmarino, il ginepro, il mirto e il lentisco; da quest’ultimo si estrae sia l’olio essenziale profumato diretta-

mente dalla foglia, sia “s’ozzu e stincu” estratto invece dalla bacca e utilizzato in cucina come sostituto dell’olio d’oliva. La loro crescita, del tutto autonoma, ha avuto un’evoluzione particolare legata alla varietà climatica, all’insularità e alla bassa antropizzazione del territorio. Oggi l’uso delle erbe officinali si estende alla filiera della produzione di olii essenziali, dell’aromaterapia e della fitocosmesi. Gli oli essenziali sono estratti naturali di piante aromatiche ottenuti principalmente attraverso la distillazione in corrente di vapore acqueo.

On an island like Sardinia, where nature expresses itself in all its majesty, officinal herbs have had a role of primary importance since the dawn of time. Used to give flavour to typical dishes or for the production of ointments for the treatment of body and mind, they have highlighted rare and precious virtues. Aromatic endemic plants in Sardinia are typical of the Mediterranean basin. Among the most frequently used are Sardo-Corsican Helichrysum, Stoecas lavender, thymus erba-barona (caraway thyme), rosemary, juniper, myrtle, and lentisk. In the case of the latter, it yields two precious oils: aromatic essential oil is ex-

tracted directly from the leaves and “s’ozzu e stincu” is extracted from the berry and used in cooking as a substitute for olive oil. Their growth, completely autonomous, has had a particular evolution in connection with the particular climate, the peculiar island characteristics, and the limited presence of man on the territory. Today officinal herbs reach the production line of essential oils, aromatherapy and phytocosmetics. Essential oils are natural extracts of aromatic plants, obtained principally through distillation in a flow of steam.

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Dato il loro profumo caratteristico, a seconda della specie, e la loro versatilità gli oli essenziali vengono utilizzati nell’industria alimentare, cosmetica e profumiera. Ma gli oli essenziali costituiscono soprattutto una complessa miscela di sostanze organiche di varia natura chimica, le quali sono le principali artefici delle attività specifiche di ciascun olio, capaci di agire in modo sinergico tra loro creando un fitocomplesso ad elevata attività farmacologia. I prodotti pensati con un’attenzione rigorosa al concetto di produzione biologica, sono caratterizzati dalla valorizzazione della cosiddetta “filiera corta”.

Secondo questo concetto le erbe vengono coltivate (quando non presenti in maniera spontanea), raccolte e trasformate all’interno del territorio regionale evitando lunghi trasferimenti delle materie prime che si evolvono spesso in un deterioramento dei principi attivi e aumentando i rischi di inquinamento ambientale. La fitoterapia e l’utilizzo delle piante officinali nel campo della cosmesi naturale, valorizzano una tendenza ormai consolidata ad una speciale attenzione per le produzioni biologiche. La coscienza ecologica collettiva, per quanto ancora in

fase embrionale, si sviluppa nella direzione della salvaguardia del territorio e nella conseguente attenzione nei riguardi dei componenti e delle fasi di produzione del settore alimentare e dei prodotti di uso comune e quotidiano. Da qui si sviluppa l’inclinazione alla ricerca di prodotti che dimostrino una particolare attenzione alla tutela delle peculiarità ambientali, ecologiche e culturali del territorio oltre che alla difesa dello stato di salute dell’individuo. La coltivazione delle erbe officinali in Sardegna avviene

in maniera “integrata”; non è infatti necessario adattare il campo alla coltivazione che invece può realizzarsi anche in presenza di sottobosco o di altre specie botaniche. La coltivazione, la raccolta e la lavorazione delle piante aromatiche avviene spesso in contesti agricoli caratteristici che si estendono ad attività agrituristiche e fattorie didattiche, creando un felice connubio tra produttività, ospitalità e riscoperta delle tradizioni legate alle attività rurali.

