Anno 3, numero 17, febbraio 2010 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com) Art director: Alessio Di Mauro Hanno collaborato a questo numero: Lucrezia Carlini, Alessio Mannino, Januaria Piromallo, Eduardo Zarelli, Marzio Pagani
Alì il Chimico, e gli altri ladroni? di Massimo Fini
Il nemico necessario di Valerio Lo Monaco
Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602
Silence, please
Progetto Grafico: Antal Nagy Mauro Tancredi
In principio fu il Patriot Act
La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000 Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Agenzie di Stampa: Adn Kronos Il Velino Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008
di Federico Zamboni
di Lucrezia Carlini
L’intervista: Estulin, lotta al Bilderberg di Valerio Lo Monaco
Brunetta: dal salario al sudario di Alessio Mannino
Moleskine febbraio 2010 Città in transizione di Eduardo Zarelli
Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com
Allettanti visioni di resilienza di Rob Hopkins
Quindici uomini fra le linee del morto di Marzio Pagani
Requiem per Vic di Federico Zamboni
Il film: Come fosse Antani Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti. Chiuso in redazione il 27/01/2010
di Ferdinando Menconi
10 anni d’esilio (in patria)
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Leggo al minimo. Il Tempo divora gli occhi e il resto. Ma “La Voce del Ribelle” merita di vivere. Qualcuno... chissà... Guido Ceronetti
FINI
Alì il Chimico
MASSIMO
e gli altri ladroni?
I
di Massimo Fini
l 25 gennaio è stato impiccato a Bagdad il cugino di Saddam Hussein, Alì Hassan al-Majid, detto anche "Alì il chimico" perché in varie occasioni usò le famose "armi di distruzione di massa". Esecuzione sacrosanta, solo che su quella forca avrebbero dovuto dondolare, e con maggior ragione, anche altri pendagli. E qui bisogna rifare un po' di storia, opportunamente dimenticata. Nel 1980 Saddam Hussein attaccò l'Iran ritenendolo indebolito dalla caduta dello Scià, sostenuto dagli americani benché non rappresentasse che una sottilissima striscia di borghesia ipericca (il 2%) in un mare di miseria, e dall'arrivo di Khomeini. Per cinque anni il cosiddetto Occidente, e non solo, stette a guardare la "guerra assurda" ritagliandosi però i suoi guadagni (business is business) vendendo armi agli uni e agli altri. Nel 1985 dopo sacrifici immani (erano i basii, con i loro corpi, saltando per aria, a "ripulire" i campi minati dagli iracheni con ordigni, molto spesso, di fabbricazione italiana) le truppe iraniane erano davanti a Bassora e stavano per prenderla. La conquista di Bassora avrebbe avuto come conseguenza immediata la caduta del regime di Saddam Hussein definito da Khomeini "l'impresario del crimine" per la feroce repressione nei confronti degli sciiti e dei curdi iracheni. A questo punto intervennero gli americani, gli occidentali, i sovietici e tutte queste "anime belle" dichiararono che non si poteva permettere, per motivi umanitari, alle "orde iraniane" (nostri sono eserciti, quelli degli altri "orde") di entrare a Bassora: sarebbe stata una strage. Questa la motivazione ufficiale. In realtà perché l'Occidente e i sovietici presero le parti di Saddam contro
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MASSIMO FINI
Khomeini? In fondo era l'Iran ad essere stato aggredito e stava vincendo legittimamente una guerra che l'avversario aveva provocato. Le ragioni sono molteplici. Saddam Hussein stava perfettamente nella logica del biimperialismo sovieto-americano: era laico (si sarebbe inventato campione dell'islamismo all'epoca della prima Guerra del Golfo) e inserito nel modello di sviluppo globale. Khomeini invece, che propugnava una "terza via", un modello di sviluppo compatibile con la tradizione e la cultura islamica, e quindi né capitalista né marxista, era il pericolo. Gli americani avevano poi una ragione ulteriore. Saddam gli serviva in funzione anticurda. Se fosse caduto i curdi iracheni avrebbero proclamato la propria indipendenza contagiando i 10 milioni di loro confratelli che vivono in Turchia (circa un sesto della popolazione) e repressi nel modo più feroce e sanguinario dal governo di Ankara. E la Turchia, immensa portaerei naturale, è il grande alleato degli americani nella regione, molto più importante, ai loro occhi, dell'Europa. Così mentre all'Iran venivano tolte tutte le forniture militari Saddam Hussein era rimpinzato di ogni genere di armi, comprese quelle chimiche, le famigerate "armi di distruzione di massa", di cui lo dotarono gli americani, i francesi e, via Germania Est, i sovietici. Risultato dell'intervento "umanitario": la guerra che sarebbe finita nel 1985 con un bilancio di mezzo milione di morti, durò altri tre anni portando questa tragica conta a un milione e mezzo, finché Khomeini fu costretto a "bere l'amaro calice" e firmare la pace. Saddam, invece di essere spazzato via dalla faccia della terra, come meritava, si trovò saldamente in sella e pieno d'armi. E, per prima cosa, secondo i desiderata americani, le usò contro i curdi. Nel 1988 "gasò" la cittadina di Halabya uccidendone tutti i 5000 abitanti. Io, che avevo dei buoni informatori in Iran, lo seppi e pubblicai la notizia su l'Europeo ma, benché l'Europeo fosse allora un settimanale di prestigio e di notorietà internazionale, nessun giornale occidentale, che io sappia, la riprese. Saddam era allora un alleato dell'Occidente e non "istava bene" far sapere che faceva queste brutte cose. Saddam, come dicevo, era pieno zeppo di armi. Cosa fa una rana con sulla groppa un grattacielo di armi? Le rovescia sul primo posto che gli capita, che fu il Kuwait. E questo provocò la prima Guerra del Golfo. Guerra legittima perché era stato attaccato uno Stato sovrano, anche se dalle dubbie origini perché fu creato di sana pianta, nel 1960, dagli americani per i loro interessi petroliferi (del resto anche l'Iraq è un'invenzione cervellotica degli inglesi che nel 1930 misero insieme tre popolazioni che non si potevano sopportare, curdi, sunniti e sciiti). Guerra legittima nel principio ma non nei modi. Per non affrontare fin da subito l'imbelle esercito iracheno, che era stato battuto anche dai curdi (in quell'occasione fu la Turchia a salvare Saddam) gli americani bombardarono per due mesi Bagdad, Bassora e altre città facendo 160 mila morti civili (dati del Pentagono) fra cui 32195 bambini che non sono meno bambini dei nostri. Dopo ci fu la gloriosa cavalcata nel deserto del generale Schwartzkopf che si arrestò però a una cinquantina di chilometri da Bagdad. Ma come, dopo quella carneficina, non
frega niente di...: i soccorsi ad Haiti ***** il matrimonio della Gelmini * Sanremo *** le Regionali ***** l’assoluzione di Fabrizio Corona 1/2 Bonino und Pannella *****1/2
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Non ce ne
si andava a prendere il principale responsabile? No. Saddam serviva sempre in funzione anticurda e antisciita. E il rais, diligente, questa volta rovesciò le armi chimiche sulle città sciite di Karbala e Najaf. A questo punto le aveva esaurite e per questo non furono trovate quando gli americani ne presero pretesto per invadere l'Iraq (seconda Guerra del Golfo). Ecco perché a pendere dalla forca il 25 gennaio insieme ad "Alì il chimico" avrebbero dovuto esserci, almeno in effige, un paio di presidenti americani, Ronald Reagan e Bush padre. Ma, come sempre, e come si vedrà presto anche in Afghanistan, gli americani si sono dati la zappa sui piedi da soli. Dal 1985, come abbiamo visto, la loro politica nella regione è in funzione antiraniana. La pseudodemocrazia che hanno imposto in Iraq non ha portato la sicurezza nel Paese (proprio nei giorni precedenti l'esecuzione di "Alì il chimico" ci sono stati due attentati che hanno provocato 120 morti e centinaia di feriti), in compenso ha consegnato due terzi dell'Iraq agli sciiti che sono la maggioranza e che sono sotto il controllo dell'Iran, com'è naturale poiché si tratta della stessa gente. Proprio quello che gli americani volevano evitare quando, nel 1985, intervennero per impedire che "le orde iraniane" entrassero a Bassora.
Il nemico necessario ome abbiamo visto altre volte, nella società attuale, dominata dall'immagine, dai mezzi di comunicazione e dalla persuasione costante alla quale tutti noi siamo sottoposti, se una notizia, un evento, un argomento, non passano sui canali informativi di massa, è come se se non esistessero. Se non fossero mai accaduti. Qualsiasi cosa, soprattutto se potenzialmente destinata al mezzo televisivo (di gran lunga il più efficace allo scopo di veicolazione) è notiziabile solo e unicamente nel caso in cui a essa si possano abbinare delle immagini, facendo percepire l'oggetto stesso da informazione, in pratica, a intrattenimento. Nella migliore delle ipotesi, a infotainment. Non solo. Allo stesso modo, mediante il sistema dell'Agenda Setting, qualsiasi argomento o notizia o evento, se non viene trasmesso e comunicato, è come se non avvenisse. Va da sé, a questo punto, che in modo speculare, gli unici eventi, notizie e avvenimenti ad avere rilevanza e ad essere posti all'attenzione pubblica - letteralmente: a esistere - sono quelli che invece su tali media vengono comunicati, enfatizzati, dibattuti.
Ma a un livello ancora più alto, se vogliamo metafisico e al di là dell'argomento stesso, sono i temi in generale (più che le singole notizie) a subire la medesima sorte. Soprattutto, attraverso il duplice meccanismo dei piani logico ed emotivo - e alla padronanza che i professionisti di tali mezzi hanno raggiunto nel maneggiare questi metodi - si riesce a veicolare e a far percepire all'opinione pubblica, sia mediante il meccanismo logico sia soprattutto mediante lo stimolo emotivo, in base al target di persone da raggiungere, la rilevanza di certi temi. E in maniera decisiva, esattamente il come questi temi debbano essere interiorizzati dalla gente. Si possono fare esempi a centinaia. Basti quello più evidente, ovvero la veicolazione della guerra, ovvero della necessità ineluttabile di farla, una guerra. Il che naturalmente implica, ancora prima, l'individuare un "nemico" contro il quale farla e dipingerlo come il male assoluto (in ovvia contrapposizione implicita al bene assoluto di chi veicola tale necessità). Stabilire e indicare un nemico necessita, come è intuitivo capire, che ci si riconosca innanzi tutto in un "noi", da contrapporre a un "loro". Stabilire un noi è già impresa titanica in un mondo che evita nella maniera più determinata di far percepire l'appartenenza della gente a qualche cosa di comunitario che non sia l'individualismo e la separatezza, con la quale invece serve che vengano spinti tutti gli individui al fine di favorire il consumo, il materialismo, l'individualismo sfrenato. Che è il solo e unico substrato necessario alla perpetrazione del sistema dei consumi: se io individualmente posso - anzi devo, visto che il mondo nel quale vivo è retto da questo principio - soddisfare unicamente le mie esigenze personali del qui e ora, non è un caso che non riconosca chi ho intorno (se non in termini competitivi), che non riconosca un senso con-
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Lo Monaco
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di Valerio Lo Monaco
Lo Monaco
diviso con la comunità nella quale vivo. Non è un caso che io percepisca, in un mondo in cui tutto si equivale, che nulla ha più senso. Ma il problema resta: riuscire a costituire un noi in un mondo nel quale vale - e deve valere - solo l'Io. In questo vi sono alcuni dei grandi paradossi e controsensi - e problematiche della nostra società. La quale tende a separare ognuno di noi dalla propria cultura e dalla propria comunità, fino anche dalla propria storia condivisa, al fine di ridurlo docile schiavo di un paradigma mondialista universale ma individuale, ma che allo stesso tempo ha bisogno, in particolari circostanze, di far raccogliere tutti questi individui apolidi, in un noi omni-comprensivo: nel momento in cui vi è bisogno di indirizzare l'opinione pubblica nei confronti di un loro - di un nemico - da contrastare con il consenso maggiore possibile. Almeno dal punto di vista emotivo. Impossibile, oggi, fare una guerra senza coinvolgere almeno emotivamente le persone (altrimenti come si potrebbe parlare poi - sebbene a sproposito - di società democratica?). Individuare un "loro" e spingervi contro una crociata diventa dunque appannaggio di media e politica che hanno i mezzi per farlo. Ovvero di lobbies. In questo caso, per essere chiari, un "loro" che ognuno di noi non ha individuato personalmente, non ha scelto, e che contro il quale, molto spesso, non ha veramente nulla da rivendicare. Per essere più precisi, il "loro", il "nemico", viene individuato da poche e influenti élite di potere per soddisfare i più disparati bisogni (economici, s'intende). A questo punto, si passa alla necessaria operazione successiva: convincere tutti i sudditi della esistenza, della presenza, dell'incombenza, della minaccia di questo nemico, e dunque spingere l'opinione comune ad accettare - o quanto meno a non osteggiare troppo - un intervento contro di esso e altre operazioni fatte passare come necessarie alla sicurezza. Il nemico, in sostanza, è indispensabile a chi voglia continuare a mantenere un controllo su una grande massa di persone e popoli, utilizzando un falso concetto di appartenenza di campo (campo del quale naturalmente comanda i destini). Questo avviene per tutte le norme e le azioni attuali volte alla conquista: di territori, di mercati, di popoli. Ma anche per avere carta bianca in una delle operazioni più determinanti degli ultimi tempi: la restrizione delle libertà personali (nel mondo libero che si sforzano di veicolare...) a fronte della necessità di sicurezza, che a chi si sente padrone del vapore serve per sbirciare nelle nostre abitudini (in modo da venderci meglio qualunque cosa) nelle nostre inclinazioni politiche (evitare associazioni potenzialmente eversive o comunque di stampo contrario a quello voluto) e in modo più generale a tenere il numero più alto possibile di persone sotto controllo (ne parliamo in questo numero della rivista). Finita la Guerra Fredda, e caduto ciò che era stato per decenni considerato il "nemico" dell'Occidente, ovvero l'Unione Sovietica, è stato urgente individuare e indicare il prima possibile dei nuovi nemici. In modo da mantenere l'attività della Nato e in modo particolare da mantenere l'Europa sotto il cappello statuinitense. In modo da mantenere, ecco la chiave di tutto, la supremazia Usa in chiave economica - il Dollaro - come base mondiale per il commercio: totem
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Riepiloghiamo: se la natura del "noi" è decisa dal mondo dell'immagine e della comunicazione solo quando serve, ovvero da chi detiene i fili per poter utilizzare ai propri fini (che sono meramente economici e di potere) tale fittizio sentire comune; se la natura stessa del "noi" è decisa e veicolata da chi attraverso questo "noi" intende perseguire degli obiettivi personali fatti passare come appannaggio di tutti, e se la natura e le motivazioni di indicazione del "nemico", del bersaglio da colpire, sono individuati e decisi dalla stessa fonte, quale speranza hanno i popoli e le singole persone nel cercare di svincolarsi da una direzione di vita, da una pseudo-cittadinanza, da uno pseudo-scopo di esistenza e da inutili e ingiuste battaglie da compiere indicati - e imposti - da chi sceglie e veicola il tutto? I nostri media, i governi dell'Occidente (e di chi vi si riconosce in tutto il mondo), le lobbies di potere - si tratta di poche famiglie, oltre che di intere schiere di giornalisti e pseudo-intellettuali a libro paga, consciamente o avendone erroneamente interiorizzato i fondamenti - indicano come nemici principali del nostro mondo tutti quelli che respingono la mercificazione dell'esistente come unico scopo di vita, tutti i popoli e le culture che vogliono resistere all'omologazione che ci rende schiavi, tutti i Paesi che non vogliono adottare tale sistema e in senso assoluto tutte le persone che reagiscono al pensiero unico dominante. Questi, a vario titolo, sono indicati tutti come terroristi o nella migliore delle ipotesi come attentatori del "migliore dei mondi possibili". A fronte di questa sommaria indicazione del nemico, ci impongono il controllo delle menti e delle nostre vite, ci impongono di vivere la nostra esistenza, di fatto, secondo la dottrina unica che sta portando al dissolvimento delle nostre società e alla distruzione della Terra, ci impongono di impegnarci in guerre contro chi, legittimamente, preferisce combattere e morire in un istante piuttosto che piegarsi a novanta gradi e rimanere schiavo per tutta la vita. Ne consegue - irrimediabilmente - che tutti gli uomini liberi, tutti i ribelli che si sentono estranei a tale "noi" imposto, debbano considerare nemico esattamente chi vuole imporre loro tali coercizioni, e si debbano sentire solidali con chiunque, in qualunque parte del mondo, voglia mantenere la propria specificità e identità, e tenti di opporsi e combattere contro il nemico principale, che attualmente è il nostro modello di sviluppo e chi ne pretende di dirigere le sorti. Valerio Lo Monaco
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Lo Monaco
assoluto della nostra società. Il quale a sua volta è, attualmente, l'unico senso (direzione e significato) del mondo nel quale ci troviamo a vivere. Ciò si è ottenuto grazie a una operazione grossolana, eppure riuscitissima, che ci ha fatto passare, appunto, dalla Guerra Fredda (Usa-Urss) alla Pace Calda di oggi: un nemico persistente e quasi invisibile, potenzialmente annidato ovunque (ovunque serva...) e che per combattere il quale risulti necessario fare guerre di Enduring Freedom, operazioni di pace militarizzata perpetua. In altre parole, di guerra costante per mantenere la pace. Pace con morti e distruzione, s'intende. Paradossale, eppure l'Occidente in toto, o quasi, si beve la storiella.
ANALISI
Silence, please Abbassare i toni, discutere serenamente, collaborare tutti insieme. Traduzione: lo statu quo non si tocca.
C’
di Federico Zamboni
è una guerra delle parole, in pieno svolgimento e con in gioco una posta altissima. Non chissà dove: qui in Italia. C’è un tentativo, subdolo per un verso, spettacolarizzato per l’altro, di cambiare la percezione della realtà economica e sociale – e dunque della politica – fino a ridurre qualunque contrapposizione nei confronti dell’establishment a una semplice divergenza più o meno marginale. Chiunque si ostini ad avere atteggiamenti più drastici viene tacciato di ostilità preconcetta e di disfattismo congenito. Se possiede un apparato critico appena un po’ complesso lo si liquida all’istante come un anacronistico seguace delle “vecchie” ideologie novecentesche; se non ce l’ha, e si limita a protestare perché ha uno stipendio da fame o perché non ha più neanche quello, si prova a rabbonirlo con frasi di circostanza, dopodiché, se insiste, lo si iscrive d’autorità all’assai deprecabile “partito dei pessimisti”. Il messaggio è declinato in mille modi, ma sono solo variazioni sul tema. Come è tipico della propaganda, e della pubblicità, si utilizzano principi condivisibili per catturare il consenso. Poi si trasforma quel consenso in un avallo indiscriminato. E lo si riversa dove serve. Il principio condivisibile è che l’interesse nazionale è unico e che i diversi gruppi sociali vanno considerati sempre e comunque come parti della stessa e irrinunciabile costruzione. L’avallo indiscrimina-
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Si punta il dito contro il “clima politico” nel nostro Paese. Non nei motivi che a tale clima portano.
