La Voce del Ribelle - Gennaio 2010

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ISSN 2035-0724

Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 3 - numero 16 - Gennaio 2010

Mensile Anno 3, Numero 16 Direttore politico

Massimo Fini Direttore responsabile

Valerio Lo Monaco

Clima: URGENZE E IPOCRISIE Fini: I DELIRI NEUROLOGICI DELLA MODERNITA’ Dubai: CASTELLI DI SABBIA PER INFANTI MINORATI Intervista: ALAIN DE BENOIST: NOSTALGIA DEL FUTURO Il film: TERRA E LIBERTÀ

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Anno 3, numero 16, Gennaio 2010 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com) Art director: Alessio Di Mauro Hanno collaborato a questo numero: Francesco Bertolini, Eduardo Zarelli, Alessio Mannino, Fulvio Lo Monaco, Germana Leoni, Manuel Zanarini, Simone Olla Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Progetto Grafico: Antal Nagy Mauro Tancredi La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000 Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Agenzie di Stampa: Adn Kronos Il Velino Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008 Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com

Neurodelirium Found di Massimo Fini

Il 2010 del Ribelle di Valerio Lo Monaco

Dubai: altro giro, altra bolla di Federico Zamboni

Intervista ad Alain de Benoist: “Nostalgia del futuro” di Valerio Lo Monaco

Gli alberi della laguna di Francesco Bertolini

Il Clima: una questione di civiltà e destino di Eduardo Zarelli

Berlusconi rockstar? Ma non rocker!

Chiuso in redazione il 28/12/2009

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28 Moleskine gennaio 2010 31 Minareti e dintorni 35 Un avvocato e troppi misteri 40 Bullismo e comunità 45 Stato quotidiano 49 Musica: Le ragioni del vagabondo 52 Il Film: Arriba parias de la tierra 56 Minchiate a 150 all’ora 64 di Alessio Mannino

di Fulvio Lo Monaco di Germana Leoni

di Manuel Zanarini di Simone Olla

di Federico Zamboni Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti.

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di Ferdinando Menconi


Leggo al minimo. Il Tempo divora gli occhi e il resto. Ma “La Voce del Ribelle” merita di vivere. Qualcuno... chissà... Guido Ceronetti


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di Massimo Fini

n giovane genietto di nazionalità per ora sconosciuta, ma probabilmente di origine napoletana se non di residenza, ha creato una singolare azienda, per ora piccola ma già fruttuosa, chiamata "Neurodelirium Found" (NEFO in sigla). Si tratta di un fondo di psicolabili internazionali, particolarmente utilizzabili in prossimità delle feste religiose o in estate perché si sa che questi soggetti in tali periodi perdono anche gli ultimi freni inibitori, cui Potenti e Potentati della terra, previo un congruo compenso in nero attinto dalle riserve occulte dei Servizi, possono attingere quando si trovino in particolari difficoltà. Silvio Berlusconi aveva appena finito di fare, in sede europea, affermazioni talmente gravi e deliranti (anche lui quando avrà dato definitivamente fuori di matto è candidato ad entrare nel pacchetto del "Delirium Found", il genietto lo ha già adocchiato), «il Parlamento è stato occupato dal partito dei giudici di sinistra, la Consulta ormai non è più organo di garanzia, ma politico», da costringere persino il Re Travicello, Giorgio Napolitano, a non fare il solito ammonimento "urbi et orbi", ma a indirizzarlo al presidente del Consiglio, parlando di «violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia volute dalla Costituzione italiana», il presidente della Camera, Gianfranco Fini, a ricordargli il primo articolo della Carta che recita: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (altrimenti il popolo potrebbe decidere legittimamente a maggioranza che, poniamo, tutti quelli che hanno i capelli rossi vanno fucilati), mentre il pur timorato Casini aveva invocato una "union sacrée" contro il Cavaliere che andasse dall'Udc a Rifondazione comu-

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nista,Di Pietro incluso.Ed ecco che spunta un Tartaglia che,alla modica spesa di un naso e due denti rotti, l'equivalente di un pugno ben assestato, riporta tutti a rigar dritto. Napolitano ha ripreso a recitare, rosario in mano, la consueta giaculatoria («abbassare i toni»), la cosiddetta opposizione ha promesso collaborazione, Casini ha ritirato la sua proposta, Sabina Guzzanti, davanti all'immagine del premier insanguinato, è scoppiata in singhiozzi (le tipe non dovrebbero fare politica, hanno una sensibilità perennemente mestruata e la lacrima facile) e Berlusconi ha potuto calarsi nella parte in cui, nella sua proteiforme personalità, più eccelle, quella della vittima. Dimentico di tutte le sue prepotenze e violenze, non solo verbali, si è inventato il "Partito dell'Amore" contro quello dell'Odio (e già questa è una manifestazione di odio) e si può star certi che il suo ruolo di martire gli consentirà di far approvare tutte le leggi che gli premono: un nuovo "lodo Alfano", il "legittimo impedimento", il demenziale "processo breve", il divieto di intercettazioni telefoniche per i reati di "lorsignori", l'abolizione del reato di "concorso esterno in associazione mafiosa" che, a mio parere, è giusta ma che sarà riservata solo ai politici e agli amministratori pubblici in omaggio al principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Perché Benedetto XVI sia voluto quasi cadere per lo strattone della svizzeroitala Susanna Maiolo, trascinando con sé l'ottantasettenne cardinal Etchegaray, appartiene ai misteri vaticani. Berlusconi penserà sicuramente che l'ha fatto per invidia. Ma i misteri d'oltretevere, da Calvi trovato impiccato sotto il ponte londinese dei "Black friars" a Marcinkus, sono sempre così tenebrosi, come si conviene a chi si oppone a Mammona, che è pressoché impossibile trovarne il filo. Lasciamo quindi questo lavoro ai vaticanisti. Il più recente sondaggio condotto negli Stati Uniti sulla guerra in Afghanistan diceva che circa il 60% degli americani è contrario. Ed ecco che spunta fuori questo nigeriano di 23 anni, figlio di un banchiere, che con un petardo legato alle mutande pretende di far saltare un Airbus, così preparato che un passeggero l'ha preso per il collo e l'ha portato di peso nella cabina di pilotaggio. Appena acchiappato il mitomane ha dichiarato: «Sono di Al Quaeda». Ora uno di Al Quaeda l'ultima cosa che dice, e solo sotto tortura alla Guatanamo, è di essere di Al Quaeda. Peraltro Al Quaeda non esiste e se esiste è formata da fannulloni che invece di fare il loro mestiere si ubriacano tutte le sere, in barba al Corano, e vanno a puttane, sempre in barba al Corano. Dovevano esserci, secondo l' "intelligence" americana, organizzatissime basi di Al Quaeda in 66 Paesi nel mondo. In otto anni, dopo l'11 settembre 2001, non hanno fatto un solo attentato (quelli ai treni spagnoli e di Londra furono opera di elementi autoctoni che con Al Quaeda non c'entravano nulla). Ma il comico tentativo di attentato di Abdul Faruk Abdulmutallab permetterà al presidente degli Stati Uniti, il pseudonero e pseudodemocratico Obama Bin Laden, di affermare che bisogna tenere altissima la guardia contro il terrorismo internazionale il cui centro è, naturalmente, l'Afghanistan. Abbiamo chiarito più volte, su questo giornale e altrove, dati alla mano, che gli afgani non sono mai stati terroristi, tantomeno internazionali, tantomeno kamikaze. Sono dei guerrieri, che è cosa diversa. E se dal 2006, dopo un'aspro dibattito interno, hanno deciso di ricorrere, nel loro Paese, anche ad atti di terrorismo, sempre comunque mirati a obbiettivi militari o politici, è perché la