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Due to their characteristic perfume, essential oils are used in the food industry, in cosmetics, and in the production of perfumes, according to their type and versatility. But above all, essential oils make up a complex mixture of organic substances of varied chemical nature, which are the main ‘craftsmen’ of the specific activities of each. They are able to act together synergistically, creating a phyto-complex with a high degree of pharmacological activity. The products come into being with rigorous attention to the concept of organic production from the start. They are characterised by the exploitation of what is called “production-consumer miles” awareness. According to this concept, the herbs are cultivated (when they are not available from spontaneous growth), gathered and transformed within the regional territory, thus avoiding long journeys for the raw ingredients which would often result in the deterioration of the active principles and increase the risk of environmental pollution. Phytotherapy and the use of officinal plants in the field of natural cosmetics exploit a time-consolidated inclination towards special attention for organic production. The collective ecological conscience, though still in the embryonic stage, is developing in the direction of territorial safeguarding and the consequent attention for the components and production stages of the food sector and commonly-used products. This marks the starting point for the growing inclination towards research on products that show particular attention for the protection of environmental, ecological and cultural peculiarities in the territory, in addition to defence of the individual’s health. Cultivation of officinal herbs in Sardinia comes about in an “integrated” manner: in fact, it is not necessary to adapt the field to cultivation because it is quite possible even in the presence of undergrowth or other botanical species. The cultivation, picking and working of aromatic plants often takes place in characteristic agricultural contexts which extend to farm holiday centres and educational farms where productivity is combined with the concept of hospitality and rediscovery of traditions connected to the territory.


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Candu s’accostaus a sa terra, in su mentri ki is undas de su mari fainti sa spuma a sutt’ e sa chiglia, s’istintu è cussu de serrai is ogus e inspirai in d’unu gestu familiari de meraviglia. S’elicrisu, est issu chi donat su beni beniu o beni torrau, potendi s’immaginatzioni faccia una mecca de coloris. Sa Sardigna, ancora prima de oberri is ogus, t’imprenidi cun is fragus unicus chi ti lassanta s’arregordu de una terra chi ti incantada e t’allocchiat cummenti a nisciun atra. Una terra cummenti a sa Sardigna, a undi tottu su chi crescidi, sia de matas che di erbas, fai biri tottu sa grandesa sua. In su tempus, is erbas profumadas hanti tentu un’importanza meda manna poita custas erbas chi si nanta “officinalis” serbinti po fai cos’e pappai e po curai sa genti, sia po su corpus e po sa menti. Hanti postu in craru e dimostrau tottus is virtudis rara e pretziosas chi teninti is erbas profumadas de sa Sardigna. Is matas utilizzadas, tipicas de sa terra nostra, funti caratteristicas de su Mediterraneu; is prus usadas funti: Sa scova de Santa Maria (Helichrysum italicum), s’abioi (lavandula stoechas) timu (Timus herba barona) spiccu (rosmarinus officinalis) tzinnibiri (juniperus communis) murta (Mirtus communis) e su modditzu (Pistacia lentiscus), de custu si fait sia s’ollu e stincu, fattu de sa baga, usau po coxinai a su postu de s’ollu e olia, sia s’ollu profumau fattu de sa folla. Custas erbas nascinti spontaneas senza de s’assistenza de s’omini, po cresci no serbidi su traballu de s’omini, poita ca funt’erbas ki crescinti po contu soru, e, a segundu de su clima e de su territoriu cambia sa calidadi, poita chi crescinti in su monti a undi s’aria est prus frisca bessinti in modu diversu dei eussas chi crescinti in su pranu a undi nc’est prus soli e quindi prus callenti. Oi is erbas po curai (officinalis) si traballanta in is fabbricas po produsi s’ollu profumau po sa cura e sa bellesa de su corpu, sa cura chi in italianu est nomenada “aromaterapia e fitocosmesi”. S’ollu de is erbas si ottenidi de sa distillazioni cun su vapori de s’acqua. Is erbas officinalis, a segundu de su profumu tipicu, a segundu de sa calidadi, si pointi imperai po coxinai e po produsi profumus naturalis. Ma is ollus curativus chi si otteninti de i custas erbas, candu funti amesturaus impari cun atras calidadis, piganta grandu valori po curai sia su corpus che sa menti. Tottu su chi si produsi de i custas erbas traballadas no teninti amestrus de chimica ma funti sceti tottus naturalis e bessinti de sa chi si narat “filiera corta”. Infatti candu custas erbas funti coltivadas (candu no crescinti spontaneamente), si xicat de d’as coltivai in logus accanta de sa distilleria po no d’as fai perdi is sustanzias naturalis ki painti svanessi in su trasportu. Sa cura cun is erbas in di di oi è preferia de sa genti poita ca funti sustanzias naturalis. Su studiu de is custas erbas s’est sviluppau po salvai s’ambienti e sa saludi imperendi erbas de sa saludi in sa preparatzioni de is cosas de pappai. Po i custu medas studiosus funti donendisi de fai po scuberri erba ki no fatzanta mali a sa saludi de s’omini e de sa terra nostra.

