AEOLO - Vol. II

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Fondatore/Direttore: Enrico Santus Vice direttore: Valentino Chinnì Redazione: Cecilia Barletta (AEOLO II), Sara Buscio, Luca Caproni, Valentino Chinnì, Francesco Chiofalo, Silvia Litterio, Enrico Santus, Valeria Venuti (AEOLO I) Autori: AUTORI VARI Logo e locandine: Alessandro Russo Copertine: Renata Schiavo (AEOLO I) e Alessandro Russo (AEOLO II) Progetto editoriale carteceo/web: Enrico Santus Impaginazione e revisione: Redazione © 2009 by Edizioni Il Campano - Pisa ISBN 978-88-88506-47-0 info@edizioniilcampano.it www.edizioniilcampano.it

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Rivista letteraria ed oltre

Sommario EDITORIALE .............................................................................. 5

VENTO: LA FINESTRA IL PAESE NEL FINESTRINO (V . CHINNÌ) .................................. 11 TONALITÀ (O. MALATO) ........................................................ 21 LA FINESTRA SUL CORTILE DI CARTAPESTA (D. ROSSI) ......... 26

BUFERE RECESSIONE UNIVERSITARIA (S. BUSCIO) ............................. 38 ZIO PAPERONE E LA TRUFFA METONIMICA (G. CRIPPA) ........ 53 SUGGERIMENTI E INFERENZE (E. SANTUS)............................. 61 LE “BESTIE” DI TOZZI (E. SARDELLARO) ............................... 66

SPIFFERI PAROLE NON DETTE NEL TRENO DA NAPOLI A MILANO, ESTATE 2008 (M. BATZING) ............................................................................... 75 BATTITO DI SALVEZZA (M. CHINNÌ) ....................................... 79 LE SCINTILLE DELLA GARFAGNANA (L. CAPRONI) ................ 80 NATALE (L. FANCIULLO) ........................................................ 85 PROGETTO NOTTE N. 2 (A. GIANNESE) .................................. 88 COSTA MACAUDA (F. LIOCE) ................................................. 89 LUNA RUFFIANA (F. LIOCE) .................................................... 90 TITOLO CRIPTATO (S. LITTERIO) ............................................ 92 CIELO DI ROMA (D. ROMAGNO) ............................................. 94 POESIA DI DOMANI (D. ROMAGNO) ........................................ 94 Torna una nuova notte (B. Sarri) ....................................95

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Aeolo

INTERVENTI DALLA LETTERATURA ALLA RIGENERAZIONE (C. BENEDETTI, A CURA DI CAPRONI/SANTUS) ................................................................... 98 L’ORDINE E IL DISORDINE (L. CAPRONI). ............................. 107 “LA VOCE” (A CURA DEL GABINETTO VIEUSSEUX) ............. 111

COLLABORATORI E RINGRAZIAMENTI .................................. 116

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Rivista letteraria ed oltre

Editoriale La finestra può essere qualcosa di metafisico o qualcosa di concreto; può essere semplicemente un simbolo o persino l’unica verità, in quanto unico spiraglio da cui osservare il reale. Uno dei temi proposti per questa seconda uscita era “I ruderi”, tema molto interessante e ricco di sfaccettature, se non fosse per il fatto che obbliga a guardare indietro, mentre Aeolo si è proposto fin dal suo concepimento di lanciarsi di petto sul futuro. E non un futuro lontano, ma un futuro immediato. Un futuro molto vicino al presente. Ed è proprio da una rapida analisi del presente che voglio partire in questo editoriale: il mondo sta vivendo una crisi economica peggiore di quella del ’29, sebbene apparentemente meno catastrofica. Molti economisti sono poco fiduciosi nella speranza di superare questo momento in tempi brevi: alcuni parlano addirittura di vent’anni. Io non sono un’economista e non ho grossi risparmi in banca da salvare, ma se questa crisi tocca l’istruzione, un bene fondamentale, allora tocca anche me. E duramente. Abbiamo assistito negli ultimi mesi agli atti di un governo poco acuto, nonché sordo e testardo; un governo che ha applicato dei tagli imponderati ad un’istruzione già claudicante, 5


Aeolo stroncando la gamba che ancora riusciva a malapena a sostenere l’enorme peso d’un corpo sbilanciato quale è quello dell’Università italiana. E cosa dire dell’opposizione: muta, assente, inesistente. Un Parlamento che approva una legge così delicata dopo solo nove minuti di discussione è un covo di incapaci, privi di ogni serietà. Mi pare dunque naturale che aumenti l’emigrazione dei nostri cervelli: Le nostre menti sono rondini che volano laddove splende la primavera ed il sole. Brillano alto in cielo. In Italia è rimasto solo l’inverno, con il suo grigiore ed il tanfo di chiuso. In verità ci sarebbe un modo per risorgere dalle ceneri come una fenice, ma costerebbe qualche sacrificio ed un radicale cambio di mentalità. Questo modo è la meritocrazia (da non confondersi con la plutocrazia), ossia il premiare chi merita, chi si impegna, chi gioca tutto sé stesso. Ma la politica che si sta attuando oggi non pare andare in questa direzione: piuttosto si pensa a punire che a premiare – specie laddove non è fondamentale farlo – il che non produce alcun feedback positivo. Dopo tutte queste delusioni, in compenso, abbiamo assistito a qualcosa di incredibile, di potente, di devastante: la mobilitazione della gente. Migliaia di persone – non si vedeva dal ‘68 – sono scese in piazza col sorriso sulle labbra a gridare la 6


Rivista letteraria ed oltre loro libertà nelle maniere più originali. C’era chi portava un cartello, chi cantava uno slogan, chi era vestito da qualcosa o da qualcuno, chi chiacchierava col vicino, chi si arrabbiava e chi sorrideva. C’era chi faceva lezione all’aperto e chi ascoltava la lezione, chi prendeva appunti e chi si era svegliato tardi. C’erano tutti, come tutti i giorni all’Università. E c’era anche Aeolo, coi suoi redattori in prima fila nella protesta. A poco è servito il tentativo della nostra classe dirigente di screditare “l’Onda”, come è stata definita dai media, attribuendole le caratteristiche di una tendenza passeggera, già pronta a recedere nella risacca. Sebbene anche i numeri varino a seconda delle bocche che li pronunciano, le fotografie parlano chiaro: erano tanti. Persino Cossiga ha voluto dire la sua: lo ha fatto più di una volta, sostenendo che si dovesse lasciare infiammare quest’Onda per poi reprimerla con la forza. Ha augurato persino il morto, il nostro ex Presidente, per accaparrarsi il sostegno dell’opinione pubblica. Mi piacerebbe ricordargli che egli siede su una poltrona a rappresentare tutti noi, persino il morto che ha augurato. Di tutto ciò si parla nel secondo numero di Aeolo, ma non solo. Si parla anche di esili, di potere, di capitalismo, di letteratura, di inferenze, di Pasolini, di razzismo, di ricordi, di

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Aeolo storia, di ordine, di disordine, di speranza e, soprattutto, di Rigenerazione. E allora, che si apra la finestra in questo paese soffocante, che cambi l’aria e le persiane possano sbattere d’un vento nuovo. Londra, 2008-12-01 Enrico Santus

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Vento:

La Finestra

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Veneziana di Luca Caproni.

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Il paese nel finestrino Diario di un esiliato in patria

di Valentino Chinnì La storia di tutti gli esili inizia sempre da un ritorno. Di solito è un ritorno mentale alla terra appena lasciata, una rievocazione nostalgica di luoghi e situazioni, che si manifesta con ricordi, bilanci e tutto il rammarico per gli errori commessi e per quelli non commessi. Questo vento di pensieri è lo stesso vento che scompiglia i capelli di chi è stato esiliato, mentre seduto accanto al finestrino del treno, guarda la propria città allontanarsi. Il mio esilio invece inizia con un ritorno vero, reale. Uno di quelli che non hanno bisogno dell’immaginazione per vedere la terra natia e non si servono dei ricordi per visualizzare i vecchi amici. Sceso dal treno i miei occhi, avidi di novità e cambiamenti, divoravano la stazione misurandola e confrontandola all’ultima volta che l’avevo guardata, dicendo addio al mio paese, il giorno in cui ero partito. Tutto era identico, e pensai che aveva ragione quel filosofo che diceva “nel cerchio, un medesimo punto è l’inizio e la fine”. Tutte le persone erano dove le avevo lasciate, nella stessa posa, con le stesse espressioni. Il tabaccaio era sempre lì, con la sigaretta che pendeva da un lato delle labbra, infastidito e ubriaco, come era stato il giorno in cui, anni prima, gli avevo chiesto un biglietto per il treno che mi avrebbe portato a Reggio Calabria e, da

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Aeolo lì, altrove. Il proprietario del bar vicino alla stazione, col suo cappello da gangster degli anni ’40, era ancora lì a combattere, senza mai vincere, contro chi non aveva nessun cappello ma era gangster nel cuore. Le strade, le case, i negozi erano al solito posto. Ebbi un brivido di gioia, una meschina felicità che mi fece pensare che forse lì non mi ero perso niente, perché nel mio paese “non era mai successo niente e mai sarebbe successo qualcosa” o almeno questo era ciò che molti ripetevano. Ma non era vero, lo sapevo, e pensai che anche la mia memoria fosse diventata omertosa: voleva negare il ricordo di alcuni fatti di cui ero venuto a conoscenza, leggendo i giornali, a migliaia di chilometri di distanza. Erano tutti avvenimenti vergognosi: omicidi, disastri ambientali, sparatorie da far west o scandali politici e sanitari. Mai, nei miei giorni di lontananza da casa, mi ero riconosciuto in quegli episodi pur avendoli visti quando abitavo qui; mai mi era sembrato giusto che questi eventi facessero parte della mia vita, perché li avevo sempre negati a me stesso. Cercavo il buono nei miei paesani, nelle mie tradizioni e lo ritrovai per un istante quando, camminando dalla stazione verso casa, vidi davanti ad un bar due amici che litigavano bonariamente per decidere chi dei due dovesse pagare i caffè che avevano appena bevuto. Pensai alla faccia stupita che aveva fatto un toscano, anni prima in un bar di Pisa, quando io gli offrii un cappuccino e lui confuso non si spiegava il perché. Ci vuole un motivo per offrire un caffè? Una festa, una ricorrenza, il tuo compleanno? No, offrire un caffè è solo una cortesia, il mio popolo la pensa così.

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Rivista letteraria ed oltre Una volta entrato in casa abbracciai i miei genitori, che ogni volta mi sembravano più fuori luogo in questo clima. La loro dedizione al lavoro, la repulsione per la corruzione, la civiltà erano caratteristiche difficili da difendere in un paese come questo. Li vidi più invecchiati del solito, con un’inquietudine che è la consapevolezza di vivere in un mondo al di sotto delle proprie aspettative e delle proprie qualità. Dopo una rapida chiacchierata decisi di andare a cambiarmi, ed emozionato come l’archeologo che scopre la tomba del faraone, entrai nella mia stanza. Rividi i miei libri, coi quali avevo passato anni felici, e quei muri colorati di azzurro come se fossero un mare, un cielo anzi. Fra quei muri avevo scoperto una serie di mondi diversi tra loro, che mi avevano cambiato e mi avevano fatto diventare quello che sono. I miei fiori del male erano sbocciati qui; i primi versi di De Andrè li avevo conosciuti attraverso questo stereo; da questo letto partirono i miei cent'anni di solitudine. Qui avevo provato tante volte l’ebbrezza, quella sana dell’arte e del sesso, e quella insana (ma ispiratrice) dell’alcool, che mi costringeva ad aggrapparmi al letto quando la stanza ruotava, dopo aver bevuto come un dannato, affogando nelle mie preoccupazioni di adolescente. Qui i miei sogni di romantico depresso e idiota mi avevano lacerato lo stomaco quando avevo diciassette anni. - Se esiste un luogo sulla terra che posso chiamare casa – pensai - è questa stanza -. Ma mi risposi subito - Che tristezza! Una volta avevo deciso che non avrei avuto una casa, se non come punto di partenza, perché il mondo sarebbe stato la mia dimora -. Ricordavo a me stesso una frase che avevo letto in un libro di Bruce Chatwin

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Aeolo che racchiudeva questo concetto in modo perfetto: “la casa è solo un posto dove appendere il cappello”. Quante volte l’avevo ripetuto e quante volte avevo scoperto che non è vero! - Ma allora cos’è la casa? - pensavo ancora - Qual è? Forse è il posto dove si nasce? No, perché nascere è un fatto biologico e non ti lega alla terra (a meno che tu non sia un vegetale, ovviamente). Allora è dove si sta bene? Neanche, perché si può stare bene in più luoghi senza sentirsi mai a casa. Allora è, forse, la terra dove è nato, cresciuto e morto tuo padre? Bisogna vedere chi è tuo padre, per te -. Non trovavo una definizione, perché la consapevolezza di stare a casa è un sentimento, e i sentimenti sono ostili alle definizioni. Fra questi pensieri mi misi a fare colazione. Presi dei dolci, ma il mio occhio cadde su del pane secco e pensai di fare una colazione salata: salsiccia, formaggio e un bicchiere di vino. Che delizia e che senso di appagamento! Pensai che un buon calabrese come me si sente a casa solo quando è a tavola. Ho detto “calabrese”, perché è l’unica certezza che ho e mi stringo ad essa, pur sapendo che il mio è un amore incondizionato per la terra ma spesso titubante verso gli abitanti. Amo questo mare infatti, ma non chi ci si tuffa senza ascoltare il rumore delle onde; amo questi monti aspri e selvaggi ma non chi li brucia durante l’estate, li inquina a ferragosto e li dimentica per il resto dell’anno; mi affascinano i paesi abbandonati e antichi che campeggiano, arroccati in luoghi inaccessibili, sulle alture, ma non posso tollerare chi dice “Che ci vai a fare lì? ... lì non c’è niente”. Poveretti. Questo popolo non ha più un’anima e io non lo amo più, così come forse lui non mi ha mai amato.

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Rivista letteraria ed oltre Come potrei amarlo? Come potrei vantarmi, infatti, di avere un concittadino ndranghetista? Ma non è neanche il boss il mio problema, perché è soltanto uno. Mi chiedo, allora, come potrei essere orgoglioso di vivere in una terra che permette ad un boss di esistere; in una società corrotta dal lato politico e dal lato culturale; un paese fatto di pecore brave soltanto a vestire bene, che di fronte ai criminali sorridono e si inchinano, che non hanno energia, entusiasmo, voglia di vivere. Un gruppo di persone che si lasciano sopravvivere, e deridono e disprezzano chi non è come loro. Forse sarebbe stato giusto rimanere qui, e cercare di cambiare le cose come hanno fatto le generazioni passate, come hanno fatto i miei genitori… Ma io sono fuggito per amore. Già, perché non bisogna necessariamente vivere in una terra per amarla, bisogna difenderla, spiegarla agli altri e, se non si risolve nulla, bisogna sognarla. Che senso ha viverci sopra e non capirla? A che serve vederla ogni mattina se poi la si distrugge? Ho sempre pensato che nell’Odissea il personaggio che ama di più la sua terra, che rinuncia all’immortalità per poterne baciare le aride pietre, è proprio il personaggio che per più tempo rimane lontano da essa. E non è forse più patriota Odisseo dei Proci e dei loro scagnozzi, che divorano Itaca come una coscia ben cotta di capretto pur vivendoci, pur dipendendo in qualche modo da essa? Io credo di sì. E se è vero che il mio spirito è per ascendenza greco, forse può cogliere un sentimento di Omero, che millenni prima della mia nascita aveva pensato proprio ad un amore “di lontano” per una

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Aeolo terra il cui cuore puoi raggiungere solo attraverso viaggi infiniti e tribolazioni epiche. Dopo la mia colazione iperproteica feci una doccia e misi in ordine i miei vestiti. Aspettavo qualche telefonata così passeggiai annoiato per casa e fumai senza sosta davanti alla finestra, ascoltando la musica preferita di mio padre. Beethoven riempiva la stanza da un’altra dimensione. Quella del ricordo, o del sogno forse, che poi sono la stessa cosa. La malinconia di quella Suonata al chiaro di luna, ascoltata in pieno giorno davanti ad un cielo azzurro e ad una luce gialla che illuminava il mondo, non strideva col mio sentimento di ritornato. Sentivo una desolazione notturna per tutta la bellezza in penombra di questa terra. Una delusione per tutto ciò che potrebbe essere. E non è. E non sarà mai. Non mi sono mai aspettato né ho preteso che questo fosse un paese di eroi ma avrei voluto solo che non fosse un paese di vigliacchi, nella sua generalità. Ma non vigliacchi come si potrebbe pensare: non parlo di omertà, perché ribellarsi all’omertà è un proposito idiota, che solo chi non sa un cazzo del meridione può pronunciare senza sentirsi un cretino. Perché l’omertà è una condizione di paura e non si vuole capire che nessuno si sente in condizione parlare perché nessuno si sente protetto. L’omertà non è la vittoria della ndrangheta, è la sconfitta, l’ennesima, dello Stato nel meridione. Bisogna togliere la paura, fornendo i mezzi per combatterla, non aspettarsi che non la si provi. Se un gladiatore tremasse nell’arena vedendosi un leone affamato a un metro di

