G.C.S.I. Giornale Critico di Storia delle Idee Direzione editoriale: Andrea Tagliapietra e Sebastiano Ghisu
Rivista internazionale di filosofia Semestrale, Anno 1, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - aut. del Tribunale di Sassari n.455 del 14/7/2008 ISSN 2035-732X Direttore responsabile: Francesco Pala Redazione: Dipartimento di teorie e ricerche dei Sistemi culturali dell'Università degli studi di Sassari, Piazza Conte di Moriana n.8, Sassari
L’utile e l’inutile
Sommario: •
Andrea Tagliapietra e Sebastiano Ghisu L'utile e l'inutile (EDITORIALE)
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Sebastiano Ghisu pag. 5 Dell’utilità e inutilità di Dio, del mondo, dell’uomo. Agostino, Spinoza, Smith, Kant. Appunti per una storia del concetto di utilità
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Andrea Tagliapietra Fenomenologia dell'inutile. Un abbozzo
pag. 21
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Romano Gasparotti Kant e l'inutilità dell'arte
pag. 36
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Diego Fusaro Modernità come supremazia dell'utile economico
pag. 55
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Mario M. Bosincu pag. 72 Retorica anticapitalista e nascita dell'uomo economico ne "Il Borghese" di Werner Sombart
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Francesco Pala L'utile globale e la crisi della filosofia del "post"
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Alessandra Pigliaru pag. 101 La poesia non serve. Brevi note su Bataille eBaudrillard tra residuo e inutile
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Tommaso Ariemma Intorno al design. Per una termoestetica
pag. 110
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Andrea Oppo La vera inutilità dell’arte. Estetica ed estetizzazione della realtà
pag. 114
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Guido Seddone L'utile e il suo ruolo nella comprensione dei fenomeni sociali
pag. 128
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Martin Eichler pag. 133 Jenseits des Nutzens. Überlegungen zum Nutzenbegriff bei Marx, Adorno und Bataille
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Enrico Cerasi pag. 145 Adorno e il signor Dreibus. Note per una filosofia critica della cultura 2
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pag. 3
pag. 96
L'utile e l'inutile di Andrea Tagliapietra e Sebastiano Ghisu
L’utile, ammoniva Schiller, «è il grande idolo del tempo (das große Idol der Zeit), a cui tutte le forze debbono servire e a cui tutti i talenti debbono rendere omaggio»[1] . Oggi, gli faranno eco circa un secolo e mezzo più tardi Horkheimer e Adorno nelle pagine della Dialettica dell’illuminismo, tutto «ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell’utilità», ormai, «è sospetto»[2]. La corsa del pianeta dietro il vessillo dell’utile e del profitto e la sua immane accelerazione nel “fondamentalismo economico” che regge il processo di globalizzazione degli ultimi decenni, mostra il più gigantesco e capillare tentativo di assolutizzare il criterio dell’utile. Ma, qual è l’utilità dell’utile? Può l’utile essere realmente assoluto? E se l’immane costruzione delle utilità strumentali della società umana, così come della vita biologica su cui essa poggia, si scoprisse senza uno scopo e senza un fine, ossia, questa sì, in effetti, assolutamente inutile? Cercheremo di rispondere a queste domande percorrendo – in parte, certo – la storia del concetto di utile, della sua idea, delle concezioni che si sono sviluppate intorno a questa parola apparentemente innocua e scontata. Da tale storia si evince esattamente che dietro l’apparente assolutezza dell’utile – quasi che la demarcazione utile-inutile possa venir posta una volta per tutte – si nasconde il relativo e la differenza. Si nascondono conflitti, tensioni, fratture. Dietro la categoria dell’utile ha la sua dimora una complessa trama concettuale. Essa infatti implica e richiama altri categorie e idee, idee e categorie decisivi nella storia del pensiero. Mette in gioco Dio, l’uomo, le cose del mondo e il loro rapporto. Il rapporto tra le parti e il tutto, le singolarità e la totalità. Ma mette anche in gioco, come vedremo, la dinamica mezzo-fine, l’eventuale subordinazione dell’uno all’altro, il loro reciproco condizionarsi. Mette in gioco l’arte e le sue produzioni. Fino a che punto queste sono utili? E soprattutto: devono essere utili per poter essere ciò che devono essere? O non devono essere piuttosto inutili o dannose? Non devono, come il grande Chaplin in Tempi moderni, intromettersi nei congegni e nei meccanismi di riproduzione delle società? Non v’è dubbio, d’altra parte, che la categoria dell’utile sia spesso servita alla formulazioni dei giudizi sul mondo, sia in senso critico che in senso affermativo. Non sono mancati momenti nella storia del pensiero in cui definire una cosa utile significava svalutarla, pensarla solo come strumento. Di contro vi sono state riflessioni e filosofie, concezioni del mondo, culture, che hanno posto l’utile come criterio fondamentale dell’azione e del giudizio morali. Oppure hanno mascherato come inutile, esterno alla demarcazione utile/inutile e quindi buono in sé, ciò che è stato invece utile, se non 3 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
indispensabile, alla riproduzione di una forma di società, un dispositivo di potere, un apparato, dei rapporti di produzione. Di ciò, come si vedrà, prenderemo atto. Nel farlo, la storia delle idee, come sempre, introduce nel necessario e nel reale la contingenza, nell’immediato la mediazione, nell’identico, la differenza. La storia del concetto di utile può insomma aiutarci a capire che nell’utile vi è spesso l’inutile, nell’inutile il suo opposto, nell’indispensabile, forse, una possibile catastrofe…
Note [1] Fr. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen. Zweiter Brief. (1795). In Fr. Schiller, Sämtliche Werke, Bd. V, DTV, München, 2004, p. 572. [2] M. Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, (1947), Einaudi, Torino 1982, p. 13.
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Dell’utilità e inutilità di Dio, del mondo, dell’uomo. Agostino, Spinoza, Smith, Kant. Appunti per una storia del concetto di utilità di Sebastiano Ghisu
1. La demarcazione tra l’utile e l’inutile “Utile” sembra innanzitutto essere una parola innocua, scontata. È difficile, impossibile, non usarla. La sua utilità è incontestabile. Il suo significato, consegnatoci dai dizionari, è banale: “utile” è ciò che serve, ciò di cui si può far uso, ciò di cui, se possibile, non si può fare a meno (l’indispensabile, in tal senso, è ciò che è utile assolutamente). Dietro la parola si nasconde tuttavia un’idea, un concetto. Si nascondono concezioni del mondo, filosofie. Ed anzi, la parola utile (come il suo opposto: l’inutile) rappresenta in maniera esemplare il crocevia tra il pensiero di tutti e la filosofia, tra il pensiero astratto e il senso comune. L’uso che si fa di un tale termine, dunque, non è affatto scontato e innocuo. Costituisce piuttosto un modo di catalogare e archiviare le idee e le cose del mondo. La società in cui ci troviamo a vivere e la cultura in cui si cresce ci affidano un tale sistema di catalogazione e archiviazione, ci inducono a distinguere le cose utili dalle inutili e considerare tali attribuzioni di significato come naturali, ovvie, scontate. Potremmo quindi dire che la demarcazione utile/inutile costituisce un’invariante strutturale nella storia degli uomini e che i suoi spostamenti, più o meno lenti, più o meno repentini, rappresentano l’effetto di intensi e profondi movimenti tellurici nella società. Il non considerare più utile ciò che è sempre stato considerato tale è infatti segno di una frattura, di un conflitto o di una imminente trasformazione. È segno che la demarcazione utile/inutile sta spostandosi e collocandosi altrove. I conflitti, le tensioni che attraversano le società e la storia degli uomini costituiscono dunque anche dei conflitti tra diversi modi di demarcare l’utile e l’inutile. Di ciò la filosofia è certamente testimonianza. Vi è tuttavia un altro elemento da tener presente: non è detto che sia considerato utile (dal pensiero di tutti o dalla filosofia) ciò che, in un determinato sistema sociale e culturale, è effettivamente tale. Ciò che è “soltanto” utile si manifesta spesso come un valore morale assoluto, ed anzi come un qualcosa di fondamentalmente inutile, ma buono. D’altra parte, uno dei gesti caratteristici di quelli che potremmo chiamare, evocando Ricoeur, i “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud, a cui potremmo aggiungere, prima di loro, anche i pensatori illuministi e, dopo di loro, i teorici di Francoforte o autori come Foucault e Deleuze)[1], è consistito proprio nello smascherare 5 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
come utile (ad una determinata formazione sociale, ad una classe, ad una cultura, ad un gruppo, ad un preciso sistema gerarchico) ciò che si è invece sempre presentato come un dato naturale, sottratto alla stessa demarcazione utile/inutile. In questo contesto si è poi talvolta introdotto la distinzione tra ciò che è autenticamente utile e ciò che lo è solo apparentemente oppure tra ciò che è utile all’uomo in quanto tale (ammesso che si disponesse di una tale idea) e ciò che è utile all’uomo particolare (di un’epoca, appunto, o di una classe, di una forma di società, di un mondo). L’utile, insomma, ha una storia. È interno ai conflitti e alle dinamiche delle società umane. Ne è effetto. In tal senso, non vi è quasi mai innocenza nel suo uso: quando definiamo un qualcosa utile – e la viviamo come tale - prendiamo in qualche modo posizione, che se ne sia consapevoli o meno.
2. Lo strumento e il fine. Aristotele Ora, è bene precisare che la storia dell’utile è la storia del suo significato, non della sua definizione, vale a dire di ciò che può venir formalmente definito tale. Qui, come in tanti altri casi nella storia del pensiero, ci viene incontro Aristotele. Lo Stagirita, parlando, nell’Etica Nicomachea, dell’amicizia, fornisce una definizione divenuta per molti versi canonica (e per così dire inattaccabile) del concetto di utile. Si tratta di una definizione “differenziale”. Aristotele distingue infatti tra il buono in sé (a)gaqo/j, il bonus honestum dell’Aristotele latino), il buono in quanto piacevole (h(du/j, bonum delectabile) e, infine, l’utile (xrh/simoj, bonum utile)[2]. L’utile ha dunque soltanto un valore strumentale. Non è il bene in sé, ma un bene per qualcos’altro (da cui, per certi versi, dipende). Non si ricerca l’utile come tale, ma solo come mezzo per un fine: strumento di ciò che s’intende realmente raggiungere (sia esso il semplicemente piacevole che il bene morale assoluto). Come si vede, la demarcazione tra l’utile e l’inutile è innestata sulla differenziazione strutturale tra il mezzo e il fine. L’utile viene quasi ad essere solo una piattaforma che rimanda ad un fine. Si tratta di una sistemazione gerarchica nella quale l’utile svolge soltanto una funzione subordinata. Definire qualcosa come utile, significa quindi, in qualche modo, svalutarlo. Vediamo qui, allora, che la demarcazione utile/inutile, accompagnata da quella fondamentale che la nutre (strumento/fine), testimoniano, nei loro spostamenti e migrazioni, del modo in cui si concepisce il mondo, dio, gli uomini e le cose. 3. Agostino Ne è testimonianza Agostino. Proprio nel capitolo terzo (significativamente titolato La divisione delle cose) del primo libro del De doctrina cristiana, egli introduce una distinzione, una tensione lacerante, che dominerà il pensiero cristiano nei secoli successivi, almeno 6 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
sino agli albori della modernità (ma è per l’appunto segnale di una concezione diffusa del mondo, di un senso comune, di un modo di vivere il mondo). Di cosa si tratta? Agostino pone una distinzione fondamentale tra uso e godimento, tra uti (usare, utilizzare) e frui (godere), ovvero tra ciò che è solo strumento e ciò che è (o piuttosto deve essere) il fine.
Riguardo alle cose, alcune sono fatte per goderne, altre per usarne, altre invece sono capaci di godere e di usare. Le cose fatte per goderne sono quelle che ci rendono beati; dalle cose presenti invece, che bisogna solo usare, veniamo sorretti nel nostro tendere alla beatitudine. Di esse, per così dire, ci equipaggiamo per poter giungere a quelle che ci rendono beati e aderir loro. Quanto a noi, che poi siamo quelli che o godiamo o usiamo quelle altre cose, ci troviamo nel mezzo fra le une e le altre e, se vogliamo godere delle cose di cui dobbiamo solo servirci, la nostra corsa è ostacolata e qualche volta diviene anche tortuosa, con la conseguenza che, ostacolati appunto dall'amore per ciò che è inferiore, siamo o ritardati o anche distolti dal conseguire quelle cose di cui si deve godere.[3]
La distinzione che pone Agostino ricalca come si vede la definizione aristotelica. Ciò è ancora più evidente in un’altra opera (redatta tra il 388 e il 396, quindi prima de La dottrina cristiana): Tra onesto (honestum) e utile (utile) intercorre la stessa differenza che c’è tra godere e usare. Sebbene con una certa sottigliezza si possa infatti sostenere che ogni onesto è utile e ogni utile è onesto, tuttavia, siccome è più appropriato e comune chiamare onesto ciò che si desidera per se stesso e utile ciò che si riferisce a qualcos’altro, noi ora parliamo secondo questa differenza, dando per scontato che onesto e utile non si oppongono affatto tra loro, poiché talvolta si ritiene, sconsideratamente e superficialmente, che siano in opposizione tra loro. Godere si dice dunque di una cosa da cui traiamo piacere; usare si dice invece di una cosa che riferiamo ad un’altra da cui si ricava piacere. Tutta la perversione umana, che ha anche il nome di vizio, consiste nel volere fare uso delle cose da godere e nel voler godere delle cose da usare. Invece il retto ordine, che ha anche il nome di virtù, consiste nel godere delle cose da godere e nell’usare delle cose da usare. Bisogna godere delle cose oneste e fare uso delle utili. Chiamo onestà la bellezza intelligibile, detta più propriamente spirituale, e utilità la divina Provvidenza.[4]
Risulta qui evidente come oggetto del godimento sia Dio (l’essere beati in Dio), mentre il mondo terreno – il mondo degli uomini – può venir soltanto utilizzato: è soltanto una via, un percorso, uno strumento. La perversione come si è visto, consiste proprio nel confondere lo strumento con il fine, ovvero fare dell’uomo il fine dell’uomo, del mondo il fine del mondo. 7 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Riprendendo e rilanciando il tema della fede cristiana come via, sempre ne La dottrina cristiana Agostino paragona gli uomini a degli esuli – degli esuli che aspirano a tornare in patria: la patria degli uomini non è tuttavia questo mondo, ma la città di Dio:
Godere infatti di una cosa è aderire ad essa con amore, mossi dalla cosa stessa. Viceversa il servirsi di una cosa è riferire ciò che si usa al conseguimento di ciò che si ama, supposto che lo si debba amare. Per cui, un uso illecito è da chiamarsi abuso o uso abusivo. Facciamo ora l'ipotesi che siamo degli esuli, e quindi che non possiamo essere felici se non in patria. Miseri per tale esilio e desiderosi di uscire da tale miseria, vorremmo tornare in patria e per riuscire a tornare alla patria, che costituisce il nostro godimento, avremmo bisogno di servirci di mezzi di trasporto o marini o terrestri. Che se ci arrecassero piacere le bellezze del viaggio o magari l'essere portati in carrozza, ecco che, rivolti a trarre godimento da ciò che invece avremmo dovuto usare solamente, non vorremmo che il viaggio finisca presto e, invischiati in una dolcezza falsa, resteremmo lontani dalla patria la cui dolcezza ci renderebbe felici appieno. Ne segue che, se in questa vita mortale, dove siamo pellegrini lontano dal Signore, vogliamo tornare alla patria dove potremo essere beati, dobbiamo servirci del mondo presente, non volerne la fruizione. Attraverso le cose create comprese con l'intelletto cercheremo di scoprire gli attributi invisibili di Dio, o, in altre parole, per mezzo di cose corporee e temporali attingeremo le cose eterne e spirituali.[5]
Il rigore di Agostino assume toni drammatici e severi: «maledetto... l’uomo che ripone nell'uomo la sua speranza»[6]. In tal senso, continua l’ Ipponate,
nemmeno di se stesso è lecito godere, tant'è vero che nessuno può amare se stesso per se stesso ma in vista di colui del quale si deve godere. In realtà, l'uomo è allora perfetto quando tutta la sua vita è orientata verso la vita immutabile e si unisce a lei con tutto il cuore. Se invece uno si ama per se stesso, non si riferisce a Dio ma ripiega su se stesso, e non essendo rivolto a qualcosa di immutabile, gode sì di se stesso ma esperimenta numerose lacune. È infatti più perfetto quando aderisce totalmente e totalmente si lascia incatenare dal bene incorruttibile che non quando da quel bene si distacca per ripiegarsi sia pure su se stesso. Se dunque devi amare te stesso non per te stesso ma in ordine a colui in cui si trova, quando è sommamente ordinato, il fine del tuo amore, non si adiri un altro uomo se ami anche lui in riferimento a Dio. In questo modo infatti è stata stilata da Dio la legge dell'amore: Amerai, dice, il prossimo tuo come te stesso, ma Dio lo amerai con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente. Il che vuol dire che devi riferire tutti i tuoi pensieri e tutta la vita e tutta l'intelligenza a colui dal quale hai ricevuto quei beni che con lui confronti. [7]
Dio, certo, prosegue Agostino, ci ama. Ma non gode di noi. L’uomo, piuttosto, è utile a Dio, non Dio all’uomo. Se infatti «godesse di noi, significherebbe che ha bisogno di un bene che siamo noi: cosa che nessuno, sano di mente, oserebbe dire»[8]. Dio, dunque, «non trae godimento da noi ma si serve di noi»[9]. 8 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
È evidente come in questo uso del concetto di utile ritroviamo lucidamente rappresentata la radicale, drammatica presa di distanza del cristiano, di colui che percorre la via, dal mondo. Agostino, e con lui l’immagine che un’intera epoca darà di se stessa, concepisce la meta del mondo, il suo futuro, come ciò che si colloca al di fuori del mondo. Il mondo degli uomini non è dunque la patria degli uomini né lo potrà mai divenire. Costituisce solo un percorso verso qualcos’altro di più alto, anzi verso l’altro radicale. Non ci si può sottrarre a questo percorso, ma neppure soffermarvisi, fermarsi un attimo per goderne il paesaggio, distrarsi da ciò che dev’esser la meta di ogni nostra azione, di ogni nostro pensiero. È quindi inutile (ed anzi dannoso, peccaminoso) tutto ciò che in qualche modo non tende a tale meta. La vita degli uomini non può dunque che assoggettarsi ad una tensione verso il futuro. È una tensione che rende il presente soltanto strumento, passaggio, provvisorietà. Ritroviamo qui non solo il sacrificio del mondo umano al mondo divino, ma anche il sacrificio del presente al futuro. Il futuro del mondo, la sua liberazione, la sua redenzione, è sempre e solo nel futuro, al di fuori del presente.
4. Verso l’autonomizzazione dell’utile. Da Tommaso ad Ockham Dentro questa tensione, dentro questa visione del presente come utile strumento di un futuro collocato al di fuori del mondo, si costruiscono i grandi edifici morali dell’età medievale, innanzitutto il sistema dei peccati capitali, che può venir letto proprio attraverso la demarcazione utile/inutile e mezzo/fine: tutto ciò che ci lega al mondo e che rende il mondo oggetto di godimento e non semplice strumento di Dio è peccato (l’accidia, in particolare, verrà concepita proprio come assenza di tensione verso Dio). Tommaso d’Aquino riprende senz’altro lo schema dei peccati capitali. Riprende anche in particolare il dualismo agostiniano uso-godimento ( usus e fruitio). Rilanciando la definizione aristotelica tra il bene in sé, il piacevole e l’utile («utile non est bonum nisi propter delectabile vel honestum»[10]) ribadisce come la fruitio perfecta (propria dell’uomo, essere razionale) possa essere data solo in Dio, il fine ultimo, fine dei fini: «in omnibus honestis utilitas honestati coincidit, nisi in ultimo, quod est finis finium, quod propter se tantum appetendum est»[11]. E ancora, nella Summa: «Deus igitur est ultimus finis sicut res quae ultimo quaeritur, fruitio autem sicut adeptio huius ultimi finis»[12] (ovvero: «Dio è l’ultimo fine come cosa ultima che si desidera; la fruizione è invece come l’ottenimento di questo ultimo fine»). Ma l’età di Tommaso non è l’età di Agostino. Il rigore agostiniano, in ogni caso, si placa in nell’Aquinate. Il suo pensiero fa i conti con la realtà, con un mondo umano che insiste nel porsi come unico mondo possibile, con un mondo divino che sembra allontanarsi sempre più. Ci si attrezza ad una lunga, lunghissima attesa. Ritroviamo così in Tommaso dei segnali di autonomizzazione dell’utile rispetto al bene in sé, del mezzo rispetto al fine, del mondo degli uomini rispetto all’agostiniana civitas dei (è un’autonomizzazione che si compirà integralmente in Adam Smith). L’Aquinate 9 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
riconosce ad esempio, senza formulare una rigida condanna, che gli uomini «regolano i loro atti secondo una qualche utilità»[13]. Di ciò va preso atto. Prosegue infatti Tommaso:
Era quindi necessario aggiungere la promessa di un premio in quei precetti dai quali pareva non dovesse seguire alcuna utilità, o che parevano impedire dei vantaggi. Essendo i genitori, p. es., già in declino, da essi non si attendono vantaggi. Al precetto quindi che impone di onorarli si aggiunge una promessa. E si fa lo stesso per il precetto che proibisce l‘idolatria: poiché ciò pareva impedire l‘apparente vantaggio che gli uomini credono di conseguire patteggiando col demonio. [14]
In un altro contesto – nello Scritto sulle sentenze (commento alle Sentenze di Pietro Lombardo) – Tommaso riconosce che ciò che è utile (ovvero un bene solo in relazione a qualcos’altro) può divenire un bene in sé (bonum honestum):
… come l’uso appropriato di un bene utile riceve il carattere del bene in sé non perché è utile, ma in ragione dell’ uso giusto che se ne fa, così anche l’ordinarsi verso un bene utile può conferire la bontà del bene in sé in forza della ragione che ne rende l’orientazione appropriata. Così il matrimonio è utile per il fatto di orientarsi alla discendenza; ma è non di meno un bene in sé nella misura in cui è ben ordinato. [15]
Il mondo tende in qualche modo ad autonomizzarsi, a svincolarsi dal fine ultimo a lui esterno e a lui per molti versi estraneo. Il bene in sé comincia in ogni caso a collocarsi dentro il mondo degli uomini. Ritroviamo delle tracce più consistenti – o se si vuole più esplicite (almeno formalmente più esplicite) sia in Duns Scoto che in Guglielmo d’Ockham. Il primo riconosce – nel quadro della tradizione definizione aristotelica – che l’utile, ovvero il bene per l’altro, lo strumento, deve possedere una qualche propria et intrinseca bonitas [16]. Ockham invece propone la presenza di un “actus medius” tra actus utendi e actus fruendi, tra l’utilizzar le cose e il godere in Dio. L’atto medio non è amato in quanto soltanto utile né in quanto costituisce il fine ultimo, ma viene amato come tale: «dico quod est actus talis medius quo aliquid amatur nec tamquam finis simpliciter ultimus nec actualiter refertur in aliud»[17]. Certamente si apre qui un orizzonte di autonomia per l’etica mondana. In altri termini, il mondo non è solo utile, ma (anche) un bene in sé – o meglio: comincia a essere utile a sé stesso.
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5. Spinoza e la razionalità dell’utile Nell’autore dell’Ethica il processo di autonomizzazione del mondo giunge a compimento e acquisisce la sua forma più radicale. Il mondo è già di per sé perfetto, concluso: il bene consiste nel rendersene pienamente conto, il male nell’ignorare tale stato. In tal senso, niente nel mondo è inutile: tutto ciò che è, ha una sua ragion d’essere. L’utile (il bonum pro aliud) e il bene in sé (l’honestum) coincidono perfettamente (o piuttosto convergono). Non vi è tuttavia nessun automatismo nell’assunzione di una tale convergenza. Seguire il proprio utile significa seguire il bene in sé e dunque l’utile di tutti (un posizione non dissimile assumerà anche Adam Smith), ma bisogna conoscere ciò che è realmente il proprio utile (e qui Adam Smith sarà invece di un’altra opinione). Spinoza nel quarto libro dell’Ethica chiama buono «ciò che sappiamo con certezza esserci utile»; cattivo, invece, «ciò che sappiamo con certezza che c’impedisce di possedere un bene» [18]. Nella proposizione XVIII dello stesso libro precisa:
Poiché la ragione nulla esige che sia contro natura, essa dunque esige che ognuno ami se stesso, ricerchi il proprio utile, ciò che davvero è utile, e appetisca tutto ciò che realmente conduce l’uomo ad una maggiore perfezione, e, in senso assoluto, che ognuno si sforzi di consegnare il proprio essere per quanto dipende da lui (…). Inoltre, poiché la virtù (…) non è altro che un agire secondo le leggi della propria natura, e nessuno si sforza di conservare il proprio essere (…) se non secondo le leggi della propria natura, ne deriva in primo luogo che il fondamento della virtù è lo sforzo stesso di conservare il proprio essere, e che la felicità consiste nel fatto che l’uomo può conservare il proprio essere. Segue in secondo luogo che la virtù dev’essere desiderata per se stessa, e che non vi è nulla di più vantaggioso o di più utile per cui la virtù dovrebbe esser desiderata.[19]
Ciò che Spinoza intende sottolineare è la coincidenza tra l’utilità del tutto e l’utilità della parte. La macchina del mondo è composta di parti in sintonia tra loro. Nello stesso senso, «all’uomo… niente è più utile dell’uomo» [20]. Più precisamente:
Gli uomini… non possono desiderare per la conservazione del proprio essere niente di più eccellente se non che tutti concordino in tutto, in modo che le Menti e i Corpi formino quasi una sola Mente e un solo Corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti insieme cerchino per sé l’utile comune; da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli. [21]
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Nel sottolineare la coincidenza tra l’utile autentico del singolo e l’utile di tutti (e del tutto), Spinoza critica dunque coloro «che credono che questo principio, che cioè ognuno è tenuto a ricercare il proprio utile, sia il fondamento dell’immoralità e non della virtù o della moralità.» [22]. Infatti, ribadisce Spinoza, «quanto più uno si sforza e quanto più è in grado di ricercare il proprio utile, cioè di conservare il proprio essere, tanto più è dotato di virtù»[23]. Addirittura: «nessuno… se non vinto da cause esterne e contrarie alla propria natura, trascura di appetire il proprio utile ossia di conservare il proprio essere»[24]. Così facendo, agisce secondo ragione (conservando l’unità del tutto): «agire assolutamente per virtù non è altro in noi che agire, vivere e conservare il proprio essere sotto la guida della ragione (queste tre cose significano la stessa cosa), e ciò sulla base della ricerca del proprio utile»[25]. Dunque:
in natura non c’è cosa singola che sia più utile all’uomo dell’uomo che vive sotto la guida della ragione. Infatti la cosa più utile per l’uomo è quella che concorda appieno con la sua natura (…), cioè l’uomo stesso. Ma l’uomo agisce in tutto e per tutto secondo le leggi della propria natura quando vive sotto la guida della ragione… [26]
in questo contesto Spinoza formula un principio piuttosto diffuso nel pensiero filosofico del tempo: «le cose che contribuiscono alla comune società degli uomini, cioè che fanno sì che gli uomini vivano in concordia, sono utili; invece, quelle che introducono discordia nello Stato, sono cattive»[27], vale a dire dannose (del resto non vi è spazio per l’inutile, il superfluo nel sistema spinoziano: ciò che è inutile è in realtà dannoso). Ma l’uomo non deve imporre a se stesso se non ciò che egli è già. Deve in qualche modo riconquistarsi attraverso la conoscenza. È la conoscenza che conduce ad agire seguendo il proprio autentico utile e quindi ad agire razionalmente. Se infatti, l’utile del singolo è per sua natura coincidente con gli interessi del tutto, dobbiamo innanzitutto arrivare a conoscere tale natura, esserne pienamente consapevoli. Non si può dire che in Spinoza ogni tensione sia spenta nella piena conciliazione tra il tutto e la parte. La tensione che egli disegna non si colloca tuttavia, come accadeva appunto in Agostino e nella cultura di cui egli era attivo partecipe, dentro lo spazio (forse incolmabile) tra il mondo degli uomini e il mondo di Dio, ma in quello, senz’altro colmabile, tra la conoscenza del mondo e la sua ignoranza, tra il sapere e il non sapere. Chi sa, dunque, pone il suo fine nel mondo. Ma il mondo è fine a se stesso. Non è strumento, se non strumento di ciò che esso sarebbe se solo fosse conosciuto da chi lo abita. Il mondo cui tendere è il mondo abitato dalla conoscenza del mondo, è il mondo in cui la ragione si rispecchia e si realizza. Il futuro cui tendere è il presente in cui ciò accade. 12 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Resta tuttavia anche in Spinoza la subordinazione del mezzo al fine. Il fine, infatti, non è l’utile, ma la conservazione del proprio essere. Rileggiamo la Prop. XX della IV parte dell’Etica: «quanto più uno si sforza e quanto più è in grado di ricercare il proprio utile, cioè di conservare il proprio essere, tanto più è dotato di virtù» [28]. nella relativa dimostrazione si precisa:
La virtù è la stessa potenza umana che (…) si definisce mediante la sola essenza dell’uomo, cioè (…) mediante il solo sforzo con cui l’uomo si sforza di conservare il proprio essere (quae solo conatu, quo homo in suo esse perseverare conatur, definitur). Quanto più, dunque, uno si sforza di conservare il proprio essere, e può farlo, tanto più è dotato di virtù…[29]
È dunque utile ciò che serve alla conservazione del proprio essere (e conseguentemente di tutto l’essere). Il bene in sé è qui la conservazione della propria natura; l’utile, invece (il bonum pro aliud degli scolastici) ciò che serve a tale conservazione[30].
6. Adam Smith e l’inganno dell’utile Ora, è proprio la subordinazione del mezzo al fine che Adam Smith mette radicalmente in discussione. O piuttosto, egli promuove una forte autonomizzazione del mezzo rispetto al fine (utilizzando lo schema tradizionale potremmo anche dire del bonum pro aliud rispetto al bonum honestum). Nella parte IV della sua Teoria dei sentimenti morali (che reca il titolo: L’effetto dell’utilità sul sentimento di approvazione), polemizzando garbatamente (e senza nominarlo) con Hume (per il quale «l’utilità di un oggetto piace al proprietario perché gli suggerisce di continuo il piacere o la comodità che esso è adatto a promuovere» [31]) Smith riconosce:
per quanto io ne sappia, nessuno ha mai preso in considerazione il fatto che questo essere adatto e ben progettato, nelle produzioni artistiche, venga spesso stimato più dello stesso fine per cui sono state concepite, e il fatto che l’esatto adattamento dei mezzi per raggiungere comodità o piacere venga spesso considerato di più che la comodità e il piacere stessi, quando invece tutto il merito dei mezzi consiste proprio in questo risultato. Tuttavia, che le cose stiano molto frequentemente così può essere osservato in migliaia di esempi, nelle più frivole, come nelle più importanti situazioni della vita umana. [32]
Tra gli esempi citati, vi è quello dell’orologio (paradigmatico perché testimonia il piacere che all’abitante dell’età barocca suscita la macchina, il congegno meccanico). Ora, 13 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
l’unico uso degli orologi è quello di dirci che ore sono, evitandoci di mancare a un impegno o altri inconvenienti che derivano dal non sapere l’ora. Ma non sempre troveremo che la persona così minuziosa nei riguardi di questa macchina è più scrupolosamente puntuale di altri uomini, o più ansiosamente preoccupata, per qualche altro motivo, di sapere precisamente che ore sono. Quel che lo interessa non è tanto il raggiungimento di questa conoscenza, ma la perfezione della macchina che serve per raggiungerla.[33]
La macchina affascina, piace come tale. Non per il fine che con essa si può raggiungere, ma per il fascino dell’esser strumento (in tal senso Smith descrive il meccanismo fondamentale della società delle merci. Contro un tale meccanismo il razionalismo di Spinoza, che riconduce tutto al suo fine, assume un carattere dirompente). Del resto, prosegue Smith, «quante persone si rovinano buttando soldi per gingilli di frivola utilità? Quello che piace a questi amanti dei ninnoli non è tanto l’utilità [ovvero la loro finalità, S.G.], quanto l’idoneità dei congegni che sono adatti a produrla»[34]. In un esempio successivo Smith descrive proprio la situazione di chi, affascinato dai mezzi che paiono indispensabili a raggiungere una vita di felicità, sacrifica il presente al futuro, ad un fine da raggiungere. «Il figlio di un uomo povero, al quale il cielo, nella sua collera, abbia fatto provare l’ambizione, quando comincia a guardarsi attorno, ammira la condizione dei ricchi»[35]. Vede l’agio e la comodità in cui vivono. «Pensa che, se riuscisse a ottenere tutto ciò, se ne starebbe seduto tranquillo e soddisfatto, e si riposerebbe, godendo della felicità e della tranquillità della sua situazione. È incantato dalla remota idea di questa felicità» [36]. Ora, per raggiungere una tale situazione si sottopone
a una fatica fisica e a una tensione mentale maggiori di quelle che avrebbe dovuto sopportare in tutta la vita per la mancanza di quelle comodità. Si sforza di emergere in qualche difficile professione, fatica giorno e notte con la più inflessibile operosità, per acquisire maggior talento dei suoi concorrenti. Poi cerca di mettere in mostra questo talento, e altrettanto assiduamente sollecita ogni occasione per impiegarlo. A tale scopo corteggia tutta l’umanità: serve coloro che odia e ossequia coloro che disprezza.[37]
Insomma, «lungo tutto il corso della sua vita persegue l’idea di un certo artificiale ed elegante riposo a cui mira, sacrificando a esso una tranquillità reale che è in ogni momento alla sua portata» [38]. La descrizione di Smith, il grande teorico della ricchezza, assume qui tonalità quasi stoiche: se, raggiunta la vecchiaia, quel «figlio dell’uomo povero» divenuto ricco dopo tanta fatica, dovesse alla fine raggiungere quell’ artificiale ed elegante riposo a cui ha mirato tutta la vita 14 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
non lo troverà sotto nessun riguardo preferibile a quell’umile sicurezza e soddisfazione che ha abbandonato per ottenerlo. Allora, negli ultimi avanzi di vita, con il corpo consumato dalla fatica e dalla malattia, con la mente tormentata e agitata al ricordo delle migliaia di offese e delusioni che crede di aver ricevuto per l’ingiustizia dei suoi nemici, o per la perfidia e l’ingratitudine dei suoi amici, egli comincia infine a scoprire che ricchezza e grandezza sono meri gingilli di frivola utilità… [39]
Che cosa è accaduto? Da spettatore della ricchezza altrui, qual’era inizialmente il protagonista di questa parabola, egli non ha tanto immaginato «che i ricchi e i potenti siano realmente più felici degli altri», ma ha immaginato «che essi possiedano più mezzi per la felicità» [40]. Ottenuti infine quei mezzi,
nella debolezza della malattia e nella stanchezza della vecchiaia, e piaceri delle vane e vuote raffinatezze svaniscono. Chi si trova in questa situazione non si interessa più di quei faticosi obiettivi che quei piaceri lo spingevano a perseguire. Nel suo cuore egli maledice l’ambizione, e rimpiange invano la tranquillità e l’indolenza della gioventù, piaceri scomparsi per sempre, stupidamente sacrificati a qualcosa che, una volta raggiunto, non sa offrirgli una reale soddisfazione (…). Il potere e la ricchezza appaiono allora quello che sono: enormi ed operosi congegni (machines) inventati per produrre qualche insignificante comodità per il corpo, congegni fatti di molle fragili e delicate. [41]
Congegni pronti in verità a cadere in pezzi, «trascinando nella loro rovina il loro sfortunato possessore». Si tratta di
edifici immensi (immense fabrics), che richiedono la fatica di una vita per essere costruiti, che minacciano continuamente di schiacciare la persona che li abita, e che, pur potendo, mentre sono in piedi, salvarlo da piccoli inconvenienti, non possono salvarlo da nessuna delle inclemenze della stagione. Tengono lontano l’acquazzone estivo, non la tempesta invernale, ma lo lasciano sempre esposto quanto e forse più di prima all’ansia, alla paura, alla sofferenza, alla malattia, al pericolo, alla morte. [42]
A questo punto, tuttavia, nel testo di Smith assistiamo ad una svolta sorprendente. Tutto questo è vero, sembra dire il filosofo scozzese. Ma non è detto che ci si debba sottomettere a tale verità (a tale saggezza). Quel vecchio che guardava la sua giovinezza perduta con rammarico, la sua vita consumata in congegni di apparente grandezza, sembra impersonare una «malinconica filosofia (splenetic philosophy), familiare a ogni uomo nei momenti di malattia o di depressione» [43]. 15 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Ora, si parla qui della filosofia in quanto tale (comunque malinconica) oppure di una filosofia legata alla malattia e alla depressione? In questo secondo caso, quel punto di vista critico verrebbe fortemente relativizzato. Ma non è così. Tutt’altro. Innanzitutto perché viene relativizzato anche quello opposto: se infatti la filosofia malinconica priva di valore «i grandi oggetti del desiderio umano», d’altra parte
non manchiamo mai di considerarli sotto un aspetto più gradevole quando godiamo di migliore salute e migliore umore. La nostra immaginazione, che nel dolore e nella sofferenza sembra confinata e rinchiusa dentro di noi, in momenti di benessere e gioia si espande su tutte le cose che ci circondano. Allora restiamo affascinati dalla bellezza del benessere che regna nei palazzi e nei beni dei potenti, e ammiriamo come ogni cosa sia adatta a favorire il loro agio, a prevenire i loro bisogni, a soddisfare i loro desideri, e a compiacere e assecondare le loro più frivole fantasie. [44]
In secondo luogo (e questo è un punto decisivo), «se consideriamo la reale soddisfazione che tutte queste cose riescono a offrire, per se stessa e separata dalla bellezza di quella disposizione di cose fatta per promuoverla, apparirà sempre disprezzabile e insignificante». In altri termini, se guardiamo solo il fine cui tutte queste cose sembrano mirare, di cui quindi sono mezzo e a cui sono utili, e non le guardiamo soltanto come mezzo, cioè come qualcosa che è soltanto utile, allora effettivamente la «bellezza del benessere che regna nei palazzi e nei beni dei potenti» ci appare del tutto disprezzabile e senza senso. Tuttavia, precisa Smith, «raramente la vediamo in questa luce astratta e filosofica». E continua: «nella nostra immaginazione, la confondiamo naturalmente con l’ordine, col regolare e armonioso meccanismo del sistema, con la macchina o i beni per mezzo dei quali viene prodotta» [45]. Come dire: se confondiamo il fine con il mezzo, se vediamo solo il mezzo, solo l’utile, e non ciò per cui esso è concepito, siamo disposti a lasciarci affascinare da tutto ciò, da quel che sotto la luce astratta e filosofica appare invece privo di senso e fatuo, inutile o dannoso. La luce filosofica non inganna, dice il vero. Inganna la natura che ci induce a confondere il fine con il mezzo e ad apprezzare il mezzo – l’utile – più del fine (e capovolgere quindi la subordinazione di quello a questo). È «un bene che la natura si imponga su di noi in questo modo. È questo inganno che risveglia e tiene continuamente in movimento l’industriosità dell’uomo»[46]. Il benessere di tutti è costruito su di un inganno che la filosofia (che assume in tal caso un carattere malinconico, splenetic) smaschera. Chi opera dentro questo inganno e ricerca la felicità, senza sapere che in effetti, probabilmente, non la raggiungerà mai (e se la raggiungerà, ciò accadrà per caso, a prescindere dal suo instancabile agire), fa progredire «senza volerlo, senza saperlo … l’interesse della società»[47].
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7. Kant e il fondamento melanconico del mondo morale. L’utile, come si vede, ci lega al mondo. Il suo primato – generato del resto da un inganno di natura (cioè un inganno datoci dalla natura stessa dell’uomo) – ci induce ad accettarlo. Ci rende inconsapevolmente partecipi di un congegno, un meccanismo, una macchina ben funzionanti. La morale non può che farsi anch’essa partecipe di tale meccanismo: non è comunque ad esso esterno, non guarda il mondo dal di fuori (dalla possibilità di un altro mondo). Smith afferma dunque la continuità tra la ragione del soggetto e la ragione del mondo (come mutatis mutandis anche Spinoza). È con Kant invece (tra gli altri) che questa continuità, in particolare sul piano morale, si spezza. È interessante notare come nello scritto kantiano Sul sentimento del bello e del sublime si ritrovi proprio un elogio di quella melanconia che lo stesso Smith poneva come lo stato d’animo – o la filosofia – che ci induce in qualche modo a prendere le distanze dal mondo costruito sull’utile inganno (e sull’inganno dell’utile). In Smith, in fondo, la melanconia fornisce al soggetto quella indipendenza dal mondo su cui, agli occhi di Kant, si fonda il giudizio morale. Ciò che in Smith è tuttavia quasi una minaccia (al benessere della società) è in Kant un presupposto indispensabile al suo progresso. L’uomo melanconico, scrive Kant, «s’occupa ben poco del giudizio degli altri, di ciò che essi ritengono sia buono o vero; egli si basa comunque soltanto sul proprio punto di vista. Poiché i moventi assumono in lui la natura di fondamenti, non è facile fargli cambiar opinione; la sua stabilità degenera quasi in cocciutaggine»[48]. Egli, inoltre, «osserva il cambiamento delle mode con indifferenza ed il loro splendore con disprezzo» [49] . Tende al sublime, è fedele all’amicizia ed ama il silenzio: «la loquacità è bella, ma la pensosa riservatezza è sublime (…). La veridicità è sublime e odia la menzogna o la simulazione». Il melanconico, ha un alto sentimento della dignità della natura umana. Ha stima di sé stesso e ritiene ogni uomo una creatura che merita rispetto. Non sopporta alcuna abietta sottomissione e respira aria di libertà in un cuore nobile. Ripugna tutte le catene, da quelle dorate che si indossano a corte, a quelle di duro ferro delle galere di schiavi. È un severo giudice di se stesso e degli altri, e non raramente annoiato di sé e del mondo. [50].
Proprio la distanza del melanconico dal mondo, dai suoi meccanismi, dalle sue illusioni e inganni, dal suo sistema di utilità, rende possibile pensare ad un mondo alternativo. Questo è in Kant il mondo morale, «il mondo conforme a tutte le leggi morali»[51]. È un mondo intelligibile, «poiché in esso si astrae da tutte le condizioni (fini) e anche da tutti gli ostacoli della moralità a esso inerente (debolezza o impurità della natura umana)» [52]. Non si tiene conto, nel concepire il mondo morale, di ciò che è utile, finanche a se stessi, in questo mondo (d’altra parte non si colloca l’alternativa al di fuori del mondo, nel mondo divino). Il melanconico è indifferente ai meccanismi di utilità del mondo reale (lo stesso Smith, del resto, definiva la filosofia “melanconica” «astratta»). Egli, insomma, si 17 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
svincola dal mondo reale e non ha paura di pensarne uno alternativo, che pur sa essere impossibile ovvero irrealizzabile, ma non di meno auspicabile. Emerge qui il concetto di fede (Glaube, credenza, fede mondana, non religiosa, fede come habitus [53]). Tale concetto è legato a sua volta al’idea del «sommo bene». Questo infatti è un oggetto di fede (vale a dire, deve essere pensato a priori, ma è trascendente per l’uso teoretico della ragione). Infatti,
la realtà oggettiva del concetto del sommo bene non può essere dimostrata in nessuna esperienza per noi possibile, e quindi sufficientemente per l’uso teoretico della ragione; ma la ragion pratica pura ce ne comanda l’uso per la miglior realizzazione possibile di quello scopo, e quindi deve essere ammessa come possibile (und mithin als möglich angenommen werden muß).[54]
In questo senso, può essere considerato possibile ciò che deve essere considerato possibile secondo la ragion pratica. Vi può essere anche un contrasto tra ciò che la ragione teoretica ritiene possibile è ciò che ritiene possibile la ragion pratica. Ma è giusto che questa non si faccia condizionare dai limiti del mondo reale (è quel che accade invece nella prospettiva smithiana). Scrive Kant in una nota: «la legge del dovere ci prescrive di perseguire lo scopo finale di ogni essere ragionevole (la felicità in quanto è possibile d’accordo col dovere). La ragione speculativa però non ne vede la possibilità…» [55]. Tuttavia, dato che «quelle idee, il cui oggetto sta al di là della natura, possono esser pensate senza contraddizione, le riconoscerà come reali per la propria legge pratica e pel compito che ne deriva, e quindi da un punto di vista morale, per non cadere in contraddizione con se medesima» [56]. La fede è dunque «il modo di pensare morale della ragione nell’adesione (Fürwahrhalten) a ciò che è irraggiungibile dalla fede teoretica»[57]. È «la fiducia che abbiamo nel raggiungimento d’uno scopo, cui tendere è dovere, ma di cui non possiamo scorgere [einsehen] la possibilità…» [58]. Scrive Kant nella Critica del ragion pura più precisamente: il mondo morale non è nient’altro che un’idea, ma è una idea «pratica», vale a dire: «può e deve avere il suo influsso sul mondo sensibile, per renderlo, quanto è possibile, conforme a questa idea. L’idea di un mondo morale ha quindi realtà oggettiva» [59]. Secondo tale prospettiva, se ci muovessimo soltanto dentro quel congegno di utilità di cui parlava Smith, se accettassimo quell’inganno della natura che ci fa confondere il mezzo con il fine, non potremmo pensare (immaginare) alcun mondo morale, vale a dire un mondo alternativo al nostro. L’immaginazione morale sfida l’utilità, la mette alla prova. È come se il filosofo di Königsberg ci invitasse a chiederci: 18 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
1. il mondo reale è veramente il mondo cui aspirare? 2. il mio agire – questa mia singola azione – è adeguata (potremmo anche dire: utile) al mondo come io vorrei che il mondo fosse? In questa dinamica, come si vede, riemerge il concetto di utilità. Ma esso è subordinato alla decisiva messa in questione del mondo reale. Se mi chiedessi soltanto: “questa mia azione è utile?” senza domandarmi innanzitutto: “a quale forma-mondo essa è utile?” confermerei soltanto il mondo attuale, ne sarei suddito passivo; resterei in quello «condizione di minorità» da cui l’illuminismo ha voluto farmi uscire[60]. Certo, sarebbe scorretto assumere la prospettiva di Adam Smith come preilluministica (o addirittura postilluministica). La differenza tra l’autore della Teoria dei sentimenti morali e l’autore delle tre Critiche è piuttosto la differenza, la tensione, il conflitto che ha attraversato e lacerato l’epoca che è loro quanto, forse, nostra. Quale delle due prospettive abbia trionfato sull’altra, ammesso che la battaglia si sia già conclusa, è una questione che non possiamo qui trattare.
Note [1] Si veda P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, trad. it. di E, Renzi, II Saggiatore, Milano, 1967, in particolare le pp. 46-49. [2] Cfr. Aristotele, Et. Nic., 1155 b 15. [3] Agostino, La dottrina cristiana, I, III, 3. Roma, Città Nuova, 1992. L’opera venne terminata da Agostino nel 426. [4] Agostino, Ottantatre questioni diverse, 30, Roma, Città Nuova, 1995. [5] Agostino, La dottrina cristiana, I, IV, 4, cit. [6] Ibid., I, XXII, 20. [7] Ibid., I, XXII, 21. [8] Ibid., I, XXXI, 34. [9] Ibid. [10] Tommaso d’Aquino, Summa Theol., Iª q. 5 a. 6 arg. 3. [11] Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 2 d. 21 q. 1 a. 3 co. [12] Tommaso d’Aquino, Summa Theol., Iª-IIae q. 11 a. 3 ad 3. [13] Ibid., Iª-IIae q. 100 a. 7 ad 3 [14] Ibid. Tommaso si riferisce alla promessa formulata nella seconda parte del quinto precetto (da Esodo 20:12) che recita (riprendiamo la versione del Diodati): «Onora tuo padre e tua madre; acciocchè i tuoi giorni sieno prolungati sopra la terra, la quale il Signore Iddio tuo ti dà». Per quanto riguarda invece il secondo precetto (dimenticato in verità dal catechismo cattolico) ci si riferisce alla sua parte finale. Una volta formulato, Dio conclude: «…ed uso benignità in mille generazioni verso coloro che mi amano, e osservano i miei comandamenti» (Esodo 20:6). [15] Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 31 q. 1 a. 2 ad 6. [16] Cfr. Johannes Scotus, Ordinatio I, d. 1. [17] Gullielmus d’Ockham, I in Sent., d. 1, q. 1. Cfr. anche I in Sent., d. 1, q. 3. [18] B. Spinoza, Ethica, IV, Def. I (Utet, Torino 1992, p. 267). [19] Ibid., Prop. XVIII, p. 281. 19 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
[20] Ibid., p. 282. [21] Ibid. [22] Ibid. [23] Ibid., Prop. XX, p. 283. [24] Ibid., Scolio. [25] Ibid., Prop. XXIV, p. 285. [26] Ibid., Prop. XXXV, Corollario I, p. 293. [27] Ibid., Prop. XL, p.. 302 [28] Ibid., Prop. XX, p. 283, corsivo mio. [29] Ibid., Dimostrazione. [30] Spinoza in verità non utilizza la terminologia scolastica. Il bene in sé non viene definito bonus honestum, ma summum bonum. L’honestum, o piuttosto la honestas, è una virtù specifica (cfr. ibid., Prop. XXXVII, Scolio, p. 297). [31] A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano, 2001, p. 367sg.. La prima edizione dell’opera risale al 1759, l’ultima, rivista e ampliata, al 1790. [32] Ibid., p. 368. [33] Ibid., p. 369. [34] Ibid. [35] Ibid., p. 370. [36] Ibid., corsivo mio. [37] Ibid., p. 370sg. [38] Ibid. 371. [39] Ibid. [40] Ibid., p. 372. [41] Ibid, p. 373. [42] Ibid. [43] Ibid. [44] Ibid., p. 374. [45] Ibid. Come tutte le precedenti quattro citazioni. [46] Ibid. [47] Ibid., p. 376. [48] Immanuel Kant, Über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, in: I. Kant, Werkausgabe, vol. 2, (a cura di W. Weischedel), Suhrkamp,Frankfurt/M, 1978, p. 841sg. [49] Ibid., p. 842. [50] Ibid. [51] I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1977, p. 614. [52] Ibid. [53] Cfr. I. Kant, Critica del Giudizio, Laterza, Bari 1972, p. 355. [54] Ibid., p. 352. [55] Ibid., p. 354sg. [56] Ibid., p. 355. [57] Ibid. [58] Ibid. [59] I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 614. [60] Mi riferisco naturalmente alla celebre definizione kantiana: «l’illuminismo è l’uscita dell’uomo da una condizione di minorità di cui è egli stesso responsabile» (I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? In: (a cura di A. Tagliapietra), Che cos’è l’illuminismo? Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 16).
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Fenomenologia dell’inutile. Un abbozzo di Andrea Tagliapietra (1. Deiezione e rifiuto; 2. Feci, saliva, sperma e cadaveri; 3. Il mondo delle cose; 4. Polvere)
Proviamo a descrivere l’inutile nell’orizzonte della vita quotidiana, là dove esso ci viene incontro nella forma ordinaria e comune dell’esperienza, per esempio nel nostro rapporto con le cose. Sin dalla parola che lo nomina, collegandolo in forma negativa al suo contrario, l’inutile ci appare qualcosa di semanticamente dipendente dalla sfera di quell’utilità che si definisce in termini di funzionalità esercitata in vista di determinati scopi. L’inutilizzabile è, cioè, l’inservibile, ovvero ciò che risulta, per natura sua propria o in conseguenza di qualche evento accidentale, escluso da qualsiasi possibilità di impiego. Ecco allora che, sviluppando il suggerimento del dizionario, l’inutilità assume le sembianze di quello svantaggio implicito al fare finalizzato, ma che non arriva ad assumere il carattere direttamente controfinalistico del dannoso, che si manifesta vuoi nella prospettiva del superfluo, vuoi in quella dell’infruttuoso. L’inutile, insomma, sembra oscillare fra la nozione di spreco, di eccedenza rispetto a quanto basta e necessita per il conseguimento di uno scopo, e quella di scarto, ovvero di ciò che rimane come residuo o scoria, non ulteriormente utilizzabili, in un processo di trasformazione produttiva o in un’azione indirizzata ad un fine. Anche in questa oscillazione, tuttavia, non viene meno il carattere relativo che sembra essere implicito alla nozione di inutilità. Infatti, ciò che da un punto di vista e secondo una prospettiva può apparire perfettamente inutile, da un altro punto di vista può riconfigurarsi come qualcosa di utile. È ciò che avviene, per esempio, con la nozione di rifiuto.
1. Deiezione e rifiuto Un potente tabù, che freudianamente si radica nelle fasi iniziali dell’ontogenesi individuale, circonda quell’orizzonte dove sprechi e scarti si trovano infine accomunati, gli uni accanto agli altri, nel mondo dei rifiuti. Lo stesso termine rifiuto ha il merito di isolare ed evidenziare, rispetto alla considerazione, ancor troppo condizionata da motivi etici ed estetici, racchiusa nell’etimo di immondizia, la pura determinazione funzionale che ne descrive il trattamento. Si tratta, cioè, di un mondo che implica procedimenti materiali, ma soprattutto simbolici, di espulsione, rimozione e confino. Un universo marginale, che evoca e quindi applica antiche interdizioni e remote paure ad un fenomeno, quello della produzione su vasta scala di rifiuti, che appartiene, a pieno titolo, alla nostra civiltà industriale e che ne costituisce, a suo modo, un grandioso e inquietante emblema epocale. Non è un caso, forse, che uno dei più importanti filosofi del Novecento, il 21 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
tedesco Martin Heidegger, per descrivere la condizione essenziale dell’uomo nel mondo, abbia coniato la parola Geworfenheit, che, in senso proprio, significa “esser gettato” e che Pietro Chiodi, il primo traduttore italiano del capolavoro heideggeriano Essere e tempo, ha reso nella nostra lingua con il termine, eminentemente scatologico, di deiezione. La condizione dell’“esser gettato”, cioè lo statuto esistenziale dello scarto, accomuna il singolo al rifiuto, e costituisce, per Heidegger, una cifra possente della condizione umana, ossia di quell’esperienza autentica dell’essere al mondo, ancora più originaria della cosiddetta riduzione a strumento e a fondo a disposizione che l’apparato scientifico della tecnica impone all’uomo moderno. Nell’universo della tecnica, infatti, tutti gli strumenti e tutte le materie prime, per quanto sofisticati o preziose che siano, finiscono, prima o poi, per trasformarsi in scarti e rifiuti. I rifiuti costituiscono un vero e proprio mondo, complesso e simmetrico rispetto a quello delle merci, una sorta di universo rovesciato, nascosto dietro lo specchio luminoso in cui la civiltà dei consumi ama riflettersi. Non è affatto facile riuscire ad inoltrarsi, con uno sguardo disincantato e a tratti curioso, in quell’immenso continente di rifiuti che, come accade per la “città invisibile” di Leonia immaginata da Italo Calvino, che «più espelle roba, più ne accumula», ma come è accaduto nella città reale di Napoli tra l’inverno del 2007 e l’estate del 2008, assedia il nostro mondo, minacciando di travolgerlo. Del resto, i rifiuti sono l’anima più vera e segreta delle merci, la natura più autentica dei prodotti che popolano la nostra vita quotidiana. Una parte di ciò che acquistiamo come merce, ossia gli involucri che circondano il prodotto, proteggendolo, facilitandone la distribuzione, ma anche sottolineandone commercialmente i significati immateriali e simbolici, diventa rifiuto non appena ne entriamo in possesso. Spesso si tratta di plastica. Già alla fine degli anni cinquanta Roland Barthes definiva la plastica un materiale «interamente inghiottito nell’uso», per cui «s’inventeranno degli oggetti per il piacere di usarli». La plastica, sin da principio, ci appare nel suo aspetto di deiezione, ovvero come «una sostanza andata a male»: «A qualunque stato la si riduca, la plastica conserva un’apparenza fioccosa, qualcosa di torbido, di cremoso e di congelato, un’incapacità a raggiungere la levigatezza trionfante della natura». L’imporsi della plastica avrebbe comportato, secondo il semiologo francese, l’abolizione della gerarchia delle sostanze che si basa sulla rarità e sulla loro origine minerale o animale, sicché «una sola le sostituisce tutte: il mondo intero può essere plastificato». In realtà la plastica, apparentemente così prosaica da diventare simile a tutto e da adattarsi ad ogni impiego più comune, ha dimostrato di avere il suo destino segnato non nell’ordine dell’uso e della sua progressiva intensificazione, ma in quello del rifiuto. Così la profezia barthiana di un mondo plastificato si è avverata nella prospettiva della difficoltà di smaltimento degli oggetti di plastica. Perché una sedia di plastica non è come una sedia di legno che, una volta cessato il suo valore d’uso primario, può sempre essere bruciata, rivelando un valore d’uso secondario. Sembra che la sedia di plastica, una volta perduto il suo valore d’uso, si fissi, in qualche modo, nella propria inutilità, spezzando quella circolarità che appartiene alle materie naturali. 22 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Infatti, se noi seguiamo la traiettoria produttiva delle merci, ci accorgiamo ben presto che essa ha la caratteristica di un semicerchio: l’oggetto che prende forma e identità merceologica a partire dall'anonimato della materia prima, finisce, prima o poi, per perderla, tornando nell’indistinzione del rifiuto. Ecco allora che il compito a venire dell’economia totale, sempre più efficiente e capillare, vagheggiata dal pensiero “verde”, sarà quello di ripristinare la circolarità perduta – in natura, infatti, sembrano non esistere letteralmente rifiuti –, illuminando l’altra metà del cerchio, quell’“altra faccia della produzione” che racchiude i passaggi fra il rifiuto e la materia prima. Eppure le considerazioni economiche, ecologiche e, per così dire, fenomenologiche, implicate nella questione non devono far dimenticare i significati, a volte tragici, che il mondo dei rifiuti proietta nella sfera simbolica della cultura e della società. Dietro l’igienica e burocratica definizione di “rifiuti solidi urbani” si cela, infatti, un’inquietante rete di analogie con la storia degli uomini. Non è una coincidenza che i due più tradizionali metodi di smaltimento dei rifiuti, il confinamento nelle discariche e la cremazione negli inceneritori, evochino terribili vicende storiche, che hanno duramente segnato il destino del genere umano durante il corso del secolo XX. Ma non solo. Basti pensare al ruolo della discarica come luogo centrale dell'immaginario contemporaneo, evocato in molti thriller polizieschi come allegoria del male e del disordine sociale, rielaborato dalla fantascienza come metafora della rimozione, dell’annientamento o del passato che non passa, del “medioevo futuro” che ci attende, come nella serie cinematografica di Mad Max (1979; 1981; 1985) o nella splendida ambientazione, “sporca e decadente”, del capolavoro di Ridley Scott Blade Runner (1982). Vuoi anche in un film di genere come Soylent Green di Richard Fleischer, del 1973, in Italia noto con il titolo di 2022: i sopravvissuti, tratto dal romanzo Make Room, Make Room (Largo! Largo!) (1966) di Harry Harrison, in cui il rifiuto che diventa insperata risorsa sono gli stessi cadaveri, sottoposti ad un particolare trattamento di riciclaggio da parte di un’umanità, quella di un futuro assai prossimo e che ci appare, oggi, ancor più realistico, che ha distrutto il pianeta con l’inquinamento, alterato irreversibilmente il clima trasformandolo in un’interminabile estate tropicale e saturato ogni spazio della Terra con uno sviluppo demografico incontrollato. L’ingombrante presenza del rifiuto costringe la mentalità contemporanea, ultimo prodotto dello gnosticismo riaffiorato con l’alba della modernità, ad abbandonare l’astrazione di un mondo telematico e informatico, in cui merci, prodotti ed informazioni sembrano aver perso la loro concreta materialità, trasformandosi in evanescenti entità ideali assemblate e scomposte da una razionalità puramente operativa, per ritornare a pensare le cose nei termini della dimensione corporea dell’esistenza, ossia nell’ambito di responsabilità di chi misura quotidianamente la portata dei propri limiti nella prospettiva di un universo fragile e, a sua volta, dalle risorse pur sempre limitate. Perché il rifiuto, come l’inutile, è esperienza del limite. Anche le più rigorose politiche di raccolta differenziata e le tecniche più sofisticate di riciclaggio dei rifiuti si arrestano innanzi ad un qualche residuo non riciclabile che presto si moltiplica, occupando spazio e richiedendo, a sua volta, di essere smaltito. Ma poi ci sono l’entropia 23 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
e la dispersione di energia, di polveri metalliche e di gas inquinanti, foss’anche dell’anidride carbonica che, ad ogni respiro, viene emessa dai nostri polmoni. Il “consumo sostenibile” è un’espressione che si rivela, a lungo andare, contraddittoria. Il consumo produttivo, vuoi spinto verso l’accumulo dalla razionalità economica del capitale, vuoi orientato verso l’equilibrio dalla razionalità ecologica della natura, approda, prima o poi, all’inevitabile dispendio del consumo improduttivo. La vita a “rifiuti zero” è impossibile e la stessa immagine dell’assenza di rifiuti, in natura, è debitrice della proiezione in negativo, su di essa, degli schemi funzionali del pensiero umano e della loro incerta e ricorrente pianificazione, che non avendo altro scopo che l’espansione del dominio del proprio autoaffermarsi, fa scivolare tutto l’insieme dell’agire indirizzato nella più totale insensatezza, ovvero nell’effettiva contraddittorietà con tutti gli altri scopi.