Sa coltivatzioni de i custas erbas in Sardigna si podi fai fintzas accanta de atras erbas de is boscus po cresci beni in s’ambienti ns’oru. Custas erbas, su nprus de is botas, funti coltivadas arregotas e traballadas in sa propriu tenta chi oi est trasformendisi in attividadis de “agriturismo”, o po fai scola po ammostai cummenti si produsint is ollus profumaus e cummenti si depint imperai. Custa scuberta potat traballu cun “agriturismu” chi accullit medas turistas chi nd’aprofittant po si curai conoscendi custas erbas naturalis. Traduzione in Campidanese a cura di Regina e Maria Bonaria Obino

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dalla Sardegna bellezza e natura senza compromessi

Iliana è una cooperativa nata in Sardegna, che ha fatto dell’eticità e dei criteri di produzione, punti fermi senza compromessi. Dalle piante officinali al prodotto finito, Iliana crea i suoi cosmetici interamente in Sardegna, offrendo lavoro alla manodopera locale, in una terra con alto tasso di disoccupazione, valorizzando così il territorio, la tradizione, il rispetto dei luoghi, l’amore per la propria terra. L’azienda produce creme vegetali, shampo naturali, oli purissimi, saponi artigianali, essenze, kit da viaggio, linee cortesia, confezionati in materiale riciclabile; 100% made in

Sardinia caratterizzati da oli essenziali purissimi, estratti da piante aromatiche endemiche sarde, tipiche del bacino del mediterraneo. Attenta alla qualità, alla filiera a km zero, alla ecocompatibilità e tracciabilità degli ingredienti, l’azienda Iliana miscela oli essenziali in formulazioni naturali, con ingredienti ammessi dall’ICEA nei criteri della certificazione Bio Ecocosmetica. La diffusione dei prodotti Iliana avviene anche in contesti che si estendono ad attività agrituristiche e fattorie didattiche unendo così alla produttività, il concetto di rispetto dell’ambiente, ospitalità e riscoperta del territorio.

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Caratzas il carnevale di Ottana the carnival in Ottana “Sventure, iatture, avversità e infelicità non hanno impedito agli ottanesi di conservare, amare e praticare il più genuino carnevale sardo. E domando: devesi questo riguardare come un antidoto naturale che ha iniettato agli ottanesi - per tre giorni consecutivi in ogni anno – purissimi antigeni di vitalità e di speranza, indispensabili fonti di esistenza e di luce? O questo carnevale è da stimarsi un congenito virus, atavico, peculiare a questa popolazione, stabile nel tempo e non labile agli anatemi e ai plasmodi?”. “Bad luck, curses, adversities and unhappiness have not prevented the people of Ottana from preserving, loving and observing the most authentic Sardinian Carnival. I ask this question: should it be considered a natural antidote that has conveyed to the local people – for three consecutive days every year – the purest antigens of vitality and hope, necessary sources of existence and light? Or is this Carnival to be considered a congenital virus, atavistic, peculiar to this population, stable in time and not fleeting in the face of anathemas and plasmodia?” Giuseppe Della Maria