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to viene riversato sull’attuale struttura economica e sociale. Il sillogismo, più che mai capzioso, è che essendo italiani bisogna amare e sostenere l’Italia come è oggi. Anzi: come sta diventando sotto la pressione dei potentati che la controllano. Essere “parti della stessa e irrinunciabile costruzione”, dunque, implica che si accetti l’edificio così com’è. Quand’anche palesemente e assurdamente disomogeneo – degradato fino alla fatiscenza nei suoi piani inferiori, lussuoso fino alla megalomania in quelli più elevati – la sua solidità complessiva viene posta al di sopra di ogni altra considerazione. Dai più ricchi ai più poveri, dai cittadini più onesti agli oligarchi più spregiudicati, tutti quanti devono sentirsi affratellati da un destino comune, in cui il bene del singolo e quello della collettività convergono per definizione. Secondo questa rappresentazione, che come vedremo meglio più avanti viene alimentata non solo dai partiti ma anche dal presidente della Repubblica e dai vertici della Chiesa, ciò che accade è frutto di dinamiche alle quali tutti noi concorriamo e che, nella loro essenza, sono pienamente legittime. Secondo questa rappresentazione, tolta la criminalità vera e propria non esiste nessuna consorteria che si prefigga scientemente e cinicamente di affermarsi a danno della popolazione nel suo insieme. Di conseguenza, nella lotta politica non ci sono e non ci possono essere nemici in senso proprio, che vanno combattuti fino a quando non si sia riusciti a neutralizzarli, ma tutt’al più semplici avversari, ai quali contendere i posti di maggiore prestigio e, in teoria, di maggiore responsabilità. Conclusione: dietro le terribili e crescenti sperequazioni sociali non c’è nessuna responsabilità precisa e, men che meno, nessuna strategia deliberata. Le vittime sono accidentali, per definizione. Il sistema, per quanto perfezionabile, è sostanzialmente il migliore che si possa immaginare.
Il cosiddetto “clima” Bella cosa, ragionare con calma. Discutere in modo costruttivo. Evitare che il dissidio delle idee si trasformi in una guerra senza esclusione di colpi, in cui l’obiettivo strategico non è mettere a confronto le diverse tesi, ed eventualmente pervenire a una nuova sintesi, ma screditare i propri antagonisti sul piano morale prima ancora che su quello tecnico.
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Gran bella cosa, un dibattito sereno tra maggioranza e opposizione. A parole (a chiacchiere) lo si invoca sempre più spesso. E a invocarlo con maggior insistenza, guarda caso, è chi si trova in posizione di vantaggio. Il Pdl nei riguardi del Pd. La dirigenza storica del Pd nei riguardi delle nuove leve, o degli alleati che diventano scomodi. Chi detiene il potere auspica a gran voce che il dissenso non si inasprisca. L’invito rivolto alle minoranze è quello di esporre il proprio punto di vista – pacatamente, ci mancherebbe – e poi di ritirarsi in buon ordine, accontentandosi di averlo fatto. Una moderazione a senso unico: chi ha la possibilità di imporre le proprie scelte procede imperterrito e fa quello che aveva già deciso prima di ascoltare le posizioni altrui; bontà sua, però, concede a chi non è d’accordo di manifestare la sua (sommessa, collaborativa, rispettosa) contrarietà. La litania sul “clima politico” nasce così. A sfruttarla, oggi, è principalmente il Pdl, ma sarebbe un grave errore, un’imperdonabile miopia, credere che si tratti di una sua esclusiva. Il tentativo di smorzare i toni e di cancellare ogni opposizione di principio ha origini lontane e trova nel bipolarismo, perseguito fortissimamente anche dal Pd, l’architrave di una stabilizzazione definitiva dello statu quo. Il dogma è che nelle linee fondamentali il modello attuale è indiscutibile. E quindi inattaccabile. Il “libero mercato” detta le regole e per chi non tiene il passo della competizione planetaria, o di quella che si spaccia per tale, non ci può essere altra tutela che quel poco di welfare che sopravviverà, se sopravviverà, al ridimensionamento della spesa sociale causato dalla crescita abnorme del debito pubblico. Oggi tocca al Pdl, strumentalizzare il richiamo a una discussione civile e scevra da eccessi. Ma il Pd non esiterebbe a fare lo stesso, a posizioni invertite, e l’ostentata bonomia esibita da Prodi nella penultima legislatura la dice lunga, al riguardo. Il Pdl estremizza alcune dinamiche, e così facendo le rende più facili da osservare, ma la logica che le ispira non è dissimile da quella di un D’Alema che cerca di fare fuori il governatore uscente della Puglia, Nichi Vendola, e che avrebbe voluto che lui si facesse da parte senza creargli problemi. Salvo poi sbattere il muso contro il verdetto delle primarie. Berlusconi, da parte sua, sforna una mostruosità giuridica dopo l’altra e pretenderebbe che l’opposizio-
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ne accogliesse tutto con la massima tranquillità, senza mai inalberarsi e senza mai accusare il governo di abusare del proprio ruolo. Nella sua concezione plebiscitaria delle elezioni il voto popolare costituisce un’investitura talmente potente, e quasi sacrale, da equivalere al conferimento di un potere assoluto, ancorché a termine. Il mandato ordinario delle elezioni politiche si espande fino a diventare, di fatto, quello straordinario di un’assemblea costituente, che in maniera surrettizia interviene su tutto e che non esita a stravolgere il dettato costituzionale. Due esempi? Eccoli: il primo è la funzione legislativa, che formalmente resta appannaggio del Parlamento ma che nel dilagare dei decreti-legge e dei voti di fiducia (nonché dell’asservimento di chi è stato eletto in assenza delle preferenze individuali) viene gestita massicciamente dall’Esecutivo, anticipando nella prassi quella repubblica presidenziale che ancora non c’è; il secondo è il rapporto tra politica e magistratura, che dovrebbe essere di sostanziale autonomia e che invece, tra una depenalizzazione e un indulto, tra una prescrizione accelerata e una riforma strumentale, riduce i margini di manovra del potere giudiziario fino a vanificarne l’azione. Che questa offensiva ci sia, e che sia brutale, è sotto gli occhi di tutti. Il minimo che ci si dovrebbe aspettare, una volta che si sia scelto di andare dritti per la propria strada e di non guardare in faccia nessuno, è che si scatenino reazioni altrettanto drastiche. Invece, aggiungendo alla brutalità l’impudenza, si finge di cadere dalle nuvole e ci si lamenta dei toni esacerbati e delle chiusure invalicabili. Chiaro: il governo che spadroneggia è animato dall’amore, mentre chi non si piega ai suoi voleri è incattivito dall’odio. E l’odio, suvvia, è una cosa proprio brutta, che si deve assolutamente evitare.
Buoni, bambini Il nove novembre dell’anno scorso il cardinale Angelo Bagnasco è ad Assisi per l’apertura dell’assemblea generale della Cei. Parla di «un clima politico e mediatico» all’insegna di una «sistematica e pregiudiziale contrapposizione, che talora induce a ipotizzare quasi degli atteggiamenti di odio». Afferma che «se così fosse, sarebbe oltremodo ingiusto in sé e pericoloso per la Nazione». Aggiunge che «è necessario e urgente svelenire il clima generale, perché da una conflittualità sistematica, perseguita con ogni mezzo e a qualunque costo, si passi subito ad un confronto leale per il bene dei cittadini e del Paese intero». Poi si lancia in una specie di omelia, dolente per un verso e speranzosa per l’altro: «Davvero ci piacerebbe che nel riconoscimento di una sana – per quanto vivace – dialettica, inseparabile dal costume democratico, si arrivasse ad una sorta di disarmo rispetto alla prassi più bellicosa, che è anche la più inconcludente. Ci rendiamo conto che il compito esige sì da
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parte di ciascuno un supplemento di buona volontà come di onestà intellettuale, ma anche il superamento di matrici ideologiche che sembrano talora rigurgitare da un passato che non vuole realmente passare». La sera del 31 dicembre, come avviene ogni anno, il presidente della Repubblica legge il suo messaggio di auguri. Quando si sofferma sul tema delle riforme, ivi incluse quelle costituzionali, ricorda i suoi meriti. E prepara il terreno al prosieguo. «Ho consigliato misura, realismo e ricerca dell’intesa, per giungere a una condivisione quanto più larga possibile, come ha di recente e concordemente suggerito anche il Senato. Voglio esprimere fiducia che in questo senso si andrà avanti, che non ci si bloccherà in sterili recriminazioni e contrapposizioni». Infatti, prosegue, «il nuovo slancio di cui ha bisogno l’Italia, per andare oltre la crisi, verso un futuro più sicuro, richiede riforme, richiede convinzione e partecipazione diffuse in tutte le sfere sociali, richiede recupero di valori condivisi. Valori di solidarietà: e il paese, in effetti, se ne è mostrato ricco in quest'anno segnato da eventi tragici e dolorosi, da ultimo sconvolgenti alluvioni. Se ne è mostrato ricco stringendosi con animo fraterno alle popolazioni dell’Aquila e dell’Abruzzo colpite dal terremoto, o raccogliendosi commosso attorno alle famiglie dei caduti in Afganistan, e come sempre impegnandosi generosamente in molte buone cause, quelle del volontariato, della fattiva e affettuosa vicinanza ai portatori di handicap, ai più poveri, agli anziani soli, e del sostegno alla lotta contro le malattie più insidiose di cui soffrono anche tanti bambini». È un’altra omelia, a modo suo. Come un prete pensoso che si rivolge ai parrocchiani (queste pecorelle smarrite, questi eterni fanciulli) Napolitano richiama i cittadini ai buoni sentimenti. Sul sistema nel suo complesso non ha niente da dire. Nulla da eccepire sulla guerra per bande che è l’esito naturale di un’economia basata sul massimo profitto. Non c’è nessun tumore da estirpare, dietro il malessere sociale che colpisce settori crescenti della popolazione. Giusto qualche malanno stagionale da tenere a bada, per quanto possibile, con ripetute applicazioni dell’unico palliativo a disposizione: il balsamo della solidarietà caritatevole e del volontariato part-time. Il disegno umano ha i suoi limiti, ma si può sempre confidare nella generosità dei singoli. E nella misericordia di Dio. Benedici, o Signore, i tuoi figlioli meno fortunati. I giovani che non trovano lavoro e gli adulti che lo hanno perso e che non lo ritroveranno. Benedici, o Signore. A patto che non facciano casino, certo. A condizione che accettino con cristiana rassegnazione ciò che l’imperscrutabile disegno della Provvidenza, e del Liberismo, ha deciso per loro.
Federico Zamboni
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ANALISI
In principio fu
L’
il Patriot Act
Dall’11 settembre ai giorni nostri, in una selva di controlli nascosti “per ragioni di Stato”, per un risultato preciso: le multinazionali - e i governi - stanno arrivando a controllare il web. di Lucrezia Carlini
11 settembre 2001, quando le Torri Gemelle si sbriciolarono su se stesse in una New York stordita dal fumo e dal terrore, una cosa fu chiara a tutti dall’inizio: le agenzie per la Sicurezza Usa, presentate al mondo come la più poderosa macchina da guerra in tempo di pace che il mondo avesse mai visto, avevano fallito. Quel giorno, il presidente Bush non sembrò brillare per capacità di reazione; ma alla sua amministrazione bastò meno di una settimana per presentare nuove proposte di legge antiterrorismo, e cinque settimane per mettere a punto l’Usapa, (Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001) meglio conosciuto come Patriot Act, che il Presidente firmò il 26 ottobre dello stesso anno. Se mi sorreggesse una maggiore fiducia nella memoria individuale e collettiva farei volentieri a meno di ripercorrere i contenuti di quella legge. Ma il fatto è che il Patriot Act ha stravolto completamente il rapporto fiduciario fra cittadino e amministrazione, che da quello stravolgimento in poi i limiti convenuti fra libertà individuale e sicurezza nazionale sono saltati e, soprattutto, che del dibattito sollevato dall’approvazione di quella legge si è persa perfino l’eco, mentre l’intrusione del Potere Ufficiale nelle nostre vite continua indisturbata, e non solo negli Usa. Solo che noi non lo sappiamo. In estrema sintesi, il Patriot Act ampliava e rafforzava enormemente i poteri investigativi delle Agenzie governative, ma non prevedeva un sistema di contrappesi democratici che garantissero il rispetto dei diritti civili, come previsto dalla Costituzione americana. Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare, era la filosofia esplicita dietro quel provvedimento. A Guantanamo abbiamo visto tradurre la teoria in pratica, e il mondo è precipitato in una stagione pre-illumini-
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sta, in cui non solo la brutalità del potere si è potuta esercitare libera da ogni remora, come sempre è accaduto, ma lo ha fatto ufficialmente, pubblicamente fiera della propria missione e a favor di telecamere. Il Patriot Act autorizzava infatti le agenzie governative e federali a monitorare e intercettare ogni tipo di comunicazioni private, dalla posta alle email, e ad accedere a informazioni personali di qualsiasi genere, dal conto in banca ai titoli dei libri richiesti nelle biblioteche pubbliche. Entrava cioè nel privato, reale e virtuale, dei suoi cittadini, e arrivava perfino ad arrestarli senza processo, sulla base di riscontri arbitrari e In Nome delle Superiori Esigenze di Sicurezza Nazionale, nel caso fossero sospettati di attività terroristiche. Questa presunzione di controllo globale e capillare ha contagiato facilmente la maggior parte dei governi mondiali, anche perché si è applicata a quanto di più globale e interconnesso ci sia: Internet. Per ottenere informazioni on line, l’amministrazione Usa aveva la necessità di rafforzare la “collaborazione” con chi le origina e le gestisce: compagnie telefoniche e società informatiche in primis. Non semplici aziende, ma snodi strategici di stoccaggio e processione di una inconcepibile mole di dati. Che diventano il braccio operativo del governo. Uno degli articoli della legge imponeva ai provider telefonici e di servizi Internet di fornire alle autorità governative i dati di telefonate e navigazione on-line dei propri clienti senza avvertirli e senza previa autorizzazione di un giudice. Società come TnT, Microsoft, Google, AT&T, Verizon: con milioni di utenti, tutti tracciabili, tutti riconducibili a profili precisi grazie a quei Piccoli Fratelli che sono un telefono cellulare, un account internet, una carta di credito, sempre liberamente sottoscritti. Dico rafforzare perché la collaborazione fra agenzie e società di software in funzione investigativa, se pur con delle restrizioni, risale ovviamente a prima dell’11 settembre, come dimostra fra gli altri il caso delle collaborazione fra FBI e Microsoft per l’installazione del sistema Carnivore. Il Patriot Act fu approvato in fretta, senza un reale dibattito sulle sue conseguenze, nelle settimane più drammatiche e concitate della recente storia americana. I suoi oppositori, in quel clima politico arroventato, non riuscirono a bloccarlo; ma fu stabilito che “scadesse” nel 2005. Con successivi rinnovi e modifiche, è arrivato al 2010. E questo è l’antefatto.
In change we trust Nel 2004, Barack Obama, che allora era un giovane senatore democratico dell’Illinois, definì il Patriot Act “a shoddy piece of legislation”, una legge scadente. Lo scorso settembre però, da Presidente degli Stati Uniti, ha chiesto al Congresso di estendere la validità di tre provvedimenti inclusi nel Patriot Act, che sarebbero giunti a “scadenza” a dicembre. A novembre 2009, durante la sua visita ufficiale in Cina, Obama si è espresso pubblicamente a favore di un uso libero di Internet e contro ogni forma di censura. Poco prima a Seoul, in Corea del Sud, si era tenuto il sesto e forse ultimo round di negoziati dei paesi dell’ACTA, l’Anti-Counterfeiting Trade Agreement a cui, senza che giornali e telegiornali ce lo facessero sapere, come cittadini di un paese membro dell’Unione europea abbiamo aderito. Siamo in buona compagnia. Ai primi negoziati per l’Acta, nel 2007, hanno partecipato anche gli immancabili Stati Uniti (ancora in piena era Bush), la Svizzera e il Giappone, presto seguiti da Australia,
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Canada, Giordania, Messico, Marocco, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Singapore ed Emirati Arabi Uniti. Sì, l’ho notato anch’io: manca la Cina. E soprattutto: cos’è l’ACTA? James Love, direttore dell’ONG Knowledge Ecology International, l’ha messa giù dura, ribattezzandolo: “Legge per l’Eliminazione delle Libertà Civili”. “Per la gente comune il testo degli accordi è segreto. Il nome dei partecipanti ai negoziati è segreto. I titoli dei documenti sono segreti. Se rappresenti una grossa azienda o un grosso studio legale – qualsiasi grossa azienda, a quanto sembra – il governo degli Stati Uniti ti fa firmare un contratto con cui ti impegni a non rivelare il contenuto dei documenti che ti verranno mostrati”. Tanta segretezza ha due conseguenze: alimenta i peggiori sospetti ma costringe a un’estrema cautela nel maneggiare informazioni difficili da controverificare. Per quanto – poco - ne sappiamo,ACTA è un accordo quadro nato per combattere il commercio transnazionale di merce contraffatta, ma si è presto esteso al controllo della proprietà intellettuale su internet. In realtà, i governi dei paesi coinvolti non hanno mai reso noto l’oggetto, l’elenco dei partecipanti e i temi dei negoziati – per proteggerne la segretezza, gli Stati Uniti hanno addotto superiori esigenze di sicurezza nazionale. Quanto all’Unione europea, su ACTA il Parlamento europeo ha chiesto a lungo, finora invano, chiarimenti alla Commissione. Sappiamo che fra i maggiori gruppi industriali che sostengono e collaborano ai lavori ci sono l’International Intellectual Property Alliance (che comprende l’Association of American Publishers, la Business Software Alliance, l’Entertainment Software Association, l’Independent Film & Television Alliance, la Motion Picture Association of America, la National Music Publishers' Association e la Recording Industry Association of America) e la Pharmaceutical Research and Manufacturers of America, cioè la potentissima associazione di multinazionali farmaceutiche come AstraZeneca, Bayer, Boehringer Ingelheim, Bristol-Myers Squibb, Eli Lilly and Company, Genzyme Corporation, GlaxoSmithKline, Hoffmann-La Roche, Merck, Novartis, Pfizer, Sanofi-Aventis, Schering-Plough Corporation, Wyeth1. Il sospetto è che, grazie alle pressioni di queste lobby, l’accordo si possa tradurre: a) in un giro di vite non solo nei confronti di manifestazioni libere di internet, come Flickr o YouTube, e nell’obbligo da parte dei provider di segnalare ed espellere da Internet chiunque condivida file musicali o di altro tipo.