frega niente di...: i disperati del turismo di massa ***** i caduti in montagna *** il comico attentato al quaedista * Tartaglia e Maiolo ** la caduta di Ratzinger (speravamo meglio) *** Pannella und Bonino *****1/2

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Nato, a differenza dei sovietici (contro i quali non ci fu mai un solo atto di terrorismo), non ha nemmeno la decenza di stare sul campo, ma sta chiusa nelle sue basi superblindate e bombarda con aerei fantasma, senza equipaggio, telecomandati da Nellis nel Nevada o da Londra e presto, a quanto pare, anche dall'Italia. Contro un nemico invisibile, contro un combattente che non combatte, cosa può fare una Resistenza? I Talebani, e ormai non solo loro ma anche molti altri afgani che talebani non sono mai stati e che anzi li avversarono, stanno combattendo una guerra di liberazione contro l'arrogante occupante straniero. Al Quaeda non c'entra nulla. La Cia ha calcolato che su 50 mila combattenti solo 386 non sono afgani.Ma si tratta di uzbeki,di ceceni,di turchi. Non di arabi, di salafiti, di wahabiti, cioè di quei fanatici che vorrebbero portare la jihad contro l'intero mondo occidentale. Ai Talebani, agli afgani, interessa solo riappropriarsi del proprio Paese. Ed ho la netta impressione che l'occupazione occidentale si rivelerà, per quelle popolazioni, molto più devastante di quella sovietica. Perché i russi si limitarono ad occupare quel Paese, peraltro loro confinante, ma non pretesero di cambiarne le strutture sociali, economiche, istituzionali, non pretesero di cambiare la mentalità, gli usi, le tradizioni dei suoi abitanti, di "conquistare i cuori e le menti" degli afgani. Noi invece, con la tremenda e sanguinaria presunzione delle "buone intenzioni", abbiamo preteso di portarvi la "civiltà". La nostra. Distruggendo quella altrui. Ha detto Ashraf Ghani, il più occidentalizzante dei candidati alle elezioni-farsa di quest'estate, e quindi al di sopra di ogni sospetto: «Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo la nostra moralità. I miliardi di dollari che hanno inondato il Paese ci hanno tolto l'integrità, la fiducia l'uno nell'altro». In realtà la sola cosa che siamo riusciti a esportare in Afghanistan è il nostro marciume morale.


Il 2010 del ribelle l momento in cui andiamo in stampa non abbiamo ancora i dati definitivi del mese di dicembre. Quelli della prima quindicina, però, sono più che sufficienti. Per dipingere una situazione allarmante, culturalmente ancora prima che economicamente: le librerie, in un periodo tipicamente fertile per la vendita di libri, hanno registrato un decremento del 35% nel volume delle vendite. Aggiungiamo un dato, forse superfluo al momento, ma utile per un ragionamento che faremo a breve. Ebbene, i due più venduti quotidiani italiani, hanno dei dati di vendita ufficiali (dei dati: il che è tutto dire) desolanti: La Repubblica e il Corriere della Sera, nel mese di giugno 2009 (dunque non un mese estivo) hanno venduto rispettivamente 504.000 e 512.000 copie. Appena poco oltre il milione complessivo, in un paese da oltre 60 milioni di abitanti. Ha ragione Grillo quando scrive che la quasi totalità dei quotidiani italiani, se non beneficiasse di contributi pubblici - dunque di assistenzialismo uguale né più né meno di un sussidio di disoccupazione - chiuderebbe in un mese. E che la maggior parte dei Direttori con la D maiuscola, degli Editorialisti di grido e anche dei redattori che onestamente fanno il loro lavoro, sarebbe disoccupata. Ma sui quotidiani, in particolare, torneremo in altra circostanza, dove cercheremo di spiegare altri motivi (oltre a quelli classicamente dibattuti di questi tempi, come per esempio la diffusione di internet e delle "notizie gratis") per i quali non vendono e sono destinati probabilmente a sparire nelle forme che conosciamo. Al di là di questo, il dato che emerge e che deve far riflettere, a ulteriore conferma di quanto detto in merito alle librerie, è che l'altra stragrande maggioranza delle persone - soprattutto di tutte quelle che non hanno accesso a internet - si informa attraverso i telegiornali: ovvero attraverso i Tg di Minzolini e Fede. Inutile commentare. Basta considerare il fenomeno e immaginare quanti siano gli italiani che veramente accedono all'informazione che sarebbe necessaria oppure sono abituati a buone letture. Beninteso, a nulla varrebbe fare una panoramica mentale sulle proprie conoscenze strette: chi ci legge fa parte di una élite, quella dei "lettori". E molto probabilmente avrà, almeno nelle frequentazioni più vicine, conoscenti o amici di simili abitudini. Se però si prova ad ampliare il proprio campo di analisi, è probabilmente facile accorgersi dello stato desolante della massa. Che non legge, viene informata male, ha poca conoscenza di quanto accade e conseguentemente - consciamente o meno - è di fatto complice di quanto accade nel nostro mondo. Perché non avendo possibilità di conoscere e comprendere, difficilmente potrà averne nello scegliere. Si tratti di votare un governo o di condurre un tipo di vita piuttosto di un altro. Viviamo dunque in uno stato da riserva indiana. E sappiamo come sono finiti, gli indiani. Tutto attorno, o quasi, il vuoto pneumatico dell'ignoranza o, nella migliore delle ipotesi, della falsa conoscenza. Situazione perfetta per far continuare ad andare le cose così come sono. E non ci pare vadano un granché, converrete.