2. Feci, saliva, sperma e cadaveri Lo si accennava in precedenza, l’atteggiamento dell’uomo nei confronti dei “rifiuti” ha un radicamento profondo, che si colloca biograficamente nelle fasi infantili dello sviluppo della vita individuale. L’ambivalenza più antica dal punto di vista della relazione del singolo con l’orizzonte dell’inutile è quella che caratterizza il rapporto del bambino con i propri escrementi. Il contenuto intestinale è rifiuto da espellere, ma, allo stesso tempo, eccita la zona erogena anale, combinando la sensazione dolorosa della ritenzione e dell’accumulo - la massa delle feci che preme sulle mucose sessualmente sensibili -, con la sensazione di voluttà della scarica liberatoria dell’evacuazione. Ecco che intorno alle feci si organizza una prima ambivalenza che valorizza l’iniziale inutilità catabolica della deiezione in termini di rifunzionalizzazione d’uso per produrre piacere. Ma le feci possiedono, per il lattante, anche un’altra forma di rifunzionalizzazione, che potremmo definire simbolica e, quindi, di scambio. Il materiale escretorio, osservava Freud, «evidentemente è trattato come una parte del proprio corpo, rappresenta il primo “regalo”, con la cui alienazione può essere espressa la docilità, con il cui rifiuto può essere espressa, invece, la sfida del piccolo essere verso il suo ambiente. Come “regalo” assume poi il significato di “bambino”, che, secondo una delle teorie sessuali infantili, viene acquisito mangiando e partorito attraverso l’intestino». Le feci, quindi, sono il primo prodotto “proprio” del corpo del neonato, il primo oggetto di uno scambio simbolico, di merito o debito, di dono o ricatto, con quel mondo degli altri rappresentato dagli adulti. È evidente, allora, che l’ambivalenza delle feci, partendo dalla base della loro inutilità materiale, si intreccia in un doppio legame. Infatti la rifunzionalizzazione delle feci dal punto di vista della ricerca del piacere propria della fase anale dello sviluppo della sessualità infantile è simmetricamente inversa al senso della loro rifunzionalizzazione simbolica. La rinuncia all’accumulo delle feci e al compiacimento correlato, che consentiva l’appagamento del piacere infantile, viene risarcita dall’approvazione degli adulti per il controllo della funzione escretoria e, quindi, dall’ottenuto riconoscimento del mondo degli altri. Ecco che l’inutile gioioso delle feci, oggetto di una prima valorizzazione individuale per l’appunto nell’ordine del piacere e 24 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
dell’identificazione, viene riconsegnato all’inutilità spregevole da un atto simbolico che sostituisce quell’identificazione immediata con il riconoscimento degli altri, ossia intersoggettivo, che si ottiene al prezzo della rinuncia, ossia disciplinando l’espulsione dell’inutile, solo ora, del resto, finalmente tale anche sul piano simbolico. Le feci, che al bambino apparivano importanti, attraenti e profumate – e, quindi, paradossalmente tutt’altro che indifferenti e prive di valore – divengono, alla coscienza educata, oggetto di vergogna, ripugnanti e puzzolenti. D’altra parte, nell’inconscio l’antica positività delle feci, ovvero l’originaria positività dell’inutile, verrà conservata. Di conseguenza, quello che alla coscienza appare come uno scarto disgustoso, repellente e ributtante, che il linguaggio comune confina nell’imprecazione volgare e la civiltà delle buone maniere esprime nella forma allusiva del non-detto, verrà equiparato, nell’inconscio, all’oro come materia di supremo splendore, al denaro come mediatore generale del valore. Le feci si troveranno così prese in una doppia ambivalenza. La prima giocata sul registro dell’immediatezza corporea, di piacere e di schifo o, meglio, di una corporeità naturale e di una corporeità culturalizzata, la seconda, giocata sul registro della mediazione simbolica, di dono e di scarto, di uno scarto che diventa dono e di un dono che diventa scarto. Ne Le voci di Marrakech (1964) Elias Canetti ci racconta un episodio che sembra significativo proprio in questa prospettiva. Per le strade della città marocchina, che lo scrittore sta visitando, non è infrequente imbattersi in mendicanti ciechi. Seduti a terra a gambe incrociate questi individui - spesso degli anziani dalle occhiaie vuote -, sono i santi della ripetizione. La loro vita si esaurisce nel salmodiante canto di ringraziamento che ripete innumerevoli volte il nome di “Allah!”, mentre ignota rimane a loro la più parte di ciò che li circonda, a cominciare dai volti dei donatori, che depositano rapidamente nella mano tesa del cieco qualche moneta. E le monete sono sempre le stesse, nella diversità limitata di quei tre o quattro coni in circolazione che possono plausibilmente essere dati in elemosina. Ma ad un angolo della strada, l’attenzione di Canetti viene attirata da un vecchio con i capelli bianchi che se ne sta ritto in piedi, a quanto sembra tutto intento a masticare qualcosa. Si tratta delle monete che i passanti gli donano. «Mi avvicinai a lui con una certa timidezza», scrive Canetti, «e gli misi una moneta da venti franchi nella mano. Le dita rimasero distese; dunque era vero, non poteva piegarle. Sollevò lentamente la mano e la portò alla bocca. Spinse la moneta contro le labbra tumide e la fece sparire in bocca. Non appena la moneta fu dentro, il vecchio ricominciò a masticare. Spostava la moneta di qua e di là nella bocca, a me pareva di poterne segure i movimenti, ora era a sinistra, ora a destra, ed egli riprese a masticare con lo scrupolo di prima». Infine, «dopo che ebbe terminato di masticare con lo stesso godimento di prima, la moneta riapparve tra le sue labbra. La sputò nella mano sinistra che aveva alzato. Insieme alla moneta venne giù moltissima saliva. Poi fece sparire la moneta in una borsa che portava a sinistra». Lo scrittore commenta: «lo schifo che provavo tentai di dissolverlo nella nota esotica. Non c’è niente al mondo di più lurido del denaro». Nella prosecuzione del racconto, Canetti ci fornisce due spiegazioni ambivalenti, ma che non si escludono fra loro, del singolare episodio. Il vecchio è un marabutto, ossia un 25 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
santone e con la sua saliva intende benedire sia le monete, sia il donatore, dal momento che, con l’elemosina, egli ha adempiuto ad uno dei cinque precetti fondamentali dell’Islam; il vecchio prende in bocca le monete perché ha le mani paralizzate e solo in questo modo può sentire quanto gli è stato donato, saggiando, con i movimenti della lingua, il valore nominale della moneta ricevuta. Nella bocca del marabutto saliva e denaro, simboli dell’inutilità e della deiezione, come lo sputo, insomma come quei «capelli, fango, sporcizia o altro privo di valore» dei quali già Platone, nel Parmenide, s’interrogava se fossero degni dell’idea (Parmenide 130c 6), e simboli del valore, come appunto le monete, si mescolano insieme. E insieme si mescolano anche il dono e il calcolo, la più singolare delle benedizioni e il più disgustoso e infimo degli atti utilitaristici, contare e riconoscere il denaro con la lingua, sentendone per così dire il sapore. Denaro come feci, denaro come saliva, muco e sputo, l’associazione simbolica fra il mondo degli scarti e quello del valore è raccontata anche nel mito greco, là dove si narra l’origine della moneta. Per i Greci l’inventore del denaro e del suo uso fu Erittonio. Raccontano i poeti come Efesto, dio del fuoco e di tutte le tecniche, insidiasse l’onore della dea della sapienza, la vergine guerriera Atena e, travolto da una passione irresistibile, tentasse di usarle violenza. Nell’aspra lotta fra le due divinità Atena riuscì a respingere il suo focoso e maldestro aggressore, così che il seme di Efesto venne sparso sulla terra o, secondo altre versioni, sulla gamba della dea. Atena «disgustata, asciugò lo sperma con della lana che gettò a terra, poi fuggì» (Apollodoro, Biblioteca III, 14, 6). Dallo sperma caduto e gettato nacque Erittonio, che era nelle parti superiori del corpo un uomo di bell’aspetto, ma aveva le gambe così esili e deformi da sembrare un’anguilla. L’antica saggezza del mito descrive, nel ritratto allegorico del suo creatore, l’ambigua natura del denaro che è, insieme, mostruoso e sfuggente, irresistibilmente attraente ma di per sé inaffidabile. Commentando il mito di Erittonio nel De sapientia veterum (1609), Francesco Bacone riteneva che ad esso andasse accostato il vizio dell’impostura. Come Erittonio, anche il denaro, infatti, mostra dapprima la parte di sé che appare più bella e credibile, mentre tiene celata fin che può quella inferiore, più viscida, precaria e sconveniente, che, in ultima istanza, anzi, non è affatto in grado di sorreggerlo in piedi. Nella nascita del denaro narrata dal mito di Erittonio traspare il segno di un peccato originale, di una costitutiva incompiutezza, di un desiderio irrealizzato. Si tratta di un vero e proprio atto mancato che condanna il denaro e chi ne fa uso ed abuso, alla stregua di Efesto che non riesce mai a possedere Atena, ovvero al continuo rinvio della cattiva infinità, allo spargere il seme senza che questo fecondi e dunque dia frutto. Nel mito di Erittonio, infatti, il denaro è simbolicamente paragonato allo sperma inutile, ossia allo sperma gettato al suolo, al puro e vuoto dispendio che non genera nient’altro che il suo stesso desiderio. Del resto Erittonio nasce da sperma sprecato così come la stessa Afrodite, signora del desiderio, fu generata dal seme di Urano, dopo che il figlio Crono lo evirò. Infatti, cadute fra le onde del mare le divine vergogne, «la spuma dall'immortale membro sortì, e da essa una figlia/ nacque», «la dea veneranda e bella», 26 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
che Afrodite «chiamano dèi e uomini, perché dalla spuma (afrós)/ nacque» (Esiodo, Teogonia 191-198). L’inutile si scopre così come il fondamento inconscio del valore, che, in quanto oggetto di riconoscimento, è sempre valore di scambio, e non solo e, comunque, non principalmente come la semplice negazione, passata, presente o futura, del suo presunto valore d’uso. Insomma, il valore gioca con l’inutile per porsi a misura dell’utile. Il tratto dell’inutilità, che già appare nell’oro e viene sublimato nel disvalore effettivo che, nella storia materiale del denaro, ci conduce alla carta moneta e poi alla moneta virtuale elettronica, accompagna tutte le espressioni oggettive di ciò che viene culturalmente e socialmente ritenuto lussuoso o prezioso. In esse la caratteristica comune e ricorrente della “materia” lussuosa o preziosa appare essere la rarità. Dal punto di vista ontologico la rarità richiama il dissolversi e il venir meno della materia, sì che gli oggetti preziosi – si pensi, per esempio, alle perle e alle pietre dure come i diamanti, i rubini o gli smeraldi – spesso hanno anche delle dimensioni minime. Rarità significa anticipazione, nell’essere della materia, di quel nulla che la nega. Raro è, quindi, un oggetto che lascia intravedere il pericolo incipiente, anzi l’imminenza della sua sparizione. Questo aspetto della rarità come liminarità e gioco con il nulla appare anche nelle materie della deiezione scatologica o sessuale, nei fluidi delle mucose nel corpo e tra i corpi e che, di frequenza, il linguaggio comune impiega come volgari metafore del nulla. Esso appare, d’altro canto, in un’altra delle grandi “figure” dell’inutile, quella del cadavere. L’ambivalenza del cadavere riproduce, all’inverso, quella infantile delle feci. Se queste, infatti, da naturalmente attraenti diventano culturalmente ripugnanti, il cadavere, che la natura trasforma in un resto insensibile, sul punto di decomporsi, e quindi, quantomai precario e pestilenziale, viene rifunzionalizzato dalla cultura come oggetto di culto e di venerazione, di conservazione idealmente eterna, malgrado l’effettiva variazione nel trattamento materiale della salma vada dall’imbalsamazione della mummia all’incenerimento della cremazione. L’orrore per il cadavere, come scriveva Bataille, ha la sua origine nella cifra del nulla: «per noi che sopravviviamo, quel cadavere, la cui incipiente putrefazione già ci minaccia, non risponde, in sé, ad alcuna attesa simile a quella che nutrivamo a proposito dell’essere vivente che ora è questa salma distesa, ma risponde soltanto a una paura: e così questo oggetto è meno che nulla, peggio che nulla». L’esperienza del cadavere è, quindi, l’esperienza di una non risposta, di un vuoto, di quello stesso “venir meno” che suscita in noi la vista degli escrementi, dei liquidi corporei e delle secrezioni sessuali umane, esperienza che Bataille descrive con il termine nausea. «Noi non riusciamo a parlare facilmente di quelle cose che in se stesse non sono nulla. E tuttavia esse si manifestano frequentemente con una forza effettiva che manca agli oggetti inerti, in cui soltanto le qualità oggettive ci colpiscono. Come si può dire che quella cosa fetida è nulla? Ma se protestiamo, se insistiamo, è solo perché ci rifiutiamo di vedere. Riteniamo che gli 27 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
escrementi ci nauseino a cagione del loro puzzo. Ma puzzerebbero, quegli escrementi, se già non fossero assurti a oggetto del nostro disgusto?». La nausea, ci suggerisce la traccia del discorso batailleano, non è “naturale”, ma si impara, si apprende nel corso delle generazioni umane. Essa marca la reazione dell’uomo di fronte al nulla e alla rivelazione del nulla che la vita stessa pretende: «non si potrebbe immaginare processo più dispendioso. In un certo senso la vita è possibile, essa sarebbe in grado di riprodursi facilmente senza richiedere questo immenso spreco, questo lusso dell’annientamento che sconvolge l’immaginazione». La vita è, allora, non la funzionalità della sua pura sussistenza che viene studiata dalle cosiddette scienze della vita, bensì quell’eccedenza sorprendente dell’inutile che oltrepassa il semplicemente possibile e che mortifica la grettezza misurabile dell’utilità pianificata dell’orizzonte umano. Nell’inutile l’energia della vita è tornata alla vita, senza distacco, ossia senza farsi carico del dolore della misura e della pretesa di servire a qualcosa oltre che a se stessa. Così il desiderio, che nell’uomo alimenta ciò che è umano ma anche ciò che sempre lo trascende, rintraccia le oggettività emblematiche del suo errare in quei luoghi liminari della nausea, là dove l’ambivalenza annuncia, nel disegno cangiante dell’inutile, l’estrema forma di resistenza animale che è rappresentata dal nostro stesso corpo individuale, che giace sempre più in qua o più in là dei calcoli e delle strategie collettive predisposte dalla ragione utilitaria per scioglierne l’enigma.
3. Il mondo delle cose Evocando la dimensione del rifiuto e poi della deiezione corporea abbiamo cominciato ad intendere l’inutile come aggettivo, come attributo di un oggetto, di una cosa materiale, fisicamente concreta. Ma l’inutile che si predica dell’oggetto ha il sapore della revoca. La cosa, che come oggetto ci stava di fronte, ma, in qualche modo, già prometteva la sua eventuale disponibilità al progetto e allo scopo, divenuta inutile, si ritrae, acquista autonomia nella forma insistente della passività. L’inutile restituisce alla cosa quella capacità di resistenza che aveva prima di essere utile, ossia prima di essere a portata di mano, ma aggiungendovi quel tratto che cancella la potenzialità dell’essere a disposizione, ossia dischiudendo alla nostra immaginazione l’ipotesi di un mondo in cui gli oggetti non appaiono più come un qualcosa esposto allo sguardo di qualcuno, ma semplicemente stanno, come corpi indifferenti, indipendentemente dalla considerazione e dall’intenzionalità di qualsiasi esserci. Quando si lascia un luogo dove si è vissuti a lungo, le cose, gli oggetti familiari su cui lo sguardo si è posato, giorno dopo giorno, assumono, all’improvviso, una luce diversa. Una sensazione strana ci assale. Il fermacarte che giace sul tavolo, la lampada, i mobili disposti lungo le pareti della stanza, rivelano dettagli a cui, forse, non si era mai fatto caso. O almeno così sembra, perché, in realtà, quei particolari sono sempre stati lì, sotto i nostri occhi. Ma proprio ora che l’abitudine abbandona il guardare, la superficie delle cose si incrina, lasciando intravedere, per poi farla subito dileguare, una parte di noi 28 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
che non avrà più dignità di memoria. Infatti, mentre i ricordi si staccano dagli oggetti e ci seguono, oltre la porta, in quel luogo rimangono, con la polvere che si deposita lenta, granello su granello, tutte le possibilità, tutte le speranze perdute, che hanno sfiorato il mondo delle cose per poi perdersi come dei passi nella notte. Così ci si congeda da quella stanza come da un amico al quale, però, non si sia riusciti a dire la cosa più importante. Le nostre case sono piene di oggetti che, almeno di diritto, posseggono gradi diversi di utilità, finanche di indispensabilità. Tuttavia, spesso, la loro giacenza rivela, di fatto, la dimensione del superfluo che li colloca dalla parte dell’inutile. Ciò che un uomo è – scriveva un filosofo – lo si vede dalle cose che gli stanno attorno. Ma l’accumulo di cose ora copre un abisso. Noi siamo sempre meno noi stessi. Così, se non possiamo possederci, almeno possediamo. Analogamente, nella letteratura occidentale, soprattutto a partire dal XVIII secolo, come ci insegna Francesco Orlando, l’immane raccolta di merci della società capitalistica si è tradotta nella descrizione di un’immane raccolta di antimerci, ossia di oggetti desueti e antifunzionali che occupano capillarmente lo spazio immaginario della poesia e del romanzo. Così, la metafora dell’esistenza umana non è più, ammesso che lo sia mai stata e, se sì, comunque per un numero ben ristretto di individui, quella della totalità compiuta, bensì la cattiva infinità che trova espressione nella figura di una frenetica somma. Allora, come avvertiva Max Weber, oggi non si muore più sazi della vita, bensì semplicemente stanchi. La vecchiaia abbandona la maschera della saggezza per l’angoscia della solitudine e la sanzione collettiva dell’inutilità sociale, mentre il tempo non arricchisce più con nuove esperienze: si limita a sottrarcene la possibilità. Di conseguenza, nonostante la stanchezza si impadronisca dei nostri gesti, cerchiamo di prendere di più e di possedere ancora. Come il protagonista di quel capolavoro cinematografico che è Quarto Potere (1941) di Orson Welles, noi accumuliamo immense quantità di cose, un castello, un’autentica reggia di cose. Ma tutto questo accumulo, che spesso si dà nella forma caotica dell’ammasso, assai più raramente in quella ordinata della collezione, non fa altro che cercare di sostituire, invano, un “oggetto perduto”. Per il “cittadino Kane” del film di Welles si tratta di “Rosebud” – Rosabella, nella versione italiana –, la misteriosa parola che Kane, magnate dell’editoria e uno dei più potenti uomini della terra, pronuncia prima di morire, aprendo la mano e lasciando cadere a terra una di quelle piccole bocce di cristallo all’interno delle quali si riproduce, in miniatura, un paesaggio su cui, se si ribalta e poi si raddrizza la sfera, cade la neve. Dopo che per tutta la durata della pellicola il film ha tentato, ricostruendo la vita di Kane, di svelare il mistero celato dietro la parola “Rosebud”, solo l’ultima sequenza, come per caso, lo rivela, fuori scena, agli spettatori. Nel castello di Kane gli operai stanno smantellando tutto. Tra le cianfrusaglie e gli oggetti superflui che erano appartenuti al magnate e che ora vengono destinati al fuoco di una caldaia, c’è anche un modesto slittino che sta già bruciando nell’inceneritore. Si tratta dello stesso slittino con cui il piccolo Kane giocava sulle distese innevate delle montagne di casa propria, prima che il tutore lo destinasse al collegio, strappandolo ferocemente agli affetti familiari e alla sua vita di fanciullo. L’inquadratura stringe sullo slittino, prima che questo sia definitivamente inghiottito dalle fiamme, finché compare, 29 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
incisa sul legno, la scritta “Rosebud”. Il segreto sarebbe dunque tutto lì e il potentissimo “cittadino Kane” avrebbe accumulato il suo vasto impero di cose per sostituire quel vecchio slittino che ora brucia, assieme a tutte le altre inutili cianfrusaglie di una vita. Ma cosa rappresenta, in realtà, “Rosebud”? Quella vita degli affetti e quell’infanzia a cui Kane ha dovuto precocemente rinunciare? O, piuttosto, “Rosebud” è la vita come avrebbe potuto essere, quella possibilità che si perde quando qualcosa si compie a differenza di ciò che passa, come l’infanzia vissuta, ma di cui, comunque, resta il ricordo, la traccia di ciò che è stato? “Rosebud” non è né valore d’uso, né valore di scambio, ma ciò che, come si suol dire, “non ha prezzo”. “Rosebud” è il tentativo di elaborazione di un lutto. Ma questo lutto rimane inelaborabile perché non è rivolto al passato, a ciò che è stato, bensì al futuro. Infatti, non si tratta di accettare la perdita di un oggetto avuto e posseduto, ma di rinunciare a ciò che non si ha ancora avuto e che, quindi, non si potrà mai possedere. Il registro di questa perdita non è, quindi il non più con cui sperimentiamo la morte degli altri e la perdita dell’oggetto amato, ma il non ancora che caratterizza l’anticipazione della nostra morte e, con essa, la possibilità stessa dell’oggetto amato. La slitta di legno, emersa dall’accozzaglia di oggetti ammassati nelle stanze della reggia di Kane, è, allora, l’emblema dell’inutile. Tuttavia, dell’inutile non ci fa esperire quella cessazione dell’utilità, quell’usura, quella privazione o diminuzione di funzionalità che accompagnano la cosa verso il suo destino di inutilizzabilità e di abbandono. L’inutile qui è figura della nuda vita che, come possibilità, sta piuttosto all’inizio di ogni cosa: un intreccio totipotente di determinazioni che si pone al di qua di ogni loro successiva restrizione d’uso. Nel racconto di Tolstoj La morte di Ivan Il’ic (1886) gli oggetti hanno una grande importanza. Ivan Il’ic dedica all’arredo del suo salotto la massima cura. Mobili, suppellettili e soprammobili sembrano materializzare l’ideale borghese di una vita “piacevole”, “raffinata” e “ammodo”. Eppure, tutta questa profusione di oggetti, preferibilmente vecchi, di «un singolare stile comme il faut» è pretenziosa e fittizia. «In realtà», scrive Tolstoj, «si trattava, né più né meno, di ciò che hanno in casa le persone non proprio ricche, ma tali che vogliono rassomigliare ai ricchi e, quindi, non fanno che rassomigliare tra loro: damaschi, ebano, fiori, tappeti e bronzi, un misto di cupo e di splendente, tutto ciò, insomma, che tutte le persone di un certo genere fanno per rassomigliare a tutte le persone d’un cert’altro genere». Gli oggetti che promettono distinzione sociale si rivelano, al contrario, indici di indistinzione e produttori di uniformità indifferenziata. Il loro accumulo nell’arredo ha il tratto fasullo di quel Kitsch che caratterizza tutti i paramenti funebri, destinati borghesemente a simulare l’alta e solenne pompa del cerimoniale, ma solo per lo stretto necessario, con raso al posto della seta e mediante finimenti dorati che stingono la sera stessa dopo le esequie, assieme ai fiori appassiti. Verso Il’ic e il suo quieto progetto di decenza utilitaria gli oggetti oppongono una cupa e crudele resistenza, causandogli il male che lo condurrà alla morte. Durante i lavori di arredo Ivan cade dalla scaletta su cui si era arrampicato per mostrare al tappezziere un panneggio. La maniglia di una finestra gli arpiona proprio quel fianco dove, di lì a poco, si svilupperà il fatal morbo. Eppure, nel funereo apparato degli oggetti di una casa “per bene” Il’ic avrebbe già potuto scorgere il potenziale pericolo. 30 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
L’indifferenza e l’ostilità delle cose, infatti, non sono che un piccolo assaggio dell’isolamento a cui lo condanna l’orrore della malattia. L’espressione della vita, appena accennata e subito imprigionata nella ritualità borghese delle buone maniere, si atrofizza immediatamente di fronte all’autenticità del male. Ciascuno muore solo perché il morente, prima o poi, diviene per gli altri nient’altro che un oggetto. Così sembra compiersi, infine, il destino dell’uomo come cosa fra le cose. «Polvere tu sei e in polvere tu ritornerai» (Gen. 3,19), l’anatema divino del Genesi, conclude la maledizione che Jahweh lancia sull’uomo, serrandone l’esistenza e la condanna a lavorare «con il sudore della fronte», ossia il suo destino di homo faber – di essere predisposto ad un rapporto strumentale e utilitario con il mondo –, nel doppio cartiglio del simbolo dell’inutile per antonomasia, la polvere.
4. Polvere La polvere è quel quasi niente che galleggia nell’aria quando un raggio di sole entra dalla finestra e che, attimo dopo attimo, si deposita su tutte le superfici, con la sua pigra e impercettibile caduta. È difficile pensare a qualcosa di più insignificante ed inutile della polvere, eppure, anche a ciò che c’è di più piccolo e impalpabile fra gli oggetti sensibili, la nostra cultura sembra aver attribuito, sin dall’antichità, un rilevante valore simbolico. Secondo il racconto del libro della Genesi, la polvere (‘aphar) è la materia con cui Dio ha creato gli uomini. La forza metaforica dell’equazione fra la natura umana e la polvere modifica il racconto originario della creazione, che intendeva, piuttosto, quella sostanza, l’‘adamah, simile alla terra rossa, impiegata dal vasaio e che risuona nel nome stesso di Adamo, mettendola in rapporto, invece, con il peccato e la maledizione dell’Eden. È lì, infatti, che, secondo la successiva tradizione esegetica, risuona il terribile anatema di Jahweh, «polvere tu sei e in polvere tu ritornerai», di cui si è detto, quasi che la terra grassa e fertile dell’inizio – la terra utile per eccellenza della creazione – si fosse trasformata, riarsa al fuoco della colpa dei progenitori dell’umanità, nella sabbia sterile, quindi inutile e improduttiva, dei molti deserti, reali e immaginari, di questo mondo. La polvere è la tomba dell’uomo, ripetono con insistenza il libro di Giobbe e il memento mori dei Salmi e dei Profeti. L’individuo che, nell’Antico Testamento, viene paragonato alla polvere, come la polvere è sempre uguale a se stesso. Calpestato e umiliato, rimane, tuttavia, sulla superficie della terra. Non si innalza, né si abbassa. È metafora di una moltitudine incalcolabile, che la condizione di “polvere” colloca sulla soglia, mai violata, che precede qualsiasi possibilità: non ancora uomo, non ancora popolo, non ancora storia. «Pulvis et umbra sumus» recita la splendida Ode di Orazio, che riassume, dal punto di vista laico e disincantato del poeta latino, la meditazione classica sulla fugacità della vita e sull’effimera tonalità pulviscolare di cui è intessuta la trama profonda di ogni esistenza, la sua inutile pretesa di essere che galleggia sul baratro della morte. «Invece della persona 31 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
amata», leggiamo nell’Elettra di Sofocle, «restano inutile polvere ed ombra (antì philátes morphês spodón te kaì skiàn anophelê)» (Elettra 1158-1159). Nel suo splendido libro sulle clessidre, Ernst Jünger scriveva che, tra tutti gli orologi, l’orologio a polvere è il più adatto a simboleggiare la signoria della morte e del tempo. «Se misuriamo le ore con la sabbia, la fugacità acquista una particolare evidenza simbolica, poiché a scorrere è la materia terrena, l’abito temporale da cui siamo modellati. La polvere ritorna polvere, sabbia, terra, cenere che gettiamo ai defunti come estremo saluto». La polvere è, allora, metafora del tempo – «sabbia del Tempo», come la chiamava d’Annunzio – in quanto ne riassume l’esito finale, la polverizzazione di tutte le cose che essa anticipa, come in quelle vecchie soffitte in cui aleggiano i ricordi e che somigliano ai “balconi del cielo” di Baudelaire, dove gli anni defunti si affacciano e sfilano, avvolti nelle polverose ragnatele dei loro abiti antiquati (en robes surannées). La polvere, afferma Paulo Barone, è figura dell’idea di caducità, di quell’andamento, transitorio e mortale, ma, al contempo, unico ed irripetibile, che caratterizza l’accadere di ogni evento. Una figura contraddittoria, quindi, dal momento che la caducità, che l’invisibilità della polvere ben rappresenta, coincide con il movimento temporale che la produce e insieme la annulla. «La forma», confessava Alberto Giacometti, che della polvere ha fatto l'autentica cifra estetica del suo fare d’artista, in una lettera a Pierre Matisse del 1948, «alla fine non è più che qualche particella in movimento sopra un vuoto nero e profondo». Ma la polverizzazione, che l’artista annuncia mediante una sorta di profezia estetica, è anche l’idea-guida che permette di raccogliere in un unico fuoco la meditazione sull’assenza della mistica antica con il tema heideggeriano dell’oblio dell’essere; il motivo kantiano dell’approssimazione del limite con la rammemorazione hegeliana dell’assoluto e con la schopenhaueriana cecità del movimento. Se queste lenti poste tra metafora e concetto e puntate sul mondo della vita, ci consentono di scrutare lo statuto liminare della polvere e di riassumerne le principali figure, esse, tuttavia, non possono tradurne la singolarità, quel qualcosa di assolutamente individuale, e quindi inutile, che è l’unicità dell’irripetibile. Qui la polvere trova in Nietzsche il suo più grande cantore, assieme al paradossale ribaltamento della caduca finitudine del granello infinitesimale della nostra vita nella permanente pienezza dell'eterno ritorno di tutte le cose. Il demone della Gaia Scienza ammonisce, infatti, alla più solitaria delle solitudini, quella dell’individuo, che «l’eterna clessidra dell’esistenza (Die ewige Sanduhr des Daseins) viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere (Stäubchen vom Staube)». L’irrilevanza della polvere si muta, allora, in quell’istantanea presenza che fa il mondo “così com’è” e che appare, al confine prossimo del nulla, come il nome d’inizio con cui chiamiamo l’essere. La polvere, che si deposita sulle cose è, del resto, il primo e più evidente indizio del loro inutilizzo. Anche se per principio ancora utili, le cose impolverate, di fatto, sono 32 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
inutilizzate. D’altra parte la polvere può coprire anche i segni del logoramento dell’oggetto, che rivelano l’usura e il suo avvenuto consumo. Con il suo aspetto polveroso e logoro un oggetto manifesta di aver avuto una storia, ma questa storicità si dà come traccia, ovvero, per dirla con Paul Ricoeur, come tratto irriducibile e inintenzionale del passare del tempo. La polvere si deposita, è la patina del tempo che avvolge l’oggetto come un’aura di autenticità e non si può applicare strumentalmente se non attraverso un’esplicita manipolazione, come nei falsi d’antiquariato. Del resto, è evidente la differenza fra la traccia, che la passività della polvere sull’oggetto simboleggia, e qualsiasi modalità testimoniale, documentaria o monumentale con cui si dà segno del tempo. Mentre i segni del tempo ci parlano e inducono al ricordo, cercando di farci credere che nulla è passato invano, ovvero che nulla di ciò che accade è inutile e senza storia, cioè che nulla è privo di una sua economia di salvezza, la traccia, restando dalla parte dell’immemoriale accadimento, ci richiama all’irrimediabile del tempo, al dileguarsi dell’oblio, all’insalvabile. Hanno del resto la qualità della traccia tutti i rifiuti, le deiezioni, i fluidi e i liquidi corporei di cui abbiamo parlato in precedenza. Forse la radice ultima, transtorica, transculturale e transeconomica dell’inutile, sta in quel passaggio che trasforma la caducità di ciò che accade a quei viventi che si sanno mortali dalla condizione di rovine, che hanno ancora una storia malgrado l’esperienza della loro distruzione, a quella di macerie che giacciono dopo la catastrofe del senso – di ogni umano senso e scopo – e che attendono, corpi al confine del tempo, nel luogo terrificante e impensabile esplorato della kantiana fine di tutte le cose, soltanto la loro polverizzazione.
Nota bibliografica – Scopo di queste righe è di consentire al lettore di ricuperare i riferimenti del testo, tuttavia risparmiando sul tradizionale rinvio delle note e non appesantendo, di conseguenza, la lettura. § 1. Per quanto concerne il tema del rifiuto è ormai un “classico” il saggio di Guido Viale, Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, Feltrinelli, Milano 1994, a cui vanno affiancati, del medesimo autore, Governare i rifiuti, Bollati Boringhieri, Torino 1999 e Azzerare i rifiuti. Vecchie e nuove soluzioni per una produzione e un consumo sostenibili, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Martin Heidegger parla della Geworfenheit come modo fondamentale dell’Esserci in molti luoghi di Essere e tempo, in particolare nei paragrafi 29 (L’Esserci come situazione emotiva), 38 (Deiezione ed esser-gettato), e 68b (La temporalità della situazione emotiva). «Il fenomeno della deiezione (Geworfenheit) non ci fa conoscere una specie di “faccia notturna” dell’Esserci, una qualità ontica tale da costituire l’integrazione dell’aspetto abituale di questo ente. La deiezione rivela una struttura ontologica essenziale dell’Esserci stesso, struttura che ne costituisce così poco l’aspetto notturno da riempire, nella quotidianità, tutti i suoi giorni» (Sein und Zeit, M. Niemeyer Verlag, Tübingen 1927 (rist. anast.: M. Niemeyer Verlag, Tübingen 2001), p. 179; tr. it., Essere e tempo, a c. di P. Chiodi, Utet, Torino 1969, p. 284). Per la calviniana città di Leonia il riferimento e a Italo Calvino, Le città invisibili (1972), Arnoldo Mondadori, Milano 1993, pp. 113-115 («Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che anch’esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e 33 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano»). Per Roland Barthes il brano evocato è tratto da Mythologies, Éditions du Seuil, Paris 1957; tr. it., Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, pp. 170-171. Le categorie di consumo produttivo e di dépense rinviano a Georges Bataille, La notion de dépense, in “La Critique sociale”, gennaio 1933, n. 7, ora in Id., Œuvres complètes, in 12 voll., Gallimard, Paris 1970-1988, vol. I; tr. it., La nozione di dépense, in Id., La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 3-22; Id., La part maudite, Les Editions de Minuit, Paris 1949, ora in Id., Œuvres complètes, in 12 voll., Gallimard, Paris 1970-1988, vol. VII: tr. it., La parte maledetta, cit., pp. 23-183; Id., La limite de l’utile (1939-1945) in Id., Œuvres complètes, cit., vol. VI; tr. it., Il limite dell’utile, Adelphi, Milano 2000. § 2. Sigmund Freud, Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie, Franz Deuticke, Leipzig-Wien 1905; tr. it., Tre saggi sulla teoria sessuale, in Id., Opere (in 12 voll.), Boringhieri, Torino 1967-79, voI. IV, ed. cit. in volume singolo, Boringhieri, Torino 1975, p. 70. Elias Canetti, Die Stimmen von Marrakesch. Aufzeichnungen nach einer Reise, Carl Hanser Verlag, München 1964; tr. it., Le voci di Marrakech. Note di un viaggio, Adelphi, Milano 2004, pp. 33-38. Per il capitolo del De sapientia veterum (§ 20), vedi Francesco Bacone, La sapienza degli antichi in Id., Uomo e natura. Scritti filosofici, a c. di E. De Mas, intr. P. Rossi, Laterza, Roma 1994, pp. 127-206, pp. 177-178. Georges Bataille, L’erotisme, Editions de Minuit, Paris 1957; tr. it., L’erotismo, SE, Milano 1986, in particolare pp. 55-57 § 3. La considerazione filosofica del “mondo delle cose” compare, fra gli altri, in due saggi recenti di filosofi italiani, ovvero in Francesca Rigotti, La filosofia delle piccole cose, Interlinea Edizioni, Novara 2004 e Remo Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma 2009, per non parlare del filone di ricerca sviluppata da Maurizio Ferraris (da ultimo, Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani, Einaudi, Torino 2008) e dei lavori di ontologia e di metafisica descrittiva di Achille Varzi e Roberto Casati. La citazione attribuita ad “un filosofo” è tratta da Ernst Bloch, Spuren, Paul Cassirer Verlag, Berlin 1930; tr. it., Tracce, a c. di L. Boella, Coliseum, Milano 1989, p. 7. Sulla considerazione degli oggetti “inutili” come materiali significativi della narrazione letteraria dal Settecento in poi si veda lo splendido saggio di Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino 1994. La figura dell’«immane raccolta di merci» deriva, ovviamente, da Karl Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie. Buch I, in Karl Marx e Friedrich Engels, Werke, Dietz, Berlin 1962, t. XXIII, p. 49, vedi anche Id., Zur Kritik der politischen Ökonomie, in Id., Werke, Dietz, Berlin 1964, t. XIII, p. 15. Max Weber, in La scienza come professione, scriveva «un uomo incivilito […], coinvolto nel continuo arricchimento della civiltà con idee, conoscenze, problemi, può diventare “stanco”, ma non “sazio” della vita. Egli, infatti, di ciò che la vita dello spirito di nuovo sempre produce, coglie solo la minima parte, e sempre qualcosa di provvisorio e mai definitivo, e quindi la morte è per lui un accadimento assurdo. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche la vita civile come tale, in quanto appunto, con la sua assurda “progressività”, fa della morte un assurdo» (M. Weber, Wissenschaft als Beruf (1917); tr. it., La scienza come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1971, pp. 20-21). Lev N. Tolstoj, Smert Ivana Ilicia (1886); tr. it., La morte di Ivan Il’ic, a c. di T. Landolfi, Rizzoli, Milano 1976. § 4. Per il significato biblico di polvere vedi W. H. Schmidt, Worterbuch zur Bibel, Furche Verlag, Hamburg 1971; tr. it., Dizionario Biblico. Teologia dell’Antico Testamento, Jaca Book, Milano, 1981, pp. 319-325. Ernst Jünger, Das Sanduhrbuch, Klostermann, Frankfurt a. M. 1954; tr. it., Il libro dell’orologio a polvere, Adelphi, Milano 1994. L’immagine baudelairiana dei “balconi del cielo” è tratta dalla poesia Recueillement (Raccoglimento), aggiunta alla terza edizione dei Fiori del male (1868), ora in Charles Baudelaire, Opere, a c. 34 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
di G. Raboni e G. Montesano, intr. di G. Macchia, Arnoldo Mondadori, Milano 1996, pp. 350-351. Per quanto concerne la simbologia della polvere il rinvio d’obbligo è a Paulo Barone, Età della polvere. Giacometti, Heidegger, Kant, Hegel, Schopenhauer e lo spazio estetico della caducità, Marsilio, Venezia 1999 a cui rinvio anche per la citazione di Giacometti. Per Nietzsche il riferimento è a Die fröhliche Wissenschaft (IIV 1882; V 1887) § 341; tr. it., La gaia scienza, a c. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. a c. di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964-ss., vol. V, tomo II, edizione in volume singolo, Adelphi, Milano 1977, p. 202. Per la traccia, oltre ai rinvii generali al pensiero di Emmanuel Lévinas e a quello di Jacques Derrida, si fa riferimento preciso a Paul Ricoeur, Temps et récit. Tomes I-III, Editions du Seuil, Paris 1983-1985; tr. it., Tempo e racconto, in 3 voll., Jaca Book, Milano 1986-1988, vol. III, pp. 178-191 (Archivi, documenti, traccia). Per le rovine e le macerie rinvio ai numerosi saggi, di grande interesse, raccolti in G. Tortora (a c. di), Semantica delle rovine, Manifestolibri, Roma 2006. Kant definisce quello della fine di tutte le cose un pensiero che «ha in sé qualcosa di orribile: esso, infatti, conduce sull’orlo di un abisso da cui non è possibile alcun ritorno per colui che vi precipitasse». Si tratta del “limite” del pensiero, ossia del paradosso del pensiero dell’impensabile che, più avanti in questo splendido testo dell’ultimo Kant, ci viene connotato come il venir meno del senso, ovvero come l’inutilità assoluta nel rapporto con il mondo: «la durata del mondo ha un valore solo nella misura in cui gli esseri razionali sono all’altezza, in essa, dello scopo finale della loro esistenza, ma se questo scopo finale non dovesse essere raggiunto, la creazione stessa diverrebbe per loro senza scopo: come un dramma teatrale senza epilogo (wie ein Schauspiel, das gar keinen Ausgang) e che non lascia intravedere la traccia di alcun disegno razionale» (Immanuel Kant, Das Ende aller Dinge, in “Berlinische Monatsschrift” (1794), XXIII, pp. 495522, ora in in Kant’s Gesammelte Schriften [KGS], edizione dalla Königlich Preussischen [poi Deutschen] Akademie der Wissenschaften, Berlin-Leipzig 1900-ss. (voll. I-IX: Werke; voll. X-XIII: Briefwechsel; voll. XIV-XXIII: Handschriftlicher Nachlass; voll. XXIII-ss. Vorlesungen [a cura della Akademie der Wissenschaften zu Göttingen]), vol. VIII, pp. 325-339; tr. it., La fine di tutte le cose, a c. di A. Tagliapietra, Bollati Boringhieri, Torino 2006, in particolare p. 8 e pp. 19-21).
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Kant e l’inutilità dell’arte di Romano Gasparotti
1. L’arte è un portare alla luce mediante libertà, 2. La natura mimetica dell’arte libera, 3. La bellezza dell’ arte sta nella “finalità senza scopo”, 4. L’inutile fare del genio, 5. Vaga pulchritudo, 6. “Fantasie senza tema”, 7. L’ergon come dono impossibile, 8. Una poiesis improduttiva: l’arte non sta nell’opera fabbricata Per Kant, ciò che contraddistingue l’arte – in quanto “bella Arte”(schöne Kunst) - è la sua inutilità. Ma in che senso l’arte è in quanto tale inutile? Secondo le argomentazioni sviluppate nella Critica del giudizio (prima parte, sezione prima, libro secondo), sul tema della “deduzione dei giudizi estetici puri”, la sua essenziale inutilità si giustifica sulla base di una complessa articolazione di elementi, la quale impedisce di determinare l’inutilità artistica come l’opposto logico dell’utilità(Nutzbarkeit) e della convenienza(Zuträglichkeit), che Kant stesso(nel §63 della medesima opera) riconduce alla condizione di calcolabilità secondo i nessi causa-effetto e mezzo-fine.
1.L’arte è un portare alla luce mediante libertà
Innanzitutto l’arte, per Kant, distinguendosi dall’operare naturale(agere), non produce come suo risultato(Wirkung) un effectus, bensì dà luogo liberamente ad un opus. E’ per questo che il suo Werk si addice solo ed esclusivamente all’uomo, a colui che “pone la ragione a fondamento delle sue azioni”(1), proprio perché esso accade in un “portare alla luce (die Hervorbringung) mediante libertà(durch Freiheit)”(2). I pur mirabili favi delle api, il cui kosmos appare così armoniosamente costruito, non sono affatto opere di arte libera, appunto perché si dà opus artistico solo nel mettersi in opera del libero arbitrio stesso proprio dell’animal rationale. Kant precisa che l’arte, nella sua libertà, non si riduce all’esercizio di un mestiere(Handwerk), il quale di per sé si esplica solo quale ’”arte mercenaria(Lohnkunst)”(3), che si esercita nel lavoro(Arbeit), ovvero in una “occupazione che per se stessa è spiacevole(penosa) ed attrae soltanto per il risultato(per esempio la ricompensa) che promette e che quindi può essere imposta con la costrizione”(4). La bella arte, invece, è “puro gioco” e “attività piacevole per se stessa”(5). Mai il facere artistico potrebbe, dunque, essere confuso con il lavoro mercenario proprio di un mestiere, il quale disumanizza l’uomo quale essere libero, vincolando il suo fare al conseguimento di un risultato(Wirkung), il quale conta, per il lavoratore, solo in relazione alla remunerazione, al salario o al guadagno che esso procura. Rispetto all’utilità del 36 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
lavoro - che quindi, per Kant, rende tutt’altro che liberi - l’arte è inutile, in quanto è ab origine sottratta sia al conseguimento di un obiettivo, sia a qualsiasi valutazione di carattere economico, sia a qualsiasi soddisfazione legata alla produttività dei suoi risultati. Sotto questo punto di vista, l’opus artistico non ha né valore d’uso, né valore di scambio e non rientra in alcun modo nella logica e nei calcoli dell’ homo aeconomicus. Qui sta il primo decisivo aspetto della radicale inutilità dell’arte. Come Kant spiega più avanti, l’utilità(Nutzbarkeit) per gli uomini(che è equivalente alla convenienza in natura) si misura allorché, in una situazione oggettiva calcolabile secondo la relazione di causaeffetto, fondamento della causalità della causa sia “l’idea dell’effetto come condizione della possibilità dell’effetto stesso”(6), in modo che l’effetto o è considerato come scopo, ossia “immediatamente come prodotto di un’arte”(7), oppure “come mezzo per l’impiego finale di altre cause” o “come semplice materiale per l’arte di altri possibili esseri della natura”(8). E tuttavia l’inutilità dell’arte libera e piacevole in se stessa, non si oppone affatto all’utilità delle attività mercenarie, non è altro da essa – venendo a delimitarsi, in tal caso, come tale a partire da essa - ma assorbe nel suo intrascendibile orizzonte inutile, subordinandolo a sé, anche il mero lavoro, affinché l’opus possa aver luogo. Analogamente il “puro gioco(blosse Spiel) del’arte non si oppone affatto al giogo del lavoro(Arbeit). Solo l’allegra superficialità di certi “nuovi educatori”– scrive Kant – si illude di favorire il miglior esplicarsi dell’arte libera “scartando da essa ogni costrizione” (9), per farla diventare nient’altro che un gioco(astrattamente separato da ogni componente tecnica ed esecutiva)! E invece non vi sarebbe opus dell’arte libera, senza una qualche costrizione. Non vi sarebbe arte a prescindere da un qualche Mechanismus, “senza il quale lo spirito, che nell’arte deve essere libero e che solo anima l’opera, non acquisterebbe corpo e svaporerebbe interamente”(10). Lo spirito libero che anima l’arte ha, infatti, necessariamente bisogno di incorporarsi. L’acqua che sprizza spontanea dalla sorgente può fluire liberamente verso la sua naturale destinazione solo se costretta e incanalata entro i limiti dell’alveo di un fiume. E così – esemplifica Kant – lo spirito libero della poesia può manifestare il suo opus solo prendendo corpo attraverso “la proprietà e la ricchezza della lingua,(…)la prosodia e la ritmica”(11). Dunque né l’arte libera si oppone al lavoro mercenario, né l’arte libera e le attività mercenarie costituiscono due orizzonti assolutamente indifferenti l’uno rispetto all’altro. E allora come, per quanto riguarda l’ agere della natura, il meccanicismo delle cause e degli effetti, secondo il quale funziona la natura in quanto naturata, è totalmente al servizio della libera produttività del phyein della natura naturans, così nell’ orizzonte delle belle arti, il determinato esplicarsi del facere in un lavoro(che, di per se stesso, sarebbe inumano, meccanico e mercenario), si mette al servizio del giocoso libero manifestarsi dell’opus artistico. In tal guisa, il “portare alla luce (die Hervorbringung) mediante libertà(durch Freiheit)” artisticamente la bella opera ha necessariamente bisogno di servirsi di un bruto e brutto lavoro, senza tuttavia che con ciò l’arte libera si riduca ad attività mercenaria.
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2. La natura mimetica dell’arte libera Da questa articolazione emerge anche in che senso la libera arte sia mimesis della natura. Il §45 della Critica del giudizio reca programmaticamente il titolo: “L’arte bella è un’arte in quanto ha l’apparenza della natura”(12), anche se il paragrafo inizia dicendo che: “Davanti a un prodotto dell’arte bella, bisogna avere la coscienza che esso è arte e non natura”(13) E tuttavia, come diciamo che “la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte; l’arte, a sua volta, non può essere chiamata bella se non quando noi, pur essendo coscienti che essa sia arte, la riguardiamo come natura”(14). Vi è di mezzo un als ob, secondo il quale noi dobbiamo “riguardare” la bella arte “come se fosse un prodotto semplicemente della natura”. Perciò l’opera d’arte deve sembrare essere scaturita da sé come un fiore selvatico e non deve mostrarsi affatto come il prodotto di una attività, che utilizza certi mezzi per ottenere certi scopi, applicando certe regole già pronte ed attinte altrove e dall’esterno. Anche se questa condizione non può certo negare l’evidenza del fatto che l’accadimento di ciò che suscita il bello artistico non sia tout court un fenomeno naturale, fermo restando il fatto che il suo libero manifestarsi in quanto opus, si debba alla mimesis dell’energia vitale della natura natiurans stessa. Quale mimesis? Per Kant il mimeisthai costitutivo dell’arte libera non ha nulla a che fare con l’imitazione intesa come mero “scimmiottamento”. Come aveva già sostenuto Aristotele nella Poetica, la mimesis è un’attività esclusiva dell’uomo e non consiste affatto nella copia, riproduzione, rappresentazione più o meno conforme di un ente dato. Nello stesso modo, per Kant, l’arte – quale opera del genio – non ha nulla a che vedere con la riproduzione in immagine degli enti della natura in quanto naturata. La mimesis artistica è da ricondursi a quella che già Aristotele aveva indicato come la sua origine: l’azione drammatica dell’attore del teatro tragico(ypokrités), il quale era colui che agiva portando il prosopon, la maschera. Il mimeisthai proprio dell’arte ha a che fare con il mascherarsi proprio dell’attore in quanto ypokrités, nome il cui significato originario – che ritroviamo nel verbo ypokrinomai – indicava l’interpretazione di un oracolo o di un sogno. Anche la sacerdotessa di Delfi agisce, a suo modo, ipocritamente. Il suo compito, infatti, non consisteva affatto nell’ atopon dello svelamento del significato degli assolutamente indecifrabili segnali divini. Il suo compito era quello di corrispondere all’immostrabile manifestarsi del dio, cercando di mediare tra l’orizzonte umano e l’assoluta trascendenza divina, attraverso la costruzione di espressioni enigmatiche, intrecciando cioè parole secondo sequenze, in cui, di solito, coppie di determinazioni contraddittorie sono congiunte diversamente rispetto a quanto ci si aspetterebbe(15) e in modo tale da far sì che le proposizioni che ne derivano siano solo apparentemente confrontabili con una realtà possibile (sulla base di una concezione della verità quale conformità-adaequatio). L’ ypokrinesthai di un sogno, a sua volta, non si misura affatto a partire dal risultato – anch’esso impossibile e ineseguibile - del riprodurre da svegli, più o meno fedelmente, quanto è stato sognato nel sonno. Come scrive Dante, nel XXXIII canto del Paradiso,” dopo il sogno, la passione impressa/ rimane, e l’altro a la mente non riede;(vv. 59-60). L’”altro”, che non ritorna più alla mente, ovvero il contenuto concreto del sogno, al risveglio, è perfectum, nel senso che si è definitivamente chiuso e compiuto in se stesso, in modo che qualsiasi testimonianza e racconto da svegli della “passione” rimasta impressa “dopo”, dice 38 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
qualcosa di assolutamente altro rispetto a ciò che intenderebbe rammemorare. E la “traduzione”, in cui consiste il racconto diurno, non fa che testimoniare l’irrevocabilità del fatto che quanto è accaduto la notte nel sogno non è comunicabile, perché è svanito, non c’è più e appunto “a la mente non riede”. In definitiva, tali forme di ypokrinesthai hanno in comune con l’agire dell’attore tragico il fatto di rendere qui presente l’irriducibile assenza e l’abissale distanza di ciò cui esse alludono(e cui possono solo alludere quali irriducibili “espressioni”(16). Questa era l’originaria funzione della maschera, senza la quale l’attore non era tale, cioè, in tal senso, un “ipocrita”. Di sicuro essa non comportava né lo “scimmiottare” la sembianza propria di un altro, né esauriva la sua funzione nella mera dissimulazione/contraffazione della sembianza dell’umano recitante. Grazie alla maschera, l’attore portava qui di stanza l’irriducibile assenza e inattingibilità di colui che non c’è, dell’assolutamente Estraneo, nel manifestarsi e nel preservarsi della sua incolmabile distanza. E’ per questo che l’attore tragico portava la maschera in un agere, sempre nel movimento di un drama e magari danzando… In tal senso, per Kant, l’opera del genio – nel suo essere prodotta in un facere(il quale mette all’opera anche il lavoro sporco di un’attività che, di per sé, sarebbe meccanica) essendo inequivocabilmente libera e bella arte, “ha l’apparenza” della natura, appunto perché è mimesis, nel senso indicato, della infinita e ineffabile energia della natura naturans.
3.La bellezza dell’ arte sta nella “finalità senza scopo” Afferma Kant: in quanto mimesis, l’’arte libera non può essere chiamata “bella arte” se noi non la contempliamo come natura. Ma quando il prodotto dell’arte ha l’apparenza della natura? “Quando sia stata puntualmente ottenuta la conformità alle regole secondo cui soltanto essa è ciò che deve essere”(17). Tutto ciò, però, deve rendersi visibile senza sforzo alcuno, “senza che, per alcuna traccia, si veda che l’artista ebbe la regola sotto gli occhi e le facoltà del suo animo furono inceppate”(18) Ecco il motivo per cui la bella arte non può che essere arte del genio, appunto perché il genio sta in quel “dono naturale(Naturgabe)”, che nasce dalla “disposizione innata dell’animo(ingenium) per mezzo della quale la natura dà la regola all’arte”.(19) Attraverso il genio, è la natura che dà la regola all’arte, affinché quest’ultima sia “bella arte” tale da essere “riguardata” come natura, dal momento che la regola del bello artistico deve di necessità provenire dalla natura stessa. E la bellezza naturale ha, in primis, la prerogativa di suscitare “un interesse immediato” (20) – il quale si dissolve “non appena ci accorgiamo di essere stati ingannati e che si tratta soltanto dell’arte”(21) - per quanto, a sua volta, la bellezza naturale possa essere superata da quella artistica “per ciò che riguarda la forma”(22). Qual è allora la regola di bellezza che la natura, attraverso l’opera del genio, fornisce all’arte? La definizione la troviamo al termine dell’ Analitica del bello: “La bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo”(23). 39 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Nell’apparire sub specie artis, innanzitutto la bellezza non può che stare in una forma. E la sua forma è quella della “finalità di un oggetto(Zweckmässigkeit eines Gegenstandes)”, la quale finalità, però, appare artisticamente “senza”, a prescindere dalla rappresentabilità di uno scopo(Zweck). La forma della Schönheit riposa in una finalità senza fine. Nella nota a pie’ di pagina relativa a questa definizione, Kant anticipa una possibile obiezione che potrebbe essere rivolta alla sua tesi. Gli scavi archeologici spesso portano alla luce oggetti che presentano dei fori, i quali sembrerebbero ipoteticamente rinviare “ad una specie di manico”(24), in modo da mostrare una finalità, di cui però si ignora quale sia determinatamente lo scopo. Eppure non è detto che questi manufatti – il cui scopo non è precisamente determinabile - siano opere d’arte e non semplici oggetti o utensili. L’argomentare kantiano è incentrato sull’esempio del fiore. Perché si dice che il tulipano sia bello? “Perché nella sua percezione si nota una certa finalità, che(…) non si riferisce ad alcuno scopo”(25) In questo caso l’assenza di scopo non sta – come nel caso del reperto archeologico – nel non poter disporre di elementi tali da attribuire all’oggetto uno scopo determinato, ferma restando, però, la possibilità di rappresentare un certo scopo. L’assenza di scopo, per quanto riguarda questo tipo di oggetti utili, indica il semplice fatto che attualmente non si è in grado di determinarlo, in modo che nulla esclude, però, la possibilità di giungere a farlo, ferma restando la presupposizione che uno scopo determinato ci sia, per quanto attualmente esso non appaia evidente. Qualora un successivo scavo portasse al rinvenimento di un altro resto - magari un manico, perfettamente combaciante con i fori di quel reperto - ecco che lo scopo determinato verrebbe ad essere perfettamente rappresentabile. A nessuno, invece, verrebbe mai in mente di andare alla ricerca di quale possa essere lo scopo determinato per cui naturalmente fiorisce il tulipano, il quale, inoltre, a differenza del reperto archeologico, evidentemente non manca davvero di nulla, è in se stesso perfetto. Tutto, nel tulipano – chiosa Derrida - “sembra finalizzato, come se dovesse corrispondere ad un piano(…) e tuttavia, a questa intenzione dello scopo manca l’estremità”(26) E’ come se la natura avesse messo in campo tutta la sua organizzazione finalistica e il suo movimento orientato, per sparare a salve, intenzionata a priori a mancare qualsiasi obiettivo anche puramente possibile. Potremmo anche dire che il finalismo della natura, in tal caso, si manifesta in un energein senza entelécheia, ossia in una vis manifestante - in cui la totalità appare sì orientata verso un télos - la quale non mira né giunge a possedersi e ad acquietarsi in alcuno scopo determinato. E allora, dal momento che non vi è bellezza artistica se non nella forma e se la regola del bello artistico deve essere ricavata dalla natura, grazie alla mimesis del genio, tale “regola” non può che essere tratta dall’organizzarsi e dal movimento finalistici della natura stessa, a prescindere dai quali non si darebbe forma alcuna. Ma il “piacere disinteressato”(Uninteressierten Wohlgefallen), che è inequivocabilmente indice dell’apparire del bello artistico, scaturisce solo nella misura in cui tutto questo organizzarsi teleologico, alla fine, necessariamente manca qualsiasi scopo ed obiettivo per rimanere un finalismo “senza” scopi. Va posto in rilievo che tutto ciò avviene senza comportare alcuna parzialità, né alcuna privazione in ciò che bellamente appare. Se lo spuntare del tulipano presuppone l’originario ritrarsi da ogni scopo ed obiettivo da parte dell’organizzazione finalistica della natura, ciò non implica alcuna reale mancanza nella forma del tulipano stesso, il quale appare così com’è, nella 40 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
sua perfezione. Come perfetto – nel senso di non mancante di nulla – è il Werk della libera arte bella, a differenza di quanto accade per qualsiasi altro manufatto e oggetto, dove la mancata evidenza di uno scopo determinato – nella persuasione, nella fede/speranza(elpis), tuttavia, che uno scopo sia rappresentabile - si accompagnerebbe sempre e necessariamente alla visibile incompiutezza e incompletezza dell’oggetto stesso. In questa radicale sospensione originaria di ogni entelécheia e di ogni scopo determinato viene ad essere ribadita l’inutilità dell’ opera d’arte e viene ad essere rimarcata l’assolutamente irriducibile distinzione dell’opus dell’ arte bella rispetto a qualsiasi altro prodotto del fare umano.(27)
4. L’inutile fare del genio Con queste riflessioni, Kant prende nettamente le distanze da ogni concezione demiurgico-tecnica dell’arte propria della tradizione di pensiero occidentale. Il demiourgós letteralmente è colui che rende pubblicamente visibile la propria opera, a partire dalla chora pre-esistente e contemplando le eterne idee, in maniera tale che l’opera manifesta sia conforme a quanto pre-visto quale archetipo e paradigma. Il poietés, a sua volta, grecamente può rendere visibile la sua opera solo attraverso l’esercizio di una téchne, che Aristotele intende, all’interno della sua essenziale filosofia del télos, quale τελείωσις τού εἴδου̣ (teleíosis toy eidoys), ovvero compimento/perfezione della forma, in una prospettiva generale secondo la quale tutto tende ad aver fine(in tutti i significati principali della parola) nel perfetto possedersi della sua propria forma(28). A sua volta la forma, prima di essere compiutamente posseduta dalla particolare entelécheia del determinato prodotto artistico, è anticipata e consaputa idealmente nella sua pura universalità. All’interno di tale habitus teoretico-finalistico – si ricordi che ogni téchne, per Aristotele, non si riduce ad un mero eseguire, ma implica un theorein accompagnantesi al calcolo di quali mezzi siano in grado di realizzare il fine pre-visto – il fare poietico trova la teleiosis della sua forma in altro rispetto al fare stesso. E’ noto, infatti, che la poiesis si differenzia dalla praxis, proprio perché la téchne, senza la quale nessun poiein renderebbe visibile alcunché, implica un movimento “da altro ad altro”, mentre la praxis è destinata a trovare il proprio fine in se stessa. Perciò, un tale strutturarsi originario delle forme del fare non solo implica che l’orientamento teleologico, il quale avvolge e domina ogni téchne, debba necessariamente giungere a possedersi nella determinatezza del proprio scopo. Ma implica altresì che tale possedersi si realizzi nel manifestare qualcosa che è altro rispetto alla téchne e al suo movimento finalistico, ovvero in un prodotto. Questo risultato, a sua volta, da un lato è il rappresentarsi attuale e finale di ciò che è stato anticipatamente pre-visto come pura forma nel theorein della mente del poietés. Dall’altro lato, nella sua effettuale alterità di cosa determinata empiricamente percepibile nel suo phainomenon, il prodotto non è mai la mera ripetizione “di ciò che era presente al suo inizio nell’idea del lavoratore”(29), per citare Marx, che, nel Capitale, utilizza tale 41 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
paradigma del fare tecnico-poietico all’interno della sua teoria del lavoro come autoproduzione dell’uomo essenzialmente Arbeiter e produzione del mondo come mondo umano. In che senso? Ciò che è presente “all’inizio”(inteso quale primo tempo) come idea nella mente del lavoratore – il quale proprio in questa visione anticipante, per Marx, umanamente si distingue dalla migliore delle api – è, infatti, il puro eidos, la pura forma universale, che il fare, attraverso la téchne, realizza specificamente nella particolarità di un certo ente determinato, che appare esternamente altro rispetto al movimento del fare e che, quindi, non è(non è più), in quanto tale, pura forma universale(30), bensì cosa formata, synolon di materia e forma. La concezione kantiana dell’arte infrange questa tradizione ermeneutica della struttura tecnico-poietica del fare, la quale - basata sulla sintesi di elementi platonici ed elementi aristotelici - perdura almeno sino al pensiero dialettico marxiano(e continua a persistere a livello di senso comune). E lo fa proprio enfatizzando l’inutilità della libera arte, la cui bellezza sta nella “finalità senza scopo”. Di nuovo, però, ciò non conduce affatto a concludere che Kant opponga astrattamente la bella arte, nella sua inutilità di puro gioco, al finalismo intenzionato ad uno scopo determinato, che caratterizza le forme tecniche del fare. Se è vero che l’arte libera, per rendere visibile il suo opus, deve servirsi di un lavoro, subordinandolo all’ umana libertà, è evidente che ad essere sussunta(nel modo riflettente proprio dell’orizzonte del giudizio estetico) all’interno della libertà dell’arte è anche la téchne. Solo che, in tale peculiare sussunzione, che avviene in ogni artistica messa in opera, la struttura originaria del fare tecnico, ben lungi dall’essere negata – e quindi sostituita da una struttura alternativa - viene piuttosto a perdere ogni autonoma, indipendente ed esteriore normatività, nel dissolversi del suo imperium. Da un lato, infatti, il carattere di mimesis dell’arte, attraverso il genio, libera l’opus da ogni vincolo di conformità-adaequatio del prodotto rispetto all’anticipazione ideale di una forma determinante già data in altra sede. E lo fa senza eliminare, con ciò, qualsivoglia regola dalla produzione artistica. Ciò impedisce di concepire l’ opus come riproduzione, in un “dopo”, ovvero come rappresentazione – peraltro sempre inadeguata, giacché la determinata particolarità ontica del prodotto, in quanto tale, non è l’universalità della pura forma anticipante prevista in mente hominis – di un modello ideale dato “prima”, ossia in uno spazio/tempo, che è e resta altro rispetto a quello dell’apparire fenomenico del prodotto. Rientra, infatti, nella costituzione stessa della mimesis – come si è anticipato – l’originaria, incolmabile e inviolabile distanza tra quanto si manifesta grazie al mimeisthai del genio e l’ ineffabile abisso dell’inattingibile e invisibile Inizio, da cui ogni gesto artistico proviene e a cui misteriosamente allude. A tale proposito Kant non avrebbe potuto essere più chiaro: Difatti, ogni arte presuppone delle regole, sul fondamento delle quali ogni produzione che debba essere chiamata artistica, è rappresentata come possibile. Ma il concetto dell’arte bella non permette che il giudizio sulla bellezza del suo prodotto sia derivato da qualche regola che abbia a fondamento un concetto, il quale determini come il prodotto sia possibile. Del resto l’arte bella non può trovare da se 42 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
stessa la regola secondo cui deve realizzare i suoi prodotti. E poiché senza una regola anteriore un prodotto non può mai chiamarsi arte, bisogna che la natura dia la regola all’arte nel soggetto(…), vale a dire l’arte bella è possibile soltanto come prodotto del genio. Da ciò si evince quanto segue: 1)il genio è il talento di produrre ciò di cui non si può dare una regola determinata,(…) per conseguenza l’originalità è la sua prima proprietà. 2)(…) i suoi prodotti debbono essere insieme modelli, cioè esemplari(…) vale a dire come misura e regola del giudizio.3) Il genio stesso non può mostrare scientificamente come compie la sua produzione, ma dare la regola in quanto natura(…).4)La natura mediante il genio non dà la regola alla scienza, ma all’arte e a questa soltanto in quanto dev’essere arte bella. (31)
D’altro canto, se la finalità senza scopo, che caratterizza la bellezza artistica, non può prescindere dal geniale servirsi della téchne (e quindi dall’impiego di un certo lavoro utile), nondimeno l’alterità del prodotto cui la téchne, in quanto “movimento da altro ad altro” dà luogo, non è che venga “tolta”, né logicamente negata. Bensì tale alterità viene ad essere ab origine sospesa, ovvero si dà nella sua radicale impossibilità di sussistere determinatamente ed obiettivamente come tale. Bisogna pensare sino in fondo che il “senza” - che è contenuto nell’espressione kantiana “finalità senza scopo” - non implica né una reale privazione, né l’assenza di ciò che dovrebbe essere presente e invece non lo è, appunto perché tale “senza” è proprio ciò che connota l’intrinseca bellezza di ciò che artisticamente appare! E il bello artistico, per Kant, in quanto tale sfugge ad ogni concettualizzazione e ad ogni calcolo e significazione propri del logos razionale, in modo che il bello e il piacere che esso comporta non siano mai l’esito di una valutazione e di un calcolo, né siano determinati dall’oggetto bello in quanto tale. E allora è come se, nell’arte, l’ energein della tensione finalistica, nel suo scaricarsi senza scopo, subisse un contraccolpo in se stesso, in modo tale che lo stesso movimento della téchne, che si è posto al suo servizio, rimbalzi e rinculi su di sé, in una sorta di contraccolpo, manifestando la sua azione come se(als ob) fosse quella di una praxis(nell’accezione aristotelica del termine)! Rispetto alla concezione aristotelica esposta nell’ Etica a Nicomaco – che concorre nella determinazione di quella tradizione del fare che ritroviamo ancora in Marx – la concezione kantiana della mimesis propria della libera arte bella è come se abolisse la differenza tra la téchne e la praxis in un fare finalistico sì, ma senza scopo – quello proprio del genio – che si realizza in un ergon, il quale, ek-sistendo come puro agire, non termina in alcun risultato determinato e non si realizza affatto nel dar luogo ad un oggetto esterno rispetto al suo energein. In questo senso, l’opus, il Werk dell’arte del bello, è ergon nel significato letterale del termine greco, che non fa distinzione alcuna tra attività e opera. E lo è in un senso che potremmo definire addirittura performativo. Ne consegue che, nell’impiego artistico del lavoro della téchne, viene meno anche la “fede” propria dell’uomo occidentale della tecnica, ovvero quella speranza/persuasione, la quale fa sì che chiunque si impegni in una delle forme del fare confidi di ritrovare, quale scopo determinatamente realizzato, nel prodotto – astrattamente separato dalla concreta unità dell’ ergon - la medesima forma idealmente anticipata nel “prima” del progetto. 43 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Per Kant questa circostanza – in cui “l’idea dell’effetto” è “condizione della possibilità dell’effetto stesso”(32) – concerne solo l’orizzonte logico-concettuale in cui si esercita il “giudizio determinante” e non l’orizzonte “ riflettente”, che invece riguarda il giudizio sull’ergon artistico. E’ dunque l’ ergon - solo l’ ergon, nulla al di fuori dell’ ergon, nulla astrattamente separato dall’ergon - l’ethos del genio, il cui inutile opus vale “per gli altri(…)come misura e regola del giudizio”(33)
5. Vaga pulchritudo La radicale epoché kantiana della tradizione di origine platonico-aristotelica del fare è confermata dalla distinzione, elaborata nella Critica del giudizio, tra i due principali tipi di bellezza: la “bellezza libera(freie Schönheit)” detta anche pulchritudo vaga e la “bellezza meramente aderente(die bloss anhängende Schönheit)” detta anche pulchritudo adhaerens. In che cosa esse si distinguono? “La prima non presuppone alcun concetto di ciò che l’oggetto deve essere; la seconda presuppone questo concetto”(34). La bellezza libera e vaga rinvia al puro evento dell’ ergon artistico in quanto tale, nella misura in cui esso “non significa nulla, non rappresenta nulla, nessun oggetto sotto un concetto determinato”(35) E nel giudizio di essa – che è “giudizio di gusto puro(das Geschmacksurteil rein)”(36) – “non è presupposto alcun concetto di scopo, cui debba rispondere il molteplice dell’oggetto dato e quindi ciò che l’oggetto deve rappresentare”(37). La bellezza aderente, invece, è una bellezza condizionata(bedingte Schönheit), perché “presuppone un concetto di scopo, che determina ciò che la cosa dev’essere, e quindi un concetto della sua perfezione”(38) La bellezza non libera è condizionata da un certo concetto di perfezione della cosa bella in quanto cosa determinata e rappresentabile e perciò aderisce sempre ad un qualcosa così e così determinato quale “oggetto(Object e Gegenstand)”. Da ciò si ricava che un oggetto, qualsiasi oggetto utile, può essere caratterizzato solo dalla bellezza aderente, mentre la bellezza libera e vaga non si riferisce ad alcun oggetto determinato secondo un certo scopo e un certo concetto e rappresentabile come tale, ma rinvia al suo stesso puro evento nell’ ergon artistico. Le parole di Kant al riguardo sono estremamente chiare: la bellezza aderente “è attribuita ad oggetti(Objecten), i quali stanno sotto il concetto di uno scopo particolare”, mentre le bellezze libere sono “per se stanti(für sich bestehende)”, in quanto “non convengono ad un oggetto(Gegenstande) determinato secondo concetti in vista del suo scopo”(39) L’ergon artistico, perciò, è bello per se stesso e in quanto tale non ha bisogno di nulla: non ha bisogno di un demiurgo, né di un oggetto(Object e Gegenstand)e non ha bisogno nemmeno di alcun soggetto(individualmente inteso) guardante, interpretante, significante. Rispetto al theorein e al sapere di qualsiasi spettatore o fruitore – ma anche rispetto a qualsiasi artefice inteso quale soggetto della téchne, il cui movimento “da altro ad altro” produce il risultato determinato - l’ opus quale ergon permane intatto nella sua pura ed intangibile aseità(40). 44 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
A tale proposito, Kant sottolinea come la bellezza vaga dell’ ergon artistico sfugga ad ogni osservazione, indagine e spiegazione scientifica. Il botanico – l’unico il quale sa “che cosa debba essere un fiore”(41) - “ vede nel fiore l’organo riproduttore della pianta”(42), ma non spetta a lui dire che il fiore è bello, perlomeno non nel senso della pulchritudo vaga. Lo scienziato e chiunque eserciti la ratio logico-concettuale manifesta il che cosa dell’ente – di cui riconosce lo scopo determinato e l’utilità – mentre la bellezza, in quanto libera e vaga, rinvia al puro che: non all’oggetto, non al significato, non allo scopo, bensì al puro evento. Alla pura eventualità dell’ ergon. Ha ragione Derrida nel sostenere, al proposito, che “la bellezza è sempre bella una sola volta”(43).