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b) in un controllo più ampio, dai contorni non ancora chiari, sulle libere informazioni che rendono la rete uno strumento straordinario di partecipazione, scambio e controcultura. Secondo Michael Geist, docente di diritto dell’informazione all’Università di Ottawa e una delle fonti più informate sull’accordo, l’ACTA non avrebbe più nulla a che fare con la lotta alla contraffazione, ma si starebbe trasformando in un accordo transnazionale esecutivo fra poche potentissime società, con articoli che autorizzerebbero gli internet provider a impedire l’accesso alla rete anche per un anno in caso di download “illegale” o altre, non ancora rese note “violazioni della proprietà intellettuale”. Le sanzioni previste per gli internet provider “ribelli” potrebbero arrivare a 150.000 dollari. Il governo Berlusconi si è portato avanti, con l’istituzione del Comitato tecnico contro la pirateria digitale e multimediale presso la Presidenza del Consiglio. L’intento dichiarato del Comitato è quello di preservare il diritto d’autore su internet, ma il decreto Romani, che recepisce una direttiva europea sulla trasmissione di contenuti video sul web, ha scatenato polemiche accese. Contemporaneamente Mediaset, ancora di proprietà del presidente del Consiglio, ha avviato un’azione legale proprio contro YouTube e Google per violazione della proprietà intellettuale, chiedendo un risarcimento di 500 milioni di euro. Lo scorso novembre, il magnate australiano Rupert Murdoch ha dichiarato aperte le ostilità verso Google, che indicizza e mette a disposizione contenuti di proprietà della sua NewsCorp. Quando, a gennaio 2010, è scoppiata la bomba Google vs Cina, il governo Usa è sceso immediatamente in campo, schierandosi eroicamente a favore del “diritto a un’Internet libera”. Non sono una sostenitrice del regime cinese. Se ne potrebbe parlare a lungo, ma la sintesi è: se fossi in Cina oggi e tentassi di pubblicare queste righe finirei dritta in un laogai. Il governo cinese limita la libertà di espressione dei suoi utenti in ogni modo possibile, e fa pagare il dissenso con il carcere duro o la morte. In un mondo ideale dovremmo boicottarlo politicamente ed economicamente fino a costringerlo a fornirci garanzie di rispetto dei diritti civili della popolazione. Nel mondo reale, invece, compriamo merci cinesi, facciamo affari con i cinesi, preghiamo tutti i nostri dei perché i cinesi aprano ai nostri prodotti il loro immenso mercato, e lasciamo che il governo cinese finanzi il nostro debito pubblico. Per ottenere questo, accettiamo che il regime imponga le sue regole alle nostre multinazionali – se siamo internet pro-
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vider o motori di ricerca, per esempio, gli forniamo elenchi di dissidenti che hanno utilizzato i nostri server o la nostra mail per sfuggire alla censura. Nel profondo del cuore, speriamo che la democrazia e la libertà siano virus, e che contagino i cinesi grazie al passaparola, mentre noi rafforziamo la nostra posizione sul mercato. Così, Google, che per entrare nel mercato cinese nel 2006 ha accettato di censurare i propri contenuti secondo le indicazioni del governo della Repubblica popolare, ora denuncia un cyber attacco partito da IPS con sede a Taiwan, accusa il governo cinese di esserne il mandante e, per ritorsione, minaccia quel governo di liberare i contenuti finora censurati. La foglia di fico è l’intrusione nelle mail google di dissidenti cinesi – una violazione della libertà di espressione che né Google né il governo degli Stati Uniti possono tollerare. Più verosimilmente, quei diavoli dei cinesi stanno combattendo la loro cyber guerra e sono penetrati in database riservati e cruciali per la sicurezza nazionale,rubando o minacciando qualcuno di quei segreti industriali che l’Acta vuole proteggere ad ogni costo.
E non solo. Se davvero è questo lo scenario che ci aspetta, la “tutela della libertà su internet” diventerebbe mero sinonimo di “difesa dei diritti commerciali” di certe lobby, per imporre un mercato, e un pensiero, unici. Quale sarebbe, allora, la differenza fra le democrazie occidentali e il regime cinese?
Lucrezia Carlini 1)"http://en.wikipedia.org/wiki/Association_of_American_Publishers" "http://en.wikipedia.org/wiki/Entertainment_Software_Association" "http://en.wikipedia.org/wiki/Independent_Film_%26_Television_Alliance" "http://en.wikipedia.org/wiki/Motion_Picture_Association_of_America" "http://en.wikipedia.org/wiki/Recording_Industry_Association_of_America" "http://en.wikipedia.org/wiki/AstraZeneca" "http://en.wikipedia.org/wiki/Bayer" "http://en.wikipedia.org/wiki/Boehringer_Ingelheim" "http://en.wikipedia.org/wiki/BristolMyers_Squibb" "http://en.wikipedia.org/wiki/Eli_Lilly_and_Company" "http://en.wikipedia.org/wiki/Genzyme_Corporation" "http://en.wikipedia.org/wiki/GlaxoSmithKline" "http://en.wikipedia.org/wiki/Hoffmann-La_Roche" "http://en.wikipedia.org/wiki/Merck_%26_Co." "http://en.wikipedia.org/wiki/Novartis" "http://en.wikipedia.org/wiki/Pfizer" "http://en.wikipedia.org/wiki/Sanofi-Aventis" "http://en.wikipedia.org/wiki/Schering-Plough_Corporation" "http://en.wikipedia.org/wiki/Wyeth"
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INTERVISTA
Estulin:
P
lotta al Bilderberg
Ex agente dei servizi segreti russi, ha pubblicato “Il Club Bilderberg. La storia segreta dei padroni del mondo”. Le conclusioni alle quali arriva differiscono dalla nostra visione. Ma l’argomento merita assoluta attenzione. di Valerio Lo Monaco
rodi, Bernabé e Riotta: sono alcuni italiani che hanno partecipato alle riunioni segrete del Club Bilderberg. Che sia una realtà è fuori di dubbio. Che sia necessario conoscerla anche, soprattutto da parte di chi ancora si ostina a non voler credere che, almeno in parte - parte consistente - ci siano delle organizzazioni, dei centri di potere, o semplicemente di (grande) pressione, che tentano (e riescono, verrebbe da confermare) di governare il più possibile le sorti di un numero sempre maggiore di persone. Daniel Estulin, autore del libro, ci racconta molti retroscena. Come si vedrà leggendo l’intervista che ci ha rilasciato, e come è facile immaginare conoscendo il pensiero che anima questa rivista, le conclusioni cui giunge non sono affatto vicine alle nostre. Anzi, su vari punti del tutto opposte. Ma conoscere la realtà descritta nel libro rimane di importanza vitale.
Nel libro sono raccontate delle cose sconcertanti, lei non ha paura per la sua incolumità? Non ho spiegato bene nel libro che non sono un civile: sono un ex agente dei servizi segreti delle forze speciali russe. Ovviamente, posso accedere a risorse alle quali normalmente i civili non hanno accesso; questo è il motivo per cui nel libro sono contenute informazioni sensazionali. La cosa curiosa del Bilderberg Group è che, nonostante
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questo libro sia stato pubblicato in 74 paesi e tradotto in 49 lingue, nei 5 continenti, e che contenga informazioni esclusive su personaggi molto potenti, nessuno di questi, in nessun Paese del mondo, mi ha mai citato in giudizio, per stabilire se ciò che affermo sia vero o no, e la motivazione è che non vogliono che l'attenzione pubblica si concentri sulle mie rivelazioni. Nel nostro Paese, autori come lei vengono definiti “complottisti”. Questo succede perché quando la maggior parte delle persone parla di teorie cospirazioniste fatica a capire che ci siano società segrete che durano da millenni; inoltre, guardano alle cospirazioni come eventi isolati, slegati dal contesto sociale, politico ed economico in cui avvengono. In questo caso non parliamo di singoli eventi isolati, ma di un sistema sociale dinamico, di cui dobbiamo capire lo sviluppo storico. Quello che oggi si chiama Bilderberg Group non è un'associazione che lavora da 55 anni: se andiamo indietro al XIV Secolo, esisteva già e si chiamava la Nobiltà Nera Veneziana. Sono la stessa organizzazione, le stesse persone, che rappresentano la stessa ideologia. Questa non è quella di instaurare un unico governo mondiale, o un Nuovo Ordine Mondiale, come si sente spesso dire, ma quella di creare un'unica società per azioni globale, una multinazionale di dimensioni planetarie, più potente di qualunque governo. Uno degli autori apprezzati nel nostro Paese, e che è considerato un autore contro l'attuale modello di sviluppo è Noam Chomsky: lei ne parla come collaboratore di Kissinger. Com'è possibile che Noam Chomsky possa essere allo stesso tempo un autore che racconta cose simili a quelle che sono scritte nel suo libro e allo stesso tempo è stato collaboratore in passato di Kissinger che è uno dei primi imputati dal suo punto di vista? Prima di tutto bisogna dire che non esiste una divisione tra Destra e Sinistra. Se si guarda alla lista dei partecipanti alle conferenze del Bilderberg, troviamo ad esempio Prodi, ma anche personaggi politici di destra, oltre a gruppi come la famiglia Agnelli, che facevano parte della Nobiltà Nera Veneziana; allo stesso modo, se guardiamo ai politici americani, abbiamo rappresentanti sia della sinistra che della destra, e lo stesso se guardiamo ai membri politici o
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del mondo finanziario europeo; chiunque rappresenti una risorsa per questi personaggi ne fa parte. Circa Noam Chomsky, bisogna dire che è un prodotto di un'organizzazione che si chiama IPS – Institute for Policy Studies – nato negli anni '60, come controffensiva al legittimo movimento per i diritti umani, creato da Martin Luther King. E Noam Chomsky è stato il protagonista dell'opera di distruzione di quel movimento, e come si è visto, ha fatto un ottimo lavoro. Un altro fatto che mostra come Noam Chomsky non stia dalla nostra parte è che rende difficile capire esattamente cosa sia successo dietro l'11 Settembre. È molto difficile trovare informazioni come quelle che lei riporta perché il Club Bildelberg controlla la maggior parte dei media non solo americani ma a livello mondiale. Quale può essere un altro sistema per venire a conoscenza di informazioni di questo tipo? In altre parole, se la maggior parte dei media sono controllati dal Club Bildelberg, la gente comune come può informarsi in maniera corretta? Questa è un'ottima domanda. Chiunque abbia un cervello funzionante, ovviamente, mi pone la stessa domanda. Il mio primo consiglio alle persone è di spegnere quella maledette televisioni; non guardate la robaccia che passa in televisione. In ogni Paese che ho visitato, non solo in Italia, viene trasmessa la stessa spazzatura; quindi, spegnetela. Prendete per esempio il Grande Fratello, oggi non ci sono più le telecamere che vi spiano, ma siete voi che accendete la televisione per vedere il Grande Fratello. Quindi, se fate in modo che queste persone non vi ipnotizzino, ed influenzino, avrete più tempo per pensare alle cose serie. Come seconda cosa, non tutti i mezzi di informazione del mondo sono controllati dal Bilderber Group. Per esempio, come con il mio libro, è possibile avere accesso a questo tipo di informazioni. Inoltre c'è internet, che gioca un ruolo molto importante. Penso che per essere liberi dall'influenza dei principali mezzi di informazione, c'è bisogno che molte persone diverse lavorino nel mondo dell'informazione, come per esempio sta facendo la comunità dei blogger, in tutto il mondo. La cosa più importante di questa realtà è che se, per esempio, io faccio un'intervista in Thailandia o negli Stati Uniti, cinque minuti dopo qualcuno può scaricarla in Australia, dieci minuti dopo in Giappone; così, avviene lo scambio di informazioni a livello globale, in
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modo che la gente possa scegliere liberamente cosa sia importante e cosa no. Quindi la prima cosa è eliminare i media di massa. Anche in Italia lei è stato pubblicato da un editore che è molto coraggioso però la grandissima distribuzione, le grandissime case editrici, rifiutano generalmente libri di questo tipo. Ha avuto la stessa sorte anche negli altri Paesi? Sì e no. In Francia l'editore del libro è piccolo, ma in Spagna il mio editore è Planeta, che è il quarto maggior gruppo di media al mondo, che pubblica oltre 2.000 titoli all'anno, tra cui quelli di Dan Brown, e altri best seller. Anche in Sud America e negli Stati Uniti si tratta di piccoli editori, ma abbiamo venduto mezzo milione di copie negli USA, attraverso Amazon, Barnes & Noble, ecc.. Se si vuole c'è la possibilità di accedere a questo tipo di informazioni. Appare, dalla lettura del libro, che ci sia una vera e propria organizzazione mondiale che vuole prendere il controllo del mondo intero: per chi si sente resistente a questo sistema di sviluppo e di controllo mondiale vale la pena di fare un'altra organizzazione (che per quanto grande possa essere non potrebbe mai competere con una organizzazione mondiale come quella del Club Bildelberg) oppure ci sono dei sistemi diversi di resistenza? Quello che dici è vero, ma devo fare una precisazione: attualmente il Bilderberg Group non è un'organizzazione molto grande; se calcoli quante persone svolgono un ruolo chiave al suo interno, sono circa 50.000 soggetti, sparsi per il mondo. Non si tratta di un esercito molto grande, seppur posizionato in posti strategici nel mondo della politica, dell'economia e dei mass media. Ci sono molte persone che lavorano per fermare questi personaggi. Come ho detto all'inizio io sono un'ex membro dei servizi segreti russi, e posso dire che ci sono molti membri dell'intelligence di molti Paesi - negli Stati Uniti, in Canada, in Inghilterra, in Francia, in Spagna, in Russia, ecc. - che lavorano insieme per fermare questi personaggi. Per i civili, ci sono poche cose che possono fare per opporsi, come ho spiegato prima; ma, per membri dei servizi segreti, ci sono molte cose che si possono fare per opporsi.Tra di noi ci incontriamo molte volte, di solito in corrispondenza delle conferenze del Bilderberg, ed elaboriamo strategie, che riguardano diversi aspetti – sociali, politici ed economici – allo scopo di fermare queste persone, e abbiamo già ottenuto molti successi. Si tratta di una guerra invisibile; nessuno vede questa guerra, nessuno ne parla, ma si sta svolgendo e io ne prendo parte. Per quanto riguarda i civili, ripeto, spegnete la televisione, non guardate quella spazzatura, e capite come funziona il denaro; perché la gente comune può distruggere quelle persone sola-
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mente attraverso il denaro, e questo è il motivo per il quale questi soggetti stanno distruggendo il sistema economico mondiale, sottraendo il denaro alle persone comuni. Se ricordi, prima dell'Estate, in Inghilterra, la Northern Rock era sul punto di fallire, perché le anziane si recavano alle casse chiedendo di prelevare i loro soldi. Il risultato di ciò fu che l'intero sistema finanziario britannico fu sull'orlo del collasso. Per questo, per cambiare questo mondo, dobbiamo cominciare con le anziane, che scendano in piazza sbattendo le pentole, come successe in Argentina, dove sbattevano le pentole con i cucchiai, e dietro di loro devono arrivare i loro nipoti, e dietro loro l'esercito, il quale non guiderà mai un movimento di protesta, ma interverrà sempre in seguito, a causa del suo lavoro e di quello dei servizi segreti. Le persone come me, che lavorano per i servizi segreti, sono patriote, amano il proprio Paese, a prescindere da quale Paese sia, e farebbero qualunque cosa per assicurarsi che il proprio Paese sia libero e indipendente; ma, quando il nostro Paese è minacciato dall'idea di creare un'unica società per azioni globale, allora ci mettiamo assieme per difendere i nostri Paesi e per il bene comune. Ci può fare qualche nome di chi nel mondo sta difendendo questi diritti, sta resistendo a questo modello? C'è qualche organizzazione, qualche rete, qualche pubblicazione che anche dal nostro Paese possiamo seguire per trovare un'informazione differente? Sfortunatamente non sono molto informato circa i mass media alternativi italiani, ma posso indicarvi i nomi di qualche pubblicazione alternativa in lingua inglese. Di sicuro non dovete leggere nulla di Noam Chomsky, ma ci sono altri molti buoni autori. Per me il personaggio più importante è Lyndon Larouche, uno studioso di economia reale, il quale ha dato vita a un'organizzazione molto diffusa, sia negli Stati Uniti che nel mondo. La sua pagina web è www.larouchepub.com, e la sua organizzazione è diffusa in tutto il mondo, ed è formata da persone estremamente intelligenti, che collaborano con le agenzie dei servizi segreti, scambiandosi informazioni. Lyndon Larouche è stato uno dei candidati alla Presidenza degli Stati Uniti per il partito Democratico, per ben 8 volte, ed è stato il responsabile del progetto “Guerra Stellare” degli Stati Uniti, durante la presidenza di Ronald Reagan. È stato colui che ha messo insieme questi progetti, di cui i principali mass media del mondo non ci parlano. Grazie a lui si sono realizzate queste grandiose idee, ma è importante capire che tutti quelli che sono dietro ai cosiddetti movimenti ambientalisti, che propugnano il ritorno alla Natura, non sono nostri amici, ma sono nostri nemici, i quali cercano di distruggere il mondo.
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Lei è d'accordo con quello che dice Massimo Fini, cioè che noi oggi non abbiamo bisogno di rivoluzionari ma di ribelli? Ancora una volta dipende da cosa si fa. Se ritorniamo al 1968, i sessantottini erano anch'essi ribelli, i quali si toglievano i vestiti per dimostrare quanto fossero onesti, pur essendo una cosa stupida da fare. Costoro rifiutavano ogni cosa del mondo – il progresso, la scienza, il lavoro in fabbrica, il lavoro tecnico, ecc. - e il risultato di questo è una generazione di degenerati, quella dei loro figli di oggi. Dipende ...molte persone promuovono il concetto di democrazia, come ho sentito in questa settimana trascorsa nel vostro meraviglioso Paese, dove ho sentito tanta gente parlare di democrazia, ma la democrazia è una cosa stupida. Se guardi alla democrazia, pensa al modo in cui lavora il Bilderberg Group, che ne è il risultato: l'ideale dei Greci è svanito. Non si tratta di democrazia, ma di libertà, e sono due concetti molto differenti. Si tratta della responsabilità che molte persone devono assumersi, non solo un modo di vivere assieme. Per venire ai giorni nostri, quanto c'è del Club Bildelberg nella crisi che stiamo vivendo in questi anni? È assolutamente responsabile perché, di nuovo, l'obiettivo finale del progetto di queste persone è la distruzione dello stato nazionale repubblicano, un concetto che tutti capiscono quanto sia collegato all'idea di libertà. Se distruggono lo stato nazionale repubblicano, distruggono il progresso, lo sviluppo, lo stato sociale, e alla fine il futuro del mondo. Quale è la principale responsabilità di un governo nei confronti del proprio popolo? È quella di provvedere alle generazioni future, fare in modo che i tuoi e i miei figli vivano in un mondo migliore. Questo è il vero significato di immortalità. L'immortalità non riguarda il fatto che qualcuno muoia e vada in Paradiso, ma che si lasci qualcosa di buono per le generazioni che verranno dopo di noi. Il nostro scopo si questo pianeta è quello di preservare la razza umana, ed è ciò che questi personaggi stanno cercando di distruggere. Distruggendo il sistema economico mondiale, il sistema basato sul dollaro, l'intero sistema finanziario, crei sottosviluppo e miseria, e questo è esattamente ciò che vogliono, creare un'antitesi al progresso; perché il progresso produce ricchezza, e quindi si tratta di un cerchio, che risale a una scoperta fatta 200 anni fa: lo sviluppo e il progresso sono direttamente proporzionali alla densità della popolazione. Quindi, più denaro abbiamo, più ricchezza abbiamo, più migliorie abbiamo, più scoperte scientifiche abbiamo, più persone potranno vivere su questo pianeta, e questo contrasta con ogni obiettivo finale del Bilderberg Group: perché non ha bisogno di molte persone, ha bisogno solo che tu ed io lavoriamo la terra, come facevamo 600 anni fa, durante il sistema feudale, e questo è ciò che vogliono: riportarci indietro all'epoca precedente alla nascita degli stati nazionali, nel 1439-1440.