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di Valerio Lo Monaco


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E noi? Reagiamo alla situazione, naturalmente. Ostinatamente e anche ben oltre le reali risorse che il numero degli abbonati alla rivista potrebbe consentire. Bando alle ciance. Ecco cosa stiamo facendo e cosa faremo nel mese di gennaio, mentre leggete queste righe, per riuscire a completare il tutto entro questo stesso mese e comunque non oltre i primi di febbraio. Con una necessaria premessa: La Voce del Ribelle in edizione cartacea va avanti esattamente come siete abituati a vederla. Ora il resto, il nuovo. 1) Biblioteca Ribelle: abbiamo circa 6000 titoli, al momento, da segnalare e diffondere. Il 28 dicembre è partita, sul nostro sito, la Biblioteca Ribelle (www.ilribelle.com/biblioteca). Molto semplice: segnaliamo alcuni titoli e ne permettiamo l’acquisto (con aiuto logistico da parte di una libreria di Roma) a prezzi scontati. Scontatissimi per gli abbonati. La differenza rispetto a una normale libreria on-line è duplice. Prima cosa: segnaliamo solo titoli che reputiamo importanti da comunicare e diffondere ai "nostri" lettori. Dunque facciamo un lavoro di selezione serio e "orientato". E proponiamo alcuni pacchetti di acquisto, qualcosa di simile a "percorsi di formazione e studio". Seconda cosa: una piccola percentuale della somma derivante dalla vendita va direttamente a contribuire al sostentamento del nostro progetto. Siamo partiti con un centinaio di libri ben selezionati. Ne aggiungeremo ogni giorno di nuovi. Di ieri, di oggi, di sempre. Minimo comune denominatore: utilità e qualità. 2) Libri e Dvd. Iniziamo una diffusione libraria e di Dvd autoprodotti. Gli autori che troverete nella collana che lanceremo nei primi mesi del 2010 li conoscete e li potete immaginare. Ma ci sarà anche qualche novità. Per quanto riguarda i Dvd, il primo - in corso di realizzazione in questi giorni - è relativo a uno speciale su Alain de Benoist. Siamo stati a Parigi, poche settimane addietro, e abbiamo realizzato una intervista in video veramente esclusiva. Una piccola parte di questa la trovate pubblicata proprio su questo numero del mensile. Il Dvd la conterrà, in video, in versione integrale (quasi due ore di girato) ma ci saranno anche diversi altri contributi speciali. Altri Dvd verranno: centrati su temi, persone e luoghi perfettamente in linea e in prospettiva con la natura stessa della rivista. E ora gli sforzi maggiori 3) Partiamo dal quotidiano on-line al quale stiamo pensando da tempo e per il quale abbiamo fatto anche diversi accenni nei mesi passati. Molti hanno accolto subito la cosa e ci hanno dimostrato interesse. Il numero minino necessario per partire, però, non è stato raggiunto. Ebbene: partiamo lo stesso. Forse non siamo riusciti a comunicare l'importanza e la portata della cosa che vogliamo fare. Forse molti non la reputano utile. E altri non possono prevedere di sottoscrivere un abbonamento, necessario. Quali che siano le ragioni e le avversità che non ci hanno permesso di raggiungere il numero minimo per poter partire resta in ogni caso una decisione nostra, personale, quella di impegnarci alla cosa o meno. Abbiamo deciso di farlo comunque. Il che comporta ulteriore lavoro e impegno. Comporta il dover ridisegnare il sito internet della rivista per accogliere i nuovi contenuti quotidiani. E, naturalmente, produrli. Il sito cambia sensibilmente, dunque, per contenere oltre al mensile anche una sorta quotidiano on-line.

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Sia chiaro, non potremo fare tutto quello che avevamo in mente - per il momento: ma lo faremo non appena e se gli abbonamenti aumenteranno - ma in ogni caso ci saranno maggiori contenuti quotidiani. Di informazione e soprattutto di spiegazione. A fronte di questo non vi sarà un abbonamento vero e proprio e ulteriore da sottoscrivere. Gli abbonati alla edizione web del mensile avranno a disposizione anche i contenuti del quotidiano. Il costo di tale abbonamento passerà da 25 a 35 euro annuali. Dunque 10 euro in più all'anno (rispetto alla sola versione web del mensile on-line) per avere mensile e quotidiano in edizione web. Chi invece ha già l'abbonamento al cartaceo potrà perfezionare - contattandoci in segreteria o attraverso il sito internet - l'aggiornamento per fruire anche delle edizioni on line. 4) La WebRadio: strumento fondamentale. Questo è uno degli ambiti in cui ci impegniamo di più. Crediamo fortemente nel mezzo. Ascoltabile via internet in diretta o ri-ascoltabile in ogni momento, con dei file audio da scaricare e fruire quando meglio si crede. È un mezzo strategico e utile: consente (oltre all'ovvio ma per quanto ci riguarda superfluo aspetto di intrattenimento musicale, che pure può portare utenti di tipo diverso da quelli del cartaceo) una interazione in diretta momento per momento. Può essere fruito da casa, in ufficio, nei propri studi professionali. Basta un pc e una connessione a internet. È un mezzo immediato e semplice. Gli abbonati alla versione on-line possono seguire le trasmissioni che facciamo in radio, in diretta, anche in soluzione video. E ovviamente interagire attraverso diversi mezzi (spieghiamo tutto sul sito). Partiamo subito con diverse rubriche e una nuova trasmissione in diretta. Presto ve ne saranno altre. I temi delle stesse potete immaginarli. I toni saranno diversi e più facilmente divulgativi rispetto a quelli del mensile. Ma la natura non cambia. Troverete nella webradio temi, autori, riflessioni, notizie e argomenti difficilmente ascoltabili altrove, come potete immaginare. Questo è quanto. Per ora. Ed è il massimo che possiamo umanamente fare. La gratuità e la reciprocità sono valori che non hanno prezzo, e che abbiamo fatto nostri in prima persona.Attivamente limitiamo tutto il possibile e paghiamo unicamente ciò per cui non possiamo fare a meno (stampa, spedizioni, spese vive, ecc) e chi (collaboratori) altrimenti non potrebbe lavorare alla rivista. Il resto, la grande maggioranza del resto, viene unicamente dalla volontà di portare avanti il progetto. Perché crediamo nella sua necessità. È con grandi sacrifici economici e umani pertanto che andiamo avanti. Arrenderci ci ripugna. Se saremo sconfitti lo saremo quando veramente verremo battuti. Ma anche allora non saremo vinti. Ora andiamo avanti: i feriti, come è giusto che sia, li conteremo semmai alla fine della guerra. Voi, se volete battervi, state con noi. Aiutiamoci. I metodi per farlo li conosciamo. Noi rilanciamo alla grande il nostro progetto e il volume di fuoco con il quale tenteremo di diffondere le idee e le riflessioni, le notizie e gli approfondimenti che reputiamo più adatti per non farci fagocitare dal deserto. E voi se volete, se potete, abbonatevi anche alla rinnovata e ampliata edizione web della rivista, che comprende mensile on-line, interventi quotidiani e WebRadio e WebTv. Costa appena qualche caffè al mese, ma serve per stringere le maglie di una catena di solidarietà al progetto e più in generale a reagire allo stato attuale culturale e intellettuale del nostro tempo.