a cura di Mario Dente e Gian Paolo Marras | Fotografia di Antonello Murgia 84


COMUNE DI OTTANA

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La notte dei tempi custodisce le radici della festa più sentita e attesa dagli ottanesi, il carnevale. La spontaneità dell’evento è una particolarità che lo rende unico: prova ne sia che non c‘è mai stato il supporto di un comitato o della pro loco; solo in quest’ultimi anni un’associazione, “Sa filonzana”, cura l’aspetto dell’accoglienza ai turisti e la promozione dei prodotti tipici locali. Ed è per questo che a Ottana nei giorni di carnevale ognuno, grande o piccolo che sia, si maschera come meglio crede, all’ora che vuole, concordandolo solo con gli amici: magari dalla mattina fino a agguantare la notte fonda di casa in casa, a mangiare e a bere. Già la percezione lontana dell’imminente comparsa dei merdùles, le loro voci stridule, il rintrono dei campanacci dei boes - tanto forte e cupo che pare tremino le case- con il sottofondo del suono toccante de su zubu-zubu (s’orriu) travolge, incanta, intimorisce e incuriosisce chi li vede per la prima volta: non può essere altrimenti la visione di queste maschere di uomini e animali che, emerse da un misterioso mondo arcaico, libere invadono le strade e si riversano nella piazza del paese. La prima sortita delle maschere avviene il 16 gennaio, vigilia di S. Antonio, poi per S. Sebastiano e per la Candelora e per ogni sabato e domenica fino ai tre giorni del carnevale: si chiamano genericamente merdùles, anche se con questo termine viene compreso su boe, celato da una maschera di legno con le corna, un fazzoletto nero in testa, pelli di pecora e campanacci portati a tracolla, e appunto su merdùle con la sua maschera di legno dalle sembianze umane, tra le mani un bastone e una fune di cuoio - sa socca-, ricoperto a volte con pelli, a volte con vesti tipiche femminili, a volte sgraziato da una gobba. Esiste una terza figura, sa ilonzana, che un tempo usciva solo il martedì; cupa nelle movenze e nell’apparenza, vestita come su merdùle, tra le mani tiene un fuso e tesse fili di lana che ogni tanto fa finta di tagliare con le forbici. Sempre il martedì, dopo l’imbrunire, si cantano “sas amoradas” , rime in ottave improvvisate dedicate alle giovani ragazze. Tutte le maschere lignee, sia quelle dei boes che dei merdùles, sono realizzate da artisti locali talmente abili che di ognuno se ne riconosce l’impronta. Inoltre a Ottana, in occasione del carnevale, si allestiscono mostre ed esposizioni di maschere e di manufatti di pregevole fattura.