Valerio Lo Monaco Ringraziamo Manuel Zanarini per la collaborazione durante e dopo l’intervista.
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METAPARLAMENTO
Dal salario
al sudario (capitalistico)
Col Brunetta studioso, quel che viene prodotto dal lavoro scompare dall’orizzonte, e la propria vita diventa semplicemente moneta da smerciare. Il male, ovviamente, è l’equazione “vita=lavoro”
C’
di Alessio Mannino
era un tempo in cui il ministro Renato Brunetta, l’ultimo seguace di Stakanov, scriveva libri. Il veneziano dalle umili origini, consulente dell’illustre concittadino Gianni De Michelis nei rampanti anni ’80, socialista craxiano, dal 1991 è docente di economia del lavoro all’università romana di Tor Vergata (anche se le circostanze che lo portarono ad assumere la cattedra ordinaria non sono chiare, come ha messo in luce l’Espresso in un’inchiesta di due anni fa1). Nel ’94, anno decisivo – passaggio definitivo dalla Prima alla Seconda Repubblica, con la nascita di Forza Italia a cui aderì per poi diventarne eurodeputato nel ’99 – la “Lorella Cuccarini” del governo pubblica un saggio che, riletto oggi, pare scritto da un pericoloso sovversivo. Il titolo è già preoccupante: “La fine della società dei salariati”. Nei ringraziamenti iniziali l’autore spiega l’impulso che ne sta alla base: «Qui dentro non c’è nulla di nuovo, c’è solo la voglia di ricominciare a sognare». Ed effettivamente, di farina del suo sacco non ce n’è, in questo aureo libretto nel quale il professor Brunetta riassume e assomma due differenti ma vicine teorie su come superare il rapporto standard fra capitalista e lavoratore, cioè appunto il salario. Fa, né più né meno, il divulgatore. Ma schierato, perché parteggia per mettere un frego a duecento anni di “ingiusta mercede”, per parafrasare l’enciclica Rerum Novarum (1891).
Neo-keynesiano Ma andiamo con ordine. Brunetta parte da un problema: la disoccupazione cronica che attanaglia le società occidentali e il suo inesorabile impantanarsi nella precarietà, lavorativa ed esistenziale. Nel
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1994 era ancora una mezza previsione, oggi è una realtà sotto gli occhi di tutti: si accettano «opportunità di lavoro meno qualificate, a salari più bassi…, e meno sicure», innescando «una spirale involutiva fatta di lunghe attese, dequalificazioni, instabilità». L’economista spiega chiaramente che la disoccupazione come fenomeno di massa nasce col lavoro inteso in senso moderno2: «il lavoratore vende la sua forza lavoro ad un imprenditore in cambio di un salario», pertanto «la disoccupazione… si manifesta con la generalizzazione del lavoro salariato». Allora Brunetta simpatizzava per il modello keynesiano, e credeva nell’intervento dello Stato per correggere la strutturale mancanza di lavoro tipica del capitalismo (quello che Marx chiamava Esercito Industriale di Riserva, da cui pescare manodopera a basso prezzo e calmierare così il suo costo). Altro che liberismo, sentite qua: «L’alternativa è tra disoccupazione… oppure precarizzazione e mercificazione… sulla base però di più bassi salari e tutele…. E’ quanto sta puntualmente avvenendo. Ritorna la necessità di “più governo” perché il mercato, da solo, non è in grado di sostenere la transizione». Tuttavia, ciò che nel keynesismo non convince il giovin Renato è la “passività” con cui il lavoratore usufruisce dell’aiuto statale, che si limita ad ammortizzare gli effetti negativi senza «richiedere al soggetto alcun impegno».
Partecipazione Qui sta il cambio di prospettiva, secondo lui: da un lavoratore-ingranaggio, taylorista e fordista che lavora a testa bassa e aspetta il 27 del mese, ad uno che diventa imprenditore di sé stesso, trasformando la propria remunerazione in un investimento attivo nell’azienda. È il lavoro a partecipazione, in cui il dipendente smette di essere tale e partecipa al capitale dell’impresa. Il suo “socialismo” laburista (ancor oggi si professa tale, il ministro dei tornelli e delle ispezioni stile Gestapo) gli fa dire che «gli esseri umani hanno preferenza, emozioni, volontà» e che «la soddisfazione o l’insoddisfazione inserito in un sistema produttivo non dipende solo dal suo reddito, ma da come il suo lavoro e il suo reddito si collocano in relazione a quello degli altri». Cioè anche e soprattutto dal sistema culturale e sociale che danno un senso ed un peso a ciò che uno fa. E, di conseguenza, a ciò che uno è. Brunetta vuole mettere in discussione il dogma della retribuzione fissa, ce l’ha con l’incertezza disperante provocata da un mercato che mette l’uomo in subordine rispetto alle esigenze produttive, e
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sogna «l’utopia possibile» della piena occupazione. E trova le risposte in due modelli: la Share Economy di Martin Weizman (1985) e la Agathopia di James Meade (1989). Il primo più freddo e neoclassico, il secondo più “ironico” e visionario.
Azionista di sé stesso Il primo postula un meccanismo di partecipazione del lavoratore al destino dell’azienda per cui egli viene remunerato attraverso indicatori come il profitto ripartito per ciascuno o il prezzo del prodotto, e in sostanza meno lavoratori ci sono, più vengono pagati quelli presenti. Ma se vi sono disoccupati, «ciascuna impresa che opera in regime di partecipazione cercherà di espandersi, perché il costo marginale del lavoro è minore del costo medio». Morale: l’espansione termina quando non vi è più disoccupazione. Non è, quella teorizzata da Weizman, una rivoluzione: si resta ben addentro all’alveo del capitalismo.Ma,sostiene Brunetta,«l’alienazione dei lavoratori, il potere del capitale sul lavoro e l’esercito dei disoccupati di riserva sono conseguenza specifiche della struttura salariale, e non caratteristiche universali del sistema capitalistico». E questa struttura, se non si autoriforma, va modificata attraverso la mano del governo, che deve considerare l’occupazione un bene pubblico, e non privato. Il che non elimina il mercato di scambio fra domanda e offerta di lavoro, ma trasformando il salario in capitale partecipato ne dà a tutti, seppur variandone la misura (un po’ come accade agli azionisti di una spa quando ricevono i dividendi: più azioni hanno, più si arricchiscono).
Dividendo sociale L’Agathopia (il Buon Posto in cui Vivere) di Meade è la versione riformista dell’antico, introvabile paese di Utopia. Riformista ma più coraggiosa di un classico sistema partecipativo. L’impresa diventa una sorta di “cooperativa per azioni”, in cui sia le azioni di capitale sia le azioni di lavoro hanno diritto di voto e di decisione. Lo Stato non assume la gestione delle imprese, lasciata ai privati, ma trasferisce gli utili alla collettività, sotto forma di “Dividendo Sociale”. Questo non è che un reddito di cittadinanza fornito ad ogni cittadino indipendentemente dal lavoro svolto o dalla proprietà. Terzo caposaldo: dura tassazione dei patrimoni ereditari, in modo da combattere le condizioni diseguali di partenza. In pratica, con questo sistema i lavoratori possono diversificare le proprie fonti di reddito grazie a «1)
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Dividendo Sociale garantito; 2) quota di remunerazione del lavoro sotto forma di dividendo di “azione di lavoro”, conservato anche in caso di disoccupazione; 3) salario “fisso”; 4) profitti derivanti da azioni di capitale di svariate partnership azionarie fortemente incentivate dal sistema fiscale di Agathopia». Sostanzialmente si mettono insieme i vantaggi della cooperativa con quella della società per azioni, abolendo la rigida distinzione fra lavoratore e imprenditore, che diventano tutt’uno. Meade va ben oltre Weizman, puntualizza Brunetta, perché con lui chi lavora assume potere decisionale all’interno dell’impresa, in una specie di proprietà diffusa che assomiglia alle public company. Non solo, ma il fisco livella la ricchezza patrimoniale personale, e perciò l’autorità statale è molto più invasiva, di stampo socialista tradizionale.
Ultra-capitalismo Ma il fine ultimo non intacca l’idea del lavoro come valore in sé. Anzi lo fonde col capitale e col rischio che ne è incorporato. L’uomo cessa di essere salariato, resta nei fatti lavoratore, ma viene trasformato in investitore del proprio tempo. È tutt’altro che il rovesciamento del capitalismo: è il suo trionfo. «Si potrà passare da un’azienda all’altra e da un settore all’altro semplicemente ottimizzando i propri “portafogli partecipativi”, esattamente come fa il capitale, scontando pure l’esistenza di periodi di non occupazione, volontariamente scelti per meglio traguardare il mercato e le relative opportunità», chiarisce Brunetta. Non lavorare meno per lavorare tutti, ma l’inverso: lavorare tutti per lavorare meno, o meglio quel che ognuno riterrà necessario e conveniente per sé. Il che rende l’occupazione totale un imperativo, e il lavoro un totem obbligatorio ancor più stringente e ossessivo di quanto non lo sia stato negli ultimi due secoli di industrializzazione. Ciò che non torna nella visione sposata da Brunetta in questo saggio è che l’angoscia che deriva dal concepire la propria esistenza in termini di utili, di pacchetti azionari, di “capitale umano” da vendere e per cui vendersi, è la stessa identica angoscia dell’homo oeconomicus, del capitalista moderno. Ci sarà anche lo Stato a non lasciar solo l’ex dipendente, catapultato dal salario garantito al profitto da ricercare e mantenere, ma una ricetta simile è peggiore del male che vorrebbe curare. Il male è l’equazione “vita=lavoro”. Col Brunetta studioso, quel che viene prodotto dal lavoro scompare dall’orizzonte, e la propria vita diventa semplicemente moneta da smerciare. Il riformismo, malattia giovanile dei ministri liberisti.
Alessio Mannino
Note:
1 “Che furbetto quel Brunetta”, L’Espresso, 13 novembre 2008 2. «In definitiva ciò che noi chiamiamo “lavoro e disoccupazione” sono invenzioni della modernità»,“La fine della società dei salariati. Dal welfare state alla piena occupazione”, Marsilio, 1994, pag. 44.
28 LA VOCE DEL RIBELLE
Crisi: cose che contano (e altre che no) Mentre in Italia siamo indaffarati a discutere di Craxi - sul quale invece basterebbe (e per noi almeno è bastata) una messa a punto rapida - e molti si stanno commuovendo per la tragedia di un popolo che l'Occidente ha iniziato a martoriare già da quando Cristoforo Colombo, dopo aver scoperto l'America, ne prese 2000 unità per rivenderle al mercato degli schiavi in Europa, le notizie più importanti per la vita delle persone sono altrove. Negli Stati Uniti ad esempio, dove al momento una persona su otto vive di food stamps, ovvero di assegni per il cibo. Una persona su otto significa una persona ogni tre famiglie. Parliamo, per quel paese, di 40 milioni di persone. Allo stesso tempo il credito al consumo, per quanto attiene novembre
2009, ha fatto registrare il decimo mese di calo. La cosa non accadeva dal 1943. Aumenta inoltre il deficit commerciale degli Usa, del 9,7 per cento rispetto al mese precedente, e allo stesso tempo la Cina diventa il massimo esportatore mondiale, surclassando anche la Germania. In altre parole, relativamente a questo ultimo aspetto, il dogma "libertà-democrazia-profitto" marcato "made in Usa" - anche se sappiamo bene che in tale sistema (che poi è il nostro) la libertà non è realmente tale, la democrazia non ne parliamo, e il profitto è per banche e multinazionali, ma non per i cittadini - è stato scalzato dal mix di confucianesimo e capitalismo, stavolta "made in China". Solo che in questo caso, il dogma recita "dittatura-schiavitù-profitto". L'unica cosa che rimane uguale al modello Occidentale, per quanto riguarda il dogma, è l'ultima parte, ovvero il profitto.
Moleskine
Appunti da un mese (qualunque) di un Mondo meraviglioso.
Usa: Wal-Mart ha annunciato che lascerà a casa diecimila persone nella sua catena Sam's Club, circa uno su dieci lavoratori della divisione.
febbraio 2010
Usa: un quarto dei cereali coltivati negli Stati Uniti nel 2009 sono andati ad alimentare auto, non persone. Eppure il costo dei cereali alla produzione continua a scendere, tant’è che in Grecia continua la protesta. Fiat: in aumento il valore azionario, un attimo dopo aver fatto sapere la decisione della chiusura di alcuni stabilimenti in Italia (con famiglie a casa, sul lastrico...) continua...
E uguale rimane la destinazione di tale profitto, che è sempre, ovviamente, a favore di chi è padrone del vapore. Qui da noi, anche se fittizia, un po' di libertà in più rispetto al modello cinese la abbiamo. Ma se la Cina, oltre ad aver invaso i mercati - come era giusto che fosse, beninteso, in un mondo che si dichiara a favore del libero mercato - oltre ad aver giocato un rilancio continuo verso il basso nei confronti di salari e norme sul lavoro, oltre ad aver iniziato a comperare interi pezzi d'Africa (la crisi alimentare è dietro l'angolo) inizia di fatto a esportare in tutto il mondo la sua "way of life", qualche preoccupazione in più è d'obbligo. Di questo aspetto, di questo sì, ci stiamo già accorgendo sulla nostra pelle da tempo. E ce ne accorgeremo ancora
di più - dal punto di vista pratico - nei prossimi mesi. Per quanto riguarda il nostro Stato, come si vede dalle rassegne stampa dei media ufficiali che pubblichiamo ogni giorno, la cosa interessa poco. Certamente meno di una via intitolata a un morto latitante o del numero degli elettori che la Binetti dice di poter portare con sé in una eventuale uscita dal Partito Democratico. Ultima cosa: avete letto le boiate scritte ieri in merito alle previsioni di ripresa del mercato? Ebbene, l'Fmi, malgrado i dati reali citati sopra, ha migliorato le stime sulla crescita mondiale, affermando che l'anno in corso vedrà una crescita del 3,9%. E del 4,2% nel 2011. Ma certo. Come no? Al di là delle stime… - Fmi & Co. non avevano stimato nulla in merito alla crisi che si è abbattuta nel 2008 - bisogna invece riflettere sul fatto che il dato comprende tutti. Ovvero, tra gli altri, anche lo striminzito 1% stimato per l'Italia e il 2.7% degli Usa (una miseria, per loro) ma anche - anzi soprattutto - i dati di India e Cina: rispettivamente 7.7% e 10%. In una ipotetica partita, Est batte Occidente 5 a 1. E proprio l'Est potrebbe cambiare le regole del gioco per tutti. Come? Ma con la sua "way of life", naturalmente. Per la quale, vedasi sopra. V.L.M.
MOLESKINE
H1N1: la strage dov’è?
Occhio, aspiranti brigatisti
Volevano trattarci come hanno fatto con l’influenza aviaria due anni fa: come polli. Eppure, sarà che c’era di mezzo il bene immediato della salute, la gente non se l’è bevuta la truffa della febbre suina: non solo non ha mietuto la strage pronosticata, ma i milioni di vaccini accaparrati dai governi sono rimasti in gran parte inutilizzati, e per di più una sola dose (invece di due) è stata sufficiente all’immunizzazione (fonte Oms). Perciò ora le cancellerie di mezzo mondo stanno pensando di revocare gli ordini o di ricontrattare con le case farmaceutiche: la Germania ha già deciso che dalla Gsk comprerà il 30% di scorte in meno, la Gran Bretagna vuole cancellare quelle ordinate alla Baxter, la Francia ha visto correre a vaccinarsi solo l’8% della popolazione e sta cercando di disfarsi di 50 milioni di dosi. E l’Italia cosa fa? Annulla le 24 milioni di dosi della Sanofi, mentre ne conferma altrettante della Novartis. Costo: 180 milioni di euro. Piccolo particolare: a tutt’oggi, quelle utilizzate sono appena 900 mila. Per giustificare la donazione a fondo perduto, il ministro delle Salute, Ferruccio Fazio, si è inventato una clamorosa scusa: essendo il nostro paese quello con le scorte più basse, «indispensabile mantenere, perché le pandemie influenzali sono, per loro natura, imprevedibili». Come dire: non sappiamo quante e come saranno le prossime pestilenze, però noi intanto regaliamo milioni su milioni di euro a Big Pharma perché non si sa mai. Se qualcuno pensa che la mattana del vaccino obbligatorio abbia contagiato tutti indiscriminatamente, si sbaglia: la Polonia, unico caso in Europa, si è rifiutata senza mezzi termini di spendere anche un solo euro. «Abbiamo preso questa decisione nell’interesse dei cittadini, perché il vaccino non è stato sufficientemente sperimentato, e dei contribuenti», ha dichiarato il primo ministro Donald Tusk (Corriere della Sera, 15 gennaio 2010). Ci voleva tanto, a fare questo semplice, ovvio ragionamento? Sì, ci voleva quel tanto che basta perché i colossi dei farmaci macinassero montagne di soldi pubblici sulla nostra pelle. Ma sotto la gelatina opprimente delle paure manipolate resistono, per fortuna, il buon senso, il fiuto per la fregatura e quella cosa vilipesa e quasi dimenticata chiamata istinto.