ANALISI

Dubai

altro giro, altra bolla

Megalomania e speculazione: la miscela avvelenata che sta minando l’economia e il futuro del più “in” degli Emirati arabi

È

di Federico Zamboni

un’altra certezza che se ne va, la crisi che ha colpito “Dubai World” e che ha indotto la holding araba a chiedere la ristrutturazione del debito. Quello che è accaduto, infatti, non riguarda un singolo soggetto – sia pure ramificato come questo colosso che spazia in ambiti molto diversi, dall’edilizia alle banche, e dalla gestione dei porti a quella del Cirque du Soleil – ma l’intera categoria dei cosiddetti “fondi sovrani”. Finora si era creduto, si era preferito credere, che appartenendo agli Stati, e in particolare a degli Stati con un fortissimo surplus commerciale, fossero indenni dal rischio di insolvenza e di fallimento. Adesso si vede, si è costretti a vedere, che non è così: come ha dichiarato il 30 novembre scorso Abdulrahman Al-Saleh, direttore generale delle finanze dell’emirato, Dubai World e lo Stato di Dubai sono da ritenersi entità completamente distinte. E pertanto, «i creditori dovranno prendersi le loro responsabilità, per la loro decisione di prestare soldi alle compagnie. Il governo è il proprietario della compagnia, ma fin dalla sua fondazione è stato stabilito che la compagnia non è garantita del governo. Dubai World fa accordi con tutti e i suoi prestiti si basano sui suoi progetti, e non sulle garanzie del governo». Ma c’è dell’altro, in questa vicenda che sembra inventata a bella posta per concentrare in un unico caso i peggiori vizi dell’economia iperliberista. C’è la dimostrazione della follia di un intero modello di

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I grattacieli e i megastore di Dubai. Apologia del nulla. Indotto del fasullo. Per milioni di dollari.

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sviluppo, che è costruito su basi meramente speculative e che non tiene in nessun conto le esigenze delle popolazioni residenti. Quella che si sta realizzando a Dubai è l’apoteosi dello sfarzo innalzato ad archetipo. Il nulla del deserto travestito da avamposto del futuro, a colpi di grattacieli altissimi, di centri commerciali sterminati e di ogni possibile baraccone del divertimento, a cominciare dal delirante impianto di sci al coperto con 20 chilometri quadrati di piste. Il gigantismo della forma che nasconde la totale assenza di un’idea estetica originale e, ancora di più, di una concezione dell’uomo che abbia dignità di cultura, se non di religione, e che vada al di là del consumo e del lusso. Dubai è un inno, perverso, all’esibizionismo del denaro che celebra se stesso. Molta grandiosità, del genere posticcio che domina gli hotel e i casinò di Las Vegas. Nessuna vera grandezza.

Panoramica sul delirio Tutto quello che segue è tratto pari pari dai siti Internet delle singole iniziative. Inutile parafrasare, di fronte a tanta chiarezza. E a tanta vanagloria. Inutile arringare quando il colpevole ha già confessato tutto menando gran vanto delle sue imprese – e non sapendo di essere sotto accusa. Mall of the Emirates: slogan,“lo shopping è solo l’inizio”. Descrizione: lo svago definitivo, lo spazio per l’intrattenimento e lo shopping aperto a settembre 2005. Strategicamente situato nel cuore della “Nuova Dubai”, questo centro da 223 mila metri quadrati offre una scelta completa di shopping, svago e intrattenimento. Ski Dubai: slogan, “un’indimenticabile esperienza di neve”. O anche:“the coolest thing to do in Dubai”, la cosa più fresca (e più attraente, alla moda – NdR) da fare a Dubai. Descrizione: è il primo impianto di sci nel Medio Oriente e offre un emozionante ambiente innevato per divertirsi con lo sci, lo snowboard, il toboga, o anche solo per giocare sulla neve. Giovani o vecchi, c’è qualcosa per ciascuno, dai principianti agli appassionati. Ski Dubai è un’attrazione unica, con la montagna come tema, che ti offre la possibilità di godere la neve vera a Dubai, per tutto l’anno. Burj Dubai: slogan, “Il più grande edificio del mondo”. Descrizione: Burj Dubai innalza orgogliosamente la testa del mondo verso il cielo, superando

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limiti e aspettative. Sorgendo armoniosamente dal deserto e onorando Dubai con una nuova luce. Burj Dubai è il cuore di Dubai e del suo popolo; il centro per il migliore shopping, cibo e intrattenimento e abitazione per l’élite del mondo. Potremmo continuare. Con le isole a forma di palma e con l’arcipelago “The World” che raffigura il planisfero, con l’albergo subacqueo Hydropolis e con la Rotating Tower, col grande “Suk dell’oro” e col torneo di golf e la corsa ippica dal montepremi più alto del mondo. Potremmo continuare. Però non serve.