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Rivista letteraria ed oltre distanza, voi cosa fareste? Gli togliereste la spada, e pretendereste il suo eroismo suicida, o gli dareste uno scudo? No, la vigliaccheria di cui parlo è diversa dalla paura, sentimento umano e, oserei dire, nobile. Parlo di un servilismo tutto italiano e in particolare meridionale, il servilismo riassunto in un proverbio calabrese che è una filosofia di vita: “Curcati iuncu c’a jiumara passa” (Coricati giunco che il fiume passa). Il modo migliore per zittire le coscienza individuali: quello di farle sentire sole, impotenti. Mi piacerebbe capovolgere questo proverbio: “Alzati giunco, che il fiume non passerà”. Perché tu non lo farai passare. Ma la mia disperazione di oggi è, in fondo, frutto proprio di questa rassegnazione millenaria, di questa cultura alla quale ho cercato di sottrarmi, che critico pur sapendo che è scritta nel mio sangue. Il mio è solo l’urlo strozzato, muto, rabbioso di una persona delusa e nauseata perché non gli è stato concesso un luogo dove sentirsi più libero che altrove. Un luogo che puoi chiamare “casa” senza dover spiegare niente, senza giustificarti, senza dover dire “Ma io non sono così…”. Mi allontanai dalla finestra. La Sonata al chiaro di luna era finita. È passato un mese da quando sono arrivato. Molti amici non sono più amici, altri sono solo distratti, ma ho perso anche loro. Molti sorrisi non erano sorrisi ma smorfie di circostanza, espressioni studiate. Ci vuole una certa pazienza per non mandare a cagare il tuo interlocutore, e fingere anzi, di essere felice di vederlo, quando non ti cerca da un anno e di te non gliene frega nulla. Ma i

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Aeolo falsi sorrisi necessitano falsi sorrisi - è la loro lingua - così come un tedesco richiede che gli si parli in tedesco. Di queste amicizie antiche e raggrinzite non mi curo più anche se qualche legame pallido ma sincero è rimasto. Ho cercato altri legami nel mio ritorno a casa: ho goduto della compagnia dei miei genitori e delle mie nonne; ho rivisto come un fantasma gentile l’ombra di mio nonno che sorride; come un fantasma triste lo sguardo di mia cugina; ho parlato il dialetto, l’unica ricchezza che mi porto per il mondo; ho sentito il profumo del bergamotto e sfiorato le spine dei fichi d’india; mi sono abbandonato a passeggiate notturne sulla spiaggia; ho rivisto le mie montagne vertiginose. Ho ammirato questa terra, che mi strega ogni volta, solo per posarmi un pugnale sul petto e affondarlo fino all' anima, guardando questa bellezza incomprensibile e incompresa. Ma già domani si parte, si fugge da questa angoscia. - Che spirito da disertore! - penso spesso di me - e che destino da esiliato: esilio spirituale in patria, esilio spaziale nelle patrie altrui -. Ora aspetto il momento in cui salirò sull’ennesimo treno, e mi siederò sulla mia poltroncina unta. A quel punto l’immagine di questo paese sarà dove le spetta, dentro il finestrino, come irreale e lontana. Come una brutta cartolina viva. E la guarderò, panorama distante, col mento appoggiato al pugno chiuso, sbirciando le case scorrere lentamente. Farò questo solo per ingannare il tempo, per non cadere nella noia, non per salutare. Quando poi sorpasserò la prima curva della costa, e non avrò più nulla da guardare, mi potrò abbandonare ad altri pensieri. Ma non tornerò, nostalgico, alla mia terra, come fanno gli altri esiliati. Mi concederò dei sogni, per

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Rivista letteraria ed oltre vedere il mio popolo come vorrei che fosse, e i miei luoghi scintillanti nella loro bellezza. PerchĂŠ se non posso difenderla, nĂŠ spiegarla, almeno mi resta di sognarla.

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Akagras di Francesco Chiofalo. La complessità , a volte, si nasconde alla fine di un tunnel (ma è luminosa) di Marina Abatista. 3

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Tonalità di Orfeo Malato Non riesco a prendere sonno, le mie lenzuola bruciano per la calura estiva. Non ha senso continuare ad agitarsi nel letto: infilo le pantofole e a tentoni raggiungo la finestra. Mi piace guardare fuori durante la notte e cogliere i pochi segnali di vita presenti. Sembra che il mondo sia immerso in una bolla di sapone, in una spazialità acronica, un fermo immagine senza suoni e colori. Sono attratto da una finestra illuminata, poco distante dalla mia casa. Non sono l’unico che non riesce a dormire… Cerco di guardare con più attenzione, attraverso la patina che ricopre i miei occhi assonnati: un ragazzo sta guardando nella mia direzione. Accendo la luce e accenno un sorriso: lui ricambia salutandomi con la mano. Al suono della sveglia apro gli occhi e vedo il soffitto bianco della mia stanza: probabilmente sono tornato a letto dopo avere interagito con un fantasma… Mi precipito alla finestra e la spalanco: l’altra è chiusa. E lo resterà per tutta la giornata. All’arrivo della notte ho un solo pensiero che girovaga nella testa. La mia finestra sembra essersi trasformata in un passaggio per un’altra dimensione. Mi avvicino di nuovo, con una sorta di timore nell’animo, e poggio dolcemente una mano sul vetro: il 21


Aeolo ragazzo è nella stessa posizione della notte precedente. Afferro un foglio bianco e una penna nera dalla scrivania e dopo avere scritto appoggio la carta al vetro. “Ciao… Anche tu non riesci a dormire?” Utilizzando lo stesso metodo mi risponde: “Sono affascinato dal cuore bruno della sera.” “Vuoi uscire per una passeggiata?” Poco dopo stiamo camminando in pigiama e pantofole per i vicoli del centro storico. Le antiche architetture cittadine, silenziose e cupe, ci avvolgono, costituiscono lo sfondo indistinto del nostro incontro. Si inseriscono poche parole nella nostra conversazione intrisa di gesti e sguardi: il linguaggio si è ribellato da tempo ed entrambi siamo alla ricerca di una diversa possibilità di comunicazione. Ci fermiamo a sedere sul bordo di una fontana, che noncurante continua a zampillare, incantati dalla purezza della luna. Mi fermo a guardare il suo volto: i capelli arruffati che cadono sugli occhi in ciuffetti scomposti, lo sguardo intenso, ipnotico, le labbra carnose, morbide. Appoggio la mia testa alla sua spalla e chiudo gli occhi, con il desiderio di bloccare lo scorrere del tempo per l’eternità.

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Rivista letteraria ed oltre Un leggero tepore investe la mia guancia: il primo raggio di sole di un nuovo giorno. Sono disteso su un fianco sul bordo della fontana. Sono solo. La città dorme ancora e io non posso fare altro che tornarmene a casa e attendere, dopo un più lungo giorno, un’altra notte nella quale ricercare una possibilità di salvezza. *** Non riesco a comprendere quello che sta succedendo. La sua casa sembra disabitata, ma nella notte sboccia un fiore, effetto di un incantesimo seducente. Decido d’impulso di non pensarci a lungo: ho già sprecato troppo tempo a rincorrere chimere irraggiungibili. Vagando per le strade della città, tra le travature architettoniche colossali, immerso nel torpore della sera, alzo gli occhi verso una fonte di luce che li ha offesi: sopra di me si trova un’insegna al neon, “Tonalità”. Dopo un primo giro di martini bianco, mi sto già muovendo con la folla, seguendo il ritmo della musica e dei colori. Ballare insieme ad altri, sulle stesse note, colpiti dalle stesse luci, in cerca delle stesse sensazioni, mi offre quella serenità della quale sento di aver bisogno, e mi rende parte attiva e comunicante del cosmo. Le luci colorate, pastelli elettrici e metallici, raggi nella penombra che intermittenti illuminano per un attimo i corpi, accompagnano nella mia mente la nascita di fantasie pittoriche. Riconosco i suoi lineamenti su ogni volto, il suo tono di voce in 23


Aeolo ogni suono, la sua gestualità in ogni movimento. Finché non incrocio i suoi occhi, e tutto si ferma di colpo. Cerco di raggiungerlo raccogliendo tutte le mie forze, avanzando fra i corpi, schivando cocktail, immerso nella corrente cromatico-musicale, ma ogni volta che mi sento più vicino l’altro viene condotto lontano dal flusso in continua evoluzione, l’eterno movimento. Il mio campo visivo torna a essere vuoto. E ogni cosa riprende a essere sfocata, un’istantanea scattata da mani maldestre e tremanti. La gocce che scendono fitte costituiscono la trama del mantello della notte, sostituiscono le stelle. Arrivo sotto la porta di casa con fatica, intensamente provato dalla pioggia torrenziale, dal freddo improvviso, dalla solitudine che toglie il respiro costantemente per restituirlo soltanto un attimo prima dell’abisso. Quando un abbraccio mi stringe: a poco a poco vengo pervaso dal calore, dall’energia che intende proteggermi, dall’emozione descrivibile soltanto ricorrendo alle ali di una farfalla – impalpabile, silenziosa e allo stesso tempo intrisa di sfumature di colore che formano arabeschi cangianti. In un momento, per un meraviglioso attimo, il futuro compie un percorso controcorrente, giunge al presente e diventa materia plastica, modellabile dalle nostre mani: il nostro battito vitale inizia a viaggiare sulla stessa frequenza. I colori e i suoni offrono nuova vita al nostro destino e permettono una diversa possibilità di espressione e di narrazione: il fantasma ha 24


Rivista letteraria ed oltre acquisito consistenza nella dinamica delle tonalità , per non lasciarla mai piÚ. La pioggia adesso è soltanto una piacevole colonna sonora; le stelle scintillanti siamo noi

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La finestra sul cortile di cartapesta di Dario Rossi Il rapporto quasi parassitario che lega il cinema di Brian De Palma a quello del grande padre Alfred Hithcock è notorio e pressoché proverbiale. Nel cammino che dagli esordi in odore di godardismo lo ha portato a bazzicare con ostinazione il cinema di genere – pura forma priva di contenuto e, in quanto tale, libera – De Palma ha trovato in lui ben più che una guida; per dirla con le sue parole: «Per me, Hitchcock è come una grammatica. Quando prendo alcune delle tecniche registiche di cui lui è stato maestro e le uso, non faccio altro che servirmi di un dizionario»4. La questione, certo, non è solo tecnica: la sua opera è permeata su tutti i livelli da quella di Hitchcock, e se ogni suo film ne vive l’influenza, è proprio nei thriller più personali, sceneggiati da De Palma stesso5, che la coscienza del modello diventa consapevolezza critica e propositiva, si fa rielaborazione.

4 Intervista citata in G. Canova, Il discepolo voyeur di Hitchcock, in “Letture” n. 540, ottobre 1997. 5 Nello specifico: Sisters (Le due sorelle, 1973), Obsession (Complesso di colpa, 1976), Dressed to kill (Vestito per uccidere, 1980), Blow out (1981), Body double (Omicidio a luci rosse, 1984), Raising Cain (Doppia personalità, 1992), Snake eyes (Omicidio in diretta, 1998), Femme Fatale (2002).

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Rivista letteraria ed oltre Lo spazio che intercorre fra Hitchcock e De Palma è quello che separa ineluttabilmente la modernità dalla post-modernità, l’ingenuo entusiasmo degli sperimentatori dalla freddezza intellettuale degli analisti. Non è possibile guardare De Palma senza aver visto tutto Hitchcock, come non è possibile capire Lacan senza aver letto tutto Freud. Proprio perché non si tratta di “rifacimento”, di riproposta attualizzata del plot, bensì di “lettura critica” del testo come macchina produttrice di senso.

Se l’affermazione è brillante e rivelatrice, non mi sembra di doverla accogliere in pieno: il concetto di postmodernità, ormai in qualche modo logoro e contraddittorio, pretende una intertestualità estesa e onnicomprensiva, un riverbero continuo tra le opere della Biblioteca di borgesiana memoria a ridurre la portata dell’espressione individuale; qualsiasi nuova opera d’arte nulla è se non un abile incastro di moduli preesistenti, patchwork mirabile e un po’ vacuo. Il caso di De Palma mi sembra piuttosto ricordare l’ottusa e straordinaria dedizione con cui i petrarchisti montavano e rimontavano lessico e figure del Petrarca in sempre nuovi e sempre uguali componimenti: l’adesione al modello, l’introiezione dei suoi strumenti, è totale e consapevole, la combinatorietà è ristretta pressoché ai pezzi che provengono da una stessa fonte, da un singolo corpus, da un preciso scaffale. Ma proprio questa forma di concentrazione gli assicura, forse paradossalmente, la più completa libertà d’uso: la semplice combinazione di elementi diversi fa scaturire nuovi sensi, stravolge quelli assodati e in più casi arriva a una incredibile presa di distanza dalla stessa poetica hitchcockiana di partenza. Nello specifico, nei

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Aeolo casi esemplari di Sisters (Le due sorelle) e Body double (Omicidio a luci rosse), l’ibridazione del modello costituito da Rear window (La finestra sul cortile) con in un caso Psycho (1960) e nell’altro Vertigo (La donna che visse due volte, 1958), fa deflagrare il nucleo di quel film – così emblematico all’interno della riflessione hitchcockiana sul cinema e lo sguardo – portandolo alle estreme conseguenze. Rear window6: psicopatologia dello stare alla finestra. La finestra sul cortile è ciò che resta a Jeff, fotoreporter d’assalto, di quel mondo che esplorava nei suoi mille servizi giornalistici: immobilizzato a casa da una gamba ingessata in un’epoca a scarso impatto televisivo e multimediale, si limita a esercitare il teleobiettivo in quella sorta di mondo in miniatura che è il cortile su cui si affaccia la sua finestra, divenuta così unica interfaccia con il reale. Il parallelo col cinema è evidente e ogni elemento di messinscena guida lo spettatore alla completa identificazione e complicità con Jeff7: la mdp non esce quasi mai dall’appartamento,

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Un fotoreporter, immobilizzato a casa da una gamba ingessata, passa il tempo osservando dalla finestra la vita dei vicini. Si convince che uno di questi abbia eliminato la moglie, e con qualche difficoltà arriva a convincere anche la fidanzata Lisa, l’infermiera che lo cura in casa e, da ultimo, un suo amico tenente di polizia. Questo non gli eviterà un confronto con l’assassino che, pur portando all’arresto di quest’ultimo, gli costerà un’altra gamba ingessata. 7 F. Truffaut nella celebre intervista a Hitchcock sottolinea la similarità tra l’immobilità di Jeff e quella dello spettatore al cinema, dove l’unico movimento è

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Rivista letteraria ed oltre e la visione sul cortile è – tranne nella scena chiave dell’uccisione del cagnolino – sempre coincidente con la soggettiva dalla finestra. Non c’è differenza tra il voyeurismo che ci spinge a spiare i vicini e quello che ci porta a guardare un film. Il giudizio sullo sguardo è però ambivalente se non ambiguo: da una parte infatti ha un valore conoscitivo e salvifico, portando alla cattura di un assassino, d’altra parte non viene meno mai la consapevolezza di una morbosità di fondo, sanzionata verbalmente dall’ironia dell’infermiera e fisicamente, con una punta di sadismo, dalla punizione finale di Jeff – un’altra gamba rotta. Ma c’è un altro livello, smaccatamente cinematografico, in cui la politica voyeuristica è assolta e persino caldeggiata: ogni singola storia del vicinato non è altro che una disamina dei gradi del rapporto amoroso (Miss Cuore Solitario, i due sposini, lo stesso rapporto tra l’uxoricida e la moglie…), e in essi Jeff trova spunti per riflettere sulla propria condizione, che lo vede inguaribile scapolo restio a sposarsi con l’innamoratissima fidanzata; l’occhio sul cortile, e la disavventura anche rischiosa8 che ne consegue, lo porterà a sciogliere questo nodo emotivo. Il voyeurismo trova una valvola di sfogo nell’innocua riproduzione cinematografica: attraverso di esso gratifichiamo la nostra curiosità, impariamo qualcosa sul mondo spiandone una piccola parte, confrontiamo la nostra esperienza di vita con quelle quello empatico e cognitivo. F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Nuova Pratiche, Milano 1997, pag. 181. 8 In essa Lisa, dimostrando le sue doti di adattamento e di coraggio corsaro, si candida a moglie perfetta, per altro contrapponendosi con il suo spericolato agire alla sostanziale immobilità di Jeff, condannato al solo guardare.