Lotta armata? Nuove Brigate rosse? L’arresto a Milano di Manolo Morlacchi e di Costantino Virgilio – che peraltro respingono le accuse e preannunciano il ricorso al Tribunale del riesame, una volta che avranno sostenuto l'interrogatorio di garanzia in programma per domani – rilancia il tema del cosiddetto terrorismo e consente ai media di sfogliare per l’ennesima volta il catalogo dei luoghi comuni sulla violenza politica e sugli Anni di piombo. Il giudizio, come sempre, è puramente morale (o moralistico). E i toni, di conseguenza, sono all’insegna della ripulsa invece che del ragionamento, con un’indignazione fin troppo risaputa e un raccapriccio fin troppo esibito. In molti casi è solo questione di pigrizia intellettuale e di conformismo spicciolo: si dice quello che dicono tutti e non si corrono rischi. Al di là delle stesse intenzioni di chi la alimenta, però, questa demonizzazione rinvia a qualcosa di peggiore e più subdolo. Presentando il “terrorismo” come il nemico per eccellenza della società attuale, si finisce con l’accreditarlo come l’opzione più potente e temibile alla portata di coloro i quali odiano il “sistema” e sono impazienti di combatterlo. E di colpirlo. È come se si stesse dicendo, a chi è esasperato dalle ingiustizie sociali che subisce in prima persona o che osserva tutto intorno, che la scelta più aggressiva che si possa fare per scagliarsi contro l’establishment è quella degli attentati. A prima vista è un esorcismo.Tra le righe è un suggerimento. Fin tanto che l’estremismo resta un fenomeno marginale, infatti, esso è un alleato prezioso, se non proprio necessario, di chi detiene il potere. Primo: permette di confondere nella stessa condanna – e nello stesso ostracismo –tanto le ribellioni ideologiche, che non prevedono alcuna mediazione sul piano dei principi ma che perseguono una rivoluzione di tipo culturale, quanto i progetti insurrezionali, che trovano nella violenza il loro esito naturale. Secondo: agevola l’identificazione dei cittadini più pericolosi, in quanto più restii a lasciarsi omologare, attirandoli verso le uniche forme di
A.M.
pensiero e di aggregazione che vanno in direzioni opposte a quelle dominanti.Terzo: compatta la maggior parte della popolazione, e quindi dell’opinione pubblica, intorno a un’esigenza di rassicurazione; e in questo senso, detto en passant, quello stesso terrorismo che dovrebbe indebolire le autorità finisce in realtà con rafforzarle (strategia della tensione docet). Giustissimo condannare qualsiasi tentativo di ricostituire le Br, quindi, ma per ragioni opposte a quelle sostenute di solito: nessuno che abbia a cuore la rigenerazione etica di questa società, e il definitivo abbandono della follia liberista, deve agevolare il compito di chi non vede l’ora di neutralizzarlo. Oltre a essere del tutto inutile sul piano politico, non essendovi le condizioni storiche per una sollevazione di massa, sconfinare nella lotta armata significa dare mano libera alla repressione e alla criminalizzazione. Un autentico suicidio, sul piano politico. F.Z.
Cina e Google: la posta in gioco Cosa si nasconde dietro lo scontro fra il regime cinese e Google, il primo motore di ricerca su internet del mondo? Dal punto di vista dell’immenso mercato delle informazioni on line, in Cina il primato è della concorrente Baidu, e l’invasore americano non è riuscito a imporsi come ha fatto nel resto del pianeta. Il fatto che ora Google si sia “pentita” di aver sottoscritto i limiti sulla circolazione di fatti ed idee che tutte le compagnie occidentali sono tenute ad accettare per mettere piede nell’impero capital-comunista non deve trarre in inganno: può essere uno stratagemma per trovare «una via d’uscita più dignitosa, o almeno per ottenere del margine per negoziare migliori condizioni», come sostiene il professore Randy Kluver della Chinese Internet Research, un esperto statunitense non sospettabile di ostilità preconcetta verso gli interessi americani. Ma quel che c’è in gioco è molto di più dei profitti miliardari del leader mondiale della ricerca web. E su Repubblica lo ha spiegato bene, con la sua consueta involontaria sincerità,
Federico Rampini: «In Occidente diamo ormai per scontato da anni che la superficie terrestre sia scandagliata minuziosamente da GoogleMap. Ricordo il divertimento con cui mi accorsi, quando abitavo a San Francisco, che dalle foto satellitari si poteva vedere non solo casa mia ma anche la targa della mia auto. Non appena mi trasferii a Pechino nel 2004 scoprii che intere zone della capitale cinese invece erano oscurate (…). Ciò che a noi appare naturale, o inevitabile, cioè che la mappatura terrestre sia fatta da un’impresa privata americana, non è accettabile a Pechino. E’ un’intrusione virtuale nella sovranità: un valore per il quale gli Stati scendono in guerra da secoli» (“Cina-Usa, quando la guerra si combatte sul web”, La Repubblica 25 gennaio 2010). Noi, a differenza del giocondo Rampini, la pensiamo come i retrogradi cinesi. Che un’azienda internazionale sappia individuarci in ogni momento è una delle tante follie del nostro mondo assuefatto alla dittatura dell’economico. La Cina, questo mostro bicipite che da un lato ha abbracciato il capitalismo più sfrenato e dall’altro mantiene il pugno di ferro autoritario, ha ragione da vendere nel voler difendere il presupposto basilare di una nazione: la propria sovranità. Per una volta, ci piacerebbe che la Cina fosse più vicina. E che l’occhio onnipresente di Google se ne stesse lontano dalla nostra vita. A.M.
Facciamola finita con l’extracomunitario
L’offesa non è nel definire qualcuno con la sua identità etnica o religiosa, l’offesa è nel tono, e nel tono l’offesa trapela comunque, Facciamola finita con l’extracomunitario, indipendentemente dal termine. L’offesa, e ma non nel senso razzista di sbarazzarsene l’ottusità, sono state nel pensare che fisicamente: facciamola finita con questo l’identità fosse un offesa: filippino o termine politicamente corretto che in realtà magrebino non lo erano. L’offesa razziale è è quanto di più ipocrita, giuridicamente pensare che lo fossero e che, quindi, il improprio e profondamente razzista si possa termine andasse sostituito con pronunciare. extracomunitario.Termine giuridico, freddo,
Ipocrita, perché col termine extracomunitario si vuole aggirare l’individuazione dei gruppi di cui si parla specie quando si dice costituiscano un problema. Si dice problematiche o problemi legate agli extracomunitari, ma si intendono quelli legati a nordafricani, magari islamici, neri, asiatici, non certo a quelli causati da svizzeri, norvegesi o statunitensi, che sono tanto extracomunitari quanto i primi. Certo non si vuole discriminare il nero rispetto allo svizzero, quindi si usa il neutro termine giuridico, ma si sa che il problema non è legato al migrante transalpino. Pura ipocrisia. Giuridicamente obsoleto, perché quando il termine venne coniato c’era la Comunità Europea, adesso c’è la, sedicente, Unione Europea. A rigore si dovrebbe quindi dire extraunitario. Suona male, d’accordo, e l’altro è ormai nell’uso, ma ciò non toglie che sia giuridicamente improprio. Soprattutto, però, nonostante la sua apparenza neutra, è un termine profondamente razzista perché non si va a individuare l’altro in funzione di quello che è, ma in funzione di quello che non è rispetto a noi. La centralità è il “noi”, l’Europa, e neppure quella etnico-culturale ma quella giuridico-funzionariale di Bruxelles. L’altro esiste in quanto “non noi”, è un non qualcosa, è un “al di fuori di”, non è un qualcosa, meglio qualcuno, con una sua propria identità a prescindere da noi.
neutro, alienante, e che come tutti i termini del genere priva dell’identità, della cultura, dell’etnia. Usciamo dal razzismo del politicamente corretto e chiamiamo le genti in funzione di quello che sono, non di quello che non sono, spesso se questo “non essere” è rapportato a un “noi” che di identità ne abbiamo sempre meno. F.M.
Haiti. La pantomima dell’Occidente solidale I media le adorano, le catastrofi. E così il potere politico e finanziario. Per i media sono un serbatoio di notizie drammatiche a getto continuo, talmente coinvolgenti di per se stesse che a costruirci intorno un titolo a caratteri cubitali, un servizio di apertura del tiggì o un talkshow in seconda serata non ci vuole niente. La morte e il dolore fanno audience. La distruzione ha un che di spettacolare che attira un sacco di gente. Se qualsiasi fesso non resiste alla tentazione di occhieggiare le conseguenze di un incidente stradale appena un po’ grave, a costo di rallentare di colpo e di rischiare un ulteriore scontro, figuriamoci se può sottrarsi al richiamo di una tragedia con centinaia o con migliaia di morti. E con le immagini che vengono fatte vedere e rivedere in ogni dettaglio e da ogni possibile angolazione. Case sbriciolate, cadaveri abbandonati, superstiti in preda al dolore per quello che è
F.Z.
Il vuoto pneumatico delle “Regionali”
MOLESKINE
successo ai loro cari e all’angoscia per quello che potrà accadere a loro stessi, nella spaventosa desolazione che li circonda. Per i burattinai del sistema, a loro volta, si tratta delle occasioni ideali per fingersi generosi e solidali, sia in prima persona che come espressione della società nel suo complesso. Il messaggio che viene diffuso è tanto ipocrita quanto difficile da controbattere, se non si vuole essere tacciati di pregiudizio ideologico nei confronti del modello occidentale e di insensibilità nei confronti delle vittime. Il messaggio è che noialtri non siamo affatto così cinici ed egoisti come si potrebbe pensare osservando le vicende economiche. Macché. La competizione spietata del mercato è solo il meccanismo di cui ci serviamo per mettere in moto le migliori energie produttive, generando quella ricchezza di cui tutti, in un modo o nell’altro, si avvantaggeranno per il solo fatto che essa esiste e si accumula. Ma appena possiamo, perbacco, siamo lieti di accantonare tutta quella aggressività “a fin di bene” e dare fondo alla nostra vera natura: quella di esseri umani che sognano, che perseguono, che stanno costruendo, un paradiso terrestre all’insegna del comfort materiale e dei diritti universali. Certo: tutto non si può fare, non subito, e perciò si è costretti a malincuore ad assistere senza intervenire alla miseria di interi popoli e ai conflitti che ne derivano, ma in attesa di mettere fine alle sofferenze “globali” si può e si deve, se non altro, correre in soccorso di chi è stato colpito dal disastro di un terremoto o di uno tsunami, di un tornado o di un’inondazione, di un’epidemia che aggredisce gli uomini e/o gli animali. Ecco cosa ci vuole, per spingerci a intervenire. Ci vuole l’illusione che il problema sia eccezionale. Ovverosia legato a una fatalità. Alle forze inarrestabili della Natura. Ai capricci imponderabili del Caso. Nei comportamenti quotidiani non guardiamo in faccia a nessuno e sfruttiamo tutto e tutti nel nostro esclusivo interesse. Di fronte alle cattiverie del destino siamo sempre pronti a stringerci gli uni agli altri in un empito di fraternità umanitaria. Mica male, sentirsi i Cavalieri del Bene al modico prezzo di un sms da due euro.
Le elezioni regionali sono una sorta di midterm elections, come direbbero gli Americani: un test di metà mandato per il governo in carica e un’occasione di saggiare tenuta e strategie per l’opposizione. Quelle che avranno luogo fra due mesi non sono granché complicate da riassumere: un partito di maggioranza, il PdL, diviso dalla lotta intestina fra Berlusconi e Fini e che ciò nonostante si avvia ad un largo successo, causa ondata d’amore post-statuetta e immarcescibile propaganda anti-tasse; una Lega straripante, premiata dal malcontento per la crisi scaricata abilmente sullo spauracchio degli immigrati, che conquisterà l’importante roccaforte del Veneto; un’Udc che va col miglior offerente e che detta la linea ad un Pd esangue e già esausto in svariate regioni, Puglia in primis, con Bersani (leggi: D’Alema) costretto a riesumare in Lazio quella petulante salma della politica che è la Bonino, pur di non sprofondare davanti all’irresistibile ascesa della Polverini. Ce n’è abbastanza per confermarci nel nostro ormai consolidato disgusto per il bazar dei candidati pilotati, dei programmifotocopia, del vuoto pneumatico d’idee e d’ideali. Non che, per pura ipotesi, ad un voto locale non si possa trasgredire al nostro più sentito voto: quello di non votare, per non aderire a quella presa in giro istituzionalizzata che è la democrazia rappresentativa. In via eccezionale, se singole persone e specifici contesti consentono un atto di fiducia, localmente secondo noi si può partecipare al ludo cartaceo. Ma è talmente forte il solito puzzo di partitocrazia che sale da questa campagna elettorale che invitiamo i lettori a non farsene ammorbare. Disertori di una sgangherata guerra fatta alle nostre spalle, sulla nostra testa e a nostre spese: questa è la scelta giusta.
A.M.
MOLES
Craxi: lo Stato festeggia un latitante?
Una falsità ripetuta all'infinito finisce per diventare una realtà. Almeno nella percezione generale, che è quella che oggi conta per le nostre società che danno all'immagine e alla conoscenza superficiale più importanza della sostanza e della cultura. È ignobile il fatto che Giorgio Napolitano possa anche solo pensare di partecipare alla cerimonia per il decennale della scomparsa di Bettino Craxi. Beninteso, è ignobile anche farla una cerimonia del genere (a meno che non si tratti di una cosa privata e familiare). Ma che le si possa addirittura dare un rilievo di Stato è veramente insopportabile, sebbene in linea con lo sfacelo delle Istituzioni al quale assistiamo ormai da decenni (del quale larga parte dipende anche da Craxi stesso). Ora, non è interessante ripetere gli illeciti commessi dall'esponente socialista nella sua carriera. I furti di vario genere e le condotte che hanno contribuito al penoso stato del nostro paese. Altri lo hanno fatto su vari quotidiani e libri. È importante invece tornare al punto di partenza: le falsità che diventano realtà. I termini sono due: esiliato e latitante. Uno è scorretto, l'altro è corretto. Secondo la legge italiana, secondo la nostra lingua, secondo la logica e il reale stato delle cose, Craxi è stato un latitante. Ovvero un criminale che si è dato alla fuga invece di lasciarsi processare e condannare. Come un criminale di mafia, per intenderci. Ha contribuito a ridurre l'Italia nello stato in cui si trova, a depredare economicamente (almeno in parte) il nostro paese, e una volta scoperto se la è svignata. Continuare a ripetere la parola esilio - e organizzare celebrazioni con cappello anche Istituzionale - contribuisce invece a far passare nella percezione comune una menzogna ignobile. Vale la pena, per chi ha le antenne alzate, e dà ancora valore alla realtà e ai termini della nostra lingua, cambiare canale televisivo, cambiare giornale o silenziare editorialisti e commentatori, non appena al nome Craxi viene abbinato il termine esiliato. Craxi, dopo aver rubato, è morto da criminale latitante in fuga dalla giustizia del paese che aveva avuto anche l'onere e l'onore di guidare. V.L.M.
È l’ora di delinquere
La messa a punto di quanto sta per accadere in merito al disegno di legge votato anche dal Senato - comunemente definito del Processo Breve - è di una semplicità disarmante. Si tratta, senza possibilità di essere smentiti, di malafede. Di una legge fatta apposta per impedire che Berlusconi venga condannato. Non altro. Lo conferma, tra le altre cose, il valore retroattivo che si vuole dare alla cosa. La motivazione ufficiale fa ridere i polli (e fa ridere ancora di più chi crede che invece si tratti di cosa buona e giusta): per intervenire sulle lungaggini procedurali nel nostro Paese, si adotta una norma che risolve il problema senza offrire strumenti per risolverlo, ma semplicemente eliminando il problema stesso. Come se si realizzasse che i furti di automobili sono troppi e che non si riesce a prendere i ladri in un tempo ragionevole, e allora si decide che siccome non si possono eliminare i furti, allora si elimina la caccia al ladro con una cosa del genere: se il ladro lo si trova nel giro di un quarto d'ora allora lo si può processare, altrimenti amen. Se questa legge passerà da Fini e da Napolitano, e dunque dalla Corte Costituzionale, la maggior parte dei processi penali non arriverà a sentenza. E a guadagnarci saranno ovviamente i criminali in attesa di giudizio. Cioè chi ha commesso i reati. A perderci saranno tutti gli altri, soprattutto chi chiede giustizia per un torto subito e che magari aspetta e paga da anni avvocati e danni subiti senza la speranza di vedere la giustizia dirimere la questione. In buona sostanza, i vincenti di tale vicenda, i beneficiati, saranno proprio quelli che invece sarebbero dovuti essere puniti. Chi propone e promulga una legge del genere è chi ha paura della Giustizia. E chi ha paura della Giustizia, in genere, è chi sa di avere le mani sporche di marmellata. Per essere precisi, parliamo della cancellazione di un centinaio di migliaia di processi ancora in atto. Un’altra norma transitoria discussa è quella sui reati contabili dove il giudizio davanti alla Corte dei conti viene immediatamente estinto se sono trascorsi 3 anni senza una sentenza fra l’atto di citazione, che ha avviato il procedimento, e il giudizio di primo grado. In poche parole, per snellire gli attuali carichi
ESKINE pendenti dei magistrati, si concede una sorta di amnistia ai reati definiti dal codice penale come ‘minori’, fra i quali però, per fare qualche esempio, vanno contati quelli inerenti truffe, istigazione, contraffazione, ricettazione, furti, falsificazione e sequestri. Per esempio, dagli omicidi in corsia a Parlamat. Il che è una ingiustizia, ovviamente. Le dichiarazioni recenti di Berlsuconi: "non vado in tribunale perché troverei un plotone di esecuzione", sono ridicole. Come se si potesse definire e giudicare l'entità delle accuse che sono mosse senza verificare se si tratta di accuse giuste o meno. Non si può scegliere di andare a farsi giudicare o meno in tribunale in base all'entità delle accuse che sono mosse. Anche perché il numero dei "fucili puntati contro" - se ha ancora senso parlare di giustizia e magistratura - è ovviamente direttamente proporzionale al numero e all'entità dei presunti reati per i quali si viene processati. A nulla vale pertanto seguire trasmissioni e lenzuolate di editoriali di vario tipo per capire, intuitivamente, ancora prima che logicamente e razionalmente, quanto sta per accadere. Il dato che emerge, e sul quale invece è opportuno che ognuno faccia una riflessione, risiede nel fatto che circa la metà dei votanti italiani ha scelto un governo che
oggi vara tale legge (e ha scelto Berlusconi, in senso lato), e che l'altra metà, credendo di scegliere per quella che oggi è la sedicente opposizione, crede tuttora che le cose sarebbero invece andate meglio se questa fosse diventata governo. Sui primi è inutile pronunciarsi. Sui secondi, vale bene rammentare una unica cosa a caso che sistema la faccenda: il caso scalate Bnl-Unipol, D'Alema & Co. che a suo tempo non si sono fatti processare (con l'ovvio appoggio di tutto il circo del Parlamento) e la fine che hanno fatto fare ai magistrati Forleo e De Magistris. Tutti quanti quelli che risiedono in Parlamento, o quasi, fanno parte di un medesimo clan che, sebbene in strategico disaccordo su alcune questioni, è invece d'accordissimo sul dato di fondo di auto preservarsi e conservarsi. Non si capisce, a questo punto, perché bisognerebbe tentare di essere corretti in un Paese e con un governo che per primi decidono di difendere i criminali invece di chi subisce un torto. La morale che se ne trae, e che può a questo punto lecitamente diventare prassi di tutti, è che oggi conviene delinquere.