Ops, è scoppiata la bolla Quando Dubai World ha fatto sapere che avrebbe chiesto una moratoria di sei mesi sugli interessi, e una ristrutturazione del debito con le banche, i mercati internazionali sono andati in fibrillazione, come se si trattasse del più inaspettato degli eventi. Tutti a cadere dalle nuvole e a dirsi sorpresi – sorpresi ed allarmati – da ciò che era successo. Tutti a temere una reazione a catena che si trasmettesse anche a chi non era direttamente coinvolto, fino a investire l’intero sistema finanziario e a metterne a rischio la solidità. O addirittura la sopravvivenza. Una reazione analoga, guarda caso, a quella che si era manifestata meno di due anni fa davanti al crollo dei derivati di Borsa. Allora, come adesso, gli operatori disponevano di tutte le informazioni necessarie a prevedere ciò che sarebbe accaduto. In entrambe le occasioni, infatti, lo scoppio della bolla immobiliare ha preceduto di diversi mesi le sue ripercussioni sui conti delle singole società. I subprime erano in caduta libera già da un pezzo, prima che le banche e i fondi di investimento fossero costretti a registrarne le perdite. Le quotazioni immobiliari a Dubai avevano perso il 50% del loro valore da mesi e mesi, prima che la holding di Stato ufficializzasse la propria insolvenza. Fatte salve le ben diverse dimensioni dell’impasse, la logica – si fa per dire – è la stessa. Fare finta di nulla. Andare avanti comunque. Cullarsi nell’illusione che le difficoltà si dissolvano da sole, in un modo o nell’altro. Nel caso di Dubai World la scusa, come abbiamo già accennato in apertura, era la convinzione che il governo dell’Emirato avrebbe coperto qualsiasi perdita e garantito qualunque debito. Risibile: figurarsi se un aspetto tanto importante può essere lasciato nel novero degli auspici e delle

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aspettative non verificate. Le stesse banche che spaccano il capello in quattro per concedere alle famiglie un mutuo per l‘acquisto della prima casa o per finanziare ai piccoli imprenditori una modesta ristrutturazione aziendale, omettono di assicurarsi esplicitamente, e contrattualmente, che i loro crediti da miliardi di dollari siano coperti non solo dal patrimonio societario ma da quello dell’intero Emirato. Risibile. Ma anche vero, per quanto avventato. Pur di mettere le mani sugli interessi, infatti, i banchieri che hanno prestato cifre ingentissime a Dubai World sono stati ben lieti di sorvolare su tutto quello che poteva ostacolare le trattative e compromettere un affare così remunerativo. Come hanno prontamente puntualizzato le autorità locali, con una tranquillità disarmante e al limite del sarcasmo, se i finanziamenti avessero avuto come destinatario lo Stato i tassi di interesse sarebbero risultati molto inferiori a quelli effettivamente praticati. Lo scarto tra un bond pubblico e un’obbligazione privata è dovuto appunto a questo: che il primo non presenta nessun rischio, a meno che si arrivi al default dell’intera nazione; mentre il secondo implica sempre qualche margine di incertezza, e pertanto viene concesso a condizioni più onerose. Nozioni elementari da studentello di ragioneria. Ma come si dice non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. E questi attacchi di improvvisa sordità il management finanziario ce li ha spesso. Tutte le volte che gli fa comodo, in effetti.

Il futuro di Dubai La domanda fondamentale, a quanto pare, non se l’è fatta nessuno: terminata la fase della costruzione degli edifici, delle isole artificiali, dei parchi a tema e di quant’altro sarà stato partorito dal fervore dei progettisti (e degli speculatori), quale sarà il numero minimo di abitanti e di visitatori necessario a tenere in piedi – e a far sembrare vivo – questo immenso ipermercato truccato da città? La questione è essenziale. Il fascino di Dubai, la sua stessa ragion d’essere, poggia sull’apparire una meta ambita da tutti. Un concentrato di lusso e di alta tecnologia in cui solo una minoranza può abitare stabilmente ma che innumerevoli altri desiderano visitare. Il messaggio è che venire qui è “trendy”: un privilegio che stabilisce una linea di demarcazione tra chi se l’è potuto permettere e chi ne è rimasto escluso. Il meccanismo, ben noto, è quello del successo che si alimenta da sé, in una spirale di autoreferenzialità che finisce col rendere secondaria, o tout court irrilevante, la valutazione del prodotto in quanto tale. Esattamente la stessa logica dei best seller editoriali, dei blockbuster cinematografici, o di ogni altra creatura della comunicazione di massa che assurga a fenomeno: il principale motivo di richiamo non è nel loro valore intrinseco ma nel gran numero di persone che riescono ad attirare nella fase di lancio; dopodiché, superata una certa soglia, accodar-

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si alla massa giubilante diventa pressoché obbligatorio. Quella che inizialmente era solo una scelta individuale, che si poteva ignorare senza imbarazzi, si trasforma in un cardine dell’immaginario collettivo, al quale non ci si può sottrarre se non a pena di una sorta di isolamento. Ma come, non hai letto Il codice Da Vinci? Oddio: non hai visto Salvate il soldato Ryan? Davvero non-sei-su-Facebook? E come mai? La differenza, ovvia, è che i libri, i film, gli spettacoli di ogni tipo e le mode di ogni natura (dal charleston all’hula-hoop, dai pantaloni a zampa di elefante a Second Life) hanno un ciclo di vita limitato che si esaurisce sull’arco di pochi mesi. O tutt’al più, nei casi di eccezionale persistenza, nel giro di qualche anno. Poi, senza troppi problemi né per i produttori né per gli acquirenti, si passa a qualcos’altro e si ricomincia daccapo. Obsolescenza programmata, si potrebbe dire. I “macchinari” della Fabbrica della Fantasia sono destinati a una sostituzione continua. La passione si stempera nel ricordo, come un amore che è finito senza traumi. Come un amore, o un flirt, che ha lasciato il posto a un altro: il vuoto non pesa, quando lo si può riempire immediatamente. Ma Dubai? Certamente la si potrà aggiornare con una certa assiduità, aggiungendo nuove mirabilie a quelle già esistenti, ma non è che la si potrà ripensare, e reinventare, ad anni alterni. Soprattutto, non si potrà rinnovare all’infinito l’impressione di novità che la rende appetibile in questa fase iniziale della sua esistenza. A maggior ragione, poi, se questo suo smisurato “set” non sarà costantemente attraversato da un numero sufficiente di attori e di comparse. I colossal hanno bisogno di scene di massa. Gli spazi enormi esaltano le folle, se le folle sono immense e riescono a colmarne la vastità. Oppure le deprimono, se gli spazi vuoti prevalgono su quelli pieni. Il futuro di Dubai è dunque legato a un filo. Quello della sua capacità, tutta da verificare, di imporsi non solo come una curiosità momentanea ma come un’attrazione permanente. Un luogo in cui vale la pena di recarsi una prima volta e di tornarci in seguito, o addirittura di comprarvi un’abitazione e di farne una seconda casa. È una scommessa quanto mai azzardata: Dubai non ha da offrire nient’altro che la sua opulenza, compiaciuta e maniacale. Per chi se la può davvero permettere, come i super ricchi, rischia di esaurire in fretta il suo appeal e di diventare monotona. Per chi la rimira dal basso del suo reddito più o meno limitato è uno sfizio una tantum, in cui l’eccitazione della scoperta può facilmente risolversi nella frustrazione di non poter accedere agli angoli più esclusivi e al lusso più sfrenato. Due pubblici instabili, insomma. Che ci vuole uno sforzo enorme per aggregare. Ma che basta un nonnulla per disperdere.