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Aeolo che ci appaiono sullo schermo. Che sia un compromesso di giudizio è palese, e proprio di questa nervosa ambiguità il film si nutre, restituendolo in piacere visivo e effervescenza di pensiero.

2. Sisters9: gli eccessi dell’identificazione. Al primo film di genere, dopo i tentativi più autoriali, De Palma paga subito il dazio al maestro, imbastendo un thriller violento basato sull’intersecarsi delle trame di Psycho10 e Rear window. All’esplorazione della devianza mentale si affianca quindi 9

Danielle, dopo aver subito un intervento per separarsi dalla gemella siamese Dominique, ha introiettato la personalità di quest’ultima, morta per le conseguenze dell’operazione. La personalità violenta, rappresentata da Dominique, la costringe a uccidere un uomo. All’omicidio assiste, dalla finestra di fronte, una giornalista che, dopo aver cercato di convincere la polizia, decide di investigare da sola, ma finisce nelle mani dello psichiatra ed ex marito di Danielle che la droga e la ipnotizza, provocandole una serie di visioni in cui la giornalista arriva ad identificarsi con Dominique. La polizia interviene all’ultimo e riesce ad arrestare Danielle proprio mentre uccide l’ex marito, ma il blocco psichico creato dallo psichiatra non permette alla giornalista di testimoniare sul primo omicidio. 10 Marion fugge dopo aver rubato quarantamila dollari sul posto di lavoro. Si ferma in un motel gestito da Norman, bizzarro giovane oppresso dalla figura della madre. Mentre si fa una doccia, Marion viene accoltellata dalla madre di Norman. La sorella e il fidanzato di Marion si affidano a un detective che, giunto al motel, viene anch’esso ucciso dalla signora Bates. I due giungono infine al motel, dove scoprono che il vero assassino era Norman: sconvolto dalla morte della madre che aveva lui stesso ucciso e impagliato, ne aveva assunto la personalità fino al punto di travestirsi da donna prima di compiere i delitti.

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Rivista letteraria ed oltre la riflessione sullo sguardo; ed è anzi la finestra il vero perno del film, intorno al quale la storia compie una torsione, pur senza che essa abbia la centralità programmatica del film di Hitchcock. Come in Psycho, infatti, il film presenta un lungo prologo depistante, focalizzato su un personaggio che, di fatto, non sarà il protagonista; ma se in Psycho questo personaggio era la prima vittima, qui è invece l’assassino, ovvero la superstite delle Due sorelle11. L’empatia quindi, se in un caso coinvolgeva più tradizionalmente un’innocente, nel caso di Sisters ricade invece sull’assassina psicotica, che guadagna una colpevole comprensione da parte del pubblico. Ma il momento stesso dell’omicidio è il punto di svolta del film che, attraverso la membrana ottica della finestra, passa a focalizzarsi sulla testimone dell’efferatezza, una cocciuta giornalista12. Da questo momento in poi De Palma non tornerà a concentrarsi sul personaggio di Danielle, ma farà tesoro dell’empatia accumulata nel prologo per costruire uno psicodramma dell’immedesimazione: la giornalista condivide infatti col pubblico quella forma di voyeurismo morboso di chi ha assistito a un omicidio, sviluppandone però una versione deviata, una pericolosa identificazione col carnefice. 11

In questo è invece molto fedele al modello l’altra rilettura depalmiana di Psycho, Vestito per uccidere. 12 Sia detto di passaggio che, già nel prologo focalizzato su Danielle e ben prima dell’omicidio, si intravede la giornalista intenta a spiare nell’appartamento della ragazza, preannunciando in modo per nulla innocente un’attitudine voyeuristica di partenza che prefigura e legittima la creazione di quel cordone ombelicale psichicamente organico che la salderà, nell’allucinato prefinale, a Danielle.

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Aeolo Su di essa fa leva il cocktail di ipnosi e medicinali dello psichiatra, costruendo quel delirante teatrino onirico – con un occhio all’espressionismo tedesco – che nel finale offre allo spettatore una agghiacciante versione della storia delle gemelle siamesi, dove la giornalista interpreta la parte di Dominique, che è sì la sorella deceduta, ma anche la personalità malvagia di Danielle, quindi la vera colpevole dell’omicidio. A riprova di questo, ciò che la giornalista ripeterà, inebetita, alla polizia – “È tutto abbastanza semplice, non c’era alcun cadavere perché non c’è stato nessun omicidio” – è certo la frase inculcatagli sotto ipnosi, ma anche la tipica forma di negazione che colpisce gli psicotici. L’ibridazione tra Psycho e Rear window permette a De Palma, attraverso il gioco dell’identificazione, di complicare e decostruire il consolante panorama hitchcockiano, dove non esiste più l’innocenza dello sguardo e tantomeno un valore fondativo di verità13. 3. 13

Body double14: l’occhio guidato.

Ed è persino la cinepresa, a mentire, quando durante il prologo riprende due ombre su un muro, materializzando Dominique accanto a Danielle; è la stessa cinepresa a ricreare quelle allucinazioni finali in modo talmente dettagliato e insistito da far dubitare lo spettatore su quale sia la vera storia di Dominique e Danielle Breton. 14 Jake, attorucolo affetto da claustrofobia, ottiene in prestito da Sam, un attore appena conosciuto, un attico; ogni sera, su consiglio dell’altro, con un telescopio guarda spogliarsi Gloria, ricca vicina di casa. Se ne invaghisce e si accorge che la donna è pedinata da un pellerossa; prende a seguirla anche lui, le parla, si baciano, ma qualche sera dopo assiste impotente alla morte della donna per mano

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Rivista letteraria ed oltre Nell’orchestrare l’innesto tra Rear window e il tema del doppio di Vertigo15, la riflessione meta-cinematografica di De Palma attua uno scarto notevole e si esplicita fin dal principio, da un titolo polisenso – Body double significa doppio, ma cinematograficamente sta per controfigura – e dall’ambientazione a Hollywood. Se già Judy in Vertigo era, metaforicamente, una controfigura, il personaggio di Holly lo è sotto tutti gli aspetti: il suo striptease prezzolato che Jake, spettatore inconsapevole, spia attraverso un dell’indiano. La polizia non gli crede. Per caso una notte Jake vede lo striptease di un’attrice porno, Holly, e la riconosce: era lei che si spogliava, ogni sera. Jake entra nel giro del porno per conoscerla, e viene così a sapere che era stata pagata, per quei numeri, da Sam; questi, marito di Gloria, l’aveva uccisa travestito da indiano, assicurandosi con Jake una testimonianza che sviava da lui ogni sospetto. Sam prova a seppellire vivi Jake ed Holly, ma dopo una colluttazione con Jake annega in un canale. Holly, che era svenuta perdendosi ogni rivelazione, si sveglia nella fossa scavata da Sam, non crede alla versione che gli racconta Jake e lo accusa di essere un pervertito necrofilo. 15 Scottie abbandona la polizia dopo un trauma che gli aveva scatenato una forma acuta di acrofobia. Un suo vecchio amico gli chiede di sorvegliare la moglie Madeleine che ha istinti suicidi; se ne innamora ma a causa delle vertigini non riesce a salire sul campanile su cui lei era salita e da cui la vede lanciarsi. Caduto in una forma di depressione, incontra per caso Judy, una donna che le somiglia incredibilmente: la corteggia, la fa vestire e acconciare come l’amata creduta morta. Quel che non sa è che è proprio la stessa persona, pagata dal marito di Madeleine per fingersi lei; a cadere dal campanile era stato il corpo della vera moglie, di cui egli voleva sbarazzarsi sotto forma di un suicidio simulato. Per un dettaglio Scottie capisce tutto, porta sul campanile Judy, vincendo le vertigini, ma la vede cadere nel vuoto, spaventata dall’improvviso apparire di una lugubre figura nell’ombra, in realtà una semplice suora. Distrutto, Scottie si affaccia dal campanile, ormai libero dall’acrofobia.

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Aeolo telescopio, rientra in una complessa operazione finzionale che il regista-demiurgo Sam costruisce con mezzi del tutto cinematografici. Ma soprattutto la controfigura in quanto falsa presenza, scambio impercettibile di persona, diviene incarnazione della finzione cinematografica, atto d’accusa all’affidabilità dello sguardo; nessuno crede alla versione di Jake, né la polizia né tantomeno Holly, la resa dei conti con Sam avviene lontana dagli occhi di tutti, per poi venire risucchiata insieme al corpo dell’uomo nei gorghi di un canale, riconsegnando a Jake una verità depotenziata perché non condivisibile. In confronto a questo la sua unica conquista, il superamento di quella claustrofobia che è imitazione e parodia della poderosa vertigine hitchcockiana, sembra davvero poca cosa. Si moltiplicano le similitudini di forma e di struttura, elementi hitchcockiani risemantizzati: l’idea di soggettiva, non più soltanto fulcro d’immedesimazione, ma tecnica che rende gli spettatori testimoni quanto Jake, chiedendo loro di credere ai loro occhi proprio mentre si compie l’inganno della controfigura, che da diegetico si fa meta-cinematografico; il carrello circolare sul bacio, dove lo sfondo della scena è proiettato non più per motivi tecnici16, ma solo al fine di esplicitare la finzione del trucco cinematografico, con l’effetto immediato di incrinare il patto di sospensione dell’incredulità; l’attico che si rivela quasi solo un set: non c’è nessuna altra casa vicino oltre quella di Gloria, il telescopio è già 16

In Vertigo Scottie bacia Judy nella sua stanza e, mentre il carrello li circonda, la stanza lascia il posto al campanile dove Madeleine si era suicidata, visualizzando il suo momento allucinatorio.

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Rivista letteraria ed oltre puntato sulla sua finestra; non c’è alcun microcosmo da osservare se la visione è pilotata: il valore di crescita emotiva, di confronto tra la propria e le altrui realtà è negato, niente si impara dal cinema che è soltanto finzione ossessiva e morbosa, rapporto unidirezionale e squilibrato tra regista e spettatore, rigorosamente dall’alto in basso. A Brian De Palma basta mescolare i diversi tasselli hitchcockiani, incrociarli e accoppiarli per terremotarne gli assunti teorici: proprio quelle funzioni positive della finestra-cinema – funzione di interfaccia, cognitiva ed empatica – subiscono un rovesciamento nel loro opposto antisociale; l’interfaccia si fa autismo, la verità diviene menzogna, l’empatia morbosità. Viene da chiedersi se fosse possibile una più precisa, meticolosa, filologica uccisione del padre.

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Il terrore di lasciar andare di Marina Abatista.

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Recessione universitaria di Sara Buscio Negli ultimi mesi le mobilitazioni contro la legge 133, inserita all’interno della Finanziaria 2009, hanno coinvolto moltissime università italiane, compreso l’ateneo pisano. Il processo di degradazione del sistema universitario è iniziato, però, molto tempo prima, già a partire dalla fine degli anni Novanta con la riforma Berlinguer, dal nome dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione. La riforma attuata il 3 novembre 1999 con decreto del Ministero (n 509) ha introdotto l’autonomia degli atenei e rinnovato i corsi di studio, introducendo la formula del 3+2 basata sul modello angloamericano. L’autonomia didattica ha consentito ai singoli atenei di stabilire gli obiettivi formativi caratterizzanti i corsi di studio, i criteri d’accesso, l’individuazione di forme alternative di didattica, le modalità di svolgimento di attività di curricula di tipo professionalizzante (come gli stage e i tirocini), le modalità della prova finale per conseguire il titolo di studio, la tipologia delle attività formative e il corrispondente numero di crediti formativi universitari (CFU), che consiste nell’associare ad ogni esame universitario un certo numero di crediti che ne stimano 38


Rivista letteraria ed oltre l’impegno richiesto. Per conseguire la laurea triennale o la laurea magistrale gli studenti devono conseguire rispettivamente 180 crediti o ulteriori 120. Questo sistema di crediti sostituisce la tradizionale differenza esistente tra “annualità” e “semestralità” e consente una semplificazione per quanto riguarda il riconoscimento di esami sostenuti in altre università italiane ed europee. La riforma, secondo il Ministro Berlinguer, aveva lo scopo di migliorare qualitativamente l’università italiana e di trasformare gli studenti da “passivi soggetti di imposta a parti di un accordo contrattuale” con gli istituti destinati alla formazione. Oltre a questo, la riforma voleva garantire ad ogni singolo ateneo la possibilità di costruire percorsi di studio adatti alle esigenze economiche e sociali delle singole realtà locali. I percorsi di studio progettati dalla varie università dovevano rispettare alcuni criteri generali, definiti a livello nazionale: per questo motivo attraverso vari decreti sono state introdotte le famose classi (42 di laurea e 104 di laurea specialistica, 4 di laurea e 4 di laurea specialistica per le professioni sanitarie , 1 di laurea e 1 di laurea specialistica per la formazione di ufficiali militari). Per ogni classe sono stabiliti gli obiettivi formativi comuni a tutti i corsi di studio attivati dagli atenei in riferimento alla medesima. La riforma ha portato ad una vera proliferazione di corsi di laurea (oggi sono circa 5550) e la ripartizione del 3+2 ha dato 39


Aeolo vita, soprattutto nelle facoltà di tipo umanistico, ad un iter di studio molto più lungo rispetto al passato. Il 25 ottobre del 2005 il Parlamento ha approvato il decreto legge sulla riforma dell’Università (legge n 230) promossa da Letizia Moratti, Ministro della Pubblica Istruzione tra il 2001 e il 2006. I contenuti della riforma riguardavano i ricercatori universitari per i quali tramontava l’ipotesi di una terza fascia di docenza: il ruolo a esaurimento. Le attività di ricerca nelle università, con questa legge, venivano realizzate da giovani assunti a tempo determinato con contratto di durata triennale rinnovabile per altri tre. Oltre a questo, si stabiliva che ai concorsi per Professori Ordinari e Associati potesse accedere solo chi era in possesso dell’idoneità nazionale (con una durata di 4 anni) e che i componenti della commissione di concorso venissero sorteggiati da un elenco nazionale valido per 2 anni. Nella formazione della suddetta commissione, venivano esclusi i docenti provenienti dall’ateneo che aveva bandito il concorso. Ai ricercatori, ai titolari di contratti e assegni, ai tecnici laureati e alle figure di “elevata professionalità” dell’area socioassistenziale e tecnico scientifica veniva attribuito il titolo di professore “aggregato”. Infine, tutti gli atenei potevano valutare le attività di ricerca e didattica realizzate dai docenti . La valutazione partiva solo su

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Rivista letteraria ed oltre richiesta dei professori e in caso di giudizio negativo, lo stipendio veniva congelato fino alla discussione successiva. Questa riforma ha suscitato aspre critiche da parte dei sindacati universitari, da gruppi di docenti e dalla conferenza dei rettori. Tra i motivi del dibattito c’è l’introduzione di elementi di precarietà nella carriera dei docenti universitari: viene abolito soprattutto il ruolo dei ricercatori, sostituito da un contratto triennale di insegnamento e ricerca rinnovabile una sola volta; inoltre la legge non stabilisce incentivi di rilievo per le facoltà e i dipartimenti che così non possono né migliorare né avanzare. Tre anni dopo, più precisamente il 6 agosto 2008, è stata approvata dal Parlamento la manovra finanziaria per il 2009 contenente il decreto 133 . L’articolo 66 del decreto cade come una spada di Damocle sull’università pubblica italiana, stabilendo un taglio dei fondi così distribuito: • 63,5 milioni di euro per l’anno 2009; • 190 milioni di euro per il 2010 • 316 milioni di euro per il 2011 • 417 milioni per il 2012 • 455 milioni di euro a decorrere dell’anno 2013 Per un totale di 1441,5 milioni di euro. 41


Aeolo Per sopperire all’improvviso ammanco di finanziamenti pubblici, lo Stato consente alle università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato. La delibera di trasformazione è adottata dal Senato Accademico a maggioranza assoluta ed è approvata dal Ministro dell’Istruzione di comune accordo con il Ministro dell’Economia e delle Finanze; la trasformazione viene attuata dal 1 gennaio dell’anno successivo a quello di adozione della delibera. In questo modo le fondazioni subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi e nella titolarità del patrimonio dell’università senza il pagamento di imposte. Il decreto stabilisce che ogni fondazione abbia autonomia gestionale, organizzativa e contabile con un bilancio stilato annualmente. La vigilanza su di esse è di competenza del Ministro dell’Istruzione e di quello dell’Economia. In caso di gravi violazioni di legge riguardanti la corretta gestione delle fondazioni universitarie da parte degli organi amministrativi, il Ministro della Pubblica Istruzione nomina un commissario straordinario con il compito di salvaguardare la corretta gestione dell’ente e di nominare entro 6 mesi dei nuovi amministratori dell’ente medesimo. È superfluo dire che con il passaggio delle università in fondazioni si decreta la fine di un sapere libero ed aperto a tutti, senza nessuna distinzione di ceto. D’ora in poi moltissime persone non potranno permettersi di pagare rette altissime e 42


Rivista letteraria ed oltre avranno un futuro limitato. Così facendo si lede uno dei principi fondamentali della nostra costituzione citato nell’articolo 33: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” e “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli organi e gradi”. E siccome le disgrazie non vengono mai da sole, la stessa legge nell’articolo 66 ha imposto una drastica riduzione del personale universitario e le stesse facoltà sono costrette a mandare in pensione chi ha maturato i requisiti necessari o licenziare parte del proprio organico. La logica vorrebbe una sostituzione nelle posizioni didattiche per mantenere l’offerta d’insegnamento, ma la legge 133 impone un turn-over bloccato al 20%: un nuovo assunto ogni cinque pensionamenti o licenziamenti (articolo 66 del decreto). H.G. Wells sosteneva che la storia umana è sempre più una lotta tra la cultura e la catastrofe, beh credo proprio che avesse ragione e non è difficile capire chi possa rappresentare oggi questi due poli: il primo vede scendere in campo tutti coloro che vedono bloccato il proprio futuro a causa di una legge fatta solo con calcolatrice e tabelle alla mano. In questo schieramento troviamo non solo i milioni di studenti che popolano le città universitarie di tutta Italia, ma anche i moltissimi precari che non hanno la possibilità di costruirsi una famiglia, di avere una stabilità economica e spesso sono costretti a fuggire all’ estero per migliorare le proprie condizioni di vita. Dall’ altra parte 43


Aeolo troviamo una nutrita schiera di avvoltoi che prendono decisioni per un popolo intero in una calda giornata estiva, quando tutti ormai sono in vacanza, impiegando solo 9 minuti di dibattito parlamentare e facendo leva sulla necessità di tagliare laddove gli sprechi sono maggiori. Nell’università esistono sperperi così come in altri luoghi, ma quello che forse sfugge ai nostri politici è che un taglio netto e non ponderato non è la soluzione adatta per risolvere i problemi, che purtroppo non sono pochi.