6. “Fantasie senza tema” La pulchritudo vaga spetta per eccellenza, secondo Kant, alla musica e, in particolar modo alla “musica senza testo(Musik ohne Text)”(44) e, ancor di più, alle “fantasie senza tema(Phantasieen ohne Thema)”(45) Anche in questo caso l’ohne, il “senza” non è da intendersi nel senso della mera privazione(steresis), ma definisce un opus - in questo caso musicale - autonomo, perfetto e quindi non mancante di nulla. Le Phantasieen ohne Thema possiamo ipotizzare indichino dei brani musicali, la cui esecuzione non è del tutto vincolata alla riproduzione di un tema perfettamente precostituito, ma comportino margini più o meno ampi di improvvisazione. Questo exemplum kantiano – introdotto per chiarire ulteriormente le valenze della bellezza libera e vaga – è particolarmente significativo, perché richiama l’attenzione sulla manifestazione di un opus artistico, rispetto al quale l’interpretazione metafisica dell’arte sulla base del paradigma tecnico(poc’anzi richiamato) è del tutto inapplicabile. Riprendiamo un attimo la struttura essenziale di questa tradizione, che abbiamo definito demiurgico-tecnica dell’opera d’arte, la quale domina il pensiero occidentale anche oltre Marx, almeno sino a The Principles of Art di R.G. Collingwood(46). L’opera è tecnicamente producibile come risultato solo se la forma che, alla fine, determina quest’ultimo, è stata dapprima anticipata, nella mente dell’artefice in quanto pura presenza ideale. Volendo usare le parole kantiane: siamo all’interno del meccanismo di una logica fondata sui nessi causa-effetto e mezzo-fine, secondo la quale “l’idea dell’effetto” è “condizione della possibilità dell’effetto stesso”. Secondo questa struttura, il mettersi in atto del movimento della téchne quale saper fare(47), viene ad implicare il dispiegarsi di due differenti momenti. Uno è il momento propriamente esecutivo – il cui movimento è decisivo nel condurre all’apparire l’opera come risultato e prodotto – il quale presuppone, però, di necessità, un altro momento più originario - che è sempre parte integrante del produrre tecnico, pur essendo distinto dal primo - quello della ricerca e della “visione” anticipante, potremmo anche dire quello della progettazione e, in termini musicali, quello della composizione.
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Come si evince dal brano del Capitale marxiano già citato e come è del tutto esplicito in Collingwood(48), questi due momenti, pur interdipendenti e inseparabili nel loro irreversibile dispiegarsi, hanno luogo in due spazi-tempi differenti. Il “prima” dell’ideazione avviene privatamente nella testa, come scrive Marx(49) e la composizione (musicale) matura a tavolino(50), mentre l’esecuzione – la quale, rispetto a questo momento, rappresenta la fase due – avviene di solito “dal vivo” a teatro, in concerto e comunque in luoghi e occasioni pubbliche. Questi due diversi momenti del produrre tecnico-poietico di solito sono irreversibilmente successivi e non avvengono mai in uno. Altro è lo spazio/tempo della composizione, altro quello dell’esecuzione. Anche la qualità di questi due momenti del produrre tecnico è incomparabile. Mentre il momento della composizione è caratterizzato dalla reversibilità dell’operare – chi lavora a tavolino non è costretto a procedere sempre avanti, ma può fermarsi, tornare indietro, correggere, riscrivere, sfruttando la dimensione temporale spazializzata di una scrittura – il momento dell’esecuzione è, invece, caratterizzato dalla ineludibile irreversibilità di un agire nel fluire lineare di un tempo non spazializzabile, che procede sempre e solo avanti. Ebbene, qual è, rispetto a ciò, la peculiarità dell’improvvisazione musicale? Essa sta nel fatto che i due distinti momenti, in cui si articola il movimento della téchne, non si esplicano separatamente l’uno dopo l’altro e l’uno fuori dall’altro – in modo che il secondo possa aver inizio solo se e quando il primo abbia terminato sino in fondo il suo compito - e non sono spazio-temporalmente e qualitativamente nettamente differenziati. Tutto avviene, invece, nella medesima unità spazio-temporale caratterizzata dall’inoppugnabile legge dell’irreversibilità. Beninteso, non è che così venga meno la distinzione in quanto tale tra la composizione e l’esecuzione. Neanche il free jazz più radicale ed estremo è mera esecuzione del tutto priva di ideazione/composizione. Il fatto è che, nell’improvvisazione – nelle Phantasieen ohne Thema come le chiama Kant – l’opus musicale viene intuito/composto nel medesimo atto spaziotemporale in cui viene eseguito. In questo modo il musicista – kantianamente il genio – non si limita ad applicare, nell’esecuzione tecnica, delle regole e un modello già determinatamente dati e attinti dall’esterno e da un “prima”: “per conseguenza, l’originalità è la sua prima proprietà”(51). Ma, poiché, per Kant, non si dà opera d’arte “senza una regola anteriore al prodotto”(52) e questa regola non può che provenire dalla natura, ecco che il genio la produce da sé col suo ingenium, attraverso la naturale “disposizione innata” delle sue facoltà. In ciò, ammette Kant, il genio può anche produrre “stravaganze”, le quali, però, divengono immediatamente “modelli ed esemplari”, che valgono come “misura e regola”. Proprio come accade in ogni improvvisazione. Quest’ultima, non avendo più separatamente “prima” e alle spalle il momento e il modello della composizione a tavolino da dover successivamente manifestare/adeguare esecutivamente, si sviluppa irreversibilmente in modo imprevedibile, in un perpetuo infuturarsi, essendo sempre proiettata, quasi perennemente in volo – come in una danza - verso un futuro, che è sempre di là da venire.
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Ciò che viene così ad essere definitivamente decostruito è proprio il paradigma classico del fare della téchne, il quale esige l’insormontabilità della differenza e dell’ordine gerarchico tra l’ideazione della forma-eidos allo stato puro e la produzione effettuale di quell’alterità oggettivata che è il prodotto, la cui ragion d’essere(eidos) e la cui determinata conformazione visibile(morphé) sono condizionate e delimitate, prima e da fuori, da un’idea precostituitasi nella mente dell’artefice. Tutto ciò, tra l’altro, avviene all’interno di un finalismo dotato di scopo determinato, il quale, secondo Kant, riguarda, però, solo la rappresentazione concettuale e la significabilità dei fenomeni meccanici della natura naturata e degli oggetti utili, ma non ha nulla a che fare con l’opus dell’arte libera, né con la sua vaghissima pulchritudo.
7. L’ergon come dono impossibile Il riferimento kantiano alle Phantasieen ohne Thema e quindi, se è plausibile la nostra ipotesi, alla pratica dell’improvvisazione viene a confermare ulteriormente la dissoluzione di ogni oggettività(Object und Gegenstand) nell’opus artistico – che dunque è ergon nel senso più puro – e a ribadire il senso della “finalità senza scopo”, che caratterizza l’arte libera e inutile. Va ancora una volta precisato, a scanso di equivoci, che tale inutilità non vale come l’opposto dell’utilità, così come l’esercizio della téchne non è da intendersi come l’opposto del fare artistico del genio, così come la bellezza aderente che riguarda il ‘che cosa’ degli enti rappresentabili concettualmente e oggetto di considerazione scientifica, non è affatto l’opposto della bellezza vaga, la quale promana dal ‘che’ del puro evento dell’ ergon. In tale prospettiva, Kant, in fondo, fa proprio un motivo platonico estraneo alla dominante tradizione tecnico-demiurgica del fare(ed estraneo anche al Platone metafisico caricaturalmente interpretato da Heidegger quale principale responsabile del “primo inizio” onto-teo-logico del filosofare). Nello Ione, infatti, Platone scrive: Così la Musa rende i poeti ispirati e attraverso questi ispirati si forma una lunga catena di altri che sono invasati dal dio.(…) E come le baccanti, allorché sono invasate, attingono ai fiumi miele e latte e invece allorché sono in senno non lo sanno fare, così si comporta anche l’animo dei poeti melici(…). Infatti, proprio i poeti ci dicono che attingono i loro canti da fonti che versano miele e da giardini e da boschetti, che sono sacri alle Muse(…) Incapace di poetare è il poeta, se prima non sia ispirato dal dio e non sia fuori di senno, e se la sua mente non sia interamente rapita. Finché rimane in possesso delle sue facoltà, nessun uomo sa poetare o vaticinare. (...)
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In effetti non per scienza compongono i loro carmi, ma per una forza divina (...). E il dio toglie loro la mente e si serve di loro come di ministri, (...) affinché noi ascoltandoli, possiamo comprendere che non sono essi che dicono cose tanto mirabili, dal momento che la loro mente non è in loro, ma che è il dio stesso che le dice e parla a noi attraverso loro.(Platone, Ione, 533e – 534 d)
La “divina follia”, di cui sta parlando Platone, non ha nulla a che fare con quanto ribolle nella parte irrazionale dell’anima dei mortali, le cui manifestazioni andrebbero senz’altro bandite da ogni polis, com’è detto nel X libro della Repubblica. E’ invece un puro dono, che viene a cadere gratuitamente su un mortale, provenendo da un non-luogo intemporale infinitamente distante e inaccessibile rispetto al mondo degli uomini. E’ un dono, che l’uomo - il quale non può che saggiare e sperimentare, provando e riprovando, quanto la téchne di cui è esperto gli consente di prevedere e di eseguire – spera, auspica, attende, invocando le Muse, ma non può né garantire da sé e per sé, né esigere. Questo non è affatto nel suo umano potere. E’ un dono che il poietés non è in grado nemmeno di riconoscere come tale, nell’attimo in cui lo riceve, appunto perché egli è stato momentaneamente privato del suo senno dalla possessione divina. E’, quindi, un dono radicalmente im-possibile, ma un impossibile, il quale, nell’attimo in cui ac-cade, impegna il ricevente in una responsabilità, alla quale egli non può in alcun modo sottrarsi. E’ un dono che, come sottolinea Derrida(53), costringe il destinatario a rispondere(54) e corrispondere. Come? Nel mimeisthai dell’artista-genio, il quale evidentemente non può essere l’imitazione nell’accezione più comune(e non “ipocrita”) del termine, dal momento che, a disposizione del poietés folle e invasato, non vi è alcunché di dato. “Prima” e separatamente rispetto all’ aver luogo dell’ergon, infatti, non è stata elaborata alcuna idea pre-esistente, né è disponibile la pre-visione di alcuna idea anticipante(la forma del prodotto finale). Tra il momento della divina possessione, in cui l’impossibile accade, e l’esecuzione dell’ ergon attraverso la téchne, da parte dell’artista ispirato e assennato, non trascorre alcun tempo cronico. Insomma non vi è né un “prima” né un “dopo”. Non dobbiamo pensare che il subitaneo irrompere della “divina follia” avvenga in un tempo altro rispetto a quello del facere artistico, proprio perché l’evento del dono divino non ha tempo, né accade in un istante del tempo-chronos. Così come non vi è alterità, né opposizione tra il momento in cui la “divina follia” colpisce il poietés involandogli il noys e quello in cui l’artista assennato esercita la sua téchne, mettendo in opera l’opus. E’ noto il passo del Timeo in cui Platone scrive: Solo a chi è nel pieno possesso della sua intelligenza spetta afferrare col pensiero e ricordare le cose dette(...) sotto l'influsso della natura divina(...) e l'analizzare col ragionamento tutte le immagini apparse, per ricercare che cosa esse significhino e per chi esse comportino un male o un bene, futuro, passato o presente che sia. A chi invece è fuori di sé, e persiste in quello stato, è precluso giudicare le immagini apparse e le parole da lui stesso pronunciate.(Platone, Timeo, 72a)
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Ma il momento in cui il poeta è “fuori di sé” e perciò incapace di giudizio a proposito delle parole e delle immagini di cui è inconsapevole medium e il momento in cui l’artefice “afferra col pensiero”, rammemora e cerca di interpretare/imitare la traccia che il sogno divino, dileguatosi, ha lasciato in lui, non sono affatto due momenti diversi e crono-logicamente successivi. Essi, in realtà, accadono nell’unità del medesimo symballesthai, costituiscono propriamente un symbolon, un uno-di-due e insieme un due che è uno, come dice Platone nel Simposio a proposito dell’essenziale “parentela” tra il gran demone di Eros e il symbolon. E tutto ciò ci riporta di nuovo alla Critica del giudizio, laddove si fa riferimento alla “musica senza testo(Musik ohne Text)” e alle Phantasieen ohne Thema quali manifestazioni artistico-poietiche, in cui l’opus viene intuito e composto nell’unico e medesimo atto dell’esecuzione, senza che chi esercita la téchne si limiti ad applicare regole e modelli già dati e attinti dall’esterno, ma in modo che la regola - che pure deve esservi - possa provenire solo dalla natura quale natura naturans. E quindi scaturisca da sé nell’artista genialmente ispirato, facendosi in progress modello ed esemplare, nel manifestarsi irreversibile di un ergon imprevedibilmente destinato al perpetuo infuturarsi, in quanto proiettato verso un futuro sempre di là da venire.
8. Una poiesis improduttiva: l’arte non sta nell’opera fabbricata Abbiamo visto come, per Kant, l’opus sta in un facere, il quale, nel suo manifestarsi “secondo libertà(durch Freiheit)”, non si compie, né “termina” in un risultato(Wirkung). Perciò l’ergon artistico sta nella prassi del Genio, una praxis, la quale tuttavia non si differenzia affatto dalla poiesis(come insegna il paradigma aristotelico), nella misura in cui quest’ultima porta all’apparire un prodotto che è altro rispetto al movimento del facere e la quale non è nemmeno del tutto indifferente rispetto al poiein tecnico, appunto perché l’intrascendibile orizzonte prassistico proprio del facere del Genio sussume (in modo non determinante), nel proprio porsi in opera, lo stesso poiein che si affida alla téchne e richiede un lavoro produttivo. In questo modo, solo in questo modo, viene ad essere salvaguardata la “finalità senza scopo”, che caratterizza la peculiare forma della bellezza artistica quale pulchritudo “libera e vaga” e quindi anche il fatto che noi dobbiamo “riguardare” la bella arte “come se” fosse un prodotto della natura. Solo in questo modo, infatti, l’arte, in quanto Werk del Genio, può trarre la regola di cui necessita dal finalismo della natura naturans stessa inteso quale energein senza entelécheia. L’arte, dunque, sta nella prassi del Genio, il cui facere accade nel drama di un mimeisthai, che è analogo all’agire drammaticamente “ipocrita” dell’attore tragico dotato di maschera(prosopon). Tutto ciò implica che l’opus dell’arte bella non sia identificabile ad alcun prodotto del fare. Se così fosse, l’arte bella sarebbe una mera attività utile, ovvero nient’altro che “arte mercenaria(Lohnkunst)” attraente “soltanto per il risultato(per esempio la ricompensa) che promette”(55) e tale da rendere l’uomo simile ad un’ape operaia e non puro gioco piacevole in se stesso, quale essa kantianamente è. 49 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
La libera e inutile arte del bello, tuttavia, in quanto tale non esclude, né respinge da sé l’arte mercenaria e il suo lavoro avvilente ma utile, né tantomeno si mantiene in una condizione di indifferente immunitas rispetto alla produzione delle attività tecniche. L’orizzonte artistico, infatti, avvolge, in una sorta di periéchein, sussume e mette in opera la téchne e le indispensabili capacità teoretico-produttive, senza che il poiein, che vi è implicato, miri a “terminare” e a compiersi nel risultato di un prodotto capace di sussistere esternamente nella sua alterità rispetto al fare e al movimento della téchne stessa. Kantianamente quanto appare come Object und Gegenstand potrebbe mostrare solo una “bellezza aderente”, la quale non ha nulla di artistico ed è una “bellezza condizionata(bedingte Schönheit)”, in quanto, nel suo aderire sempre ad un qualcosa così e così determinato quale risultato-oggetto, “presuppone un concetto di scopo, che determina ciò che la cosa dev’essere, e quindi un concetto della sua perfezione”(56) La bellezza libera, invece – che non è affatto l’opposto della bellezza aderente, ma è assolutamente “per se stante” - non sta mai in alcun oggetto determinato secondo un certo scopo e un certo concetto, ma rinvia solo al puro evento dell’ ergon artistico nella sua finalità senza scopo e nel suo perpetuamente infuturantesi mettersi in opera. Con ciò il gesto e la prassi del Genio kantiano, nella radicale sospensione di ogni proairesis, vengono a identificarsi ad una sorta di poiesis improduttiva, nella quale la téchne non conduce all’apparire, come risultato, ciò che è stato pre-figurato altrove e nella quale il fare non è destinato a rappresentare-riprodurre – sempre peraltro inadeguatamente in un particolare ente sensibile o in un certo fenomeno empiricamente dato e destinato a permanere nella sua datità, ciò che “prima” si era reso visibile in mente hominis quale universale e pura formalità. L’opus quale ergon accade radicalmente sempre e solo una volta sola! La profonda inutilità dell’arte, per Kant, consiste allora nel fatto che essa non sta propriamente né nel risultato e nel prodotto della téchne di cui essa si serve, né nel fare tecnico stesso che produce l’oggetto, né nello sguardo dello spettatore o fruitore che, interpretando e significando quanto esteticamente esperisce, fa del puramente possibile “coefficiente d’opera” un quadro(come dirà Marcel Duchamp(57)). L’inutilità dell’arte e la sua vaga pulchritudo, che è fonte di puro piacere universalizzabile, stanno nel fatto che essa si colloca in un inobiettivabile e inafferrabile Zwischen, “tra” il fare dell’artefice, la datità del prodotto e l’interpretare significante del fruitore, ovvero resta sospesa in un incalcolabile e non concettualizzabile “tra”: tra il lavoro di colui che idealmente pre-vede, progetta, compone e si serve della téchne; ciò che determinatamente appare quale risultato del produrre tecnico e l’inevitabile significare del “testimone oculare”(come lo chiama Duchamp)(58). Topologicamente e rispetto a quanto il contemporaneo continua a mostrare, nei suoi erga, circa la natura dell’arte, la riflessione kantiana appare, per certi decisivi aspetti, più feconda di quella hegeliana e ben più avanzata di quella di Heidegger (59), la quale rimane vincolata alla riduzione e all’identificazione dell’ ergon artistico alla “cosa fabbricata”, al prodotto, al risultato, al “quadro” insomma(60). Vale a dire a ciò - Object 50 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
und Gegenstand - che è utile, ha valore di scambio e rientra perfettamente nella logica e nei calcoli dell’ homo aeconomicus. Così Marcel Duchamp disse, nel 1970, ad Otto Hahn: In pittura siamo rimasti al culto dell’originale. E’ un’accettazione dell’idea di distanza nel tempo: come i francobolli, che hanno un valore solo per il fatto che sono stati stampati nel 1860 e che li si guarda nel 1966. E’ questo che dà valore. C’è ipocrisia nel fatto di possedere un’opera d’arte. Chi acquista un Van Gogh è per dire: “Ho un Van Gogh”, il valore è nel fatto di possedere, e non nel valore profondo. Allo stesso modo di chi crede di acquistare un Holbein per il suo valore vero: ma sono il telaio o la tela o il legno che costano caro, perché hanno cinquecento anni. (61) _____________________________ Note 1 I. Kant, Kritik der Urteilskraft(1790), ed. it. Critica del giudizio, trad. di A.Gargiulo(riv. da V.Verra), Laterza, Roma-Bari 1997, p. 283 (2) ivi (3) ivi, p. 285 (4) ivi (5) ivi (6) ivi, p. 415 (7) ivi (8) ivi (9) ivi, p. 285 (10) ivi (11) ivi (12) ivi, p. 289 (13 )ivi (14) ivi (15) Scrive G.Colli: “l’enigma si presenta come l’oscura sorgente della dialettica(…)L’enigma è designato come próblema(…)próblema sarà un termine tecnico della dialettica, nel senso di ‘formulazione di una ricerca(…); la maggior parte degli enigmi sono formulati in modo antifatico, così come la caratteristica del próblema dialettico è la formulazione antifatica, ossia la richiesta di scegliere uno dei due corni di una contraddizione.”(G.Colli, Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano 1974, p. 48) “Nell’enigma di Omero l’intreccio di parole si presenta in una forma fatale: è la ragione astratta a disporle in antitesi incrociate. Due coppie di determinazioni contraddittorie sono congiunte inversamente a quanto ci si attenderebbe”(G.Colli, La sapienza greca, vol.I, Adelphi, Milano 1977, p. 48) (16) parlare di “espressione”, per G.Colli – nella prospettiva secondo la quale il logos nasce come “un semplice ‘discorso’ su qualcos’altro(…), la cui natura è di esprimere un qualcosa diverso da sé” significa che: “La significazione, la manifestazione traggono il loro nome da qualcosa che sta sotto. Ma questo star sotto, se viene introdotto nel contesto discorsivo, non sta più sotto. “ (Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1969, p. 21). (17)I.Kant, Op.cit. p. 291 (18) ivi (19) ivi (20) ivi, p. 275 (21) ivi (22) ivi, p. 277 51 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
(23) ivi p. 139 (24) ivi (25) ivi (26) J.Derrida, La vérité en peinture, Flammarion, Paris 1978, trad.it. La verità in pittura, Newton Compton, Roma 1981, p. 84. (27) Vi è un punto debole, nelle sottili argomentazioni dedicate da Derrida alla terza Critica kantiana nel testo La vérité en peinture, laddove - a proposito della tesi kantiana, secondo la quale la bellezza artistica, in quanto “libera”, sta nella “finalità senza scopo” - Derrida intende la libertà, di cui parla Kant, nel senso dell’essere liberi-da: “Libero vuol dire libero da ogni legame aderente, da ogni determinazione. Libero vuol dire distaccato. (…). Libero vuol dire staccato da ogni determinazione”(J.Derrida, Op.cit. p.90). Quand’anche volessimo tralasciare di addentrarci all’interno della complicata e spinosa questione della libertà in Kant e volessimo anche mettere da parte il fatto che, proprio nel §91 della Critica del giudizio, Kant parli dell’Idea della libertà come “mostrabile nell’esperienza”, l’interpretazione di Derrida della pulchritudo vaga come bellezza, che è frei, nella misura in cui si distacca – nel senso dell’esser libera-da - dalla bellezza aderente, che caratterizza ogni cosa nella sua determinatezza e utilità, ovvero come semplice privazione di determinatezza, non solo intende la libertà in termini puramente negativi, ma anche finisce per delimitare ex negativo la bellezza artistica a partire dalla pulchritudo adhaerens, che appunto aderisce ad ogni cosa in quanto essa è ente determinato e perciò perfettamente riducibile a significato e afferrabile in un concetto. In realtà la pulchritudo vaga, di cui parla Kant, è libera, in quanto è assolutamente absoluta, ovvero si mostra in origine e si manifesta esperenzialmente a prescindere da qualsiasi legame, qualsiasi relazione e qualsiasi rapporto con alcunché di dato. (28) I.Düring sottolinea come “la teleologia ha in Aristotele la stesa funzione della teoria delle idee in Platone; essa è presente nella sua filosofia dall’inizio alla fine e la domina tutta”(…)télos in lui significa che tutto aspira al suo compimento:né ‘fine’, né ‘scopo’ rende dunque interamente il senso del termine, perché il télos include anche il processo mediante il quale una cosa raggiunge la sua forma perfetta”(I. Düring, Aristoteles. Darstellung und Interpretation seines Denkens, Carl Winter – Universitätsverlag, Heidelberg 1966, trad.it. Aristotele, a cura di P.Donini, Mursia, Milano 1976, pp. 581 e 491) (29) K.Marx, DAS KAPITAL. Kritik der politischen oekonomie, Erster Band, I, O.Meissner, Hamburg 1867, trad.it. Il Capitale, Libro primo, a cura di D.Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1977, terza sezione, capitolo quinto, p. 212. (30) A questo proposito cfr. M.Donà, “Il fare perfetto. Dalla tragedia della tecnica all’esperienza dell’arte”, in M.Cacciari-M.Donà, Arte, tragedia, tecnica, Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 69-112. (31) I.Kant, Op.cit. p.293 (32) ivi, p. 415 (33) ivi, p. 293 (34) ivi, p. 127 (35) ivi (36) ivi (37) ivi (38) ivi (39) ivi (40) Sul tema dell’aseità dell’ ergon artistico cfr. R.Gasparotti, Figurazioni del possibile. Sul contemporaneo tra arte e filosofia, Cronopio, Napoli 2007 (41) I.Kant, Op.cit. p. 125 (42) ivi (43) J.Derrida, Op.cit. p. 91 (44) I.Kant, Op.cit. p.127 (45) ivi (46) Cfr. R.G. Collingwood, The Principles of Art, Oxford University Press, Oxford 1938 (47) Scrive Aristotele: “ogni téchne riguarda il fare e il ricercare con l’abilità e la teoria come possa 52 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci sia non esserci e di cui il principio è in chi fa e non in ciò che è fatto; la téchne, infatti, non riguarda le cose che sono o che si producano necessariamente, né quelle per natura, dato che queste hanno il loro principio in se stesse”(Etica Nicomachea, VI, 1140a, 13-16). (48) “La creazione di un brano ha luogo nella testa e in nessun altro luogo”(R.G.Collingwood, Op.cit., p. 134) (49). “Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera.”(K.Marx, Op.cit. , p. 212) (50) Ha scritto il compositore Xenakis: “il lavoro che fai a tavolino, disponendo le note o calcolando i tempi, avviene in un certo senso fuori dal tempo; solo la messa in opera, l’esecuzione cala nel flusso del tempo tutto questo” (I.Xenakis, in AA.VV. Xenakis, Edt, Torino 1988, p.41) (51) I.Kant, Op.cit. p. 293 (52) ivi (53) Cfr. J.Derrida, “Il giusto senso dell’anacronia”, in Studio Azzurro, J.Derrida, C.Sini, Pensare l’arte. Verità figura visione, a cura di C.Sinigaglia e A.Somaini, Federico Motta, Milano 1998, pp.5-39. (54) La parola ‘responsabile’ deriva dal verbo latino respondere + il suffisso –bilem, che indica l’esser capace di in senso operativo. Nel nostro caso, l’artista è responsabile nella misura in cui risponde al dono ricevuto essendo capace di produrre l’opus. (55) I. Kant, Op.cit. p. 285 (56) ivi p. 127 (57) Vedi M.Duchamp, in Art News, n.4, New York 1957, trad.it. di E. Grazioli: M.Duchamp, “Il processo creativo”, in Marcel Duchamp, Marcos y Marcos, Milano 1993, pp. 25-26 (58) Cfr. R.Hamilton, “Il grande vetro”, trad.it. di E.Grazioli, in Marcel Duchamp, Op.cit. pp.103- 118 (59) La domanda circolare che apre il saggio heideggeriano su L’origine dell’opera d’arte è la seguente: “L’arte si trova nell’opera d’arte. Ma che cos’è un’opera d’arte? Solo l’opera ci può dire che cosa sia l’arte” (M.Heidegger, “Der Ursprung des Kunstwerkes(1935/36), in Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M. 1950, trad.it. di P.Chiodi, “L’origine dell’opera d’arte”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 4).E l’opera d’arte, nel suo phainomenon, si presenta, per Heidegger, al modo di un oggetto, al modo di una cosa: “Il quadro pende dalla parete allo stesso modo di un fucile da caccia o di un cappello. (…) Le opere sono spedite come il carbone della Ruhr e il legname della Selva Nera.(…) I quartetti di Beethoven sono disposti nei magazzini della casa editrice come le patate in cantina. Tutte le opere hanno questo carattere di cosa(dinghaft). Che cosa sarebbero senza di esso?”(ivi,p. 5) L’opera d’arte si presenta sempre nel suo carattere di cosa, anche se, in quanto tale, il suo apparire come “cosa fabbricata” allo agoreyei, è allegoria – cioè allude a qualcos’altro che va oltre il fenomeno della sua cosalità - e simbolo, perché mette e tiene insieme(in un symballein appunto) il proprio apparire quale cosa e quell’altro cui essa allegoricamente allude. In ogni caso, è proprio perché l’arte si presenta innanzitutto come una cosa, che Heidegger, nella prima parte del saggio, si pone e pone la domanda su che cos’ è una cosa, passando preliminarmente in rassegna i principali modi “metafisici” di intendere la cosa proposti dalla tradizione di pensiero occidentale. Senza entrare minimamente nel dettaglio del saggio, va sottolineato il fatto che Heidegger afferma di esser giunto a penetrare l’esser mezzo del mezzo, ovvero l’intima natura della cosa, quale “fidatezza”, “semplicemente ponendoci di fronte ad un quadro di Van Gogh”, quello raffigurante i famosi zoccoli da contadina(o del cittadino Van Gogh stesso, secondo un’altra ermeneutica dell’opera di tipo critico-storiografico?): “E’ il quadro che ha parlato.(…)L’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità”(ivi, p.21). Con ciò l’indagine heideggeriana sull’essenza dell’opera d’arte: 1) riduce l’arte ad una determinata cosa visibile e l’ ergon a mera cosa prodotta; 2) all’interno di una generale interpretazione di tipo constativo dell’arte, l’opera operata conserva un valore gnoseologico-conoscitivo(tant’è vero che l’esperienza della sua visione e fruizione consente di giungere allo svelamento del senso dell’esser cosa della cosa). Nei termini squisitamente heideggeriani, l’opera d’arte possiede una natura essenzialmente esponente, nel senso che “apre un mondo e lo mantiene in una permanenza ordinata”. 3) L’opera come “cosa 53 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
fabbricata” viene considerata secondo un approccio referenzialistico: è attraverso l’indagine(apparentemente) fenomenologica del referente, che il quadro raffigura in immagine(gli zoccoli), che può rendersi accessibile il senso dell’esser cosa della cosa.. Ciò che impedisce di confondere l’opera d’arte con il manufatto dell’artigiano è così formulato da Heidegger: “Esser-fatta dell’opera significa: fissazione della verità nella figura”(ivi, p. 48). Perciò, ne ricava Heidegger, nell’autentica opera d’arte non è affatto importante la firma dell’artista, perché ciò che conta nell’opera è il suo semplice factum est, il quale testimonia l’”essersi storicizzato” del “non-essernascosto dell’ente”. Il suo essersi storicizzato in figura, secondo una determinata forma originaria, nel quadro, nel risultato dell’opera operata. (60) Derrida sostiene che artisticamente ciò di cui si parla, ciò con cui ci si misura, ciò di cui si fa esperienza quali esseri pensanti(e dunque logocentrici) è sempre il parergon e mai l’ergon. Ma – proprio alla luce delle illuminazioni e delle stringenti argomentazioni kantiane contenute nella Critica del giudizio – non dovremmo forse dire che ciò che viene esposto nelle varie mostre, fiere, rassegne e ciò che viene conservato nei musei, nelle gallerie e nelle pinacoteche, più che parerga sono gli escrementa dell’arte, ovvero, alla lettera, ciò che dell’ergon e a partire dall’ergon si separa e cade fuori? (61) Marcel Duchamp, Op.cit. p.59
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Modernità come supremazia dell’utile economico di Diego Fusaro
«Per l’uomo nulla ha poteri così tristi e larghi come il denaro, che città devasta, uomini strappa dalle case, istruisce le menti pure a concepire il male, le perverte e le muta, del delitto indica il passo e l’esperienza schiude ad ogni empietà».
(Sofocle, Antigone)
Nelle pagine che seguono, oggetto della nostra analisi non sarà un singolo autore del mondo moderno o una singola fase della storia dell’umanità. Ci proponiamo un obiettivo che è più modesto e, insieme, più ambizioso: più modesto, perché la nostra attenzione non si soffermerà sul modo specifico in cui, nel mondo moderno, un singolo autore o, alternativamente, più pensatori hanno tematizzato il trionfo dell’utile come tratto essenziale della modernità; più ambizioso, perché cercheremo di tratteggiare, a un alto livello di astrazione, quello che – come vedremo – può essere con diritto indicato come il Zeitgeist della modernità, in un quadro a tal punto generale da ricomprendere, al proprio interno, tutti gli autori moderni, compresi quelli che hanno incentrato la propria riflessione in consapevole opposizione con il principio dell’utile. Per questa via, percorrendo la modernità a volo d’aquila, guadagneremo sul piano della teoria generale del moderno ciò che invece andrà inevitabilmente perso dal punto di vista della ricchezza dei particolari e delle specificità dei singoli autori che hanno contribuito all’elaborazione di singole prospettive, eterogenee e irriducibili. Il filo conduttore della nostra analisi sarà costituito da una rivisitazione delle coordinate teoriche fissate dalla diagnosi della Neuzeit operata da Karl Marx[1]; diagnosi che, in estrema sintesi, potremmo compendiare nel seguente modo: con l’avvento del mondo moderno, a partire dal XV secolo, si dissolve rapidamente la “tavola dei valori” premoderna, incardinata su parametri che attribuivano il primato non all’utile economico bensì all’uomo, e si impone una “risemantizzazione” valoriale del mondo, in cui l’utile economico guadagna quell’egemonia di cui ancora oggi è titolare, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano dei rapporti sociali, della produzione, del rapporto con la natura e, come vedremo, del sapere. In questa luce, la modernità diventa un altro modo per dire “capitalismo”, ossia mercificazione universale orientata alla generazione di un utile economico sempre crescente e tale da subordinare a sé ogni altro aspetto della realtà: su queste basi, diventa possibile destrutturare il locus 55 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
communis secondo cui “modernità” sarebbe sinonimo di “antropocentrismo”, mostrando come, ben lungi dal configurarsi come il “regno dell’uomo” dopo la parentesi “teocentrica” medievale, il moderno, se letto in trasparenza, si presenti come il “regno dei chremata” di cui l’uomo è soltanto un servo docile e inconsapevole, spogliato di ogni valore autonomo. Prendiamo dunque le mosse dalle coordinate marxiane: secondo quanto precisato in Misère de la philosophie (1847), il moderno “modo di produzione capitalistico” cominciò a prendere forma quando, a partire dal XV secolo, «tutto divenne commercio»[2], ossia quando venne avviato il processo di progressiva riduzione a “merce” della realtà nella sua interezza. Secondo le parole di Marx, è alla luce di questi presupposti storici che la modernità si è potuta profilare come l’epoca in cui «ogni realtà, morale o fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore»[3], nella convinzione – destinata a diventare rapidamente il vero e proprio “credo” del mondo moderno – che non vi fosse alcunché che non potesse essere scambiato sul mercato. Le dimensioni della produzione di “valori di scambio”, della “mercificazione” universale e dell’accrescimento illimitato della ricchezza erano del tutto estranee all’immaginario dell’uomo “premoderno”, vissuto in fasi storiche in cui il sistema capitalistico non era ancora stato tenuto a battesimo. Ora, per la prima volta nella storia, nel moderno la produzione non è più orientata alla soddisfazione di bisogni umani, ma si capovolge in attività fine a se stessa, nella misura in cui non si produce più (come ancora avveniva nel mondo antico o in quello feudale) per la conservazione della società nel suo complesso, ma per accrescere sempre più il capitale, in un movimento autoreferenziale e potenzialmente senza limiti. La dimensione dell’utile economico si estende a tal punto da marginalizzare tutte le altre e da autonomizzarsi completamente, assumendo lo statuto di “Dio immanente” dei moderni. In questa prospettiva, l’economia viene a essere il successore logico e storico della teologia: l’Assoluto – la totalità dei rapporti sociali tra gli uomini – si trasferisce da un’unità esterna (che deve legittimare in maniera trascendente una certa gerarchizzazione della società) a un’unità interna che deve legittimare in maniera immanente l’accumulazione illimitata di capitale, la produzione in misura sempre più massiccia dell’utile economico. In particolare, la società moderna, capitalisticamente strutturata, viene a configurarsi, da un lato, come il luogo in cui – per via delle molteplici contraddizioni di cui è intessuta – prolifera la religione come forma ingannevole di felicità extramondana e, dall’altro, come una società religiosamente strutturata, con le sue gerarchie e con i suoi Assoluti. In ultima analisi, il capitalismo si configura esso stesso come una nuova religione, con il suo Dio (il capitale) e le sue “vacche sacre” (la proprietà privata, il denaro, ecc.). Lo stesso carattere religioso e feticistico delle merci rivela che la religione è il completamento più conveniente alla società mercantile capitalistica. Il moderno si presenta così con i tratti di uno scenario “spettrale”, in cui i “morti” (merci, denaro, proprietà) dominano i “vivi”, assoggettati al principio dell’utile economico. Se si segue il ragionamento sviluppato da Marx in Misère de la philosophie e, ancor più, nel primo libro di Das Kapital (1867), la transizione alla modernità da quello che, per comodità, potremmo qualificare genericamente come “mondo premoderno” si configura 56 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
essenzialmente come il passaggio epochemachend da un mondo in cui l’utile occupa un ruolo secondario, subordinato a valori di altro genere, a una realtà in cui tutto è assoggettato al criterio dell’utilità economica; una realtà in cui l’obiettivo generale della produzione e, più in generale, della società cessa di essere la soddisfazione dei bisogni umani e diventa il movimento di accrescimento illimitato e autoreferenziale della “valorizzazione del valore”. L’esigenza di tale “valorizzazione del valore” comporta, come conseguenza decisiva, una produttività sempre più massiccia e più intensa: la forma dominante nei “modi di produzione” precedenti – spiega Marx in Das Kapital – è esprimibile nella formula M-D-M (merce-denaro-merce), che si riferisce alla trasformazione della merce in denaro con il quale si acquista nuova merce; e ciò in virtù del presupposto per cui, nelle realtà precapitalistiche, «la circolazione semplice delle merci – la vendita per la compera – serve di mezzo per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, cioè per l’appropriazione di valori d’uso, per la soddisfazione di bisogni»[4] dell’uomo, concepito come fine ultimo della produzione e della società. In maniera diametralmente opposta, nella modernità capitalistica predomina la forma esprimibile con la formula D-M-DI, dove DI è maggiore rispetto a D. Concretamente, subentra un cambio di paradigma epocale: lo scopo della produzione cessa di essere il consumo (e la conseguente soddisfazione di un bisogno umano) e diventa la “valorizzazione del valore”, il movimento illimitato di accrescimento del guadagno. Secondo quanto precisato da Marx, nel moderno «la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura»[5]. Se nei modi di produzione precedenti si vendeva per comprare, in quello capitalistico – spiega Marx – si compra per vendere, e la ricchezza, nella forma dell’utile economico, assume lo statuto di unico valore riconosciuto dal mondo moderno. Da una diversa angolatura, si potrebbe sostenere che per i moderni il valore e la sua valorizzazione divengono i soli valori, che sottomettono a sé o, più spesso, congedano definitivamente quelli delle società precapitalistiche. L’arricchimento illimitato, frutto dell’autonomizzazione del valore dell’utile economico, viene in questo modo a configurarsi, parafrasando Hegel, come un «cattivo infinito»[6] (schlechte Unendlichkeit), che avanza ininterrottamente senza mai potersi acquietare nel momento della “determinazione concreta”: proprio perché pone il proprio obiettivo sempre da capo come mèta da raggiungere, esso risulta, in ultima analisi, «senza fine e scopo»[7], trasfigurandosi in quel movimento autoreferenziale, irrazionale e incantatorio che ha stregato il mondo moderno, in cui la produzione fine a se stessa è diventata il fine ultimo della società in quanto tale. Per questa via, è la santificazione dell’utile economico proclamata dalla modernità a determinare il carattere “alienato”, “reificato” e “disumanizzante” del paesaggio moderno, in cui «il processo di produzione padroneggia gli uomini, e l’uomo non padroneggia ancora il processo produttivo»[8], nel quadro di un movimento generale del tutto irrazionale e autoreferenziale, in cui si produce non più per soddisfare bisogni umani, bensì per accrescere la ricchezza. Quest’ultima non è posta al servizio degli uomini, ma, in modo capovolto, sono gli uomini a essere schiavi della ricchezza e del suo movimento di accumulazione illimitata. Si tratta di una completa “inversione” dialettica, in cui il potere sociale e i prodotti del lavoro umano si separano 57 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
dagli uomini e, come fantasmi, li dominano in modo cieco e irrazionale: l’utile economico, innalzato dai moderni a propria divinità suprema, finisce per schiacciarli impietosamente, sacrificando la loro esistenza sull’altare del proprio irrazionale movimento di crescita illimitata. Dietro la “razionalità moderna” si nasconde pertanto un nucleo del tutto irrazionale, un incantesimo originario che fa dell’utile economico e della sua “dimora” – il “mercato” – le divinità supreme della modernità; divinità di fronte alle quali, a ben vedere, ancora oggi ci comportiamo con un senso di mistero e, insieme, di devozione analogo a quello con cui le popolazioni primitive si rapportavano alle forze della natura. Considerato da questa prospettiva, il moderno corrisponde a un’epoca dai contorni tetri, un’era di totale svuotamento, di disumanizzazione radicale e di valorizzazione del mondo delle “cose”; un’era in cui l’uomo assume lo statuto unidimensionale di homo oeconomicus, si spoglia del proprio umanesimo e, più in generale, si priva di tutto ciò che ha in sé per porlo non in un Dio trascendente, secondo la lezione del feuerbachiano Das Wesen des Christentums (1841), bensì nel mondo delle merci e della “valorizzazione del valore”. Scrive a questo proposito Marx:
«Nell’economia politica borghese – e nell’epoca della produzione ad essa corrispondente – questo completo dispiegarsi dell’interiorità dell’uomo si manifesta come un assoluto svuotamento (völlige Entleerung), quest’universale oggettivarsi si manifesta come un’estraneazione totale (totale Entfremdung), e la soppressione di tutti i fini unilaterali determinati si manifesta come il più grande sacrificio del fine autonomo a vantaggio di un fine completamente esterno»[9].
Il moderno assume così i tratti terrifici dell’età della “disumanizzazione” radicale, in cui l’uomo si trasforma in semplice strumento al servizio del movimento autoreferenziale di valorizzazione del capitale e di sempre rinnovata autoposizione dell’utile economico. È, secondo l’icastica definizione di Fichte, l’epoca della «completa peccaminosità»[10], che «ha come impulso unico alle sue reazioni e ai suoi moti l’utile materiale (der sinnlich Eigennutz)»[11], in cui si risolve e in cui tende a dissolvere ogni sua ulteriore determinazione. La diagnosi marxiana, se non assolutizzata e se non trasfigurata dogmaticamente, permette di fare luce su quelli che, con Fichte, potremmo qualificare come i «i tratti fondamentali dell’epoca presente» (die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters): in particolare, sarebbe senz’altro fuorviante ritenere che la modernità si risolva tout court in un trionfo dell’utile economico, come pure talvolta Marx e i suoi interpreti sembrano lasciare intendere[12]. Il fatto che il mondo moderno abbia elevato l’utile a propria divinità non toglie che la Neuzeit sia stata anche altro e che questo “altro” non sia affatto subordinato né, men che mai, direttamente scaturente dalla “crematistica” egemonica. Per rendere pienamente conto del mondo moderno, occorre pertanto considerare anche altre prospettive, in grado di gettare luce su aspetti altrimenti destinati a rimanere in ombra: in particolare, la modernità è anche stata una Rationalisierung, un processo di «razionalizzazione»[13], ossia di «disincantamento del mondo» (Entzauberung der Welt), svuotato dalle antiche potenze divine e trasformato in teatro dell’agire razionale di un 58 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
uomo ormai divenuto “adulto” e responsabile delle proprie azioni, secondo la nota diagnosi di Max Weber; è anche stata, secondo le analisi di Reinhart Koselleck, un nuovo e diverso rapporto con il tempo, e più precisamente un tentativo di fare tabula rasa delle esperienze passate e di “colonizzare il futuro”, inteso come il novum radicale, luogo della realizzazione dei sogni e delle speranze dell’umanità[14]. La modernità è anche stata il luogo in cui si sono “secolarizzate” le principali categorie di pensiero cristiane, le quali, da trascendenti che erano in origine, si sono “immanentizzate”, secondo le suggestive analisi – in ciò, almeno in parte, convergenti – di Carl Schmitt[15] e di Karl Löwith[16] (ma anche del Weber degli studi sullo «spirito» del capitalismo[17]); è anche stata il luogo in cui è avvenuta quella “conversione” dai cieli della metafisica e della religione alla terra dell’uomo e del «sapere mondano» (Weltweisheit) tematizzata da Hegel. Ed è stata ancora molto altro, da cui sarebbe senz’altro erroneo prescindere. Queste precisazioni “definitorie”, rapide e necessariamente approssimative, sono volte a negare in partenza la possibilità di un “monocausalismo” e di una “unicità interpretativa” per venire a capo di un fenomeno così ricco, articolato e complesso come la modernità. Di qui l’esigenza di tenersi a “distanza di sicurezza” dalle facili assolutizzazioni e dal monocausalismo, di qualunque tipo e di qualunque provenienza essi siano. Soltanto se li si evita accuratamente, diventa possibile rendere conto delle molteplici sfaccettature di una realtà poliedrica, complessa e variegata quale è la dimensione della storia in tutte le sue possibili declinazioni. Tutto questo per segnalare che se in queste pagine insisteremo sull’utile economico come tratto fondamentale del mondo moderno, non lo faremo in una prospettiva di tipo “monocausalistico”, fondata sulla pretesa di esaurire il “fenomeno modernità” in un’unica interpretazione: ben distanti da una prospettiva di questo tipo, assumeremo il dominio dell’utile economico come categoria interpretativa con cui approssimarci al moderno in modo parziale, consapevoli che esso, nella sua complessità irriducibile, non possa essere dischiuso con una sola chiave di lettura e necessiti della cooperazione di più discipline e di più punti di vista, in un intreccio a geometrie variabili di filosofia ed economia, storia e sociologia, politica e antropologia. L’arcipelago delle interpretazioni della modernità è a tal punto un Kampfplatz che è impossibile sceglierne una senza tener conto delle altre. Forti di questa “premessa metodologica”, possiamo ora tentare di delineare, per sommi capi, la transizione alla modernità seguendo il movimento che ha portato dalla condanna del primato dell’utile al suo duplice movimento di autonomizzazione e di valorizzazione assoluta. Quello che abbiamo poc’anzi definito, in maniera indubbiamente generica, come “mondo premoderno” deve ora essere delineato con maggiore precisione, per evitare che la nostra espressione si trasformi in una categoria a tal punto vaga da significare tutto e, per ciò stesso, il suo contrario: nella presente analisi, per “mondo premoderno” intendiamo quella galassia di fasi storiche che, eterogenee e dotate ciascuna di una propria specificità, erano accomunate dal non aver individuato nell’utile, e men che mai in quello economico, il valore fondamentale in base al quale modellare l’esistenza della e nella società. In questo modo, tramite la contrapposizione “semplificata” e a suo modo “generica” tra “mondo premoderno” e “mondo moderno” diventa possibile individuare nell’assolutizzazione dell’utile economico una delle caratteristiche più rilevanti e, insieme, più peculiari della nostra modernità. 59 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Sotto questo profilo, il mondo greco presenta carattere paradigmatico: per eterogenea che fosse, a seconda della fase storica, dell’autore o della “scuola” considerata, la riflessione filosofica dei Greci concordò in maniera pressoché univoca – sebbene con l’eccezione, tutt’altro che trascurabile, della Sofistica, protagonista del processo di dissoluzione della verità e di “mercificazione” del sapere – nella critica indirizzata contro l’utile economico, contro la “crematistica”; critica che si accompagnava a un elogio entusiastico del sapere disinteressato e fine a se stesso, orientato alla pura dimensione contemplativa della teoresi, l’unica in cui si realizzasse pienamente l’essenza dell’uomo. Il capovolgimento dell’umanesimo greco nella crematistica moderna risulta lampante se si considera come Aristotele, nella partizione delle scienze operata nella Metafisica, assegnasse il primato alle tre «scienze teoretiche» (matematica, fisica e filosofia), attribuendo minor valore a quelle «poietiche», finalizzate alla “produzione” nelle sue forme più eterogenee: il sapere in quanto tale, nella sua dimensione meramente contemplativa, avulsa da ogni rapporto con la prassi e con la “produzione materiale”, era considerato come la forma suprema di conoscenza proprio per il suo carattere puramente teoretico. Secondo la precisazione di Aristotele, le scienze teoretiche, e segnatamente la filosofia, godono di uno statuto superiore rispetto alle scienze “poietiche” proprio perché, di fatto, non servono a nulla, non rispondono ad alcun criterio di utilità e, di conseguenza, sono sciolte dal vincolo di servitù proprio del “servire-a-qualcosa”. In una simile prospettiva, soltanto la filosofia può essere etichettata come “scienza libera”, perché fine a se stessa e non rapportata ad altro: «come diciamo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola [la filosofia], tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa»[18]. La grandezza del sapere teoretico risiede, per così dire, nella sua “autofondazione”, nel suo costituirsi come un processo che muove dalla sfera del pensiero e che resta al suo interno, senza mai valicarne i confini per sfociare in azione pratica, in produzione materiale o in qualsiasi altra attività extrateoretica. Ora, è noto come nel mondo moderno, almeno a partire da Francesco Bacone, la posizione aristotelica venga rideclinata su nuove basi e il rapporto tra sapere e utile venga riconfigurato in una forma che, per molti versi, appare come capovolta rispetto a quella che da Aristotele in poi era stata dominante nel mondo “premoderno”. Infatti, in forza della autonomizzazione dell’utile economico e della conseguente marginalizzazione di ogni valore con esso contrastante, il moderno è contraddistinto, fin dalle sue premesse, da un primato dei “saperi utili”, finalizzati alla produzione di risultati concreti sul piano empirico e, nella fattispecie, al raggiungimento del profitto economico. Bacone può con diritto essere inteso come il “capostipite” dei moderni esaltatori del sapere utile, praticamente orientato: egli per primo ha coerentemente conferito dignità teorica alla svalutazione del sapere teorico, sottolineandone l’inutilità. Il motivo per cui Bacone e, con lui, larga parte dei pensatori della modernità sottopongono a critica il “sapere teoretico” è lo stesso per cui Aristotele lo encomiava: il suo “non-servire-a-nulla”, ossia la sua autonomia rispetto al piano della “produzione materiale” o, più in generale, rispetto a ogni dimensione che non sia quella teoretica. Rispetto a questa inutilità congenita del sapere teoretico, Bacone fa valere l’identità di sapere e potere come nuovo fondamento della scienza moderna, attenta anzitutto ai risultati prodotti sul piano pratico: «la scienza 60 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
e la potenza umana coincidono, perché l’ignoranza della causa preclude l’effetto, e alla natura si comanda solo ubbidendole: quello che nella teoria fa da causa nell’operazione pratica diviene regola»[19]. Alla luce di queste considerazioni, la definizione hegeliana della modernità potrebbe essere integrata e, in qualche misura, arricchita: la Neuzeit non corrisponde soltanto a un processo di «conversione»[20] dal cielo della metafisica e della religione al mondo terreno della Weltweisheit e dell’immanenza radicale; essa si configura anche, in termini generalissimi, come una transizione dal predominio del “sapere teoretico” all’egemonia del “sapere pratico”, soggiacente al criterio crematistico dell’“utile economico”. In questa transizione è lecito scorgere, in filigrana, i tratti del passaggio epocale che ha condotto all’autonomizzazione del processo di “valorizzazione del valore” messo a fuoco da Marx. Come si è accennato, la definizione hegeliana non deve essere rigettata, ma semplicemente integrata: in particolare, è possibile esplicitare e tratteggiare con maggior precisione i contorni dell’aldiqua a cui l’uomo moderno si è convertito. Tale aldiqua non corrisponde soltanto, come si evince dal discorso di Hegel, al generale “piano dell’immanenza”, in cui viene interamente riassorbito quello della trascendenza: l’immanentizzazione della trascendenza comporta anche un riorientamento radicale della ragione, che assume l’inedita forma di “ragione strumentale”, in cerca di utilità più che di verità, di ricchezze materiali più che di certezze morali. Secondo la definzione – ancora una volta paradigmatica – di Bacone, lo scopo del sapere deve essere utilitaristicamente individuato nel commodis humanis inservire: principio nel quale sono racchiuse, in nuce, le premesse e le promesse dell’utilitarismo benthamiano e i presupposti originari del programma illuministico di raggiungimento del benessere economico e della felicità a vantaggio del maggior numero possibile di individui. La distanza che separa, nel campo del sapere e dell’economia, la posizione moderna inaugurata da Bacone e quella “premoderna”, soprattutto greca, è siderale. Per porre in risalto questo contrasto, si possono portare alcuni esempi concreti, da cui emerge limpidamente la subordinazione – e, in alcuni casi, la condanna – dell’utile economico presso i Greci. Come sottolineato a suo tempo, tra gli altri, da Rodolfo Mondolfo[21], la loro cultura, a partire dai Sette Sapienti, era una cultura del “limite” (peras) anche in ambito economico: essa era anzitutto volta a esorcizzare quella, che con Hegel, potremmo qualificare come «l’immane potenza del negativo»[22] (die ungeheure Macht des Negativen) rappresentato dalla crematistica, dall’incontrollata e incontrollabile sete di ricchezza. In consapevole antitesi con quest’ultima, i Greci assumevano come valore supremo quell’ente finito che è l’uomo, nonché la soddisfazione dei suoi bisogni – anch’essa naturalmente delimitata. Questo aspetto emerge con incredibile nitidezza di profilo in un autore come Democrito, il quale, ancorché desse per scontata l’essenza dell’uomo e dunque rinunciasse a esprimersi a riguardo («l’uomo è ciò che tutti quanti conoscono»[23]), preferendo concentrarsi sulla strutturazione “fisica” del cosmo, compose una straordinaria serie di massime morali, incardinate sul valore “assoluto” attribuito all’uomo e al metron, inteso come «misura» sia etica, sia politica: «non con i beni corporei né con il denaro, ma con rettitudine e saggezza gli uomini diventano felici»[24]; e ancora: «chi si lascia sopraffare dalle ricchezze, non potrà mai essere onesto»[25]. Il «cattivo infinito» dell’accrescimento illimitato delle ricchezze era demonizzato dal mondo 61 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
greco proprio perché in palese contrasto con il loro “culto del finito” e del “limite”: porsi al servizio di quel movimento senza fine e senza limiti, letteralmente “in-finito” e “il-limitato”, equivaleva a valicare i “confini chiusi” del “limitato” per allontanarsi in “mare aperto”, in una dimensione negativamente connotata come indefinita, indeterminata e irrazionale. Di qui le esortazioni alla moderazione, alla misura e all’attenzione per i limiti di cui è costellata la cultura greca. Di questo tipo era, ad esempio, il suggestivo invito che campeggiava sul tempio di Delfi: medèn agàn, «niente di troppo». Sulla stessa lunghezza d’onda, métron àriston («la misura è la cosa migliore») era uno dei motti radicati più a fondo nell’immaginario collettivo dei Greci. Questa tendenza alla limitazione e all’esorcizzazione dell’apeiron, dell’«illimitato», con la connessa centralità dell’uomo, «misura di tutte le cose» (métron pànton) in un senso universalistico – e, sotto questo profilo, anti-protagoreo – ribadita a più riprese dai principali filosofi greci, può con diritto essere individuata come cifra quintessenziale di una cultura centrata sul “limite” e sulla “finitezza”: secondo la formulazione esemplare delle Eumenidi di Eschilo, «la ricchezza porta sciagura, perché basta solo per chi ha una mente saggia»[26], mentre travolge gli uomini “comuni” nel turbine della smania illimitata di accrescimento dei chremata. L’utile economico è indegno di essere perseguito – questo il corollario del punto di vista dei Greci – perché promuove il superamento del limite, inducendo l’uomo a immettersi nella sfera dell’illimitato e dell’illimitabile. Oltre a Democrito e a Eschilo, a testimonianza dell’“anticrematisica” greca si potrebbe significativamente ricordare la struttura del progetto platonico della kallipolis delineata nella Repubblica: secondo il «paradigma in cielo»[27] (paradeigma en tois ouranois) di Platone, la “ricchezza materiale”, i chremata, devono essere concessi ai soli “lavoratori”, ossia allo strato più basso della società, mentre i “governanti” vengono immaginati privi di ogni bene materiale, perché consapevoli della gerarchia valoriale secondo cui disporre le cose. L’architrave teorico del progetto platonico è la svalutazione delle ricchezze in nome della valorizzazione dell’uomo e della virtù: «quanto più in uno Stato saranno tenute in pregio le ricchezze e chi le detiene – si precisa nell’ottavo libro della Repubblica –, tanto più saranno disprezzate le virtù e gli uomini virtuosi»[28]. Da questo punto di vista, la filosofia cinica si configura come una radicalizzazione parossistica dell’anticrematistica greca nella forma di un “pauperismo” elevato a modus vivendi: l’opposizione al principio crematistico era a tal punto radicale, nei Cinici, da indurre i critici moderni a qualificare la loro posizione come una «filosofia del proletariato greco»[29]. A sostegno della tesi dell’anticrematistica dei Greci, si potrebbe ancora menzionare la vicenda di Talete, il quale, dopo aver previsto con lungimiranza l’approssimarsi di un’annata dai grandi raccolti, acquistò, quando nessuno si interessava ad essi, tutti i frantoi della sua zona, ottenendo ingenti introiti, che poi rifiutò programmaticamente: il suo intento non era infatti quello di arricchirsi, ma, da autentico sapiente, di mostrare che non voleva arricchirsi, benché potesse farlo con estrema facilità. Il suo era un rifiuto programmatico dei chremata, a cui anteponeva la dimensione contemplativa della teoresi, perseguita con tanto zelo e con una così radicale distanza dalle vicende dell’ambito pratico da precipitare inavvertitamente nei pozzi che trovava lungo il proprio cammino[30].