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“Su Boe” 88


Carnival is the festival the people of Ottana are fondest of, the one they most look forward to. Although it may not be particularly famous, its roots lose themselves in ancient times. The spontaneity of the event is worth remembering: there has never been a committee nor a municipal tourist board. It is only in recent years that the “Sa Filonzana” association sees to the aspect of welcoming tourists and promoting typical local products. This means that at Carnival in Ottana, each individual, adult or child, chooses his own costume, and goes out at the time he chooses and has arranged with other friends. Sometimes costume is worn from the morning, to finish late at night, going from house to house for food and drinks. When the Merdùles go out, their piercing voices can be heard from a distance, along with the bells of the Boes: the sounds are so loud and dismal they seem to shake the houses. In the background there is the vibrant su zubu-zubu (s’Orriu). Anyone who sees these masks of men and animals for the first time is at the same time overwhelmed, enchanted, fearsome, and curious. They have stepped out of the past to casually set foot in the streets and squares of the town. The Merdules go out for the first time on 16th January, the eve of the festival of St. Anthony; again for St. Sebastian and the Feast of the Presentation, and then every Saturday and Sunday until the three days of Carnival. The general name for the Ottana masks is “Merdùles”: the term includes the Boe (who wear sheepskin costumes with bells around their shoulders, a horned wooden mask and a black kerchief on their heads). The Merdùle (he sometimes wears leather clothing, other times dresses in typical women’s costumes and even a hunchback. Their mask is wooden with human characteristics, and they hold a socca (leather rope) and a staff. There is a third figure, “sa ilonzana”, who used to go out only on Tuesday. This is another dismal personality, both in appearance and movements. He is dressed like the merdùle but holds a spindle and woollen strand that he warps and pretends to cut from time to time with a pair of scissors. Another Tuesday event, this time in the evening: “sas amoras” are sung. These are improvised eight-lined rhymes, dedicated to young girls. Both the masks of the boes and the merdùles are made of wood by local artists, so expert that their masks can be identified by their particular characteristics. There are many shows and exhibitions of masks and valuable local handcrafts in Ottana for Carnival.

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“Su Merdule”

QUAL’E’ IL SIGNIFICATO DI QUESTO CARNEVALE? Gli studiosi di antropologia e di etnologia a livello mondiale concordano nel considerare il carnevale di Ottana, come altri simili ancora esistenti nel mondo, un rito propiziatorio agrario a favore della fertilità. Samuel Gloz, studioso di riferimento nel settore, ha realizzato un museo a Binche, in Belgio, su tutte le maschere del mondo dando un significativo spazio a quelle di Ottana. Secondo testimonianze di anziani locali riconducibili all’ottocento, il carnevale cominciava in realtà nei giorni di Natale, al solstizio d’inverno: il suono dei campanacci, il calpestio, il frastuono dei bastoni, il suono di s’orriu avevano il compito

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di risvegliare la natura. Con il passare dei secoli questi riti sono stati accettati dalla religione cattolica e inglobati nelle tradizioni popolari con il tentativo di banalizzarli e svuotarli dell’originario significato: nonostante tutto, a Ottana, molto dell’antico significato è rimasto nelle movenze, nei gesti e soprattutto nelle significative coreografie. Nei giorni di Carnevale in ogni casa del paese è tutto un preparativo di dolci e prelibatezze invernali: sabadas, culurzones, galadina, petza sarzada, pasta violada, pilughittos e gatzas, pronte per essere offerte alle maschere che si presentano in casa.


Quando queste entrano, in gruppo, solo una si toglie la maschera e garantisce per tutti, quindi con serenità si comincia a scherzare, bere e mangiare con i padroni di casa, dopodiché ci si rituffa per le vie del paese e si raggiunge la piazza principale per ballare. I balli vengono accompagnati da su sonette o da s’affuente -piatto di ottone antichissimo, lavorato a sbalzo con motivi floreali- o da su tenore; tutto il paese viene coinvolto nei diversi balli tradizionali sardi e particolarmente in quelli tipicamente locali che, con le particolarissime e suggestive coreografie, sono un vero e proprio rito della comunità. Non bastano le parole per descrivere tutto ciò che si può

vedere i giorni del carnevale a Ottana, bisogna venire di persona e predisporsi a partecipare a qualcosa che non sa solo di antico, di rituale, di spontaneo, ma anche di bellezza, colori, profumi e sapori che ogni anno si rinnovano come si rinnovano i protagonisti, anche i più piccoli che in modo autonomo e innato si mascherano e incantano tutti . Questa è la speranza, ma anche la certezza, che la tradizione non andrà mai perduta e che sentitamente verrà riproposta ancora nei tempi futuri, proprio come l’abbiamo ereditata da millenni, con tutti i suoi archetipi e il suo bagaglio ancestrale.