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I nuovi figli del ‘Bel Paese’ e della società dei consumi Analisi e commento de “I giovani infelici”, da Lettere Luterane di Pier Paolo Pasolini.

di Francesco Chiofalo Quando ho cominciato a leggere il mio primo libro di Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane per l'appunto, mi sono trovato davanti il saggio sull’infelicità dei giovani. Forse per gli ultimi avvenimenti di cronaca nera, sono stato folgorato dalla lucidità, dalla rabbia razionalissima dell’autore che dà una lettura tanto veritiera quanto terribile di una generazione di giovani italiani; mettendo in primo piano il pressante problema, già espresso da Gadda, sulla ‘colpa dei padri ’ che deve essere espiata dai figli e per la quale essi sono puniti. “Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti". La tematica esposta dall’autore nel primo paragrafo della sua Lettera, è una delle questioni più presenti nella tragedia greca 45


Aeolo classica: Laio sfida l’Oracolo di Delfi (e di conseguenza gli Dei) e per questo è punito in prima persona con la propria morte ed il figlio Edipo con lui è destinato ad un’esistenza di sofferenze; anche Agamennone è colpevole: secondo l’Elettra di Sofocle, di aver ucciso un animale sacro alla Dea Artemide e di essersi vantato di essere più bravo di lei nella caccia, mentre secondo Eschilo, nell’Ifigenia in Aulide, la stessa Dea è adirata con il re di Micene per lo spreco di vite che egli inutilmente provocherà con la sua campagna militare a Troia. In entrambi i casi, Ifigenia, deve pagare per le colpe del padre, venendo immolata per far terminare la bonaccia che non permette alle navi dell’esercito greco di prendere il largo. Con questi due esempi possiamo vedere come la tematica delle colpe dei padri ricadute sui figli sia un pilastro della tragedia antica, ma riconosciamo gli stessi temi anche nelle tragedie moderne (ad esempio le tragedie di Shakespeare, una per tutte l’Amleto) fino alla ‘tragedia contemporanea’, scritta sotto forma di romanzo, della Cognizione del Dolore di Carlo Emilio Gadda. Una differenza sostanziale tra tragedia antica e moderna, riconosciuta da Pasolini è la mancanza del Coro, depositario di questa terribile verità, che esprimeva “senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pareva naturale”. La naturalezza del cadere sulle spalle dei figli delle colpe dei padri è riconosciuta sia dal Coro che dal fruitore antico delle tragedie, il quale, perfettamente inserito nel contesto culturale greco, sente propria la verità esplicata dal Coro stesso. 46


Rivista letteraria ed oltre Pasolini ha invece difficoltà ad accettare senza problemi questa onerosa verità di martirio nei confronti dei figli. A condannare, insomma, un’intera generazione ad una vita di disperazione. Tuttavia l’autore continua dicendo che, dopo averli osservati per lungo tempo, si scopre a provare un sentimento di biasimo nei loro confronti, di “cessazione d’amore” che dà luogo però non a odio, ma ad una pena. Quindi se Pasolini “padre storico” prova tale sentimento, si scopre pronto ad accettare anche la sentenza infausta dei figli, che ne consegue. “Sento ormai intorno a me lo ‘scandalo dei pedanti’ […]: è retrivo, reazionario, nemico del popolo,[…] non sa capire che essi [, i figli, ] sono comunque vita. Ebbene io penso, intanto, che anche io ho diritto alla vita, perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. […] La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.” I figli condannati da Pasolini sono esteticamente dei mostri, “maschere di una integrazione diligente e incosciente. Che non fa pietà”. Questi giovani sono di aspetto terrificante, o quantomeno infelice, trovandosi appiattiti sul livello dei loro attributi fisici: una esteriorità così omologata e di serie non fa’ che nascondere, continua l’autore, l’opprimente miseria di 47


Aeolo profondità intellettuale. Si và dalla minoranza più fortunata, che “guardano verso di noi [padri], […] come disperati mendicanti” in cerca di ideali, valori, ai casi peggiori dove i figli si trasformano in veri e propri criminali. Infine nella terza tipologia di ‘figlio’, che rappresenta la stragrande maggioranza secondo Pasolini, rientrano coloro i quali “non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne”. Queste fasce sono però così labili e non determinate che ognuno potrebbe essere un criminale: “Non c’è luce nei loro occhi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi.” Ecco quindi lo scotto che spetta ai ‘figli’: la regressione ad una rozzezza primitiva. La punizione loro sta nell’infelicità senza via di scampo; condizione che porterà in futuro, dice Pasolini, “a chissà quali ecatombe.” La domanda che ora però si pone lo scrittore è se questa colpa, questa terribile pena sia giusta o meno. La risposta è affermativa, poiché la colpa da espiare è solo per metà dei padri: infatti gli stessi ‘figli’ hanno la colpa di non essere riusciti a riscattare se stessi, spogliandosi di tale peso, e anzi accettando passivamente l’eredità dei padri e la loro sentenza drammatica. “Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi.” Rimane solo da capire quale è la colpa dei padri e chiarirla una volta per tutte. L’autore procede per esclusione tra le possibili ‘colpe’. Certamente essa non è identificabile con il 48


Rivista letteraria ed oltre fascismo, vecchio e nuovo, cioè con “l’effettivo potere capitalistico” poiché ad essere puniti sono figli sia di antifascisti che quelli dei fascisti. A subire la colpa sono i figli dell’intera classe borghese e i suoi nuovi figli, cioè il figli del popolo, la cui storia è stata fagocitata, inglobata, assimilata con quella borghese. L’antropologia delle vecchie culture, propria della storia del popolo, di reincarnazione da parte del figlio del destino paterno, ormai non ha più senso e non è più applicabile all’evoluzione storica popolare. Difatti è subentrata un'altra logica trasversale a tutte le culture dei vari ceti sociali: quella della ‘civiltà dei consumi, dello sviluppo’. Ecco allora che si trova la colpa dei padri, universale e capace di unificare il destino di tutti i ‘figli’ fascisti e antifascisti, popolani e borghesi: la mancata opposizione da parte dei padri a una simile omologazione/unificazione. “La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla nostra coscienza […] del vecchio fascismo, […] della nostra intimità con esso […]; secondo, e soprattutto, l’accettazione […] della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo. […] Perché c’è […] un idea conduttrice […] comune a tutti: l’idea che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura delle classi dominanti. 49


Aeolo In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia sia e non possa essere che la storia borghese.” È una rabbia feroce, impietosa ed allo stesso tempo di una chiarezza disarmante, quella che sgorga dalla penna di Pasolini, che all’inizio del 1975, lucidamente, riesce a descrivere fin nei minimi particolari la società italiana. Il suo dire le cose come stavano, senza mezzi termini, senza ironia o sarcasmo, riducendo i fatti e le idee all’osso, rende ancora più terribile la sua profezia che risuona ora più chiara nelle nostre orecchie, a circa 33 anni dalla sua morte. È arrivato purtroppo il tempo delle ‘ecatombe’ del nostro tempo e della mia generazione: l’antipolitica diffusa, gli estremismi imperanti (di qualsiasi colore politico) e l’esagerazione dell’importanza delle apparenze estetiche e di ‘status quo’, sono ormai tristemente all’ordine del giorno. La volontà degli intellettuali del tempo (e non solo), di chiudere gli occhi davanti alla verità del mondo, esposta da uno scrittore tanto arguto e fine nei suoi ragionamenti, quanto scomodo e d’impiccio in vita e dopo, ci ha portato ad una vera e propria Apocalisse sociale che sta investendo tutto il nostro paese. La cocciuta ipocrisia e la testarda cecità hanno portato all’autodistruzione il ‘Bel Paese’, in tutti i settori politicoeconomici: l’infiltrazione delle mafie a tutti i livelli di organizzazione statale e privata, il vuoto che divora la politica dal suo interno e l’aridità dell’individuo/modello del giovane 50


Rivista letteraria ed oltre italiano, ridotto a una simil-macchietta goliardica, riconducibile per grandi linee al ‘tronista’ o all’‘opinionista’ degli onnipresenti talk-show, non sono che il risultato dell’accettazione piena e decisa della civiltà dei consumi. L’assenza del Coro denunciata da Pasolini ne è la triste manifestazione. Il Coro tanto agognato dall’autore altro non è che la rappresentazione della cultura popolare, detentrice dei valori “del mondo contadino e piccolo borghese [i quali] nei loro contesti culturali concreti […] erano positivi, o almeno, reali. Strappati al loro contesto e fatti divenire con la forza «nazionali», essi si sono presentati come negativi: cioè retorici e repressivi.”18 Essi sono stati spazzati via dalla società dei costumi che ha attuato un omologazione totale in base ai valori edonistici, “puramente pragmatici, esistenziali, del «benessere»”2, i quali hanno tolto alle persone “ogni dignità”19. Purtroppo invece di riconoscere e lavorare per rimediare, o quantomeno contenere, questa catastrofica situazione, insieme a quei pochi illuminati lungimiranti intellettuali, come Leopardi, Pasolini, Saviano e tanti altri, si preferisce metterli da parte perché risultano scomodi e fastidiosi al Potere. Manca così la mediazione di un ipotetico Coro, detentore della verità sul palcoscenico della tragedia italiana di questi giorni, mentre lo 18

Passo tratto da “Scritti Corsari, 25 Gennaio 1975. L’ignoranza vaticane come paradigma dell’ignoranza della borghesia italiana.” 19 Passo tratto da “Lettere Luterane,«La sua intervista conferma che ci vuole un processo»”

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Aeolo spettatore si sente distante, esterrefatto perché estraneo al dramma che vede davanti ai suoi occhi e che attribuisce a terzi, non volendo vedere anche le sue responsabilità. E allora l’unica sentenza che ti meriti di ricevere, mia cara Italia, forse non è che quella che Pasolini scrive in una sua poesia: “Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo20”

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Da “Alla mia Nazione” di Pier Paolo Pasolini.

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Rivista letteraria ed oltre

Zio Paperone e la truffa metonimica Su una moneta, il Capitale e l’allegoria.

di Gianni Crippa Come premesso nel titolo, partiamo da una truffa (chiamiamola pure manipolazione, volendo ricorrere a un termine più aggiornato) cui siamo sottoposti da bambini – e che non è improbabile faccia sentire la sua influenza anche quando giungiamo all’età adulta: parliamo, cioè, di Paperon de’ Paperoni. È notissima infatti l’importanza che il personaggio disneyano attribuisce alla celebre «Numero Uno», ossia il centesimo di Dollaro guadagnato nel suo primo lavoro da lustrascarpe quando ancora vive in Scozia. Forse meno nota, però, è la ragione per cui lo Zio Paperone si sente tanto legato a quella moneta: è il ricordo di una truffa subita dal suo primo cliente che gliela rende tanto cara. Infatti, a cosa può servire un centesimo di dollaro in Scozia? E, comunque, come può ripagare la mezz’ora di lavoro che il giovane Paperone ha impiegato per lustrare le scarpe e che l’ha fatto crollare a terra dalla fatica, motivo per cui non s’avvede subito della truffa subita? Tuttavia, l’opinione comune vuole che quel centesimo costituisca agli occhi di Paperone la prima parte del Capitale accumulato nel corso degli anni – ed ecco che, allora, la truffa subita dallo zio ricco di Paperino ricade su di noi, sul pubblico occidentale tanto legato all’immaginario disneyano. Ciò di cui veniamo convinti, infatti, è che il Capitale

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Aeolo possa essere ripartito in parti (le singole monete) di cui si possa riconoscere quella originaria (la «Numero Uno») e quindi anche l’articolazione che ha condotto al totale finale. Ciò ci porta a interpretare il Capitale secondo la dinamica tipica della metonimia. Ma se la prima moneta rappresenta in verità una truffa agli occhi di Paperone significa che lui stesso concepisce il suo Capitale proprio come una negazione di quel punto di partenza – come una totalità che sorge opponendosi alla sua parte originaria. Una contraddizione, se vogliamo – ma una contraddizione già raccontata da Marx: Il denaro come capitale è una determinazione del denaro che oltrepassa la sua semplice determinazione di denaro. Può essere considerato una sua realizzazione superiore, così come si può dire la scimmia si evolve nell’uomo […]. Comunque il denaro come capitale è distinto dal denaro come denaro21. Tali parole smascherano del tutto la truffa su cui si regge l’interpretazione che attribuisce comunemente l’importanza della «Numero Uno» al fatto di essere l’origine concreta del Capitale di Paperone. Rafforzata in modo particolare dagli episodi legati ad Amelia, la fattucchiera napoletana il cui unico scopo consiste nell’impossessarsi della «Numero Uno» per fabbricare un amuleto che la renda la donna più ricca del Mondo, l’interpretazione comune trova tuttavia una smentita proprio anche nella stessa modalità di 21

Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 18571858 Volume 1. Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 223.

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Rivista letteraria ed oltre fabbricazione dell’amuleto. Nell’amuleto, infatti, assieme alla moneta di Paperone, dovrebbe essere fuso il metallo di altre monete possedute dagli uomini più ricchi del mondo – ossia, si dovrebbe superare in una totalità differente le singole parti chiamate originariamente in causa per comporlo. Le parole di Marx, abbiamo visto, non portavano in un'altra direzione: il dominio della metonimia e quello del Capitale sono l’uno indipendente dall’altro. Ma allora quale figura retorica più presiedere alla dinamica di costituzione del Capitale? Scrive Walter Benjamin: I«cavilli metafisici» di cui, secondo Marx, si compiace la merce sono innanzitutto i cavilli della formazione dei prezzi. Come la merce pervenga al suo prezzo è cosa che non si può mai calcolare esattamente, né nel corso della sua produzione né in seguito, quando si trova sul mercato. Esattamente la stessa cosa accade all’oggetto nella sua esistenza allegorica: non è in nessun modo stabilito a quale significato lo condurrà l’assorta profondità dell’allegorico22. L’asse che collega la merce col proprio prezzo è perciò l’asse dell’allegoria moderna secondo quanto scrive Benjamin23 – il quale, però, nella rilettura delle pagine dei Grundisse di Marx cui abbiamo già fatto riferimento, dimentica di chiamare in 22

Citato da Fabrizio Desideri, Teologia dell’inferno. Walter Benjamin e il feticismo moderno, in Stefano Mistura (a cura di), Figure del feticismo, Torino, Einaudi, 2001, p. 194. 23 L’intervento più noto di Benjamin intorno all’allegoria moderna è Il dramma barocco tedesco (1926) ora in Opere complete. Vol. 2, Torino, Einaudi, 2001.