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Il mondo greco è gravido di esempi di questo tenore, da cui affiora incontrovertibilmente la subordinazione della “crematistica” all’“umanesimo” e, più in generale, al “sapere teoretico”. Il fatto che l’“umanesimo” greco conoscesse il fenomeno della schiavitù, e dunque della disumanizzazione radicale dell’uomo, “cosificato” e ridotto a strumento da lavoro, deve certo indurre a riconsiderare e, in certa misura, a ridimensionare la vera natura di quell’“umanesimo elitario”, che riservava il titolo di “uomo” – e il conseguente “trattamento umanistico” – a pochi eletti. Questo aspetto non deve tuttavia indurre a pensare che quello greco non fosse, di per sé, una forma di “umanesimo”. Più semplicemente, si trattava di un umanesimo a tutti gli effetti, ma riservato a pochi individui, proprio perché – e qui sta il punto decisivo – non tutti erano considerati uomini in senso pieno, e dunque tali da poter beneficiare del trattamento umanistico: secondo la nota testimonianza della Politica di Aristotele[31], donne, bambini e schiavi venivano considerati, rispettivamente, come “uomini riusciti male”, come “uomini-in-potenza” o come “eterni bambini”, in ogni caso non come uomini in senso autentico. Pur facendo valere un concetto di “uomo” limitato, ristretto e tutt’altro che universalistico, la società greca assumeva l’uomo come valore supremo su cui modellare la produzione e l’ordinamento della polis: seguendo Marx, si potrebbe sostenere che il valore dell’uomo veniva riconosciuto e soddisfatto dai Greci, ma si trattava di una «soddisfazione da un punto di vista limitato»[32], tale da escludere in partenza alcuni individui dalla dimensione dell’umano in senso proprio. Da questo punto di vista, sempre seguendo Marx, si potrebbe sostenere che «l’antica concezione secondo la quale l’uomo, quale che sia la sua limitata determinazione nazionale, religiosa, politica, è sempre il fine della produzione, pare assai superiore rispetto al mondo moderno, nel quale la produzione si manifesta come obiettivo dell’uomo e la ricchezza come obiettivo della produzione»[33], in un trionfo incontrastato del «cattivo infinito» del “principio crematistico” che i Greci, pur dal loro punto di vista limitato ed elitario, avevano saputo arginare. Lungo tutto l’arco dello sviluppo storico della Grecia antica, le opere letterarie e filosofiche risultano dense di stigmatizzazioni del perseguimento dell’utile economico, a cui vengono puntualmente contrapposti i valori della saggezza e della contemplazione disinteressata, gli unici in grado di promuovere pienamente la vera natura dell’uomo. Così, nelle Opere e i giorni di Esiodo, si segnala che «il guadagno travia la mente degli uomini»[34]; e, nell’Iliade, Achille, in preda all’«ira funesta», insolentisce Agamennone definendolo «uomo impudente e avido di guadagno»[35]. Dai frammenti di Orfeo apprendiamo che «chiunque si inorgoglisca per mania di grandezza, o si esalti per ricchezze o onori, […] viene lasciato solo, ed è abbandonato da Dio»[36]. Eraclito, dal canto suo, augurava ai suoi concittadini di vivere nella ricchezza, in modo che risaltasse al grado massimo la loro malvagità: «Efesini, non venga mai meno a voi la ricchezza (ploutos), in modo che si manifesti in maniera più chiara il vostro operare da malvagi»[37]. Una sferzante requisitoria contro gli effetti sradicanti ed esecrabili della brama di ricchezza è anche al centro dell’Antigone di Sofocle: «per l’uomo nulla ha poteri così tristi e larghi come il denaro, che città devasta, uomini strappa dalle case, istruisce le menti pure a concepire il male, le perverte e le muta, del delitto indica il passo e l’esperienza schiude ad ogni empietà»[38]. Socrate stesso poneva al cuore del proprio insegnamento il rifiuto delle ricchezze in nome della saggezza e della verità, prendendo di mira, nell’agorà, i concittadini che si affannavano per accrescere le proprie sostanze: «ottimo uomo, dal 63 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
momento che sei Ateniese, cittadino della Città più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnare il più possibile, e della fama e dell’onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità e della tua anima, in modo che diventi il più possibile buona?»[39]. È tuttavia in Aristotele che si ritrova la formulazione più chiara e più articolata della condanna della crematistica: se nella Metafisica egli fonda sul piano metafisico la superiorità del sapere teoretico, in quanto sciolto dal vincolo di servitù proprio del “servire-a-qualcosa” e avente per oggetto le realtà più alte (l’essere, il mondo sovrasensibile, Dio), nella Politica lo Stagirita declina su basi schiettamente politiche la requisitoria contro il principio crematistico qua talis. In particolare, egli distingue con rigore un ciclo economico “naturale”[40], in cui il possesso della merce viene convertito in denaro destinato all’acquisto di un’altra merce necessaria ai bisogni della famiglia o della città, da un ciclo “innaturale”, in cui il denaro accumulato viene convertito in merce al solo fine di venderla e di riprodurre, aumentato, il denaro di partenza. Sotto questo profilo, Aristotele sembra aver precorso la riflessione marxiana e la distinzione tra il ciclo M-D-M e la sua forma degenerata (moderna) D-M-DI, e non è certo un caso se Marx stesso, nel primo volume di Das Kapital, ammetta apertamente il debito contratto con il pensatore greco, soprattutto per quel che concerne la coppia complementare di «valore d’uso» (Gebrauchswert) e «valore di scambio» (Tauschwert). Il primo ciclo, finalizzato alla produzione di «valori d’uso», viene definito da Aristotele nei termini di una «crematistica che rientra nell’amministrazione della casa»[41]; il secondo, che mira invece a produrre «valori di scambio» e che desta l’impressione che «non esista limite alcuno di ricchezza e di proprietà»[42], è etichettato come «crematistica non necessaria»[43]. La condanna della “valorizzazione del valore” ritorna con enfasi nell’Etica Nicomachea, in una formulazione più specificamente etica: «la vita dedita al guadagno (chrematistès) – scrive Aristotele – consiste, in un certo senso, in una costrizione, ed è chiaro che la ricchezza non costituisce il bene (agathòn) che cerchiamo; infatti è utile (chrésimon) ed è in funzione di qualcos’altro»[44]. Ora, con l’avvento della modernità capitalistica, si è verificato esattamente ciò da cui Aristotele aveva messo in guardia nella Politica: il secondo ciclo, quello “innaturale”, è stato surrettiziamente “naturalizzato” e contrabbandato come il solo possibile, rispetto al quale ogni altra possibilità è stata bandita come “contro natura”. L’anima crematistica ha così finito per schiacciare l’uomo, ridotto a rotella di un ingranaggio opaco che ha creato egli stesso ma di cui ha completamente perso il controllo. L’economico si autonomizza, non riconosce più chi l’ha prodotto ed esige di essere venerato come un nuovo dio. È l’epoca in cui le merci, come altrettanti fantasmi, godono di vita autonoma: i tavoli si mettono a ballare e dell’uomo non resta null’altro da dire se non – con Foucault – che «è morto»[45], sopraffatto dall’opera della sua stessa mano. I chremata greci diventano, nel mondo moderno, le “merci”, queste cose «sensibilmente soprasensibili» e piene di «capricci teologici», che, frutto di una produzione sempre più massiccia, invadono l’ambito del materiale non meno di quello dell’immateriale, permeando di sé le stesse strutture di pensiero dell’uomo moderno. In opposizione con l’umanesimo greco e con la sua “cultura del finito” e del “limite”, il mondo moderno viene così a configurarsi come il mondo dell’“illimitato” e dell’assenza di confini. 64 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Quanto siamo venuti finora sostenendo non deve essere inteso come il frutto di una struggente nostalgia per il mondo premoderno, estraneo alla divinizzazione immanente dell’utile economico, o come un auspicio a far girare in senso contrario la “ruota della storia” per riconquistare quel “paradiso perduto”. Seguendo Marx – a sua volta fedele interprete di Hegel e della figura della «bella eticità» –, la fase premoderna rappresenta la “perfezione originaria”, non ancora passata per il moderno momento dell’«immane potenza del negativo», la valorizzazione assoluta dell’utile economico, con la conseguente svalutazione dell’elemento umano: in particolare, il carattere ambivalente del mondo premoderno deve essere individuato nella sua ambiguità strutturale; infatti, è vero che esso pone l’uomo e la soddisfazione dei suoi bisogni come valore supremo, ma può farlo soltanto propugnando un concetto di uomo particolarmente selettivo, identificandolo con l’uomo adulto maschio, dedito alla scholé, ed escludendo rigorosamente donne, bambini e schiavi. Si può dunque sostenere che le società precapitalistiche costituivano un’unità originaria imperfetta, che per soddisfare i bisogni dell’uomo e per riprodursi era costretta a fare ricorso alla barbarie della schiavitù e della servitù nella loro forma più meschina: «da una parte, il puerile mondo antico – scrive Marx nelle Formen – appare come un che di più elevato; e, dall’altra, esso lo è ogni qualvolta si tenti di rinvenire un’immagine compiuta, una forma e una delimitazione posta»[46]. Rivolgere lo sguardo al mondo premoderno può servire, allora, non certo per progettare una fuga retrospettiva dalla modernità (e dalla nostra postmodernità), ma, piuttosto, per sottoporre al fuoco della critica il nostro tempo, piegato al movimento della valorizzazione illimitata del capitale e del tutto dimentico del valore autonomo e irriducibile dell’uomo: rispetto al nostro mondo, in cui la produzione è orientata all’arricchimento smisurato, di cui l’uomo finisce per essere soltanto un tramite, quello premoderno, soprattutto greco, con la sua stabile assunzione dell’uomo come obiettivo della produzione, conserverà sempre lo statuto del modello da imitare, senza che per questo si debba cedere alle lusinghe di un nuovo, immancabilmente inadeguato, “ritorno ai Greci”. Non si tratta, dunque, di rimpiangere il passato, ma – secondo il triplice movimento proprio dell’Aufhebung tematizzata da Hegel e metabolizzata da Marx – di creare un futuro che “superi” quel passato, che lo “tolga” e che, al tempo stesso, lo “conservi” in forma più alta, perché transitata per il “negativo” della “crematistica moderna” e perché tale da sintetizzare in una superiore figura storica il momento “tetico” dell’“imperfezione originaria” con quello “antitetico” dello “svuotamento totale” del moderno. Secondo il progetto di Marx – la più seducente promessa di felicità di cui il moderno sia stato capace –, il futuro dovrà essere (in una feconda sovrapposizione delle due dimensioni del Sollen e del Müssen) all’insegna di un trionfo incontrastato del valore dell’uomo, a sua volta inteso in senso effettivamente universalistico, senza discriminazioni di sesso, di razza, di ceto o di età. Non si tratta soltanto di pie speranze o di chimere utopistiche: se dalla storia è lecito trarre ammaestramenti, uno di questi è, sicuramente, la transitorietà di tutto ciò che è immerso nella dimensione storica, anche delle realtà apparentemente meno soggette al divenire. Sotto questo profilo, utopistico non è, allora, sperare e prevedere una fase storica sottratta al predominio dell’utile economico, ma ritenere che la fase vigente sia eterna e intrascendibile: con le parole di 65 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Marx, «è ridicolo rimpiangere quella pienezza originaria, proprio com’è ridicolo pensare di dover permanere in questa situazione di totale svuotamento»[47]. Del resto – e con queste considerazioni ci avviamo alla conclusione – la stessa “postmodernità”, in cui ci troviamo proiettati nell’attuale momento storico, continua a essere prigioniera della forza demoniaca dell’utile economico, benché tenti senza sosta di dissimulare tale sudditanza tramite l’ebbra euforia dell’esaltazione del weberiano «politeismo dei valori»[48] (Polytheismus der Werte). L’unità totalizzante delle Weltanschauungen moderne si è solo apparentemente frantumata in un prisma poliedrico di “differenze”, di valori opposti ma collocati “orizzontalmente” sullo stesso piano; solo a uno sguardo superficiale l’epoca presente può apparire come trionfo frammentario delle differenze, come politeismo postmetafisico degli dèi che segue la morte del Dio unico e assoluto, come disincantata e “ironica” messa in congedo dei granitici «metaracconti» e delle «grandi narrazioni»[49]. In realtà, l’utile economico continua a essere stabilmente il valore che guarda dall’alto tutti gli altri e che si nasconde dietro il vorticare pluralistico dei valori che animano in modo policromo un’epoca postmetafisica che ha smesso di credere in Dio, ma non nel mercato. NOTE [1] Per un’interpretazione della modernità nella lettura di Karl Marx, cfr. soprattutto J. Bidet, Théorie de la modernité, suivi de Marx et le marché, 1990; tr. it. Teoria della modernità: Marx e il mercato, Editori Riuniti, Roma 1992; Á. Heller, Marx et la modernité, in «Actuel Marx», 5 (1989), pp. 129-143 ; M. Lichtner, Hegel, Marx e la logica del moderno, in «Critica marxista», 6 (1991), pp. 149-172. [2] K. Marx, Misère de la Philosophie. Réponse à la «Philosophie de la misère» de M. Proudhon, 1847; tr. it. a cura di N. Badaloni, Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» del signor Proudhon, Editori Riuniti, Roma 19988, p. 7. [3] Ibidem. [4] K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Band I, 1867; tr. it. a cura di D. Cantimori, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti 1964, p. 185. [5] Ibidem. [6] G. W. F. Hegel, Die Vernunft in der Geschichte, a cura di J. Hoffmeister, Meiner, Amburgo 19555, p. 149. [7] Ibidem. [8] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 113. [9] Id., Formen, die der kapitalistischen Produktion vorhergehn, 1857-1858; tr. it. a cura di D. Fusaro, Forme di produzione precapitalistiche, Bompiani, Milano 2009, p. 167. Corsivi nostri. [10] J. G. Fichte, Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters, 1805; tr. it. a cura di A. Carrano, I tratti fondamentali dell’epoca presente, Guerini, Milano 1999, p. 89. [11] Id., Reden an die Deutsche Nation, 1808; tr. it. a cura di B. Allason, Discorsi alla nazione tedesca, UTET, Torino 1965, p. 27. [12] Recentemente, Luca Grecchi ha dedicato un volume all’interpretazione dell’Occidente (Occidente: radici, essenza, futuro, Il Prato, Padova 2009), mostrando con buoni argomenti come la modernità si configuri, per sua essenza, come trionfo generalizzato dell’utile economico e, dunque, come negazione del mondo premoderno, soprattutto greco. Il limite della sua analisi, pur ricca di spunti interessanti, deve essere individuato nella prospettiva monocausalistica e riduttiva, che l’ha indotto a ritenere che il “fenomeno modernità” si esaurisca interamente nel predominio dell’utile economico, senza ulteriori determinazioni. 66 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
[13] Cfr. M. Weber, Wissenschaft als Beruf, 1917; tr. it. a cura di P. Volontè, La scienza come professione, Bompiani, Milano 2008, pp. 87 ss. Sostenere che il mondo occidentale va incontro a una sempre più marcata razionalizzazione non significa certo ammettere che, al giorno d’oggi, ciascuno di noi padroneggi concettualmente tutto ciò che gli sta intorno. Paradossalmente, osserva Weber, sa molto di più il selvaggio sulle frecce che utilizza per andare a caccia di quanto non sappia ciascuno di noi sul tram con cui ogni giorno si reca al lavoro. La differenza fondamentale – rileva Weber – sta nel fatto che noi, a differenza dell’indiano, se volessimo, potremmo sapere tutto del tram, poiché nel nostro mondo razionalizzato tutte le cose possono, in linea di principio, essere dominate dalla ragione: «la crescente intellettualizzazione e razionalizzazione (zunehmende Intellektualisierung und Rationalisierung) non significa una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita a cui si è soggetti, ma qualcosa di molto diverso: la consapevolezza o la fede, che se solo lo si volesse, si potrebbe sempre giungere a conoscenza, ossia che in linea di principio non sono in gioco forze misteriose e irrazionali, ma al contrario che tutte le cose possono – in linea di principio – essere dominate dalla ragione» (ivi, p. 89). [14] Nella prospettiva di Koselleck, la modernità coinciderebbe con un processo di “futurizzazione” accelerata: per la prima volta nella storia, il moderno ha riposto nel futuro le proprie aspettative, “linearizzando” e “singolarizzando” la storia, intesa come una retta che porta a velocità accelerata al telos finale della redenzione e del perfezionamento. Questo mutamento “infuturante” risulta lampante, secondo Koselleck, se si esamina la “risemantizzazione” del vocabolario socio-politico intervenuta in quella «soglia epocale» (Sattelzeit) compresa tra il 1750 e il 1850: tutti i «concetti storici fondamentali» (geschichtliche Grundbegriffe) smarriscono il loro vecchio significato, rivolto alle esperienze passate, e prendono a indicare un futuro nuovo e diverso. In altri termini, la “vecchia” terminologia verrebbe così, improvvisamente, a colorarsi di un nuovo valore concettuale volto all’avvenire e non più al passato. La moderna tensione verso le regioni del “non-ancora” verrebbe dunque a sedimentarsi in concetti in cui emerge in primo piano la dimensione del futuro e, insieme, in maniera sinergica, il nuovo patrimonio concettuale futurologico si capovolge in fattore di accelerazione, venendo a compendiare in sé programmi di azione e di progettazione per un avvenire coincidente con lo spazio del perfezionamento e della realizzazione dei progetti umani. Ciascun concetto – da quello di «democrazia» a quello di «libertà», da quello di «emancipazione» a quello di «formazione» – può così trasformarsi, secondo Koselleck, in un «concetto programmatico di azione» direzionato verso il futuro. Secondo la ricostruzione di Koselleck, è solo nell’epoca illuministica che i concetti della storia vanno incontro a un quadruplice processo di «temporalizzazione», «democratizzazione», «politicizzazione» e «ideologicizzazione», costituendosi come veri e propri «singolari colettivi» in grado di designare il processo a cui fanno riferimento: così, dalle molteplici «storie» del mondo antico e premoderno si è passati, con l’Illuminismo, a un concetto unificato e trascendentale di «storia» (Geschichte). Così è anche accaduto per i due «concetti fondamentali della storia» di «progresso» (Fortschritt) e di «rivoluzione» (Revolution), centrali nell’opera marxiana e reciprocamente interconnessi: il concetto di rivoluzione, che aveva inizialmente un significato astronomico (che si ritrova ancora in Copernico), assume, soprattutto a partire dalle due rivoluzioni inglesi del XVII secolo, un significato politico-sociale di mutamento della struttura della società e, in particolare, di possibilità di accelerare il tempo storico, ben distinto da quello naturale e concepito, alla maniera cristiana, come corsa unidirezionale e progressiva verso il futuro. In questa maniera, i due concetti, oltre ad essere «storicizzati» e «denaturalizzati», diventano «politicizzati», «ideologicizzati» e «democraticizzati». Cfr. R. Koselleck, Einleitung, in Id. – W. Conze – O. Brunner, Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Klett-Kotta, Stuttgart 1972-1997, I, pp. XIII-XXVII. [15] «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati (säkularisierte theologische Begriffe)»: C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, 1922; tr. it. a cura di G. Miglio – P. Schiera, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del «politico», Il Mulino, Bologna 19842, p. 61. «È importante notare come in questo passo il termine “secolarizzazione” sia legato ad un processo storico così come ad una dimensione ermeneutica. I concetti giuridici da un lato derivano storicamente da quelli teologici, dall’altro rendono visibili, manifestano, realizzano, incarnano i rapporti teologici»: M. Nicoletti, Il problema della «teologia politica» nel Novecento. Filosofia politica e critica teologica, in 67 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
AA.VV., Teologia politica, a cura di L. Sartori – M. Nicoletti, EDB, Bologna 1991, p. 26. Non potremo soffermarci in modo esauriente, in questa sede, sulla vicenda e sul significato dell’espressione «teologia politica» in generale e, specificamente, nell’opera di Schmitt. Ci limiteremo a segnalare come, nell’opera schmittiana, tale espressione presenti un primo significato in riferimento all’analogia tra concetti teologici e concetti della moderna dottrina dello Stato, in una dipendenza dei concetti politici da quelli teologici che non si risolve in un mero processo di derivazione storica, ma abbraccia anche il piano sistematico: così, ad esempio, la condizione di «miseria» che caratterizza lo stato di natura è descritta in ambito politico (si pensi a Hobbes) con termini analoghi a quelli con cui la teologia tratteggia la schiavitù del peccato e l’ingresso nella vita civile, con i suoi caratteri di irreversibilità. Un ulteriore significato di teologia politica, in Schmitt, rimanda a un’interpretazione del sistema politico come un sistema costitutivamente aperto alla trascendenza. Questo aspetto emerge in modo paradigmatico in un passaggio in cui Schmitt si sofferma sul sistema politico hobbesiano: «l’ammiratissimo sistema di Thomas Hobbes lascia aperta una porta alla trascendenza. La verità secondo cui “Gesù è il Cristo” che Hobbes ha proclamato così spesso e così palesemente come propria fede e convinzione, è una verità della fede pubblica, della “public reason” e del culto pubblico al quale il cittadino prende parte. Nella bocca di Hobbes ciò non suona affatto come semplice affermazione tattica, come menzogna strumentalizzata e dettata dalla necessità di preservarsi dalla incriminazione e dalla censura. Si tratta anche di qualcosa di diverso dalla “morale par provision” con la quale Descartes aderì alla fede tradizionale. Nella trasparente costruzione del sistema politico del Matter, Form and Power of a Commonwealth ecclesiastical and civil, questa verità costituisce anzi l’elemento di chiusura, e l’espressione “Jesus is the Christ” chiama per nome il Dio presente nel culto pubblico» (C. Schmitt, Der Begriff des Politischen, 1927; tr. it. a cura di G. Miglio – P. Schiera, Il concetto di politico, in Id., Le categorie del «politico», cit., p. 151). Sulla teologia politica (con particolare attenzione per Schmitt), cfr. M. Nicoletti, Trascendenza e potere: la teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990; C. Bonvecchio, Decisionismo: la dottrina politica di Carl Schmitt, Unicopli, Milano 1984; C. Galli, Genealogia della politica: Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna 1996; Id., Lo sguardo di Giano: saggi su Carl Schmitt, Il Mulino, Bologna 2008; M. Scattola, Teologia politica, Il Mulino, Bologna 2007 (soprattutto pp. 164-170); G. Filoramo (a cura di), Teologie politiche. Modelli a confronto, Morcelliana, Brescia 2005, P. Bettiolo – G. Filoramo (a cura di), Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Morcelliana, Brescia 2000; J. Derrida, Force de loi. Le «Fondement mystique de l’autorité», 1994; tr. it. a cura di F. Garritano, Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità, Bollati Boringhieri, Torino 2003. In particolare, sulle diverse possibilità di classificare la teologia politica, cfr. E. Castrucci, Teologia politica e dottrina dello stato, in L. Lombardi Vallari – G. Dilcher (a cura di), Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Nomos, Baden 1981, 2 voll., I, pp. 731-734; E.-W. Böckenförde, Politische Theorie und politische Theologie (1981), in J. Taubes (a cura di), Der Fürst dieser Welt, Funk, München 1983, pp. 16-25. [16] Cfr. K. Löwith, Meaning in History, 1949; tr. it. a cura di P. Rossi, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano 19794: «la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico» (ivi, p. 22): la visione escatologica non si limita, secondo Löwith, a squadernare per la prima volta un futuro aperto e nuovo, impensabile per il modo greco di intendere il tempo; nella misura in cui guarda all’intero complesso delle vicende umane nella prospettiva di una «meta finale» (Endziel) con conseguente redenzione e con conseguente donazione di senso all’intero processo, nelle sue singole tappe, quella visione propone per la prima volta una concezione lineare, unidirezionale e infuturante del tempo storico. Da questo punto di vista, la Geschichtsphilosophie diventa il luogo in cui emerge più nitidamente il carattere secolarizzato della modernità: con il suo obiettivo programmatico di fornire un’interpretazione del corso storico sistematica, onnicomprensiva e senza riferimenti all’aldilà, alla luce di un principio tale per cui gli eventi possano essere letti in riferimento a un fine ultimo che conferisca un senso all’intero processo e ai singoli accadimenti che lo costellano, essa cade vittima dell’illusione di aver guadagnato una completa autonomia e di aver attuato una drastica rottura con tutti i «presupposti cristiani», in primis con il necessario riferimento alla dimensione trascendente. Eppure – e questo è il tratto fondamentale – essa resta, secondo Löwith, intrappolata nei canoni della concezione 68 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
cristiana del tempo lineare e unidirezionale, e in ciò si annida la contraddizione che ne rende fragili le fondamenta: tramite i «concetti-chiave» del progresso, della verità situata nel futuro e della redenzione finale a cui restano legate le principali filosofie della storia (da Hegel a Marx, da Kant a Comte), la filosofia della storia ripropone in forma secolarizzata, ovvero purificata da ogni riferimento alla trascendenza, le principali categorie cristiane, dissolvendole nel flusso della storia. Muovendo dallo studio della Geschichtsphilosophie, dilatato sulla più ampia scala dei principali fenomeni del moderno, diventa possibile individuarne il carattere secolarizzato nella forma della immanentizzazione della trascendenza. [17] Cfr. M. Weber, Die protestantischen Sekten und der Geist des Kapitalismus, 1906; tr. it. a cura di P. Rossi, Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, in Id., Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982, 2 voll., I, pp. 202 ss. La modernità deve essere intesa, secondo Weber, come «processo di secolarizzazione» (Säkularisationsprozess), prendendo le mosse dall’analisi del Geist del moderno capitalismo occidentale concepito come secolarizzazione dell’«etica» protestante. Tralasciando, in questa sede, i seri problemi che pone l’assunzione della secolarizzazione della religione cristiana nella sua forma protestante, che già costituirebbe di per sé (come già peraltro notato a suo tempo da Hegel) una forma di riconoscimento della assoluta centralità del Weltprinzip, è particolarmente denso di conseguenze il fatto che Weber insista a più riprese sul fatto che il processo di secolarizzazione, nella sua complessità, debba essere inquadrato nel più ampio orizzonte del «processo storico-religioso di disincantamento del mondo» (religionsgeschichtlicher Prozess der Entzauberung der Welt), a sua volta poggiante su quella Rationalisierung che, nella sua processualità, costituirebbe la cifra del mondo occidentale, il suo «sviluppo particolare» (Sonderentwicklung). Quella «razionalizzazione», che diversifica in modo profondo l’Occidente da tutte le altre civiltà, e che si attua in una forma così radicale e onnipervasiva da investire tutti i sistemi di credenza, le strutture familiari, gli ordinamenti giuridici, politici ed economici, la scienza e addirittura le realizzazioni artistiche del nostro mondo occidentale, è infatti intrecciata a filo doppio con il processo di secolarizzazione. Solo tramite la secolarizzazione si è infatti potuto verificare quel disincantamento del mondo – svuotato dagli dèi e dalle tante forze misteriose che lo popolavano in passato – che si è sempre più configurato come razionalizzazione crescente e culminante nel moderno capitalismo, la cui cifra deve essere appunto individuata, per Weber, non nell’accumulo fine a se stesso, bensì in una razionalizzazione di quella sfrenata volontà di possesso, rimasta irrazionale e non disciplinata nelle culture extraoccidentali. [18] Aristotele, Metafisica, 982 B 25; tr. it. a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 13. [19] F. Bacone, Novum Organum, 1620; tr. it. a cura di E. De Mas, Il nuovo Organo, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 49 ss. [20] Cfr. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, 1837; tr. it. a cura di G. Bonacina – L. Sichirollo, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma–Bari 2003, pp. 337 ss. [21] Cfr. R. Mondolfo, L’infinito nel pensiero dei greci, Le Monnier, Firenze 1934. [22] G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, 1807; tr. it. a cura di V. Cicero, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2000, p. 85. [23] DK 68 B 165, tr. it. a cura di D. Fusaro, in H. Diels e W. Kranz, I Presocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, p. 1403. [24] DK 68 B 40, tr. it. a cura di D. Fusaro, in H. Diels e W. Kranz, I Presocratici, cit., p. 1367. [25] DK 68 B 50, tr. it. a cura di D. Fusaro, in H. Diels e W. Kranz, I Presocratici, cit., p. 1369. [26] Eschilo, Eumenidi, a cura di D. Del Corno, Mondadori, Milano 1995, vv. 526-528. [27] Platone, Repubblica, 592 B, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 1305. Cfr. M. Vegetti, Un paradigma in cielo. Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci, Roma 2009, in cui viene ricostruita la Wirkungsgeschichte della Repubblica platonica nella tradizione occidentale, a partire da Aristotele e dal suo primo tentativo di superamento di quel modello politico. [28] Platone, Repubblica, VIII, 550 E – 551 A, cit., p. 1268. [29] L’espressione, di K. W. Göttling, è stata ripresa e resa famosa da T. Gomperz: cfr. T. Gomperz, Griechische Denker. Eine Geschichte der antiken Philosophie, 1896; tr. it. a cura di L. Bandini, Pensatori Greci, La Nuova Italia, Firenze 1950-1967, 2 voll., I, p. 572. 69 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
[30] Cfr. Platone, Teeteto, 174 A-B, in Id., Tutti gli scritti, cit., p. 223: «quello, Teodoro, che si racconta anche di Talete, il quale, mentre studiava gli astri e stava guardando in alto, cadde in un pozzo: una sua giovane schiava di Tracia, intelligente e graziosa, lo prese in giro, osservando che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno nel cielo, e, invece, non vedeva quelle cose che aveva davanti, tra i piedi». [31] Aristotele, Politica, 1260 A; tr. it. a cura di R. Laurenti, Laterza, Roma–Bari 2002, p. 27: «lo schiavo non possiede in tutta la sua pienezza la parte deliberativa, la donna la possiede ma senza autorità, il ragazzo infine la possiede, ma non sviluppata». Tutti e tre, di conseguenza, per Aristotele non sono uomini in senso pieno. [32] K. Marx, Forme di produzione precapitalistiche, cit., p. 167. [33] Ivi, p. 165. [34] Esiodo, Le opere e i giorni; tr. it. a cura di G. Arrighetti, in Id. Opere, Mondadori, Milano 2007, v. 326. [35] Omero, Iliade; tr. it. a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1974, I, v. 148. [36] DK 1 B 6, tr. it. a cura di I. Ramelli – G. Reale, in H. Diels e W. Kranz, I Presocratici, cit., p. 21. [37] DK 22 B 125a, tr. it. a cura di G. Reale, in H. Diels e W. Kranz, I Presocratici, cit., p. 371. [38] Sofocle, Antigone, a cura di L. Biondetti, Feltrinelli 1988, vv. 374-381. [39] Platone, Apologia di Socrate, 29 E, in Id., Tutti gli scritti, cit., p. 35. [40] Aristotele, Politica, 1256 A – 1260 B 20, cit., pp. 15-29. Su questi aspetti del pensiero aristotelico, cfr. M. Venturi Ferriolo, Aristotele e la crematistica. La storia di un problema e le sue fonti, La Nuova Italia, Firenze 1983. [41] Aristotele, Politica, 1257 B 31, cit., p. 20. [42] Ivi, 1257 A, p. 18. [43] Ivi, 1258 A 15, p. 21. [44] Id., Etica Nicomachea, 1096 A 5 ss., in Id., Le tre etiche, a cura di A. Fermani, Bompiani, Milano 2008, p. 443. [45] Cfr. M. Foucault, Les mots et les choses, 1966; tr. it. a cura di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1977, pp. 411-412: «ai nostri giorni, e Nietzsche anche qui indica da lontano il punto d’inflessione, si afferma non tanto l’assenza o la morte di Dio, quanto la fine dell’uomo (quel sottile, impercettibile scarto, quell’arretramento nella forma dell’identità, che hanno portato la finitudine dell’uomo a convertirsi nella sua fine); si scopre a questo punto che la morte di Dio e l’ultimo uomo sono strettamente legati: non è appunto l’ultimo uomo che annuncia di aver ucciso Dio, ponendo in tal modo il proprio linguaggio, il proprio pensiero, il proprio riso nello spazio del Dio già morto, ma proponendosi anche come colui che ha ucciso Dio e la cui esistenza include la libertà e la decisione di tale delitto? Cosí, l’ultimo uomo è, a un tempo, piú vecchio e piú giovane della morte di Dio; avendo ucciso Dio, è lui stesso che deve rispondere alla propria finitudine; ma dal momento che parla, pensa ed esiste entro la morte di Dio, il suo crimine stesso è destinato a morire; nuovi dei, identici, già gonfiano l’Oceano futuro; l’uomo scomparirà. Piú che la morte di Dio – o meglio nella scia di tale morte e in una correlazione profonda con essa – il pensiero di Nietzsche annuncia la fine del suo uccisore: ossia l’esplosione del volto dell’uomo nel riso, e il ritorno delle maschere: la dispersione della profonda colata del tempo da cui l’uomo si sentiva portato e di cui sospettava la pressione nell’essere stesso delle cose; l’identità tra il ritorno del Medesimo e l’assoluta dispersione dell’uomo». [46] K. Marx, Forme di produzione precapitalistiche, cit., p. 161. [47] Id., Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, 1857-1858; tr. it. a cura di G. Backhaus, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino 1976, 2 voll., I, p. 94. [48] Cfr. M. Weber, La scienza come professione, cit., p. 111: «tra i diversi ordini valoriali (Wertordungen) del mondo c’è una lotta insanabile. Diceva il vecchio Mill, la cui filosofia non intendo elogiare, ma che su questo punto aveva ragione: se si parte dalla pura esperienza si perviene al politeismo (Polytheismus). Nonostante la formulazione semplicistica e l’apparente paradossalità di questa affermazione, in essa c’è del vero. Se non altro, almeno questo oggi è certo: ciò che è santo lo è non solo anche se non è bello, ma perché e finché non è bello […]. E parimenti, che ciò che è bello non lo è sebbene, ma in quanto non è buono, questo lo sappiamo nuovamente da Nietzsche ed era già stato espresso da Baudelaire nei 70 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Fleurs du mal. […] E ancora, è la sapienza popolare a dire che qualcosa può essere vero sebbene e in quanto non sia bello, buono e santo». Come è noto, per Weber è questo il paesaggio della modernità, in cui proliferano antagonisticamente valori di ogni tipo, senza che nessuno di essi predomini sugli altri: così, ciascuna delle realizzazioni dell’età moderna finisce per rispondere solamente a sé, smarrendo ogni punto di contatto con le altre realizzazioni, con la paradossale conseguenza per cui ciò che è buono non per questo è anche vero, e ciò che è bello non per questo è anche buono. Si attua cioè un autentico frazionamento prismatico dei valori, dinanzi al quale l’individuo, come accadeva con gli antichi Greci, può chinare il capo a uno dei tanti «dèi» trascurando gli altri: «come i greci offrivano sacrifici chi ad Afrodite e chi ad Apollo, ma soprattutto ciascuno agli dèi della propria città, così avviene ancor oggi, solo disincantati (entzaubert) e spogliati dal rivestimento mitico ma intimamente vero di quel comportamento» (ivi, pp. 111-113). Come è noto, il politeismo dei valori presentava in Weber carattere tragico, poiché segnalava la presenza di scissioni incomponibili tra ordini di imperativi valoriali, in una pluralità conflittuale che produceva, come risultato, la lacerazione dell’uomo moderno, creando vere e proprie diaspore identitarie. Inoltre, se per Weber il politeismo implicava la scelta di un valore a esclusione di altri, nel mondo postmoderno esso diventa una prassi rassicurante che permette di vivere con gioia, superficialmente, il tormento della molteplicità e della multilateralità prospettica, in un bricolage dei valori. [49] J.–F. Lyotard, La condition postmoderne, 1979; tr. it. a cura di C. Formenti, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981.
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Retorica anticapitalistica e nascita dell’uomo economico ne “Il Borghese” di Werner Sombart di Mario M. Bosincu
Il benessere, come voi lo intendete ― questo non è uno scopo, ci appare invece come la fine! Uno stato che rende subito l’uomo ridicolo e spregevole, ― che fa desiderare la sua rovina!1 FRIEDRICH NIETZSCHE
1. L’Era economica e la trasvalutazione borghese dei valori Il 26 febbraio 1941 Leo Strauss tenne a New York una conferenza dal titolo “Il nichilismo tedesco” dedicata alla ricostruzione del retroterra ideologico del nazismo e della guerra allora in corso. Le radici di tali eventi storici furono rintracciate nella posizione peculiare occupata nell’ambito della cultura europea dalla Germania, la cui speculazione filosofica aveva conosciuto il suo sviluppo tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento nel segno di un’aspra critica agli ideali etici dell’Illuminismo di origine inglese e francese. Insistendo sulla differenza tra «l’honestum e l’utile», i filosofi tedeschi, infatti, si ribellarono allo «svilimento della morale» e predicarono una «morale non mercenaria» che trovava la sua massima espressione nell’esercizio del coraggio e delle virtù militari, poiché «il compimento delle azioni coraggiose, ossia la morte sul campo dell’onore, la morte per il proprio paese, non è mai ricompensato: è il fiore del sacrificio di sé»2. In altre parole un vero e proprio «amore della morale», un «senso di responsabilità nei confronti della morale in pericolo»3 alimentò il militarismo tedesco ed il culto della guerra quale esperienza etica par excellence4 come pure il nichilismo tedesco, definito il «desiderio di distruggere qualcosa di specifico: la civiltà moderna5, giudicata spregevole perché contaminata da ideali utilitaristici ed edonistici6. È interessante notare come questa visione della specificità sul piano etico della cultura filosofica tedesca non sia affatto un’elaborazione teorica originale di Strauss, il quale fa ampiamente riferimento, senza mai citarlo, a Mercanti ed eroi, il celebre pamphlet bellicista pubblicato nel 1915 da Werner Sombart. In questo scritto, infatti, il carattere peculiare del pensiero tedesco è rivendicato con queste parole:
Il pensiero ed il sentire tedesco si esprimono in primo luogo nel rifiuto unanime di tutto ciò che deriva anche soltanto da lontano dal pensiero e dal sentire inglese o nel complesso da quello 72 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
nato nell’Europa occidentale. Il pensiero tedesco si è levato con intima avversione, con sdegno, con indignazione, «con profondo disgusto» contro le «idee del XVIII secolo», che erano di origine inglese; ogni pensatore tedesco, ma anche ogni tedesco che pensasse da tedesco, in ogni epoca ha respinto con decisione l’utilitarismo, l’eudemonismo, e quindi ogni filosofia dell’utilità, della felicità e del piacere [alle Nützlichkeits- und Glücks- und Genußphilosophie]: furono concordi su questo punto i fratelli nemici Schopenhauer e Hegel, e Fichte e Nietzsche, i classici ed i romantici, gli abitanti di Potsdam e di Weimar, gli antichi ed i nuovi tedeschi7.
Strauss deve a Sombart anche il riconoscimento di Nietzsche quale padre spirituale principale dell’ethos antiutilitaristico ed antieudemonistico tedesco8 e l’interpretazione del militarismo quale conseguenza logica della morale ‘non mercenaria’. In Mercanti ed eroi il militarismo è esaltato come «lo spirito eroico elevato sino allo spirito guerriero»9 [der zum kriegerischen Geist hinaufgesteigerte heldische Geist], dove per «spirito eroico» non si intende una generica astrazione morale, ma l’essenza concreta del popolo tedesco. Richiamandosi a Nietzsche10, Sombart teorizza infatti l’esistenza di una polarità esistenziale rappresentata dai mercanti e dagli eroi11, esemplarmente incarnati dal popolo britannico e da quello tedesco. Se lo «spirito del mercante» domanda alla vita che cosa essa possa offrirgli12 e mira a concludere con essa «un affare remunerativo»13, lo spirito eroico, invece, si basa sulle virtù dell’abnegazione, della fedeltà, dell’audacia e dell’obbedienza14 che trovano espressione nella guerra, considerata per questo motivo «la cosa più sacra sulla terra»15. La stessa Prima Guerra Mondiale è salutata da Sombart come «la guerra anglo-tedesca» in cui si tratta di decidere con le armi «quale spirito si rivela il più forte: quello mercantile o quello eroico»16. In questo senso essa è interpretata come una vera e propria «crociata contro lo spirito capitalistico»17 in cui la Germania è chiamata a fare da «ultimo argine contro la marea di fango del commercialismo»18. Vediamo ora quali sono secondo Sombart le caratteristiche principali del capitalismo. Esso è definito «una organizzazione economica di scambio […] che è dominata dal principio del profitto e dal razionalismo economico»19. Sotto il dominio del primo principio «lo scopo immediato dell’agire economico non è più il soddisfacimento del bisogno, ma esclusivamente l’aumento di una somma di denaro», mentre il razionalismo economico non è altro che «l’orientamento fondamentale di tutte le azioni verso la massima adeguatezza allo scopo»20. In altre parole in seguito all’affermarsi del capitalismo alla ricerca di un utile inteso come ciò che è in grado di appagare un bisogno è subentrato il perseguimento del guadagno del denaro per mezzo di una condotta economica razionale adeguata a questo scopo. A questo proposito è significativo il fatto che Sombart scriva che «la nobiltà terriera non possiede alcuna caratteristica crematistica», poiché le economie curtensi «rimangono per lungo tempo economie orientate alla copertura del bisogno», mentre lo spirito imprenditoriale capitalistico presenta un «orientamento crematistico»21. Sono considerazioni che chiariscono come il pensatore tedesco interpreti il capitalismo per mezzo di categorie ripresa dalla Politica di Aristotele. Questi distingue due forme di crematistica: quella «necessaria», che «appartiene per natura all’amministrazione domestica e si preoccupa soprattutto di procurare i mezzi di sostentamento, non essendo perciò illimitata, ma avendo un confine bene stabilito»22, e 73 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
quella «non necessaria», che rappresenta la crematistica «nel senso pregnante del termine»23 e che è «produttrice di ricchezza e denaro»24. In questa forma di crematistica «non c’è confine al raggiungimento dello scopo», tanto più che esistono uomini dominati da una smodata brama di denaro: un atteggiamento, questo, la cui causa va cercata nell’«affaticarsi intorno a quelle cose che permettono di vivere, senza preoccuparsi di vivere bene»25. È chiaro, dunque, come Sombart veda nel capitalismo il trionfo di quest’ultima forma di crematistica condannata da Aristotele a cui corrisponde il moderno «principio del profitto», mentre la civiltà feudale è rimpianta perché era governata dal «principio della copertura del bisogno»26. Sombart, del resto, assume Aristotele come modello anche sul piano psicologico: la sua visione degli «uomini nuovi orientati al profitto»27 e la sua critica della «smania di guadagno»28 [Gewinnsucht] discendono infatti dalla critica aristotelica degli uomini dediti alla ricerca del profitto. Max Scheler nel suo saggio intitolato “Il Borghese” vide nell’omonimo libro di Sombart una «terribile accusa contro le nostre forme di vita» superiore per potenza al «furibondo ruggito dei partiti socialisti dominanti in Europa e dei loro teorici»29. Il pathos che anima la critica sombartiana al capitalismo ha infatti, come è stato ripetutamente osservato, un carattere fortemente morale30. Ben più interessante è però sottolineare il fatto che quella assunta da Sombart è una posizione etica non-contemporanea, dove per «non-contemporaneità» [Ungleichzeitigkeit] si intende quel «residuo economicoideologico di epoche precedenti»31 [wirtschaftlich-ideologisches Restsein aus früheren Zeiten] che secondo Ernst Bloch ha accompagnato la peculiare via tedesca alla modernizzazione facendo così della Germania «un gigantesco recipiente in ebollizione del passato»32. In concomitanza con il rapido e traumatico sviluppo capitalistico ed industriale della Germania33 si aprì infatti una frattura «tra le moderne strutture economico-tecniche, burocratiche e sociali ed i valori ed i modelli di comportamento ancora tradizionali»34, come è dimostrato dall’analisi sombartiana del capitalismo carica di un tono di denuncia che è alimentato da una posizione etica non-contemporanea di derivazione aristotelica. Del resto Sombart fa appello anche ad altre figure del passato: a Tommaso d’Aquino, evocato per formulare la tesi secondo la quale «il punto di partenza di ogni attività economica è il bisogno dell’uomo»35, e a Dante, di cui ricorda il canto XIII dell’Inferno sugli scialacquatori36 come pure le «invettive contro la smania di guadagno della nobiltà e dei borghesi»37. Questo richiamo al poeta fiorentino è particolarmente importante non solo perché attesta la volontà di Sombart di rafforzare la sua condanna dell’avidità di denaro mediante la citazione di un’auctoritas, ma anche perché chiarisce il ruolo che questi intende assumere ne Il Borghese: quello della guida morale non-contemporanea in un mondo degradato. Non desta stupore, quindi, il fatto che Il socialismo tedesco (1934) contenga un riferimento al «compito dei profeti» consistente nel «richiamare il popolo alla sua essenza se esso è «degenerato»»38. Non bisogna però dimenticare l’altro grande punto di riferimento teorico ed etico di Sombart rappresentato dal pensiero di Nietzsche, a cui egli guarda per spiegare le cause della degenerazione capitalistica. Sombart prende le mosse dal saggio di Max Scheler originariamente intitolato “Risentimento e giudizio morale di valore. Un contributo alla patologia della civiltà”39 (1912) in cui è riconosciuta nietzschianamente 74 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
alla condizione psicologica del risentimento la capacità di stabilire nuovi assetti assiologici. Esso è definito uno stato di «autoavvelenamento» indotto dalla repressione del «sentimento e dell’impulso di vendetta»40 dovuta al «senso dell’impotenza di tradurli in pratica»41. Di qui una condizione di frustrazione che può essere lenita solo per mezzo della «detrazione di valore dell’altro»42 [Wertdetraktation des Anderen] e della «svalorizzazione illusoria dei valori positivi che originariamente suscitavano invidia»43 [illusionäre Entwertung der ursprünglich den Neid errregenden positiven Werte] effettuata tramite valori antitetici. Ispirandosi a Nietzsche, Scheler vede quindi nel risentimento la causa della «falsificazione delle tavole dei valori»44 e la matrice di quadri di valori alternativi quali quelli codificati nella morale borghese. A suo avviso, infatti, il suo nucleo «ha le sue radici nel risentimento» e «perciò dovrebbe essere definita in realtà una »morale degli schiavi«»45. È esattamente da questa tesi che prende spunto Sombart, cui Scheler riconosce il merito di aver confermato e rafforzato le sue analisi tracciando «una genealogia della moderna morale »borghese«» e mettendo in luce le «forze motrici della sua formazione»46. Sombart formula infatti la teoria secondo la quale «uomini dalla posizione borghese, in prevalenza probabilmente nobili decaduti», animati da risentimento nei confronti della «condotta di vita signorile (che essi nel profondo del cuore amavano e desideravano)», innalzarono al rango di valori massimi i principi della condotta piccolo-borghese e condannarono come immorali i valori aristocratici47. I principi borghesi, a loro volta, sono il prodotto della degenerazione di sublimi valori premoderni. Sombart sostiene infatti che gli ideologi della morale capitalistica hanno elaborato quest’ultima conferendo una curvatura utilitaristica ad elementi della dottrina stoica per «giustificare nel modo migliore la loro aspirazione al guadagno»48. Più precisamente il tipico precetto borghese di dominare gli impulsi e di attuare una «razionalizzazione ed economicizzazione totale della condotta di vita»49 [vollständige Rationalisierung und Ökonomisierung der Lebensführung] deriva dalla banalizzazione in senso utilitaristico dell’idea stoica dell’egemonia della ragione nell’ambito dell’esistenza nella concezione secondo la quale «la nostra massima felicità scaturisce da una modellazione razionale ed opportuna della vita»50. Sombart ritiene quindi che la morale utilitaristica moderna, in qualità di codice etopoietico51, non produca più il nobile saggio stoico, ma il meschino «uomo economico» [Wirtschaftsmensch] borghese la cui esistenza è interamente sottoposta al calcolo razionale delle occasioni utili per conseguire l’utile rappresentato dal guadagno. Il quadro delle origini della modernità borghese appare così completo. La sua storia non è altro che una lunga vicenda di degradazione di quanto vi era di più nobile nella cultura europea sotto la spinta del risentimento e del subdolo desiderio di giustificare moralmente la sete di guadagno. Il risultato è «il capovolgimento di tutti i valori della vita»52 [die Umkehrung aller Lebenswerte], formula nietzschiana con cui Sombart riassume l’essenza della modernità, ribattezzata l’«Era economica», poiché in tale periodo «l’economia ed i valori economici e materiali reclamarono e conquistarono il predominio su tutti gli altri valori, con la conseguenza che l’economia impresse il suo stampo su tutti i campi della società e della coltura»53. Il tratto distintivo dell’età borghese sul piano esistenziale è dunque il «comfortismo» [Komfortismus], ossia l’«organizzazione della vita sotto il profilo della massima comodità e del massimo agio»54. Ad esso Sombart contrappone il socialismo tedesco, un socialismo eroico diverso da quello marxista perché estraneo al suo orientamento edonistico55 il cui compito è porre fine alla «sottomissione 75 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
di tutta l’esistenza all’economia ed alle sue leggi» in base al motto: «liberiamoci dell’economia»56. Più avanti Sombart chiarisce meglio la missione del socialismo tedesco con queste parole:
l’epoca economica ha portato con sé una sopravalutazione dei beni materiali e con essi il primato dell’economia. Tale dominio deve essere spezzato. Noi dobbiamo meditare nuovamente sulla vera gerarchia dei valori, e persuaderci che sopra i valori dell’utilità e del conforto altri ve ne sono più elevati: i valori della santità, i valori dello spirito e i valori della vita (valori vitali) che noi dobbiamo forzarci di realizzare nell’ordine anzidetto, prima di pensare ai valori dell’utilità e dell’agiatezza57.
Sombart indica dunque come sua missione ‘profetica’ di teorico del socialismo tedesco il ricapovolgimento dei valori trasvalutati nell’epoca economica mirante a riportare gli uomini del suo tempo sulla retta via58. Un compito etico, dunque, prima che politico, che è naturalmente di derivazione nietzschiana. Anche in questo testo, tuttavia, ricompare la figura di Aristotele. Nel formulare il suo progetto dell’economia pianificata cui il nuovo Stato socialista dovrebbe dare impulso Sombart, infatti, osserva che l’«economia nazionale programmata corrisponde alla «Economia» di Aristotele, non alla «Crematistica»»59. Rivelandosi così come «una maglia fitta di futuro e di passato»60, il pensiero di Sombart, nel momento in cui guarda all’avvenire ed alla costruzione di un nuovo Stato, conferma la sua collocazione in un orizzonte etico non-contemporaneo per via dell’utopia di un ritorno parziale ad un’economia premoderna governata aristotelicamente dal «principio della copertura del bisogno».
2. La retorica anticapitalistica e le sue ambivalenze Sombart volle sottolineare ne Il capitalismo moderno che la sua opera non serviva «nessuna particolare tendenza di partito, politica o economica o sociale»61. Egli aveva infatti un preciso obiettivo etico e kulturrevolutionär che volle perseguire tramite una vibrante retorica anticapitalistica volta ad attaccare la civiltà borghese. Ad essa contrappose la nobile civiltà feudale in cui i «signori» [Herren] conducevano una vita «libera, indipendente, scevra da attività economiche» e dedita alla guerra, alla caccia ed ai divertimenti nel più totale disprezzo del denaro: «Il signore spregia il denaro. Esso è sudicio, proprio come lo è ogni attività acquisitiva»62. Questo quadro dell’aristocrazia non è altro che il frutto della proiezione su uno scenario medioevale dell’immagine della nobiltà precedentemente proiettata da Nietzsche sulla civiltà greco-romana’63 facendo incarnare da una classe sociale antica i valori tipici della «reazione aristocratica» della fine dell’Ottocento64: l’otium, la cui celebrazione rappresentava un «gesto aristocratico di distinzione»65, e la guerra che, implicando l’«estraneità al guadagno e al lavoro»66, appariva agli avversari della borghesia come l’attività antieconomica ed antiutilitaristica per eccellenza. Quel che è interessante porre in 76 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
rilievo è però soprattutto l’effetto retorico di questa immagine dell’aristocrazia. Edmund Wilson riteneva che Flaubert fosse ossessionato dall’idea dell’«inferiorità del presente rispetto al passato» e che avesse intrecciato nella sua produzione letteraria «due linee parallele»: da un lato la rievocazione di un magnifico passato e dall’altro la descrizione del mediocre mondo moderno67. Nella poesia di T. S. Eliot questi due mondi sono posti l’uno accanto all’altro per mostrare l’abiezione del presente68. È esattamente quanto fa Sombart, che ne Il Borghese evoca l’immagine luminosa del Medioevo cavalleresco come sfondo su cui far risaltare tutte le brutture dell’«Era economica». Uno dei suoi aspetti maggiormente criticati è il venir meno della fede, ridottasi ad «una questione delle domenica mattina»69, i cui effetti sono stati il diffondersi della disperazione nichilistica70 e, soprattutto, lo scatenarsi degli impulsi non più tenuti a freno dalla morale. La «caduta dei valori religiosi», infatti, «ha lasciato via libera a quel demone di passioni che è penetrato oggi nell’economia». «Oggi», prosegue Sombart, «il principio fondamentale di ogni agire economico è la “mancanza di scrupoli”, la quale si accorda difficilmente con qualsiasi sistema religioso che voglia fissare le norme della morale borghese»71. Ovunque imperversa una caccia sfrenata al guadagno, segno inequivocabile, questo, di una «mammonizzazione dell’intero modo di vivere»72 [Vermammonisierung des ganzen Lebenszuschnitts]. Questo riferimento alla figura di Mammona, termine con cui, col significato di ‘ricchezza’, è indicato nel Vangelo (cfr. Mt 6, 24 e Lc 16, 9-13) l’idolo contrapposto a Dio, è particolarmente degno di nota. Già Thomas Carlyle73 parlò in Past and Present (1843) del «Vangelo del Mammonismo»74 per indicare lo spirito materialistico del XIX secolo. Sulle sue orme Sombart condanna dunque la ricerca del guadagno come un atto sacrilego in nome di un ethos non-contemporaneo di derivazione cristiana e nel segno di una metaforica dell’idolatria. Essa è alla base anche del passo de Il capitalismo moderno in cui l’irresistibile forza di seduzione di tale sistema economico è messa in rilievo evocando «la danza intorno al vitello d’oro» che, «contro la sua volontà», attira l’operaio «nel vortice»75. Oltre alla metaforica dell’idolatria Sombart si serve anche di una metaforica del soprannaturale per caratterizzare l’avvento del capitalismo come il risultato di una sinistra violazione dell’ordine ‘naturale’ precapitalistico. Ecco, allora, che al termine dell’ultimo volume de Il capitalismo moderno egli ricorda il seguente scambio di battute con Max Weber: Un giorno parlando con Max Weber sulle prospettive del futuro emerse la domanda: quando finirà mai la danza delle streghe che l’umanità mette in scena nei paesi capitalisti dall’inizio del diciannovesimo secolo? A questa domanda egli rispose: “quando l’ultima tonnellata di ferro sarà fusa con l’ultima tonnellata di carbone”76.
Ne Il socialismo tedesco all’immagine del sabba segue l’evocazione della figura stessa del demonio quale artefice della degenerazione capitalistica. «Soltanto chi crede alla potenza del diavolo», si legge in questo testo, «può comprendere ciò che è accaduto negli ultimi 150 anni nell’Europa occidentale e in America, giacché soltanto come opera diabolica può venire interpretato ciò che noi abbiamo visto e vissuto». Il sorgere dello spirito capitalistico è infatti spiegato ricordando l’episodio evangelico delle 77 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
tentazioni nel deserto. Se Cristo, infatti, non ha ceduto neanche di fronte alla visione di tutti i regni della terra mostratagli da Satana, «a questa tentazione gli uomini del nostro tempo non seppero resistere, come una volta resistete il Figlio dell’Uomo. Essi hanno adorato il Signore del Mondo infernale»77. Il capitalismo appare così come il frutto del cedimento dell’umanità alla tentazione diabolica della ricchezza e della potenza e come un atto sacrilego di idolatria. Ne Il capitalismo moderno l’avvento del nuovo sistema economico era stato spiegato in un altro modo. Esso, infatti, «è nato dal profondo dell’anima europea»78. Contrapponendosi a Marx, Sombart propone la tesi dell’origine psicologica del capitalismo identificandone le cause non con i rapporti materiali di produzione, ma con le dinamiche interiori dei soggetti economici, ossia con la loro «mentalità economica»79. In questo senso il sorgere del capitalismo è drammatizzato nel destarsi di un nuovo spirito dal profondo della psiche collettiva. Sempre nella stessa pagina si legge che ha fatto irruzione nella storia «uno spirito terreno e mondano» che «dispone di una immensa forza distruttrice di tutte le vecchie formazioni naturali, dei vecchi legami, delle vecchie barriere» e che «strappa i vincoli […] formatisi in modo organico»80. Il capitalismo è dunque concepito scientificamente come un determinato sistema economico, ma è descritto come una forza che spazza via l’assetto ‘naturale’ precapitalistico. Sono evidenti, a questo proposito, alcune interessanti affinità e divergenze tra Sombart e Marx. Questi nel Manifesto del partito comunista aveva già osservato che la borghesia «ha distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idillici» e «ha crudelmente spezzato tutti quei variopinti vincoli che nella società feudale legavano l’uomo ai suoi naturali superiori»81. Tuttavia Marx non vede nel mondo precapitalistico un mondo naturale, né lo idealizza: tale epoca è stata infatti caratterizzata dallo «sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche»82. Sono l’esperienza traumatica dell’avvento della modernità ed il suo ethos noncontemporaneo non sincronizzato col suo tempo ad indurre Sombart a circondare il mondo precapitalistico dell’aura del naturale, e dunque di ciò che era legittimato dalla sua conformità alla natura umana, ed a descrivere l’affermarsi del capitalismo come il sovvertimento di un ordine inscritto nella struttura profonda dell’esistenza umana col conseguente effetto di delegittimarlo. Apparentemente, quindi, è da registrare un contrasto con la teoria precedente della nascita del capitalismo. Se il mondo precapitalistico era l’espressione di un ordine naturale, anche il capitalismo risulta sorto dalle profondità della natura umana. Quale sistema economico può allora rivendicare una legittimità fondata su di essa? In realtà, a ben vedere, si tratta di un contrasto del tutto apparente. Sombart, infatti, delegittima il capitalismo proprio ‘naturalizzandolo’ perché ne descrive il sorgere come il frutto di un pervertimento della natura umana, di una ‘colpa’, rappresentata dal dilagare della smania di guadagno83, che, come nella Genesi, è alle origini del male. Una visione simile è evocata nella pagina de Il Borghese in cui si legge che nell’epoca precapitalistica vigeva la massima «omnium rerum mensura homo», sicché la vita conservava ancora il suo carattere «sensato» e «naturale»84. Si noti ancora una volta la rappresentazione del mondo precapitalistico come un cosmo naturale in cui la vita era integra perché non era stata ancora corrotta dal tralignamento determinato dal risvegliarsi dell’«istinto acquisitivo» 78 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
(Erwerbstrieb). In effetti si potrebbe dire che la ricostruzione della genesi del capitalismo si risolve sul piano retorico in una sorta di dramma teologico secolarizzato la cui conclusione in un orizzonte soteriologico appare problematica: una colpa originaria, l’emergere del desiderio di guadagno, ha fatto decadere la vita dalla sua condizione di naturalità ed integrità in uno stato di estrema corruzione corrispondente alla natura lapsa dei teologi e ha dato vita al mondo peccaminoso e violento del capitalismo in cui si è smarrito l’Adamo precapitalistico. Qualche suggerimento utile per formulare un’ipotesi sulla fonte da cui Sombart trasse ispirazione per immaginare la nascita del capitalismo in questi termini teologico-secolarizzati è fornita da Il socialismo tedesco. Qui Sombart ricorda che nel pensiero di Marx «il paradiso del passato viene equiparato allo stato originario dell’umanità empirica» e l’«idea di una primitiva innocenza» è associata «all’idea di un ordine sociale imperniato sulla proprietà collettiva, ossia al comunismo originario». Poi, però, «viene il peccato originale» – un’espressione di cui Sombart rileva la presenza in Engels – che con l’affermarsi della proprietà privata fa dell’uomo un essere «degenerato», «cattivo» e «disumanato» facendogli subire «una caduta originaria»85. È molto probabile, quindi, che Sombart, autoproclamatosi il continuatore dell’opera di Marx86, abbia tratto dal pensiero di quest’ultimo e da quello di Engels uno schema teologico-secolarizzato e che ne abbia modificato alcuni elementi per attaccare il capitalismo e per condannare il processo in virtù del quale l’umanità cessò di dedicarsi alla ricerca dell’utile naturale, del soddisfacimento dei bisogni, per inseguire il guadagno. Del resto il marxismo non rappresenta la sola fonte da cui attingere gli elementi immaginativi funzionali alla lotta contro il capitalismo. Ne Il Borghese l’inizio dello spirito capitalistico è ricondotto allo «scontrarsi degli dei e degli uomini per il possesso dell’oro apportatore di sciagure». Come insegna la Völuspa, infatti, l’ingresso nel mondo della «contesa» e della «colpa» avvenne quando gli Asen, grazie ai nani, si impadronirono dell’oro87. Sombart, dunque, fa ora appello alla mitologia germanica per proiettare la storia della modernità capitalistica su un orizzonte cosmogonico e per metterla in cattiva luce, sicché la sua fine appare giustificata come l’espiazione di una colpa originaria. Non a caso il testo si chiude con un’immagine wagneriana: «forse», scrive Sombart interrogandosi sul futuro del capitalismo, «sarà ancora il crepuscolo degli dei. L’oro sarà restituito al fiume Reno»88. La retorica visionaria de Il Borghese rivela così il suo debito nei confronti dell’anticapitalismo romantico di Wagner ed appare come un’espressione emblematica dell’immaginario apocalittico tipico della cultura tedesca89. Un altro strumento di cui si avvale Sombart è la tesi della perversità. Con l’espressione «perversity thesis» il politologo Albert O. Hirschman ha indicato l’argomento, tipico della retorica reazionaria90, secondo il quale «ogni azione mirante a migliorare alcune caratteristiche dell’assetto politico, sociale, o economico serve solo ad aggravare le condizioni cui si desidera porre rimedio»91 Insomma: «ogni cosa si ritorce contro»92 [everything backfires]. Sombart riprende questo argomento dall’arsenale retorico reazionario per impiegarlo contro il capitalismo, come è testimoniato dalla sua descrizione dell’azienda moderna:
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L’uomo economico moderno […] è attratto e trascinato nel vortice dell’azienda. Non pratica più una virtù, ma si trova in un rapporto di coercizione. È il ritmo dell’azienda che decide il suo ritmo. Può essere tanto poco pigro quanto il lavoratore alla macchina, mentre può esserlo l’uomo con uno strumento in mano, che sia operoso o no93.
Servendosi di una tesi della perversità Sombart mostra quindi come l’azienda moderna, creata dall’uomo per essergli d’aiuto in qualità di «organismo automatico ad alto rendimento»94, finisca col sottoporlo a delle vessazioni costringendolo a seguirne il ritmo parossistico. A ben vedere, quindi, alla base di questa descrizione dell’azienda vi è il mito della ribellione della creatura al creatore riconosciuto da Langdon Winner come il fondamento dell’«animismo tecnologico» [technological animism], un’espressione con cui questi ha designato una modalità di rappresentazione della tecnica che racconta il processo in virtù del quale «una macchina o un sistema tecnologicamente progredito acquisisce caratteristiche simili a quelle della vita ― coscienza, volontà, e movimento spontaneo ― che lo portano a ribellarsi contro la comunità umana»95. Parafrasando Winner si potrebbe quindi parlare di una forma di ‘animismo capitalistico’ a proposito della descrizione sombartiana dell’azienda moderna. Essa affonda le sue radici nella dialettica perversa immanente al capitalismo messa in luce da Max Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905). «Nell’epoca del primo capitalismo è l’imprenditore a fare il capitalismo», scrive Sombart, «mentre in quella del capitalismo avanzato è il capitalismo a fare l’imprenditore». Infatti l’odierna organizzazione capitalistica, come ha correttamente osservato Max Weber, è un cosmo immenso in cui il singolo entra al momento della nascita e che gli è dato, per lo meno in quanto singolo individuo, come un involucro di fatto immutabile [als faktisch unabänderliches Gehäuse] in cui deve vivere. Esso impone al singolo, nella misura in cui è irretito nell’insieme del mercato, le norme del suo agire economico96.
L’immaginario animistico alla base della descrizione della tirannide dell’azienda sull’uomo rappresenta dunque uno sviluppo della visione weberiana della modernità capitalistica quale sistema che, una volta creato, si ritorce contro l’uomo rivelandosi fatalmente coercitivo97. Rispetto a Weber, tuttavia, Sombart pone un’enfasi maggiore, a fini retorici, sulla demonicità del sistema capitalistico e sul processo ‘animistico’ che lo vede prendere vita e ribellarsi contro l’uomo. Nel prendere in considerazione il fatto che l’amministrazione economica, sotto la spinta iniziale del razionalismo, continua a procedere come per inerzia, Sombart osserva che in questo caso è dato osservare uno di quei rari processi che si svolgono anche in altri ambiti culturali: un sistema creato dall’uomo si risveglia a vita propria [zu einem Leben erwacht] e dispiega la sua efficacia dotato di una propria anima [selbstseelisch] senza ed al di sopra e contro l’intervento consapevole del singolo individuo98.
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Questo «processo di animazione»99 [Belebungsprozeß] fa dunque sì che ciò che è privo di vita divenga attivo ed imperioso e che ciò che è vivo, l’uomo, sia degradato al rango di oggetto passivo e manipolabile: Il sistema è assiso all’interno dell’involucro dell’impresa capitalistica come uno spirito invisibile: “esso” computa, “esso” tiene i registri, “esso” calcola, “esso” fissa le somme degli stipendi, “esso” risparmia, “esso” registra, eccetera. Esso compare dinanzi al soggetto economico con violenza sovrana; esso esige da lui; esso lo costringe. E non riposa; cresce; si perfeziona. Esso vive la sua vita [Es lebt sein eignes Leben]100.