Federico Zamboni

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INTERVISTA

Nostalgia del futuro

Alain de Benoist ad ampio raggio, come la sua cultura e curiosità enciclopediche. Sulla post modernità, la storia, la decrescita, il ruolo degli intellettuali, il senso del ribelle. Piccolo estratto di una intervista fiume, presto disponibile integralmente in video sul nostro sito.

L’

di Valerio Lo Monaco

insegnamento gramsciano dice che non vi può essere una presa politica senza prima avere una presa culturale.Visto che la battaglia culturale oggi non sembra molto in salute, secondo lei c'è bisogno ancora di più oggi di una battaglia culturale per arrivare domani a una battaglia politica? È evidente che non viviamo più all’epoca di Gramsci, il quale scriveva negli anni 20 e 30, ma c’è comunque un’idea che rimane, a mio avviso, corretta: a condizione di dare al termine cultura un’accezione più generale, è in funzione della maniera in cui si conforma l’immaginario simbolico degli individui e dei gruppi che si determinano le grandi evoluzioni politiche. Questo immaginario oggi non è più determinato, fondamentalmente, da quello che in altri tempi chiamavamo cultura, ma dalle immagini e dalle tecnologie. Bisognerebbe ricordare, anche se appare banale pur se credo che non lo realizziamo pienamente, che le grandi evoluzioni tecnologiche hanno cambiato più concretamente la vita reale che non qualsiasi regime politico, anche autoritario, sia riuscito nel passato. L’automobile, la televisione, la pillola anticoncezionale, oltre al recente internet, hanno realmente cambiato la vita di centinaia di migliaia di persone. Qualunque sia la società in cui ci si trovi, vi è sempre un immaginario simbolico dominante. Direi che oggi questo immaginario simboli-

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co è colonizzato dalle merci, da quello che Marx correttamente chiamava il feticismo della merce. E penso che se vogliamo restituire del valore a ciò che realmente vale, bisogna decolonizzare questo immaginario simbolico, e questa decolonizzazione passa, ben evidentemente, per tutta una serie di iniziative. Io vedo il ruolo che può ancora giocare l’intellettuale. Ci sono molte definizioni di intellettuale, quella che io utilizzo è una definizione molto semplice: l’intellettuale è colui che cerca di comprendere e far comprendere il momento storico in cui stiamo vivendo. Può apparire un po’ banale, ma non lo è: molte persone non riescono a realizzare in che momento storico si trovano, e non vi riescono perché analizzano il presente attraverso la rappresentazione di un mondo che è già scomparso, o con un vocabolario concettuale divenuto obsoleto. Siamo cresciuti in un mondo, quelli della mia età almeno, che non è più analizzabile con tutti quei concetti della modernità, ora che siamo passati in un mondo post moderno. Ebbene, a mio parere questo approccio non produce granché, se non su delle nostalgie. La parola d’ordine di certi ambienti restauratrici si attiene alla formula "era meglio prima". Talvolta è vero, talvolta era meglio prima, ma era prima, appunto. Quindi ciò che conta è che oggi non è più così, dunque cos’è possibile fare con il mondo così com’è e va a divenire? È questo il ruolo dell’intellettuale, e non riproporre cose che già sono state dette, di condurre guerre che sono già state perse o di volere credere che la storia ritornerà. No, la storia non ripassa. La storia è aperta, ed è perché è aperta che non è prevedibile. Lei ha scritto che la politica è la storia in azione, ne "Le idee a posto". Noi dobbiamo immaginare la storia come una sfera, la quale può cambiare direzione in ogni momento: diamo senso a ciò che facciamo, quindi noi agiamo la storia. La storia del mondo in questo momento vede un crollo del nostro sistema di sviluppo. Condivide questa analisi, e come vede un possibile sviluppo ulteriore nei prossimi anni? Quando ho scritto il testo a cui fa riferimento, tutto era legato a una critica della concezione vettoriale o lineare della storia. Vale a dire: esisterebbe una sorta di necessità storica globale la quale postula che la storia dell’uomo si diriga verso un senso prestabilito e in un senso unico. Ciò significa che tutte le culture del mondo, che tutti i popoli, a differenti stadi, sono destinati in maniera convergente ad andare verso questa fine della storia che sarebbe stata in qualche modo determinata in anticipo. Ebbene: non credo affatto in questa concezione, che all’origine è una concezione religiosa, e che viene incontestabilmente dalla bibbia, ma che è stata veicolata in forme profane dagli storicismi della modernità. Io dico: credo che la storia sia sempre aperta. E di conseguenza è meglio prospettarla non tanto ciclica, quanto sferica. Intendo una sfera che in ogni momento può muoversi in un senso o nell’altro. Non solo: bisogna anche prospettarla in senso plurale, vale a dire che i grandi insiemi di culture e civiltà hanno le loro modalità di funzionamento e sviluppo, i loro modi di ragionamento, e non si può fondere tutto ciò o ritenere che le differenze siano transitorie o secondarie. Credo al contrario che siano assolutamente fondamentali. Lo vediamo dal lavoro fatto sulla comparazione del pensiero cinese a quello occidentale: non significa che qualsiasi cosa sia possibile, ci sono cose definitivamente passate ma vi è sempre una pluralità di possibile nell’avvenire. Ed è perché c’è questa pluralità nel futuro che, come dice-