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WHAT IS THE MEANING BEHIND THIS CARNIVAL? Anthropologists and ethnologists world-wide agree in considering the Carnival of Ottana, like others similar elsewhere, a propitiatory agricultural ritual in favour of fertility. Samuel Gloz, a renowned scholar in the field, has fit out a museum in Binche about all the masks in the world, giving significant space to those of Ottana. According to reports of elderly residents of the area, dating back to the 1800s, Carnival began at Christmas time, at the winter solstice. The sound of the bells, the banging of the rods, feet and “s’orriu” served the purpose of awakening nature. As the centuries passed, these rituals became accepted and included in the Catholic religion as popular traditions, in the attempt to play down and empty them of their original meaning. Nonetheless, Ottana has maintained a considerable part of the ancient traditions in the attitudes, actions, and especially the significant choreographies. During the days of Carnival, in every house in town preparations of special winter sweets and delicacies are under way: sabadas, culurzones, galadina, petza sarzada, pasta violada, pilughittos and gatzas, all ready to be offered to costumed guests who come by. Upon entering the house, the visitor usually removes his mask and guarantees for the others: then the jokes begin, eating and drinking with the hosts. After that, it’s back to the streets, to end up in the square to dance. Dance music is played with sonette or s’affuente, an ancient bronze disk embossed with flowered patterns, or songs are sung in the traditional “a tenore” style; the entire town is involved in the traditional Sardinian dances, especially the local ones, that with their special choreographies, are a true community ritual. Words cannot suffice to describe all that can be seen in Ottana during the days of Carnival: only the openness and curiosity of personal participation can grasp the real atmosphere. The feeling is ancient, ritual and spontaneous; beauty, colours aromas and flavours are renewed from one year to the next, just the same as the protagonists, even the youngest who autonomously and instinctively dress up and charm everyone who sees. This is the hope but also the certainty that tradition will never be lost and that it will continue to be proposed year after year, just as it was inherited from thousands of years ago, bringing with it the importance of traditional heritage for humanity.


“Sos Sonazzos”


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SU CARR ASEGARE OTZ ANESU Testo in limba di Mario Dente, cultore di tradizioni ottanesi. Su carrasegare est sa ‘esta chi sos Otzanesos intèndene e isètana de prus, fortzis est pagu connotu ma est semper esìstiu. Su fatu de tènnere presente est chi pro ‘aghere su carrasegare otzanesu non b’at mai istadu ne comitaos o pro-loco, ca est semper istada una ‘esta chi si ‘aghede a sa sola, “ispontanea”. In custos ùrtimos annos s’est concordau su sòtziu de “sa ilonzana” solu pro dare unu sinnale de acunnortu e ospitalidade a sos istranzos e turistas, dande informatziones, ammaniande mustras e cumbidande vinu, gatzas e pasta violada e àteras licàntzias. Totu custu pro nàrrere chi a carrasegare, in Otzana onziunu, sia mannos che minores, si vèstini comente chèrene e èssini a s’ora chi lis parede a manzanu o a sero e a cando si pònene birbiollu a merdulare, est a s’intzurigare pari pari tra cumpanzos e amigos, e bortas meda si mòede dae manzanu e a che la finire a sero tardu dae domo in domo bufande e mandigande. A cando èssini, dae indedda s’intèndene sas boghes e s’istripitzu de sos merdules e s’iscùtzinu de sonazas de sos boes….e a manu a manu chi s’accosiana cun sos brincos pesantes e cadentzaos e su ‘erru ardobande pari pari, ‘aghene unu rintronu, chi cando còlana in sos bighinados, pàrene drinnire sas domos e sas carrelas e infatu issoro, unu pagu coizau, s’intendene su sonu orpilante de su zubu-zubu (s’òrriu). E chie benidi dae ‘oras e los biede pro sa prima vorta, si parat de incantu comente una visione ‘oras de su tempus, infatis a bìere tropas de màscheras bestias de Boe e Merdules chi èssini dae sas carrelas e sòrtini a piatza, ada a fàghere ispantu e a su matessi tempus ponede timore e curiosidade. Sa prima essia de sos Merdules, est pro Sant’Antoni e su ‘ogu, su 16 de ghennarzu, a pustis pro Santu Segostianu e pro Maria Candela, e a sighire cada sàpadu e domìniga finas a sa ‘esta manna de sas ùrtimas tres dies de carrasegare. Sas mascheras de Otzana si mutint MERDULES; nois intendimos siat sos Boes (bestios de peddes o de velludu, cun unu o duos apicones de sonazas postos a tracolla, cun sa caratza de linna cun sos corros e su mucadore nigheddu), che su MERDULE (chi zughet sa caratza de linna cun sembiantzas de pessone, bestiu de issallu, beste e brusa, a bortas cun sa gobba, o cun sas peddes e in manos sa socca e su matzuccu). S’àtera màschera, unu pagu orrorosa e a momentos sibillina, est sa figura de sa ILONZANA, imboligada (vestìa) comente su merdule e a una manu manteninde s’usu de sa lana e a s’àtera ordinde su ‘ilu e onzi tantu cun sas ‘orzighes ‘aghe finta de lu truncare. Sa ilonzana essiat s’ùrtima die de carrasegare; semper s’ùrtima die de carrasegare si cantant sas amoradas, dedicadas a zovanas de cosuvare o a pitzinnas minores: est una moda otzanesa totu in ottavas improvisadas. Totus sas màscheras zughene caratzas de linna, in Otzana infatisi, b’at artistas meda chi ‘aghene sas caratzas sia de boe che de merdule e in onzi caratza si podet bìere e connòschere sa manuza de chie l’at fata, pro cussu in ocasione de su carassegare in onzi cuzone de sa bidda b’at mustras e espositziones e si bendene de totu.