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Aeolo considerazione il denaro. Figura che assicura concretezza al rapporto altrimenti aleatorio tra la merce e il prezzo, nella misura in cui si offre come «l’equivalente generale»24, il denaro può invece assumere un ruolo all’interno del rapporto allegorico stabilito tra la merce e il prezzo da Benjamin, come il significante assoluto che congiunge il prezzo come significato («significato vuol dire per la merce: prezzo»25) alla merce come significante particolare. Marx infatti scrive: «Il denaro, possedendo la caratteristica di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente»26 – o, meglio ancora: «Esso rappresenta l’esistenza celeste delle merci, mentre queste rappresentano la sua esistenza terrena»27. Tuttavia v’è nel denaro che vuole trasformarsi in Capitale «una contraddizione […] che spinge alla sua propria risoluzione»: Come rappresentante materiale della ricchezza generale esso [il denaro] viene realizzato solo in quanto viene di nuovo posto in circolazione […]. Io posso porre realmente il suo essere per me solo in quanto lo abbandono come essere per un altro. Se decido di trattenerlo, mi si stempera tra le mani fino a diventare un semplice fantasma della ricchezza reale […]. Se le altre ricchezze non si accumulano, esso stesso perde il suo valore nella misura in cui si 24

Karl Marx, Lineamenti, cit., p. 77. Walter Benjamin citato da Fabrizio Desideri, cit., p. 194. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 2004, p. 144. 27 Karl Marx, Lineamenti, cit., p. 181. 25 26

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Rivista letteraria ed oltre accumula. Ciò che figura come suo aumento, è in realtà la sua diminuzione. La sua autonomia è soltanto una parvenza28. Ecco la natura retorica della costituzione del Capitale: contro la metonimia dell’accumulazione l’allegoria della produzione del valore così come Marx la descrive in questo passaggio e, in maniera ancora più esplicita, nelle pagine del Capitale. Se si fissano le forme fenomeniche particolari assunte alternativamente nel ciclo della sua vita dal valore valorizzante, si hanno le dichiarazioni: capitale è denaro, capitale è merce. Ma di fatto qui il valore diventa soggetto di un processo nel quale esso, nell’assumere forma di denaro e forma di merce, passando continuamente dall'una all’altra, altera anche la propria grandezza e, in qualità di plusvalore, si stacca da se stesso in quanto valore iniziale: valorizza se stesso. […]. Come soggetto prepotente di tale processo, nel quale ora assume ora dimette la forma di denaro e la forma di merce, ma in questo variare si conserva e si espande, il valore ha bisogno prima di tutto di una forma autonoma, per mezzo della quale venga constatata la sua identità con se stesso. E possiede questa forma solo nel denaro29. Dunque, se è possibile produrre il Capitale soltanto attraverso un processo allegorico è il denaro il luogo in cui si incarna primariamente tale dinamica – torniamo così alla «Numero Uno». 28 29

Ibid., p. 198. Karl Marx, Il capitale, sez. II, cap. IV, “Trasformazione del denaro in capitale”

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Aeolo Ora possiamo tuttavia affermare che rispetto al Capitale di Paperone essa si colloca in una posizione allegorica, e che più precisamente ad adattarsi a quella moneta sono i tratti dell’allegoria moderna descritta da Benjamin. Il fatto che il primo centesimo di Dollaro guadagnato da Paperone possa sopportare naturalmente interpretazioni differenti, si rivela dunque come una strategia volta a rafforzare la costruzione della «Numero Uno» come un’allegoria moderna – ossia del Capitale come dimensione in cui viene completamente trascesa la realtà concreta del denaro a favore della produzione del valore. E, infatti, se ripensiamo alla ragione per cui Paperone conserva la monetina e a quella per cui la maga Amalia gliela vuole sottrarre, ci imbattiamo rispettivamente nelle intenzioni di rinnovare come un monito la memoria di un lavoro che non produsse alcun valore reale (dal momento che la moneta non ripagò affatto Paperone dell’attività svolta) e di convertire la monetina in un amuleto magico. Averci fatto credere che il Capitale possa avere un’origine identificabile e possa, perciò, derivare da un processo metonimico è dunque una truffa perpetrata attraverso una semplice monetina e una deviazione apparente della sua reale configurazione retorica che, tuttavia, la portata critica dell’allegoria moderna riesce a denunciare30. Nel XIX secolo la cosiddetta «narrativa popolare», con lo stesso scopo ingannatore, vorrà leggere in chiave 30

Per tale carattere «critico» dell’allegoria moderna i rimandi principali sono ovviamente a Romano Luperini, Il dialogo e il conflitto, Roma-Bari, Laterza, 1999, e L’allegoria del moderno. Saggi sull’allegorismo come forma artistica e come metodo di conoscenza, Roma, Editori Riuniti, 1990.

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Rivista letteraria ed oltre trascendente la questione dell’origine del Capitale – pensiamo alla sparizione di Edmond Dantès e al suo ritorno nelle vesti di un ricchissimo Conte di Montecristo; pensiamo alle contraddizioni cui si apre il reperimento sotto i mari della fortuna del Capitano Nemo. Nello stesso periodo, però, Balzac – assieme a Shakespeare passione letteraria massima di Marx – metteva a repentaglio una vita o la faceva addirittura terminare per una firma mancante o negata in fondo a una cambiale; Flaubert raccontava il suicidio di M.me Bovary per debiti contratti nel corso di anni ma esatti improvvisamente – e, in proposito, l’ «ultima moneta» che Emma offre al cieco prima di togliersi la vita assume di certo un valore esplicitamente critico («allegorico», appunto, nel senso dell’allegoria moderna) nei confronti delle dinamica del Capitale31. E per ciò che concerne tale versante apertamente critico l’elenco potrebbe continuare, passando da Faulkner (la moneta da cui nasce la fortuna di Thomas Sutpen, il protagonista di Absalon, Absalon! – fortuna che la struttura del romanzo non permetterà mai al lettore di avvertire se non nella prospettiva di una sventura) a Borges e al suo Zahir, senza dimenticare il film di Metzner Aggressione (1928) in

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A proposito di M.me Bovary, dopo aver sottolineato a dovere l’inganno (decisamente metonimico) che presiede alle spese di Emma, Franco Moretti scrive giustamente: «Forse il denaro non può comprare l’essere, ma la sua assenza, per converso, costringe di certo al non essere», Il romanzo di formazione, p. 194.

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Aeolo cui il caos sociale si riflette «nell’incubo della moneta turbinante»32 trovata per terra dal protagonista e causa delle sue disavventure. Fatto sta che spesso una moneta si è tramutata in un oggetto del contendere che riguarda meno la diegesi che non il discorso – che attraverso la finzione letteraria «delinea un mondo da interpretare più che un mondo al quale credere»33. E allora interroghiamoci anche sulla portata della moneta che decide della vita o della morte nell’ultimo film dei fratelli Coen Non è un paese per vecchi (2007) – e quante altre “opere di roulette” hanno attribuito a una singola, ultima moneta un valore tale? Ma giocarsi la vita così come costruire un Capitale partendo da un nichelino è possibile soltanto se si dissimula l’irraggiungibilità dell’Assoluto dietro una truffa metonimica, perpetrando una subdola strategia di controllo del desiderio attraverso il continuo rimando di una soddisfazione che non verrà – facendo credere che attraverso la pazienza o il coraggio è possibile pervenire a una totalità che, però, rimane sempre un passo più in là: in una posizione allegorica.

32 Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco (1947), Torino, Lindau, 2001, p. 254. 33 Giovanni Bottiroli, Lacan. Arte, linguaggio, desiderio, Sestante, Bergamo, 2002, p. 108.

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Suggerimenti e inferenze Il ruolo del lettore nell’opera letteraria

di Enrico Santus Roberto si è lanciato dalla finestra. Sta precipitando oppure ha la facoltà di volare? Chissà. Fatto sta che un uomo si è lanciato dal balcone e noi tutti sappiamo cosa questo comporti nella realtà; ma nella finzione letteraria? Per il momento lasciamo che Roberto stia sospeso nel vuoto e, senza recargli alcun disturbo, affrontiamo il problema dell’ambiguità di senso del testo e della conseguente presa in considerazione dei possibili significati che la frase può suscitare nel lettore. L’espressione, nella maggioranza dei casi, sarebbe facilmente disambiguata grazie alle premesse dei passi precedentemente letti. Supponiamo però che le premesse siano anch’esse ambigue o che dicano poco. Ecco la precedente parte del testo: Il calendario elettronico segna che è il 19 febbraio 2090. Tiziano e Roberto sono impiegati in uno studio legale al centesimo piano d’un grattacielo a New York, quando d’un

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Aeolo tratto, dopo aver scommesso una cena su chi arrivasse prima al piano terra, Roberto è corso verso la finestra e si è lanciato. In questo caso il lettore si troverebbe davanti ad una scena o realistica (e paradossale) o fantastica. Nel primo caso egli dovrà inferire che Roberto pur di vincere la cena (che difficilmente potrà godersi) decide di suicidarsi; nel secondo inferirà che Roberto ha il potere di volare (magari per mezzo di qualche strumento) e decide di sfruttare questo potere per vincere la scommessa. Poiché una delle più importanti proprietà del testo è la linearità (almeno per quanto riguarda la prima lettura34), il lettore dovrà tenere conto di entrambe le possibilità – dando magari più peso all’una o all’altra in base a criteri di cui parlerò qui di seguito – finché non otterrà indizi sufficienti a confermarne una. Spesso, anche se non esplicitamente svelati, questi indizi possono essere desunti – almeno in parte – anche dall’analisi del tono del narratore e del suo stile, nonché attraverso una serie di nozioni enciclopediche esterne al testo, legate magari alla conoscenza della tradizione o a quella dello scrittore: chi di noi, 34

Infatti, il testo è in realtà un sistema complesso e per niente lineare; il lettore, quando legge si deve rifare a conoscenze acquisite nei passi precedenti, cercando conferma delle sue inferenze nei passi successivi, grazie ai quali comprenderà meglio anche quelli già letti; lo stesso autore non scrive linearmente, ma procede, torna indietro, modifica aggiunge e taglia.

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Rivista letteraria ed oltre per esempio, non sa come andrà a finire una favola? Stupisce, però, il fatto che, nonostante le numerose e chiare premesse, il testo non sia mai troppo ovvio per essere letto. Sembrerebbe quasi che il lettore goda non tanto del testo scritto e di ciò che esso impone (per esempio i nomi Roberto e Tiziano), ma di ciò che il testo suggerisce e che la mente del lettore elabora, nonché delle possibilità che egli è spinto a prendere in considerazione per la corretta interpretazione dell’opera. Per esempio, nei gialli, gli scrittori suggeriscono al lettore inferenze errate ed il lettore prova gusto nel valutarle ed escluderle man mano, fino a ricostruire il puzzle e trovare la soluzione dell’enigma. Purtroppo si è spesso sottovalutato il ruolo del lettore nella costruzione del testo: la mia tesi è che l’autore suggerisca con le parole più adatte situazioni, dialoghi, descrizioni, stati d’animo, e il lettore abbia il compito di rielaborarli e rapportarli alla sua esperienza per poterli vivere appieno, riflettendovi e acquisendone l’alchimia di suoni e significati. In questo la letteratura può essere considerata la più elevata delle arti, poiché non dice, ma suggerisce; poiché non è, ma diventa grazie alla materia che il lettore le offre. Questa forza è però anche la più pericolosa debolezza, in quanto un lettore povero, di scarse capacità riflessive e immaginative, potrebbe frantumarne la qualità. Ed è per questo che è fondamentale il ruolo dell’autore, primo lettore dell’opera, 63


Aeolo nonché l’unica persona ad avere il diritto di modificare il testo: egli deve rendersi conto di quanti suggerimenti siano necessari ad un lettore immaginario, più o meno capace, per far suo il narrato35. Ecco, per esempio, che l’ambientazione nel futuro (tendente al fantastico) e il tipo di lavoro (tendente al reale) non sono state inserite a caso, ma hanno voluto alimentare l’ambiguità. Per correttezza, ritorniamo su Roberto che era rimasto sospeso nel vuoto, e vediamo come andrà a finire il suo volo. Presento di seguito la versione completa del racconto: Il calendario elettronico segna che è il 19 febbraio 2090. Tiziano e Roberto sono impiegati in uno studio legale al centesimo piano d’un grattacielo a New York, quando d’un tratto, dopo aver scommesso una cena su chi arrivasse prima al piano terra, Roberto è corso verso la finestra e si è lanciato. Tiziano gli è corso subito dietro senza capire cosa gli sia saltato in testa, ma presto si rincuora notando che Roberto sta planando grazie al suo nuovo deltaplano. Roberto, certo ormai di giungere per primo a terra, pensa di virare verso il ristorante più costoso della metropoli, 35

Un lettore attento, per esempio, avrebbe scoperto che il 19 febbraio 2090 è domenica e, stando alla regola odierna, difficilmente un ufficio legale sarebbe aperto; in questo caso l’autore non ha voluto suggerire la stranezza della data, ma si è limitato a giocarci, lasciando ai lettori più attenti il piacere di speculare su quest’errore (volontario).

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Rivista letteraria ed oltre inconsapevole del fatto che Tiziano proprio questa mattina ha acquistato una nuova invenzione di alcuni scienziati tedeschi: il teletrasporto. Non appena toccata terra, le ali del deltaplano si chiudono e lui corre verso il ristorante, ma appena apre la porta ha una sorpresa: Tiziano è già seduto davanti ad una grossa aragosta.

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Le “Bestie” di Tozzi di Enzo Sardellaro «Capire Tozzi non è mica facile»: sono parole di Luigi Baldacci, un critico che ha dedicato a Tozzi studi stimolanti da trent’anni a questa parte. E si tratta dell’onesta constatazione di uno studioso che pure ha avuto spunti interpretativi di prim’ordine, che costituiscono quanto di meglio ha saputo produrre la critica (1). Tuttavia, se Baldacci riconosce che a tutt’oggi qualcosa non torna nell’interpretazione generale dello scrittore senese, esprime un giudizio credo perfettamente fondato e condivisibile. L’impressione è quindi quella che il «classico» forse meno letto della nostra letteratura contemporanea sia ancora in mezzo al guado. Portare Tozzi oltre il guado è un compito che Baldacci si è prefisso con studi puntuali e di eccezionale valore ermeneutico: partire da lui è un dovere, proseguire nel viaggio un accadimento naturale. L’arcipelago Tozzi è molto vasto, fatto di isolotti (i romanzi), di barene appena emerse che si vedono a stento (le novelle) e, infine, di una vastissima zona sommersa che si intravede appena (la formazione culturale dell’autodidatta). Certo, navigare tra isolotti e barene è ameno viaggio: ma se è vero che chi fa il palombaro si stanca di più, è altrettanto vero che però, quando riemerge, porta alla superficie documenti stratigrafici che gettano molta luce sia sulla formazione degli isolotti sia delle più recenti barene. Negli

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Rivista letteraria ed oltre ultimi decenni, come c’informa Baldacci, il Tozzi «profondo» ha visto intorno a sé parecchi di questi palombari, dal Cesarini, che ne ha indagato la biografia e persino gli autori che egli leggeva nella biblioteca degli Intronati di Siena (2), al Marchi, che ha riportato alla superficie reperti che parlano di opere che rimandano a pensatori come William James, Freud, Lombroso e tanti altri (3). Baldacci ha ragione però di rammaricarsi che il lavoro paziente di tanti probi e seri studiosi sia avvertito da certa critica come inessenziale o accessorio, per cui Tozzi viene indagato idealisticamente, crocianamente, poiché, si dice, un vero scrittore deve saper «bruciare» il proprio combustibile in una nuova «sintesi poetica», tanto che il combustibile, come oggetto d’indagine, può essere brillantemente trascurato. Con Baldacci ritengo che dal cosiddetto combustibile non si possa prescindere se si vuole giungere a una critica fondata dell'opera. E ciò a maggior ragione quando si tratti di un lavoro come Bestie, a tutt'oggi soggetto a una serie piuttosto variegata di interpretazioni. Dicevamo poc'anzi che lo scavo sulle possibili fonti dell'opera di Tozzi negli anni ha conosciuto un fervore meritorio, con risultati davvero eccellenti, specie sul versante della cultura psicologica dello scrittore senese. Sta però di fatto che Tozzi era un lettore onnivoro, addirittura «disperato», per sua stessa ammissione, per cui, nonostante i risultati positivi conseguiti, molto resta ancora in ombra. Baldacci rilevava come Debenedetti insistesse « a ripetere che Tozzi è lo scolaro inconsapevole di maestri occulti»(4), ma a me pare che nel caso di Bestie le fonti siano state volutamente e scientemente occultate. E ciò semplicemente perché, se Tozzi avesse dichiarato le