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vo, la storia non è prevedibile. D’altronde se vediamo gli avvenimenti che si sono verificati negli ultimi venti anni, per esempio, nessuno era stato realmente previsto. Ci sono persone che vi spiegano dottamente che il capitalismo è soggetto a crisi periodiche, ma ogni volta che c’è una crisi, nessuno l’ha prevista. Guardate a quella esplosa nell’autunno 2008 negli Stati Uniti e che si è rapidamente trasformata in crisi mondiale, e che secondo me non è finita. Il crollo del sistema sovietico, altro esempio, nessuno l’aveva realmente previsto, se non a titolo di ipotesi. Nessuna arrivava realmente a datarlo. La storia credo la si debba rappresentare un po’ come una sorta di piano inclinato pieno di chiodi, e se prendete una biglia e la lanciate su questo piano spinato, dove incontrerà nella sua corsa diversi chiodi non potrà risalire, ma ogni volta che ne urterà uno potrà prendere direzioni diverse. Dunque è la pluralità del possibile. Altro è, invece, la prevedibilità e anche la possibilità di credere, come faceva l’ideologia del progresso, a una necessità storica globale di credere sempre migliore. Ideologia che oggi, va detto, è in profonda crisi. La gente oggi guarda al futuro con molta inquietudine e poca fiducia, ha paura dell’avvenire e tutto quello che riserva loro. Più di quanto non si aspetti un radioso domani. C'è bisogno di una decrescita delle quantità fisiche nel mondo. Qui siamo in un mondo dove si è predicato lo sviluppo infinito in un mondo che invece è finito. Com'è possibile una nuova economia nel prossimo futuro? Ancora una volta: io non leggo il futuro e di conseguenza non voglio definire ciò che sarà l’economia fra dieci, venti o cinquanta anni. Ma ciò che possiamo fare è reagire sulle tendenze attuali. Il tema della decrescita, cui ho dedicato un libro, risulta da una questione molto semplice: è impossibile avere una crescita materiale infinita in un mondo che è finito. Noi viviamo in uno spazio, in un pianeta, che è sì grande, ma non è infinito. Che non possiamo avere una crescita materiale infinita in uno spazio finito nel senso materiale è chiaro. Insisto sul materiale, evidentemente, perché nell’economia informale o immateriale possiamo sempre moltiplicare per dieci la capacità dei computer, e lo si farà senza che ciò intacchi le riserve naturali. Ma anche nell’economia informale o immateriale ci sono ricadute materiali. Dunque c’è per forza un momento in cui ci si ritroverà col problema dei limiti. Ciò che ci resta dell’ideologia del progresso è veicolato non più dalla sinistra ma dalla destra del capitale, è lei che crede che la crescita possa essere infinita, che il mercato si possa espandere indefinitamente, è lei che aderisce a questa idea dell’illimitato, dell’illimitatezza, che è la radice stessa della dinamica del capitale. Se riflettiamo un attimo realizziamo che è la negazione totale di quanto ci abbiano insegnato gli antichi, come i Greci, per i quali l’eccesso, l’illimitatezza, che chiamavano lubris, era il peggior peccato contro lo spirito. Il rifiuto della misura, il rifiuto dei limiti. L’illimitatezza può prendere forme assai diverse, politiche, coi regimi totalitari, ma anche economici, come questa idea che nella crescita materiale si possa essere indefiniti.

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Credo che oggi constatiamo che la nozione di limite non è una nozione astratta, ma è qualcosa di assai concreto. Abbiamo creduto a lungo che le riserve naturali fossero illimitate e gratuite, ci accorgiamo oggi che non sono né l’uno né l’altro. Possiamo discutere su quando non ci sarà più petrolio, ma sappiamo che un giorno non ce ne sarà più. Allora possiamo pensare che ci saranno energie sostitutive, ma oggi non è ancora il caso. Lo vediamo dalle controversie sul clima, ora che è in corso la conferenza di Copenaghen, che gettare nell’atmosfera miliardi di tonnellate di CO2 avrà certamente conseguenze sulle nostre esistenze. Ma siamo, oggi, grazie alle preoccupazioni ecologiste, sempre più confrontati a questo genere di cose. Dunque la decrescita, a mio avviso, non è affatto una forma di opzione: non possiamo dire scegliamo la decrescita o continuiamo nella crescita. La decrescita si imporrà fatalmente per il fatto che raggiungeremo un certo numero di limiti. È lo stesso con la popolazione: ora siamo 6 miliardi di bipedi, fra trenta anni saremo 9 miliardi, può darsi si potrà ancora funzionare, anche con 12 miliardi, ma sappiamo che con 500 miliardi non funzionerà. Dunque c’è per forza un momento i cui si raggiungono limiti e dove la saggezza comanda di dire “è abbastanza” anziché “ancora di più”. La parola d’ordine della modernità, invece, è: sempre di più. Ma c’è un momento in cui “più” diviene il contrario di “meglio”, ed è preferibile scegliere il meglio rispetto al “di più”. È un po' difficile però che la gente possa andare incontro a una frugalità volontaria, o no? Ha ragione, i nostri contemporanei non sono affatto disposti a diminuire il loro livello di vita, e bisogna essere franchi: chi fra noi vorrebbe, se non per masochismo, scegliere la frugalità volontaria finché abbiamo disponibilità di merci nei negozi e benzina nelle stazioni di servizio? Solamente, il problema è che ci sono forti possibilità che vi saremo forzati. Vale a dire: non si vede perché non consumare quando c’è qualcosa da consumare, ma quando non c’è più niente da consumare bisogna per forza effettuare una scelta diversa. Il problema è che se non si prende coscienza di ciò, allora tutto rischia di accadere in pessime condizioni. In condizioni catastrofiche, anziché procedere attraverso una riflessione più ragionevole. Oggi si cerca di schivare il problema con la tematica dello sviluppo durevole. Sviluppo durevole oggi pare essere, in qualche modo, la quadratura del cerchio.Vale a dire ci spiegano che bisogna essere sensibili all’ambiente, all’inquinamento, ma allo stesso tempo ci dicono che non possiamo rinunciare alla crescita. Lo sviluppo durevole, invece, cerca di conciliare cose totalmente antagoniste: da un lato la crescita, che sappiamo finirà per rovinare l’ambiente, e dall’altro lato la sensibilità ambientale. Il filosofo francese Michel Cera, con una comparazione che mi sembra assai valida, dice che lo sviluppo durevole è come un comandante che vede la sua nave andare dritta contro uno scoglio, e che comanda di ridurre la velocità anziché di cambiare rotta. È un po’ ciò che ci dicono i sostenitori dello sviluppo durevole: prendiamo misure, riduciamo alcune cose, ma la rotta no. Il problema, vediamo bene, è che malgrado le misure che sono prese sul