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CALE ESTE SU SENSU DE CUSTU CARR ASEGARE? Sos istudiosos de antropologia e etnologia a livellu mundiale sunu concordos a riconnòschere custu tipu de paradas de carrasegare, comente àteras presentes galu oe in totu su mundu, chi sunu de considerare comente ritu propitziatòriu chi ‘aghene parte de sos ritos de sa fertilidade. Unu de custos istudiosos, Samuel Gloz, chi at istudiau a fundu custos ritos, in sa tzitadina de Binche in Belgio, at fatu unu museo in uve bi sunu sa bona parte de custu tipu de mascheras cumpresas cussas de Otzana. Segundu testimoniantzas de sos betzos nostros su carrasegare a Otzana pàrede chi cumintzìada (custu a fine Ottighentos) dae Pasca de Nadale, a s’ùrtimu solstìtziu de iverru. Pro custos istudiosos su sonu de sas sonazas e de su zubuzubu (òrriu) sos dòbidos de sos matzucos, s’istripitzu de sos pedes aiant su còmpitu e sa ‘orza de ischidare sa campanna dae su sonnu de s’iverru e gai a l’amaniare a s’intrada de su veranu e de su tempus bonu. Custos ritos paganos, cun su tempus atzettaos a intro de su carrasegare cristianu, sunt arribaos in tempos nostros, ma comente si podede immazinare, perdinde sos valores antigos, ma amanteninde intatas sas movèntzias e sos zestos. In tempus de carrasegare in sas domos est totu unu ammùniu ca si preparana sas savadas, sos culurzones, sa galadina, sa