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Aeolo fonti, ne sarebbe svanita quell'aura di accentuata «incomprensibilità» che appunto caratterizza Bestie, delle quali Tozzi non volle dare la chiave di lettura. Occorre in via preliminare osservare che si tratta di racconti estremamente brevi, sullo stile aforistico molto caro a Tozzi. Il genere aforistico, proprio per suo statuto, si basa sul paradosso e sull'ambiguità, e la cosa era particolarmente congeniale a Tozzi, che, come ha rilevato Baldacci, non amava la chiarezza(5). Nel caso di Bestie Tozzi è riuscito a creare un'opera che risulta estremamente criptica, e, in alcuni casi, addirittura incomprensibile. Che cosa significano quelle «bestie» che appaiono all'improvviso nel racconto?, si chiedeva innervosito Gargiulo, che, non riuscendo a darvi un senso, stroncò l'opera senza tanti complimenti (6). Gargiulo però fu un po' troppo sbrigativo, e tra l'altro non tenne nel debito conto il fatto che il genere aforistico predilige non solo il paradosso, ma possiede anche «caratteristiche di immediatezza, di brusca illuminazione», rifuggendo «da ogni forma di chiusura e di prevedibilità, preferendo stupire il lettore»(7). Più di recente, V. Cerami, sulla scorta di un'intuizione, in linea di massima condivisibile, afferma che v'è una sorta di identificazione tra Tozzi e le sue «bestie», per cui egli sarebbe, di volta in volta, ognuna di esse («Tozzi è di volta in volta gli animali che alla fine compaiono»)(8). La chiave di lettura di Cerami è senz'altro da meditare, però non va applicata sempre in modo automatico, altrimenti si rischia di arrivare a conclusioni talvolta incongrue rispetto al testo. In genere, l'orientamento degli studiosi e dei ricercatori delle fonti della cultura di Tozzi si è indirizzato essenzialmente verso scienziati (Darwin) o verso specialisti di

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Rivista letteraria ed oltre psicologia, trascurando i pensatori classici, che, tutto sommato e a modo loro, sono pur sempre degli psicologi. Dicevamo della passione di Tozzi per l'aforisma. Che lo scrittore senese, nelle sue letture «sterminate» sia incappato in La Rochefocauld è non solo probabile, ma nel caso nostro anche pro-v-abile. Macchia osservava con sottile umorismo che le massime di La Rochefocauld si potevano leggere non solo sulle ponderose edizioni di fine Ottocento o dei primi del Novecento, ma persino sulle cartine che avvolgevano i «Cioccolatini Perugina»(9). Aggiungo che, nel caso specifico, Tozzi, oltre probabilmente a essersi gustato le dette massime in tutti i sensi, poteva leggersi tranquillamente La Rochefoucald alla Biblioteca degli Intronati, in un’edizione francese del 1853, a cura di George Duplessis (10). Per di più è stato sottolineato che nel caso di Tozzi, più che di aforismi bisognerebbe parlare di «riflessioni» (11), in cui, guarda caso, La Rochefocauld era un vero maestro. C'è poi un altro fatto importante. La Rochefocauld in una delle sue «Riflessioni», lavorando da grande psicologo, passava in rassegna una quantità indefinita di animali, ognuno dei quali era portatore di un particolare carattere umano(12). La Rochefocauld è un filosofo e uno psicologo («proprio la psicologia, questa scienza ondeggiante e sfuggente, osserva Macchia, egli intende sottoporre alla certezza della conoscenza, come si fa con le piante e con le ricette farmaceutiche») (13); e la cosa non poteva essere indifferente a uno scrittore come Tozzi, che amava la scienza, si interessava di psicologia, voleva studiare scientificamente il carattere dell'uomo. E poi non poteva essere sfuggito allo scrittore senese quell'articolo di

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Aeolo Papini sul Leonardo, in cui La Rochefocauld era stato definito un «terapeuta»(14). Nei 68 racconti di Bestie, i 28 animali (alcuni sono citati più di una volta) di Tozzi sono tutti presenti in La Rochefocauld, e quelli che lo scrittore francese non nomina direttamente, vengono però suggeriti da caratteristiche precise, tali da essere facilmente individuati da Tozzi in virtù della sua cultura popolare di fondo. Tozzi possedeva infatti una «cultura contadina» di prim'ordine, come dimostrano i suoi precisi passaggi naturalistici sulla campagna senese e la sua altrettanto puntuale conoscenza dei caratteri degli animali che egli era solito incontrare. Quanto poi al dato, così tormentato dalla critica, dell' «improvvisa comparsa» degli animali in scena, senza un' apparente motivazione logica, occorre ricordare un fatto essenziale, che spiega altresì la passione di Tozzi per gli studi psicologici, ossia che lo scrittore senese era un grumo di complessi, dotato di una memoria involontaria formidabile, che era un po’ la sua dannazione. A proposito della memoria di Tozzi, Giacomo Debenedetti scriveva: «…Anche il biografo Borgese aveva notato, aneddoticamente, questa memoria inesauribile, patologica del Tozzi: «Tutto quello che vedeva e sentiva lo pagava. Perciò si ricordava di tutto: quasi che ogni sensazione gli fosse rimasta infissa come un chiodo nella carne viva…»(15). E' evidente che in determinati contesti, egli era come assalito all'improvviso dal ricordo di persone conosciute: uomini e donne che venivano, nei racconti, opportunamente occultati attraverso il ricorso all'animalizzazione. Nello stabilire il rapporto uomo-animale la mente di Tozzi si muoveva su un retroterra culturale «doppio»: uno

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Rivista letteraria ed oltre che gli derivava dalle sue radici contadine, permeate di conoscenze antichissime legate alle leggende tramandate dal folklore, e l’altro dalle sue conoscenze, diciamo così, «dotte», frutto delle inesauribili e inesauste letture sui classici della letteratura. […]

continuo e note su www.aeolo.it (cerca l’autore nella sezione autori/scrittori) …

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Spifferi

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Delfino di Francesco Chiofalo.

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Parole non dette nel treno da Napoli a Milano, estate 2008 di Maria Batzing Mi fa paura Lei, Signora. Non so se mi ascolterà, visto che anch’io sono straniera – anche se non sono né rumena né albanese, quindi non sono “cattiva dentro”. Ma sicuramente avrà un aggettivo anche per i tedeschi. No? Niente per l’antico compagno di battaglia? Va bene, Lei ha già dimostrato che il passato non ha importanza: Come si sono comportati gli immigranti italiani in America negli anni cinquanta non c’entra niente con gli albanesi a Prato oggi, perché è diverso, perché è passato. Che bel modo di esprimere l’innegabile verità che ogni epoca e ogni luogo ha i suoi cattivi stranieri. Vuole un esempio? Gli Italiani in Germania (fortunati loro) non sono mai stati i cattivi, visto che c’erano i turchi che non erano neanche cristiani. Sembra che questi metodi semplici del medioevo per definire dove finisce la tolleranza, anzi, per definire chi fa parte dell’umanità, non muoiano mai: la Germania non vuole accogliere i profughi dell’Iraq, tuttavia qualche politico poco fa si è accorto che ce ne sono anche dei cristiani, e allora ha detto che forse si dovrebbe fare 75


Aeolo un’eccezione. Questo ragionamento manca certamente di logica, quantomeno dal punto di vista cristiano: se Gesù si è assunto tutti i dolori del mondo, tutti noi dobbiamo fare in modo che i suoi discepoli non soffrano più. Devo dire che non ci credo, Signora? No, non voglio farle paura, anche se sono straniera. Dunque l’immigrante italiano non è quello cattivo in Germania. Anzi, forse è persino lo straniero preferito dei tedeschi: simpatico, sempre allegro, forse un po’ rumoroso ma affettuoso, e cosa sarebbe la Germania senza le innumerevoli pizzerie… Che cosa mi risponderebbe? Che Lei non è mica pizzaiola, grazie tanto, fa la maestra di scuola elementare, e fra poco avrà finito i corsi di formazione per fare l’estetista? Speriamo bene, Signora! Speriamo che Lei passi tutti gli esami prima del nuovo anno scolastico. Speriamo che non sarà costretta ad essere responsabile di una classe formata secondo le idee di certi ceti aristocratici (Ah, l’Italia è una democrazia? Non avevo capito…); una classe di trenta ragazzini cattivi e stupidi che cresceranno solo per succhiare il sangue della gente perbene come Lei. È la loro natura, lei come insegnante non ci può fare niente, potrebbe solo curare che tutti i piccoli mostri non s’illudano sulla loro funzione nel mondo, perché lei le sa, queste cose. M’immagino questi bambini che crescono sotto i Suoi discorsi, che non hanno neanche gli occhiali da sole per nascondersi dietro, come il ragazzo (già cresciuto, chissà dove) seduto accanto a Lei, con la faccia immota, senza reagire alle Sue rassicurazioni che non lo vuole offendere, il “povero 76


Rivista letteraria ed oltre ragazzo di colore”. No, Lei non vuole offendere nessuno, lo sappiamo tutti, vuole solo esprimere la sua paura, la paura che il Signore di fronte a Lei non può capire, appunto perché è uomo. È di Napoli, e dice che anche gli Italiani non sono gli ultimi a commettere crimini; ma lui non lo può capire: Non sa cosa sente una donna quando vede in strada questi gruppetti di rumeni, albanesi, quando sente i discorsi incomprensibili cercando di capire il grado di aggressività… Io invece sono donna, io invece dovrei capirla. Vengo da una città con un terzo di abitanti stranieri, non contati quelli che hanno la cittadinanza tedesca ma sono di origine straniera (che Lei sicuramente preferirebbe di contare). Dovrei aver paura quando esco da casa, vedendo il tabaccaio pachistano, o sul metrò, dove gente con pelle di tutti i colori parla in arabo e in lingue ancora più strane? Oppure all’Università, dove le compagne di banco non si chiamano Anna e Lisa, ma Nur e Satira. Dovrei aver paura quando apro il giornale e vedo che il nuovo presidente di uno dei cinque grandi partiti tedeschi, Cem Özdemir è d’accordo con il suo candidato di spicco per la mia regione, Tareq Al-Wazir; e dovrei forse aver paura quando torno a casa dove la mia coinquilina polacca ha fatto da mangiare. Sinceramente, ho altre cose da fare. Non mi crede? Forse non ha capito. Non dico che non ci sono i problemi, ma dico che i suoi discorsi non li risolveranno, anzi ne aggiungono un altro, ben grosso. Non mi crede, va bene.

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Aeolo Mi fa paura Lei, Signora, e Lei non è l’unica con queste idee raffinate che creano un’atmosfera in cui è accettabile chiedersi alla vista di una bambina cinese di due anni perché diventano tanto brutti quando crescono; un’atmosfera in cui la pelle nera di un Signore di cinquant’anni basta per dargli del tu, e per sospettare che non ha la prenotazione del posto; un’atmosfera che mi fa nascondere dietro un libro odiando me stessa. Colpa mia se mi nascondo? Va bene, ha ragione, non si può dimostrare chi di noi vede il mondo com’è. Quest’atmosfera mi fa fantasticare mondi irreali dove la vita è ridiventato un gioco che perdi per caso, dove le tribù vincono la guerra dei popoli contro la terra troppo affollata, la pena di morte per il sospetto di tentato furto, muore il Leviatano sotto i colpi del disordine, fin quando non si trova l’ultimo nascosto. Poi la calma ritorna, e il continente devastato, vuoto, finalmente ritrova la pace, dichiarato parco naturale o discarica di un mondo migliore senza di noi. Non mi crede? Ha ragione.

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Battito di salvezza L'ultima goccia di sangue rappreso incontra i miei occhi velati d'oblio, mentre sirene incantarici nuotano nelle vene sibilando il mellifluo canto del piacere. L'inverno dipinge di luce diffusa la città , copre i tetti disegnati da fredde mani invisibili D'un tratto un battito d'ali rompe la quiete penetra la finestra, volteggia incerto, accasciando un corpo stremato sul pavimento. Cade la siringa, il velo degli occhi si squarcia prendo nelle mani tremanti il rondone infreddolito Custodisce un battito di vita animale, occhi vacui, [imploranti. Lo scaldo fra le braccia rigide, un disgelo di lacrime scioglie l'illusione narcotica. Assorbo la vita pulsante. Questo dono inatteso di vita palpitante è preghiera di calore al mio tatto risvegliato, un silente richiamo alle multiforme sofferenze. L'eroinica fuga sgretola d'improvviso il suo castello. Dedicata a William Burroughs

Michele ChinnĂŹ 79


Aeolo

Le scintille della Garfagnana di Luca Caproni Paris change! Mais rien dans ma mélancolie N’a bougé! Palais neufs, échafaudages, blocs, Vieux faubourgs, tout pour moi devient allégorie, Et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs. C. Baudelaire Le cygne37 These fragments I have shored against my ruins T. S. Eliot The waste land38

La Garfagnana è una vallata stretta tra l’Appennino e le Alpi Apuane, nel nord della Toscana. Fino a una quarantina di anni fa le sue attività erano soprattutto legate al bestiame, al castagno e all’agricoltura. Poi il miracolo: economico. La Garfagnana, zona depressa ed arretrata, con larga offerta di manovalanza, ha beneficiato di contributi per migliorare le sue condizioni di vita. O meglio, industriali hanno ottenuto sgravi fiscali per impiantare 37 [«Parigi cambia! ma niente, nella mia melanconia, s’è spostato: palazzi rifatti, impalcature, case, vecchi sobborghi, tutto m’è allegoria; pesano come rocce i ricordi che amo», traduzione di Giovanni Raboni] 38 [«Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine», traduzione di Roberto Sanesi]

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Rivista letteraria ed oltre nel fondovalle le loro fabbriche. Vie di comunicazione furono, e la montagna non ha tardato a svuotarsi. Metallurgico e cartario i settori principali, ma anche il tessile e il chimico – sfruttando il tannino dei castagni abbattuti. Della Garfagnana rurale, oggi, non restano che pochi segni. Ma anche di quella industriale: finite le sovvenzioni e la manodopera divenuta più costosa, le fabbriche si spostano nelle periferie del mondo, con un meccanismo noto anche ai bambini. Il prezzo del progresso. L’industria che si installa, sfrutta e infine si ritira. La sua onda grandiosa, con i sommersi e i salvati. Ma non è questo di cui voglio parlare. Gli scheletri di cartiere o di capannoni abbandonati: cosa se ne potrebbe dire? La voce si strozza e gocciolano umori neri come l’inchiostro. Ben altri sono i messaggi che voglio raccogliere. Mio nonno è nato nel 1922 ed ha abitato a Foce di Capraia fino al 1959, nel comune di Pieve Fosciana. Salvo un breve intervallo in Russia, dove andò con l’ARMIR. Già i suoi genitori abitavano poco lontano da Foce di Capraia. Mio nonno e mia nonna abitavano a poche centinaia di metri. Eppure, provenivano da realtà così diverse... Non è la storia della mia famiglia che voglio scrivere. Ma forse non potrei spiegarmi se non dicessi che la casa dove passo i giorni di vacanza fu comprata dal mio bisnonno all’inizio degli anni ’20, dopo che aveva lavorato in Scozia per mettere da parte i soldi. Mio nonno è morto quando avevo sedici anni. Mia nonna sta per compiere ottantatre anni. È, nonostante gli acciacchi, un’arzilla vecchietta, 81


Aeolo lucida e felice di poter raccontare la sua vita. Le esperienze di una terra avara, che l’hanno temprata e resa così forte. Storie che non tacciono la sofferenza e la fatica, e il freddo, talvolta la fame. Parole che sembrano provenire da un altro mondo. Amo camminare in montagna. La fatica, l’aria fina, il silenzio su cui le parole si stagliano nette. L’appetito dopo le tappe e il senso di benessere. I dintorni di Foce di Capraia sono ricchi di storia. La storia con la “s” minuscola, s’intende. Quella che forse traspira più umanità ed è perciò più vera. È difficile avventurarsi nel bosco senza incontrare dei ruderi: una capanna per le bestie, un metato, persino case, condannate – a causa della distanza dalla strada – a subire l’abbandono e le piogge. Sono i segnali di un mondo che non esiste più. Pare quasi di passeggiare in un museo. Oppure, invece, la forza del loro messaggio sta proprio nel non essere museo. Tra sparuti terrazzamenti si scoprono ammassi di pietre: la loro mancanza di forma racconta l’infinità delle forme che la vita può assumere. Come uno stato originario in cui niente è deciso e tutto è ancora possibile. Un tuffo au fond de l’inconnu, una discesa agli inferi da cui risalire in superficie più ricchi, più veri. Ma ora sto correndo troppo. Questi ruderi non parlano che di loro stessi. Della loro storia, delle storie di coloro che li hanno costruiti e che li hanno frequentati. Di suoni di campanelle, quelle legate al collo delle pecore mandate al pascolo e portate all’alpeggio. Del fumo dei metati in cui si seccavano le castagne.