La cadenza ossessiva con cui è ripetuto il pronome personale neutro fa emergere il mito latente della ribellione della creatura al creatore alla base della perversity thesis anticapitalistica e della sua metaforica animistica e conferma così la validità della teoria di Georg Simmel, convinto che «il pensiero mitologico trova rifugio anche all’interno della concezione scientifica della realtà»101. Ma, soprattutto, fa apparire il mondo moderno come uno scenario in cui l’uomo è caduto in preda alle forze da lui stesso scatenate come nella ballata dell’apprendista stregone di Goethe102 ed, invece di dominare le cose che ha creato, ne è signoreggiato. In questo mondo ‘a soqquadro’ gioca un ruolo decisivo anche la tecnica. Il macchinismo ha estromesso l’uomo dall’ambito del processo di produzione, al cui centro sta ora la tecnica, e ha costruito un mondo artificiale, composto di «materie morte», sulle rovine del «mondo naturale e vivente». Ciò che è morto ed inorganico predomina dunque su ciò che è vivo ed organico. Questo «spostamento del procedimento tecnico», inoltre, ha influito sullo «spostamento della nostra valutazione complessiva del mondo» perché «l’uomo è scomparso dal centro della valutazione economica come di quella culturale in generale». «Fiat productio et pereat homo»103: Sombart condensa in queste parole il senso del decentramento radicale dell’uomo che ha avuto luogo nell’ordine sovvertito ed innaturale istituito dal capitalismo. Lo scenario complessivo dispiegato dinanzi agli occhi del lettore è infatti quello di una modernità che appare come un mondo perversamente capovolto simile a quello rappresentato da Brueghel nel suo dipinto sui Proverbi olandesi. Come ha osservato Ernst Robert Curtius, il quadro mette infatti in scena il topos del «mondo capovolto» [verkehrte Welt] elaborato nella letteratura medioevale sfruttando l’antico espediente retorico degli adynata ai fini di una severa denuncia della corruzione dei tempi104. A ben vedere, dunque, la retorica anticapitalistica di Sombart va collocata nella tradizione del topos del mondo capovolto perché il pensatore tedesco descrive la modernità come l’epoca in cui l’ordine normale delle cose è stato stravolto per effetto delle dinamiche perverse immanenti alla modernità stessa ed in cui l’uomo economico «sta in equilibrio sulla testa e cammina sulle mani»105. D’altra parte Sombart mostra anche come l’«Era economica» sia stata segnata dal capovolgimento dei valori naturali, al cui posto sono stati intronizzati quelli che prima erano considerati disvalori: così la ricerca del guadagno è subentrata al soddisfacimento del bisogno e la crematistica non necessaria ha trionfato su quella necessaria, i valori materiali e piccolo-borghesi hanno soppiantato quelli spirituali ed aristocratici, i bassi istinti le aspirazioni religiose e la passione per il bello106 e la 81 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
plebaglia arricchita ha detronizzato e corrotto la vera nobiltà107. Sombart rivitalizza dunque il topos del mondo capovolto evocando questo scenario da un lato per mezzo del filosofema della Umwertung aller Werte – sicché il suo nietzschianesimo appare anche come un fatto stilistico – e dall’altro tramite le «figure del ribaltamento» tipiche dell’analisi della società moderna108. In generale la specificità retorica de Il Borghese consiste quindi nel suo situarsi al confine tra la denuncia tradizionale della corruzione del proprio tempo e l’analisi spietata delle dinamiche paradossali della modernità. Riflettendo sull’atteggiamento di Marx nei confronti del mondo moderno, Sombart osserva che questi «in fondo al proprio animo amava il capitalismo». Infatti «come avrebbe egli potuto disprezzare e odiare la madre, per usare la sua stessa metafora, che portava in grembo il figlio per il quale egli aveva così ardentemente lottato: il mondo nuovo, il mondo migliore?»109. Alla luce della retorica anticapitalistica parrebbe allora evidente contrapporre a Marx Sombart. In realtà questi è una figura estremamente ambigua, perennemente oscillante fra i due poli dell’odio e dell’attrazione per il capitalismo. La «contraddittorietà intima del suo pensiero»110 trova espressione, in particolare, nel dissidio ideologico e psicologico tra l’ammirazione vitalistica per l’energia selvaggia del capitalismo e la sua condanna etica. In questo senso è emblematico il passo in cui Sombart parla di «un motivo dominante […] che, come già sapeva Aristotele, in fondo non ha nulla a che fare con la vita economica, l’aspirazione al guadagno». Essa ha fatto sì che si sia sprigionata «una vita economica di tale portata, grandezza e potenza che nessun’epoca precedente ha mai visto»111. Ora, dunque, il richiamo ad Aristotele non implica la denuncia della smania di guadagno, ma il riconoscimento colmo di ammirazione per la vera e propria esplosione di energie che ha comportato. Sombart traccia quindi un quadro ambivalente della modernità capitalistica, vista come una sorta di deflagrazione insieme distruttrice del vecchio ordine e creatrice di un nuovo mondo secondo i canoni dell’«immaginazione modernista»112. Si legga inoltre la descrizione degli USA contenuta ne Il Borghese: «Tutto ciò che lo spirito capitalistico porta con sé quanto a conseguenze si è oggi sviluppato al massimo negli Stati Uniti. Qui la sua forza per ora non è stata ancora spezzata. Qui tutto è ancora tempesta e vortice»113. Sombart supera quindi la caratterizzazione negativa dell’America quale terra classica dello spirito affaristico proposta da Nietzsche ne La gaia scienza114 perché ne descrive la vita economica come un immane sprigionamento di energia e presenta gli USA come un mondo aurorale traboccante di vitalità elementare. I capitalisti stessi sono trasfigurati in figure eroiche. Secondo Sombart «non c’è dubbio che il capitalismo è opera di singoli uomini d’eccezione» e che «la storia della formazione del capitalismo è una storia di personalità»115, giudizi, questi, che riecheggiano la tesi proposta da Thomas Carlyle all’inizio de Gli eroi, il culto degli eroi e l’eroico nella storia (1841) secondo la quale «la storia universale, la storia di ciò che l’uomo ha compiuto nel mondo, è in fondo la Storia dei Grandi Uomini»116. Sombart, dunque, applica il culto carlyleano degli eroi alla ricostruzione della storia del capitalismo: se l’eroe di Carlyle è un «santo secolarizzato»117, il capitalista di Sombart è l’uomo economico eroicizzato. Non a caso i suoi antesignani sono i corsari, i «conquistatori avventurosi, abituati alla vittoria, brutali e avidi» il cui modello è costituito con ogni probabilità dai guerrieri dalla vitalità 82 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
prorompente esaltati da Nietzsche nella Genealogia della morale (1887). Al tempo stesso gli imprenditori sono oggetto di un’analisi psicologica dissacrante. La loro «struttura psichica» [Seelenstruktur] è caratterizzata dalle «forze istintuali» che dominano quella del bambino, sicché essa appare come il prodotto di un processo di regressione: le «valutazioni ultime di questi uomini […] sono quindi una forma di ricaduta negli stati semplici della psiche infantile»118. Infatti i valori infantili della «grandezza sensibile», del «movimento rapido», del «nuovo» e del «senso della potenza» corrispondono rispettivamente all’apprezzamento di un fenomeno sotto l’aspetto quantitativo (si pensi al culto moderno del successo, misurabile secondo parametri quantitativi, nelle competizioni sportive), al culto per la velocità119, quale si esprime anche nel concetto del record, all’interesse per il sensazionale ed infine al «prurito della potenza», interpretato come «un’ammissione di debolezza» alla luce del fatto che «un uomo dotato di una vera grandezza intima e naturale non attribuirà mai un valore particolarmente alto alla potenza esteriore. La potenza non ha alcuna attrattiva per Sigfrido, ma la ha forse per Mime»120. Non solo: è un segno di grandezza apprezzare poco «questo tipo di potenza esteriore» ed il nostro tempo rivela la sua meschinità ed il suo infantilismo proprio perché adora la potenza e coloro che la possiedono121. All’esaltazione dei capitalisti come eroi segue quindi la dissacrazione degli imprenditori quali esseri regrediti ad uno stadio infantile, e se in un altro passo è ammirata la «natura predatrice»122 di Cecil Rhodes, ora la volontà di potenza è condannata come l’aspetto meschino di un’epoca priva di vera grandezza. Quale è dunque il vero volto di Sombart? Quello dell’apologeta delle nature violente e predaci dei capitalisti o quello che disprezza l’anelito alla potenza? In realtà Sombart è entrambe le cose a causa della lacerazione interiore che lo porta ad ammirare le energie animali del capitalismo in nome della sua posizione vitalistica ed insieme a criticarle da un punto di vista morale in ossequio ad un codice etico noncontemporaneo. La sua scrittura appare come un pendolo dall’oscillazione ininterrotta tra i due poli dell’ammirazione e della condanna in un passo de Il capitalismo moderno. Sombart descrive lo spirito capitalistico, ben prima di Spengler, come lo «spirito di Faust» e lo «spirito dell’irrequietezza, dell’ansia»123. Al tempo stesso ne sottolinea il contrasto con l’ordine dato: «ogni dimensione naturale, ogni vincolo organico sembra inadeguato, anzi opprimente allo slancio di questi uomini d’avanguardia»124. Siamo dunque di fronte ad un’ambivalenza nell’ambivalenza perché Sombart, nel momento stesso in cui mette in luce il carattere distruttivo del capitalismo, ne esalta i vessilliferi definendoli degli uomini d’avanguardia e sottolineando la «spinta dell’uomo forte ad imporsi, a sottomettere gli altri alla sua volontà ed alle sue azioni»125. Inoltre egli definisce i borghesi come «i creatori, i vivi, i non-contemplativi, i non-gaudenti, coloro che non fuggono e non negano il mondo»126. Nietzsche fornisce così a Sombart, a dimostrazione ulteriore del suo rapporto ambivalente col capitalismo, gli elementi utili sia per la demonizzazione del borghese sia per la sua esaltazione vitalistica.. Il culmine dell’ambivalenza viene inoltre raggiunto nella pagina de Il Borghese in cui l’imperversare dello spirito capitalistico è descritto con queste parole: «ora il gigante scatenato infuria attraverso la terra calpestando nella sua corsa tutto ciò che si frappone sul suo 83 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
cammino»127. Il passo appare strutturato come una formazione di compromesso in cui agisce il meccanismo della negazione, da intendere in senso freudiano come la strategia che permette ad un contenuto rifiutato dal soggetto di essere enunciato proprio perché è esplicitamente negato, condannato128. In questo caso, infatti, un contenuto censurato dal codice assiologico di Sombart, l’ammirazione per l’energia irrefrenabile del capitalismo, può trovare espressione nell’immagine dello scatenarsi di un essere sovrumano solo a patto di mettere in luce contestualmente il carattere distruttivo della sua azione. Questa pagina getta pertanto una luce ambigua su Sombart, che ne Il Borghese vuole certamente assumere il ruolo di una guida morale chiamata condannare i mali del capitalismo, ma che al tempo stesso non riesce a celare il fascino che esso esercita su di lui. Egli appare così come una figura a cavallo tra due mondi: quello del passato cavalleresco, cui guarda disgustato e turbato dalla società borghese, e quello del presente, che lo seduce con la sua vitalità. 3. La nascita del borghese Ne Il Borghese Sombart illustra in modo estremamente chiaro il carattere psicologico del suo programma di ricerca: «affinché le idee del lettore non si perdano mai nel regno delle ombre dell’astratto, ma siano sempre colme delle visioni della vita vivente, ho posto l’uomo al centro della mia indagine»129. Così, al termine del suo studio sulla «moderna anima economica»130, egli può presentarsi trionfalmente come colui che ha finalmente sciolto l’enigma rappresentato dalla psicologia del borghese scrivendo che «la psiche dell’uomo economico moderno per noi non ha più segreti»131. Per spiegarne le dinamiche Sombart sostiene che «nel mondo gli opposti polari sono la natura borghese e quella erotica»132. Infatti «la dispozione erotica si ribella alla sottomissione ad un ordine di vita borghese perché non accetterà mai valori sostitutivi dei valori erotici»133 [Ersatzwerte für Liebeswerte]. In altre parole Sombart ritiene che l’economia pulsionale dell’uomo economico si basi sulla sublimazione e quindi sull’investimento di mete non sessuali compatibili col sistema di vita borghese, mostrando così le fondamenta libidiche del capitalismo. Non a caso si legge più avanti che «il problema del nesso tra ‘amore e capitalismo’ anche sotto questo aspetto sta al centro del nostro interesse»134. Se Sigmund Freud, dunque, studierà i rapporti tra l’‘amore’ e la civiltà tout court135, Sombart, invece, prende in esame da un punto di vista psicologico un sistema economico collocato in un preciso momento storico ed anticipa così il programma di ricerca sviluppato da Marcuse in Eros e civiltà136 (1955). Il suo punto di partenza è l’analisi della risposta vitale dell’imprenditore al nichilismo. Le conseguenze del suo agire improntato al razionalismo economico sono infatti queste: Se egli non fa mai altro che concludere affari, la sua anima alla fine si inaridisce. Intorno a lui si fa il deserto, ogni forma di vita muore, tutti i valori crollano. […] Natura, arte, letteratura, Stato, amici: tutto svanisce in un enigmatico nulla per lui che non ha più ‘tempo’ per dedicarsi a queste cose. […] Ora egli si trova nel deserto e dovrebbe perire, dopo che per lui tutti i valori sono stati annichiliti.
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Sombart si serve quindi delle categorie della riflessione nietzschiana sul nichilismo per delineare la psicologia del borghese, ma interpreta in senso quasi psicoanalitico la sua nuova posizione di valori necessaria per non soccombere: Ma egli vuole vivere perché è animato da una forte energia vitale. Così deve crearsi nuovi valori che egli trova … nei suoi affari. […] Ma, cosa abbastanza strana: dall’arida sabbia degli affari quotidiani sgorgano nuove sorgenti per l’assetato: attrattive singolari si sviluppano per lui, che ormai si accontenta di poco, dall’accumulazione del guadagno in sé, dalla continua espansione e dal perfezionamento degli affari in se stessi. […] Attraverso un processo psichico incredibilmente complicato si è giunti a lodare senza riserve la pratica degli affari per amore della pratica degli affari137.
Il processo psichico attivato per reagire alla dissoluzione nichilistica dei valori ne crea dunque altri spostando la libido ritirata dai precedenti oggetti di investimento ormai scomparsi (la natura, gli amici, etc.) verso l’attività economica e la ricerca del guadagno. Ne Il capitalismo moderno questa adesione dell’energia psichica alla sfera degli affari è descritta come una vera è propria forma di erotizzazione dell’attività imprenditoriale. Il «pervertimento dell’attitudine spirituale» osservabile nell’uomo economico si traduce infatti in un attaccamento al proprio lavoro quale «fonte della giovinezza dalla quale egli distilla nuove forze» che rafforza, in ultima analisi, il capitalismo: È di straordinaria importanza per l’espansione e per lo sviluppo del capitalismo che l’organismo economico non venga mosso soltanto dalla volontà che nasce dal senso del dovere, ma anche dal fatto che in esso si riversa la feconda operosità di tutto l’amore di cui l’uomo moderno è ancora capace138.
Quest’erotizzazione dell’attività economica mirante non più a soddisfare i bisogni naturali, ma a supplire al tracollo dei valori mediante l’investimento pulsionale del guadagno rappresenta un ulteriore aspetto del mondo capitalistico capovolto, uno scenario in cui non si amano più le persone, ma le cose e le energie erotiche deviate dalla loro meta naturale alimentano il sistema capitalistico in base ad un meccanismo di «funzionalizzazione perversa»139. Sombart sviluppa anche la teoria del carattere storico dell’organizzazione psicologica borghese. Nel contesto di un’analisi del «rapporto tra le dottrine della religione e la formazione psichica dei soggetti economici» [Seelenbildung der Wirtschaftssubjekte] egli vede infatti nel tomismo il fattore di costruzione del borghese. L’idea fondamentale alla base dell’etica tomistica è infatti «la razionalizzazione della vita» in virtù della quale si tratta di «indirizzare i moti sensibili, gli affetti e le passioni verso il fine razionale e di regolarli»140. Questa razionalizzazione dell’esistenza a cui il cattolicesimo ha educato l’uomo per mezzo dell’etica tomistica è stato il presupposto storico del razionalismo economico capitalistico, ossia dell’organizzazione razionale della propria condotta economica al fine del conseguimento dell’obiettivo del 85 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
guadagno, perché ha insegnato a seguire la ragione ed a reprimere le passioni. Come scrive Sombart: Affinché il capitalismo potesse svilupparsi, fu prima necessario spezzare le ossa del corpo dell’uomo naturale ed istintuale e dovette avere luogo, per così dire, un capovolgimento di tutte le valutazioni e del significato della vita. L’homo capitalisticus è il prodotto artificiale ed artistico che alla fine è scaturito da questo capovolgimento141.
Il pensatore tedesco mette quindi in luce il nesso tra l’ ‘amore’ (l’economia pulsionale) ed il capitalismo ricostruendo l’influenza della Chiesa su una precisa forma di soggettivazione142 tramite l’educazione al controllo degli istinti ed alla razionalizzazione dell’esistenza promossa per mezzo degli scritti degli scolatici, definiti i «precetti per una forma di training psichico»143. Non a caso Sombart parla di un «processo di educazione ad homo oeconomicus»144 in cui la Chiesa gioca un ruolo essenziale anche per un altro motivo, come si può desumere dall’analisi della «cronoeconomia»145 borghese. Nei trattati Della famiglia (1433-1441) Leon Battista Alberti, «il tipo più compiuto del borghese»146, teorizzò, quale componente essenziale della buona amministrazione, l’«economia delle forze» basata sull’uso sensato del tempo147 e sul rifiuto dell’ozio, nocivo al corpo ed allo spirito148. Questa economia temporale era radicata, però, nell’etica cattolica, secondo la quale «l’ozioso pecca perché scialacqua il tempo, questo bene preziosissimo; egli sta più in basso di tutte le creature, poiché ogni creatura lavora in qualche modo»149. A ben vedere, dunque, Sombart attribuisce al cattolicesimo la responsabilità di aver fatto dell’homo capitalisticus un essere frenetico e miserevole tramite la demonizzazione dell’ozio. Questi, infatti, vive in preda ad un’ossessione attivistica che lo vede dedicare tutto il tempo del giorno, dell’anno e della vita al lavoro con degli effetti psicologici nefasti: Si sa anche come questo eccesso di attività affaristica logori il corpo e faccia inaridire l’anima. Tutti i valori della vita sono sacrificati al Moloch del lavoro, tutti i moti dello spirito e del cuore ad un solo interesse: sono sacrificati agli affari150.
L’attivismo lavorativo determina quindi un sovvertimento totale dei valori per effetto del quale il lavoro e gli affari sono intronizzati al posto dei valori vitali e nasce un essere frenetico ed inaridito dalla vita erotica drasticamente impoverita, dato che al borghese manca il tempo sia per l’«essere colmo di teneri sentimenti d’amore» sia per «un galante gioco erotico», né egli possiede «la capacità di nutrire una grande passione»151. Sombart prende le mosse con ogni probabilità dall’analisi nietzschiana dell’economia temporale dell’uomo moderno, che, essendo dominato dalla «fretta senza respiro del lavoro», non ha più tempo per «tutto l’esprit della conversazione»152. Tuttavia va oltre questa analisi mettendo in luce l’immiserimento dell’esistenza sotto il profilo delle energie vitali quale conseguenza dell’economia borghese del tempo. In generale, del resto, il porsi di Sombart sulle orme di Nietzsche è evidente nella sua accusa al cattolicesimo di aver privato l’uomo del suo nerbo istintuale. È stato 86 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Nietzsche, infatti, a vedere il cristianesimo come l’istanza che ha soggettivato l’uomo in un essere esangue: in un frammento tardo questa religione è posta sotto accusa non sotto il profilo teologico, ma in qualità di femmineo ideale antropologico che «rende velenosi e malati i nobili istinti»153 ed in Crepuscolo degli idoli (1888) è interpretata come l’agente di trasformazione dell’uomo in una «bestia malaticcia»154 tramite la sua «morale dell’addomesticamento»155. Nell’ambito di una ricostruzione della storia della soggettivazione promossa dal cristianesimo effettuata nello spirito di Nietzsche Sombart approfondisce perciò il capitolo della nascita del borghese vedendo in esso il prodotto della morale cattolica e tomistica del controllo istintuale e del lavoro. Entro questa prospettiva il progetto ‘profetico’ di una nuova posizione di valori esposto ne Il socialismo tedesco appare come un programma di lotta contro la struttura psicologica ed esistenziale cristallizzatasi nel corso dei secoli prima sotto l’influsso della Chiesa e poi per effetto dell’etica borghese. Lo stesso Sombart non fa mistero della sua volontà di rimodellare l’esistenza dell’uomo moderno: Questa caccia selvaggia, questo correre di qua e di là, questo folleggiare dei nostri tempi, debbono cessare. Gli uomini debbono nuovamente avere tempo ed agio di raccogliersi e pregare. In luogo della mobilità esteriore e della rigidità interiore debbono venire l’attività interiore e la calma esteriore. La struttura dinamica della nostra esistenza deve cedere il passo ad una struttura statica. Dobbiamo persuaderci che quanto noi ora consideriamo quale espressione di forte spiritualità e di forte vitalità, cioè questo insensato agitarsi non è che un segno di interna debolezza e di vuoto156.
È evidente, quindi, come Sombart teorizzi una trasformazione dell’uomo in un’era post-economica secondo nuovi valori, schemi di pensiero ed orientamenti esistenziali. Ciò è confermato anche da un'altra pagina in cui, dopo aver sottolineato il conformarsi delle imprese ai principi del razionalismo economico, aggiunge che «è compito dell’avvenire liberare la razionalità dai lacci del principio di rendibilità157 e porle delle mete degne»158. In conclusione, dunque, Sombart non è solo lo studioso delle origini di una precisa forma storica di soggettività – quella borghese –, ma anche il teorico nietzschiano di un nuovo uomo post-economico159. _______________________________________ Note [1] Nietzsche, F., 1886, Jenseits von Gut und Böse, in: Sämtliche Werke, Bd. 5, München, Deutscher Taschenbuch Verlag - de Gruyter, 1980, p. 161. 2 Strauss, L., 1999, “German Nihilism”, in: Interpretation, Vol. 26, No. 3, p. 371. 3 Strauss, L., 1999, “German Nihilism”, cit., p. 359. 4 Come scrive Strauss, «una delle radici del militarismo tedesco è il moralismo» (Strauss, L., 1999, “German Nihilism”, cit., p. 355). 5 Strauss, L., 1999, “German Nihilism”, cit., p. 357. 6 «Il significato morale della civiltà moderna a cui si oppongono i nichilisti tedeschi è espresso in formulazioni come queste: alleviare la condizione dell’uomo; oppure: salvaguardare i diritti umani; oppure: la massima felicità per il massimo numero possibile di persone» (Strauss, L., 1999, “German Nihilism”, cit., p. 358). 87 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
7 Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, München, Verlag von Duncker & Humblot, pp. 55-56. 8 Secondo Strauss «fra tutti i filosofi tedeschi, e a dire il vero fra tutti i filosofi, nessuno più di Nietzsche ha esercitato un’influenza maggiore sulla Germania post-bellica, nessuno è stato maggiormente responsabile dell’emergere del nichilismo tedesco» (Strauss, L., 1999, “German Nihilism”, cit., p. 372). Già Sombart aveva chiamato Nietzsche il «teste principale del pensare e del valutare tedeschi» (Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 58). 9 Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 84. 10 Questi si scagliò contro «il tipo spregevole di benessere vagheggiato da bottegai, cristiani, vacche, femmine, inglesi ed altri democratici» (Nietzsche, F., 1888, Götzen-Dämmerung, in: Sämtliche Werke, Bd. 6, München, Deutscher Taschenbuch Verlag - de Gruyter, 1980, pp. 139-140). 11 «Mercante ed eroe», scrive Sombart, rappresentano «i due grandi contrasti» e «formano i due grandi poli di ogni orientamento umano sulla terra» (Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 64). 12 Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 14. 13 Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 64. 14 Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 65. 15 Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 88. 16 Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 6. 17 Herf, J., 1984, Reactionary Modernism. Technology, culture, and politics in Weimar and the Third Reich, Cambridge, Cambridge University Press, p. 144. Come osservò Friedrich A. Hayek, «la guerra per Sombart è il compimento della visione eroica della vita, e la guerra contro l’Inghilterra è la guerra contro l’ideale opposto, l’ideale commerciale della libertà individuale e del comfort inglese» (Hayek, F. A., 1944, The Road to Serfdom, Chicago, The University of Chicago Press, p. 171). 18 Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 145. 19 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, Torino, UTET, 1967, p. 165. 20 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 166. 21 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., pp. 248-249. 22 Aristotele, 1955, Politica e Costituzione di Atene, Torino, UTET, p. 84. 23 Aristotele, 1955, Politica e Costituzione di Atene, cit., p. 80. 24 Aristotele, 1955, Politica e Costituzione di Atene, cit., p. 82. 25 Aristotele, 1955, Politica e Costituzione di Atene, cit., p. 83. 26 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., pp. 111-112. 27 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 251. 28 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, München und Leipzig, Duncker & Humblot, p. 35. 29 Scheler, M., 1915, “Der Bourgeois“, in: Abhandlungen und Aufsätze, Bd. 2, Leipzig, Verlag der Weissen Bücher, p. 301. 30 Già Alessandro Cavalli ha rimarcato la specificità della analisi sombartiana del capitalismo con queste parole: «a differenza di Marx, ed anche di Weber, alla visione del capitalismo come sistema oggettivo si connette in Sombart un atteggiamento di valore, una condanna morale» (Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 45). Un giudizio, questo, ripreso da Ines Crispini, secondo la quale «ciò che, in primo luogo, allontana Sombart dalla prospettiva weberiana, del tutto scientifica e spoglia di implicazioni valutative, è proprio l’atteggiamento di dura condanna morale che caratterizza l’analisi sombartiana dello spiri to borghese-capitalistico» (Crispini, I., 1998, Il «borghese virtuoso». Configurazioni di un paradigma antropologico tra Butler e Sombart, Milano, Franco Angeli Edizioni, p. 178). Lo stesso Franco Rizzo è del parere che Sombart rifletta sul capitalismo «in termini moralistici» (Rizzo, F., 1974, Werner Sombart, Napoli, Liguori, p. 118). 31 Bloch, E., 1935, Erbschaft dieser Zeit, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag,, 1985, p. 16. 32 Bloch, E., 1935, Erbschaft dieser Zeit, cit., p. 56. 88 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
33 Si vedano le considerazioni di Eksteins sullo sviluppo industriale in Germania: «Esso fu caratterizzato da una velocità travolgente e da un disorientamento corrispondente nella popolazione. Se in Gran Bretagna Charles Dickens poteva fare riferimento in Bleak House alla ‘età in movimento’ in cui viveva, e Tennyson poteva parlare della sua era come di ‘un terribile momento di transizione’, le statistiche delle trasformazioni sociali ed economiche in Germania mostrano che nessun altro paese aveva un diritto maggiore a fare appello ad impressioni di movimento e di transitorietà» (Eksteins, M., 1989, Rites of Spring. The Great War and the Birth of the Modern Age, London-New York-TorontoSidney-Auckland, Bantam Press, p. 67). 34 T. Nipperdey, 1986, “Probleme der Modernisierung in Deutschland”, in: Nachdenken über die deutsche Geschichte: Essays, München, C. H. Beck Verlag, p. 55. 35 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p.127. Successivamente Sombart cita il seguente passo della Summa teologica: «Divitiae comparantur ad oeconomicam non sicut finis ultimus, sed sicut instrumenta quaedam, ut dicitur in I. Pol. finis autem ultimus oeconomice est totum bene vivere secundum domesticam conversationem» (Ibidem). 36 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 212. 37 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 37. 38 Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, Firenze, Vallecchi, 1941, p. 192. 39 Questo testo fu poi ripubblicato nel 1915 nel primo volume dei saggi di Scheler col titolo “Il risentimento nella costruzione della morale”. Per un riferimento diretto a tale saggio cfr. Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 525. 40 Scheler, M., 1915, “Das Ressentiment im Aufbau der Moralen”, in: Abhandlungen und Aufsätze, Bd. 1, Leipzig, Verlag der Weissen Bücher, pp. 48-49. 41 Scheler, M., 1915, “Das Ressentiment im Aufbau der Moralen”, cit., p. 54. 42 Scheler, M., 1915, “Das Ressentiment im Aufbau der Moralen”, cit., p. 56. 43 Scheler, M., 1915, “Das Ressentiment im Aufbau der Moralen”, cit., p. 64. 44 Scheler, M., 1915, “Das Ressentiment im Aufbau der Moralen”, cit., p. 64. 45 Scheler, M., 1915, “Das Ressentiment im Aufbau der Moralen”, cit., p. 101. 46 Scheler, M., 1915, “Das Ressentiment im Aufbau der Moralen”, cit., p. 210. 47 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 439. Anche ne Il socialismo tedesco Sombart spiega le origini di un elemento della morale moderna facendo riferimento al meccanismo del risentimento: «Tutto il culto del lavoro professato dal socialismo proletario è gravido di risentimento. Attribuendo valore al lavoro come tale, si conferisce a coloro che altrimenti non sarebbero stati (come stirpe) nulla, che nulla sono, nulla hanno e nulla sanno fare, una dignità che li porta in alto. […] Non v’è in realtà nessun altro mezzo per livellare gli uomini e nessun altro mezzo per dare importanza all’individuo indifferenziato, perduto nella massa […] se non questo di conferire carattere sacro al lavoro in sé stesso, come impiego di forza muscolare senza riguardo al suo risultato, semplicemente perché è lavoro» (Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., pp. 116-117). 48 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 287. 49 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 283. 50 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 285. 51 Per il significato di questo aggettivo si leggano le seguenti riflessioni di Foucault: «Ēthopoiein significa fare dell’ēthos, produrne, modificare o trasformare l’ethos, il modo d’essere, la modalità d’esistenza di un individuo. Ciò che è ēthopoios è qualcosa che possiede la qualità di trasformare il modo d’essere di un individuo» (Foucault, M., 2004, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Milano, Feltrinelli, p. 209). 52 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 319. 53 Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., p. 13. 54 Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 101. 55 Sombart caratterizza il marxismo come segue: «I valori del socialismo proletario sono […] quelli propri di una concezione bottegaia del mondo. Possiamo anche indicarli con la parola straniera di «Edonismo». Per questo motivo il socialismo proletario è un’espressione dell’epoca economica e non conosce altri valori al di fuori di quelli borghesi» (Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., p. 113). 89 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Da notare le affinità ideologiche con la visione del socialismo proposta da Enrico Corradini, il principale teorico del nazionalismo italiano citato, peraltro, in un passo de Il socialismo tedesco (cfr. Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., p. 68). Secondo Corradini il socialismo «non agisce sopra i suoi seguaci se non col prospetto dell’utile immediato: lo sciopero per l’aumento della mercede» (Corradini, E., 1980, “Le nuove dottrine nazionali e il rinnovamento spirituale”, in: Scritti e discorsi 19011914, Torino, Einaudi,, p. 234). 56 Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., p. 87. 57 Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., p. 201. 58 Si legga il seguente giudizio sulla parabola storica dell’Europa: «Che l’umanità europea occidentale abbia percorso e stia percorrendo vie sbagliate già da vario tempo, ma specialmente nel secolo XIX ed abbia vissuto un periodo di decadenza, è stato sempre riconosciuto non soltanto da rappresentanti di confessioni religiose, ma anche da uomini di mondo che seppero guardare nel profondo, e che vissero in quest’epoca, da Goethe, Hoelderlin, Carlyle, Ruskin fino a Giacomo Burckhardt, Paolo de Lagarde, Nietzsche, George e molti, molti altri. Noi, i quali viviamo al termine di questa epoca di decadenza, soltanto ora siamo in grado di misurare l’ampiezza e la profondità delle devastazioni che durante il secolo passato colpirono tutti i campi della nostra vita, da quello statale al sociale, dallo spirituale al personale» (Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., p. 15). 59 Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., p. 324. 60 Rizzo, F., 1974, Werner Sombart, cit., p. 84. 61 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 90. 62 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 12. 63 Nietzsche descrive come segue l’ethos aristocratico antico: «Ebbene! Un tempo accadeva il contrario: il lavoro recava su di sé la cattiva coscienza. Un uomo di buona famiglia nascondeva il fatto di lavorare, quando la necessità ve lo costringeva. Lo schiavo lavorava dominato dalla sensazione di fare qualcosa di spregevole: – il ‘fare’ stesso era qualcosa di spregevole. “Nobiltà ed onore si accompagnano solo ad otium e bellum: risuonava così la voce dell’antico pregiudizio» (Nietzsche, F., 1882, Die fröhliche Wissenschaft, in: Sämtliche Werke, Bd. 3, München, Deutscher Taschenbuch Verlag - de Gruyter, 1980, p. 557). 64 Cfr. per questo concetto Losurdo, D., 2002, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino, Bollati Boringhieri, p. 732. 65 Losurdo, D., 2002, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, cit., p. 725. 66 Losurdo, D., 2002, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, cit., p. 740. 67 E. Wilson, 1931, Axel’s castle. A Study in the Imaginative Literature of 1870-1930, New York, Charles Scribner’s Sons, p. 100. 68 E. Wilson, 1931, Axel’s castle. A Study in the Imaginative Literature of 1870-1930, cit., pp. 100-101. 69 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 520. 70 «Per riassumere tutto ciò in una parola dobbiamo usare la frase spaventosa «che la vita umana è divenuta senza senso». Staccato da ogni rapporto trascendentale, tagliato fuori dalle idee direttrici, l’uomo si trova abbandonato a se stesso; cerca la realizzazione del significato della sua vita in sé stesso e non lo trova». Sombart cita quindi un passo tratto dal libro di Paul Tillich intitolato Religiöse Verwirklichung (1930): «“Collo spezzarsi di detti rapporti oscilla solitario in sé stesso circondato da un vuoto infinito. Il suo sforzo per trovare il significato della vita è continuamente colpito da un gelido soffio di non-senso, che lo irrigidisce”» (Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., p. 59). 71 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., pp. 523-524. 72 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 38. 73 Su Carlyle quale spirito non inglese (e dunque estraneo al comfortismo britannico) che si è sempre nutrito di spirito tedesco sino a guastarsi lo stomaco cfr. Sombart, W., 1915, Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, cit., p. 18. 74 Carlyle, T., 1843, Past and Present, in: The Works of Thomas Carlyle, Vo. 6, New York, Peter Fenelon Collier Publisher, 1897, p. 355. 75 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 694. 90 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
76 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 853. 77 Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., pp. 15-16. 78 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 173. 79 Come scrive Sombart, la «mentalità economica […] comprende tutti gli elementi spirituali che determinano le singole attività economiche» (Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 110). L’intento de Il capitalismo moderno è inoltre chiarito con queste parole: «Quest’opera vuole rendere in modo vivo quel che hanno pensato, voluto, fatto il contadino e il proprietario fondiario, l’artigiano ed il commerciante. […] La meta che mi sono proposto con quest’opera è di far rivivere nella varietà delle sue forme la vita economica. […] Perciò mi sono sforzato di ricercare soprattutto lo spirito che ha predominato in una determinata epoca economica e che ha informato di sé la vita economica di quest’epoca, seguendolo poi nei suoi effetti. È mia convinzione profonda che nei diversi periodi abbia dominato una mentalità economica diversa e che sia lo spirito a darsi una forma adeguata, creando così l’organizzazione economica» (Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., pp. 121-122). Sul carattere psicologico delle ricerche di Sombart cfr. le considerazioni di Cavalli nella prefazione a Il capitalismo moderno e cfr. anche Herf, J., 1984, Reactionary Modernism. Technology, culture, and politics in Weimar and the Third Reich, cit., p. 133. 80 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 173. 81 Marx, K., Engels, F., 1990, Manifest der Kommunistischen Partei, in: Karl Marx-Friedrich Engels Werke, Bd. 4, Berlin, Dietz Verlag, p. 464. 82 Marx, K., Engels, F., 1990, Manifest der Kommunistischen Partei, cit., p. 465. 83 Ecco come Sombart conclude la sua rievocazione dello sviluppo del capitalismo, rivelatosi in grado di «trasformare la cultura fin dalle radici, fondare e distruggere imperi, costruire i mondi magici della tecnica, cambiare l’aspetto stesso della terra»: «E tutto questo perché uno sparuto manipolo di uomini è stato conquistato dalla passione di guadagnare» (Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 484). 84 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 195. 85 Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., pp. 133-134. Engels usa l’espressione «caduta originaria» nella sua opera sull’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884). 86 Come si legge nella prefazione al terzo volume de Il capitalismo moderno, «tutto ciò che nella mia opera vi è di valido è dovuto allo spirito di Marx». E ancora: «posso addirittura assicurare che quest’opera non vuole essere altro che una continuazione e in un certo senso il completamento dell’opera di Marx» (Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 489). 87 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 29. 88 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 464. 89 Sulla presenza di motivi apocalittici nella letteratura e cultura tedesche cfr. Vondung, K., 1988, Die Apokalypse in Deutschland, München, Deutscher Taschenbuch Verlag. Sul wagnerismo quale autentica matrice del pensiero di uno spirito simile sotto alcuni aspetti a Sombart, Oswald Spengler, sono interessanti le riflessioni di Sergio Caruso, convinto che l’autore di Der Untergang des Abendlandes abbia affrontato nelle pagine di quest’opera «quella stessa congerie di motivi che Wagner aveva rappresentato sul palcoscenico di Bayreuth» (cfr. Caruso, S., 1979, La politica del destino. Irrazionalismo politico e relativismo storico nel pensiero di Oswald Spengler, Firenze, Cultura Editrice, p. 116). 90 Il testo di Hirschman è un’indagine sulle strategie argomentative adottate dagli intellettuali reazionari, già all’indomani della Rivoluzione Francese, per attaccare i loro nemici progressisti. Hirschman, in particolare, vede nella tesi della perversità una manovra audace degli intellettuali reazionari che, essendo isolati in un mondo progressista a loro ostile, non lo attaccarono in modo diretto, ma insinuarono il sospetto che le iniziative progressiste potessero avere effetti contrari a quelli attesi. Cfr. in proposito Hirschman, A. O., 1991, The Rhetoric of Reaction. Perversity, Futility, Jeopardy, Cambridge, Massachusetts, and London, The Belknap Press of Harvard University Press, pp. 11-12. 91 Hirschman, A. O., 1991, The Rhetoric of Reaction. Perversity, Futility, Jeopardy, cit., p. 7. 91 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
92 Hirschman, A. O., 1991, The Rhetoric of Reaction. Perversity, Futility, Jeopardy, cit., p. 12. 93 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 237. 94 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 533. 95 Winner, L., 1977, Autonomous technology: technics-out-of-control as a theme in political thought. Cambridge, Massachusetts, The MIT Press, pp. 30-31. Secondo Winner l’animismo tecnologico «ricapitola semplicemente i miti dei nostri inizi – la ribellione e la caduta dell’uomo» (Winner, L., 1977, Autonomous technology: technics-out-of-control as a theme in political thought, cit., p. 31). 96 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 250. 97 Naturalmente il passo di Weber che Sombart ha in mente quando sviluppa le sue riflessioni sull’azienda moderna è il seguente: «Poiché in quanto l’ascesi fu portata dalle celle dei monaci nella vita professionale e cominciò a dominare la moralità laica, essa cooperò per la sua parte alla costruzione di quel potente ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finché non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile, lo stile di vita di ogni individuo, che nasce in questo ingranaggio, e non soltanto di chi prende parte all’attività puramente economica. Solo come un mantello sottile, che ognuno potrebbe buttar via, secondo la concezione di Baxter, la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle degli “eletti”. Ma il destino fece del mantello una gabbia d’acciaio». (Weber, M., 1905, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni Editore, 1965, p. 305). 98 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 446. 99 Ibidem 100 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 447. 101 Cfr. Simmel, G., 1900, Philosophie des Geldes, Leipzig, Verlag von Duncker & Humblot, 1907, p. 549. 102 Sull’apprendista stregone di Goethe ed il dottor Frankenstein di Mary Shelley quali figure della «metaforica di una ‘demonicità’ della tecnica» cfr. Sieferle, R. P., Die „Gestalt des Arbeiters“ im technischen Zeitalter. Eine Einführung, in: Strack, F. (a cura di), 2000, Titan Technik. Ernst und Friedrich Georg Jünger über das technische Zeitalter, Würzburg, Königshausen & Neumann, p. 94. 103 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 426. 104 Cfr. Curtius, E. R., 1948, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Tübingen und Basel, A. Francke Verlag, 1993, pp. 105-107. 105 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 11. 106 Sombart osserva che è un «fatto incontestabile» che il telegrafo senza fili e l’aeronautica» interessano alla gioventù più del «problema del peccato originale o dei dolori di Werther» (Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 424). 107 «Un punto che mi sembra di grande e generale importanza per lo sviluppo della società moderna è il fatto che i nuovi ricchi, coloro che non posseggono nulla al di fuori del loro denaro, il cui potere è fondato soltanto sulla ricchezza e non hanno altra caratteristica che li possa distinguere se non la possibilità di condurre una vita sontuosa in virtù dei loro mezzi, che questi parvenus trasmettano la loro concezione del mondo materialistica e mammonistica anche alle vecchie famiglie nobili che vengono con ciò trascinate nel vortice della vita agiata» (Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 215). 108 Sulle figure del ribaltamento cfr. Brugnolo, S., 2000, La letterarietà dei discorsi scientifici. Aspetti figurali e narrativi della prosa di Hegel, Tocqueville, Darwin, Marx, Freud, Roma, Bulzoni Editore, p. 103. 109 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 490. 110 Rizzo, F., 1974, Werner Sombart, cit., p. 16. 111 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 484. 112 Marshall Berman ha osservato che «l’immaginazione modernista» [the modernist imagination] descrive la modernità come una forza insieme distruttiva e creativa: «il calore che annienta è anche 92 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
energia sovrabbondante, traboccare di vita» (Berman, M., 1982, All That Is Solid Melts Into Air. The Experience of Modernity, London-New York, Verso, p. 89). 113 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 193. 114 «C’è una selvatichezza indiana, propria del sangue indiano nel modo in cui gli americani aspirano all’oro», scrive Nietzsche nel paragrafo 329 del quarto libro de La gaia scienza. Cfr. Nietzsche, F., 1882, Die fröhliche Wissenschaft, cit., p. 556. 115 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 236. 116 Carlyle, T., 1841, On Heroes, Hero-Worship, and the Heroic in History, Milano, Fratelli Treves, 1917, p. 1. 117 Così lo definisce Cassirer: cfr. Cassirer, Ernst, 1946, The Myth of the State, New Haven, Yale University Press, p. 192. 118 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 221. 119 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 224. 120 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., pp. 225226. 121 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 226. 122 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 212. 123 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 173. 124 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., pp. 173-174. 125 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 178. 126 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 174. 127 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 462. 128 Per l’impiego del concetto psicoanalitico della negazione ai fini dell’elaborazione di una metodologia di analisi dei testi letterari cfr. Orlando, F., 1973, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi. 129 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 3. 130 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 454. 131 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 456. Lo stesso Scheler osservò che «Sombart riconduce lo ‘spirito borghese’ in ultima analisi ad un tipo biopsichico» (Scheler, M., 1915, “Der Bourgeois”, cit., p. 323). 132 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 262. 133 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 263. 134 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 264. 135 Queste ricerche culmineranno nello scritto tardo intitolato Il disagio della civiltà (1930). Tuttavia già ne La morale sessuale ‘culturale’ ed il nervosismo moderno (1908) Freud affermò perentoriamente che «la nostra civiltà si basa interamente, in generale, sulla repressione degli istinti» (Freud, S., 1974, Die ›kulturelle‹ Sexualmoral und die moderne Nervosität, in: Fragen der Gesellschaft. Ursprünge der Religion, Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag, p. 18). 136 Come è noto, Marcuse ‘storicizza’ la teoria freudiana del disagio della civiltà parlando della «repressione addizionale» [zusätzliche Unterdrückung] richiesta dal dominio sociale e del «principio di prestazione» [Leistungsprinzip] quale forma storica del principio di realtà sotto la cui legge «la società si stratifica in modo conforme alle prestazioni economiche in regime di concorrenza dei suoi membri» (cfr. Marcuse, H., 1955, Triebstruktur und Gesellschaft. Ein philosophischer Beitrag zu Sigmund Freud, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1957, p. 45). Sullo studio attento di Sombart da parte di Marcuse cfr. Rizzo, F., 1974, Werner Sombart, cit., p. 19. 137 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 455. 138 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 521. 139 Sul meccanismo della funzionalizzazione perversa per effetto del quale «i comportamenti negativi e devianti» sono «recuperati e volti a proprio vantaggio da un sistema capace di infiniti adattamenti» cfr. Brugnolo, S., 2000, La letterarietà dei discorsi scientifici. Aspetti figurali e narrativi della prosa di Hegel, Tocqueville, Darwin, Marx, Freud, cit., p. 113. 93 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
140 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 305. 141 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 308. 142 In un’intervista del 1984 intitolata “Il ritorno della morale” Foucault illustrò questo concetto come segue: «chiamerò soggettivazione il processo attraverso il quale si consegue la costituzione di un soggetto, o, più precisamente, di una soggettività, che è evidentemente solo una delle possibilità date ai fini dell’organizzazione di un’autocoscienza» (Foucault, M., “Die Rückkehr der Moral”, 1984, in: Dits et Ecrits, Bd. 4, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 2005, p. 871). 143 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 312. Scheler muove delle obiezioni alla teoria di Sombart. Scrive infatti che «come è interamente estranea al tipo capitalista l’idea cristiana della castità, l’idea del libero sacrificio del piacere sessuale al fine della liberazione dello spirito per la contemplazione di una sfera divina e celeste, così è estranea anche al tomismo una repressione delle passioni erotiche quale mero fattore di disturbo di un agire economico razionale» (Scheler, M., 1915, “Der Bourgeois und die religiösen Mächte”, in: Abhandlungen und Aufsätze, Bd. 2, Leipzig, Verlag der Weissen Bücher, pp. 350-351). 144 Sombart, W., 1902 (due voll.); 1927 (ampliata, 3 voll.), Il capitalismo moderno, cit., p. 384. 145 Per questa espressione cfr. Weinrich, H., 2004, Knappe Zeit. Kunst und Ökonomie des befristeten Lebens, München, Verlag C. H. Beck, p. 29. 146 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 136. 147 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 137. 148 Cfr. Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 142. A proposito dell’economia del tempo teorizzata da Leon Battista Alberti Weinrich osserva: «L’arte dell’uso corretto del tempo consiste nel non sprecare il tempo in nessun caso […]. Persino il tempo dedicato all’ozio ancora molto elogiato da Seneca è qui sottoposto ad un rigoroso controllo temporale. […] Solo il tempo, infatti, in cui un uomo può agire (la stagione della faccenda) è oggetto di questa economia temporale» (Weinrich, H., 2004, Knappe Zeit. Kunst und Ökonomie des befristeten Lebens, cit., p. 29). 149 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 310. Scheler non è d’accordo con Sombart. A suo avviso, infatti, gli scolastici condannavano l’«otiositas» non perché esaltavano il lavoro quale forza apportatrice di un utile, ma perché essa era alla base di ogni vizio. Solo il lavoro, infatti, era in grado di temprare lo spirito contro le tentazioni (cfr. Scheler, M., 1915, “Der Bourgeois und die religiösen Mächte”, cit., p. 349). 150 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 228. 151 Sombart, W., 1913, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen, cit., p. 229. 152 Nietzsche, F., 1980, Die fröhliche Wissenschaft, cit., p. 556. 153 Nietzsche, F., 1980, Nachgelassene Fragmente 1887-1889, in: Sämtliche Werke, Bd. 13, München, Deutscher Taschenbuch Verlag - de Gruyter, p. 28. 154 Nietzsche, F., 1888, Götzen-Dämmerung, cit., p. 99. 155 Nietzsche, F., 1888, Götzen-Dämmerung, cit., p. 102. 156 Sombart, W., 1941, Il socialismo tedesco, cit., p. 202. 157 «Rendibilità non è altro che il calcolo ragionato sulla base di cifre dell’attività e della situazione d’una determinata impresa, stabilito in vista del successo economico, ossia con lo scopo di incassare alla fine di un determinato ciclo, una somma superiore a quella spesa per ottenere quel risultato» (Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., pp. 362-363). 158 Sombart, W., 1934, Il socialismo tedesco, cit., p. 367. 159 A ragione, pertanto, Rizzo scrive a proposito del socialismo sombartiano: «l’intento è chiaramente non la costruzione di un regime, bensì la ricostruzione della personalità morale dell’individuo smarritasi nei meandri e nelle contraddizioni disumane dell’epoca economica» (Rizzo, F., 1974, Werner Sombart, cit., p. 118). Sulla «grande politica» nietzschiana quale progetto etopoietico cfr. le seguenti considerazioni di Karl Jaspers: «perciò la grande politica di Nietzsche è ambigua: sembra voler determinare nei giudizi più generali e nelle esigenze un agire che assume l’uomo come materiale da modellare per farne qualcosa d’altro, di meglio, un essere di rango superiore; ma a tali definizioni non 94 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
segue alcun agire concreto che mostri dei compiti appropriati, mentre la parola ‘politica’ sembra però promettere qualcosa che deve avvenire qui ed ora» (Jaspers, K., 1936, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1981, p. 285).
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L'utile globale e la crisi della filosofia del “post” di Francesco Pala
Non possiamo non dirci post-moderni. Questo il risultato di un processo complessivo che ha visto la graduale fuoriuscita della realtà politica, sociale, culturale, occidentale, dalle maglie rigide della modernità. Un processo che però potrebbe non aver prodotto gli effetti liberatori e secolarizzanti che i postideologici della fine della modernità avevano auspicato. Si tratta, infatti, di capire se dietro la spinta globale che ha minato le strutture dello Stato moderno e inghiottito il suo correlato antropologico, la soggettività, non vi sia l'imporsi di un sistema economico più solido e sistematico di quello che l'ha preceduto, certamente poststatuale e post-soggettivo, ma altrettanto pervasivo e capace di nutrirsi dialetticamente dello stesso pensiero critico post-moderno al fine di orientare all'utile la leggerezza antropologica da esso concepita in chiave anti-soggettiva. 1 La crisi dello Stato L'analisi non può che partire dal versante più investito dalle novità tutt'ora in atto: la politica. Quest'ultima è da tempo attraversata dal problema del declino della sovranità incarnata per secoli dallo stato nazione. La sovranità moderna era caratterizzata dalla trascendenza del potere, ereditata dalla trascendenza medievale ma secolarizzata ed accompagnata dalla rappresentanza, fonte di legittimazione della sovranità. La modernità è poi connessa intimamente allo sviluppo del sistema economico capitalistico e del mercato . Sono emerse nel tempo tante modalità di declinazione di tali componenti della modernità - soprattutto rispetto al rapporto tra stato e mercato- che si sono differenziate prevalentemente in relazione al ruolo più o meno incisivo da affidare allo Stato nella gestione dell’economia. Dal diverso ruolo dello Stato nella vita economica è dipeso anche il livello di controllo che esso ha potuto esercitare sugli individui, per cui tutti gli organismi statuali, alcuni in misura maggiore altri minore, hanno sviluppato apparati burocratici e militari, cosicché <<l’amministrazione ha iniziato ad esercitare un’azione continua, estensiva e instancabile per rendere lo Stato sempre più immanente alla realtà sociale e, in tal modo, per produrre e ordinare il lavoro>> [1]. La concezione moderna della sovranità ha subito modificazioni in virtù dell’idea di nazione, cresciuta in Europa sul terreno dello stato patrimoniale assolutista, che veniva considerato di proprietà del monarca. Lungo i secoli <<invece che sul corpo divino del re, l’identità spirituale della nazione venne fondata sulle astrazioni del territorio e della popolazione, in particolare il territorio fisico e la popolazione furono concepiti come estensioni dell’essenza trascendente della nazione>> [2]. Ecco dunque che lo Stato, centro di potere unificato, depositario dell’esercizio della forza e della giurisdizione, cementa le sue strutture attraverso l’idea di nazione, foriera di un’identità culturale in grado di favorire l’integrazione dei suoi membri, 96 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
fondata sulla comunanza biologica dei legami di sangue e di una continuità spaziale nonché di una comunanza linguistica. L’identità nazionale <<garantisce una legittimazione sempre più forte, il diritto e il potere di un’unità sacrosanta e incoercibile…accoppiandosi alle idee di nazione e di popolo, il baricentro della sovranità si sposta dalla mediazione dei conflitti all’esperienza unitaria del soggettonazione e della sua comunità immaginaria>>[3]. Lo stato-nazione ha avuto il ruolo di protagonista della modernità, godendo di un successo storico che <<si spiega in gran parte con le prerogative che hanno caratterizzato il moderno apparato statale come una macchina efficiente e funzionale. Questo stato territoriale monopolizzante la forza e dotato di un’amministrazione differenziata, finanziata da imposte si mostrò evidentemente in grado di soddisfare gli imperativi funzionali della modernizzazione sociale, culturale e soprattutto economica meglio delle altre formazioni politiche di più vecchia origine>> [4]. Il filosofo tedesco Habermas sottolinea giustamente i motivi del successo dello stato nazione, è necessario, però, valutare anche i limiti e i difetti di tale regime politico. Lo Stato-nazione ha rappresentato nei secoli un formidabile dispositivo di potere in grado di estendere sempre più la propria capacità di controllo sugli individui, rendendo formale il ruolo della rappresentanza, accentrando la sovranità attraverso l’acquisizione di una sempre più marcata capacità di intervenire nella formulazione dell’identità individuale, favorendo le dinamiche capitalistiche, foriere certo di migliori condizioni di vita, ma anche di assoggettamento e omologazione delle coscienze. Tutto ciò, da almeno due decenni, vacilla. Lo stato-nazione, apparato di potere, ma anche argine contro i rischi del vivere sociale, è scosso da un processo, la globalizzazione, che tende ad esautorarlo e a rendere l’intermediazione, da esso sempre esercitata nei processi economici, superflua, determinando il prevalere di istanze fondate sull'utile, prive di quella parvenza e, entro certi limiti, sostanza etica che caratterizzava la struttura giuridico-politica dello Stato moderno. Un processo che determina un orizzonte politico fluido retto da priorità economiche. 2 L'esplosione dell'identità e l'economia globale La globalizzazione è un processo che Habermas, citando Anthony Giddens, definisce <<l’addensarsi di quelle relazioni internazionali che producono un reciproco condizionamento tra eventi locali ed eventi geograficamente lontani>> [5]. Tali relazioni possono essere di tipi differenti: comunicative, economiche, finanziarie. Le nuove realtà informatiche rendono possibili scambi comunicativi a distanza, che molto spesso avvengono attraverso l’uso d’identità diverse da quella reale, consentendo uno scambio comunicativo non condizionato dal rigido regime identitario stabilito dallo Stato per il controllo e anche la tutela degli individui. Tale sistema di comunicazione globale rende potenzialmente infinito il regime di scambi e contatti che ciascun individuo può attivare con il resto dei partecipanti alla comunicazione, superando di fatto le rigide barriere territoriali e soprattutto culturali. 97 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Appare immediatamente evidente il rischio che, alla lunga, nonostante le attuali apparenze, corre ogni forma di localismo tradizionalista, nonché ogni declinazione fondamentalista, religiosa o morale, di fronte al venir meno degli ostacoli territoriali, delle barriere giuridiche, da sempre contrapposte al diffondersi della comunicazione e del suo portato problematizzante ed emancipante. Se la gloria dello stato-nazione s'è retta sulla forza degli individui arborescenti, radicati nella storia, ansiosi del riconoscimento statale, l’individuo del presente assume una stuttura rizomatica attraverso la possibilità di concatenarsi ad altri individui “leggeri”, che si muovono geograficamente, orizzontalmente, attraverso la rete informatica, al di là di ogni appartenenza radicata nel suolo nazionale. Che tratti potrebbe avere un individuo che dovesse maturare, se non tutta, almeno gran parte della propria identità nella rete? Sarebbe un individuo dotato di senso dello stato, dell’appartenenza storica, ovvero un individuo-mosaico, laicamente formatosi nell’eterogeneo, fluttuante sulla superficie piatta di un orizzonte che non offre presa, ma gira al ritmo di impulsi globali che vengono da un altrove che, al contrario, ha una struttura tutt'altro che fluida? La globalizzazione, però, assume i suoi tratti più decisivi nell’ambito economico con quella che circa un decennio fa venne definita new economy, un regime economico caratterizzato dalla sostituzione dei mercati con le reti, con la conseguenza dirompente della progressiva internazionalizzazione dei commerci e la perdita di terreno dello scambio sul mercato tra compratore e venditore di titoli di proprietà, a favore di un accesso temporaneo che viene negoziato tra client e server operanti in una relazione di rete, in un percorso che conduce al predominio del settore terziario informatizzato. Il tutto in uno scenario nel quale <<la produzione industriale non domina più le altre forme economiche e i fenomeni sociali. Mentre la modernizzazione era stata segnata da un massiccio trasferimento della forza lavoro dal settore primario verso verso il settore secondario, la postmodernizzazione o informatizzazione è contraddistinta da un passaggio dall’occupazione industriale al prevalere degli impieghi nei servizi (settore terziario)>> [6]. L’economia perciò è sempre più contraddistinta da una progressiva terziarizzazione e da scambi globali che coinvolgono i mercati finanziari, con lo spostamento di capitali finanziari, il tutto nella più totale libertà rispetto allo Stato, cosicché tutti gli stati industriali sono condizionati dal fatto che le strategie d’investimento di un numero sempre più grande di imprese si orientano ai mercati mondiali dei capitali finanziari e del lavoro e <<con l’ultima spinta alla denazionalizzazione dell’economia, la politica nazionale perde progressivamente il controllo su quelle condizioni di produzione da cui nascono guadagni e profitti suscettibili d’imposta. I governi hanno sempre meno influenza su imprese che programmano i loro investimenti entro un orizzonte allargatosi su scala mondiale>> [7]. Sono dunque chiari i tratti di un superamento dello stato-nazione anche sotto il profilo economico e tale processo ancora una volta passa per le reti, per l’informatizzazione del sistema economico, e il superamento della proprietà privata, per cui si può dire che l’economia compiutamente post-moderna tende ad assumere 98 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
un profilo sempre più globale e ad essere dominata dal settore dei servizi, ma soprattutto sarà sottratta al controllo della politica. Quali le conseguenze per i lavoratori?Il nuovo regime economico muta notevolmente il ruolo e le competenze dei lavoratori, infatti nella new economy sono le idee, i concetti, le immagini non le cose i componenti fondamentali del valore. Ed è necessario sottolineare che il capitale intellettuale raramente viene scambiato, rimane invece, in possesso del fornitore, il quale lo noleggia o ne autorizza un uso limitato da parte di terzi. Il tema è molto importante, infatti l’informatizzazione economica e la relativa terziarizzazione, fanno sì che nel lavoro assuma tratti fondamentali la competenza, l’affettività, l’intelligenza, e non più il corpo, la fatica fisica, per cui <<oggi l’iniziativa personale e l’intelligenza di tutti coloro che partecipano alla produzione sono considerate il motore dell’intero processo produttivo>> [8]. A tale mutamento nel profilo del lavoratore, si accompagna un fenomeno con il quale molti uomini fanno oggi i conti: la flessibilità. Infatti, al tramonto della statica politica, rappresentata dallo Stato e dai suoi controlli, della statica economica, incarnata dall’industria con le sue proprietà materiali, si accompagna la perdita di stabilità del lavoro, sottoposto dal nuovo regime economico a precarietà temporale e instabilità geografica, con il risultato che la città, la società contemporanea, nei paesi occidentali e industrializzati, producono fisiologicamente processi di sradicamento e insicurezza. Le ragioni economiche, non coordinate dalle istanze politiche, dettano le loro regole, legate alla produzione e alla produttività, sradicando gli individui e rendendo incerte le loro stesse aspettative esistenziali. Sul tema le opinioni divergono, molti ritengono di trovarsi di fronte ad un fenomeno positivo, per altri il sistema globale <<irradia indifferenza nei confronti degli sforzi umani, irradia indifferenza organizzando l’assenza di fiducia, cioè uno stato in cui non c’è bisogno di aver bisogno di qualcuno>> [9], tutti però sono concordi nel ritenere la globalizzazione un fenomeno ineluttabile. 3 Deleuze e la crisi della filosofia del “post” Il pensiero filosofico postmoderno in che modo si atteggia nei confronti di un processo complessivo in stato ormai molto avanzato, incardinato palesemente su un utile economico che non trova più ad arginarlo il freno una volta rappresentato dalle maglie strette di uno Stato-nazione dotato di un ruolo di coordinamento? Gilles Deleuze è uno dei pensatori che maggiormente ha evidenziato una sensibilità per i processi di trasformazione antropologica legati alla crisi dello Stato moderno e del suo orizzonte di senso e può essere considerato, a ragione, un buon esempio della riflessione critica postmoderna. Deleuze non ebbe il tempo di leggere la crisi dello Stato moderno individuando i processi economici globali come causa, il filosofo francese però riuscì a cogliere efficacemente le ricadute antropologiche dell'erosione della temperie moderna. Deleuze rivolge critiche incisive alla soggettività moderna, formulando un complesso di concetti, dal rizoma al divenire nel mezzo fino all'idea di 99 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
concatenamento che configurano un’individualità aperta all’incontro con l’eterogeneo, senza radici, sovrana delle superfici, nomade, senza storia ma con una articolata geografia. Il tutto attraverso una valorizzazione del concetto di minoranza, che coinvolgendo l’individuo rizomatico determina possibilità creative infinite, da investire nella formulazione del mondo, perché la vita è creazione continua, creazione collettiva. La società globale, come abbiamo visto, dissolve ogni appartenenza, ogni radicamento e annulla storie personali e collettive, rendendo incerti i destini esistenziali, costringendo gli individui a cambiare stili di vita in maniera repentina e a incrementare il proprio sapere, per essere sempre al passo con un’economia che detta ritmi folli. La prospettiva antropologica deleuziana sembra formulato appositamente per consentire una buona navigazione nell’oceano globale: l'economia, infatti, chiede capacità di mutare pelle in continuazione e il mutamento continuo, la fuga da un’identità statica, il concatenamento, sono caratteri fondamentali del nuovo uomo deleuziano. Il mondo globale non ammette chiusure comunicative, e l’individuo in divenire è ontologicamente aperto all’eterogeneo. La nuova era dissolve la Storia, ma lo stesso Deleuze lotta contro i dispositivi storiografici e le identità statiche, ambendo alla conquista delle superfici. Non dovrebbe essere complicato cogliere l’assoluta attualità della speculazione deleuziana, tuttavia è necessario chiedersi se tale attualità non sia frutto del medesimo sistema economico che agendo come struttura ha nel tempo prodotto una sua filosofia di riferimento, che dietro le parvenze antagonistiche, celi un'inconsapevole adattabilità alla temperie globale che testimonierebbe del carattere onnivoro e sistematico di quest'organismo pluridimensionale che metabolizza ogni istanza critica rendendola sovrastruttura al servizio del profondo utile. Note [1] Michael Hardt e Antonio Negri,Impero,Rizzoli,Milano,2002,p.95 [2]Michael Hardt e Antonio Negri,Impero,Rizzoli,Milano,2002,p..100 [3] Michael Hardt e Antonio Negri,Impero,Rizzoli,Milano,2002,p.109 [4] Jurgen Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano, 1998, p.122 [5] Jurgen Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano, 1998 p.134 [6] M.Hardt e A.Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2001, p.267 [7] J.Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano, 1998, p.135 [8] J.Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano, 1998, p.135 [9] Foa e Ranieri, Il tempo del sapere, Einaudi, 2000, p.5
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La poesia non serve. Brevi note su Bataille e Baudrillard tra residuo e inutile
di Alessandra Pigliaru
Diffido di tutti i sistematici e li evito. La volontà di sistema è una mancanza di onestà. [Nietzsche, Crepuscolo degli idoli - sentenze e frecce, 26]
1. Quel che resta della poesia. Bataille
«Lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile. Quante volte gli si è gettata in faccia l’antica insolenza degli uomini utili: “buffone”» (1) Nella diserzione della parola, Giorgio Manganelli preparava i suoi anatemi; sono cunicoli non asfaltabili quelli dove lo scrittore si muove e abita; spazi di non definibile estensione. Nel suo saggio del 1967, La letteratura come menzogna (2), Manganelli ripercorre i tratti familiari di quella che è stata la sua personale e avvocatesca rivoluzione della lingua. Immergendosi nel ventre infernale, la letteratura e la poesia, acquistano la valenza del negativo, inteso come il rovescio entro cui lo scrittore-poeta ripercorre strade di nessuna edulcorata e rassicurante utilità sociale. «La parola letteraria è infinitamente plausibile: la sua ambiguità la rende inconsumabile» (3) Che cos’è che rende la parola letteraria inconsumabile? Ha significato una parola letteraria e poetica che si rende inconsumabile? Ma soprattutto: quale è il rilevo di questa specifica utilità o inutilità? Facciamo un passo indietro e tentiamo di tratteggiare il fondamentale contributo che Georges Bataille diede alla comprensione e alla critica della poesia e del poetico in relazione all’utile. Una posizione di cui tener conto in relazione alla costruzione di una storia dell’idea di utile e, al contempo, del fare poetico in età contemporanea. Ne La notion de dépense (4), Bataille esordisce col dichiarare l’inesistenza di un metodo corretto che consenta di definire ciò che è utile agli uomini (5). Egli prosegue indicando una dépense incondizionata, ovvero il principio della perdita, che riconosce come razionale. Dépense simbolica è specificamente quella riguardante un certo tipo di produzioni artistiche: letteratura, teatro e poesia. A quest’ultima Bataille dedica 101 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
uno spazio più ampio rispetto alle altre produzioni; la ragione poggia sulla adesione che il termine poesia ha con la dépense. Il termine poesia, che si applica alle forme meno degradate, meno intellettualizzate, dell’espressione di uno stato di perdita, può essere considerato come un sinonimo di dépense: esso significa infatti, nel modo più preciso, creazione per mezzo della perdita. Il suo senso è dunque vicino a quello di sacrificio. E’ vero che il nome di poesia non può essere applicato in un modo appropriato se non ad un residuo estremamente raro di ciò che serve a designare volgarmente e che, in mancanza di previa riduzione, si possono introdurre le peggiori confusioni; ora è impossibile, in una prima rapida esposizione, parlare dei limiti infinitamente variabili tra forme sussidiarie e l’elemento residuale della poesia. E’ più facile indicare che, per i rari esseri umani che dispongono di questo elemento, la dépense cessa di essere simbolica nelle sue conseguenze: così, in una certa misura, la funzione di rappresentazione impegna la vita stessa di chi l’assume. Lo vota alle forme di attività più deludenti, alla miseria, alla disperazione, all’inseguimento di ombre inconsistenti che non possono dare null’altro che vertigini o rabbia. Capita spesso di non poter disporre di parole se non per la propria perdita, di essere costretti a scegliere tra un destino che fa di un uomo un proscritto, tanto profondamente separato dalla società quanto le deiezioni lo sono dalla vita apparente, e una rinuncia il cui prezzo è una attività mediocre, subordinata a bisogni volgari e superficiali. (6)
Qualche anno più tardi, all’interno de La littérature et le Mal (7), e precisamente nel capitolo riguardante Charles Baudelaire, Bataille non può sottrarsi dal dialogo con Sartre, da un lato per rintracciarne le intuizioni e dall’altro per segnarne le falle. La descrizione dell’atto poetico da parte di Sartre del suo Baudelaire (8), indica una trascendenza obiettiva attraverso la quale gli oggetti accettano di revocarsi per indicarne altri (9). La svista sartriana sta nella mancata distinzione tra il mondo prosaico e quello della poesia; nel poetico infatti vi è partecipazione tra soggetto e oggetto in un continuo superamento reciproco. Attraverso tale superamento costante, l’oggetto della poesia non potrà mai essere considerato alla stregua di un comune oggetto inutile della memoria ma sarà sempre definito dall’invasione attuale del soggetto (10). In questo senso, Bataille smonta ciò che per Sartre è l’impossibile, frustrante e misero tentativo di qualunque poeta; la mancata sintesi tra oggetto e soggetto resta infatti per Sartre lo scacco davanti al quale l’essere e l’esistenza non verranno mai a conciliarsi per dichiarare la poesia come mondo dell’impossibile inteso come non-soddisfacimento. Bataille scardina eccome: attraversa Sartre e ne coglie la contraddizione circa la modalità poetica; quest’ultima rappresenta per Bataille il grimaldello attraverso il quale l’uomo può sfuggire al destino, destituendo il senso del linguaggio e aprendosi all’impossibile, il solo mezzo per non essere ridotti a riflesso delle cose (11) La poesia che abbia consistenza è sempre qualcosa di contrario alla poesia, poichè mentre ha per fine ciò che è perituro, lo tramuta in eterno. Ma nemmeno importa se il gioco del poeta, la cui essenza è di unire il soggetto all’oggetto della poesia senza indebolirsi, lo ravvicina al poeta deluso, al poeta umiliato da uno scacco e insoddisfatto. In realtà l’oggetto, il mondo, irriducibile, insubordinato, incarnato nelle creazioni ibride della poesia, tradito dal poema, non è tradito dalla vita invivibile del poeta. A rigore, soltanto la lunga agonia del poeta rivela, in ultima analisi, l’autenticità della poesia. (12)
L’interesse nei confronti delle Fleurs du mal, consente a Bataille di tracciare lo spazio più ampio della poesia come dipendente, così come ogni attività, dall’economia e dal dispendio improduttivo. Bataille si spinge entro una disamina del poetico in generale 102 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
richiamando due posizioni espresse dallo stesso Baudelaire nei Journaux intimes: «Le plaisir nous use. Le travaille nous fortifie». Per sviluppare il nodo centrale della poesia, Bataille si serve dunque delle due asserzioni baudelairiane ed è in quel piacere che ci consuma che trova la genesi (e l’effetto) del suo dire. Secondo Bataille infatti, il piacere che consuma è tratto essenziale non solo della poesia delle Fleurs du mal, ma di quella modalità del dispendio improduttivo che risponde al momento presente. Così, mentre il lavoro è proiettato nella costruzione utile dell’avvenire, il piacere abbandona l’uomo nell’inutilità dell’insoddisfazione (13). Rifiuto, avversione: sono questi i termini entro cui il poeta dice di no all’edificazione utile delle risorse. Sovversione è piuttosto la cifra entro cui si brucia l’istantaneità dell’inutile, della poesia che non serve nessun padrone, nemmeno se stessa. Inutile inteso come inservibile e non-necessario corrisponde alla libertà massima della poesia che, rivolta a quel residuale linguistico che agogna l’impossibile, gravita al di sopra del Bene e del Male. Nel caso specifico, l’opera di Baudelaire si trova storicamente inscritta all’interno di una distinta temperie culturale; la respira fin dentro il midollo la storia e nonostante ciò la nega, la rifiuta irreparabilmente, consacrandosi come risposta al calcolo utilitario (14). La poesia, prosegue Bataille occupandosi di William Blake, non accetta i dati dei sensi nella loro nudità: ma non è sempre, anzi è raramente, disprezzo dell’universo esteriore. Essa rifiuta piuttosto i limiti precisi degli oggetti fra di loro, ma ne ammette il carattere esteriore. La poesia nega e distrugge la realtà prossima, perchè vi vede lo schermo che ci occulta il vero aspetto del mondo. La poesia ammette nondimeno l’esteriorità, in rapporto all’io, degli utensili e dei muri (15)
La restituzione, che la sola poesia ammette, è quella di un mondo irriducibile alle cose estranee e al contempo asservite. La poesia, negando il limite delle cose, «ha essa solo la virtù di restituirlo per noi alla sua mancanza di limite; il mondo, in una parola, ci è dato quando l’immagine che noi ne abbiamo è sacra, perchè tutto ciò che è sacro è poetico, e tutto ciò che è poetico è sacro» (16). La poesia è “ricerca dolorante” – sia pure ricerca e non possesso – di una verità morale [...] Se la libertà – mi si permetta di enunciare una proposizione prima ancora di giustificarla – è l’essenza della poesia; e se la condotta libera, sovrana, merita essa sola una “ricerca dolorante”, scorgo subito la miseria della poesia e le catene della libertà. La poesia può con le sue parole calpestare l’ordine stabilito, ma non può sostituirsi ad esso. Quando l’orrore per una libertà impotente impegna virilmente il poeta nell’azione politica, egli abbandona la poesia. Ma a partire da quel momento egli assume la responsabilità dell’ordine futuro, rivendica la direzione dell’attività, l’atteggiamento maggiore; e noi di fronte a tutto ciò, non possiamo non capire che l’esistenza poetica, in cui scorgevamo la possibilità di un atteggiamento sovrano, è veramente l’atteggiamento minore, che essa è soltanto un atteggiamento infantile, un gioco gratuito. A rigore, la libertà sarebbe un potere del bambino: per l’adulto impegnato dell’ordinamento obbligatorio dell’azione essa non sarebbe più che un sogno, un desiderio, un’ossessione. (17)
Nella risposta a René Char sull’incompatibilità dello scrittore, Bataille sottolinea l’urgenza di una denuncia nei confronti della subordinazione, del comportamento asservito. Era il 1950 e il dibattito, intorno a quegli anni, su impegno e letteratura investiva in ordine cronologico Bataille, Blanchot fino ad arrivare, negli anni sessanta al 103 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
gruppo di Tel Quel. Non si trattava di sterili polemiche intorno alla non-responsabilità dell’intellettuale ma di una nuova assiologia capace di sottrarsi a fini eteronomi; un nuovo statuto che risentiva pesantemente di posizioni filosofiche e linguistiche ben precise e che muoveva da una critica altrettanto puntuale e serrata nei confronti del concetto di letteratura ed espressione poetica (18). «L’azione può essere condannata solo dal silenzio – o dalla poesia – che apre una finestra sul silenzio» (19) Pur tuttavia l’azione è, fra tutti gli oppiacei, quella che provoca il sonno più greve. L’azione è quella che, seguendo le ragioni utilitarie, risponde in qualche modo al choisissons baudelairiano. Non c’è nessuna scelta in effetti se non si accetta da principio alcuna divisione tra azione e piacere, se non si confondono vita e agire. Infatti «essendo l’azione il mezzo necessario al mantenimento della vita, la sola azione accettabile [è] quella che si cancella, o meglio, che si appresta alla cancellazione, di fronte alla luccicante diversità … che non può essere ridotta all’utile» (20) All’azione razionale divenuta la posta in gioco di chi agisce senza misura ci si può allora opporre in un solo modo: mostrando la capacità di sostituirsi ai metodi di chi non approviamo. Un punto fondamentale e fondante della posizione di Bataille che considera il dibattito tra letteratura e impegno decisivo, e aggiunge: Ma non possiamo certo limitarci a esso. Credo che, in primo luogo, sia importante definire ciò che di irriducibile al servire un signore mette in gioco la letteratura. NON SERVIAM si dice sia la parola d’ordine del demonio. In tal caso la letteratura sarebbe diabolica (21)
Il mondo, per Bataille, non può ridursi all’efficacia della ragione sebbene egli stesso non disprezzi affatto l’ordine razionale. Si rende ben conto tuttavia che nulla che eccede le ragioni dell’utilità è degno di adorazione. L’azione utilitaria neutralizza l’uomo e lo rende schiavo della necessità nei giudizi che decidono il nostro comportamento. Una morale dunque fondata sulla costrizione e sul bisogno di asservirsi non può rispondere al conato dell’eccesso e della sovranità del desiderio. L’utile altro non è che una concentrazione sull’oggetto che, determinando la separazione, non veste gli abiti del sogno e riporta l’uomo alla negazione del desiderio, al rifiuto dell’oggetto del desiderio. Lo scrittore potrà dunque scegliere il silenzio o la sovranità tempestosa. Ma la questione della compatibilità tra impegno e letteratura resta mal posta. Lo scrittore non può fare dei progetti che contribuiscano alla società dell’utile, non può se è autentico (22). La letteratura, che ha valore di verità sovrana, poggia sulla capacità di sottrazione alle regole dell’interesse. Pur tuttavia, Bataille non può essere tacciato di ignavia: non consentendo di piegarsi al compromesso tra letteratura e impegno infatti riconosce che «potrebbe accadere che la parte pretesa dall’azione utile sia la vita nella sua interezza. Nel pericolo, nell’emergenza o nell’umiliazione non c’è posto per il superfluo. Ma da quel momento, non esiste più scelta» (23) La letteratura e la poesia, che vanno contro l’accrescimento delle risorse, sono inevitabilmente rivolte allo spreco, al dissipamento potremmo dire del consumo, al contrario dell’utilità. Allora in questa condizione di inutilità, è proprio la poesia a trovare il tempo e lo spazio fecondi della rivolta, della sovversione. La poesia è sovrana di se stessa, nel senso che non rispondendo a nessun ordine precostituito dall’esterno, si concede di seguire e di farsi travolgere dal desiderio smisurato. Lo 104 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
scrittore, prosegue Bataille, può entrare in relazione con la società produttiva solo esigendo da essa una riserva governata non più dall’utile ma dal diniego del significato «dal nonsenso di ciò che si dà, inizialmente, allo spirito come coerenza finita, dall’appello a una sensibilità senza contenuto discernibile»(24). Il linguaggio della poesia, afferma Perniola, «è affine agli “stati di minorità”, un legame sottile lo lega alle varie manifestazioni del negativo logico (il non-senso, l’antinomia), morale (il male), economico (la perdita), giuridico (il crimine), psicologico (l’infanzia, la follia), fisico (la morte)» (25) La parola profitto stride invero se a determinare il profitto è l’istante presente, ma quest’incompatibilità rivela proprio l’orientamento gretto delle scienze economiche: è lo stesso orientamento del linguaggio della conoscenza, che in linea di principio non ha la possibilità di fare i conti con il presente. Nel linguaggio discorsivo, il presente è il parente povero (o lo zimbello): ciò che non ha senso per lui non ha in realtà senso, ciò che per lui non vale non è utile (…) Il dispendio improduttivo , avendo il senso nell’istante, è raramente lo spreco che ci si immagina: in via generale ha il valore positivo dell’arte. (26)
Nella dilapidazione dell’energia, nel cammino del desiderio che consumandoci non si riduce mai e anzi resta, Bataille sostiene che il consumo della poesia è contrario al lavoro il cui significato si limita all’uso futuro del prodotto. Ecco come il movimento poetico esige una negazione del soggetto (27), intesa come abbandono e rifiuto dell’appropriazione e del profitto. La parola poetica è infatti «la via in ogni tempo seguita dal desiderio che l’uomo avverte di riparare all’abuso da lui fatto nel linguaggio» (28) Ma che cos’è allora che resta? Cos’è quel residuo linguistico che resiste anarchicamente e al di là di ogni consumo dell’utile? Il resto è ciò che permane, ciò che si trattiene nell’istante presente e che, pur sempre in limine mortis, non accenna a svanire. Ha la stessa stoffa del desiderio e percorre le stesse fenditure di un soggetto incapace di accumulare e, per questo, salvo nella poesia. Quando è lo stesso resto a (r)esistere, a permanere nonostante, allora la parola poetica, entro il desiderio di un reale non più votato all’utile, si fa autentica.