Avatar: solo chiacchiere e distintivo
blockbuster suona dannatamente falso, il solito buonismo ipocrita. Sostanzialmente solo un filmetto ad alto budget destinato a incassare l’incassabile e finire lì, invece ha suscitato gli osanna bipartisan da parte degli intellettuali ufficiali e organici. Sono tutti riusciti a trovare profonde metafore di libertà, ma avete mai visto un film americano che, a parole, non si spacci per paladino della libertà? Il film inoltre resta semplicistico e primario nella divisione fra buoni e cattivi, come nella tradizione dei primi western: cappelli bianchi e capelli neri. A parti invertite, forse, ma la morale, anzi il moralismo non cambia. n Alcuni “fini” intenditori sono anche arrivati a dire che, dopo che la Cina lo ha vietato, a loro piace ancora di più, il
Un’orgia di effetti speciali e poco più, praticamente come essere catapultati in un videogioco gestito da altri, per il resto un melting pot di già visto: da Poacahontas a Nato il 4 luglio, passando per Matrix e Dune. Dopo la visione del film più dei megaeffetti speciali stupisce come degli “intellettuali” abbiano voluto vedere messaggi profondi in un polpettone altrimenti banale di ecologismo d’accatto in salsa di buoni sentimenti con retrogusto wicca & new age. Fare un film direttamente sull’Amazzonia, maggiore riferimento allegorico del film, forse avrebbe disturbato troppi, magari proprio fra i finanziatori della produzione, e il moralismo antiprofitto in un film programmato per essere un
V.L.M.
che sottintende che il film è piaciuto loro, e si tratta di quegli stessi che si sono scandalizzati, non a torto per carità, che Natale a Beverly Hills fosse stato considerato un film di interesse culturale. Decisamente contraddittori. La Cina, in realtà, non ha vietato il film, ma l’ha ritirato dalle sale non 3D per fare spazio a una megaproduzione nazionale su Confucio e, dopo la visione del film, la tesi cinese regge. Altro che Avatar come allegoria del Tibet. Certo, si dirà che gli stati non devono intervenire nella libertà di mercato del cinema e di educazione nazionale, molto meglio lasciare ciò alle major o alle censure occulte come quella che ha colpito “Katyn” e che sta colpendo “Agorà”. Film che in tema di libertà e valore cinematografico hanno ben altro spessore, magari lo sono troppo e non sono neppure coerenti con le correnti di pensiero dominante. I nostri intellettuali hanno però adottato Avatar come film del momento,
capace di inculcare buoni sentimenti, ecologia e antirazzismo. Salvo poi a ben vedere che il razzismo c’è ancora tutto. Chi guida e porta alla vittoria i nativi contro gli umani è un umano rinnegato, quindi solo le razze evolute possono portare alla vittoria quelle altre, inoltre, per certi versi e neppure troppo provocatoriamente, nel film si può anche vedere un’allegoria anti “migranti”: in fondo i nativi Ma’vi, nel film, sono gente che nella loro terra non vogliono stranieri anche se questi possono portare essere “necessari allo sviluppo economico” e li rispediscono al “loro pianeta morente”. Che il film sia divenuto un icona in particolare per gruppo di intellettuali che lavora per dare spessore alle acrobazie politiche di Gianfranco Fini non stupisce: ne film, oltre a quanto detto, c’è anche l’apologia del tradimento. F.M.
A riflettori spenti la Cabello se la ride: "Si e' trattato di un test scentifico". La Parietteide e' iniziata vent'anni fa quando incrocio', bella e maliziosa, le lunghissime gambe sullo sgabello di Telemontecarlo, e l'Italia dei Mondiali '90 trattenne il respiro. Fu il primo gol "professionale" della sua carriera. Peccato invece che non abbia sposato il suo principe azzurro, Giuseppe Lanza di Scalea: avrebbe davvero coronato il suo sogno d'amore. Intanto si e' sempre concessa generosamente alla tivu', i travestimenti sono la sua specialita': da sexy infermiera a gaucha. Vabbe', non bisogna prendere Wikipedia come il Fino all' ultima apparizione (senza essere la Vangelo on line, ma se cliccate Alba Parietti, la Madonna), gennaio 2010, Anno Zero, dove la prima cosa che esce è "Italian film actress" ( si', proprio in inglese che fa piu' international). A parte "coscia lunga della Sinistra" lamentava che le liste della suddetta Sinistra sono chiuse. Già, non "Abbronzatissimi", parodia di commedia all'italiana, e "Il Macellaio", con il quale Alba tento' sono mica il colabrodo della Destra, aperte a soubrette e simil escort... la strada del cinema erotico d'autore, la Non importa quel che A.P. abbia detto a Santoro, filmografia pariettesca finisce qua. ma il solo fatto che sia stata accreditata come Attizza lo share, sognando lo scoop, con effusioni opinionista politica, definisce, ahinoi, il livello del saffiche in diretta. Prima bacia in bocca Vladimir Luxuria ( "Ci siamo soltanto ripassate il rossetto", si dibattito pubblico oggi in Italia: quello dei giustifica l'ex naufraga) poi si passa all'altro battibecchi urlanti fra casalinghe dei primi incontro ravvicinato di qualche mese fa con pomeriggi domenicali. Victoria Cabello sulla Sette: "Posso fare una cosa Ma non e' che A.P. sogni un seggio in che ho sempre sognato di fare, toccarti le Parlamento fra le ex colleghe, Carfagna e labbra?", chiede Victoria ironica, vista la stazza dei Carlucci, potrebbero formare un nuovo gruppo due canotti, piu' décolleté a filo di capezzolo. Lei, parlamentare, quello del trans/partito,Tacco a spillo & Bisturi. l'Alba nazionale, pur di non farsele toccare preferisce baciarsela.... "Ma tu non sentirai niente, Ha proprio ragione il mio direttore, Massimo Fini, lui che la conosce bene: "La bella Alba come perche' io ho le labbra sottili",Victoria continua a provocare. L'ironia alla Alba non manca mai: persona è molto meglio del prodotto Parietti". "Con tutto quello che mi sono costate!". Ecco il punto: se le fossero costate un po' meno sarebbe Januaria Piromallo stato meglio. Anche per il suo portafoglio. www.bellaedannata.com
L’IMBUCATA
La Parietteide
ANALISI
Città
in transizione
Dalla dipendenza energetica alla sostenibilità delle comunità locali: moneta propria al riparo dalla inflazione, ma soprattutto un nuovo olistico sistema di vita. Si può fare.
T
di Eduardo Zarelli
ransition è un movimento culturale nato in Inghilterra dalle intuizioni e dal lavoro di Rob Hopkins, ora apprezzabile anche dai lettori italiani (Manuale Pratico della Transizione, Arianna Editrice). Tutto avviene quasi per caso nel 2003. In quel periodo Hopkins insegnava a Kinsale, in Irlanda e con i suoi studenti creò il Kinsale Energy Descent Plan: un progetto strategico che indicava come la piccola città avrebbe dovuto riorganizzare la propria esistenza in un mondo in cui il petrolio non fosse stato più economico e ampiamente disponibile. Voleva essere un’esercitazione scolastica, ma quasi subito ci si rese conto del potenziale rivoluzionario di quella iniziativa. Quello era il seme della “Transizione”, il progetto consapevole del passaggio dallo scenario attuale a quello del prossimo futuro. “Pensare globalmente, agire localmente”: in questo semplice slogan si possono riassumere l’obiettivo e il modus operandi del movimento delle “Città in Transizione”. Una filosofia che ora si sta diffondendo anche da noi in ambito locale, dei piccoli e virtuosi comuni della variegata e propositiva provincia italiana, dopo che Hopkins ha fatto della cittadina di Totnes, in Gran Bretagna, l’esempio più famoso di questo movimento. Questo villaggio di 8.500 abitanti nel sud-ovest dell’Inghilterra è stato da subito terreno fertile per le idee della transizione. Partendo da una presa di coscienza dei problemi che ci affliggono su scala planetaria – il cambiamento climatico, la futura penuria di fonti di energia non rinnovabili, la questione dello sfruttamento delle risorse idriche – Hopkins e i suoi sono riusciti a coinvolgere una piccola comunità che ha iniziato a compiere la sua "rivoluzione" nel nome dell’au-
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tosufficienza. L’obiettivo è che produzione, distribuzione e consumo (di energia, di acqua e di cibo, principalmente) diventino il più possibile locali, indipendenti da fattori esterni. E così via libera a progetti riguardanti l’uso di fonti energetiche rinnovabili, farmer’s market, spesa a chilometro zero, coltivazione di giardini e orti comuni, mobilità sostenibile. L’idea forte è stata quella di introdurre una valuta locale complementare, la “sterlina di Totnes”, cambiata alla pari con la sterlina del Regno Unito. Questa moneta – spendibile nella settantina di negozi associati al movimento – incentiva l’acquisto di prodotti locali, cosa che determina una diminuzione delle emissioni di anidride carbonica dovute al trasporto e un effettivo sostegno alle imprese e all’occupazione degli abitanti del posto. Ma sareb-
“I progetti di Transizione mirano a creare comunità libere dalla dipendenza dal petrolio e fortemente resilienti attraverso la ripianificazione energetica e la rilocalizzazione delle risorse di base comunitarie...” be riduttivo concentrarsi sulla autosufficienza “monetaria”: infatti, uno dei pilastri dell’economia di Totnes viene dallo scambio e dalla condivisione di cose molto concrete come ad esempio, risorse o materiali inutilizzati da ditte e imprese. Chi ha manodopera inutilizzata, materiali che si accumulano, spazi vuoti in immobili o mezzi di trasporto, è incentivato a condividere tutto ciò con altre imprese che ne hanno bisogno, secondo il Business Resource Exchange Project. Chi possiede un orto-giardino che non riesce a curare per mancanza di tempo o capacità, è invitato a condividerlo con chi invece può coltivarlo, nell’ambito del Garden Share Project. Con due progetti chiamati The Great Re-skilling (recuperare abilità perdute) e Transition Tales (racconto di esperienze) si possono condividere conoscenze e saperi stimolando spontaneamente relazioni di vicinato e reciprocità sociale. Raccontata in questo modo Totnes può apparire come un piccolo paesino irenico e decontestualizzato, che ha attuato la sua piccola svolta “verde”
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proprio in virtù del suo essere irrilevante, circondato da fertili campagne e abitato da una popolazione istruita, ricettiva ed economicamente agiata. Ma è possibile “pensare globalmente e agire localmente” in contesti in cui le politiche ecologiche non sembrano essere il problema più pressante? Il movimento delle Transition Towns può sopravvivere nei sobborghi delle metropoli, nelle aree ad alta densità abitativa, nei sobborghi periferici “difficili” o semplicemente nei tessuti urbani occidentali? Forse ce lo dirà l’esperienza di Transition Town Brixton. Un tentativo appena nato di applicare la filosofia delle comunità di transizione proprio a un popoloso e degradato quartiere di Londra. Quest’ultimo ha la sua moneta complementare chiamata Brixton Pound che, come a Totnes, cercherà di incentivare la gente a comprare presso negozi locali indipendenti e di spingere i negozi stessi a servirsi di fornitori del posto, inibendo le derive inflazionistiche. A questo si affiancheranno i consueti progetti per la riduzione dei consumi energetici e delle emissioni di anidride carbonica, nel trasporto pubblico, nel riciclaggio dei rifiuti, nella riduzione degli sprechi e nello sviluppo di orti urbani e gruppi di acquisto solidali. Grande enfasi è data naturalmente ai progetti di sensibilizzazione ed educazione. A Brixton si lavora su numeri più grandi di quelli a cui sono abituate le Transition Towns (oltre 60mila persone sono potenzialmente interessate), e soprattutto su un pubblico che, gravato dal bisogno e le necessità, risulta apparentemente insensibile alle “buone pratiche” e alla “semplicità volontaria” della sobrietà ecologista. La Transizione - infatti - è un movimento culturale sperimentale con esplicita valenza metapolitica, avendo l’ambizioso proponimento di traghettare la nostra società industrializzata dall’attuale modello economico basato su una vasta disponibilità di petrolio a basso costo e sul consumo illimitato delle risorse a un nuovo modello sostenibile indipendente da energie fossili non rinnovabili e caratterizzato da un alto livello di “resilienza”. Tale principio è il cardine per ribaltare sul piano della concretezza l’irrealismo dell’economia del mondo industrializzato, che è stata sviluppata negli ultimi 150 anni sulla base sull’assunto paradossale che le risorse a disposizio-
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ne per i consumi siano infinite. Le conseguenze più evidenti di questa politica sono una combinazione di eventi dalle ricadute di portata epocale: inquinamento, distruzione della biodiversità, iniquità sociale, distruzione del tessuto identitario e comunitario. La crisi petrolifera appare però la minaccia più immediata e facilmente percepibile dall’opinione pubblica. Hopkins parte quindi da questa percezione diffusa per arrivare agli altri di conseguenza - per progressiva consapevolezza - un’intuizione che è probabilmente alla base della considerevole diffusione del suo movimento nell’area anglosassone. Da ecologista ha passato anni a insegnare i principi della Permacultura, da cui deriva il concetto di resilienza. Quest’ultimo non è un termine molto conosciuto, esprime
“Transition Towns: un metodo che si può facilmente imparare e insegnare, riprodurre e rielaborare nel rispetto delle identità e delle diversità sociali e culturali...” una caratteristica tipica dei sistemi naturali. Consiste nella capacità di un ecosistema, di una specie, di una certa organizzazione vivente o sociale di adattarsi ai cambiamenti, anche traumatici, che provengono dall’esterno senza degenerare, una flessibilità dinamica rispetto alle sollecitazioni indotte. La società industrializzata è caratterizzata da un bassissimo livello di resilienza. Viviamo tutti un costante stato di dipendenza da sistemi e organizzazioni dei quali non abbiamo alcun controllo. Nelle nostre città consumiamo gas, cibo, prodotti che percorrono migliaia di chilometri per raggiungerci, con catene di produzione e distribuzione estremamente lunghe, complesse e delicate. Il tutto è reso possibile dall’abbondanza di petrolio a basso prezzo che rende semplice avere energia ovunque e spostare enormi quantità di merci da una parte all’altra del pianeta. È facile scorgere l’estrema fragilità di questo assetto, basta chiudere il rubinetto del carburante e la nostra intera civiltà si paralizza. I progetti di Transizione - in controtendenza - mirano invece a creare comunità libere dalla dipendenza dal petrolio e fortemente resilienti attraverso la ripianificazione energetica e la rilocalizzazione delle risorse di base della comunità (produzione del cibo, dei beni e dei servizi fondamentali). Lo fa con proposte e progetti risolutamente pratici, fattivi e basati sul buon senso. Prevedono processi governati dal basso e la
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costruzione di una rete sociale e solidale molto forte tra gli abitanti delle comunità, e la dimensione locale non preclude l’esistenza di altri e più complessi livelli di relazione sussidiaria e di scambio, regionale, nazionale e internazionale. Per dirla con la visione solistica del compianto Edward Goldsmith, se seguire la Via significa mantenere l’ordine cruciale del cosmo, si può ritenere che una società lo faccia quando il suo modello di comportamento, o di autogoverno, sia omeotelico. L’omearchia è il concetto chiave dell’intera visione olistica ed indica il controllo di sistemi naturali differenziati da parte della gerarchia di sistemi più ampi, di cui essi fanno parte. Quando, al contrario, è eterotelico (il controllo delle parti di un sistema da parte di un agente esterno/estraneo alla gerarchia), si deve ritenere che la società segua l’anti-Via, la civilizzazione dell’accumulo e dell’entropia, quella che minaccia l’ordine del cosmo e provoca inevitabilmente la rottura degli equilibri. Le unità di attività omeotelica sono le unità sociali naturali entro le quali gli esseri umani si sono evoluti: la famiglia, la comunità e la cultura che la sostanzia. Quando si disintegrano sotto l’impatto dello sviluppo economico, queste unità sono sostituite da istituzioni - politiche, economiche e sociali - il cui comportamento è sempre più eterotelico rispetto all’obiettivo di mantenere l’ordine cruciale della società e della gerarchia naturale. Nascono così le Transition Towns,“città di comunità” che sulla spinta dei propri abitanti decidono di prendere la via della transizione. Qui si evidenzia probabilmente l’elemento di forza più coinvolgente del progetto di Rob Hopkins: quello che lui ha creato è un metodo che si può facilmente imparare e insegnare, riprodurre e rielaborare nel rispetto delle identità e delle diversità sociali e culturali. Questo lo rende contagioso, persuasivo perché non ideologico, grazie alla emulazione della visione del mondo pluralistica che contiene, un’energia che attiva le persone e le rende protagoniste consapevoli di uno stile di vita volontariamente sobrio e disinteressato - nell’anonimato egoistico della società individualistica - che ricostruisce l’appartenenza comunitaria. La crisi profonda di civiltà che stiamo attraversando può quindi rivelarsi una grande opportunità che va colta e valorizzata per una trasformazione profonda del paradigma dominante. Il movimento di Transizione è uno strumento per farlo.
Eduardo Zarelli
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LIBRI E DI MODI VITA
Allettanti
I
visioni di resilienza
Il “Manuale della Transizione” è più che un semplice libro di analisi e proposte. Parla di soluzioni, del modello della Transizione, che può dar vita al maggiore movimento economico, sociale e culturale del XXI Secolo. di Rob Hopkins
l concetto centrale di questo libro è quello di resilienza familiare agli ecologisti, molto meno al resto di noi. L’idea di resilienza si riferisce alla capacità di un sistema, dal singolo individuo a quelli economici, di resistere e di mantenere il proprio funzionamento, nonostante un cambiamento o uno shock subito dall’esterno. Questo libro, “Il manuale della Transizione”, mostra che nei nostri tentativi (oramai di lunga durata) di tagliare le emissioni di anidride carbonica, dobbiamo prestare anche molta importanza alla costruzione, o per meglio dire alla ricostruzione, della resilienza. Infatti, dimostrerò che la diminuzione delle emissioni di CO2, senza la costruzione della resilienza, è in definitiva, del tutto inutile. Ma cosa si intende esattamente col termine resilienza? Nel 1990, ho visitato la Valle di Hunza, nel Nord del Pakistan, un luogo che fino all’apertura dell’Autostrada Karakorum, nel 1978, era rimasto quasi isolato dal resto del mondo. Quando ci andai, non sapevo nulla di “permacultura”, dell’idea di resilienza, o anche solo dei grandi problemi legati al cibo, all’agricoltura o all’ambiente, l’unica cosa di cui mi rendevo conto era che quello era un luogo straordinario. Riporto una citazione tratta da un libro che stavo leggendo durante il mio viaggio verso Hunza (di cui però non ricordo più il titolo): “Se sulla Terra esiste un giardino di beatitudine, è questo, è questo, è questo”. Quelle parole continuarono a ronzarmi in
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Il cambiamento di questo sistema di sviluppo non è una possibilità, ma una certezza.
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testa per tutta la mia permanenza a Hunza. Mi trovavo di fronte ad una società che riusciva a vivere secondo le proprie possibilità, e aveva sviluppato un’incredibile, sofisticato, ma al contempo semplice, modo per farlo. Tutti gli scarti, compresi i rifiuti umani, venivano diligentemente riciclati ritornando nel ciclo naturale. I terreni che erano stati ritagliati sulle montagne nel corso dei secoli, venivano irrigati grazie ad una rete di canali che portava l’acqua, ricca di minerali, dei ghiacciai circostanti fino ai campi, con incredibile precisione. Gli alberi di albicocche erano ovunque, così come quelli di mele, di ciliegie, di mandorle, e
“...la scelta di muoversi verso stili di vita basati sull’efficienza energetica e produttiva, non è un’opzione, ma una necessità per l’umanità...” ogni sorta di pianta da frutto e alberi di noci. Tutto attorno, e sotto, gli alberi crescevano patate, orzo, frumento e altri tipi di verdura. I campi erano ordinati, ma non recintati. Le piante crescevano in piccoli gruppi diversificati, piuttosto che in grandi monocolture. Risiedendo nella parte montagnosa, dovevo obbligatoriamente camminare sempre su e giù per le colline, diventando in breve tempo pratico dell’esercizio fisico, per cui la gente di Hunza è famosa. I sentieri sono stati pavimentati con le pietre, e sono percorribili solo a piedi o con gli animali, non in macchina. Sembrava che le persone avessero sempre tempo per fermarsi e chiacchierare tra di loro, oppure per giocare coi bambini che correvano scalzi e sporchi per i campi. Le albicocche venivano raccolte e distese a maturare sui tetti delle case, una splendida visione sullo sfondo delle montagne illuminate dal sole. Gli edifici erano costruiti con mattoni di fango prodotti con materiale del posto, caldi di inverno e freschi di estate. E, sempre, c’era l’immagine delle alte vette torreggianti sopra di noi. Semplicemente, Hunza è il più bello, tranquillo, felice e ricco luogo che abbia mai visitato in vita mia.