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Rivista letteraria ed oltre Palpiti e sussurri che ci parlano di una Garfagnana che non ha saputo resistere al boom degli anni ’60. Promesse a cui non era facile dire di no, e che infine non sono state fatte tutte quante invano. Eppure... È come se dal centro avessero premuto per schiacciare queste zone marginali, per ridurne sempre più l’estensione; conformandole finché si poteva e tagliando fuori ciò che opponeva resistenza. Restano questi ruderi, su pendii scoscesi e terre dure, a dirci che non c’è niente di necessario, che tutto è frutto di scelte. Restano queste scintille. Resta, come la definì Pasolini, «la scandalosa forza rivoluzionaria del passato».

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Aeolo

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Garfagnana di Luca Caproni.

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Natale di Lapo Fanciullo È Natale. Questa sera l’aria è più luminosa. C’è stata una fuga dal reattore di S. Piero a grado. Per le strade illuminate a festa, la gente sorride e si saluta incurante della perdita di sensibilità alle dita dei piedi. Nell’aria pungente aleggia uno spirito che tira fuori il meglio di noi. Persino i barboni, a Natale, non sono barboni. Sono clochard. Guardo affascinato i fiocchi che danzano davanti alla finestra. Non è neve. Da queste parti non nevica dal ’91. È l’inquilino del piano di sopra che ha finito lo shampoo antiforfora. L’effetto è lo stesso molto scenografico. Un sentore speciale si mescola al profumo delle castagne e del panettone. Mio cugino arrossisce e si scusa. È che quei cavoletti di Bruxelles rischiavano di andare a male se non venivano finiti, spiega. Lo perdoniamo. È Natale e siamo tutti più buoni. Anche il tacchino. Per quanto il tacchino non sia d’accordo. E finalmente arriva il momento dello scambio dei regali. Non stavo più nella pelle dal desiderio di fare avere ai miei cari i doni 85


Aeolo che avevo preparato per loro, tanti pacchetti contenenti soprammobili che hanno smesso di infestare le mensole di casa mia. È il modo in cui due anni fa mi sono liberato di una gondola in vetroresina e di un gufo di ceramica, finiti nell’ordine a zia Adele e a nonna Carmelina. Mio padre ha ricevuto da cinque persone cinque diverse cravatte, tutte in tonalità di beige chiaro e beige scuro accostati in fantasiose variazioni. Nel guardaroba adesso ne ha centoventisette: beige chiaro, beige scuro, a pallini beige chiaro su sfondo beige scuro, a quadretti beige scuro su sfondo beige chiaro, a parameci beige chiaro su sfondo beige scuro, a strisce beige scuro su sfondo beige chiaro e a strisce beige chiaro su sfondo beige scuro (sospettiamo che le due cravatte siano identiche e che quelli che le hanno regalate si siano arrampicati sugli specchi per non ammetterlo). Babbo cerca senza riuscirci di sorridere e, sfoggiando quella che sembra una paresi facciale, ringrazia tutti, in particolare zio Gino per la cravatta a gechi beige chiaro su sfondo beige scuro. Non è nulla, si schermisce lo zio. Quella a tacchini arrosto beige scuro su sfondo beige chiaro era molto più bella, ma un sit-in di protesta di tacchini in strada l’ha convinto a non sembrare provocatorio. Io ricevo due pacchi da zia Adele e nonna Carmelina e li apro con ansia. Sono, nell’ordine, un gufo di ceramica e una gondola di vetroresina. Gli stessi di due anni fa. Ma è il pensiero che conta.

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Rivista letteraria ed oltre A natale è più buono anche mio cugino, che mi confessa che è stato lui a rubarmi una maglietta e rivenderla per racimolare i soldi per il Gamecube. Gli sorrido comprensivo e lo assicuro che non importa. Domani gli frego la catena della bicicletta. Sono più buono, mica più scemo. All’improvviso suona il campanello, ma quando apriamo non c’è nessuno. Sulla soglia troneggia il più grande e magnifico pandoro che abbiamo mai visto, con un bigliettino d’auguri. Lo portiamo in tavola. “Per i miei fratelli”, c’è scritto semplicemente sul biglietto. Solo che la firma è una zampa di tacchino. E il pandoro ticchetta.

Pace in terra agli uomini di buona volontà (tacchini permettendo)

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Aeolo

Progetto Notte n. 2 di Alberto Giannese Scrivere, il giorno, un po’ di notte, la mia idea zoppa. Fingere che la luce sia una condizione, mentre è un oggetto fisico che preme le palpebre. Quanta luce! Anche ad occhi chiusi non si può che percepire il Mondo. E quanto calore, fa quasi sentire meno soli. Ma io sono un qualcosa, un qualcosa che scrive, e allora… A passo per strada, un ubriaco ed il suo amico di legno, l’ombrello. Mozziconi di canzoni a squarciagola, nella notte umida che bagna le camicie, stese ad asciugare. Un gatto sopra il tetto si crogiola nella luna, filtra appena un po’ di luce dagli scuri di una casa, scale ed antri in ombra son carezze maliziose, mentre il chitarrista in silenzio si riposa.

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Costa Macauda Di quel divenire luce tutt’uno nella stanza, colmo di pienezza o, forse, solamente di se stesso. Dalla finestra, infine, la balenante cittĂ , e sui tetti oziosi colombi ai tiepidi raggi di un sole novembrino. Il mare lasciato indietro, il mare antico di fiocine e murene, quello sbavato appena dalle spume che sorreggono il mercato, nostro per chi non è partito.

Francesco Lioce

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Aeolo

Luna ruffiana Nessuna delle luci si era accesa mentre sbiadiva quell’ultimo sole tra l’asfalto ancora caldo e il muro, e ti sapevo già mito e certezza dell’afa che asciuga la gola e costringe i rondoni a migrare. Nell’ombra di fronte alla finestra abbondava il tuo seno e nient’altro, se niente era quel seme che finiva di agitare la tua mano. In quell’ora speciale di buio risalisti a baciarmi la bocca parlandomi sul collo di qualcosa che alla fine ti avrebbe fatto male. E ripartivi ogni volta per sempre nell’aria che imbruniva senza luce.

Francesco Lioce 90


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Sedia di Francesco Chiofalo.

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Aeolo

Titolo Criptato di Silvia Litterio Tu, chiuso nel tuo infimo regno antico brami il potere e desideri sottomettere. Tu, prigioniero del tuo infimo regno nuovo brami il denaro e scarti gli affetti. Tu, ardente di passione celi il tuo egoismo dietro la parola libertà. Tu vuoi essere libero ed aneli ad essere l’unico a potersi crogiolare stancamente pigramente lentamente al tepore rassicurante rabbrividente scottante della parola libertà. Il tuo regno non conosce leggi se non le tue, non conosce libertà se non la tua, non conosce vita se non la tua. Tu, che non volevi creare, ma l’hai fatto, che non volevi studiare, ma alla fine l’hai fatto, che non volevi lavorare vivere pensare incazzarti, ma alla fine l’hai fatto, con l’inconsapevolezza di un bambino che gioca col fuoco e come il turbine di una roulette che gira vorticosa impazzita spinta dalle mani del banchiere, hai fatto tanto male a chi ti stava intorno. La vecchiaia ti ha reso peggiore, ma meno forte e meno violento. Eccentrico egocentrico come una statua di Mussolini hai spazzato via i nostri fiori e gettato via i lucchetti dei nostri diari. Tu, latitante in un regno che hai costruito da solo, ci hai tenuti rinchiusi là dentro e mai ci libererai; hai istituito un regno che non piace neanche a te, dal momento che è solo una succursale del tuo potere. Noi tutti viviamo nelle colonie del tuo regno; non ci 92


Rivista letteraria ed oltre manca il pane, non ci mancano i libri, non ci manca la musica, né i vestiti, né la discoteca. Tu, nel tuo misero regno interpreti la tua parte, lanci oggetti contro il muro e mai, mai ti abbiamo visto piangere. La tua poltrona è abbastanza comoda? È succulenta la cena? Il tuo giaciglio è sicuro e confortevole? I tuo schiavi sono efficienti? Bravo, hai saputo sceglierli bene. Essi sono zelanti, obbediscono ai tuoi ordini; a volte non ti sopportano, ma Dio aiuta loro a sopportarti e in Dio trovano il coraggio e la forza di non ucciderti; saranno salvati attraverso il martirio a cui tu li conduci. Tu, agghindato d’oro e di platino, bevi in coppe di cristallo e le tue stoviglie sono d’argento, ma non ti accorgi di essere nudo. Nudo come un verme popoli il tuo regno, il tuo giardino incantato è maleodorante e sa di stantio. Nudo come un verme ti rotoli nella terra che ci fornisce il nutrimento. Hai fatto della ridondanza la tua forza ed io attraverso di essa ti rendo omaggio, dalla tua colonia.

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Aeolo

Cielo di Roma Cielo di Roma opaco denso sognante vapori smorti striature grigie: una storia di pietre.

Poesia di domani Qual dispersione di esseri smorti, quasi privati del senso di sĂŠ. Una calma vuota cinica indifferente si scorge dal fondo dei libri nel buio delle strade nei giochi di chi confonde e ignaro divide

Domenica Romagno 94


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Torna una nuova notte E le stelle mi chiedono attenzione o forse solo stasera mi accorgo di loro.

Barbara Sarri

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Aeolo

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Inter[venti]

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Aeolo

Dalla letteratura alla rigenerazione intervista a Carla Benedetti

di L. Caproni e E. Santus Aeolo ha incontrato Carla Benedetti. In una conversazione aperta – da Saviano a Leopardi e Moresco, fino a Pasolini, Simon Weil e Hannah Arendt – Benedetti parla della “forza rigenerante” della letteratura. E della possibilità di ricominciare da capo, oltrepassando i vicoli ciechi delle generazioni precedenti. Il testo completo si legge on-line sul sito

ENRICO SANTUS: In occasione di un laboratorio maieutico sulla mafia, Umberto Santino41 ha criticato a Gomorra il voler ottenere la credibilità di un saggio senza rispettarne i doveri (per esempio citare le fonti). CARLA BENEDETTI: Ma il materiale viene in gran parte dalle sue inchieste. Quali fonti avrebbe dovuto citare? I verbali di polizia? 41

Umberto Santino è uno dei massimi studiosi di questioni concernenti i poteri criminali, i mercati illegali e i rapporti tra economia politica e criminalità. Ha fondato e dirige il Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", a Palermo.

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Rivista letteraria ed oltre E. S.: Esatto, lui intendeva documenti a cui potevano accedere anche altre persone. Ma forse un romanzo, anche se ha fonti, non è obbligato a citarle. C. B.: Io non direi che Gomorra è un romanzo, perché anche questo mi pare un altro modo per ridimensionare la forza di quel libro [vedi Carla Benedetti, Le quattro forze di Gomorra, «Allegoria» N. 57, ndr], mettergli intorno dei sacchettini di sabbia, per non farlo esplodere… Ma per tornare all'obiezione sulle fonti, sono molte le persone che hanno accusato Saviano di avere inventato. Forse questo tipo di critiche derivano da un’idea di giornalismo piuttosto ristretta (e non solo di giornalismo, anche da un'idea piccola di scrittura, e di azione che si può fare attraverso di essa), basata solo sulla documentazione, la controinformazione e la denuncia. Mentre il lavoro che ha fatto Saviano è secondo me più ampio… La controinformazione è importante, ma non basta, tant’è vero che ci sono stati negli anni diversi saggi sulla camorra, di quelli che "citavano le fonti", che però non sono arrivati a smuovere niente. Quindi, vedere Gomorra semplicemente come un’inchiesta sarebbe inesatto, perché fa molto di più che un'importante opera di documentazione e di denuncia. Riesce anche a essere rigenerante, a provocare in chi legge delle reazioni che non sono semplicemente: “Ora lo so”, ma anche: “Come posso tollerare tutto questo?” A me sembra che la potenza di questo libro, e anche di ciò che Saviano continua a scrivere – come ad esempio la Lettera a Gomorra pubblicata su Repubblica di ieri (22 settembre 2008) – sia di trasmettere un senso di intollerabilità per ciò che stiamo vivendo …

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Aeolo E. S.: Di delusione, forse, per il fatto che la gente non si muova, non prenda l’iniziativa, non faccia niente. C. B.: No, non tanto di delusione… LUCA CAPRONI: Forse è più un richiamo. C. B.: … riesce a risvegliare nelle persone la percezione dell'intollerabilità di ciò che accade e che ci siamo abituati ad accettare passivamente, come se fosse ineluttabile e non ci si potesse fare niente. Invece non è vero che non possiamo farci niente. Se pensiamo così è perché siamo stati piegati. "Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati?" - scrive Saviano in quella Lettera. E va a toccare proprio la rappresentazione errata che le persone si fanno della propria impotenza. [...] Insomma Saviano non fa solo controinformazione, con il suo carico di passione e di sogno, con ciò che scrive e con il suo stesso esempio, cerca di riaprire le menti e i sogni dei suoi concittadini, semina sentimenti etici. Credo che molta pubblicistica contemporanea, che pure è critica, anche sul piano politico, penso ad esempio al lavoro di Travaglio, di Beppe Grillo, manchi proprio di questo, di questo elemento in più, che io chiamerei di rigenerazione. Per me questa parola è importante. [...] Non ci si può limitare a denunciare i misfatti dei politici, indignarsi o riderne. Bisogna anche suscitare delle controspinte, delle energie mentali e sentimentali che nella vita di ognuno sono state tarpate, addormentate, anche per mezzo dell’idea che tanto “Non ci puoi fare nulla”. [...] Questo senso di intollerabilità mette in primo piano

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Rivista letteraria ed oltre la responsabilità di ognuno, e soprattutto la possibilità che ognuno ha di dire di no… L. C.: è come se la letteratura avesse un ruolo diverso rispetto al giornalismo di controinformazione, riuscisse a smuovere qualcosa di profondo. C. B.: Non solo la letteratura, ogni genere di parola può avere una forza rigenerante. Leopardi, in un passo dello Zibaldone, scrive che le opere grandi (lui dice "opere di genio", senza specificare se sono poetiche, filosofiche o altro) sono sempre di consolazione, anche quando esprimono le più terribili disperazioni, anche quando ti mostrano l'inevitabile infelicità della vita, perché riaccendono l'entusiasmo, aumentano qualcosa nell'"anima grande" che le riceve. Se volete, quella lettera di Saviano è molto disperata, ma è anche carica di una passione positiva, anche se denuncia qualcosa di terribile, aumenta, come direbbe Spinoza, la potenza di agire di chi legge. L. C.: In questo, mi pare, c’è una grande fiducia nel lettore, nella sua concreta e reale voglia di cambiare qualcosa. C. B.: Io direi fiducia nell’essere umano. [...] L. C.: Dunque un po’ di ottimismo. C. B.: Non è ottimismo. Non è ottimista Saviano, come non era ottimista Leopardi, o Pasolini. Io penso che ci sia piuttosto una

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Aeolo forza anche nella disperazione. L. C.: Pasolini, uno degli autori che lei ha più studiato. Perché proprio lui? Qual’è la lezione che questo artista ci lascia? C. B.: Se devo dire in due parole quello che questo scrittore ci lascia, direi innanzitutto una lezione di libertà. Libertà di seguire la propria verità interiore, anche quando è diversa dall'opinione della maggioranza: una libertà che è del singolo individuo, non del gruppo, del partito, o di altri organismi collettivi. L’individuo, anche se soggiogato, ha sempre la possibilità di dire di no, come dichiara a Furio Colombo, in una delle sue ultime interviste. C’è sempre questa possibilità, ci si può sempre sottrarre. […] E poi l’altra cosa che mi sembra importante, che io trovo anche in Saviano e in altri scrittori contemporanei come Antonio Moresco, è una maniera tragica di fronteggiare il male, trasmettendoci appunto quel senso di intollerabilità che non trovo invece in tanti critici del mondo contemporaneo. […] L. C.: Si sente spesso parlare del “ruolo degli intellettuali”. Lei è d’accordo con l’uso di questa parola, “intellettuale”? C. B.: E' una parola che ha un senso solo quando la si usa come aggettivo in opposizione a “manuale”: quindi lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ma sostantivata la parola cosa significa? Chi è l’intellettuale? Anche nel campo artistico o del pensiero si vede bene che a essere usato non è solo l'intelletto. Poi, direbbe il solito Spinoza, questa separazione tra pensiero e corpo non esiste. E anche