2. La rivoluzione del residuo poetico. Baudrillard Il residuo è ciò che resta, ciò che si sottrae al consumo, ciò che Bataille ascriveva come caratteristica al desiderio, ciò che consente la sovversione. Per Baudrillard il resto è invece qualcosa che deve essere re-impiegato che dunque non deve restare mai inutilizzato e nella catena economica del mercato e nel rituale del consumo (29); questo perchè se il resto sopravvivesse, il capitale verrebbe ad autoriprodursi. La critica di Baudrillard ai sistemi e ai modi di produzione scaturisce dalla nozione di dépense di Bataille (30). Lo stesso Baudrillard parla di questo profondo legame riconoscendone il debito inesauribile. (31). Ne L'échange symbolique et la mort (32) Jean Baudrillard si esprime circa una commutabilità dei termini un tempo contraddittori o dialetticamente opposti nella genesi dei simulacri: 105 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Commutabilità del bello e del brutto nella moda, della sinistra e della destra in politica, del vero e del falso in tutti i messaggi dei media, dell’utile e dell’inutile a livello degli oggetti, della natura e della cultura a tutti i livelli della significazione. Tutti i grandi criteri umanistici del valore, quelli di tutta una civiltà del giudizio morale, estetico, pratico, si cancellano nel nostro sistema di immagini e di segni. Tutto diventa indecidibile: è l’effetto caratteristico della dominazione del codice, che ovunque riposa sul principio della neutralizzazione e dell’indifferenza. Questo è il bordello generalizzato del capitale; non il bordello della prostituzione, ma il bordello della sostituzione e della commutazione (33)
E’ all’interno di questa commutabilità di termini dunque che ritroviamo un’equivalenza tra utile e inutile all’interno di una più ampia perversione della significazione. Essere commutabile significa rendere inservibili e innecessari alcuni dei capisaldi del sistema del linguaggio. Baudrillard muove la sua analisi a partire dalla fine della produzione «con l’enunciazione della legge mercantile del valore, cioè con il regno dell’economia politica» (34) dove si giocano la vita e la morte del capitale (35). Niente residuo, ciò significa non solo che non c’è più un significante e un significato, un significato dietro il significante, o da una parte e dall’altra d’una barra strutturale che li distribuisce – ciò significa anche che non esiste più, come nell’interpretazione psicoanalitica, un’istanza rimossa sotto un’istanza rimovente, un latente sotto un manifesto, dei processi primari che giocano a rimpiattino con dei processi secondari. Non c’è più un significato, qualunque esso sia, prodotto dal poema, non c’è più un ‘pensiero del sogno’ dietro il testo poetico…Non c’è un’economia libidica più che non ci sia un’economia politica – né certamente un’economia linguistica, cioè un’economia politica del linguaggio. Perché l’economico, ovunque sia, si fonda sul resto (soltanto il resto permette la produzione e la riproduzione) – che questo resto sia il non condiviso simbolicamente che rientra nello scambio mercantile e nel circuito d’equivalenza della merce…che questo resto sia semplicemente il fantasma, cioè ciò che non ha potuto risolversi nello scambio ambivalente e nella morte, che, per questa ragione, si risolve in quel precipitato di valore inconscio individuale, di stock rimosso di scene o di rappresentazioni, che si produce e riproduce secondo l’incessante coazione a ripetere. Valore mercantile, valore significato, valore rimosso/inconscio – tutto questo è fatto di ciò che resta…questo resto ovunque si accumula e alimenta le diverse economie che governano la nostra vita. (36)
Nel capitolo titolato La sterminazione del nome di Dio, Baudrillard affronta la posizione di Saussure circa il linguaggio poetico: una decostruzione del segno e della rappresentazione (37). Dopo aver sintetizzato le due regole che secondo Saussure governano il poetico, cioè la legge dell’accoppiamento (couplaison) e quella della parola-tema, Baudrillard incalza sostenendo che ci troviamo dinanzi ad un impoverimento di ciò che si può dire sull’essenza del poetico. Infatti esse non tengono in alcun conto del godimento e del valore estetico che il poetico produce. Bisogna dire che il poetico è al contrario un processo di sterminazione del valore. La legge del poema è in realtà di far sì, secondo un processo rigoroso, che non resti nulla. In questo si oppone al discorso linguistico che, invece, è un processo di accumulazione, di produzione e distribuzione del linguaggio come valore. Il poetico è irriducibile al modo di significazione, che è semplicemente il modo di produzione dei valori linguistici. Essendo irriducibile alla linguistica, esso costituisce la scienza di questo modo di produzione (38).
Il poetico, prosegue, è «l’insurrezione del linguaggio contro le sue stesse leggi» (39). Mentre la buona poesia è quella di cui non resta nulla, la cattiva poesia (o la non -poesia) è quella in cui c’è un residuo, una scoria di discorso, che non consente di essere scambiato 106 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
né consumato nella festa della parola reversibile (40). Il resto è dunque tutto ciò che non è stato sterminato del simbolico, ma non solo. La sua pericolosità risiede nell’abuso di parole e di significati, senza alcuna restrizione rituale., religiosa o poetica di nessun tipo (41). L’utilizzo e la proliferazione del linguaggio nel pieno della libertà, determina un processo senza fine per cui ognuno attinge, a proprio piacimento, al materiale fonico seguendo ciò che vuole esprimere e tenendo da conto solo ciò che ha da dire. Tuttavia, secondo Baudrillard, questa possibilità di prendere [il discorso] e di usarlo senza mai renderlo né risponderne (…) questa idea del linguaggio come d’un medium tuttofare e d’una natura inesauribile, come d’un luogo dove fin d’ora sarebbe realizzata l’economia politica: “a ciascuno secondo i suoi bisogni” – fantasma d’uno stock inaudito, d’una materia prima che si riprodurrebbe magicamente via via che se ne usa e quindi d’una libertà di sperpero fantastico – (…) non è pensabile fuori da una configurazione generale in cui gli stessi principi governano la riproduzione dei beni materiali. (42)
Ogni termine, dunque, ogni parola e significato non restituito nel raddoppio poetico (43) è un residuo, inconsumabile e imperituro, sotto il quale si soccombe non solo da un punto di vista della proliferazione linguistica. Il residuo del poetico dunque si comporta allo stesso modo del residuo industriale, del rifiuto. Ecco che Baudrillard suppone un orizzonte rituale linguistico primitivo, uno stadio simile allo scambio di dono e controdono (44) in cui i segni linguistici siano contingentati in una diffusione limitata, senza libertà formale di produzione né di uso. A questo punto si crea un duplice spazio che egli assimila alle società primitive: per un verso quello delle “parole liberate”, usabili secondo il proprio desiderio, e circolanti come valore di scambio; per l’altro verso quello in cui le parole non hanno né valore d’uso né valore di scambio; un luogo dunque dove la disponibilità del materiale è riservata all’uso simbolico. Ecco, il poetico simula nel linguaggio questa situazione riconducibile alle società primitive stabilendo una festa dello scambio come nella circolazione incessante di scambio/dono, l’unica possibilità di una ricchezza inesauribile che non ammette il residuale. L’opulenza del linguaggio lascia il posto all’efficacia simbolica dei segni. Proprio come nelle formule pronunciate dagli sciamani che si servono di particolari e determinati termini operando direttamente sul mondo, nello scambio rituale simbolico avviene una simmetrica e risolutiva restituzione a beneficio del senso (45). Baudrillard parla di una rivoluzione che il poetico determina rispetto al linguaggio, una sovversione autentica che stermina il valore e attua una reversibilità totale del senso. (46) Attraverso quest’unico percorso la commutabilità dei termini e la loro equivalenza vengono meno. Abbattendo ogni possibilità di residuo, l’utilità della poesia non è accidentale ma necessaria allo scambio perpetuo della parola la quale fa sì che si avvii una rispondenza nello scambio. Questo è il solo godimento: l’eliminazione della traccia e del resto che trova nel simbolico la sua stessa fine.
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NOTE: (1) G. Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi, Milano 1985, cit. p. 218. 107 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
(2) Da cui prende il nome la raccolta omonima. Sono articoli e saggi che Giorgio Manganelli scrisse tra il 1955 e il 1967. (3) Ivi, cit. p. 221. (4) G. Bataille, La notion de dépense, in “La Critique sociale”, 1933, n. 7, ora in ID., Œuvres complètes, vol. I, Gallimard, Paris 1970, tr. it. La nozione di dépense, in ID., La parte maledetta, Bertani, Verona 1972, pp. 41-57. (5) Ivi, p. 41 (6) Ivi, pp.45,46. (7) G. Bataille, La littérature et le Mal, Gallimard, Paris 1957 e ora in Œuvres complètes, vol. IX, Gallimard, Paris 1979, tr. it. ID., La letteratura e il Male, Rizzoli, Milano 1973. (8) J.P. Sartre, Baudelaire, Gallimard, Paris 1946, tr. it. ID., Baudelaire, Mondadori, Milano 1947. (9) Ciò che costruisce Bataille non è una semplice polemica nei confronti dell’interpretazione sartriana ma una “difesa della poesia” alla luce del discorso in merito alla insoddisfazione e alla determinazione del presente per mezzo del futuro. La conversazione tra Sartre e Bataille, costellata da critiche serrate e altrettante accese risposte, si snoda attraverso diverse opere, chiaro segno dell’interesse speculativo reciproco e della grande attenzione che si riservavano vicendevolmente. Si vedano i prodromi nella recensione all’Expérience intérieure di Bataille in J.P. Sartre, Un nouveau mystique, in “Cahiers du Sud”, n. 260-261-262, 1943, ora in Situations, I, Paris; tr. it. ID, Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 243-279. La risposta di Bataille è in appendice al suo saggio Sur Nietzsche in Œuvres complètes, vol. VI, Gallimard, Paris 1973, pp. 195-202, tr. it. ID., Su Nietzsche, SE, Milano 1994, pp. 207-215. Per un quadro generale si veda J. Risset (a cura di), Bataille-Sartre, un dialogo incompiuto, Artemide, Roma 2002. (10) Cfr. G. Bataille, La letteratura e il Male, cit. p.41. (11) Cfr. Ivi, p.42. (12) Cfr. Ivi, p. 45. (13) Cfr. Ivi, p. 50. (14) Cfr. Ivi, p.54. (15) Ivi, p. 77. (16) Cfr. Ivi, p. 78. (17) Ivi, p.35,36. (18) I riferimenti sono numerosi. Per un quadro generale sul gruppo d’avanguardia di Tel Quel si veda M. Charvet, E. Krumm, Tel Quel. Un’avanguardia per il materialismo, Dedalo, Bari 1974. Sebbene il testo parta dalla rottura del ’71, vi sono preziosi contributi, non ultimo quello di Philippe Sollers. A Sollers, aderente al gruppo d’avanguardia di Tel Quel va il merito di aver rivalutato alcune delle opere fondamentali di Artaud e Bataille. (19) G. Bataille, Lettre à René Char, in Œuvres complètes, Gallimard, vol. XII, Paris 1988, pp. 16-28, tr.. it ID., Lettera a René Char sull’incompatibilità dello scrittore, in Conferenze sul non-sapere e altri saggi, Costa&Nolan, Milano-Genova 1998, pp. 165-180, cit. p. 167. (20) Ivi, p.166. (21) Ivi, p. 169. (22) Cfr. Ivi, p. 174. (23) Ibidem. (24) Ivi, p.179. (25) M. Perniola, Georges Bataille e il negativo, Feltrinelli, Milano 1977, cit. p. 20. (26) G. Bataille, De l'existentialisme au primai de l'économie, in “Critique”, 1947, n. 19 e 1948, n. 21., tr. it. ID., Dall’esistenzialismo al primato dell’economia in L’Aldilà del serio e altri saggi, Guida, Napoli 2000, pp. 83-112, cit. p. 105. (27) L’eredità hegeliana è consistente e visibile anche nei suoi riferimenti alla sovranità e alla dialettica servo-padrone. Pur tuttavia la critica di Bataille è rivolta all’Aufhebung e al suo utilizzo strumentale da parte dell’hegelismo. Per maggiori dettagli sull’intricata questione e per il contesto entro cui Batille si muove attraverso Hegel e il negativo , si veda: M. Perniola, Georges Bataille e il negativo, Feltrinelli, Milano 1977. S. Mati, Filosofia futura, ovvero Somma Ateologica, in F. Rella, S. Mati, Georges Bataille, filosofo, 108 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Mimesis, Milano 2007, pp. 37-67. M. Galletti, Rivolta e sovranità, in Bataille-Sartre, un dialogo incompiuto, op. cit. pp. 30-40. Non ultimo, si veda anche il denso paragrafo riguardante signoria e servitù all’interno del capitolo dedicato a Georges Bataille in J. Derrida, L’écriture et la diffrérence, Edition de Seuil, 1967; trad. it. ID, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, pp. 329-339. (28) L’Esperienza interiore, Dedalo, Bari 1994, p. 228. (29) Cfr. P. Pagani, Il "resto" fra integrazione e sovversione. Note su Baudrillard e Bataille, in “Kainós. Rivista on line di critica filosofica”, n. 4-5 2004 (URL: http://www.kainos.it/numero4/ricerche/pagani.html (30) Un testo importante per la comprensione e la comparazione dell’opera di Baudrillard con quella di Bataille è quella di: J. Pefanis, Heterology and the Postmodern. Bataille Baudrillard and Lyotard, Duke University Press, London 1991. Pefanis non solo riconosce il contributo che il pensiero di Bataille ha avuto nei confronti di Baudrillard ma si riferisce anche al debito che Baudrillard ha nei confronti del situazionismo. cfr. J. Pefanis, op.cit. p. 54. (31) Cfr. Baudrillard Live, Selected Interviews, ed. Mike Gane, Routledge, London 1993, 21, p. 166. Per una panoramica ampia del pensiero di Baudrillard si veda Nicholas Zurbrugg (a cura di), Jean Baudrillard. Art and Artefact, Institute of Modern Art, Brisbane, Qld 1997. E anche l’ottimo volume di R. Butler, Jean Baudrillard. In defence of the real, Sage publications, London 1999; in particolare il capitolo dal titolo Simulation, pp. 23-69. (32) J. Baudrillard, L'échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris 1976, tr. it. ID., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979. (33) Ivi, p. 20. (34) Ivi, p. 21. (35) Partendo dalla legge mercantile del valore, Baudrillard prende le mosse per analizzare i concetti cardine dell’economia dal capitale. Con esplicito riferimento a Marx. La forza-lavoro lascia il posto al segno, commutabile con tutte le altre parti della vita quotidiana. «La forma segno s’è impadronita del lavoro per svuotarlo di qualsiasi significato storico o libidico e assorbirlo nel processo della propria riproduzione». Nello scenario attuale Baudrillard si preoccupa di ridefinire il lavoro come segno del consumo e di sottolinearne il carattere estremamente aleatorio e pur tuttavia perfettamente assimilabile ad ogni individuo. Il lavoratore è “operatore produttivo” e ciò che lo contraddistingue non è più lo sfruttamento ma “il suo carattere di desinenza inutile del capitale fisso” La condizione di sfruttamento che viene meno nel processo (non)produttivo, secondo Baudrillard è causa di uno spossessamento nei confronti del lavoratore con conseguenze radicali circa il salario. Cfr. J. Baudrillard, op.cit. pp.22-33. (36) Ivi, p.244. (37) La riflessione a cui fa riferimento è quella di De Saussure intorno all’anagramma e la lettura che ne dà J. Starobinski, Les mots sous les mots, Gallimard, Paris 1971. Citato in J. Baudrillard, op. cit. p. 208. Si veda sull’argomento anche il bel documento La première lettre de Ferdinand De Saussure à Antoine Meillet sur les anagrammes, a cura di Roman Jakobson, in “L’Homme”, 1971, vol.11, n. 2, pp. 15-24. (38) J. Baudrillard, op. cit., p. 211. (39) Ibidem. (40) Cfr. Ivi, pp. 213,214 (41) Cfr. Ibidem. (42) Ivi, p. 215 (43) Baudrillard enuncia una terza dimensione del nostro modo di significazione a partire dalla nozione di “resto”; cfr. Ivi p. 214. (44) Per evitare il fuori tema, ci è impossibile delineare la comunanza di referenti tra Bataille e Baudrillard ma sull’influenza di Marcel Mauss si veda J. Pefanis, op. cit. e anche il l’accurato ritratto che fa R.J. Lane, Jean Baudrillard, Routledge, London 2000, pp. 52-61. (45) Cfr. J. Baudrillard, op. cit., pp.217,218. (46) cfr. Ibidem.
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Intorno al design. Per una termoestetica
di Tommaso Ariemma
Il design industriale tra utile e inutile, al di là dell'opposizione Non è certo un filosofo dell'arte o della tecnica a porsi la domanda più radicale circa il ruolo del design. È, invece, Jacques Rancière, originale e discusso filosofo della politica. Nell’articolo La superficie del design, pubblicato nel 2002 e poi raccolto ne Il destino delle immagini, Ranciere tenta l’originale paragone tra Mallarmé e Peter Behrens. Quest’ultimo può essere considerato il primo industrial designer della storia. Nel 1907, infatti, la Allgemeine Elektricitäts Gessellschaft (AEG) gli affida l’incarico di curare la veste grafica dei suoi prodotti, inclusi pubblicità e logo. È il primo incarico di questo tipo. Nella sua indagine sul design, Rancière sceglie dunque di confrontare il pioniere del design con l’illustre Mallarmé. Cosa hanno in comune? È, del resto, proprio questa la domanda: […] che somiglianza c’è tra Stéphane Mallarmé, poeta francese che nel 1897 Un colpo di dadi mai abolirà il caso, e Peter Behrens, architetto, ingegnere, designer tedesco, che, dieci anni più tardi, è impegnato a disegnare i prodotti, le pubblicità ed anche le sedi della compagnia tedesca AEG (Allgemeine Elektricitäts Gessellschaft)? È una domanda apparentemente sciocca. (1)
Nel tentativo di rispondere egli stesso alla domanda che ha posto, Rancière individua (ed è ciò che ci interessa della sua analisi) il vero fine del designer, comune a quello di Mallarmé: Che rapporto c’è tra un poeta così definito e Peter Behrens, ingegnere al servizio di una grande industria che produce lampadine, scaldabagni o impianti di riscaldamento? All’opposto del poeta, Behrens è occupato nella produzione in serie di dispositivi utili. Egli è anche il partigiano di una visione unificata e funzionalista. Vuole sottomettere tutto a un solo principio di unità, dalla costruzione degli stabilimenti fino al logogramma e alle pubblicità della marca. Egli vuole ricondurre gli oggetti prodotti a un certo numero di forme “tipiche”. (2)
Seguendo Rancière, il designer ha piuttosto di mira non il singolo oggetto, ma una rete di rapporti, la costruzione di un vero e proprio ambiente. La sua esigenza fondamentale sembra essere quella di oltrepassare l'utilità, spingendosi verso l'essenziale, come Mallarmé, ovvero verso la ricerca di una funzionalità superiore. Il "funzionale" ricercato dal designer non ha niente a che fare con l'utilità. Scrive ancora Rancière: Così, un uomo come Behrens appare dapprima nel ruolo funzionale di consigliere artistico della compagnia di elettricità, la cui arte consiste nel disegnare oggetti che si vendano bene e nel fare cataloghi e manifesti che ne incentivino la vendita. Egli si fa inoltre pioniere della standardizzazione e della razionalizzazione del lavoro. Ma, nello stesso tempo, egli situa tutta la sua attività sotto il segno di 110 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
una missione spirituale: dare alla società la sua unità spirituale attraverso la forma razionale del processo di lavoro, dei prodotti fabbricati e del design. La semplicità del prodotto, lo stile adeguato alla funzione, è molto di più di una ”immagine di marca”, è il marchio di un’unità spirituale che deve unificare la comunità. (3)
Il design costituisce il principio attivo della cosiddetta "società dei consumi" e la sua funzione primaria consiste nell'interrompere il rapporto con il mondo reale e con i concreti bisogni dell'individuo, per innescare un rapporto spirituale con una unità irradiata dagli stessi oggetti. Proprio grazie al design, "funzionale" smette di significare "utile", senza per questo significare “inutile”. Si tratta di una differente funzionalità che non è più riducibile all'opposizione tra utile e inutile. Come ha acutamente evidenziato Jean Baudrillard, ne Il sistema degli oggetti, funzionale "non qualifica ciò che è conformato a un fine, ma ciò che si è adattato a un ordine o a un sistema" (4).
Lo stato gassoso dell'economia. A partire da Baudrillard Il principio dell'utilità cede il posto a un principio ambientale. La produzione delle merci muta del resto l'ecologia stessa dell'uomo. Baudrillard apre Il sistema degli oggetti con queste parole “È possibile classificare l'immensa vegetazione degli oggetti come una flora o una fauna, con specie tropicali, glaciali, con brusche mutazioni, con specie in via di sparizione?” (5). Siamo giunti allo stato gassoso dell'economia, perché il consumo interrompe ogni rapporto dell'uomo con il singolo oggetto, ogni rapporto utilitaristico (6), promuovendo piuttosto un rapporto con l'ambiente nel suo insieme. Il consumo contemporaneo è il rapporto con la merce divenuta atmosfera, al di là di ogni riferimento ai bisogni individuali o sociali: I concetti di «situazione» e di «ambiente» sono senza dubbio così diffusi solo da quando viviamo, in fondo, meno in prossimità degli altri uomini, della loro presenza, dei loro discorsi, che non sotto lo sguardo muto di oggetti obbedienti e luccicanti che ci ripetono sempre lo stesso discorso, quello del nostro sbalorditivo potere, della nostra potenziale abbondanza, della nostra assenza gli uni nei confronti degli altri. […] E la relazione del consumatore con l’oggetto ne è modificata: egli non si riferisce più a quell’oggetto nella sua utilità specifica, ma a un insieme di oggetti nella loro significazione totale. Lavatrici, frigoriferi, lavastoviglie, ecc., hanno un altro senso presi assieme che considerati singolarmente come utensili. (7)
Nel testo fondamentale che di pochi anni segue Il sistema degli oggetti, ovvero La società dei consumi, Baudrillard insiste sul carattere "ambientale" come caratteristica distintiva di tale società, e tuttavia non vi insiste abbastanza. Interessato a evidenziare come le merci si connettano tra loro e facciano sistema, Baudrillard opta più per un modello semiotico che per uno atmosferico. Considera, infatti, alla fine il rapporto tra le merci un rapporto tra segni, tra segni puri, costituenti una realtà altra (8), più reale del reale. Eppure l'individuazione di una natura atmosferica della merce aiuta, a nostro parere, a comprendere molto meglio il mondo dei prodotti all'interno del quale siamo 111 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
letteralmente immersi. Il ruolo del design è decisivo. Anche se il riferimento all'atmosfera, che ritorna sempre nei testi di Baudrillard, è metaforico, ogni indizio in tal senso resta prezioso. Come quando, a proposito del nudo e della sua resa spettacolare, egli parla di una “climatizzazione ottimale” e di una nudità “design-ata”, che condivide cioè la stessa stilizzazione degli oggetti (9). In un articolo dal titolo Design e Dasein (10) Baudrillard vede nel design lo strumento di controllo sulle nostre vite. Strumento di controllo che ha innanzitutto una funzione "climatizzante". Negli oggetti, nel loro design, è all’opera, dunque, una climatizzazione esistenziale. Gli stessi termini hot e cool (caldo, freddo) rimandano al controllo di una temperatura simbolica: quella dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti. Baudrillard resta vincolato al primato dei “significati” che il sistema degli oggetti produce, senza cogliere, proprio in questo “significare”, una funzione climatizzante, ovvero un controllo dell’atmosfera esistenziale. Baudrillard resta colui che ha colto una tale potenzialità senza svilupparla in senso propriamente atmosferico, limitandosi a utilizzare l’ambiente e l’atmosfera come una metafora, per pensare la rete dei rimandi, dei segni, in cui gli oggetti sono immersi.
La svolta atmosferica della sensibilità Siamo davanti a un svolta atmosferica non solo dell'economia, ma della sensibilità stessa. Svolta a cui la filosofia si sta lentamente avvicinando, innanzitutto cominciando a pensare il ruolo fondamentale dall'atmosfera, per millenni caduto nell'oblio. Furono gli antichi filosofi greci di Mileto, ovvero Talete, Anassimandro, Anassimene, a porre agli albori del pensiero filosofico un'attenzione all'atmosfera, a cui era strettamente connessa l'essenza del pensiero, non a caso chiamato psyché, cioè "respiro" (11). La filosofa Luce Irigaray, a ragione, ha lamentato nella sua critica al pensiero di Heidegger un “oblio dell’aria”, che prenderebbe avvio con Parmenide (12). In terra francese e tedesca l’attenzione per l’atmosfera è crescente. In Francia, con il suo L’arte allo stato gassoso, il filosofo Yves Michaud (13), e in Germania, filosofi come Gernot Böhme (14) e Peter Sloterdijk hanno posto l’attenzione sul ruolo costitutivo dell’atmosfera. In modo particolare quest’ultimo ha eletto l’esplicitazione dell’atmosfera a concetto cardine di una nuova teoria della cultura. Scrive: Si comincia a capire che l’uomo non è soltanto ciò che mangia ma anche ciò che respira e ciò in cui si immerge. Le culture sono situazioni collettive d’immersione nell’aria e in sistemi di segni. […] la cosa più sensata sembra perciò che la teoria della cultura, in una prima fase di auto-accertamento, si orienti alle forme più sviluppate di descrizione scientifica dell’atmosfera, alla meteorologia e alla climatologia, per dedicarsi in seguito a fenomeni aerei e climatici più rilevanti da punto di vista culturale e più vicini alle persone. (15)
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Sloterdijk considera il design industriale e il concetto di ambiente (insieme alla prassi del terrorismo) come determinanti tutta l’organizzazione della sensibilità contemporanea (16). Il design per Sloterdijk si esplicita come Air Design, come controllo dell’atmosfera. Le sue ricerche si interessano dell’atmosfera sia in senso strettamente fisico, sia attraverso il parallelismo esistenziale, aprendo la strada a quella che si potrebbe chiamare una termoestetica, che non può non farsi carico pertanto di ciò che lui stesso ha chiamato “design climatico di persone e gruppi nel loro spazio caratteristico” (17). _________________________________________ NOTE (1) J. Rancière, Il destino delle immagini, a cura di R. De Gaetano, Pellegrini, Cosenza 2007, p. 136. (2) Ivi, p. 136-137. (3) Ivi, p. 146. (4) J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, trad. it. di S. Esposito, Bompiani, Milano 2003, p. 81. (5) Ivi, p. 5. (6) Ivi, p. 255. (7) J. Baudrillard, La società dei consumi, trad. it. di G. Gozzi, Il mulino, Bologna 2008, pp. 3-5. (8) Cfr, ivi, in particolare p. 5. (9) Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, trad. it. di G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 118-119. (10) Cfr. J. Baudrillard, Design e Dasein, “Agalma”, 1, 2000. (11) Sulla scuola di Mileto come pensiero dell’atmosfera rimandiamo all’importante studio di G. Semeraro, L’infinito. Un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, Milano 2001. (12) Cfr, L. Irigaray, L’oblio dell’aria, trad. it. di C. Resta, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 17-34. (13) Cfr. Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso, trad. it di L. Schettino, Idea, Roma 2007. (14) Cfr. in particolare G. Böhme, Atmosphäre. Essays zur neuen Ästhetik, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1995. La ricerca sulle atmosfere ha interessato recentemente un’intera schiera di fenomenologi tedeschi. Si veda infatti anche M. Hauskeller, Atmosphären erleben. Philosophische Untersuchungen zur Sinneswahrnehmung, Akademie, Berlin 1995. A partire dalle loro ricerche ha preso avvio anche l’analisi in merito di Tonino Griffero, cfr. in particolare Corpi e atmosfere: il “punto di vista” delle cose, in A. Somaini (a cura di), Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita & Pensiero, Milano 2005, pp. 283-317. (15) P. Sloterdijk, Terrore nell’aria, trad. it. di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma 2006, p. 70. (16) Cfr. ivi, p. 7. (17) Ivi, p. 79.
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La vera inutilità dell’arte. Estetica ed estetizzazione della realtà
di Andrea Oppo
Sommario: 1. Copia e originale; 2. La rivoluzione copernicana della riflessione sull’arte; 3. Il reale estetizzato 4. Fine o sospensione del problema?
Sulla dialettica dell’utile e dell’inutile la questione estetica riveste un ruolo del tutto particolare, ricco di paradossi e sentimenti contraddittori. Cosa vi è, infatti, di più inutile dell’arte in senso assoluto? Dell’arte che abbellisce e orna, che sta intorno alla realtà reale; dell’arte-gioco; dell’arte che edifica tutto ciò che, per definizione, non serve alla conservazione fisica, alla guarigione, alla sanità, alla scienza, conoscenza e funzionamento del mondo? L’arte vive sempre ai margini dei territori dell’intelletto e della volontà, è luogo secondario di questi, in gran parte spurio. Per molti versi è davvero la «domenica della vita»: ciò che si fa quando si è già fatto quello che si deve o che è necessario fare. Eppure l’arte è anche il contrario di tutto questo. È l’illusione che proprio attraverso quel luogo secondario, quel gioco imitativo, nell’opera creata, s’incarni o passi il significato più profondo delle cose. È, in assoluto, l’ambizione di andare oltre il reale e perciò ad essa vengono consegnati i valori simbolici più importanti. L’arte è, infatti, il simbolo di «ciò che conta di più». In questo senso – è difficile negarlo – è la cosa più utile che esista per l’uomo: poiché serve alla definizione della sua identità, gli fornisce ragione e significato del suo stare al mondo; l’arte è lo spazio, anche fisico, che custodisce i motivi più preziosi sui temi di senso. Ma tutto ciò non è privo di problemi e, anzi, è proprio sul valore teoretico di questo simbolo che si gioca la partita più importante nella storia del pensiero filosofico sull’arte. C’è un’oscillazione fondamentale che ritorna periodicamente nella storia della filosofia: l’arte non è la verità/l’arte è la verità suprema. In molti filosofi questo dubbio ha operato come una sorta di canto delle sirene, insinuando un rapporto fatto di fascinazione e rigetto. Ma, infine, tra la perfetta trasparenza del logos e l’oscurità dell’aisthesis non poteva che imporsi la prima delle due. La filosofia poteva sopravvivere solo negando qualsiasi valore di verità all’esperienza estetica: non poteva permettere, per così dire, che una forma di conoscenza il cui segno distintivo non fosse l’«identità» e la «non-contraddittorietà», ma al contrario il cui orizzonte di significato apparisse al tempo stesso come oggetto e sorgente della propria conoscenza, potesse mai godere degli stessi diritti di quello della ragione in termini di accesso alla verità. Questo potrebbe essere uno dei motivi, tra gli altri, per i quali l’estetica è nata solo come disciplina moderna, facendolo peraltro in modo paradossale, con Kant, il quale non intendeva minimamente scostarsi dalla posizione che la filosofia ha tenuto su questo tema lungo tutta la sua storia. 114 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Per tentare di rintracciare un filo narrativo di questa vicenda, per dare una ragione alla crisi presente dell’estetica come disciplina filosofica indipendente e infine per chiarire la valenza reale di una tendenza in atto ormai da qualche decennio, la cosiddetta «estetizzazione della realtà», può essere utile soffermarsi, seppur molto sommariamente, su una questione del passato, che rappresenta il nucleo centrale da cui tutto ciò in fondo ha origine. Si tratta, da un lato, dell’impostazione in senso teoretico del problema data da parte di Platone e di Aristotele (§ 1), dall’altro, della soluzione originale fornita da Kant (§ 2) e dagli esiti imprevedibili e rivoluzionari che questa avrebbe avuto. Successivamente (§ 3 e 4) , si passerà ad esaminare, proprio alla luce della definizione della valenza teoretica dell’arte, il tema dell’estetizzazione della realtà, ipotizzata qui come effetto di un risultato acquisito nel rapporto tra arte e verità, ma anche come messa in crisi radicale del punto specifico individuato da Kant. 1.
Copia e originale
Il passaggio da Platone ad Aristotele, per ciò che riguarda la riflessione sull’arte, segna anche il collocamento dell’arte stessa sul versante dell’utile. Per quanto sintetizzare e semplificare i problemi dell’estetica antica non sia mai facile, principalmente a causa della non coincidenza del concetto moderno, e unico, di «arte» con quelli antichi di techne e mousikè [1], ma anche per la problematica definizione del pensiero platonico su questo tema così come dell’idea di mimesis in tutta l’antichità, tuttavia un fatto appare chiaro: con Aristotele si arriva a un vero e proprio spostamento della questione estetica e a un suo inquadramento preciso sul versante pratico prima che conoscitivo. Egli ribalta la condanna platonica dell’arte su tutti i fronti, ma lo fa in primo luogo – anche se in maniera perlopiù implicita – sul piano teoretico. Definire ontologicamente l’arte come «copia della copia dell’Idea originale», alla maniera di Platone, significa considerarla come un tipo di conoscenza e un’attività quasi del tutto inutili, se non addirittura potenzialmente dannose. Aristotele invece accetta di buon grado questa esperienza dello spirito umano, e non solo perché la fa salire di grado, per così dire, dal rango di copia della copia a quello di «prima copia», ma soprattutto perché rispetto alla visione platonica per lui cambia l’idea di «originale». Questo non è, infatti, l’eidos platonico, ossia l’essenza immutabile e separata dalla materia, ma è, al contrario, ciò che la tradizione ha definito «ilemorfismo», la tendenza immanente alla materia che attiene alla dimensione dell’atto e della potenza, e che caratterizza il mondo in divenire. Uno dei problemi fondamentali nella conoscenza della realtà, per Aristotele, è la difficoltà di afferrare in modo esatto e rigoroso, per via epistemica, la sostanza delle cose, ovvero ciò che differenzia una cosa dall’altra, ciò che non solo è qualcosa, ma diviene qualcosa. È chiaro qui al filosofo greco che l’episteme non è lo strumento adatto a praticare, per così dire, questi «territori mobili» della realtà, ma sono semmai doxa e phronesis, l’opinione e la saggezza (prudenza), ad avere maggiori possibilità di aderire meglio a quegli ambiti. Aristotele definisce la phronesis come una forma della sensibilità, come una aisthesis che ha come fine una scelta pratica: quella di destreggiarsi nelle situazioni contingenti. In questo versante si colloca la Poetica e uno dei fini della sua ricerca è proprio la volontà di avvicinarsi alla realtà sostanziale in quegli aspetti di questa preclusi al sapere scientifico. Ne deriva che per Aristotele la mimesis non è semplicemente un’attività che riscrive la realtà fenomenica, ma 115 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
piuttosto un dispositivo che mira a cogliere il ritmo della realtà e in tal modo si pone, quasi a livello metaforico, a metà strada tra la verità e la finzione. Il suo processo è un «andare verso», un cercare di «stare nel ritmo delle cose» e non un semplice copiare o ridescrivere le cose stesse come intendeva Platone. Aristotele qui coglie un punto essenziale e cioè che l’essenza dell’arte si trova nel «movimento» più che nell’essere. Alle medesime conclusioni, in un certo senso, vale a dire dell’arte come «punto mobile» all’interno della mente umana, arriverà anche Kant, come si vedrà, e sarà un passaggio chiave nel riconoscimento in larga parte implicito di una prima bozza di statuto, per così dire, dell’estetica. Ma senza entrare in definizioni più complesse che richiederebbero un’analisi globale del corpus aristotelicum, poiché la Poetica di per sé non affronta questo nodo (né, come fa notare David Ross nella sua monografia sul filosofo, Aristotele fornisce mai una definizione esplicita di mimesis), si può dire in generale che l’arte per Aristotele, poste le debite distinzioni e precauzioni, è uno strumento utile a degli scopi precisi ed è da collocarsi nell’ambito pratico del sapere. Questa posizione avrà enorme fortuna nei secoli successivi, influenzando notevolmente il pensiero occidentale precisamente nel porre la questione dell’arte come un problema del «come fare» piuttosto che dell’indagarne il «perché»; facendo, così, dell’estetica una poetica piuttosto che una filosofia dell’arte e infine spostando il dibattito sugli usi pratici e sui fini dell’esperienza artistica più che sulle sue ragioni teoretiche. Lasciando, tuttavia, in sospeso la domanda d’origine fatta intendere da Platone, che era interamente proiettata a stabilire il valore di verità dell’esperienza estetica. E cioè: l’esperienza estetica è qualcosa che ha a che fare con la verità o piuttosto con il nonsenso? La sua è un’espressione più vicina alla profezia o all’inganno? La risposta di Platone, lo sappiamo, è netta e ferma su una posizione di condanna, e la sua critica si basa su tre noti argomenti: il primo di ordine ontologico, il secondo gnoseologico e il terzo morale. L’argomento ontologico, contenuto nella Repubblica (Libro X), muove un’accusa all’arte sulla base della sua irrealtà: imitando qualcosa che è già un’imitazione (la Natura), l’arte ci allontana ancora di più dalla verità originale (le Idee). Per questo motivo l’artista, il quale semplicemente riproduce oggetti e azioni di questo mondo imperfetto, crea la copia di una copia, in quanto lavora su un’imitazione per se stessa inferiore. Per quanto perfetta possa essere, la sua creazione rimane un’illusione, un’ombra senza sostanza. Per Platone produrre «rappresentazioni di rappresentazioni» in questa maniera è un’occupazione semplicemente inutile: non è un contributo serio e produttivo per lo Stato [2]. A differenza della gente che trasforma le cose in azioni, in vita, dice Platone, gli artisti non hanno conoscenza precisa di quello che rappresentano. Essi, in poche parole, non sanno quello che fanno. Ed è proprio questo il secondo argomento della critica di Platone all’arte, quello gnoseologico: chiunque è in grado di spiegare il proprio lavoro tranne gli artisti. Essi rivendicano una conoscenza e un’autorità che non possiedono, e così ingannano e manipolano gli ignoranti. I fatti sono quali li abbiamo descritti un momento fa: un pittore crea un calzolaio illusorio, il quale non solo non capisce niente delle scarpe, ma neanche il suo pubblico capisce qualcosa. Essi basano le loro conclusioni solo sui colori e le forme che essi possono vedere. (Platone, Repubblica, 601a) 116 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Molto più direttamente, e con particolare riferimento alla poesia, Platone affronta lo stesso problema nello Ione. In questo dialogo egli esplora, attraverso le domande poste da Socrate a Ione il rapsodo, l’origine della poesia e la sua forza; il rapporto del poeta con le cose di cui tratta, e il rapporto della critica col poeta e il suo lavoro [3]. Nel dialogo Platone fa dire a Socrate che il rapsodo e il poeta parlano per ispirazione più che per arte, perché nel parlare di tutte le «arti» contenute nella poesia il poeta avrebbe bisogno di avere conoscenza di prima mano di tutte quelle cose delle quali deve trattare in maniera così intelligente. La conclusione che Platone/Socrate intende discutere è: in quale rapporto si debba essere con la conoscenza di un particolare argomento per essere in grado di fare una valutazione del medesimo? E qual è il rapporto del poeta, allora, con la cosa della quale parla? Qual è la differenza, nell’effetto sul pubblico, di un’azione poetica e di un’azione reale? Qual è la differenza (se ce n’è una) tra l’ispirazione e l’inganno? Una delle conclusioni tratte da questo tipo di ragionamento è che senza conoscenza diretta di una determinata cosa, questa non si può rappresentare in modo accurato. Se questo è vero, allora un critico dovrebbe conoscere tutto su tutti i poeti, e tutte le arti contenute sulla poesia, per essere effettivamente capace di parlare della poesia. Dal momento che una simile deduzione non può essere vera, il poeta deve operare su qualche altro livello. Socrate (Platone) asserisce che l’unica spiegazione possibile non è che il poeta operi attraverso l’arte ma piuttosto per ispirazione divina. Con questo ragionamento, egli sostiene che Dio è realmente colui che parla: i poeti sono interpreti di Dio e il critico è soltanto l’«interprete degli interpreti», tre volte rimosso dalla «verità». E né i poeti né i critici sono «nelle loro giuste facoltà mentali» quando questo succede. Da cui segue, per Platone, il dubbio principale concernente tutta questa materia, come pure il terzo punto finale della sua critica all’arte: l’argomento morale. Cos’è realmente questa divina ispirazione o pazzia che è in qualche modo impartita ai poeti attraverso le muse? Non è forse qualcosa di pericoloso per la società? Non è qualcosa che indebolisce la fibra morale e sollecita tutte le emozioni moralmente deplorevoli? Bene, tutto quello che ho detto è stato inteso a portarci al punto nel quale possiamo concordare non solo che la pittura – o piuttosto la rappresentazione in generale – produce un prodotto che è lontano dalla verità, ma forma anche uno stretto, caldo e affezionato rapporto con una parte di noi che è, a sua volta, lontana dall’intelligenza. E niente di salutare o autentico può emergere da questo rapporto. (Platone, Repubblica, 603a-603b)
L’attacco di Platone è qui diretto contro la letteratura in generale e, principalmente, contro la tragedia e la commedia, entrambe accusate di incoraggiare le emozioni che dovremmo invece contenere dentro di noi. La poesia e le arti trascinano il popolo fuori dalla realtà: esse gratificano e degradano le emozioni. Entrando in empatia con i personaggi sulla scena, gli spettatori sono spinti a giustificare tutti i crimini che essi commettono. La tragedia nasconde in sé una forma di legge ambigua e sospetta: ognuno è indenne dai propri misfatti (si veda, per esempio, Edipo che è colpevole e allo stesso tempo innocente). La commedia, dall’altra parte, incoraggia il popolo a indulgere verso quei gusti sciocchi e buffoneschi che di solito disprezzerebbe negli altri. Questa posizione («L’arte è anzitutto pericolosa»), come sottolinea Eric R. Dodds, rappresenterebbe l’ultimo e più autentico motivo della riflessione di Platone sull’arte: «La 117 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
conclusione alla quale è arrivato Platone con la sua personale esperienza, per quanto concerne la vita umana, appare con una forte evidenza nelle Leggi, dove lui dice due volte che l’uomo è una marionetta»[4]. «Noi non sappiamo», dice Platone nelle Leggi, «se gli dei hanno creato l’uomo soltanto come un giocattolo o per qualche fine serio; ciò che noi conosciamo è soltanto che esso è una creatura appesa a un filo: speranze, paure, gioie e dolori lo scaraventano da ogni parte e lo fanno sussultare» [5]. Il pessimismo delle Leggi rivela tutta la sfiducia di Platone nei confronti dell’essere umano e di Dio – quest’ultimo inteso come qualsiasi forma di religione. Il che mostra anche con evidenza, secondo Dodds, quanto l’intento principale del filosofo ateniese fosse quello di cercare di ripristinare quello che egli chiamava il «conglomerato ereditario» della società del suo tempo. La volontà di Platone dichiarata nelle Leggi è fondamentalmente quella di fornire alla fede religiosa una base logica, giuridica, pedagogica e sociale. Tutto questo doveva essere fatto, in primo luogo, dimostrando che gli dei esistono; che essi sono interessati al destino umano, e infine che essi sono incorruttibili. Con tutte queste premesse, è molto difficile dire di che cosa Platone fosse veramente convinto, a proposito dell’arte, e di cosa no. Ad ogni modo, qualunque fosse il vero motivo delle sue scelte, Platone almeno in apparenza chiude la questione, esattamente come aveva fatto Aristotele sebbene con tutt’altri esiti e con un differente approccio. E tuttavia, così come Aristotele pur risolvendo il problema su un versante pratico lasciava intravedere uno spiraglio irrisolto sul tema del movimento (dalla potenza all’atto) come elemento centrale dell’aisthesis, così Platone lascia in sospeso in qualche maniera il carattere rivelativo dell’arte, il suo «dire di più» rispetto alla realtà stessa. E non è un caso che proprio questi saranno due punti chiave nei quali la questione estetica verrà riaperta in epoca moderna. In qualche modo, da Platone e Aristotele discendono due linee di riflessione sull’arte che attraversano i secoli fino alla modernità, indicando due principali tendenze, le quali, in modo molto generico possono essere definite come quelle di un’arte «separata dal mondo» a fronte di una «in funzione del mondo». Ma da un punto di vista strettamente teoretico entrambe conservano ben chiaro un punto in comune: l’arte è imitazione della realtà, è uno specchio che riflette una verità che sta altrove. Nessuna delle due tendenze, pertanto, può dirsi autonoma in senso specifico. Qualunque idea si abbia su cosa sia il fondamento della realtà, il principio originale alla base di tutto, l’arte ne è sicuramente una copia. Cosa ne sarebbe, infatti, di una conoscenza i cui contenuti fossero dettati dall’anima irrazionale? Per Platone, si è visto, non è accettabile. La filosofia in qualche modo deve escludere l’arte, deve considerarla come sua nemica, se si vuole dare un fondamento razionale al vivere civile. Per questa stessa ragione, se è vero che il dibattito sulla utilità o inutilità dell’arte, nelle sue varie battaglie dell’arte per l’arte contrapposta all’«arte utile», si è riproposto praticamente in tutte le epoche della storia e in quasi tutte le culture, quello teoretico, riguardante il suo valore di verità, ha sempre vissuto nella penombra, perlopiù taciuto, poiché, come Platone aveva intuito, avrebbe minato le basi stesse della filosofia.
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2. La rivoluzione copernicana della riflessione sull’arte Come è stato detto da più parti, ma è sempre utile ripeterlo, non è una coincidenza che l’affermarsi di un’istituzione come il museo sia più o meno contemporanea al lavoro di Alexander G. Baumgarten (Aesthetica, 1750), considerato una sorta di «certificato ufficiale» di nascita dell’estetica moderna, compresa l’invenzione del nome. Il museo, nel quale sono collezionati tutti i lasciti e le iconografie tratte dai palazzi reali e dalle chiese, è un’espressione istituzionale di una nuova sensibilità. La speculazione sul sentimento della bellezza consente alla bellezza naturale di fare riferimento alle iconografie, le quali, staccate dal loro contesto originale e dal loro orizzonte culturale, diventano oggetti di pura fruizione collettiva. Questa nuova sensibilità fa la sua comparsa un po’ per volta [6]. Ma, sorprendentemente, proprio nel mezzo della grande era cartesiana, quando il razionalismo emancipava la soggettività e rifiutava qualunque forma di evasione dai legami del chiaro e distinto, sembrava crescere attraverso l’Europa un bisogno di investigazione proprio nella direzione opposta. Lo sviluppo di questa ricerca estetica partì inizialmente, proprio in Francia, come un’indefinita – e sicuramente anti-cartesiana – teoria della delicatezza e un sentimento di un «je ne sais quoi», come si usava dire con riferimento all’arte. Molto presto il tempo divenne maturo per una piena e globale teoria estetica, la quale arrivò – dal versante della Germania – prima con Baumgarten e poi con Immanuel Kant. Questo cambiamento diffuso – che davvero assomiglia, per effetti prodotti e mutamento della mentalità nel campo dell’arte, a una rivoluzione copernicana – si sarebbe strutturato, col tempo, intorno a un punto teorico preciso, che fornisce probabilmente uno dei nodi chiave, se non il cardine della «rivoluzione». Si tratta della condizione epistemica introdotta da Kant che permette di gettare le basi per una discussione sulla verità dell’esperienza artistica. Paradossalmente Kant non si pone il problema della verità dell’arte, anzi per lui è fuori discussione che l’esperienza dell’arte e del bello abbiano a che fare solo con l’apparenza. Tuttavia è proprio indagando su che tipo di giudizio esprimiamo quando consideriamo che una cosa è bella che egli arriva a definire questa esperienza come un «libero gioco» della fantasia e dell’intelletto, e in questa definizione egli ne individua una caratteristica peculiare: l’autonomia. Tutto questo avviene ancora prima di iniziare a scrivere la sua terza Critica, come emerge dalle parole tratte da una sua lettera a Carl Leonhard Reinhold del 28 dicembre 1787, in cui egli dichiara di aver scoperto un nuovo tipo di principi a priori relativo alla facoltà del gusto ammettendo che il giudizio estetico […] avanza anche la pretesa che il suo fondamento di determinazione debba risiedere non solo nel sentimento del piacere e del dispiacere per sé solo, ma al contempo in una regola delle facoltà conoscitive superiori e qui propriamente in quella della capacità di giudizio, la quale, dunque, riguardo alle condizioni della riflessione è legislatrice a priori e dimostra autonomia; ma questa autonomia non è (come quella dell’intelletto, riguardo alle leggi teoretiche della natura, o della ragione, nelle leggi pratiche della libertà) oggettiva, cioè mediante concetti di cose o di possibili azioni, bensì meramente soggettiva, valida per il giudizio di sentimento, che, se può avanzare la pretesa a una validità universalmente comune, dimostra la sua origine fondata su princìpi a priori. Questa legislazione dovrebbe venire 119 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
propriamente detta «eautonomia», perché la capacità di giudizio non dà la legge né alla natura né alla libertà, ma esclusivamente a se stessa e non è una facoltà per produrre concetti di oggetti, ma soltanto per confrontare casi occorrenti con concetti che le sono dati per altra via e per addurre a priori le condizioni soggettive della possibilità di questo collegamento. [7]
Emergono già le linee di fondo essenziali sulle quali Kant imposterà il problema nella Critica del giudizio. Appare chiaro cosa i giudizi estetici non possono essere per definizione e, al contrario, su che cosa si debba indagare riguardo ad essi e cioè sulle condizioni soggettive a priori che consentono il collegamento o passaggio estetico, come è stato definito [8], tra i domini dell’intelletto e della ragione, ovvero tra i concetti della natura e il concetto della libertà. Kant ha ben presente, infatti, che il principio oggetto dell’indagine ha una natura alquanto paradossale, poiché da un lato non possiede un ambito definito dove esercitare un’attività legislativa tramite concetti e dall’altro non può nemmeno fare appello a una norma oggettiva esterna, poiché cesserebbe per ciò stesso di essere principio [9]. Ancora una volta, senza voler approfondire ulteriormente la dottrina di Kant su questo aspetto, è opportuno rilevare come per quanto alcuni punti per il filosofo tedesco siano quasi scontati e neppure da mettere in discussione – come l’inutilità del giudizio estetico per ciò che attiene la conoscenza oggettiva del mondo, il suo rapporto unicamente col regno dell’apparenza e la sua impossibilità di essere normativo in senso pratico – egli tuttavia si ponga il problema di giustificarne la validità come ciò che «deve essere un fondamento dell’unità tra il soprasensibile, che sta a fondamento della natura, e quello che il concetto della libertà contiene praticamente» [10]. Un fondamento che, per Kant, per quanto vi sia, dice, un «immensurabile abisso» tra il dominio del concetto della natura e quello della libertà, «permette nondimeno il passaggio dal modo di pensare secondo i principii dell’uno al modo di pensare secondo i principii dell’altro» [11]. Segue la famosa definizione di questo passaggio in termini proprio di«libero gioco»: La comunicabilità soggettiva universale del modo di rappresentazione propria del giudizio di gusto, poiché deve sussistere senza presupporre un concetto determinato, non può essere altro che lo stato d’animo del libero giuoco della fantasia e dell’intelletto (in quanto essi si accordano tra loro come deve avvenire per una conoscenza in generale) [12].
E prosegue: Ora, questo giudizio puramente soggettivo (estetico) dell’oggetto, o della rappresentazione con cui esso è dato, precede il piacere per l’oggetto, ed è il fondamento di questo piacere per l’armonia delle facoltà di conoscere; ma su quell’universalità delle condizioni soggettive nel giudizio degli oggetti si fonda soltanto questa validità soggettiva universale del piacere, che noi leghiamo alla rappresentazione dell’oggetto, che chiamiamo bello [13].
In queste parole vi è tutta la distanza tra le idee che si avevano nel mondo antico circa i concetti di arte e di bello e la nuova consapevolezza che i moderni, e Kant in particolare, avevano maturato su questi temi. Nasce, viene da dire involontariamente, l’estetica, termine che Kant usa solo come aggettivo, ma che proprio nella sua versione sostantivata conoscerà d’ora in avanti la sua grande fortuna: a indicare un territorio dove, in un loro 120 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
equilibrio armonico, natura e libertà, intelletto e ragione, coesistono senza mai stabilizzarsi, ma mutando di continuo il loro rapporto. Il luogo d’origine dell’arte, diremmo noi, così come indicato da Kant, non è separato dal mondo, non è lo spazio dell’arte per se stessa, ma non è neppure un luogo dove l’arte discende completamente dal mondo in un rapporto di complementarietà. L’arte è autonoma, inutile nel senso banale del termine, cioè priva di un valore conoscitivo o pratico, ma in qualche modo autentica, vera come ogni evento che risponde solo di se stesso. In questo «rispondere di sé» ma allo stesso tempo stare nel mondo e starci nel suo lato più privilegiato, nel punto di incontro mobile tra necessità e libertà, risiede il suo valore prezioso che a nessun’altra facoltà umana è dato. La rivoluzione copernicana di Kant consiste proprio nell’individuazione di un’autonomia tutta particolare del giudizio estetico, che egli chiama «eautonomia». Da questo preciso punto si sarebbero poste le basi perché il giudizio di gusto, non dovendo rispondere di niente, potesse essere in linea teorica, rispetto alla visione degli antichi, se non altro degno di curiosità e di stima teoretica proprio perché «cosa a sé», spazio che non prende ordini né si colloca in dipendenza da altro. E’ inutile, come detto, da molti punti di vista (pratico, normativo, conoscitivo) ma è assolutamente necessario (affinché il concetto della libertà, dice Kant, realizzi «nel mondo sensibile lo scopo posto mediante le sue leggi»[14]), pur nell’ordine fluttuante del suo essere sempre possibile e mai del tutto attuale. Il giudizio estetico per Kant gode di una sua dignità perché è eautonomo, cioè non separato e non dipendente, non pone se stesso e non è posto, ma è l’equilibrio delle due cose insieme.
3.