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In quel periodo, ero un artista, e stavo sempre col blocco in mano, girovagando per i campi, i vicoli, le colline, estasiato dalla luce e dai colori del luogo, spendendo molto tempo su un solo disegno, nel tentativo vano di riuscire a rendere al meglio la bellezza che si presentava di fronte a me. Se (in quel momento) Hunza fosse rimasta tagliata fuori dal resto del mondo e scollegata dalle autostrade dell’economia globale, attraversate da camion carichi di merce, non ne avrebbe risentito minimamente. Se ci fosse stata una crisi economica mondiale, anche nel caso questa fosse collassata, i suoi effetti sarebbero stati minimi sulla Valle di Hunza. I suoi cittadini erano troppo resilienti, felici, in salute e legati tra loro da un forte sentimento comunitario per risentirne. Non voglio cadere nel romanticismo o nell’idealismo, ma qualcosa della mia permanenza a Hunza è rimasta nel profondo del mio cuore. Sono cresciuto in Inghilterra, dove il festival del carburante fossile si è svolto a pieno regime, grazie ad una cultura che ha costantemente cercato di eliminare ogni forma di resilienza, e che dipingeva le persone che volevano vivere “all’antica” come stupide, e al contempo diffondendo la convinzione che il “progresso” fosse inevitabile. In quella valle sperduta, sentivo qualcosa nell’aria che non potevo toccare con mano, ma che ora so essere la resilienza: una cultura basata sulla sua capacità di funzionare a prescindere dalle condizioni esterne e di essere auto-sufficiente, e così facendo, di prosperare. Purtroppo già nel 1990, le cose stavano cominciando a cambiare. Mentre ero lì, alcuni sacchi vuoti di fertilizzante chimico si notavano agli angoli di qualche campo. Cominciava ad apparire qualche sacco di cemento, così come cibi zuccherati e bevande gasate. Poi, il processo di attacco alla resilienza cominciò per davvero, e come in ogni altra parte del mondo avanzò molto rapidamente. Non ci tornai più, quindi non posso fornire aggiornamenti di prima mano, ma sarei molto sorpreso se gli sviluppi fossero stati diretti verso il mantenimento dell’auto-sufficienza della Valle; anzi, a giudicare dai numerosi siti che vendono merce “made in Hunza”, deduco che ci
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si sia diretti verso un’economia da esportazione. Per fortuna, molte forze stanno convergendo velocemente, spingendoci a far sì che lavoriamo per mantenere e rinforzare la resilienza, piuttosto che lasciarla sbriciolare, e sono molto più efficaci di una qualunque disputa filosofica. Non ha più molto senso discutere se le forze che guidano la globalizzazione economica siano inique, ingiuste o distruttrici senza pietà delle culture locali e dell’ambiente. È meglio concentrarsi sul “tallone di Achille” della globalizzazione, un aspetto dal quale non esiste altra protezione all’infuori della resilienza: il suo grado di dipendenza dal petrolio. La rapida diffusione della globalizzazione è stata possibile solo grazie al basso costo dei carburanti liquidi fossili, e non esistono sostituti in grado di sopperire alle quantità di cui ne facciamo uso. Quindi, la scelta di muoversi verso stili di vita basati sull’efficienza energetica e produttiva, non è un’opzione, ma una necessità per l’umanità. Il “Manuale della Transizione” è più che un semplice libro di analisi e proposte. Parla di soluzioni, del modello della Transizione, che penso possa dar vita al maggiore movimento economico, sociale e culturale del XXI Secolo. Vorrei darvene un piccolo assaggio. È una calda sera di Marzo nella piccola città di Totnes, nella Contea di Devon. Circa 160 persone occupano completamente i posti a sedere della Chiesa di St. John, per una conferenza intitolata “Moneta locale, competenze locali, potere locale”. La serata è organizzata dalla “Transition Town Totnes”(TTT), la prima “Iniziativa per la Transizione” del Regno Unito, e rappresenta un risultato incredibile: 160 persone partecipano ad una serata sull’economia, normalmente un argomento che tiene le persone legate al divano di casa loro, più di una supercolla. Ad ogni persona, al suo arrivo, viene data una “Sterlina di Totnes”, una delle 300 banconote di prova stampate dalla TTT, per vedere l’effetto che una moneta locale avrebbe avuto sulla città. Un lato della banconota è una copia di quella di Totnes del 1810, tempo in cui la locale banca emetteva moneta, e stampata quattro settimane prima nello studio di un regista del luogo. Appena cominciai l’introduzione alla serata e all’ospite che avrebbe parlato, invitai i presenti a sventolare la banconota di Totnes: una vista notevole. In quel momento, 160 persone, banconote in mano, cominciavano un nuovo avventuroso viaggio, fatto di nuove storie sulla moneta, sul futuro, sulle loro possibilità e sulla loro indipendenza come comunità. Il racconto di storie è fondamentale in questo libro. Anzi potreste pensare all’intero libro come a un racconto di una storia: la storia della nascita del movimento per la
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Transizione, il maggiore progetto di ricerca in svolgimento nel Regno Unito, al momento. Ma in realtà, è una cosa più profonda. La nostra attuale cultura si basa su storie, su miti culturali che tutti noi diamo per scontati: che in futuro saremo più ricchi di adesso; che la crescita economica potrà proseguire all’infinito; che siamo diventati una società talmente individualista, che un obiettivo comune è semplicemente impensabile; che il possedere le cose ci rende felici; che la globalizzazione è un processo inevitabile, al quale tutti dobbiamo acconsentire. Come vedremo, tutte queste storie sono fuorvianti e dannose, rispetto alle sfide che saremo costretti ad affrontare, prima di quanto pensiamo. Abbiamo bisogno di nuove storie, che ci raccontino di nuove possibilità; che ci rimettano nel giusto posto rispetto al mondo in cui viviamo; che ci spingano a vedere i cambiamenti futuri come carichi di possibilità; che, in definitiva, ci diano la forza di riemergere e ad entrare in un diverso, nuovo, e più felice, mondo. Mentre stavo in quella sala, di fronte a quella gente sorridente e gioiosa, che sventolava le sue Sterline di Totnes, mi sentii eccitato. Pensai che c’era una grande forza in quel posto, che era rimasta compressa per troppo tempo. È obbligatorio, che quando pensiamo al picco del petrolio e ai cambiamenti climatici, sentirci inorriditi, spaventati e sopraffatti? Quella sala era piena di gente positivamente esaltata, e che guardava quelle sfide dritto in faccia. Come dovrebbe essere una campagna ambientalista se volesse generare questo stato di esaltazione, invece che creare sensi di colpa, di rabbia e di orrore, come fanno di solito gli ambientalisti? Come dovrebbe essere se volesse inspirare, entusiasmare e far concentrare la gente più sulle possibilità che sulle probabilità? Ancora non lo sappiamo con precisione, ma il movimento per la Transizione rappresenta un tentativo di progettare percorsi alternativi al picco del petrolio, di creare nuove storie su ciò che ci aspetta alla fine della nostra discesa, e di mettere la costruzione della resilienza al centro di ogni progetto che riguardi il nostro futuro. Le Iniziative per la Transizione da sole non possono essere le risposte al picco del petrolio e ai cambiamenti climatici; ogni coerente risposta nazionale avrà anche bisogno di risposte governative ed economiche ad ogni livello. Ma, se non riusciremo a creare questo senso di esaltazione, di anticipazione dei problemi, di voglia collettiva di partecipare ad un’avventura su vasta scala, ogni risposta governativa sarà destinata al fallimento, oppure dovrà lottare continuamente contro la volontà del popolo. Immaginate invece cosa potrebbe succedere se si riuscisse a creare quel sentimento
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di impegno positivo e di volontà di scrivere una nuova e diversa storia per trovare una soluzione positiva, anche a livello nazionale. Ecco, questo libro è un tentativo di esplorare questa possibilità, un’immersione nelle possibilità derivanti dall’ottimismo messo in pratica, e, infine, un’introduzione ad un movimento che cresce a ritmo talmente sostenuto, che quando starete leggendo queste righe, sarà già aumentato rispetto a quando sto scrivendo. Il tempo in cui si vedeva la globalizzazione come un mostro inattaccabile ed invincibile, oppure nel quale si pensava alla localizzazione come ad una scelta di vita, è finito. La fine della “Era del petrolio economico” si sta avvicinando rapidamente, ed il nostro stile di vita cambierà radicalmente, che lo vogliamo o no. Questo libro rappresenta un nuovo modo di vedere le possibilità che possono arrivare nel futuro, partendo dal presupposto che adottare un atteggiamento proattivo, invece che reattivo, può ancora darci la possibilità di dare forma al nostro futuro, all’interno dei rapidi cambiamenti energetici, facendo in modo che sia addirittura migliore di questo presente. Ricostruire l’agricoltura e la produzione di cibo locali, localizzare la produzione di energia, ripensare la sanità, riscoprire i materiali locali per l’edilizia, sono tutti processi che ridanno vita alla resilienza ed offrono la possibilità di uno straordinario rinascimento - economico, culturale e spirituale. Non mi spaventa un mondo con meno consumismo, meno “cose” e con una minore crescita. In realtà sono più spaventato dal suo opposto: che un mondo che ha utilizzato concime chimico per campi fertili, possa durare ancora a lungo, rendendo le comunità non in grado di sostenersi da sole, per un periodo superiore a questo, nel quale l’industria è stata in grado di trasformare il gas naturale in concime chimico e nel quale le automobili sono le regine. Questo non è un libro su quanto terribile può essere il nostro futuro; piuttosto è un invito a unirsi alle centinaia di comunità sparse per il mondo, che hanno cominciato il cammino perché un futuro più prolifico e più abbondante diventi realtà.
Rob Hopkins Dartington, 2008
Per gentile concessione dell’editore. Il libro, del quale abbiamo proposto l’introduzione, può essere acquistato, oltre che nelle normali librerie, anche attraverso la Biblioteca Ribelle, sul sito della nostra rivista.
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CULTURA DELLO SPORT
Quindici uomini
fra le linee del morto
Meglio l’onore della vittoria. Il coraggio del calcolo. Un pugno di una sceneggiata. Quello che il pubblico chiede è che i suoi ci mettano l’anima. Ecco lo spirito di uno sport fortunatamente (ancora) puro.
“Q
di Marzio Pagani
uindici uomini contro quindici uomini, fra le linee del morto”, così Marco Paolini, parafrasando un nota canzone pirata, in uno dei suoi splendidi monologhi descrive il rugby. Mancherebbe solo la pinta di rum, ma questa viene degnamente sostituita da innumerevoli pinte di birra, prima durante e dopo la partita. Perché di alcol quando c’è un incontro di rugby ne scorre a fiumi, eppure non ci sono incidenti. Che il problema sociale non sia l’alcol, ma risieda altrove? L’alcol quando la partita è di calcio è rigorosamente vietato eppure ben sappiamo quello che succede: la violenza, sugli spalti e fuori, divampa spesso. Nel rugby invece la violenza non c’è spesso, ma sempre. In campo, però, e ritualizzata per giunta, al limite della dichiarazione di guerra, che si chiama Haka. Violenza sempre secondo le regole o quasi, perché, anche se oggi meno di ieri, può accadere anche un rapido scambio di pugilato fra giocatori, che non sarà nelle regole ma è nello spirito del rugby: l’arbitro sa che ci deve essere stata qualche scorrettezza non vista e allora si gira, fa finta di non vedere. Non volano cartellini rossi e gialli. Solo pugni, in una sana virile rissa che si
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estingue rapidamente e non si estende alle curve. Nessuno simula di essere andato a terra per un buffetto o una testata non data, sarebbe inutile e, poi, per un giocatore di rugby sarebbe già disonorevole andare a terra per un pugno dato da un energumeno di oltre cento chili, figuriamoci se il pugno neppure c’è stato. I cartellini vengono, invece, estratti quando il comportamento è antisportivo, e il “giallo” non è in
“Nel rugby invece la violenza non c’è spesso, ma sempre. In campo, però, e ritualizzata per giunta, al limite della dichiarazione di guerra, che si chiama Haka.” avvertimento per una scorrettezza, magari decisiva, che può essere spesa impunemente nel corso della partita. Il giallo significa dieci minuti fuori dal campo che mettono in difficoltà la squadra. E la squadra, nel rugby, è tutto. Neppure il pubblico capirebbe, non solo non inveirebbe contro l’arbitro, ma sarebbe anche capace di applaudirlo. Non si inveisce mai contro l’arbitro dunque, e soprattutto i giocatori non lo fanno - e si tratta di gente che potrebbe farne coriandoli in un attimo - e invece questi stanno quasi intimiditi davanti alle sue decisioni, che però, a onor del vero, vengono sempre spiegate. Neppure il pubblico si lamenta degli arbitraggi parziali, capitano pure nel rugby anche se mai sono scandalosi, e quando lo fa sono accenni sottovoce, quasi ci si vergognasse di dover dipendere da un arbitraggio. Chi semmai può gridare allo scandalo, come accadde in Italia-Irlanda di un passato Sei Nazioni, è la stampa della squadra che si è vista favorita. Impossibile nel rugby gioire per una qualificazione raggiunta con un colpo di mano ai supplementari, nessuno sarebbe dalla parte del marcatore, per primi i tifosi. Impossibile anche perché l’arbitro chiederebbe, com’è sempre possibile nelle partite importanti di questo sport, la prova televisiva, e tutto lo stadio la vedrebbe, così come tutti i telespettatori a casa:
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impossibile barare, falsare un risultato per interessi di parte o federali. Nel mondo del rugby nessuno sognerebbe di vincere un derby a tempo scaduto su un rigore inesistente, meglio perdere con onore con la mischia che spinge e l’arbitro che non concede una giusta “meta tecnica”. “Meta tecnica”: nel rugby il punto può essere assegnato anche se non realmente segnato, basta il fatto che avrebbe potuto esserlo se non ci fosse stato un comportamento falloso e antisportivo. Nel calcio, un fallo di mano sulla linea non sarebbe un rigore, che una possibilità la offre ancora: sarebbe gol e basta. Meglio l’onore, in ogni caso, della vittoria: quello che il pubblico chiede è che i suoi ci mettano l’anima, che lottino anche per una inutile (ai fini del risultato) meta all’ultimo minuto, magari con tutta la mischia che spinge e lo stadio con lei, anche la parte avversa, talvolta, se la squadra ha meritato. E se la squadra ha dato tutto, l’applauso del pubblico è pieno, come per una vittoria, anzi più che per una vittoria se immeritata. La vera festa del rugby è però a tempo scaduto: il mitico “terzo tempo”, che non è l’imposizione federale di fasulle strette di mano. Il terzo tempo è quando le squadre si incontrano per colossali bevute di birra, cui i tifosi non sono da meno. Perché anche i tifosi si mischiano ai giocatori, nel terzo tempo: non esistono imponenti schieramenti
“Nel mondo del rugby nessuno sognerebbe di vincere un derby a tempo scaduto su un rigore inesistente...” di polizia e misure draconiane per impedire che le “opposte tifoserie” si incontrino. Anzi: questo potrebbe veramente scatenare l’ira del popolo del rugby. I tifosi vogliono incontrarsi, mischiarsi, bere insieme, tifare per il loro sport prima che per la loro squadra. E non si mischiano solo al terzo tempo, ma prima durante e dopo la partita. È un continuo scambiarsi applausi e offrirsi da bere a vicenda, anche sugli spalti… e si tratta di
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lattine, che nessuno, però - mai - si sognerebbe di tirare (specie se ancora piene). Anzi basta che uno si azzardi al lancio di una bottiglia di plastica che, senza bisogno degli “stuart” o dei “celerini”, i tifosi della sua, e non dell’altra, squadra lo riempiano di schiaffi e, considerato che buona parte delle tifoserie è composta da praticanti, è vivamente suggerito non fare neanche il test alla cosa. Non c’è, però, bisogno di questi gesti estremi: basta insultare l’arbitro o l’altra squadra in maniera calcistica per sentirsi apostrofare, a Roma, con un violento, “Hai sbajato stadio: questo è il Flaminio, non l’Olimpico”. Già: il piccolo, ma già mitico, stadio Flaminio, l’ultimo arrivato, che deve competere con templi del rugby come il Murrayfield di Edimburgo. Per un grande evento, però, ma nel rugby anche un test match, un’amichevole, può essere un grande evento, il movimento del rugby è riuscito recentemente a riempire S.Siro: ottantamila per Italia–Nuova Zelanda. E la “scala del calcio” ha offerto un’esecuzione dell’Inno di Mameli, in piena padania, come mai si era visto prima in quello stadio. Quando, a Roma, verrà il giorno in cui si potrà apostrofare il tifoso scorretto con un “No, nun hai sbajiato stadio, è l’Olimpico, ma ce vedi peggio dell’arbitro: la palla, oggi, è ovale” ?
Marzio Pagani
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MUSICA
Requiem
È
per Vic
Ha giocato come ha potuto, Vic Chesnutt. Inchiodato su una sedia a rotelle. In bilico sulla tentazione del suicidio
di Federico Zamboni
sempre un colpo di fortuna, sopravvivere alla propria giovinezza senza subire danni irreparabili. Vic Chesnutt non l’aveva ricevuto, questo piccolo e indispensabile aiuto dalla buona sorte: a soli diciotto anni, mentre guidava completamente ubriaco, aveva perso il controllo dell’auto ed era uscito di strada, finendo in coma. Quando si era risvegliato il verdetto era stato impietoso: l’uso delle gambe era perduto per sempre. Quello delle braccia e delle mani sarebbe rimasto limitato. Persino la funzione respiratoria non sarebbe più tornata la stessa. Vic era stato adottato, da bambino. Vic aveva imparato presto a suonare la chitarra: era stato suo nonno, a tirarlo dentro. Aveva scelto una canzone, Sweet Georgia Brown, e gliel’aveva insegnata in Sol. Una settimana dopo gli aveva svelato un trucchetto coi fiocchi: lo stesso brano si può eseguire in altre undici tonalità. Muovi il primo accordo (la locomotiva che decide per tutti) e quelli successivi lo seguono buoni buoni, come vagoncini agganciati alla motrice. Il pezzo è lo stesso. E al tempo stesso non lo è più. La stessa sequenza conduce a conclusioni differenti. Sorprendenti, a volte. Come girare gli occhi tutto intorno: è lo stesso posto; è un posto diverso. Vic non aveva ancora elaborato nessun progetto particolare
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sulla sua vita. E non pensava affatto che avrebbe fatto l’artista di professione. È un’idea talmente strana, se ci rifletti... Un’idea talmente presuntuosa... Tu che suoni e gli altri che pagano per ascoltarti. E poi, scusa, perché dovrebbero interessarsi proprio a te? Vic Chesnutt il Giovane – quello che prima di salire in macchina ubriaco e di finire in un canale con la spina dorsale spezzata era uno come tutti gli altri, che camminava come tutti gli altri e che faceva le sue belle cazzate in pace, come tutti gli altri – non credeva di avere molto da dare. Forse in futuro, ma adesso era tempo di prendere. Sensazioni, esperienze, sorprese. Forse soprattutto questo: sorprese. Vic Chesnutt il Paralitico doveva ricominciare tutto da capo. Anche in ambito musicale. «Suonavo in una maniera molto diversa, prima dell’incidente. Nelle mie canzoni c’erano un mucchio di accordi strani e di altre cose, ma in realtà non avevo niente da dire, all’epoca. Non ero sicuro di cosa fosse quello che facevo. Fu soltanto dopo che mi spezzai il collo e dopo un altro anno ancora che cominciai a capire che avevo qualcosa da esprimere. E sul piano fisico, quando fui in grado di ricominciare a suonare la chitarra, compresi che tutto quello che potevo fare erano solo gli accordi più semplici. E se doveva essere così, beh, è così che avrei fatto».