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Rivista letteraria ed oltre la comunicazione coinvolge anche i direi di più. Lo "comunicazione", chimiche...

non è mai solo intellettuale, è anche emotiva, corpi assieme alle idee che mette in circolo. Ma scambio tra menti e corpi non è mai solo è anche fecondazione, contagio, reazioni

E. S.: Non è quindi solo il passaggio di un messaggio sterile. C. B.: Per esempio, leggevo questo libro di Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici. E' un piccolo libro, una "Nota" (in francese si inibitola semplicemente "Nota per la soppressione…", e non si capisce perché in italiano siano diventato addirittura un "Manifesto"). Non è un testo letterario, ma di riflessione, molto profondo, radicale. Mi arriva anche da qui qualcosa di rigenerante. Come dire, uno è pieno di ammirazione, di stupore: "è possibile che una mente riesca ad arrivare a pensare con tanta radicalità?" E' come ascoltare un quartetto per archi di Beethoven, uno degli ultimi, che sono delle meraviglie… dici “ma è possibile che si sia prodotto qualcosa del genere?” […] E. S.: Secondo lei qual è il futuro della letteratura? C. B.: Io credo che il futuro della letteratura non stia nella quantità di pubblico che riesce a raggiungere, ma nella qualità delle reazioni che riesce a provocare, inaspettate, impensate. Fosse anche solo una persona, avrebbe comunque una sua funzione importante. E. S.: Reazioni di che tipo? Perché se si trattasse di reazioni

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Aeolo sociali, abbiamo visto che Gomorra ne ha avuto in gran quantità e sta continuando ad averne, mentre i testi di Calvino non hanno certamente avuto lo stesso impatto sociale. C. B.: Non solo sociali, anche d'altro tipo. Anche "nutrimento"- e uso una parola che è ancora di Simone Weil. Insomma, noi viviamo per un periodo su questa terra: ci sono stati predecessori e ci saranno, forse, successori - anche se in questo periodo la posterità è diventata per la prima volta una cosa incerta. Anche di questo dobbiamo tenerne conto. Nell'incredibile situazione in cui ci troviamo, per la prima volta nella storia dell'umanità, l’illusione della posterità è venuta meno. Anche quest'illusione, di cui Leopardi non poteva prevedere la "strage", nel nostro tempo rischia di crollare: i posteri sono per noi qualcosa di molto aleatorio. [...] Io mi aspetto che dalla parola scritta e dalla sua forza d'invenzione possa ancora venire qualcosa che muti il corso del mondo... L. C.: Mi pare ci sia una grande fiducia nella letteratura in questo. Forse vuole anche dire che una sola persona che provi qualcosa di grande è già un messaggio di speranza forte. C. B.: “Speranza” è un’altra parola di quelle che Spinoza cancellerebbe. Assieme alla paura è una di quelle passioni che tengono incerto l’uomo e lo rendono dominabile. Se prendiamo gli autori di cui abbiamo parlato e ci mettiamo dentro anche Leopardi, vediamo che questa energia, questa possibilità di rigenerare, più che dalla speranza viene dal coraggio della verità.

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Rivista letteraria ed oltre L. C.: Come può una rivista di giovani redattori e giovani scrittori avere una presa sulla realtà? C. B.: La vostra domanda la rovescerei: se si può fare qualcosa la si può fare proprio perché si è giovani, quando si inizia dal niente, e c’è un’apertura totale. Come dice Hannah Arendt: “gli uomini non nascono per morire ma per ricominciare”. È una bellissima definizione dell'uomo, non essere per la morte, ma essere per il ricominciamento. Nei giovani c’è una tale urgenza di domande e di spinte biologiche e immaginative. [...] Con tutta una serie di cose e di atteggiamenti si sta impedendo la vita delle generazioni future, andando oltre il punto di tollerabilità dello sviluppo, mangiando le risorse del pianeta oltre la loro possibilità di rigenerarsi, provocando modificazioni climatiche, inquinando e facendo anche altre devastazioni. È una violenza sulla vita futura, cosa che non era mai esistita in altre epoche. Necessariamente quindi un giovane ha un orizzonte totalmente diverso da quello delle generazioni precedenti… Riallacciandoci a questo impedimento del futuro, i tagli alla scuola e all’Università sono la cosa più devastante e dissennata che si possa fare. Una società che risparmia sull’istruzione è destinata al collasso. E. S.: A proposito di istruzione, lei come insegnerebbe la letteratura a dei giovani che non hanno basi?

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Aeolo C. B.: A volte è quasi un bene che non ne abbiano! Nel senso che le basi sono altre: la curiosità, l’intelligenza, la vita. Io abolirei i manuali di letteratura, e farei confrontare i giovani con un'individualità, con un’opera letteraria, filosofica. I manuali sono deleteri all’Università dove si hanno già più letture alle spalle, strumenti critici, figuriamoci nella scuola media. Possono essere utili per avere un panorama, ma mortificano le intelligenze. Non importa se la difficoltà di lettura di un saggio o di un testo letterario è superiore a quella di un manuale, è comunque vivo, non filtrato da schemi e interpretazioni precostituite. E poi la difficoltà attiva e stimola.

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L’ordine e il disordine. Recensione a Condomino di Danilo Soscia

di Luca Caproni Condomino è il libro d’esordio di Danilo Soscia, nato nel 1979. Pubblicato da Manni, contiene trentasei racconti legati da una struttura “forte”: un condominio di tre palazzine – A, B, C – ognuna di sei piani e a ogni piano due interni; totale trentasei interni. Per ciascuno un racconto, costituito da dieci capoversi, ognuno di un numero di righe compreso tra otto e dieci. Le vicende narrate sono spesso al limite del verosimile, a volte addirittura surreali. Tutte enigmatiche – perturbanti: il mistero si nasconde tra le mura domestiche, proprio dove dovremmo sentirci più a nostro agio42. Il libro riflette l’esigenza di ordine da opporre al disordine. Alla rigida struttura narrativa, sul versante dell’ordine, si accompagna una scrittura estremamente limpida e controllata, sorprendente per la sua esattezza: «l’odore delle pareti, l’altezza del soffitto, la ruvidità della vernice vecchia, tutto è rimasto uguale» [p. 125], nota al riguardo della sua ex-casa un personaggio che ha perso la vista. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Una scrittura che per certi 42 Sul «perturbante» il principale riferimento è naturalmente S. FREUD Il perturbante, Bompiani, Milano 2002.

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Aeolo aspetti ricorda Calvino – anche se il bisogno di ordine espresso da Soscia è ben diverso rispetto al gioco combinatorio dell’OULIPO43. Ma, in Condomino, l’ordine è continuamente insidiato dal disordine. Come i trentasei interni non comunicano tra loro – nota Burali che «gli spazi condivisi» (scalinate, ascensori, pianerottoli, cortili) sono quasi assenti44 – così i racconti, a dispetto della struttura che li tiene insieme, non racchiudono un’unità di senso. Le singole storie non sono, nota ancora Burali, «le tessere di un puzzle che una volta composte svelano l’enigma». Il dato comune dei racconti, e la cifra principale del libro, si troverà piuttosto nella disintegrazione dello spazio e dei significati. Tra spazio e significati, infatti, si instaura una singolare coincidenza: il condominio come spazio fisico è da interpretare soprattutto come spazio interiore dell’io45. Come il condominio si scompone in storie impermeabili le une alle altre, così l’io si cerca attraverso labili personaggi, animali parlanti, oggetti misteriosi, in cui sembrano condensarsi angosce e rimozioni. La struttura narrativa del libro assomiglia ad una valigia troppo piena, che minaccia di esplodere in 43

Sulla concezione di Calvino del romanzo come «gioco a scacchi con il lettore», vedi I. CALVINO Il romanzo come spettacolo, in Una pietra sopra, Mondadori, Milano 1995. 44 La recensione di Giovanni Burali si legge on-line sul sito http://www.sguardomobile.it/spip.php?article281. 45 Soscia ha dichiarato in un’intervista: «percepisco questi trentasei interni come flusso di coscienza, narrazioni raccontate dall’interno di un condominio ma anche dall’interno della mente»; l’intervista – rilasciata a Fahrenheit nella puntata del 20 agosto 2008, in onda su Radio 3 – si può leggere on-line sul sito http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=259730.

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Rivista letteraria ed oltre ogni momento – e «la valigia» è il titolo del racconto con cui si conclude il libro, dove l’«ordine inimitabile» della valigia della madre che abbandona la casa, si contrappone all’«insopportabile disordine» dello spazio in cui vivono il figlio e il padre. Allo stesso modo, l’io, sempre sul punto di disgregarsi nei suoi momenti di non-comprensione, quasi incredibilmente, resiste. Anche la scrittura, pur così limpida e controllata come si è detto, è silenziosamente corrosa dal disordine. Risalta immediatamente l’assenza di lettere maiuscole: mai dopo un punto, mai ad indicare un nome proprio. La punteggiatura è scarna, fatta quasi esclusivamente di punti, di virgole e di rari punti interrogativi; mai i due punti, mai il punto e virgola. L’autore ha dichiarato di essersi attenuto, per la scrittura del libro, al «principio della sottrazione»46: non si stenta a credergli. Si ha la sensazione che questo libro non potesse essere scritto diversamente. Come la struttura narrativa tiene insieme un materiale estremamente centrifugo, così questo stile compatto, ma allo stesso tempo fragile e sofferto, cerca di costruire una narrazione lucida e quasi clinica laddove il disordine spingerebbe verso l’impossibilità del dire e il silenzio. Uno stile veramente notevole, che se ha un difetto è quello di rischiare la monotonia. La bellezza del libro sta proprio nel cozzare contro questa impenetrabilità, cercando continuamente un varco. Nella citata intervista, l’autore afferma che al centro del libro sta la «ricerca del nostro rapporto con lo spazio». E, nel racconto di apertura del libro, 46

Vedi l’intervista rilasciata a Fahrenheit.

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Aeolo leggiamo: «il mio ruolo di astronauta» è di «esplorare i confini dello spazio» [p. 13]. Lo spazio fisico del condominio, ma anche lo spazio interiore dell’io, i cui confini sono marcati dalle rimozioni, dai sensi di colpa, dal non detto, dai fantasmi che turbano il sonno. Tutti quei pesi di cui ciascuno di noi ha il suo bagaglio. E Condomino, con i suoi simboli misteriosi e figure inquietanti, scava fino a trovarli: «i pinguini ritornano come certi problemi che pensavi risolti per sempre».

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Rivista letteraria ed oltre

“La Voce” 1908-2008 a cura del Gabinetto Vieusseux Nel 2008 ricorrono cento anni dall’inizio delle pubblicazioni della «Voce», la rivista che, agli inizi del secolo ormai trascorso, con la sua apertura europea e la varietà dei temi dibattuti nelle sue pagine, contribuì in maniera determinante al rinnovamento della cultura italiana. Il primo numero fu dato alle stampe nel dicembre del 1908 a Firenze, dove sempre rimase la sua sede, e le pubblicazioni proseguirono con periodicità settimanale fino al 1914, quando la rivista divenne quindicinale, e tale rimase fino alla cessazione delle pubblicazioni (l’ultimo fascicolo uscì nel dicembre del 1916). Il cambiamento di periodicità coincise anche col passaggio dal formato tipografico del ‘foglio’ al ‘quaderno’. L’impronta idealistica e antipositivista - ereditata dal «Leonardo» -, che caratterizzò gran parte del dibattito culturale promosso da «La Voce», non esaurisce il vasto e complesso contributo di idee e di orientamenti che la rivista contribuì a diffondere in Italia attraverso un numeroso ed eterogeneo gruppo di collaboratori, tra le forze intellettuali più vive del tempo: da Prezzolini (l’ideatore e fondatore) a Cecchi, da Croce 111


Aeolo ad Amendola, da Papini a Salvemini, da Soffici a LombardoRadice, da Slataper a Boine… L’orientamento ideologico e culturale che la rivista perseguì fu determinato pure dai diversi direttori che si succedettero nel corso degli anni, in riferimento ai quali si è soliti riconoscere per «La Voce» quattro fasi: La prima, sotto la direzione di Giuseppe Prezzolini, improntata a un profondo coinvolgimento della cultura nelle diverse problematiche politiche e sociali del paese (la questione meridionale, l’istruzione scolastica ecc.), in contrasto con l’identità estetizzante della figura del letterato, e perciò in evidente polemica col vigente dannuzianesimo. Altro fronte polemico costante della «Voce» fu l’operato di Giolitti e in particolare il suo trasformismo politico; non mancarono comunque già in questa fase divergenze di vedute e contrasti interni fra i collaboratori, che divennero insanabili al momento della guerra di Libia, e in seguito alle quali Gaetano Salvemini cessò, nel novembre 1911, la sua collaborazione alla rivista. La crisi con Salvemini portò poco dopo anche al cambio della direzione, e nel 1912 a Prezzolini subentra Giovanni Papini, improntando la seconda fase della «Voce» a una attenzione verso la letteratura in senso puro, lontano dalle implicazioni politiche e dai temi sociali. Fu in questa fase, destinata a durare poco più di un anno, che attraverso le pagine della rivista

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Rivista letteraria ed oltre cominciarono ad avere una più decisa circolazione in Italia testi di autori come Ibsen, Mallarmé, Claudel, Gide. Nel 1914 Prezzolini riprese la direzione della rivista, e la sua personalissima elaborazione dell’idealismo riporta la rivista a posizioni di carattere “militante” con una forte impronta irrazionalistica. Negli accesi contrasti che prelusero alla Guerra mondiale, Prezzolini assunse sulla «Voce» posizioni di acceso interventismo, abbandonando poi una seconda volta la rivista alla vigilia del conflitto per avvicinarsi al «Popolo d’Italia» e a Mussolini. La direzione passò, fino al 1916 e alla cessazione delle pubblicazioni, a Giuseppe De Robertis, che trasformò «La Voce» in una rivista esclusivamente letteraria (e questa quarta fase viene per lo più denominata, dal colore della copertina, «La Voce bianca»). L’impostazione corrispondeva all’attitudine peculiare del grande critico, teso a riconoscere il valore estetico nella pura considerazione del testo letterario in sé, sottratto alle contingenze storico-biografiche. Molti i grandi autori che in questa quarta fase della rivista ebbero occasione di trovare o consolidare la loro affermazione (come Ungaretti, Bacchelli, Govoni, Sbarbaro, Campana, Cardarelli…), e la cosiddetta “poetica del frammento”, precisatasi nelle scelte e nell’operato di De Robertis direttore della «Voce», avrà a lungo risonanze notevoli nella letteratura italiana, particolarmente nell’esperienza dell’ermetismo.

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Aeolo Alla «Voce bianca» Prezzolini affiancò, dal 7 maggio 1915, la «Voce gialla» ‘edizione politica’, che si voleva richiamare a «L’Unità» e alla prima «Voce» accesamente interventista, la quale proseguì le sue pubblicazioni fino al dicembre dello stesso anno. «La Voce» può essere legittimamente considerato il primo e più importante fenomeno di ‘modernità’ culturale dell’Italia unita, che coinvolse intellettuali la cui formazione si era ormai sviluppata ben oltre i limiti di ogni tradizionale regionalismo e provincialismo, energicamente aperti alle contemporanee culture straniere.

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Collaboratori e ringraziamenti HANNO LAVORATO A QUESTO NUMERO Enrico Santus (Direttore e redattore) ChinnĂŹ Valentino (Vice responsabile e redattore) Cecilia Barletta (editor e redattrice) Sara Buscio (tesoriera e redattrice) Luca Caproni (redattore) Francesco Chiofalo (redattore) Silvia Litterio (pubbliche relazioni e redattrice)

Logo, locandine e copertina di Alessandro Russo HANNO COLLABORATO Valeria Majorana, Agostino Agostini, Alberto Giannese, Barbara Sarri, Claudia Ciardi, Dario Rossi, Domenica Romano, Enzo Sardarello, Francesco Lioce, Giancarlo Di Bello, Gianfranco Meneghini, Gianni Crippa, Giuseppe Buretta, Innocenzo Alfano, Lapo Fanciullo, Marco Amerighi, Maria Batzing, Massimiliano Bertelli, Michele ChinnĂŹ, Renata Schiavo, Renato Marvaso, Riccardo Scano, Roberto Lepera. I collaboratori evidenziati in neretto saranno pubblicati on-line sul nostro sito internet. Chiediamo perdono se erroneamente abbiamo scordato qualche nome.

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Rivista letteraria ed oltre

Finito di stampare dalle Edizioni Il Campano nel mese di Gennaio 2009

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