Il reale estetizzato
In questo breve esame su come, cognitivamente parlando, «l’arte è divenuta vera» o, per dirla con le metafore iniziali, su come da copia è diventata originale (e con Heidegger addirittura qualcosa di più, ovvero «origine»), manca volutamente il capitolo centrale e decisivo: quello relativo all’idealismo e al romanticismo, fino alle moderne psicologie dell’arte e dell’inconscio, alla fenomenologia, al pragmatismo, alla semiotica e alla linguistica. Ossia, manca il racconto della consacrazione definitiva dell’arte in tal senso: il passaggio dal concetto di autonomia a quello, ancora più complesso, di verità. Questo perché non è una narrazione esaustiva quella che si è voluta fare qui e perché, soprattutto, il tema dell’apparentamento dell’arte con la verità – che richiederebbe un’analisi specifica e diversificata, oltre che molto complessa - in questo caso non è funzionale all’ipotesi che si va a esporre. Fin qui si è trattato infatti della ricerca e dell’identificazione di alcuni punti nodali (come si è visto nelle dicotomie copia/originale, e dipendenza/autonomia dell’arte) che ci aiutino adesso a comprendere, nella sua struttura profonda, un fenomeno oggi diffuso e dominante, che coinvolge a pieno titolo l’estetica. Cosa s’intende esattamente quando si dice che nella nostra epoca assistiamo a una diffusa estetizzazione della realtà? L’espressione fa riferimento a un fenomeno fondamentalmente stilistico sotto gli occhi di tutti, che riguarda l’invadenza dell’arte in ambiti che non le sono propri. Si parla, in particolare, di estetizzazione della violenza, della politica, della guerra, ma non solo. Si tratta della «messa in scena» di eventi che di 121 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
per sé non hanno a che fare con l’arte attraverso codici stilistici che ne mettono in rilievo proprio la forma estetica, depotenziandone ipso facto l’appartenenza alla realtà. Esattamente come si fa con gli oggetti esposti in un museo, che per il solo fatto di essere isolati e tolti dal loro contesto reale (di uso o di semplice appartenenza) acquistano una valenza estetica. In questo caso però a scomparire è proprio il confine rigido del museo, il «luogo sacro» che consente che quel processo avvenga in sicurezza. Il dato caratterizzante di questo fenomeno, infatti, insieme all’espropriazione dalla realtà oggettiva e dal significato o valore originale, è la contaminazione in sé, in assenza di un luogo o di una forma precisa in cui tale significato o valore si diano. In tal senso, per esempio, si ha estetizzazione della violenza sia nel film di Kubrick Arancia meccanica sia in un certo modo di mostrare la guerra in diretta tv. Anche se nel primo caso siamo davanti a un evento fittizio, il film, e nel secondo a uno vero. Pertanto, il fulcro dell’estetizzazione della vita sembrerebbe essere, anzitutto, un problema di «stile», una riproposizione del sublime su vasta scala. In gran parte è così: nei suoi aspetti specifici è una moda, un registro stilistico e come tale è destinato a passare. Su questo tema si è discusso e scritto tanto, e non è questo il luogo per riprendere quel dibattito al quale peraltro Baudrillard, in particolare, ha contribuito con grande efficacia [15]. È invece opportuno osservare un aspetto più propriamente filosofico, che giace al fondo della questione dell’estetizzazione diffusa. Cos’ha a che fare la crisi e il tramonto dell’estetica moderna con l’esplosione dell’estetizzazione del reale e l’affermarsi della filosofia come ermeneutica? Sono fenomeni indipendenti o c’è un legame fra loro? È probabile che siano collegati, se si considera la natura generale del fenomeno dell’estetizzazione non soltanto come una questione di codici stilistici all’interno di una più ampia riproposizione del sublime, ma piuttosto come un evento legato, anch’esso, al problema della verità dell’arte. L’estetizzazione esplode, nella sua maniera pervasiva, nel momento in cui è chiaro a tutti che l’arte ha sicuramente a che fare con la verità del mondo e per questa ragione ha la possibilità e la capacità di manipolarlo [16]. L’arte diviene vera e utile precisamente alla maniera in cui Platone temeva che ciò avvenisse: ossia proponendosi come ragione interpretante il mondo alla pari o forse più del logos. Il reale estetizzato non riguarda solo una certa manifestazione del sublime, ma soprattutto l’importanza che il giudizio estetico riveste in questioni non strettamente di natura estetica. C’è un secolo e mezzo di storia del pensiero che ha contribuito a questo: la psicanalisi, il surrealismo, le avanguardie artistiche e letterarie, un intero mondo ha via via preso coscienza che l’arte è direttamente connessa alla conoscenza della realtà umana e lo è in maniera privilegiata, anche rispetto al logos e alla razionalità. Il fenomeno dell’estetizzazione è, sì, una banalizzazione di questo ma è anche l’ambito in cui tutto ciò è certificato come vero al punto da diventare operativo. Che un giudizio estetico valga quanto e più di uno dell’intelletto è un fatto che sarebbe sembrato assurdo nell’antichità e in larga parte della storia del pensiero. Eppure oggi non appare per nulla strano che, in sede teoretica, un sogno, una manifestazione dell’inconscio, una qualunque intuizione sensibile ci indichino un luogo più denso di verità di un ragionamento logico. Il passo successivo è che tutto ciò divenga anche utile e utilizzabile: cosa che gradualmente sta 122 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
avvenendo nella società odierna. Un consulente di immagine non è importante per la politica solo perché intercetta il gusto che va per la maggiore (il qual fatto da solo non spiegherebbe probabilmente il fenomeno in tutta la sua rilevanza), ma soprattutto perché intorno a quel gusto c’è un’idea di densità semantica della realtà, c’è la percezione chiara che la conoscenza più autentica passi di lì, come se anche per le scelte più importanti ci fosse da fidarsi maggiormente dell’estetica che di argomenti razionali. Insomma, l’arte è capace di manipolare la realtà: se un tempo ne era un puro valore strumentale, sottomesso a scelte e logiche estranee a essa, oppure era un luogo a sé, estraneo esso stesso a tutto, la «domenica della vita» appunto, adesso si rivela essere presente in tutti i giorni della settimana, come ragione reale delle cose, come strumento di interpretazione del quotidiano. Oggi un giudizio estetico che sia riconosciuto autentico ha un peso e una dignità impensabili fino a qualche decennio fa. Questo è possibile per due ragioni: la prima è che, come già detto, gli si riconosce un apparentamento stretto con la verità del reale, per vari motivi e sotto vari aspetti; la seconda è perché si è perso il senso dell’estetica come luogo a sé, distante e separato non solo dalla realtà ma anche dall’intelletto e dalla volontà. In questo senso, lo stesso giudizio estetico, che non ha più un suo luogo separato, e per molti versi protetto, di appartenenza, viene automaticamente ricollocato o sotto l’ambito dell’intelletto o sotto quello della volontà, essendo considerato in tutto ciò come giudizio di primaria importanza. In questo stato di cose, è difficile credere di «pensare esteticamente» in autonomia, o all’opposto di pensare la morale o la teoresi come estranee all’estetica. Nel mondo estetizzato dire, in senso pratico, «Io voglio…», «Io scelgo…», «Io decido…», senza dare conto insieme a queste affermazioni anche del proprio gusto appare come un inganno, perché il gusto è visto come parte integrante della volontà. Ugualmente dare un giudizio dell’intelletto del tipo «Io conosco…», «Io deduco che…», senza includere in esso le sembianze, le forme dell’apparenza e della possibilità che interferiscono con la mia ragione risulta essere un tipo di giudizio quantomeno incompleto, se non addirittura menzognero. Estremizzando tutto ciò, è possibile che accada che, nell’epoca dell’estetizzazione della realtà, tra il giudizio teoretico, quello morale e quello estetico, sia quest’ultimo quello che decide dell’autenticità degli altri due, il garante ultimo della verità. Un tempo, come detto, tutto ciò sarebbe stato un assurdo, anzi, la filosofia lavorava attivamente per ripulire il pensiero dalle oscure interferenze della sensazione. Ma proprio quelle «parvenze» nella storia del pensiero recente si sono rivelate pregnanti e rilevanti oltre ogni aspettativa, quasi a incarnare la profezia di Nietzsche «il mondo è diventato favola», a tal punto che anche il pensiero e la logica scientifica nell’epoca della loro maggiore espansione e forza vi hanno dovuto fare i conti. In tutto ciò l’estetica ha guadagnato in importanza e considerazione ma ha perso in autonomia. Soprattutto ha perso la sua caratterizzazione originaria, intravista da Kant, il quale non pensava minimamente a esiti di questo genere, ma andava semplicemente in cerca di una terza facoltà della mente umana, di un «terzo luogo» di pertinenza esclusiva dell’estetica. Come si è visto, la stessa idea di esclusività, di autonomia, avrebbe indirettamente costituito il motore propulsore alla base della grande stagione dell’estetica; in fondo, uno dei temi portanti della modernità in senso assoluto. Ma un tema con una vita breve e difficile, rivelandosi ben presto luogo irraggiungibile, più fonte di avvistamenti che di approdi certi. Tutto ciò fino ai giorni nostri, nei quali, preso fra mille lacci (l’inconscio, la psicanalisi in generale, la neurologia, le teorie 123 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
antropologiche e dell’educazione, i condizionamenti culturali), fatica più che mai a trovare una propria autonomia; sebbene, paradossalmente, mai come adesso goda del riconoscimento della sua veridicità. Tutto questo è avvenuto e non c’è da meravigliarsi quindi che l’estetica divenga o stia divenendo una forma estesa di ermeneutica della realtà, una grande teoria delle arti, dove il giudizio estetico è una forma di ragione mista interpretante, applicata ai singoli casi che necessitano di una interpretazione o di una manipolazione. Come detto, era quello che Platone voleva evitare: la doppiezza della ragione. Ad ogni modo, l’arte oggi è utile e lo è in molti sensi. Serve alla politica, serve all’economia, serve al potere, e non più – non solo – come strumento comunicativo o didattico, ma come vero e proprio mezzo di comprensione teoretica. L’arte in sé fornisce degli insight, indica la via da seguire, «spiega» i fenomeni. L’arte, in tal senso, è utile precisamente perché ha a che fare con la verità. Ma proprio quest’ultimo è il punto problematico alla chiusura di questo ragionamento. Di quale verità si sta parlando? È la verità in senso classico, che indica una sostanziale aderenza di una forma (in questo caso i linguaggi, le espressioni e la conoscenza fornita dall’arte) agli eventi della realtà. L’arte corrisponde a uno stato di cose, le indica in maniera efficace, in un modo che crea un linguaggio e una comprensione condivisa, e ancor di più, spesso ha la capacità di anticiparle, di farle «vedere prima»: per tutti questi motivi diviene veritativa, diviene l’«originale» e non più la copia che era agli inizi della riflessione occidentale. Ma il fatto che perda in autonomia, proprio perché è condizionata, legata di continuo al reale, commista con tutte le ragioni di questo, la depotenzia di fatto in senso rivelativo; l’arte smette perciò di essere un luogo da interpretare di continuo – perché ha il suo fine in sé pur avendo a che fare in modo privilegiato con la verità del mondo – per diventare semplice strumento di comprensione, orientabile e manipolabile nelle direzioni che si vuole. Si usano, insomma, le «ragioni dell’arte» per capire il mondo, così come un tempo si faceva con le proposizioni pure dell’intelletto. La sua espressione di verità, così facendo, è sempre più nel segno della adeguazione e sempre meno in quello della libertà. Il destino dell’estetica come ermeneutica rischia di essere segnato dal suo annullarsi nelle altre discipline e perdere la propria caratteristica di autonomo luogo di verità, che le deriva dalla propria inutilità, dalla propria libertà riconosciuta, dal proprio essere appunto un «libero gioco». Cosa ne è del gioco e della libertà in questo stato di cose? Dov’è quell’inutilità non fine a se stessa in senso estetistico (cioè nel senso di un’autoaffermazione volontaristica) ma fine al proprio libero esistere così come si è? Oggi, infatti, anche parlando di inutilità e di essere «altro dal mondo», è sempre più difficile trovare una prospettiva differente da quella dall’estetismo, la quale comunque deve essere e imporsi in quanto tale, ma che sia piuttosto una visione del «non dover essere per sé», idea questa che nella sua purezza richiama proprio il suo opposto: il dover essere assoluto, ossia il non poter essere altro da ciò che si è. L’orizzonte kantiano, si è visto, preservava precisamente un paradosso di questo genere, in un equilibrio delicato e fragile, quanto decisivo.
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4.
Fine o sospensione del problema?
Appare sempre più problematico nei tempi nostri capire cosa sia l’estetica e perfino intendersi banalmente sul significato della parola. Sotto quel nome appaiono studi di genere diversissimo: possono esserci poetiche, teorie del gusto o del bello, critiche d’arte o letterarie. Nominando la parola «estetica», a questo punto, non si riesce a identificare non solo il tipo di approccio ma neanche la materia, gli autori, l’oggetto stesso di cui si va trattando. Si assiste a un processo per il quale l’estetica tradizionale va confluendo nell’ermeneutica filosofica e tutta la riflessione di quel tipo è ormai una grande filosofia dell’interpretazione. Sotto la voce «pensiero ermeneutico» rientrano a buon titolo un vasto numero di interessi e di ricerche un tempo rigidamente separati. Questo è dovuto al fenomeno, per come lo si è descritto in senso lato, dell’estetizzazione della realtà, ma non solo. È la filosofia in blocco che, relativamente al suo ambito, allo studio dei fondamenti, è diventata sempre maggiormente «interpretazione di» piuttosto che «fondamento» o «teoria su». Per quanto l’ermeneutica filosofica svolga un ruolo centrale nel pensiero contemporaneo, non si può fare a meno di osservare come in tutto questo processo di svolta ermeneutica della filosofia si è perso proprio il carattere di autonomia dell’estetica individuato da Kant. Quella stessa autonomia che caratterizzava non solo un luogo definito dove avveniva un tipo preciso di esperienza ma anche, per così dire, la garanzia della purezza di quell’esperienza. Qual è dunque il futuro dell’estetica? In parte lo si vede già: è quello di una disciplina che ha perso i propri confini e il cui termine è adoperato in modo generico per obiettivi diversi. L’estetica è destinata a tramontare, se non lo ha fatto di già, e a tramutarsi in qualcosa d’altro, in uno strumento più agile, «utile» e adatto a interpretare il mondo, ricadendo, come si è detto, o sul versante morale e pratico o su quello teoretico. Uno strumento che interpreti in senso operativo la realtà che abbiamo di fronte oppure, all’opposto, ne costruisca una parallela e più significante per comprendere le ragioni autentiche di questa. Sono due esiti possibili della realtà estetizzata, come si è detto in precedenza. Una volta scoperta la verità dell’arte la si utilizza in atto o in potenza: come lettura del presente oppure come ampliamento, con esiti anche estetistici, della realtà. Si ripropone, e forse si riproporrà sempre, il solito dualismo tra una visione dell’«arte per l’arte» e di un’«arte per la realtà», dal quale scontro emergerà, come sempre è emerso nella storia, la visione terza di un’arte, irriducibile, che non si lascia catturare totalmente dall’una o dall’altra prospettiva, ma che è più che mai difficile tenere in piedi al di fuori di quelle due. Come riportava Adorno, in epigrafe alla sua Teoria estetica: «Ciò che viene chiamato “filosofia dell’arte” di solito manca di una delle due cose: della filosofia oppure dell’arte». Adorno qui mette a fuoco un punto essenziale che ha costituito la vera difficoltà, interna alla stessa estetica, di stare in suo luogo, di non confluire in altro. E tuttavia l’idea di un’estetica pura, che mantenga in piedi entrambe queste anime − idea soltanto accennata da Kant, e interpretata in modo acuto, ma sempre incompleto, sia da Heidegger che da Adorno − resta sullo sfondo e probabilmente ritornerà sempre in mente, come luogo della rivelazione e della messa in opera del vero, per dirla con Heidegger. Ma si tratta di una rivelazione e una messa in opera problematiche, mai del tutto presenti e quasi sempre poste in negativo. Il destino dell’estetica, se ci si pensa, assomiglia un po’ 125 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
a quello della metafisica o della teologia: luoghi la cui impossibilità è strutturale, intrinseca alla materia stessa di cui trattano; ambiti del pensiero magari destinati a essere superati storicamente, ma ugualmente a rimanere sempre inviolati nella loro possibilità. E chissà che per certi versi proprio della metafisica come della teologia l’estetica non rappresenti un proseguimento e un’ultima attualizzazione, molto più incompiuta, quasi un’intuizione morta nel suo nascere, ma anche molto più radicata nella sensibilità e nella ricerca del mondo moderno. In questa maniera l’estetica sembra tramontare come ciò che non è mai iniziato del tutto: ma resta là, precisamente nel suo essere un non-luogo, punto di equilibrio e di riferimento negativo che indica ciò che arte non è. _______________________________ NOTE [1] Nell’antichità termini per noi di uso comune come «arte» ed «estetica» non avevano un equivalente. Ciò che noi chiamiamo arte allora si divideva almeno in due parole diverse: techne (in latino, ars) – la quale indicava tutti i manufatti, perfino quelli (come l’artigianato) che noi non consideriamo più come prodotti artistici – e mousikè, quest’ultima riferita ad attività come danza, musica, poesia ecc. Inoltre, nei tempi antichi era quasi ignorato il nesso arte-bellezza, che per noi è alla base della stessa nozione di arte. Una delle conseguenze di questa radicale differenza è la nostra difficoltà di capire cosa realmente i Greci intendessero quando parlavano di questi argomenti. Tuttavia, come fa notare R.B. Rutherford (The Art of Plato, London: Duckworth 1995, p. 230), nella Repubblica Platone estende la sua critica alla poesia e all’arte in genere, mostrando una intuizione notevole per il suo tempo che richiama una unità delle arti, il cui concetto non sarà unificato fino al consolidamento della nozione di Belle Arti – includendo anche la pittura e la scultura – nel XVIII Secolo (fondamentale a questo riguardo è l’opera di Charles Batteux, Le belle arti ridotte a un unico principio, del 1746, in cui egli distingue fra le arti orientate al piacere e quelle indirizzate verso un uso pratico). Su questi argomenti generali si vedano le introduzioni all’estetica di Sergio Givone, in particolare: S. Givone (a cura di), Estetica. Storia, categorie, bibliografia, Firenze, La Nuova Italia, 1998; e S. Givone, Prima lezione di estetica, Bari, Laterza, 2003. [2] Cfr. Platone, Repubblica, 596c-597a. [3] Cfr. Platone, Ione, § 4. [4] Eric R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, Firenze, La Nuova Italia, 1988, p. 257. [5] Platone, Leggi: 644 DE. Si veda anche Leggi, 903 D, in cui Dio è il «giocatore» (petteutés) e gli esseri umani le sue pedine. [6] Fra i tanti esempi che si possono citare si pensi alle opere Denis Diderot, specialmente alla sua Encyclopédie (1751), che in alcune voci contribuì a chiarire le relazioni tra pittura e poesia. Nel frattempo, altri saggi sistematici e specificamente filosofici sugli stessi argomenti apparvero da parte di autori come David Hume (La regola del gusto, 1757), il quale investigò il gusto non come un attributo ontologico ma partendo dal piacere che esso dà; Edmund Burke (Inchiesta filosofica sull’origine delle nostre idee del sublime e del bello,1757) il quale analizza profondamente ed empiricamente quel tipo piacere; e infine Giambattista Vico (Scienza Nuova, 1725, 1730, 1744), al quale va attribuito il merito di avere identificato il legame , che poi divenne un cliché, tra arte e verità storica. [7] Il brano della lettera di Kant a Reinhold è stato citato da: A.G. Baumgarten, I. Kant, Il battesimo dell’estetica, a cura di L. Amoroso, Pisa, ETS, 1993, pp. 73-75. [8] Cfr. F. Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, Genova, Il Melangolo, 2003. [9] Come ha osservato molto bene Fabrizio Desideri su questo punto: «In questo caso, di fronte alla genericità di un rapporto tra esperienza e “natura” come insieme di tutti gli oggetti esteticamente esperibili, c’è l’esigenza di trovare una regola del giudicare senza poterla determinare secondo concetti (altrimenti la genericità estetica dell’esperienza si trasformerebbe in un problema di conoscenza 126 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
oggettiva risolvibile producendo il concetto dell’oggetto di volta in volta in questione). Qui il giudizio deve mostrare di essere letteralmente autonomo: deve, cioè, rivelarsi capace di dar legge a se stesso attraverso un principio trascendentale interno al suo modo puramente soggettivo di procedere» (F. Desideri, Il passaggio estetico, cit., p. 75). [10] I. Kant, Critica del giudizio, tr. it. A. Gargiulo, Bari, L aterza, 1989, p. 15. [11] Ibid. [12] Ibid., p. 60. [13] Ibid., pp. 60-61. [14] Ibid., p. 14. [15] Fra i vari scritti del filosofo francese su questo argomento si veda: J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, Milano, Politi, 1988. [16] Su questo tema in generale si veda F. Vercellone, Pervasività dell’arte. Ermeneutica ed estetizzazione del mondo della vita, Milano, Guerini e Associati, 1990.
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L’Utile ed il suo ruolo nella comprensione dei fenomeni sociali di Guido Seddone
Abstract: The article treats the concept of Useful from a pragmatic point of view and sustains that it plays a key-role in the formation and in the development of the social groups, of the forwarded societies and of the states. Moreover it reveals that the concept is affected of a some ambiguity if one intends it like individualistic useful. The not authentic character of this concept replaces the authentic one if one forgets its originally function to support the human social attitudes. Abstract: L’articolo tratta il concetto di utile da un punto di vista pragmatico e sostiene che esso gioca un ruolo chiave nella formazione e nello sviluppo dei gruppi sociali, delle società complesse e degli stati. Inoltre si rivela che il concetto è affetto da una certa ambiguità in quanto esso può assumere una connotazione negativa se lo si intende come utile individuale. Il carattere non autentico di questo concetto prende il sopravvento su quello autentico quando si perde di vista la sua originaria funzione a favore della umana socievolezza.
Sommario: 0. Introduzione; 1. La formazione dei gruppi sociali ed il ricorso all’idea di utile; 2. L’utile e la costituzione dei gruppi sociali; 3. Utile ed atteggiamento individualistico. 0. Introduzione «Il vero è l’utile secondo la credenza» scriveva W. James nel suo Capolavoro intitolato Pragmatismo[1], dando una forte connotazione anti-idealista alla nascente filosofia NordAmericana e orientandola verso il principio chiave del pensiero pragmatistico per cui è l’uso a determinare il significato e non il contrario. Il concetto di utile porta con sé molte implicazioni teoriche e pratiche sin dall’epoca antica, si pensi a Platone e agli Stoici e alla contrapposizione dell’utile, inteso come egoistico perseguimento dei propri interessi, con il mondo ideale o con la vita virtuosa. Sono stati pochi i filosofi che hanno visto nell’utile un utile strumento da applicare nell’interpretazione dell’uomo e della sua esistenza pratica. Aristotele, radicando la virtù nella dimensione storico-sociale della comunità, non la contrappone necessariamente al principio di utile, infatti la virtù è strumentale alla felicità e alla vita armoniosa all’interno della polis. La categoria filosofica di utile porta con sé dunque una radicale contraddizione in quanto essa è uno strumento irrinunciabile per interpretare e capire i fenomeni sociali ma allo stesso tempo sottrae al pensiero il compito di indagare la condizione autentica dell’uomo, che, come spiega anche Heidegger in Sein und Zeit, non può essere quella meramente antropologica dei rapporti intersoggettivi del Miteinandersein. Quindi se l’utile ci aiuta a pensare la costituzione della società, diventa spesso fuorviante in quanto crea degli idoli da cui la società si fa condizionare. 128 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Assumendo come corretto il principio di W. James, il concetto in questione può essere visto come basilare rispetto alla filosofia, alle scienze sociali e all’antropologia, in quanto con esso possiamo osservare l’andamento ed il comportamento dei gruppi sociali e degli individui sia in una fase originaria e autentica di costituzione e di crescita sia in una fase di decadenza e di inautenticità. 1. La formazione dei gruppi sociali ed il ricorso all’idea di utile I gruppi sociali si formano e vivono perché gli individui che ne fanno parte condividono un fine, uno scopo; questo principio è condiviso dall’odierna letteratura filosofica in merito alle teorie dei gruppi[2], ma in realtà guardando a ritroso già il principio di speranza in Kant oppure la questione della formazione dello Stato in Hegel hanno argomentazioni che contengono più o meno esplicitamente l’idea che gli individui per formare un comunità non possono non condividere un fine verso cui impegnarsi e per cui rinunciare parte dei propri interessi. Il concetto hegeliano di Entäusserung[3], ad esempio, si riferisce alla estrinsecazione della soggettività nella direzione di una acquisizione di quei valori (Sitten) e di quelle istituzioni (Gesetze) che costituiscono la base etica e giuridica su cui si fonda lo Stato. È chiaro che questa estrinsecazione è possibile perché gli individui condividono un fine e non soltanto uno spazio geografico o una medesima lingua e tradizione. Avere un fine su cui potersi impegnare (il concetto di Pflicht è anch’esso centrale nella costituzione dello Stato nella Rechtsphilosophie) determina il senso dell’appartenenza e della partecipazione, nonché della collaborazione dei gruppi. Il fine è chiaramente ciò che la comunità stabilisce come utile per se stessa, per esempio un gruppo può decidere che è utile costruire più scuole un altro che è maggiormente utile costruire centri ricreativi, e così facendo entrambi stabiliscono un orientamento ai comportamenti individuali. Su questa base cooperativa avviene che la Verità prenda la forma dell’utile, in quanto le certezze individuali sono fortemente condizionate dalla sfera pratica ed intersoggettiva in cui ciascuno opera per cui si assiste spesso ad un allineamento tra Verum e bisogno pratico. Allo stesso tempo sono molti i pensatori che avvertono, che l’utile determina spesso comportamenti individualistici e antisociali e che le comunità con una eccessiva tendenza utilitaristica tendono al declino dei valori e al perseguimento di veri e propri idoli. Questa contraddizione tra dimensione autentica ed originaria della categoria di utile si scontra con quella derivata per cui l’utile può diventare una nociva fonte di utilitarismo, individualismo e declino delle società. Il presente contributo cerca di conciliare queste due opposte posizioni superandole e mostrando che se l’utile è inteso come utile per Noi, esso diventa una categoria edificante, mentre se esso viene riferito agli individui considerati singolarmente, assume l’aspetto negativo di opportunismo ed individualismo. La categoria di Noi diventa quindi un concetto chiave per evitare l’abuso del concetto in questione, che se applicato agli individui può portare alla frammentazione della società in un senso individualistico. 2. L’utile e la costituzione dei gruppi sociali La costituzione di un gruppo sociale richiede la coordinazione di individui autonomi che liberamente scelgono di condividere fini, valori ed impegni. Questo richiede uno 129 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
svuotamento della soggettività in direzione dell’acquisizione di principi e regole condivise; questo fenomeno di acquisizione è stato descritto trasversalmente da molti pensatori, si parte come visto da Hegel e dal principio di Entäusserung presente nei Lineamenti di filosofia del Diritto, lo si trova in Wittgenstein e nella questione del seguire una regola che porta alla impossibilità di poter ammettere un linguaggio privato perché tutto si realizza nella dimensione pubblica delle forme di vita[4] e si arriva più recentemente agli studi sull’acquisizione del linguaggio, secondo cui il successo cognitivo dell’essere umano risiede nella sua capacità di riconoscere nei rapporti intersoggettivi una opportunità di cooperazione e questo perché solo l’uomo pensa in termini di Noi[5]. L’utile é parte integrante del discorso intersoggettivo, in quanto esso insieme alla questione del Noi rientra nella sfera pratica dell’azione, della costituzione e dello sviluppo della società. Allo stesso tempo il concetto di utile spiega anche i comportamenti individualistici, per cui ci deve essere una dimensione autentica dell’utile che si realizza in un ambito intersoggettivo e una dimensione derivata che si realizza nell’ambito individuale. È compito del filosofo come dell’economista riconoscere gli aspetti positivi del concetto in questione e distinguerli da quelli derivati e negativi che fanno da sponda agli atteggiamenti opportunistici tipici dei così detti free riders, cioè di coloro che all’interno dei gruppi giocano per se stessi e che quindi riconoscono solo il proprio di utile. Nella dimensione autentica invece l’utile è parte integrante dell’intesa tra individui, in quanto diventa l’aggancio pratico su cui ancorare quella che Wittgenstein chiama concordanza delle forme di vita (Übereinstimmung). Infatti tale concordanza non si può dare nella dimensione ideale dei super-concetti tanto criticata dal filosofo viennese, ma solo nella dimensione pratica dei giochi linguistici, dove i gruppi possono ritrovare facilmente una intesa tra individui in virtù del contesto comune. Lo stesso Heidegger in Essere e Tempo rivela che il sapere come usare un certo strumento è originario rispetto alla regola che ne stabilisce la funzione e questo vale anche per la struttura stessa del nostro linguaggio, che usa l’asserzione solo in maniera derivata rispetto all’orizzonte pratico dello stare-con-gli altri. Infatti scrive Heidegger: Nel “qui”, l’Esserci immedesimato col suo mondo non si volge verso se stesso, ma, prescindendo da sé, si rivolge al “là” di un utilizzabile ambientalmente considerato, e cogli quindi se stesso nella propria spazialità esistenziale. Innanzi tutto e per lo più, l’Esserci si comprende a partire dal suo mondo e il con-Esserci degli altri è incontrato, in varie forme, a partire dall’utilizzabile intramondano. Ma anche quando gli altri divengono, per così dire, tematici nel loro Esserci, non sono mai incontrati come persone-cosa semplicementepresenti; noi ci incontriamo con essi “al lavoro”, cioè, in primo luogo, nel loro essere-nelmondo... La struttura della mondità del mondo è tale che gli altri non sono, innanzi tutto, semplicemente-presenti nel mondo come soggetti giustapposti ad altre cose: essi si manifestano nella loro maniera di essere in quel mondo che è proprio di essi a partire da ciò che è utilizzabile in esso[6].
Come si può leggere gli altri vengono afferrati e compresi non come esseri semplicemente presenti ma come inseriti nel contesto dell’Utilizzabilità, con cui Heidegger indica la dimensione pratica originaria dell’Esserci, in cui il mondo è utilizzabile prima che presente. Sulla base del principio per cui « “Gli altri” non sono coloro che restano dopo che mi sono tolto»[7], ma sono piuttosto coloro con cui 130 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
l’Esserci condivide un mondo inteso come contesto da utilizzare, si può secondo me affermare che per l’autore di Essere e Tempo l’utile è quello strumento di coesione sociale, attraverso cui gli individui organizzano insieme la realtà circostante. Invece l’utile come elemento di frammentazione sociale si ritrova in un processo di singolarizzazione che Heidegger chiamava Vereinzelung e che porta a quello che lui chiama zerbrochenes Wir, cioè Noi frantumato[8]. 3. Utile e atteggiamento individualistico Un atteggiamento individualistico è estraneo alla logica del Noi inteso come fatto olistico ed originario rispetto alla formazione dei gruppi e delle società umane evolute[9]. Il così detto I-mode di cui parla R. Tuomela è infatti una attitudine a pensare i rapporti intersoggettivi non come una questione di impegno e condivisione di un ethos, ma come una opportunità per tutelare e gratificare i propri singoli desideri e scopi. L’utile si trasforma così in uno stimolo a sviluppare forme di I-modes e I-attitudes che trascurano l´altro atteggiamento sociale fondamentale, il We-mode. In questa prospettiva l’utile è il mio personale utile e i rapporti interpersonale sono considerati in maniera riduttiva, per cui, potremmo dire trasformando il famoso motto di Machiavelli, avviene che «il mio fine giustifica i miei mezzi». Invece l’utile può riconquistare la dignità che gli viene riconosciuta dagli autori finora citati (in particolare James, Wittgenstein e Heidegger) se lo si tratta come positivo collante sociale, addirittura costitutivo rispetto al Noi. In questa dimensione anche i rapporti economici possono venire compresi nei termini di una conciliazione tra interesse individuale e vita del gruppo, come ha tentato con successo di dimostrare lo stesso Amarthya Sen, il quale nel libro On Ethich and Economics non solo spiega il profondo legame tra etica ed economia, ma propone anche di trattare il concetto di utile individuale come un fenomeno che dietro ha delle implicazioni sociali importantissime. Per esempio lui scrive: While many admires of Smith do not seem to have gone beyond this bit about the butcher and the brewer, a reading of even this passage would indicate that Smith is doing here is to specify why and how normal transactions in the market are carried out, and why and how division of labour works, which is the subject of the chapter in which the quoted passage occurs. But the fact that Smith noted that mutually advantageous trades are very common does not indicate at all that he thought self-love alone, or indeed prudence broadly construed, could be adequate for a good society[10].
Commentando il famoso passaggio di Adam Smith sul macellaio, che spesso viene utilizzato da alcuni economisti per dimostrare la natura essenzialmente individuale e individualistica dei fenomeni economici, Sen cerca di mostrare come al contrario per Smith ciascun atteggiamento economico ha senso all’interno del mercato in cui ciascuno opera. Per cui i comportamenti economici anche se apparentemente individualistici sono da ricondurre alla dimensione del mercato che Sen tratta come una fatto olistico ed intersoggettivo. Il mercato come luogo pratico di scambio è anche il luogo in cui l’individualismo può venire dissolto perché facendo un parallelismo con Heidegger per Sen esso è il luogo in 131 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
cui si realizza il nostro essere-con-gli-altri, cioè il luogo in cui il contesto è un elemento condiviso ed utilizzabile. Guardare dietro o al di là dell’interesse personale per Sen significa scorgere il mercato, cioè quel luogo in cui gli individui posso insieme costituire un Noi, e superare le aporie e le incertezze che sorgono quando riduttivamente si pensa solo in termini di I-mode. Pensare in termini di We-mode significa pensare in maniera più perspicua i rapporti sociali e trattare l’utile come la categoria attraverso cui gli uomini insieme prendono scelte condivisibili. Quindi solo acquisendo una intenzionalità condivisa e reciproca le società crescono positivamente e superano i particolarismi riconoscendo nell’utile il terreno di confronto su cui trovare strategie e visioni comuni. __________________________ NOTE: [1] W. James [1907], Pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare, Milano, il Saggiatore, 1994. [2] Si veda ad esempio la seguente antologia: Kollektive Intentionalität. Eine Debatte über die Grundlagen des Sozialen [2009], a cura di H. B. Schmid e D. P. Schweikard, Suhrkamp, Frankfurt am Main. La più recente monografia dedicate a questo tema è: R. Tuomela [2007], The philosophy of sociality: the shared point of view, Oxford University press, New York. [3] G. W. F. Hegel [1821], Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2004, §§ 144-147, pp. 133134. In proposito di consulti anche M. D’Abbiero [1970], «Alienazione» in Hegel. Usi e significati di Entäusserung, Entfremdung, Veräusserung, Edizioni dell’Ateneo, Roma. [4] L. Wittgenstein [1951], Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1983, §§ 188-241. [5] Si veda in particolare Tomasello M./ Rakoczy H. [2003], What Makes Human Cognition Inique? From Individual to Shared Collective Intentionality, in Mind and Language 18 (2), pp. 121-147. [6] M. Heidegger [1927], Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 1970, pp. 155,159. [7] M. Heidegger [1927], p. 153. [8] Su questo punto Heidegger è piuttosto oscuro, in proposito si veda il testo di H. B. Schmid, WirIntentionalität Alber Verlag, 2005, pp. 300-308. [9] Si veda in proposito R. Tuomela [2007] pp. 98-102 e H. B. Schmid [2005], pp. 309 e segg. [10] A. Sen, On Ethics and Economics [1987], Blackwell Publishers, Oxford, p. 23.
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Jenseits des Nutzens. Überlegungen zum Nutzenbegriff bei Marx, Adorno und Bataille
di Martin Eichler
Sommario: 0. Grond zerstört die Paradiespforte; 1. Die Aufklärung und der Gebrauchswert; 2. Denken des Nutzlosen
0. Grond zerstört die Paradiespforte Eine der Pforten des Baptisteriums in Florenz, im 15. Jahrhundert von Lorenzo Ghiberti entworfen und gefertigt, gilt als eines der bedeutendsten plastischen Zeugnisse der Florentiner Frührenaissance. Ihr Blickfang sind 10 Quadrate, welche biblische Szenen zeigen, die von einer beträchtlichen Anzahl von Skulpturen umrahmt werden. Von Michelangelo ist der Satz überliefert, dass der nüchtern als Ostportal bezeichnete Eingang dem Namen einer Pforte zum Paradies würdig sei. Die Schönheit der Paradiespforte erscheint heute als Zweck in sich selbst, und kaum jemand würde sie bei ihrer Betrachtung mit dem Begriff des Nutzens in Verbindung bringen[[1]]. Mit der Triologie The Lord of the Rings, die zwischen 2001 bis 2004 weltweit in den Kinos aufgeführt wurde, verhält sich dies anders. Eine sowohl in der Buchvorlage als auch im Film bescheidene Rolle spielt Grond, ein Rammbock, der von Tolkien in folgender Form beschrieben wird. „und in der Mitte war ein Ramme, groß wie ein Baum von hundert Fuß Länge, an mächtigen Ketten hängend. ... ihr abscheulicher Rammbär, aus schwarzem Stahl gegossen, war der Gestalt eines räuberischen Wolfes nachgebildet; Zaubersprüche der Vernichtung lagen auf ihr. Grond nannte man sie, zur Erinnerung an den Hammer der Unterwelt von einst.[2]“ Grond fällt die Aufgabe zu, das Haupttor der belagerten Stadt Minas Tirith zu zertrümmern und den Filmproduzenten jene, das besagte Tor in Bilder zu fassen. Der entwerfende Künstler Alan Lee: «Ich wollte das Haupttor so schön und ausdrucksvoll wie möglich gestalten. Eine Holzstruktur als Basis, mit Bronzestatuen verziert erschien mir da ziemlich passend». Und der Produzent Barry M. Osborne meint «Es gab viele Skulpturen, fast wie bei der Tür zum Baptisteriums in Florenz»[3]. Damit wäre ich beim hier interessierenden Zusammenhang: Der «Hammer aus der Unterwelt» zerstört die «Paradiespforte». Im Film dauert diese Szene gefühlte 5 Sekunden, die Skulpturen sind eigentlich nicht wahrnehmbar, dennoch wurde die Kulisse zwei Mal errichtet, in heilem wie in zerstörtem Zustand.
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Im Zitieren der Paradiespforte liegt zum einen die banale Erkenntnis, dass dasjenige, was in einem Kontext als Selbstzweck angesehen wird, in einem anderen zum Mittel wird, Effekte zu erzielen. In einem Phantasyfilm liegt dieser Effekt in der Herstellung einer bestimmten Authentizität, die unter anderem dadurch erreicht wird, dass man die verschiedensten Kulturen, Epochen und Stile zitiert und mischt, ohne das dies zu offensichtlich wird. Wichtiger aber ist ein zweiter Punkt. Bei Filmen der Art des Herrn der Ringe ist selber nicht mehr eindeutig, welchem Maßstab sie gehorchen, den ästhetischen Formen des Films, die sich letztlich in einer bestimmten Qualität für den Betrachtenden niederschlagen oder dem ökonomischen des Profits. Auf einer allgemeineren Ebene ist diese Mehrdimensionalität der Maßstäbe bereits am Baptisterium in Florenz aufzeigbar. Auch dieses Kunstwerk wurde wohl nie nur als in sich selbst Gutes gedacht, sondern immer auch unter dem Aspekt des Nutzens. So konnten sich im Profanen die Auftrag gebenden Wollhändler Vorteile gegenüber anderen Zünften der Stadt versprechen und die Stadt Florenz selbst gewann im Wettstreit der oberitalienischen Städte an Ansehen durch ein neues spektakuläres Bauwerk; auch im Sakralen kann man von einem Nutzen der Pforte, der Lobpreisung Gottes, sprechen. Aus dem Gesagten möchte ich zwei Problemstellungen und Perspektiven entwickeln. In einem ersten Schritt soll die Bedeutung des Nutzens als emanzipatorische Kategorie diskutiert werden und zwar so wie sie im 19. und 20. Jahrhundert verstanden worden ist. Hierbei werde ich mich zwei Traditionslinien skizzieren, die sich bzgl. ihres aufklärerischen Gehalts ähneln, ihre differentia specifica jedoch in der unterschiedlichen Bewertung des Nutzens des Tauschwertes haben: Für die eine Linie steht paradigmatisch Karl Marx, für die andere sollen Adam Smith und Friedrich August von Hayek herangezogen werden. In einem zweiten Schritt soll an Theodor W. Adorno und George Bataille die Bewegung untersucht werden, die die Bedeutung des Nutzens radikaler in Frage stellt und in je spezifischer Weise das Nutzlose als emanzipativen Begriff zu verteidigen suchen.
1. Die Aufklärung und der Gebrauchswert Während sich die Philosophie der Antike und das Mittelalters vor allem mit der Differenzierung zwischen dem Guten und dem Nützlichen auseinandersetzte[4], grenzt die Diskussion seit der Aufklärung das Nützlichkeitsdenken vor allem gegen zwei Phänomenbereiche ab: die Welt der Kunst und die Welt der Religion. Indem man die Kategorie des Nutzens gegen Religion und Kunst definiert, macht man sie zu einer Kategorie des Alltagshandelns, enger noch zu einer Kategorie des ökonomischen Handelns. Historisch hat sich das Nützlichkeitsdenken vor allem gegen die sakrale Sphäre etabliert. Es rückt das Tun der Menschen ins Zentrum der Überlegung. Man spricht nicht davon, dass etwas für Gott nützlich ist. Insofern ist Nutzen eine radikal antropozentrische Kategorie. Der Nutzen eines Dinges gibt keine transzendenten 134 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Gründe für ein Tun, er ist schlicht seine Brauchbarkeit für beliebige Zwecke. Als profane Kategorie kann der Nutzen einen entlastenden Charakter haben. Ein zentraler Ansatzpunktspunkt der Aufklärungskritik ist die Priesterbetrugsthese. Anstatt die religiösen Würdenträger in ihrem sakralen Kontext zu begreifen, führt die Aufklärung ihre Handlungen schlicht auf den Eigennutz der Priester zurück und holt diese damit auf die Erde herunter. Sie macht den Gottesdienst zu einer Handlung, die – im gegebenen gesellschaftlichen Kontext – allen verständlich ist. Das Handeln der Priester wird durchschaubar durch die einfache Frage: Cui Bono? [5] Im Making Off des Herr der Ringe berichten die Filmemacher immer wieder über ihre Schwierigkeit den verschiedenen Maßstäben, denen dieser Film unterliegt, gerecht zu werden. Der Film musste in (mindestens) zweierlei Hinsicht nützlich sein. Er musste einen quantitativen bzw. monetäre Nutzen generieren, sowie einen Gebrauchswert darstellen, also gut sein für die Konsumenten. In dieser Gegenüberstellung hat sich historisch die Kritik an der Suprematie des quantitativen, monetären Nutzenbegriff durch die Betonung der Bedeutung der Gebrauchswerte gegenüber dem Tauschwert entwickelt. Niedergelegt ist diese Position seit Aristoteles[6]; hier soll sie kurz an Hand von Karl Marx in Erinnerung gerufen werden. In der doppelseitigen Betrachtung der Ware als Gebrauchswert und als Tauschwert schlägt Marx die Kategorie des Nutzens prinzipiell auf die Seite des Gebrauchswerts. Die Ware ist zunächst ein äußerer Gegenstand, ein Ding, das durch eine Eigenschaft menschliche Bedürfnisse irgendeiner Art befriedigt … Jedes solches Ding ist ein Ganzes vieler Eigenschaften und kann daher nach verschiedenen Seiten nützlich sein.[7]
Die Nützlichkeit des Dinges für den Menschen ist als nominale Abstraktion bestimmt, die keine weitere Bedeutung hat, als alle möglichen Gebrauchsweisen eines beliebigen Gegenstandes unter eine Kategorie zu fassen. Die Nützlichkeit eines Dinges erwächst aus dessen stofflichen Eigenschaften, seine verschiedenen Gebrauchsweisen müssen entdeckt bzw. die Dinge unter der Maßgabe ihres Gebrauchs entwickelt werden. Von der Nützlichkeit für den Menschen, der «unmittelbare Nützlichkeit»[8], zu trennen und damit die Relativität des Nutzenbegriffs betonend, ist der Begriffs des «Gebrauchswert für das Kapital» [9] . Die (erarbeiteten) Dinge unterliegen hier einem völlig anderen Maßstab. «Die einzige Nützlichkeit, die ein Gegenstand überhaupt für das Kapital haben kann, kann nur sein, es zu erhalten oder zu vermehren»[10]. Indem das Kapital nicht nur als nominale Kategorie verstanden werden kann, die alle Gegenstände dieses speziellen Nutzens unter sich zusammenfasst, sondern einen Handlungsimperativ des Ökonomischen zu fassen sucht, entwickelt Marx die Kritik an der Religion der klassischen Aufklärung weiter. Die Anthropozentrik die sich im Nutzenbegriff niederschlägt, wird durch eine neue transzendente Sphäre durchbrochen, diesmal aber im Bereich des Ökonomischen selbst. Marx stellt sich in die Tradition der Aufklärung, indem er konstatiert: «Noch sind nicht alle Götter gestürzt». 135 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Allerdings ist das Verhältnis von Kapital und Gebrauchswert für Marx nicht einfach eines der Entgegensetzung, wie es etwa Hegel in Bezug auf den Konflikt zwischen Aufklärung und Religion konstatiert.[11] Zum einen setzt der Gebrauchswert für das Kapital den Gebrauchswert für den Menschen immer voraus und fördert diesen aktiv.
Explorieren der ganzen Natur, um neue nützliche Eigenschaften der Dinge zu entdecken; universeller Austausch der Produkte aller fremden Klimate und Länder; neue Zubereitungen (künstliche) der Naturgegenstände, wodurch ihnen neue Gebrauchswerte gegeben werden … ebenso die Entdeckung, Schöpfung und Befriedigung neuer aus der Gesellschaft selbst hervorgehenden Bedürfnisse; die Kultur aller Eigenschaften des gesellschaftlichen Menschen und Produktion desselben als möglichst Bedürfnisreichen, weil Eigenschafts- und Beziehungsreichen – seine Produktion als möglichst totales und universelles Gesellschaftsprodukt – … – ist ebenso eine Bedingung der auf das Kapital gegründeten Produktion. [12]
Zum zweiten sieht Marx in der Konzentration auf den profanen Nutzen und in der Zerstörung der Tradition selbst eine Bewegung des Kapitals. Er betreibt also bereits eine Historisierung der Aufklärung. Das «System der allgemeinen Nützlichkeit» zerstört die Formen des Heiligen und anachronistisch gesprochen Unnützen.
Wie also die auf das Kapital gegründete Produktion einerseits die universelle Industrie schafft … so anderseits ein System der allgemeinen Exploitation der natürlichen und menschlichen Eigenschaften, ein System der allgemeinen Nützlichkeit, als dessen Träger die Wissenschaft selbst so gut erscheint wie alle physischen und geistigen Eigenschaften, während nichts als An-sich-Höheres, Für-sich-selbst-Berechtigtes, außer diesem Zirkel der gesellschaftlichen Produktion und Austauschs erscheint. So schafft das Kapital erst die bürgerliche Gesellschaft und die universelle Aneignung der Natur wie des gesellschaftlichen Zusammenhangs selbst durch die Glieder der Gesellschaft. Hence the great civilising influence of capital; seine Produktion einer Gesellschaftsstufe, gegen die alle frühren nur als lokale Entwicklungen der Menschheit und als Naturidolatrie erscheinen. Die Natur wird erst rein Gegenstand für den Menschen, rein Sache der Nützlichkeit; hört auf, als Macht für sich anerkannt zu werden; und die theoretische Erkenntnis ihrer selbständigen Gesetze erscheint selbst nur als List, um sie den menschlichen Bedürfnissen, sei es als Gegenstand des Konsums, sei es als Mittel der Produktion, zu unterwerfen. [13]
Die im Zitat angesprochene List sieht Marx selbst in der geschichtlichen Bewegung des Kapitals als Überwinder der Formen traditioneller Abhängigkeit wie auch (unter Umständen) von sich selbst. Das Kapital, welches an Grenzen stößt, von denen Marx im Anschluss an das Zitierte spricht [14], wird, ließt man Marx geschichtsphilosophisch [15], schließlich durch eine neue Produktionsform ersetzt. Erst in dieser ist dann der 136 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
unmittelbare Nutzen nicht undurchschaubares System.
mehr
vermittelt
über
ein
transzendentes
und
Auf eine positive Bedeutung der Vermittlung durch das Kapital hatte vor Marx schon Adam Smith hingewiesen, mit seiner berühmten Metapher der unsichtbaren Hand[16]. Auch hier haben wir es letztlich mit einer List zu tun, wenn auch nicht der Geschichte, sondern der unintendierten Handlungsfolge. Der Nutzen bzw. Gebrauchswert der Dinge für den Menschen wird gerade dadurch garantiert, dass sie primär den quantitativen Nutzen als Handlungsziel verfolgen. Offensiv verteidigt wird die Allokationsfunktion des Marktes jedoch erst im 20. Jahrhundert im Zuge der intellektuellen Auseinandersetzung zwischen Kommunisten bzw. Sozialisten und Liberalen[17]. Hier sind insbesondere die Schriften von Friedrich August von Hayek einschlägig, der explizit darauf hinweist, dass die kapitalistische Produktionsweise mehr qualitativen Nutzen hervorbringen könne als die sozialistische. Die nichtintendierte Ordnung ist der intendierten überlegen. Laut Hayek weiß der Markt mehr als die teilnehmenden Menschen, über den beständigen Tausch vermittelt sich mehr Information[18]. Stellt man die sozialistische und liberale Position, so wie sie hier in aller Knappheit geschildert wurden, gegeneinander, so ist die Gemeinsamkeit der Orientierung am profanen Nutzen offensichtlich. Beide stellen einen größtmöglichen Wohlstand, der dann in aller Regel auch quantitativ messbar ist, in das Zentrum ihrer Zielvorstellungen des guten Lebens. Dies charakterisiert jedoch zumindest die Marxsche Position nicht in ausreichender Weise. Einen Hinweis darauf gibt Georges Bataille. Batailles Argumentationsfigur radikalisiert die Marxsche Position. Sie basiert auf einer strikten Trennung der Welt der materiellen Dinge und dem Bedürfnis des Menschen nach Souveränität, „seiner eigenen intimen Wahrheit“ (173)[19]. Dieses «Belieben über das Wesen zu verfügen, das er sein wird, das er heute noch nicht ist» kann dadurch erreicht werden, dass der Nutzengedanken in sein Extrem getrieben wird. Die grundlegende Absicht/ des Marxismus besteht darin, die Welt der Dinge (der Ökonomie) von jedem Element, das außerhalb der Dinge (der Dinge)... liegt, vollständig zu befreien: Marx wollte, dass man bis auf die Grenze der in den Dingen eingeschlossenen Möglichkeiten geht ... auf diese Weise wollte Marx die Dinge endgültig auf den Menschen zurückführen und dem Menschen die freie Verfügung über sich selbst ermöglichen. Unter diesem Gesichtspunkt würde der durch das Handeln befreite Mensch, dem die vollständige Adäquation seiner selbst mit dem Ding gelungen ist, dieses in gewisser Weise hinter sich haben, es würde ihn nicht mehr beherrschen.[20]
2. Denken des Nutzlosen Mit Bataille sind wir bei der Tradition angelangt, die im säkularen Zeitalter versucht Gegenpositionen gegen die Allgegenwart des Nützlichen zu formulieren und zu 137 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
etablieren. Die Betonung des Nutzlosen als menschliches Handlungsziel stellt auf den ersten Blick eine radikale Alternative dar. Dabei birgt die Herangehensweise in sich Heterogenes, da unter der Residualkategorie des Nutzlosen Verschiedenstes gefasst werden kann. Die als nutzlosen gefassten Phänomene können in anderen Kontexten durchaus eine positive Bestimmung erfahren (haben), wie die sakrale Bedeutung der Paradiespforte verdeutlicht, deren Funktion, wie angedeutet, auch als religiöser Nutzen gedacht werden kann. Die Vieldeutigkeit des Begriffs des Nutzens ist auch Bataille bewusst. So schreibt er gleich zu Beginn des hier einschlägigen Werkes «Die Aufhebung der Ökonomie», dass es unmöglich sei, «exakt zu definieren, was für den Menschen nützlich ist» [21]. Ausreichend jedoch sei es vom Alltagsverstand auszugehen, der «materiellen Nutzen … einerseits auf die Erwerbung (d.h. Produktion) und Erhaltung von Gütern, andererseits auf die Produktion und Erhaltung von Menschenleben» beschränkt [22]. Batailles theoretische Argumentation stellt der hegemonialen Ökonomik der Knappheit und des Nutzens, die auf optimale Ressourcenallokation ausgelegt ist, eine Ökonomie des Überschusses entgegen. Grundsätzlich sei das Problem menschlicher Gesellschaften nicht die Knappheit der Güter, sondern die Frage, wie man mit ihrem beständigen Überschuss über das Lebensnotwendige umgehen soll. Das menschliche Leben (wie auch das Leben generell) sei immer geprägt durch einen Überschuss an Reichtum, der letztlich auf Energie beruhe, der irgendwie konsumiert werden müsse. Unterschiedliche Gesellschaften hätten darauf unterschiedliche Antworten gefunden, die in der Regel in Formen der Verschwendung dieses Reichtums bestanden hätten. Sei es, dass bestimmte gesellschaftliche Schichten den Reichtum verprasst hätten, sei es, dass er in rituellen Festen zerstört wurde, sei es dass er verschenkt wurde, geopfert oder zu Kriegen genutzt. Die Verwendung der Überschüsse zur Erwirtschaftung neuen Reichtums ist unter dieser Perspektive nur ein Sonderfall unter vielen. Bataille Intention ist es, die Möglichkeit eines selbstbewussten und souveränen Umgangs mit den Formen der notwendigen Verschwendung offen zu halten . Dazu gehört, die marginalen Tätigkeitsbereiche des Menschen, die das «Streben nach unproduktiver Verausgabung»[23] verkörpern, und die unter Maßgabe der Produktion von Reichtum gering geachtet werden, in das Zentrum des gelingenden menschlichen Lebens zu stellen.
Die Lust, ob es sich nun um Kunst, zugelassene Ausschweifung oder Spiel handelt, wird in der geläufigen Vorstellung als bloßes Zugeständnis betrachtet, das heißt als Entspannung, die unterstützend hinzutritt. Der kostbarste Teil des Lebens gilt lediglich als Vorbedingung – manchmal sogar bedauerliche Vorbedingung – der produktiven sozialen Tätigkeit.[24]
Die Tatsache, dass die Menschen sich der nützlichen und produktiven Tätigkeit ergeben, führt zu ihrer Abstumpfung und Vermassung. Bataille kann hier an Elemente klassischer Kulturkritik anknüpfen,[25] jedoch unter einer gänzlich anderen Prämisse: «Man ist heute noch der Meinung, dass die Welt arm und die Arbeit notwendig sei. Die Welt krank jedoch an ihrem Reichtum». 138 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Dies ist kein Plädoyer für ein metaphysischen Armut, wie sie von Franz von Assisi bis Toni Negri[26] als Ausweg gedacht wird, vielmehr eine Bestimmung des Menschen als sich verschwendendes Wesen. «In erster Linie hat der Mensch die Aufgabe sich ruhmvoll zu verausgaben, was die Erde anhäuft, was die Sonne verschwendet»[27].
Während Batailles Konzeption des Nutzlosen einerseits auf starken anthropologischen Voraussetzungen aufbaut, andererseits im Rahmen einer ökonomischen Theorie entwickelt wird, ist die Situation bei Adorno eine andere. Beide Autoren können in bestimmten Hinsichten parallelisiert werden und agieren offensichtlich aus einem ähnlichen Problemverständnis heraus, doch unterscheidet sich Adornos Denkweise in bestimmten Punkten von der von Bataille[28]. Unterschiede scheinen dabei vor allem im heterodoxen Methodenverständnis von Adorno zu bestehen. Während Bataille die Begriffe des Nützlichen und Nutzlosen in einem definitorischen Akt strikt voneinander scheidet, reflektiert Adorno an verschiedenen Stellen seines Werkes den Zusammenhang zwischen den Begriffen des Nützlichen und des Nutzlosen. Er fragt dabei sowohl nach ihrem gesellschaftlich, historischem Zusammenhang, dem gesellschaftlichen Ort des Nutzlosen als auch nach einem Zustand der über das Gegensatzpaar hinaus ist. Stärker als der oben herangezogene Marx der Grundrisse betont Adorno die Entwicklung der Gebrauchswerte als nur scheinbar positiv. Ihre Nützlichkeit selbst muss in Frage gestellt werden. Dasjenige was konsumiert wird, die immer neu entdeckten Verwendungsweisen der Dinge, sind in ihrer Konsumptionsweise nicht neutral, wie man es noch bei Marx herauslesen konnte. Der Tauschwert presst den Dingen neue Gebrauchswerte ab, die unter einer anderen Perspektive als der des Zwanges zum Wachstum, gar nicht zu gebrauchen sind.
Aber alles Nützliche ist in der Gesellschaft entstellt, verhext. Daß sie die Dinge erscheinen läßt, als wären sie um der Menschen willen da, ist die Lüge; sie werden produziert um des Profits willen, befriedigen die Bedürfnisse nur beiher, rufen diese nach Profitinteressen hervor und stutzen sie ihnen gemäß zurecht. Weil das Nützliche, den Menschen zugute Kommende, von ihrer Beherrschung und Ausbeutung Gereinigte das Richtige wäre, ist ästhetisch nichts unerträglicher als seine gegenwärtige Gestalt, unterjocht von ihrem Gegenteil und durch es deformiert bis ins Innerste[29].
Adorno argumentiert, wenn auch weniger explizit als etwa Herbert Marcuse, mit der Annahme von falschen Bedürfnissen. Dies führt allerdings nicht so weit, dass er den Menschen eine bestimmte Lebensform vorschreiben möchte. «Die lebendigen Menschen, noch die zurückgebliebensten und konventionell befangensten, haben ein Recht auf die Erfüllung ihrer sei's auch falschen Bedürfnisse»[30]. Zudem bietet der Genuss der Gebrauchswerte einen falschen Trost, wirken also strukturerhaltend. «Das 139 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
bloß Nützliche dagegen ist verflochten in den Schuldzusammenhang, Mittel der Verödung der Welt, des Trostlosen, ohne daß doch die Menschen von sich aus/ eines Trostes mächtig wären, der sie nicht täuschte»[31]. Die Marxsche These der positiven Bedeutung des Gebrauchswertes findet damit eine Einschränkung, auch wenn an der generellen These, dass mit der Entwicklung der Produktivkräfte das Elend nicht mehr sein müsse, festgehalten wird[32]. Wie Bataille betont Adorno die Möglichkeit des Freiwerdens von den Dingen, wenn man sie an ihre Grenzen treibt:
Die Produktivität wird nun [in der befreiten Gesellschaft; M.E.] erst im eigentlichen, nicht entstellten Sinn aufs Bedürfnis wirken: nicht indem das unbefriedigte mit Unnützem sich stillen läßt, sondern indem das gestillte vermag, zur Welt sich zu verhalten, ohne sie durch universale Nützlichkeit zuzurichten [33].
Im letzten Zitat finden wir den Versuch der Antizipation eines Zustandes vor, der die Individuen als frei von ihren Bedürfnissen in deren gestilltem Zustand beschreibt. Natur ist überwunden, wenn ihr Anspruch befriedigt ist. Adorno befindet sich hier im Fahrwasser der Unterscheidung des Reiches der Freiheit vom Reich der Notwendigkeit[34], gewendet in die Sphäre des Konsums. Der damit impliziert scheinende Dualismus ist allerdings für Adornos Denken im Allgemeinen untypisch und wohl nur als eine spezifische Grenzziehung zu verstehen, die sich auf die (im Unbestimmten belassenen) Mindestbedingungen der Befriedigung menschlicher Bedürfnisse bezieht. Am Begriff der Nützlichkeit selbst versucht Adorno falsche Oppositionen aufzuheben, also Begriffskritik zu betreiben. Er konstatiert, «daß die Begriffe nützlich und unnütz nicht unbesehen hingenommen werden können»[35] und beharrt: «Nützlichkeit hat in der bürgerlichen Gesellschaft ihre eigene Dialektik»[36]. Diese ist, neben dem oben gesagten, vor allem im Bereich des scheinbar oder wirklich Nutzlosen, dem Bereich der Kunst und Kultur zu beobachten. Die Denkbewegung, die Kultur als das nutzlose zu verteidigen, sieht Adorno seit dem 19. Jahrhundert existent[37]. Der Zusammenhang zwischen Kunst und Kultur und dem Nutzlosen ist komplex und wird von Adorno in mehreren Perspektiven analysiert. Zum einen ist die Autonomie der Kunst und Kultur in bestimmter Hinsicht nur Schein. Kunstwerke sind selbst von ihrer Indienstnahme durch andere Zwecke bedroht. «Was man den Gebrauchswert in der Rezeption der Kulturgüter nennen könnte, wird durch den Tauschwert ersetzt, anstelle des Genusses tritt Dabeisein und Bescheidwissen, Prestigegewinn anstelle der Kennerschaft»[38]. Wie bei der Unterscheidung von Tauschund Gebrauchswert, liegen auch im Kunstgenuss mehrere mögliche Perspektiven, mehrere Arten und Weisen, wie Kunst rezipiert wird. Aber auch wenn sie sachgerecht 140 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
rezipiert wird, liegt in der Trennung von Nützlichem und Nutzlosem bzw. der Welt der Kunst und der Welt des Alltags, die inhärente Gefahr, dass gerade durch die Etablierung einer reinen Sphäre der Kunst die herrschenden Verhältnisse stabilisiert werden.
Zur Inthronisierung der Kultur als einem an sich Seienden, von den materiellen Bedingungen Unabhängigen, ja diese Vergleichgültigenden schickt sich korrelativ der Glaube an die reine Nützlichkeit des Nützlichen selbst. Kultur soll durchaus unnütz, darum auch jenseits der Planungs- und Verwaltungsmethoden der materiellen Produktion sein, damit der Rechtsanspruch des Nützlichen ebenso wie der des Unnützen um so mehr Relief gewinnt [39].
Drittens schließlich ist die Kunst als das Nutzlose in gewisser Weise Platzhalter eines neuen Verhältnisses jenseits der Trennung von Nützlichem und Unnützen. «Der Nutzen des Nützlichen selber ist keineswegs über allem Zweifel, und das Unnütze okkupiert den Platz dessen, was nicht mehr vom Profit entstellt wäre»[40]. Dies wird in einem anderen Zitat noch einmal präzisiert:
Die raison d'être aller autonomen Kunst seit der Frühzeit der bürgerlichen Ära ist, daß einzig das Unnütze einsteht für das, was einmal das Nützliche wäre, der glückliche Gebrauch, Kontakt mit den Dingen jenseits der Antithese von Nutzen und Nutzlosigkeit[41].