S’Orriu

petza sartzada, sa pasta violada, sos pulighitos e sas gatzas, totu cosas a pronta manu po cumbidare sas màscheras, amigos e connoschentes chi bènini pro s’ocasione. Sas màscheras a cando intrana a una domo abarrana caratzadas, unu e bia, de ballassa, si smascherada e garàntidi pro totus…..e cumintzana a ‘agher zibilleu cun sas brulletas…e tra una brulla e s’àtera, benini invitaos a bufare e piccuniare sia gatzas chi savadas e galadina….e de su chi tenene in domo. A pustis de su ziru in sar domos una tappa fissa est in piatza pro ‘aghere un’ inghiriu de ballu. Su ballu in piatza benit sonau a cando cun su sonette o cun s’affuente (unu prattu de ottone antigu meda a sbalzos e a frores) o a tenore, pro su ballu attopada sa bidda e si podede assìstere a bìere ziros de ballu chi prenent sa piatza, mescamente a cando si sonada su ballu otzanesu antigu, chi ballana totus, mannos e minores. Custu ballu cun sor guturinos e sas intradas e cun su passu bimbirinau e a ziru tundu at mantesu s’usantza antiga de su ballu comente ritu de sa comunidade. Non bastana sas paràgulas pro descrìere totu su chi si viede e sutzedidi a carrasegare in Otzana, s’ùnica est a bènnere de pessone pro si rèndere contu de sa bellesa e s’incantu, sonos, colores, boghes, mascheras, iscenas e sapores chi ‘aghene unu issenàriu ùnicu e onzi vorta diversu.


Sa Filonzana

Una gosa bella meda est a bìere sos crieddos minores chi a sa sola ‘aghene passos e movèntzias de sas màscheras mannas, atentos a su bestire e a sa caratza….. Custa est s’ispera chi su carrasegare nostru at a sighire galu po tempus meda, ca issos sunu sos testimonzos sentza l’ischire de unu ritu millenàriu, destinau a durare in su tempus e chi afundat da sas raighinas in sas orìzines de nois sardos, cun totu su gàrrigu de istòria, de ischire e de identidade. Custu est unu valore culturale de custoire ca no est solu de sos otzanesos ma de s’umanidade intrega. S’istudiosu e giornalista Giuseppe Della Maria in unu articulu de su 1959 at iscritu in custu modu: “Sventure, iatture, avversità e infelicità non hanno impedito agli ottanesi di conservare, amare e praticare il più genuino carnevale sardo. E domando: devesi questo riguardare come un antidoto naturale che ha iniettato agli ottanesi- per tre giorni consecutivi in ogni anno – purissimi antigeni di vitalità e di speranza, indispensabili fonti di esistenza e di luce? O questo carnevale è da stimarsi un congenito virus, atavico, peculiare a questa popolazione, stabile nel tempo e non labile agli anatemi e ai plasmodi?”.

www.comune.ottana.nu.it www.carnevaleottana.it www.merdules.it www.merdulesbezzos.org

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“...Il libro è altrove....” Genius Loci non è un libro, non nel senso comune del termine, eppure la citazione che appare in copertina ci è sembrata cosi calzante per i nostri intenti che l’abbiamo presa in prestito.

Genius Loci isn’t a book, not in the common meaning of the term, yet the quote that appears on the cover seemed so appropriate for our intentions that we borrowed it.

Qui dentro avete visto e letto di cibo, tradizione, natura, d’arte e di musica. Avete letto dialetti cosi lontani dalla lingua nazionale da divenire un’altra lingua, avete intuito che la Sardegna è un universo dalle forme complesse, fatta di gente moderna e arcaica allo stesso tempo. Dunque guardate, leggete e emozionatevi se volete, ma la Sardegna non è qui dentro, è altrove.

Inside here you have seen and read about food, traditions, nature, art and music. You have read dialects so far away from the national language that they seem totally different. You have had an insight into the fact that Sardinia is a universe with complex forms, made up of people who are at the same time modern and archaic. So look, read and get excited if you want to, but Sardinia isn’t inside here: it’s elsewhere.

Scopritela.

Discover it.

foto© pepeperalta|sardigna

“…the book is elsewhere…”


the new perspective

Per la tua pubblicitĂ su Genius Loci w w w. s ti l no v o d es i g n . c o m | i n f o @ s ti l no vodesign.com 0789 27 079 | 328 79 65 736



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