Bene: è andata male Ci si può nascondere in mille modi, innanzitutto a se stessi, oppure si può decidere che è meglio di no. Si può restare tutta la vita sul filo di un inganno, pronti a sostenere che si è trattato solo di un equivoco, oppure uscire allo scoperto e
“Fu soltanto dopo che mi spezzai il collo e dopo un altro anno ancora che cominciai a capire che avevo qualcosa da esprimere...” dire quello che si ha da dire. Nel modo in cui si è capaci di dirlo. Niente acquisti a credito. Nessuna referenza da esibire. Nessun favore da chiedere. Si avvicini chi vuole. E solo a condizione che ne abbia voglia davvero. Vic Chesnutt ha avuto il coraggio di osservarsi per quello che era – per quello che era diventato dopo l’incidente – e di accettare l’idea di una sofferenza che lo avrebbe accompagnato per sempre. A volte leggera e quasi inavvertibile. Altre volte gravosa e pressoché insopportabile. Di fronte al
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disastro del suo corpo martoriato, e alla prospettiva di un’intera esistenza da trascorrere spegnendo sul nascere una miriade di slanci e di desideri, ha capito che gli restava ancora un’integrità da difendere e da riaffermare. Vic Chesnutt il Paralitico poteva riscattarsi in Vic Chesnutt il Disinteressato. Uno che non avrebbe mai fatto nulla, per blandire i
“Chesnutt aveva un mucchio di ottime composizioni, ma nemmeno una che fosse adatta a questo genere di seduzione immediata...” suoi possibili ascoltatori. Uno che sull’arco dei quasi vent’anni che separano l’esordio di “Little” dall’epilogo di “Skitter on Take-Off”, ha scritto le sue canzoni e le ha interpretate così come le aveva in mente, senza sforzarsi in alcun modo di renderle più attraenti. Gli angoli vivi restano vivi, a rischio di fare male. Gli spazi vuoti rimangono vuoti, come in un paesaggio che è scarno senza essere desolato. Ciò che è stato aggiunto alla stesura iniziale, poco o tanto che sia, non sembra nemmeno un arrangiamento, sviluppato allo scopo di enfatizzare questo o quell’aspetto. Sembra che gli altri strumenti si siano aggiunti alla sua chitarra solo perché le circostanze hanno voluto così. Perché è capitato di incontrarsi con coloro i quali li suonavano e allora, come viandanti che si accorgono di andare nella stessa direzione, è sembrato naturale fare un po’ di strada insieme. Una parte del fascino di Chesnutt risiede proprio in questo: nell’impressione di entrare in un mondo che rimane privato, e intimo, e totalmente sincero, anche quando si riversa in un disco destinato alla vendita o in un’esibizione su un palcoscenico. C’è qualcosa di laconico, e quindi di irraggiungibile: qualcosa che induce a tendere l’orecchio nel tentativo di afferrarlo comunque.
Fottiti, Morte! Vic Chesnutt è morto il 25 dicembre 2009. Avvelenato da un’overdose di farmaci che probabilmente ha assunto in maniera deliberata, ma che potrebbe
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anche essere stata accidentale. Vic era preoccupato: la sua assicurazione medica non copriva una parte delle cure di cui aveva bisogno e il debito era già arrivato a 70 mila dollari. Vic non li aveva. La sua carriera andava bene dal punto di vista artistico, ma sul piano commerciale era ben lontana dal fare di lui una star che domina le classifiche e fa quattrini a palate. Michael Stipe, dei REM, lo aveva appoggiato fin dall’inizio, scoprendolo mentre cantava al “40 Watt Club” di Athens e producendo i suoi primi due album. Poi, già nel 1996, gli stessi REM, insieme ad altri personaggi di primo piano tra cui gli Smashing Pumpkins e Madonna, gli avevano dedicato una raccolta di cover intitolata “Sweet Relief II: Gravity of the Situation”, accreditandogli i relativi guadagni. Sforzi apprezzabilissimi, ma il successo con la S maiuscola non era arrivato. La popolarità di massa presuppone un exploit. Un singolo brano che si imponga al primo ascolto e che richiami l’attenzione sull’interprete, portandolo sotto i riflettori dei media per il tempo necessario a imporre la propria immagine. Chesnutt aveva un mucchio di ottime composizioni, ma nemmeno una che fosse adatta a questo genere di seduzione immediata. Inoltre, quand’anche l’avesse avuta, non poteva certo contare su una presenza scenica attraente: che razza di show può proporre, uno che è immobilizzato su una sedia a rotelle? Quante copertine può riempire, senza che la sua figuretta sparuta crei un contrasto stridente con l’immaginario glamour prediletto dalle riviste a grande tiratura? Chesnutt era rimasto ai margini, in una dimensione che per un verso non gli dispiaceva affatto ma che per l’altro lo lasciava privo delle risorse economiche di cui avrebbe avuto bisogno. Nel dicembre dell’anno scorso, come abbiamo visto, la situazione si è aggravata. Vic aveva alle spalle 25 anni di vita in condizioni menomate, che solo gli stupidi possono sottovalutare illudendosi che alla lunga ci si abitui. Vic, in passato, aveva già tentato di uccidersi. Non se ne vergognava. Non lo nascondeva. Nelle interviste ne parlava alla stregua di un dato di fatto, come il capitano di una nave che ricorda di aver già sfiorato il naufragio. E che sa perfettamente che in qualsiasi momento, là fuori, può arrivare la tempesta che non ti lascerà scampo.
Federico Zamboni
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CINEMA
Come
L
fosse antani
“Amici miei”: lo scherzo, la risata, l’amicizia come rivolta contro il mondo moderno. “Ragazzi, come si sta bene tra noi, tra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi?”
di Ferdinando Menconi
a ribellione, la rivolta, non si consumano solo col grande gesto, con la rivoluzione, ma anche, e forse soprattutto, nel quotidiano, nel giornaliero rifiuto delle convenzioni seppellendole con una risata, o magari con molte, come accade praticamente in ogni scena di “Amici miei”. Non è uno di quei film dove la ribellione, la lotta per la libertà, magari fasullamente hollywoodiana, viene gettata in faccia allo spettatore, nascondendo fra le righe il contrario, questa va saputa finemente cogliere. Ma se vi si riesce ci si rende conto che le “zingarate” dei cinque scavezzacollo sono più dirompenti di tutti gli effetti speciali dei vari Neo o V, anche perché sono alla portata di tutti. I grandi eroismi possono non essere da tutti, sono fulgidi esempi di pochi che hanno anche il vantaggio di dare l’alibi che sono, appunto, per pochi, mentre alibi non ve ne sono per chi non riesce a ribellarsi alla banalità delle convenzioni del quotidiano anche semplicemente con uno scherzo cinico. Anche il loro, però, non è un esempio facile da seguire. Non fosse che perché nel film i “ribelli” sono interpretati da attori come il cinema italiano non riesce più a produrre1 e che questi sono diretti da un grandissimo Monicelli, aiutato alla regia da Carlo Vanzina che ha ben tradito, poi, gli insegnamenti un tale maestro.
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Il Perozzi: “...uno dei periodi migliori della nostra vita, lontani da mogli, amanti e affari...”
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I nostri cinque, è vero, appartengono ad un altro tempo (il film è del 1975) ma la loro forza è intatta, infatti ogni passaggio in televisione dà sempre buoni risultati di audience e siamo minacciati da un remake che speriamo abortisca: sono bastati e avanzati i seguiti (sequel, in italiano). La rivolta individuale al conformismo, alle convenzioni, oggi ancor più di ieri, è il primo passo verso la rivolta strutturata e politica, anzi è il passo fondamentale contro i falsi rinnovamenti sociali e i buonismi castranti che strangolano i nostri tempi. Con la loro cattiveria e cinismo non sono certo buonisti gli scherzi dei cinque “zingari”. Nessun rispetto per niente e per nessuno, neppure per il prete all’estrema unzione di cui si prende gioco, in sacrilega confessione, il Perozzi nel suo letto di morte. Una scena malinconica ed esilarante al tempo stesso, pietra miliare del cinema italiano. Cattivi e cinici, sì, ma umanissimi, di un’umanità vera, non di cartapesta come gli appelli e i gattini di Facebook, in cui bisogna non offendere nessuno e far finta di amare tutti. Loro no, offendono tutti, ma amano per davvero. Amano per davvero, come il Melandri, quando si innamora e “vede la madonna”, ma non rispettano la donna, e siamo negli anni ’70 del femminismo militante. Controcorrente allora, ed ancor di più oggi, il loro è un sodalizio tipicamente maschile che esclude la donna, tanto da far dire al Meandri: “Ragazzi, come si sta bene tra noi, tra uomini! Ma perché non siamo nati tutti finocchi?” o al Perozzi come voce narrante “Uno dei periodi migliori della nostra vita, lontani da mogli, amanti e affari”. Questa loro goliardia volgare ma senza volgarità è decisamente inaccettabile al corretto pensare imposto, ma a loro non fregherebbe nulla: sono “zingari”, non “rom”. Il loro pensare scorretto si estende a anche al “grullaio”, figura sacrale, specie nel cinema italiano contemporaneo. Come chi è il “grullaio”? Ma è quello che cura i grulli: lo psicanalista. Poche taglienti parole per riportare il re alla sua nudità e chissenefrega se i grulli si offendono, possono sempre andare dal grullaio a farsi consolare. Lo scherzo, la risata, l’amicizia come rivolta contro il mondo moderno. L’amicizia, soprattutto l’amicizia. Ma la loro amicizia può permettere la zingarata vagabonda perché è un’amicizia nata per stra-
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da, scuola o caserma, non “richiesta” in chat o social network. La strada una grande maestra che le nuove generazioni stanno perdendo, con sommo gaudio dei tristi benpensanti alla Giovanardi. Naturalmente il cattivo esempio dei cinque amici portò i giovani di quelle generazioni a “pericolosi fenomeni emulativi”, che si consumavano in scherzi e zingarate talvolta degne dei maestri, ma erano ad uso interno ed, ancor più, interiore. Erano per scaldare il gruppo, per regalarsi una risata, non per postare la clip su you tube. Amicizia tema portante del film, amicizia che travalica i ceti sociali: Il Conte Mascetti, nobile squattrinato; il Melandri, architetto del comune; il Necchi, barista; il Sassaroli, primario; il Perozzi, giornalista. Amicizie vere, che non nascono per utilità sociale, e tutte rigorosamente per cognome, vizio italiano che nasce sui banchi di scuola, dove ci si chiamava per cognome o soprannome, ma mai per nickname. Il Perozzi, giornalista, ma giornalista di altri tempi, quando la stampa locale aveva ancora una dignità che la metteva al livello dei migliori quotidiani nazionali di allora. Di allora, perché rispetto a quelli di oggi era di ben altra, superiore, levatura. Giornalista di altri tempi, di quando la cronaca si faceva anche con le gambe e non solo dietro a un terminale a parafrasare i lanci di agenzia. Di quando il giornalista, dopo aver lavorato tutta la notte, andava a dormire alla stessa ora delle puttane, che anch’esse avevano lavorato tutta la notte, come accade nella scena di apertura del film. Anche il nostro Perozzi, però, ha un cruccio: il figlio. L’unico che possa mettere “l’impermeabile alla macchina”, un triste conformista precisino di successo, messo contro il padre da una madre cui il Perozzi ha fatto piangere tutte le sue lacrime. Ma forse era solo perché lei non sapeva ridere e i mille tradimenti, in fondo, se li è chiamati e meritati tutti… anche se il politicamente scorretto Perozzi ha saputo far ben soffrire e prendere in giro pure tutte le sue amanti, ma chi rompe i coglioni merita questo e altro. Era il Perozzi che non meritava un figlio così, ma è stata tutta una generazione che ha avuto dei figli così: nonostante il 68, più noiosi, conformisti e integrati dei padri. Tristi anche quando vivevano con tetro rigore i sogni di rivolu-
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zione, ciarlando di risate che avrebbero seppellito, per poi aderire al regime il tempo venuto. Il Melandri, che ogni tanto “vede la Madonna”, e diventa un peso morto per gli amici, ma che oggi sarebbe soprattutto un peso inaccettabile per il signore dei tornelli, visto che pur di partire per le zingarate molla tutto, manda i geometri ai collaudi e se ne frega delle commissioni, ma è vittima di Birillo. Birillo ingombrante cane che gli ha rifilato il Sassaroli insieme a tutta “una catena di affetti” che parte dal cane, passa per l’istitutrice tedesca ed arriva ai figli della “Madonna”: già la “Madonna” del Melandri era la moglie del Sassaroli, che non ha esitato a rifilargliela, visto che era una femmina da “grullaio”, di quelle su cui oggi si costruirebbero film impegnati e inutilmente pallosi, tanto quanto lei. Il Sassaroli, primario che al richiamo degli amici molla i pazienti in sala operatoria e parte in zingarata. L’unico che riesca a tenere a bada la banda, nonostante sia l’ultimo arrivato. Il Necchi, e il suo bar, l’unico con un felice rapporto matrimoniale. Almeno dal suo punto di vista, inaccettabile per le donne d’oggi, visto che riesce a farsi servire la colazione a letto e pianta la moglie ogni volta che il clacson degli amici lo chiama. Decisamente pessimo, però di una cosa la moglie non può lamentarsi: la sua vita sessuale. Il cazzo non vuol pensieri e il Necchi non ne ha, non se ne fa imporre e la soddisfa in pieno. Sarà maschilista, però la moglie sta meglio di tante che i pensieri al loro uomo li impongono di continuo. Da ultimo il Conte Mascetti, che si è mangiato due patrimoni, il suo e quello della moglie, costretta a vivere con la figlia in condizioni che nemmeno un extracomunitario. Ma se ha perso il patrimonio non ha perso né la dignità, né la classe: un vero antieroe rispetto all’attuale predominanza del cafone in pantofole. Non è il denaro che fa il signore, checché si cerchi di far credere oggi. È un infame per come tratta la famiglia, supervalore sulla bocca di tutti i politici (specie di quelli che ne hanno più d’una), solo la giovane amante riesce a tenerlo sotto scacco, ma non si può non amarlo, è un Conte e da nobile vive d’espedienti e scardina tutti i valori borghesi, il denaro per primo. Il ridere, il non prendere nulla sul serio, neppure se stessi, il cinismo irriverente è l’arma più scardinante in questo attuale grigiore che pretende di regolare tutto e vieta sempre di più in nome di falsi rispetti e inesistenti libertà. Stretti come siamo fra sinistre da salotto e destre mulino bianco non si può che mandare loro a dire: “Tarapia tapioca prematurata la supercazzola come fosse antani anche scribai con cofandina”. Ferdinando Menconi
Note: 1) Celi, Del Prete, Moschin, Tognazzi e Noiret… che è francese ma era un grandissimo lo stesso e molto presente nelle produzioni italiane di qualità, come Blier che interpreta uno spettacolare pensionato vittima dei cinque.
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parol e avvel e nate 10 anni d’esilio (in patria)
I
l primo decennio del nuovo millennio si chiude con i festeggiamenti per la commemorazione della morte di Bettino Craxi. E non si capisce bene se è più una commemorazione dei familiari, degli amici e dei faccendieri che gli devono le attuali fortune oppure i festeggiamenti di chi - grossomodo tutti gli italiani - sono stati vittime, direttamente o indirettamente, delle ruberie perpetrate negli anni dal leader del garofano finito latitante come un boss di mafia de' noantri. Non è bastato Nostradamus e la fine del mondo, non sono bastati tutti i millenaristi e i milioni di petardi sparati la notte di capodanno del '99. Non sono bastate le guerre preventive, quelle ancora in atto e quelle post-prodotte. Non sono bastati i milioni di morti, i milioni buttati dalla gente nel Superenalotto, la Juve in serie B e Mourinho e i bilioni di giocatori all'Inter per fargli vincere la Champions. Non sono bastate le torri gemelle abbattute da terroristi armati di taglierino. Non è bastato nemmeno Bush figuriamoci se basterà Obama. Non è bastato Madoff e la gente per strada senza più una casa e un lavoro. Non è bastata la Fed a stampare carta igienica figuriamoci Brunetta a menare gli statali. Non è bastato neanche Marchionne per non chiudere Termini Imerese figuriamoci la Procura per sbattere in galera Tanzi. Non sono bastati Rutelli, Prodi, D'Alema, poi ancora Prodi e poi Veltroni e Franceschini a fare un Pd figuriamoci Bersani. Non è bastata la sparizione di Bertinotti & Co e il culo rotto del Presidente della Regione. Non sono bastati i pompini delle mignotte e delle ministre figuriamoci se sarebbe bastato Tartaglia per fare fuori Berlusconi. Non è bastato nulla di tutto questo. Stiamo ancora al lancio delle monetine e al "biscione che t'aspetta". Il mondo è ancora in piedi. Virtuale, semmai, visto che la cosa più grande che ci ha lasciato il decennio è il non-luogo del web. Dove gente scrive, chatta, legge, copia e incolla, fotografa, condivide, scarica musica e film in modo illegale, si ammazza di seghe davanti ai pornositi e più in generale naviga, naviga naviga in questo mare di merda per saperne sempre meno e per andare da nessuna parte, visto che il massimo che può sperare sono le emorroidi schiacciate sulla sedia dalla quale non si muove. Un bel decennio, non c'è che dire. Ed eccoci appunto di nuovo a Craxi. Cosa ci aspetta per i prossimi dieci anni? Forse, come dicevano i romani, dopo Hammamet "hic sunt leones" Steppenwolf
Ci occuperemo
invece di...: il dovere di auto-censura pit-stop per Obama Internet ci sta svuotando l’India che si modernizza tristemente Ite, Missa Est I "delitti" della Grande Distribuzione Organizzata
di Alessio Di Mauro