Die unaufgelöste Spannung die in Adornos Reflexionen des Nützlichen und Unnützen konstatierbar ist, ist die des Verhältnisses von Natur und Kultur. Das an die Natur wie lose auch immer angebundene Wesen Mensch kann sich durch die ihm inhärente Bedürfnisstruktur vom Setzen von Mitteln zur Verwirklichung von Zwecken nicht emanzipieren. In dieser Hinsicht ist der Nutzen der Dinge für den Menschen eine nicht hintergehbare Kategorie, die sich dann negativ gegen diejenigen Handlungsweisen absetzt, die die Dinge unter anderen Perspektiven behandeln. Insoweit Adorno dieser Distinktion folgt, stellt er sich in die Tradition von Marx bis Bataille. Zugleich jedoch versucht er einen Zustand zu antizipieren, in dem die Unterscheidung von Nützlichem und Nutzlosem keine Rolle mehr spielt, keine Bedeutung mehr hat. Diese Handlungsweise, der „glückliche Gebrauch“, muss einerseits dem Kriterium des Nutzens der Dinge für den Menschen gerecht werden, d.h. also keineswegs den Menschen in seinem Aspekt der Bedürftigkeit verleugnen, auf der anderen Seite jedoch zugleich – und die Frage ist, was dieses „zugleich“ bedeuten kann – die gebrauchten Dinge nicht auf ihren Gebrauch reduzieren; sie sind so zu gebrauchen, dass sie wollen könnten, gebraucht zu werden. Antizipiert wird ein Zustand, der die instrumentelle 141 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Verwendungsweise der Natur dadurch überwindet, dass sie Teil der nichtinstrumentellen ist. ____________________________ Note [1] Inwieweit dies dem historischen Selbstverständnis entspricht vermag ich nicht einzuschätzen. Es scheint aber nahe zu liegen, sakralen Kunstwerke den Begriff honestum ('in-sich-selbst gut') statt utile ('gut-für') zuzuordnen. [2] Tolkien J.R.R. Der Herr der Ringe. Die Rückkehr des Königs, Stuttgart 1991, Seite 112 [3] So im Making Off. [4] Auch das ist keine überholte Auseinandersetzung, wie man leicht etwa an der zum Zeitpunkt des Verfassens dieses Artikels geführten Folterdiskussion ersehen kann. Ein Staat lässt foltern, nicht weil es gut, sondern weil es effizient und nützlich ist. [5] Das die Priesterbetrugsthese zu einfach ist, ist richtig, aber gerade nicht von Interesse. [6] Vgl. Aristoteles: Politik, Buch 1. [7] MEW 23: 49 [8] MEW 42: 99 [9] MEW 42: 195 [10] MEW 42: 195 [11] Vgl. G.W. F. Hegel: Phänomenologie des Geistes, In Werke Band 4, Abschnitt VI.B.II.: Die Aufklärung. Auch Adorno, der natürlich einen weiteren Aufklärungsbegriff hat, wendet sich gegen die scharfe Opposition, indem er konstatiert: „Was dem Maß von Berechenbarkeit und Nützlichkeit sich nicht fügen will, gilt der Aufklärung für verdächtig. “ (Dialektik der Aufklärung. GS 3, S. 22) [12] MEW 42: 322/323 [13] MEW 42: 323 [14] «Daraus aber, daß das Kapital jede solche Grenze als Schranke setzt und daher ideell darüber weg ist, folgt keineswegs, daß es sie real überwunden hat, und da jede solche Schranke seiner Bestimmung widerspricht, bewegt sich seine Produktion in Widersprüchen, die beständig überwunden, aber ebenso beständig gesetzt werden. Noch mehr. Die Universalität, nach der es un//324/aufhaltsam hintreibt, findet Schranken an seiner eignen Natur, die auf einer gewissen Stufe seiner Entwicklung es selbst als die größte Schranke dieser Tendenz werden erkennen lassen und daher zu seiner Aufhebung durch es selbst hintreiben». (MEW 42: 323/324) [15] Das muss man jedoch nicht. Er selbst spricht sich gegen allgemeine Gesetze in der Geschichte aus und betont die Bedeutung materialer Untersuchungen. So kritisiert er einen Kritiker: «Er muß durchaus meine historische Skizze von der Entstehung des Kapitalismus in Westeuropa in eine geschichtsphilosophische Theorie des allgemeinen Entwicklungsganges verwandeln, der allen Völkern schicksalsmäßig vorgeschrieben ist, was immer die geschichtlichen Umstände sein mögen, in denen sie sich befinden, um schließlich zu jener ökonomischen Formation zu gelangen, die mit dem größten Aufschwung der Produktivkräfte der gesellschaftlichen Arbeit die allseitigste Entwicklung des Menschen sichert. Aber ich bitte ihn um Verzeihung. (Das heißt mir zugleich zu viel Ehre und zu viel Schimpf antun.)» (MEW 19:111) Schließlich betont er: «man wird niemals dahin [zur Erkenntnis eines Gegenstandes; M.E.] gelangen mit dem Universalschlüssel einer allgemeinen geschichtsphilosophischen Theorie, deren größter Vorzug darin besteht, übergeschichtlich zu sein». (MEW 19:112) [Brief an die Redaktion der "Otetschestwennyje Sapiski". Geschrieben etwa November 1877.] [16] «He [a single individual; M.E.] generally, indeed, neither intends to promote the public interest, nor knows how much he is promoting it. By preferring the support of domestic to that of foreign industry, he intends only his own security; and by directing that industry in such a manner as its produce may be of the greatest value, he intends only his own gain; and he is in this, as in many other cases, led by an invisible hand to promote an end which was no part of his intention. Nor is it always the worse for the 142 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
society that it was no part of it. By pursuing his own interest, he frequently promotes that of the society more effectually than when he really intends to promote it. I have never known much good done by those who affected to trade for the public good. It is an affectation, indeed, not very common among merchants, and very few words need be employed in dissuading them from it». (Adam Smith: An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, source: http://www.gutenberg.org/files/3300/3300-8.txt Zugriff: 3.5.09.) [17] Wobei etwa auch Schumpeter die Rationalität der Planung gegen die des Marktes verteidigte. Vgl. Kapitalismus, Sozialismus und Demokratie. [18] Vgl. Friedrich August von Hayek: Die verhängnisvolle Anmaßung, Tübingen 2001. [19] Georges Bataille: Die Aufhebung der Ökonomie, München 2001 (3. Auflage), Matthes und Seitz. [20] Georges Bataille: Die Aufhebung der Ökonomie, München 2001 (3. Auflage), Matthes und Seitz, 172/ 173. [21] Georges Bataille: Die Aufhebung der Ökonomie, München 2001 (3. Auflage), Matthes und Seitz, 9. [22] Georges Bataille: Die Aufhebung der Ökonomie, München 2001 (3. Auflage), Matthes und Seitz, 9. [23] Georges Bataille: Die Aufhebung der Ökonomie, München 2001 (3. Auflage), Matthes und Seitz, 17. [24] Georges Bataille: Die Aufhebung der Ökonomie, München 2001 (3. Auflage), Matthes und Seitz, 10. [25] „Unter der Maske der Gerechtigkeit nimmt die allgemeine Freiheit allerdings das öde und graue Aussehen der den Notwendigkeiten unterworfenen Existenz an: es ist eher eine Reduktion ihrer Grenzen auf das rechte Maß, nicht die gefährliche Entfesselung ...“ (Georges Bataille: Die Aufhebung der Ökonomie, München 2001 (3. Auflage), Matthes und Seitz, 298). [26] Vgl. Antonio Negri/ Michael Hardt: Empire, Frankfurt a. M./ New York 2003, Seite 420. [27] Georges Bataille: Die Aufhebung der Ökonomie, München 2001 (3. Auflage), Matthes und Seitz, 298. [28] Adorno kannte Bataille als Freund Walter Benjamins. Vgl. Adorno/ Horkheimer: Briefwechsel 1938-1944, Ffm. 2004, 389. [29] T.W. Adorno: Kulturkritik und Gesellschaft I: Funktionalismus heute. GS 10.1, S. 392. Vgl. auch „Aber man wird doch nicht dagegen sich verblenden, daß dem Profit gegenüber im Gesamtsystem das Nützliche an sich, das niemals ein den Menschen unmittelbar zugute Kommendes war, zu einem Sekundären, von der Maschinerie Mitgeschleiften wurde.“ (T.W. Adorno: Soziologische Schriften I: Kultur und Verwaltung. GS 8, S. 129-130) [30] T.W. Adorno: Kulturkritik und Gesellschaft I: Funktionalismus heute. GS 10.1, S. 390. [31] T.W. Adorno: Kulturkritik und Gesellschaft I: Funktionalismus heute. GS 10.1, S. 391/ 392. [32] „daß die Erde, nach dem Stand der Produktivkräfte, jetzt, hier, unmittelbar das Paradies sein könnte“ (T.W. Adorno: Ästhetische Theorie: GS 7, S. 55-56) [33] T.W. Adorno: Soziologische Schriften I: Thesen über Bedürfnis. GS 8, S. 396. [34] Vgl. Karl Marx: Das Kapital, Band III, Berlin 1964, Seite 828. [35] T.W. Adorno: Kulturkritik und Gesellschaft I: Funktionalismus heute. GS 10.1, S. 393. Einen Grund für die strikte Trennung sieht Adorno in der unbequemen Wahrheit, dass eben nicht die Nützlichkeit herrsche. «Kaum anderswo aber ist das Bewußtsein der Gesellschaft so allergisch wie hier. Gerade weil es dubios bestellt ist um die Nützlichkeit des Nützlichen, ist es dem Apparat doppelt wichtig, sich als ein Nützliches, um der Konsumenten willen Ablaufendes zu präsentieren. Darum wird in der Ideologie die Demarkationslinie von Nützlichem und Unnützem so streng gezogen». (T.W. Adorno: Soziologische Schriften I: Kultur und Verwaltung. GS 8, S. 129.) Vgl. auch folgendes Zitat: «Das Nützliche wäre ein Höchstes, das menschlich gewordene Ding, die Versöhnung mit den Objekten, die nicht länger gegen die Menschen sich vermauern und denen diese keine Schande mehr antun. ... Als Fluchtpunkt der Entwicklung ließe sich denken, daß die ganz nützlich gewordenen Dinge ihre Kälte verlören. Nicht nur die Menschen müßten dann nicht länger leiden unter dem Dingcharakter der Welt: ebenso widerführe den Dingen das Ihre, sobald sie ganz ihren Zweck fänden, erlöst von der eigenen Dinglichkeit». [36] T.W. Adorno: Kulturkritik und Gesellschaft I: Funktionalismus heute. GS 10.1, S. 392. 143 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
[37] T.W. Adorno: Soziologische Schriften I: Kultur und Verwaltung. GS 8, S. 129-130 [38] T.W. Adorno: Dialektik der Aufkl채rung. GS 3, S. 181. [39] T.W. Adorno: Soziologische Schriften I: Kultur und Verwaltung. GS 8, S. 129-130. [40] T.W. Adorno: Soziologische Schriften I: Kultur und Verwaltung. GS 8, S. 129-130 [41] T.W. Adorno: Kulturkritik und Gesellschaft I: Funktionalismus heute. GS 10.1, S. 392/ 393.
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Adorno e il signor Dreibus. Note per una filosofia critica della cultura di Enrico Cerasi
I. Rispondendo a numerose lettere indignate pervenutegli in seguito a un intervento radiofonico in cui aveva letto i suoi Piccoli commenti a Proust – indignate a causa delle eccessive parole straniere di cui, a dire dei radioascoltatori, egli aveva fatto uso -, Adorno rievoca un oscuro ricordo della sua adolescenza: Tale esperienza risale fino alla mia infanzia, quando nel tram su cui conversavo ingenuamente con un compagno durante il percorso verso la scuola il vecchio Dreibus, un vicino della nostra strada, mi aggredì rabbioso: «Maledetto briccone, smettila col tuo alto tedesco e impara una buona volta a parlare il tedesco per bene». La paura che mi fece il signor Dreibus non venne praticamente attenuata quando non molto tempo dopo venne portato a casa su una carriola completamente ubriaco e poco dopo morì. Per la prima volta mi aveva insegnato che cos’è il rancore [Rancue], una cosa per cui non c’è una parola tedesca giusta, a meno che non lo si scambi col risentimento [Ressentiment], così fatalmente amato oggi in Germania, e che d’altra parte anch’esso è stato da Nietzsche non inventato ma importato. In breve, la rabbia sulle parole straniere si spiega in primo luogo con la condizione psichica di persone rabbiose, per le quali l’uva è troppo in alto[1].
Il signor Dreibus che si accanisce con il giovane Adorno, offeso dalla sfacciataggine con cui il ragazzo si dissociava dalla «comunità popolare» e dal suo linguaggio popolar-nazionale ricorda i compagni di scuola descritti ne ««Il cattivo compagno» – uno dei più duri aforismi dei Minima moralia, non compreso nella prima edizione italiana dell’opera - i quali, già indignati dalle frasi troppo lunge del ragazzo, dopo il ’33 si sarebbero scandalizzati per il carattere decadente dell’alta letteratura tedesca. Scrive Adorno: A ben vedere potrei dedurre il fascismo dai ricordi della mia infanzia. Molto tempo prima di arrivare vi aveva spedito i suoi messaggeri, come un conquistatore in lontane province: i miei compagni di scuola. Se la classe borghese coltiva da tempo immemorabile il sogno della selvaggia comunità popolare, dell’oppressione di tutti ad opera di tutti, ragazzi che si chiamavano già con nomi come Hornst e Jüngen e cognomi come Bergenroth, Bojunga e d Eckhardt, hanno incarnato il sogno prima che gli adulti fossero storicamente maturi per realizzarlo. Ed io avvertii con tanta evidenza la violenza dell’incubo spaventoso a cui tendevano, che ogni felicità mi apparve – in seguito – provvisoria e revocabile. L’avvento del Terzo Reich colse di sorpresa il mio giudizio politico, ma non la mia inconscia predisposizione angosciosa. Tutti i motivi della catastrofe permanente mi avevano sfiorato così davvicino, i segni premonitori del risveglio tedesco erano stati impressi così indelebilmente in me, che riconobbi poi ogni cosa nei tratti della dittatura hitleriana […]. I cinque patrioti che si precipitavano su un compagno isolato per coprirlo di botte e lo denunciavano come traditore della classe quando si lamentava presso 145 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
l’insegnante, non sono gli stessi che torturavano i prigionieri per punire la spudoratezza di quelli che, all’estero, sostenevano che i prigionieri venivano torturati? Quelli che scatenavano un pandemonio a non finire quando il primo della classe commetteva uno sbaglio – non hanno circondato, sogghignando imbarazzati, il detenuto ebreo, e non l’hanno schernito quando cercava troppo maldestramente di impiccarsi? Quelli che non riuscivano a scrivere una frase che stesse in piedi, ma trovavano troppo lunga ciascuna delle mie- non liquidarono la letteratura tedesca per sostituirla con la loro cattiva produzione? […] Non ho più bisogno di sognarmeli da quando, pubblici ufficiali e candidati della morte, sono emersi in piena luce del giorno e mi hanno privato del mio passato e della mia lingua. Nel fascismo l’incubo della mia infanzia è giunto a se stesso[2].
A muovere il signor Dreibus, così come i compagni di scuola del giovane Adorno, è un rancore cieco, una sorda ostilità verso un linguaggio che cerchi di sottrarsi all’immediatezza, alla rassicurante parvenza di comprensibilità. La frase troppo lunga, la parola ricercata, come poi la stessa letteratura classica tedesca furono considerati dai funzionari nazisti dei fenomeni decadenti, degli insulti al popolo, delle irriverenti minacce. Perché? Nella pagina sopra citata, Adorno si riferisce alla condizione psichica della «persone rabbiose, per le quali l’uva è troppo in alto». L’intellettuale, insomma, godrebbe di un privilegio che al signor Dreibus e ai suoi pari sarebbe negato. Ma quale? Marcuse in alcune pagine apparse nel 1965 con il titolo: Remarks on a Redefinition of Cultur, sostiene che l’intellettuale, con nel suo ostinato tentativo di rimanere fedele all’ideale dell’humanitas ferocemente negato dal tardocapitalismo, nega la divisione del lavoro su cui questo si fonda: Nella sua forma e direzione prevalente, il progresso di questa civiltà richiede un pensiero di tipo operativo e comportamentistico ed esige che si accetti la razionalità produttiva dei sistemi dati, difendendoli e migliorandoli, non certo negandoli. E il contenuto (che è per lo più un contenuto nascosto) della cultura superiore consisteva proprio […] in tale negazione: in un atto di accusa contro la distruzione istituzionalizzata delle potenzialità umane e in un impegno preso di fronte a quella speranza che la società nella sua forma costituita ha denunciato come «utopica». Certamente la cultura superiore ha sempre avuto un carattere affermativo, in quanto distaccata dalla fatica e dalla miseria di coloro che con il loro lavoro riproducevano la società di cui essa era cultura; a questo livello la cultura superiore divenne ideologia della società. Ma come ideologia essa era dissociata dalla società, e questa dissociazione era libera di comunicare e di trasmettere la contraddizione, l’accusa e il rifiuto[3].
In altre parole, nella questione della cultura vi è in gioco la divisione sociale del lavoro, croce e delizia di tutti i signori Dreibus che su di essa hanno costruito la loro fortuna economica e il loro fallimento umano. Il solo pensiero dell’intellettuale che, con la sua professione, nega la divisione sociale del lavoro produce in loro un cieco risentimento che non sempre essi riescono a trattenere. Del resto, è un’esperienza che capita sempre più spesso di provare anche nelle città del tardo capitalismo peninsulare, dove le vacche sono sempre più magre e il risentimento sociale è esasperato dalla paura collettiva della recessione. Ad esempio, qualcosa di simile accadde ad Andrea 146 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Tagliapietra e a me in un viaggio in treno da Venezia a Milano, che trascorremmo discutendo di questioni filosofiche, declinate nel senso di una teoria critica della società. Nel nostro stesso scompartimento, non distante da noi, era seduto un uomo sulla sessantina, acconciato come potrebbe esserlo un magnaccia arricchito, anche se probabilmente faceva un altro lavoro; vestito con un completo da grandi magazzini ma dotato di gadget aggiuntivi come l’orecchino, la camicia sbottonata, il petto villoso in evidenza e bel po’ di gel per mettere ordine ai pochi capelli rimasti. Ad accompagnarlo vi era una donna che l’attuale canone estetico non avrebbe dubbi nel considerare avvenente: piuttosto giovane, vestita come potrebbe esserlo un’aspirante velina in occasione di un colloquio di lavoro. Pensando di essere ormai solo con la sua signora (lo scompartimento era semi-deserto), l’uomo sentenziò che persone come noi, le quali egli aveva genericamente identificato come «intellettuali», si meritano di guadagnare una miseria e di essere, in ultima istanza, degli «sfigati» perché non servono a nulla e perdono la vita in chiacchiere. Il bipede implume, quando si sente messo in discussione, soprattutto di fronte alle sue femmine, diventa aggressivo. L’intellettuale, anche quando non si esprima con parole straniere ma provi semplicemente a rappresentare un punto di vista sottratto anche solo di un passo al cerchio magico dell’esistente (Adorno parlava di «tre passi di distanza»), attira su di sé l’odio di chi ha deciso che il profitto economico è l’unico criterio dell’esistente, giacché il denaro, che ha ricevuto in dono dall’Occidente borghese, come Marx osservò ironicamente nel Capitale, tutti gli attributi teologici del Dio cristiano (ma già Erasmo definì Plutone, il dio del denaro, «padre degli uomini e degli dèi»[4]), è in grado di rendere anche il più deforme e intellettualmente inabile dei bipedi un uomo interessante e sessualmente desiderabile, purché non vi sia qualcuno il quale, componendo frasi troppo lunghe e magari incastonate di parole straniere o comunque non previste dallo slang televisivo oggi imperante, scopra, sia pur involontariamente, la vanità della finzione. Non l’intellettuale critico, dunque, ma semplicemente colui che si sottragga al referendum popolare permanente indetto da giornalisti e presentatori televisivi per abrogare per legge ogni frase non immediatamente comprensibile sarà oggetto dell’odio o del disprezzo del signor Dreibus e dei suoi cloni contemporanei. Più sottilmente, come scrive Marcuse, «nel mondo amministrato» la mentalità protocollare e comportamentistica che ad esso conviene considera «il residuo non tradotto», ovvero non ancora integrato nella società, che l’alta cultura si sforza di rappresentare come una «speculazione ormai obsoleta»[5]. Adorno torna varie volte sul tema. Nel primo aforisma dei Minima moralia, dedicato a Marcel Proust, egli scrive: Il figlio di genitori benestanti che, non conta se per talento o per debolezza, prende una professione, come si dice, intellettuale, quella dell’artista o dello studioso, si trova particolarmente a disagio tra coloro che portano il nome stomachevole di colleghi. Non solo gli si invidia la sua indipendenza, si diffida della serietà delle sue intenzioni, e 147 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
si sospetta in lui l’inviato segreto dei poteri costituiti. Questa diffidenza è bensì prova di risentimento, ma sarebbe, per lo più, giustificata. Ma le resistenze vere e proprie sono altrove. Anche l’attività spirituale è diventata, nel frattempo, «pratica», un’azienda con rigida divisione del lavoro, branche e numerus clausus. Chi è materialmente indipendente e la sceglie perché rifugge dall’onta del guadagno, non sarà incline a riconoscere questo fatto. E per ciò sarà punito. Non è un professional: è considerato, nella gerarchia dei concorrenti, un dilettante, indipendentemente dalla qualità delle sue conoscenze, e, se vuol fare carriera, deve battere, in ostinazione e chiusura mentale, anche lo specialista più borné. La sospensione del lavoro, a cui tende e che la sua situazione economica gli consente, entro certi limiti, di realizzare, è particolarmente sospetta, in quanto tradisce la ripugnanza a sanzionare il tipo di lavoro imposto dalla società; e la competenza trionfante non tollera queste idiosincrasie. La scompartimentazione dello spirito è un mezzo per liquidarlo dove non è esercitato ex officio, e un mezzo che funziona tanto più egregiamente in quanto colui che denuncia la divisione del lavoro (anche solo in quanto il suo lavoro gli procura piacere) scopre – dal punto di vista di quella – punti deboli che sono inseparabili dalla sua superiorità. Così si provvede alla conservazione dell’ordine: gli uni devono collaborare, perché altrimenti non potrebbero vivere, e quelli che potrebbero vivere altrimenti, vengono tenuti al bando perché non vogliono collaborare[6].
A essere onesti con il signor Dreibus, egli non è il solo a irritarsi contro il ragazzino che, per condizione materiale o per altre ragioni, affermi la propria indipendenza dal sistema. Anche gli intellettuali, magari proprio quelli impegnati, gli saranno ostili perché in lui vedranno rispecchiata la loro cattiva coscienza – vedranno, come in uno specchio, la vergogna di aver degradato il prodotto dell’attività spirituale, qualunque cosa significhi questa parola, a merce, avendo scelto di esercitare il proprio mestiere in una filiale di qualche multinazionale, quand’anche questa si chiami «Università degli studi di…». L’intellettuale indipendente sarà per forza un dilettante, magari elegante, raffinato; i suoi scritti, talvolta, potranno essere sottratti all’oblio dal gesto neutralizzante della citazione; non di meno egli resta inutile, giacché non si esprime accademicamente, non contribuisce «alla crescita del sapere» insomma, non fa nulla di utile. Essi, probabilmente, sanno benissimo che, come scrive Marcuse, l’esistenza dell’intellettuale è motivata proprio dalla negazione del criterio dell’utile: lo sanno e, finché si tratta di redigere un articolo, poniamo, su Montaigne, possono anche perorare la causa dell’inutile. Resta il fatto che è impossibile eleggere Montaigne a modello dell’attività intellettuale odierna, se essa vuole essere scientifica, produttiva e quindi, ad esempio, capace di ricevere dei finanziamenti. Montaigne può essere citato (benché non sempre si citi ciò che si è letto), ma certamente non può essere imitato, perché oggi bisogna essere scientifici, oggettivi. Del resto, che cosa potrebbe dire, Montaigne, in occasione di un convegno internazionale di studi? Quale relazione terrebbe? Che figura farebbe, uno come lui, in una trasmissione televisiva o radiofonica? Riuscirebbe a dire anche solo una frase ad effetto – una frase che scandalizzi e al tempo stesso rassicuri il telespettatore, mandandolo a letto persuaso di aver contribuito al proprio necessario aggiornamento culturale (giacché «non si vive di solo pane»)? 148 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Forse il discorso potrebbe chiudersi qui: l’intellettuale, come la cultura, come la filosofia, è inutile – va eliminato, marginalizzato, dimenticato. Egli, lo sappia o meno, nega la legge del valore, si sottrae alla divisione del lavoro, sogna un mondo nel quale l’equivalente generale non abbia alcun potere sulla vita umana. La cultura è una promessa per chi spera in una società, in un’umanità conciliata con sé stessa e con la natura[7] - ma è una minaccia per chi, volontariamente o meno, si sia schierato dalla parte del potere dominante, della legge del valore, del feticcio dell’utile. La cultura, se posso esprimermi in un modo forse troppo enfatico, è, in un modo sempre più marcato, un «segno di contraddizione» - è ciò che la società basata sull’equivalente generale non può più tollerare. Il potere dominante non ha sempre osteggiato la cultura; al contrario, per un lungo periodo l’ha addirittura promossa - ma oggi vi è sempre meno tolleranza, ovvero sempre meno ipocrisia a riguardo, giacché la legge del valore ha pervaso di sé ogni risvolto dell’esistenza, senza nulla lasciare all’inutile. Il telespettatore che la sera senta il bisogno di «informazione-formazione», ovvero l’unico «fruitore» di cultura ancora rimasto, è ormai quasi senza residui una pedina dell’industria culturale, giacché sforzandosi di restare sveglio per guardare un film in terza serata o per assistere a un «interessante» dibattito intellettuale egli prolunga parossisticamente nel tempo libero la legge dell’utile. Tuttavia il pensiero di Adorno è, come è noto, un pensiero dialettico, e i Minima moralia ne sono forse la prova migliore. Il primo aforisma, dedicato a Marcel Proust, va letto assieme al numero ottantasei, dedicato al meno colto Hänschen klein. L’intellettuale, specie se filosoficamente orientato, è escluso dalla prassi materiale. Un senso di nausea di fronte ad essa lo ha indotto ad occuparsi delle cose cosiddette spirituali. Ma la prassi materiale, non solo è premessa della sua stessa esistenza ma è alla base del mondo la cui critica fa tutt’uno col suo lavoro. Se non sa nulla della base, mira a vuoto. Egli si trova di fronte all’alternativa: informarsi o volgere le spalle all’odiosa realtà. Informandosi, fa violenza a se stesso, pensa contro i propri impulsi, e rischia per giunta di divenire volgare come ciò di cui si occupa, perché l’economia non tollera scherzi, e chi la vuole anche solo comprendere deve «pensare economicamente». D’altra parte, evitando di occuparsi di queste cose, ipostatizza come assoluto il proprio spirito, che, in realtà, si è formato solo sulla realtà economica e sull’astratto rapporto di scambio, mentre lo spirito potrebbe diventare tale solo nella riflessione sul proprio condizionamento. […] L’isolamento dello spirito dal commercio fornisce una comoda ideologia per il commercio dello spirito. […] Solo chi si mantiene relativamente puro, ha odio, nervi, libertà e mobilità sufficienti per resistere al mondo, ma è proprio nell’illusione della purezza, vivendo in «terza persona», che egli lascia trionfare il mondo, non solo all’esterno, ma anche nell’intimo dei suoi pensieri. Ma chi conosce fin troppo bene il meccanismo, perde – proprio per ciò – la capacità di riconoscerlo: sparisce in lui la sensibilità alla differenza, e, come gli altri il feticismo culturale, così lo minaccia la caduta nella barbarie. La contraddizione per cui gli intellettuali sono, nello stesso tempo, profittatori della cattiva società, e quelli dal cui lavoro – socialmente inutile – dipende in larga misura il successo di una società emancipata dall’utilità, non è di quelle che si lasciano accettare una volta per tutte e mettere definitivamente da parte. È una contraddizione che consuma senza tregua la qualità oggettiva. Comunque agisca, 149 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
l’intellettuale sbaglia. Egli sperimenta radicalmente, come una questione di vita, l’umiliante alternativa di fronte alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi sudditi: diventare un adulto come tutti o restare un bambino[8].
Giovannino è il bambino che, secondo un Lied molto noto in Germania, «se ne andò solo per il vasto mondo»; - quello stesso mondo che circonda, stringe e in ultima istanza soffoca l’intellettuale che, rimanendo tenacemente fedele all’infanzia, neghi la propria collaborazione. Eppure indossare i panni dell’intellettuale indipendente, atteggiarsi a nuovo Montaigne ritirandosi nel proprio studio (che non sarà più l’ala di un castello) per «saggiare sé stesso» è davvero impossibile, non tanto perché tutto questo sarebbe improduttivo ma, al contrario, perché c’è il forte sospetto che colui che così faccia non sia diverso dal mondo al quale egli vorrebbe sottrarsi. «Non c’è vera vita nella falsa», scrive Adorno nei Minima moralia; e chi si sottrae al sistema, rivolgendogli ogni tanto un’occhiata, sia pure distratta e fugace, per vedere «che cosa c’è di nuovo», lo riconosce e lo avvalora, tanto più in quanto egli trae piacere dal proprio lavoro. L’intellettuale che chiude la porta del proprio studio per non essere disturbato dal gioco dei bambini non è molto diverso dal padre che rincasa quando ormai è ora di cena, irritato da tutte le seccature della giornata lavorativa e perciò poco disponibile ad ascoltare i racconti inutili e tediosi dei suoi figli. In entrambi i casi, il mondo che tradirà quei bambini, negando ferocemente la felicità da qualche parte intravista, è consapevolmente accettato, implicitamente riconosciuto come legittimo. Comunque agisca, l’intellettuale sbaglia. II. C’è un modo per risolvere questa contraddizione? Adorno, in un corso universitario dedicato alla Metafisica, nel quale manifesta una stima inconsueta, ma in fondo molto hegeliana per lo Stagirita, sembra rinvenire nella tesi aristotelica di Dio quale pensiero di pensiero la candida confessione del vizio originario di ogni riflessione filosofica. Vi faccio notare solo en passant che questa tesi esposta in Aristotele con un certo candore, per non dire ingenuità, si mostra un paradosso o un’assurdità che scompare poi nella raffinatezza con cui questi pensieri ritornano infine al culmine dell’idealismo tedesco […]. E cioè: qui è evidente la domanda- e sarebbe anche la domanda da rivolgere a ogni idealismo: in fondo cosa significa spirito, cosa significa pensare, cosa significa conoscere, se si pensa solo se stesso? Non è perciò l’Assoluto, il pensiero stesso e con ciò l’Assoluto in quanto deve essere pensiero, un’unica gigantesca tautologia? Questo momento, come vi dicevo, ritorna poi più tardi nell’idealismo; ma qui è appunto evidente in tutta la sua enormità. E il dio, che in fonda non pensa altro che se stesso, con questa concezione si avvicina un po’ a quella specie di osservatore dell’ombelico che potete vedere in questo edificio [il testo è la trascrizione non rivista dall’autore di un ciclo di lezioni tenute all’Università Johann Wolfang Goethe di Francoforte] nella statua di un cosiddetto sapiente di cui si ha la sensazione che rappresenti l’essere e rifletta sull’essere; e l’essere gli dica continuamente: essere, essere, essere. […] In ogni caso qui c’è un momento assolutamente fondamentale per il concetto di filosofia, cioè il modello dell’autoriflessione. Se il pensiero divino deve essere pensiero di pensiero, in ciò in fondo è anticipato, come un principio metafisico, 150 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
ciò che poi è precisamente quella intentio obliqua che non è ancora presente in Aristotele in quanto tale: cioè che la filosofia ha il suo concetto non nel fatto che pensa degli oggetti, che pensa il suo Altro,bensì che si costituisce grazie alla riflessione su se stessa[9].
L’autoriflessione metafisica, la riflessione del pensiero su sé stesso, sulle proprie condizioni di possibilità, è un momento decisivo dell’Aufklärung, giacché solo così esso può separarsi dall’identificazione mitica con le forze cieche della natura. Ma come Horkheimer e Adorno avevano scritto nella Dialektik der Aufklärung a proposito dell’episodio omerico del canto delle sirene, questo distacco della ragione dalla natura è possibile solo a prezzo della marginalizzazione sociale dell’intellettuale. Odisseo deve farsi legare al palo per poter ascoltare il canto delle sirene, ovvero il residuo mitico della natura ancora non antropomorfizzata, senza identificarsi miticamente con ciò che vorrebbe annullarlo: Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti, e lasciar stare tutto ciò che è a lato. L’impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato – con rabbiosa amarezza – in ulteriore sforzo. Essi diventano pratici. L’altra possibilità è quella che sceglie Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé. Egli ode [il canto delle Sirene], ma impotente, legato all’albero della nave, e più la tentazione diventa forte, e più strettamente si fa legare, così come, più tardi, anche i borghesi si negheranno tenacemente la felicità quanto più – crescendo la loro potenza – l’avranno a portata di mano. Ciò che egli ha udito resta senza per lui senza seguito: egli non può che accennare col capo di slegarlo, ma è ormai troppo tardi: i compagni, che non odono nulla, sanno solo del pericolo, non della sua bellezza, e lo lasciano legato all’albero, per salvarlo e salvare sé [stessi] con lui[10].
L’intellettuale, sin dal suo esordio nella figura dell’«astuto» Odisseo, vive alle spalle della classe lavoratrice, dedicandosi solo alla contemplazione socialmente inutile di una natura che ormai sta miticamente alle spalle. Nella tragica impotenza di questo sguardo vi è il riflesso di tutta l’ambiguità del gesto creatore della civiltà, la quale è salvezza e prigione dell’uomo. Tuttavia la storia non è una variabile accidentale e ciò che in Aristotele era ancora legittimo, giacché rispecchiava l’esigenza che la vita buona, qualora questa sia davvero una condizione scelta per sé stessa, una forma di vita libera dalle contaminazioni con la prassi, si identifichi con il puro pensiero razionale[11], oggi, dopo Auschwitz, è un’operazione solamente ideologica. Noi – noi filosofi – «abbiamo perso la nostra innocenza»[12]: non possiamo più fare metafisica come se nulla fosse accaduto. Un circolo di aristotelici i quali, oggi, cercassero di praticare la filosofia, dedicandosi a una forma comunitaria di «vita contemplativa», non si scontrerebbero solo con l’inevitabile dubbio sulla possibilità di realizzare un simile progetto, ma, ben più drammaticamente, si troverebbero imbarcati in un’impresa di segno radicalmente diverso da quella dello Stagirita. In altre parole, costoro non sarebbero solo un po’ ingenui ma, ben peggio, sarebbero complici del potere sociale dal quale pure essi vorrebbero prendere le distanze. Perché mai? 151 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
Perché nella metafisica, in ogni metafisica, «la realtà è trasformata in un positivo, in qualcosa che, se non è già perfetto, per lo meno tende alla perfezione». Questo pensiero, portando il mondo al suo concetto, e facendo del concetto stesso la realtà suprema e perfetta, ha già la tendenza a giustificare il mondo stesso nel suo stato che è così e non altrimenti[13].
La metafisica suggerisce la rassicurante convinzione che l’esistente abbia in quanto tale un senso. Ma «finché il mondo è quello che è, tutte le immagini della conciliazione, della pace e della quiete assomigliano a quelle della morte»[14]. Nella forma heideggeriana, particolarmente invisa ad Adorno, tale presupposizione è ancora più inaccettabile giacché suggerisce che il senso autentico, positivo, dell’esistenza del bipede implume, del Dasein, sia dato dal suo essere-per-la-morte: ma ad Auschwitz il potere ha smascherato la finzione dei suoi apologeti esistenziali poiché ha squadernato l’orribile verità che c’è qualcosa di peggiore della morte: c’è la tortura, la sistematica violenza, la riduzione dell’uomo a saponetta, o a consumatore inebetito e sempre più violento della saponetta prodotta nei campi di concentramento. Ad Auschwitz la cultura, e con essa il suo procuratore legale, il metafisico, ha dichiarato fallimento: L’integrazione della morte nella cultura dovrebbe essere teoreticamente revocata, però non per amore dell’essenza ontologicamente pura della morte, ma per quello che il lezzo del cadavere esprime e su cui inganna la sua trasformazione in salma. Un proprietario di albergo, di nome Adamo, uccideva con un bastone i topi che uscivano da fori nel cortile davanti agli occhi del figlio, che gli voleva bene; a sua immagine il bambino si è fatta quella degli altri uomini. Il fatto che ciò venga dimenticato, che non si capisca più quel che si è provato davanti alla macchina dell’accalappiacani, è il trionfo, e il fallimento, della cultura. Essa non può più tollerare il ricordo di quella zona, perché essa fa continuamente come il vecchio Adamo, e proprio questo è inconciliabile con il suo concetto di se stessa. Essa abborrisce il lezzo, perché essa puzza, perché il suo palazzo è costruito di merda di cane, come dice un passo grandioso di Brecht. Anni più tardi che fu scritta tale frase, Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non ria riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità. Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura[15].
L’industria culturale è solo l’altra faccia, quella “democratica”, dell’ autoliquidazione della cultura ad Auschwitz. Là dove l’arte classica si basava su una dialettica, variamente modulata, di serietà e serenità, ovvero di tristezza per il corso del mondo e di distacco giocoso da esso, di rispecchiamento della contraddizione sociale e di libertà da ogni vincolo sociale, dopo Auschwitz l’arte non può fare finta che nulla sia accaduto. Se il vecchio Adorno è disposto a ritrattare la frase che dopo Auschwitz non si possa più scrivere una 152 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
poesia (mentre non revoca il dubbio che sia ancora possibile esistere), ciò non toglie che non si possano più scrivere poesie semplicemente “serene”. Da quanto l’arte è stata presa per la cavezza dall’industria culturale e si allinea fra i beni di consumo, la sua serenità è sintetica, falsa, stregata. Nessuna serenità è conciliabile con l’arbitraria imposizione al cliente. Il rapporto pacificato della serenità con la natura esclude ciò che questa manipola e calcola. […] Lí dove oggi la serenità si mostra è deformata perché comandata, fino all’infausto «eppure» di quella tragicità che si consola sostenendo che la vita è fatta cosí. L’arte, che non è più affatto possibile se non riflessa, deve da sé rinunciare alla serenità[16].
Nell’oggettiva regressione della grande arte borghese nel kitsch dell’industria culturale, dove la serenità della prima si rovescia nell’accecamento della seconda, la cultura ha mostrato il suo vero volto. È la tesi di uno dei molti aforismi dei Minima moralia dedicati all’industria culturale: Palazzo bifronte. Volendo collocare il sistema dell’industria culturale in una prospettiva storica universale, occorrerebbe definirlo come lo sfruttamento sistematico dell’antichissima frattura tra gli uomini e la loro cultura. L’ambivalenza del progresso, che ha sviluppato sempre e allo stesso tempo il potenziale della libertà e la realtà dell’oppressione, ha prodotto l’integrazione sempre più completa dei popoli sotto il dominio della natura e li ha resi capaci, sotto la costrizione della cultura, di comprendere ciò che, nella cultura, trascendeva quell’integrazione. […] Le grandi opere d’arte e costruzioni filosofiche sono rimaste incomprese non per la loro eccessiva distanza dal nocciolo dell’esperienza umana, ma per il motivo opposto, e l’incomprensione stessa si potrebbe facilmente ricondurre ad un’eccessiva comprensione: la vergogna di partecipare all’ingiustizia universale, vergogna che diventerebbe intollerabile se ci si permettesse di comprendere […]. Di questo inevitabile accecamento hanno parassitariamente vissuto, in tutte le epoche della civiltà urbana, i lacchè dello stato di cose esistente; la tarda commedia attica, l’artigianato ellenistico sono già kitsch, pur non disponendo ancora della tecnica di riproduzione meccanica e di quell’apparato industriale di cui le rovine di Pompei sembrano evocare il modello originario[17].
Se la contraddizione dell’intellettuale era ancora tollerabile al tempo di Aristotele, giacché, nonostante tutto, la sua concezione della «vita contemplativa» conteneva, sia pure astrattamente, la promessa della liberazione dalla schiavitù del bisogno, oggi tutto questo non è solo un’ingenuità di cattivo gusto ma una forma solo più sottile di complicità con il dominio. III. Ciò non di meno la cultura non va per questo liquidata, come Marcuse scrive con molta lucidità in un saggio del 1937: Über den affirmativen Charakter der Kultur. Per «cultura affermativa» egli intende la cultura che, in epoca borghese, ha ripreso la separazione già aristotelica del bello e del buono dall’utile e dal necessario[18]. In un’epoca profondamente condizionata dal concetto cristiano di trascendenza tale separazione viene espressa in maniera enfatica nell’idea di anima: 153 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
L’idea che a fondamento della cultura stiano i valori dell’anima, è costitutiva, almeno da Herder in poi, del concetto affermativo di cultura. I valori dell’anima definiscono la cultura di contro alla mera civiltà materiale[19].
La differenziazione della cultura dell’anima dalla prassi materiale non è mai intesa contro di essa. «La cultura deve compenetrare e nobilitare il mondo dato, non crearne uno nuovo al suo posto. Così essa eleva l’individuo, senza però liberarlo dal suo effettivo avvilimento»[20]. In questo sta il carattere «ideologico», nel senso marxiano del termine, della cultura affermativa. L’essenza stessa della cultura affermativa, come Adorno scriverà nella Dialettica negativa, è la ragione del suo drammatico fallimento nei campi di concentramento. Ma già Marcuse, prima che tutto questo raggiungesse il suo apice, scriveva: L’anima ha aiutato la tarda borghesia ad affossare i suoi ideali di un tempo. «E’ l’anima che importa» si adatta bene come slogan, quando ciò che importa è ormai solo il potere[21].
O con le parole di Adorno: Lo spirito, come metafisica e come arte, si neutralizza quanto più ciò di cui la società era fiera come la propria cultura perde la relazione con la prassi possibile. […] Le condizioni materiali vi contribuiscono di proprio. Sotto la costrizione dell’investimento allargato il capitale si impadronisce dello spirito, le cui oggettivazioni grazie alla propria e inevitabile reificazione invitano a trasformarle in possesso, merce. Il compiacimento privo di interesse dell’estetica trasfigura lo spirito e lo abbassa, poiché si accontenta di osservare, ammirare tutto quello che un tempo è stato creato e pensato, giungendo a venerarlo ciecamente e senza relazioni, senza riguardo al suo contenuto di verità. Il carattere di merce dilagante estetizza con sarcasmo oggettivo la cultura per amore dell’utile[22].
Eppure tutto questo non significa ancora che la cultura vada semplicemente sostituita dalla prassi rivoluzionaria (o dall’irrazionalistica affermazione della volontà di potenza, secondo la versione reazionaria della stessa critica). La vera critica della cultura è il riconoscimento della sua dialettica. Scrive Marcuse, di seguito al passo sopra citato: Ma ciò che importa è veramente l’anima, cioè la vita inespressa, incompiuta dell’individuo. Nella cultura dell’anima hanno trovato accesso, sotto una forma falsa, quelle forze e quei bisogni che non hanno trovato posto nell’esistenza quotidiana. L’ideale della cultura ha accolto in sé l’aspirazione ad una vita più felice: all’umanità, alla bontà, alla gioia, alla verità e alla solidarietà. Ma questi valori portano tutti il segno affermativo di appartenere ad un mondo più alto, più puro, non quotidiano. Essi vengono interiorizzati come doveri della singola anima […] oppure rappresentati come oggetti dell’arte (e così la loro realtà viene assegnata ad una sfera che per sua essenza non è quella della vita effettiva). Non è senza motivo che l’ideale della cultura venga qui esemplificato soprattutto ricorrendo all’arte: solo nell’arte la società borghese ha tollerato la realizzazione dei propri ideali e li ha presi sul serio come rivendicazione universale. Nell’arte è permesso ciò che nella realtà dei fatti è considerato utopia, 154 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
fantasticheria, sovvertimento. La cultura affermativa ha mostrato nell’arte le verità dimenticate su cui l’adattamento alla realtà trionfa nella vita quotidiana[23].
Adorno esprime una simile dialettica della cultura nell’aforisma «Il bagno col bambino dentro». Tra i motivi della critica della cultura ha sempre occupato un posto centrale il motivo della menzogna. La cultura prospetta l’immagine di una società umana che non esiste; copre e dissimula le condizioni materiali su cui si eleva tutto ciò che è umano, e, con la sua azione calmante e consolatrice, contribuisce a tenere in vita la cattiva struttura economica dell’esistente. È la tesi della cultura come ideologia, comune, a prima vista, alla teoria borghese della violenza e alla teoria opposta, a Nietzsche e a Marx. Ma questa idea, come ogni invettiva contro la menzogna, ha un’ambigua tendenza a trasformarsi a sua volta in ideologia[24].
L’ambigua figura incontrata nel treno Venezia-Milano potrebbe forse concordare con la critica marxiana della cultura come ideologia, soprattutto se non le è venuto all’orecchio che Marx è l’ispiratore di quei comunisti i quali, certamente, vorrebbero strappargli collana, orecchini, orologio dorato e forse anche un campione dell’ampio materiale villoso diffuso sul suo petto. Se la cultura è ideologia giacché nasconde la realtà che i rapporti economici sono l’unica cosa reale, non ne segue che destra e sinistra, borghesi e proletari, reazionari e rivoluzionari possono trovare un’imprevista convergenza nella di lei liquidazione? Così, almeno in taluni casi, è accaduto, senza che la causa rivoluzionaria ne abbia tratto alcun giovamento. «Dacché è stata liquidata l’utopia [presente nella cultura] ed è stata posta l’esigenza dell’unità di teoria e prassi, si è diventati troppo pratici»[25]. - Identificare semplicemente cultura con menzogna è tanto più fatale in un momento in cui, di fatto, quella trapassa completamente in questa, e sollecita alacremente questa identificazione per compromettere ogni pensiero deciso a resistere. Se chiamiamo realtà materiale il mondo del valore di scambio, e cultura tutto ciò che rifiuta di accettare il suo dominio, questo rifiuto è senza dubbio apparente finché quella realtà sussiste: ma poiché il libero ed equo scambio è di per sé la menzogna, ciò che lo nega parla anche per la verità: e di fronte alla menzogna del mondo delle merci diventa un correttivo la menzogna che lo denuncia. Che la cultura abbia finora fallito il suo compiuto, non è una buona ragione per promuovere questo fallimento, e fare come Caterinetta che, dopo aver versato la birra, getta anche tutta la farina[26].
Dover scegliere tra menzogna e menzogna, tra la menzogna del valore di scambio e la menzogna del valore dell’anima, non è propriamente la condizione preferibile, soprattutto se si condivide l’affermazione centrale della critica adorniana a Hegel: che la negazione determinata non dà luogo a una più alta sintesi positiva, ovvero che non c’è conciliazione[27]. Non sarebbe quindi il caso di leggere l’aforisma citato nel senso, a dire il vero piuttosto improbabile, secondo il quale la menzogna culturale, in quanto opposta alla menzogna dello scambio materiale, si rovescerebbe, con un colpo di bacchetta magica, in verità. La cultura affermativa resta menzogna, una 155 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
menzogna fallimentare, e il suo fallimento non muta di segno. Ma il punto è che non bisogna nemmeno, come suggerisce il titolo dell’aforisma, «gettare via il bambino con l’acqua sporca». L’affermazione della cultura e l’affermazione del valore di scambio sono entrambe menzogne; ma la negazione della menzogna culturale, ferma restando quella del valore di scambio, non è verità. In altre parole, dedicarsi anima e corpo all’economia, alla politica, allo studio delle istituzioni, con la scusa che tutto il resto è inutile chiacchiera di intellettuali alienati, fa diventare anche troppo pratici, troppo simili all’oggetto al cui studio ci si è dedicati. Forse non aveva del tutto torto la metafisica platonico-aristotelica quando sosteneva che la qualità del pensiero dipende dalla qualità dell’oggetto che esso contempla. Contemplare tutta la vita nient’altro che banconote rende “verdi” di rabbia già nel pensiero. IV. Che fare, allora? Marcuse, almeno nel saggio citato, sembra applicare il metodo della demitizzazione liberale alla cultura. Così come questa era convinta di poter separare, nel Nuovo Testamento, l’autentico messaggio evangelico dalla “scorza” mitica, storicamente determinata e ormai non più credibile dai cristiani moderni, nella speranza di salvare la centralità del riferimento della fede alla Sacra Scrittura, senza alcun sacrificio dell’intelletto, Marcuse sembra voler salvare la grande cultura borghese, senza con ciò sottoscrivere la funzione ideologica che essa ha svolto nella storia[28]. La cultura borghese conteneva indubbiamente l’irrinunciabile esigenza di un mondo finalmente libero dalla costrizione della prassi alienata; ma quest’esigenza era avvolta, per così dire, nelle fasce di un’ideologia funzionale alla conservazione dello status quo. Si pensi ad esempio alla proclamazione del «valore dell’anima»: non è forse vero che il potere vi ha sempre tratto il non piccolo vantaggio di giustificare la miseria dell’esistenza reale? O si pensi alle grandi opere d’arte, commissionate per impreziosire la corte del principe rinascimentale o, più modernamente, l’ufficio del direttore generale di una fabbrica di esplosivi per campi minati, a cui piace far capire che non è alieno agli interessi artistici. La cultura non è mai stata separabile dall’uso sociale fattone dalla classe dominante. Eppure essa contiene un’istanza che trascende ogni società divisa in dominanti e dominati. La soluzione di questa aporia consiste, secondo Marcuse, nel separare il «contenuto» dall’«involucro», «la sostanza» dall’«apparenza» - la cultura dal suo uso da parte del potere. Il superamento reale di queste tendenze non porterà ad uno smantellamento della cultura come tale, ma ad una soppressione del suo carattere affermativo. […] Dal punto di vista dell’interesse dell’ordine esistente, un superamento reale della cultura affermativa non può che apparire come utopico, perché questo superamento è al di là dell’insieme sociale con cui la cultura è stata finora unita[29].
La posizione di Adorno, a mio avviso, è più dialettica, sebbene sia lungi da me l’intenzione di stilare la graduatoria dei dieci pensatori più dialettici della storia dell’Occidente. Ma effettivamente Adorno non può condividere del tutto la posizione di Marcuse, soprattutto nella misura in cui essa tenda a stabilire una 156 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
teoria utile per la vera prassi rivoluzionaria, come talvolta sembra essere nella sua intenzione. La teoria critica della cultura non può risolversi in una teoria rivoluzionaria, dalla quale nemmeno Adorno, del resto, era del tutto immune (sia pure con una postura mai incline alla militanza). Ad esempio nel Discorso su lirica e società del 1957 troviamo scritto che «la lirica è la prova estetica di quel filosofema dialettico», ovvero della tesi hegeliana, «oggi purtroppo disprezzata dalla logica scientifica, secondo la quale soggetto e oggetto non sarebbero in generale poli rigidi e isolati bensì potrebbero venir determinati soltanto in base al processo in cui si consumano e si mutano reciprocamente»[30]. O ancora: La lirica non deve venir dedotta dalla società; il suo contenuto sociale è precisamente l’elemento spontaneo che non consegue già dalla situazione di volta in volta sussistente. Ma la filosofia – di nuovo quella di Hegel – conosce il detto speculativo secondo cui l’individuale è mediato dall’universale e viceversa. Ora ciò significa che anche la resistenza alla pressione sociale non è alcunché di assolutamente individuale bensì in essa si muovono artisticamente, attraverso l’individuo e la sua spontaneità, le forze obiettive dietro spinta delle quali una situazione sociale limitata e limitante oltrepassa se stessa, muovendosi verso una più degna dell’uomo; forze dunque di tutto il complesso, e non semplicemente della rigida individualità che si oppone ciecamente alla società[31].
Qui l’opera d’arte sembra adempiere al compito che Engels, con un tono forse un po’ troppo professorale e francamente incredibile proprio dal punto di vista rivoluzionario, aveva assegnato alla classe operaia – ossia di essere «l’erede della filosofia classica tedesca»[32]. Adorno era molto distante da simili ingenuità filosofiche; eppure non di rado sorge l’impressione che egli abbia assegnato all’opera d’arte la funzione critico-rivoluzionaria che il marxismo affidava alla classe operaia e Marcuse, per un certo periodo, al movimento studentesco. Probabilmente, però, la posizione autentica di Adorno non va cercata in alcuna tesi sistematizzante e forse dovremmo essere più comprensivi nei suoi confronti considerando, come a suo tempo suggerì Montaigne, la quasi inevitabile tendenza del linguaggio al dogmatismo[33]. Tornando, ad esempio, al saggio da cui ho preso le mosse, dopo aver evocato l’incidente con il signor Dreibus Adorno discute la questione del linguaggio riflettendo sul significato, per la lingua tedesca, dei prestiti da altre lingue. È bella e molto proustiana l’osservazione seguente: Il primo impulso alle parole dal di fuori somiglia a quello che ci porta alla fanciulla straniera, magari esotica; ci seduce una specie di esogamia della lingua, la quale vorrebbe uscire dalla cerchia del sempre uguale, dal dominio di ciò che in ogni caso si è e si conosce. A suo tempo le parole straniere ci facevano arrossire come quando si pronuncia il nome di qualcuno che viene amato in silenzio. Questa emozione è odiosa alle comunità popolari che desiderano il minestrone anche nel linguaggio[34].
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Questo primo impulso adolescenziale per le parole straniere, che traduce in termini culturali il desiderio di felicità provato nell’infanzia, quando la gioia si trova in una condizione asintotica - ma proprio per questo tanto più vera – nei confronti della realtà, ha il suo momento di verità. Una pagina costipata di prestiti da lingue straniere ha certamente qualcosa di artificioso, come sa chi abbia confidenza con i volumi di alcuni filosofi italiani contemporanei; eppure ci si deve trattenere dalla reazione infastidita dello studente di filosofia alle prime armi il quale protesta contro quella pagina in nome dell’esigenza di un’immediata comprensibilità, senza accorgersi di dar voce in tal modo alla difesa corporativa della pigrizia intellettuale. Egli presuppone che vi sia un linguaggio autentico e trasparente, usando il quale la realtà, o la chiamata dell’Essere, si presenterebbero al bipede senza menzogna. Non è così. «Nessun linguaggio, nemmeno l’antico linguaggio popolare, è organicità, naturalezza, come le dottrine restauratrici vorrebbero»[35]. L’artificiosità della parola da fuori svolge una funzione di dissonanza, e appunto per questo è tanto fastidiosa alle orecchie del signor Dreibus, abituate ad ascoltare solo il linguaggio delle trasmissioni televisive. Più precisamente, la parola da fuori svolge una funzione illuministica in quanto smaschera la mitologia dell’origine nella sua versione forse più aggiornata: quella della immediata coincidenza di Essere e Linguaggio. La parola straniera ricorda crassamente che tutto il linguaggio reale ha qualcosa del gettone da gioco, confessandosi da sé gettone da gioco. Essa fa da capro espiatorio della lingua, portatrice della dissonanza, che dalla lingua va configurata e non celata con ornamenti. Ciò contro cui ci si ribella nel caso delle parole straniere è non da ultimo il suo mettere a giorno la situazione di tutte le parole: e cioè che la lingua blocca ancora una volta coloro che parlano; che essa probabilmente è fallita come loro medium specifico. La prova si può avere in certe espressioni tedesche che, per amore della chimera dell’originario, sono state inventate per sostituire le parole straniere. Esse sono sempre più straniere e più violente delle parole straniere stesse. Di fronte a queste esse assumono un elemento di menzogna, una pretesa di identità tra discorso e oggetto che tuttavia è contraddetta dalla natura di concetto universale di qualunque discorso. Nel caso delle parole straniere si dimostra l’impossibilità dell’ontologia linguistica […]. La terminologia, quintessenza di parole straniere nelle singolo discipline, in particolare in filosofia, non è soltanto raggelamento realis bensì contemporaneamente anche il suo contrario, critica della pretesa dei concetti di essere in sé […] La terminologia annienta l’apparenza di naturalezza nel linguaggio storico e di conseguenza la filosofia ontologica restauratrice, che vorrebbe contrabbandare le sue parole come essere assoluto […]. In ogni parola straniera è insito il materiale esplosivo dell’illuminismo, nel suo uso controllato è insito il sapere che l’immediato non si può dire immediatamente ma è esprimibile soltanto passando interamente attraverso la riflessione e la mediazione. In tedesco le parole straniere dànno migliore prova di sé di fronte al gergo dell’autenticità, a quei termini sul tipo di compito (Auftrag), incontro (Begegnung), enunciato (Aussage), esigenza (Anliegen) e come altro si chiamano. Essi vorrebbero tutti ingannare sul fatto di essere tutti termini[36].
Questa pagina, come quasi sempre accade, è suscettibile di una duplice lettura. Si può sottolineare la tesi hegeliana secondo la quale, in opposizione tanto alla 158 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
filosofia heideggeriana quanto a quella, solo apparentemente opposta, neopositivista, all’immediato si può giungere soltanto passando attraverso l’intero processo della mediazione («l’immediato come telos della mediazione»[37]). Tuttavia non è questo, almeno così io credo, lo scopo della filosofia di Adorno, benché qualche volta egli davvero si diverta a “hegeleggiare”, soprattutto in polemica con le tendenze filosofiche esistenzialiste o scientiste allora dominanti[38]. Essa, piuttosto, è una filosofia critica nella misura in cui propone un uso «controllato» e consapevole della demistificazione illuministica di ogni mitologia dell’originario. La violentissima conflagrazione innescata dall’Auflärung era inevitabile e salutare, benché resti vero che il compito del pensiero è quello di rendere ragione a quel mito che l’astuzia proto-illuministica di Odisseo ha ingannato ma mai realmente superato, come la barbarie nazista ha tragicamente messo in luce. Ma Adorno non può essere rubricato tra gli intellettuali illuministi perché sa bene, in fondo, che quella critica parla anche contro di lui. Il fallimento della cultura è anche il fallimento del mondo, quello borghese, a cui Adorno appartiene. Per questo, probabilmente, l’intellettuale sbaglia sempre: perché egli non può né separarsi nel suo «mondo culturale» con il gesto negligente dell’aristocratico che, scuotendo le spalle, si schernisce dicendo: ça ne me regarde pas, né ergersi a «coscienza critica» della società alienata, nella pretesa di parlare da un punto di vista sottratto all’alienazione, come, almeno per una volta, concordemente pensano tanto l’illuminismo critico borghese quanto il marxismo rivoluzionario. «Il segreto della sua filosofia è l’impossibilità di pensare fino in fondo la disperazione», scrive Adorno di Kant[39]: ma la stessa osservazione critica poteva essere rivolta anche a Marx, che quando descrive l’atroce condizione del proletariato del suo tempo ha lo sguardo già rivolto società comunista che lo redimerà. Con lo stesso spirito i futuri rivoluzionari avrebbero chiamato i «compagni» a sacrificare sé stessi in nome della società futura. Al contrario, Adorno sa fin troppo bene che un luogo sottratto alla menzogna - sia esso il partito comunista o il tribunale della ragione – non c’è. Ciò non toglie che nell’isolamento intellettuale dell’aristocratico non vi sia nulla di promettente. La teoria critica della cultura che Adorno insegue si muove oscillando, in un equilibrismo molto precario e non sempre facile da cogliere, tra l’isolamento dell’intellettuale aristocratico e l’impegno del polemista illuminato. Ognuno dei due, di per sé preso, è insoddisfacente; - peggio ancora: è complice della menzogna. Il primo, per troppa distanza, non riconosce o finge di non riconoscere che l’incenso che brucia nella sua stanza serve solo a coprire la puzza di merda con la quale essa è stata costruita. Il secondo, con il pretesto di adempiere al ruolo di «coscienza critica», giacché «bisogna sporcarsi le mani», non riesce a celare l’irrefrenabile desiderio di non essere escluso dalla società che a parole disprezza. Il primo si rifugia nella gabbia dorata dell’inutile per non riconoscere che il suo lauto pranzo dipende dalla prassi utilitaristica che egli conosce fin troppo bene. Il secondo proclama l’impegno 159 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
contro l’inutilità della cultura fine a sé stessa perché teme come la morte la propria stessa inutilità sociale di intellettuale. Che fare, allora? Forse possiamo trovare un suggerimento ripensando al finale de «Il bambino con il bagno dentro», là dove Adorno nota che la menzogna della cultura dovrebbe essere intesa come un «correttivo» della menzogna dello scambio di equivalenti. La cultura non è verità ma un correttivo, in sé inaffidabile, di una menzogna più grave. La cultura, naturalmente, non è solo correttivo ma anche complice di questa più grave menzogna; questo ne decreta, appunto, il suo carattere menzognero, come più volte ho sostenuto in queste pagine. Ma in questa menzogna c’è una promessa di verità che davvero non può essere gettata con l’acqua sporca, benché non sia possibile sollevare il bambino e risciacquare la vasca, per poi tornare a immergerlo con lo sguardo compiaciuto del genitore scrupoloso. La situazione reale è molto diversa da queste immagini idilliache e Auschwitz non è che un toponimo tra gli altri per chiamare per nome la cosa di cui si tratta (candiderei il cerro rico di Potosì come eventuale toponimo alternativo[40]). La cultura è parte di tutto questo. Eppure per essa vale ciò che Adorno scrive delle parole straniere, il cui uso forse non del tutto «controllato» ha offeso i radioascoltatori dei Piccoli commenti a Proust: esse devono esprimere con la loro ritrosia stessa l’isolatezza e la coscienza intransigente, impressionare con la loro cocciutaggine: lo choc è forse in ogni caso l’unica possibilità di raggiungere oggi gli uomini per mezzo del linguaggio. Le parole straniere, utilizzate in maniera giusta e responsabile, dovrebbero in una posizione perduta, come i greci nella Roma imperiale, assistere una duttilità, un’eleganza e una levigatezza di formulazione che è andata perduta e il cui ricordo è per gli uomini motivo di irritazione. Esse dovrebbero porre sotto i loro occhi ciò che a tutti sarebbe possibile se non ci fossero più privilegi di istruzione, nemmeno l’incarnazione più recente di tale privilegio, il livellamento di tutti alla semicultura appresa nelle scuole. In tal modo le parole straniere potrebbero conservare qualcosa di quell’utopia del linguaggio, un linguaggio senza terra, non legato alla signoria di ciò che storicamente esiste, che vive inconsapevolmente nel loro uso infantile. Disperate come teschi, le parole straniere aspettano di venir destate in un ordine migliore[41].
Adorno, pur così distante dal messianismo rivoluzionario di Benjamin, usando l’immagine dei teschi che aspettano di essere ridestati difficilmente non avrà pensato alla visione di Ezechiele (Ez. 37), profezia della promessa di Dio di risollevare lo Stato di Israele che quasi ogni ebreo, credente o meno, conosce. Le parole straniere giacciono in una valle di ossa e di teschi, resti di una vita offesa. Queste ossa conservano tuttavia un ricordo – probabilmente di ciò che non si è mai realizzato se non in una forma che già conteneva i germi della propria distruzione. Ma in questo ricordo c’è la promessa di un evento che ridesterà quelle ossa in un mondo libero dalla contraddizione. Uno dei compiti del pensiero è tenere aperta questa speranza grazie al semplice contatto con le cose[42], come ho cercato di mostrare nel saggio pubblicato nel numero precedente di questa rivista. Nel frattempo, però, il ricordo irrita, i teschi ancora non completamente frantumati indignano e innervosiscono chi ha fretta di ripulire la «valle piena di ossa» (Ez. 37, 1) per poter costruire un 160 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
bell’albergo a cinque stelle, che con i suoi moderni confort, la sua cucina tipica e tuttavia sobria, il personale sempre gentile e discreto potrà offrire un periodo di vacanza al grande manager, o anche al semplice impiegato. Ne hanno bisogno entrambi, giacché un duro lavoro li aspetta. _________________________
Note [1] Adorno, T. W., 1958, Noten sur Literatur I, Frankfurt am Main, Suhrkamp, Parole da fuori, in Note per la letteratura. 1943-196, Torino, Einaudi, 1989, pp. 203-204. [2] Adorno, T. W., 1951, Minima Moralia. Reflexionen aus dem bescädigten Leben, Frankfurt am Main, Suhrkamp, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa , Torino, Einaudi, 19792, pp. 230-32. [3] Marcuse, H., 1965, Kultur und Gesellschaft, Frankfurt am Main, Suhrkamp, Note su una ridefinizione della cultura, in Cultura e società, Einaudi, Torino, 19695, p. 283. Poco prima Marcuse aveva scritto: «la cultura è più di una mera ideologia. Tenendo presente i fini professati dalla civiltà occidentale e le sue pretese di realizzarli, definiremmo la cultura come un processo di umanizzazione caratterizzato dallo sforzo collettivo di proteggere la vita umana, di pacificare la lotta per l’esistenza tenendola in limiti controllabili» (ivi p. 280). [4] «Cuius unius nutu, ut olim ita nunc quoque sacra profanaque omnia sursum ac deorsum miscentur. Cuius arbitrio bella, paces, imperia, consilia, iudicia, comitia, connubia, pacta, foedera, leges, artes, ludicra, seria, iam spiritus me deficit, breuiter, publica priuataque omnia mortalium negotia administrantur. Citra cuius opem, totus ille Poeticorum Numinum populus, dicam audacius, ipsi quoque Dii selecti, aut omnino non essent, aut certe oikositoi sane quam frigide uictitarent. Quem quisquis iratum habuerit, huic ne Pallas quidem satis auxilii tulerit. Contra, quisquis propitium, is uel summo Ioui, cum suo fulmine mandare laqueum possit» (Desiderio Erasmo da Rotterdam, 1511, Moriae Encomiom, id est Stultitiae Laus, J. Petit, Paris, § 7, Elogio della Follia, a cura di C. Carena, Einaudi, Torino, 20022, p. 26). [5] Marcuse, H., 1965, p. 287. [6] Adorno, T. W., 1951, pp. 11-12. [7] «Di contro si delinea in Höderlin quello che per la prima volta la cultura sarebbe: natura accolta» (Adorno, T. W., 1974, Noten zur Literatur II, Frankfurt am Main, Suhrkamp, Paratassi, in Note per la letteratura. 1961-1968, Einaudi, Torino, 1989, p. 156). [8] Adorno, T. W., 1951, pp. 153-155. [9] Adorno, T. W., 1998, Metaphysik. Begriff und Probleme, Frankfurt am Main, Suhrkamp, Metafisica. Concetto e problemi, Einaudi, Torino, 2006, pp. 113-115. Su questa tesi insiste, già dalle densissime pagine introduttive, la Negative Dialektik. Ad esempio, dopo aver affermato che «pensare significa identificare», ovvero compiere la infinita violenza di ridurre all’identico il non identico, l’altro dal pensiero, Adorno aggiunge: «La dialettica è la coscienza conseguente della non-identità» (Adorno, T. W., 1966, Negative Dialektik, Frankfurt am Main, Suhrkamp, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 19823, p. 5). Ma proprio in quanto coscienza conseguente della non-identità, la dialettica negativa deve pensare anche contro se stessa, se non vuole ripercorrere la strada della Fenomenologia hegeliana: «Per questo la dialettica – che è insieme riflesso della connessione d’accecamento universale e sua critica - deve in un ultimo momento rivolgersi perfino contro se stessa» (ivi pp. 366-67) [10] Horkheimer, M., - Adorno, T. W., 1947, Dialektik der Aufklärung, Amsterdam, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 19822, pp. 41-42. [11] Cfr. Adorno, T. W., 1973, Philosophische Terminologie, Frankfurt am Main, Suhrkamp, Terminologia filosofica, Torino, Einaudi, 20072, pp. 179 s. [12] Adorno, 1998, p. 120. 161 Giornale Critico di Storia delle Idee, Anno I, numero 2, Luglio-Dicembre 2009 - ISSN 2035-732X
[13] Ivi p. 108. [14] Adorno, 1966, p. 344. [15] Ivi pp. 330-331. [16] Adorno, 1958, p. 277. La tesi che il rapporto tra l’industria culturale e il cliente sia la parodia dello schematismo trascendentale di Kant compare già nella Dialettica dell’Illuminismo: «Nell’anima era all’opera, secondo Kant, un meccanismo segreto che preparava già i dati immediati in modo che si adattassero al sistema della pura ragione. Oggi l’enigma è svelato. […] Per il consumatore non rimane più nulla da classificare che non sia già stato anticipato nello schematismo della produzione» (Horkheimer-Adorno, 1947, p. 131). [17] Adorno, 1951, pp. 173-174. [18] «La separazione [greca] dell’utile e del necessario dal bello e dal godimento è l’inizio di quel processo che apre la strada, da una parte, al materialismo della prassi borghese e, dall’altra, al confinamento della felicità in una zona di riserva della “cultura”» (Marcuse, 1965, p. 44). [19] Ivi p.57. [20] Ibidem. [21] Ivi p. 67. [22] Adorno,1966, pp. 356-57. [23] Marcuse, 1965,, p.67. [24] Adorno, 1951, p. 40. [25] Ivi p. 41. [26] Ibidem. [27] Cfr. Adorno,1966, pp. 127 ss. [28] Per un eccellente esempio di demitizzazione liberale, cfr. von Harnack, A, 1901, Das Wesen des Christentums, Hinrich Leipzig,, L’essenza del cristianesimo, Queriniana, Brescia, 20033. [29] Marcuse,1965, pp. 81-82. [30] Adorno, 1958, p. 54 [31] Ivi pp. 52-53. [32] Engels, F., Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Editori Riuniti, Roma, 19762, p. 78. [33] Cfr. Montaigne, M., Essais, Garnier-Flammarion, Paris, 1979, p. 193. [34] Adorno, 1958, p. 205. [35] Ivi p. 206. [36] Ivi p. 208. [37] Adorno, 1958, p. 156. [38] Cfr. Pettazzi, C., Th. Wiesengrund Adorno. Linee di origine e di sviluppo del pensiero (1903-1949), La Nuova Italia, Firenze, 1979. [39] Adorno, 1966, p. 348. [40] Cfr. Galeano, E, 1994, Las venas abiertas de América Latina, Siglo XXI, Messico-Madrid, Le vene aperte dell’America Latina, Sperling & Kumpfer, Milano, 1997. [41] Adorno, 1958, p. 211. [42] Cfr. Adorno, 1951, p. 304.
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