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clima e sull’ambiente, questi continuano a degradarsi. Un esempio è il mercato dell’inquinamento. Il tema dello sviluppo durevole è il principio che chi inquina paga: in pratica creiamo un mercato dell’inquinamento. Un tempo inquinare era gratuito, ora bisogna pagare. Il che significa che chi può pagare continuerà a inquinare. E chi può pagare? Quelli che sono più ricchi, e i più ricchi sono proprio quelli che inquinano di più, dunque questa soluzione è surreale. Parimenti vi dicono, “facciamo automobili meno inquinanti, che disperdono nell’atmosfera meno agenti inquinanti”. Sì, ma si dimenticano di considerare quello che gli ecologisti chiamano effetto rimbalzo: l’unità di base è meno inquinante ma ci sono molte più unità. Per dare un esempio semplice, ci sono 100 vetture che inquinano molto e 1.000.000 di vetture che inquinano poco. Le vetture che inquinano poco, in totale inquineranno di più delle vetture che inquinano molto, perché sono molte di più. Sappiamo che la Cina sta per dotarsi di auto in un numero straordinario, come la maggior parte dei paesi emergenti. Facile comprendere che se le vetture all’unità inquineranno poco ma saranno moltissime, saremo in una sorta di circolo vizioso: un circolo infernale. Sono proprio queste forme di fughe in avanti che caratterizzano questo movimento moderno prima, postmoderno ora, che è l’illimitatezza, il rifiuto di ogni limite. Abbiamo bisogno di un nuovo paradigma, di un nuovo modo di stare al mondo, di un nuovo modello di esistenza. Può essere l'Europa la culla almeno culturale di una proposta di un nuovo modello di esistenza? Non credo nei modelli che vengono proposti, ma credo piuttosto nei modelli che sorgono dalla vita nella sua pratica. È la ragione per cui credo alla necessità di rimediare alla lacerazione sociale, al deterioramento del tessuto sociale, tramite legami che si intessono in maniera organica alla base. La crescita dell’individualismo borghese ha fatto sparire le strutture di solidarietà che esistevano un tempo e che sono state malamente sostituite dallo stato provvidenza. Ha reso le persone sempre più straniere le une alle altre. La solitudine di base, la miseria affettiva che vivono i nostri contemporanei. All’interno dei condomini le persone non si conosco più. Credo profondamente, invece, in forme di democrazia partecipativa di base nei quartieri, nei comuni, sui luoghi di lavoro. Bisogna avere fiducia in questa pratica che si svilupperà non in maniera istituzionale o dogmatica, non per obbedire a un nuovo modello imposto, ma che in maniera più naturale si svilupperà per compensare i fenomeni di disgregazione sociale ai quali oggi assistiamo. Beninteso, ci auguriamo che si ritrovi un senso dei valori e che non sia dei valori contabili e calcolabili in maniera mercantile. Il mercato non è la realtà umana, e contrariamente a quanto credono i liberali o i liberisti, il modello di mercato non è il paradigma di tutti i fenomeni sociali. Allo stesso modo, il linguaggio pubblicitario non è il paradigma di tutti i linguaggi umani. Si ritrova qui l’idea di decolonizzazione dell’immaginario, per usare un’epressione resa popolare in Francia da Serge Latouche, che corrisponde alla realtà. Noi, a La Voce del Ribelle, ci richiamiamo spesso a dei valori prepolitici come l'onestà, l'impegno, la coerenza, il coraggio. Mi sembra che siano valori simili a quelli che lei descrive quando dice che lo stile è l'uomo. Sì, sono dei valori ma non sono certo siano valori prepolitici, perché credo non vi sia nulla di prepolitico nell’uomo, nel senso che, come Aristotele, credo che l’uomo

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sia un animale politico. L’uomo non è mai esistito in una sorta di età dell’oro prepolitica e presociale dalla quale siano sorti questi valori non si sa come sotto forma volontaria e non contrattuale delle società. Dunque non vedo come ci siano cose prepolitiche, ma comprendo bene quel che vuol dire Massimo Fini, vale a dire che sono dei valori che sono eterni. Sono valori etici più che valori morali, esistendo sistemi morali diversi, e concerne la loro forza il loro valore. Lo si vede nel fatto che l’ammirazione della gente va spontaneamente in quella direzione, ma allo stesso tempo non sono valori alla moda. Quello che voglio dire con ciò, è che la nozione di rivoluzione mi pare legata al grande ciclo della modernità. Nel mondo post moderno è piuttosto l’implosione che l’esplosione a dominare. E la rivoluzione, al senso dell’immaginario romantico di barricate eccetera, non corrisponde più, al momento, in ogni caso, al mondo in cui viviamo. Quindi penso che ciò che la rivoluzione realizzava in maniera esteriore, la ribellione lo restituisce allo stato interiore. Vale a dire in quanto rifiuto: la rivoluzione è un rifiuto, la ribellione anche è un rifiuto, ma semplicemente il ribelle è qualcuno che si sente e si vuole tale. Ma si vuole tale perché si sente completamente estraneo ai valori del mondo in cui vive. E contemporaneamente non fugge dal mondo, non si porrà al margine, non si rifugerà in una setta, non andrà a ritirarsi dal mondo. È nel mondo, se del caso si batte nel mondo, anche se sa bene che questo mondo gli è estraneo. L’idea che domina in lui è che qualunque cosa accada, lui forse non riuscirà a cambiare il mondo, ma il mondo non riuscirà a cambiare lui. Una delle sue espressioni più belle secondo me è “nostalgia del futuro”. Di cosa ha nostalgia, come immagina il futuro del quale avere nostalgia oggi? È una formula “nostalgia del futuro”, beninteso, ma è una formula non senza portato. Credo che la nostalgia sia un sentimento molto forte e ammirevole, ma è un sentimento che riferiamo sempre al passato o alla memoria. "Mi ricordo" (in italiano, nell'intervista, N.d.R.) e quindi vorrei tornasse. Non sono per la restaurazione, so che il passato non tornerà. Di contro, sulla base di ciò che è stato, con la conoscenza del passato che informa il presente - perché è sempre una dimensione del presente: è passato in quanto si esprime nel presente - anche il futuro è una dimensione del presente. Quando avverrà non sarà più futuro ma presente. Dunque sulla base di ciò che so del passato, di questa dimensione del passato che informa il presente, posso cercare di immaginare e cercare di far esistere le cose che voglio veder affermarsi. Sul piano individuale come su quello collettivo. Un po’ quello che Heidegger dice con l’idea di un nuovo inizio: non bisogna cercare di ritornare all’origine, perché non si può tornare indietro. Non bisogna fare un ritorno, ma un ricorso all’origine. Ricorrere all’origine in quanto ci dà la capacità di essere una nuova origine, e per conseguenza immaginare un avvenire, e che la volontà che abbiamo di instaurarlo possa nutrire una nostalgia. Credo sia Régis Debray ad aver scritto nel suo ultimo libro sulla fraternità che i conservatori non hanno nessuna nostalgia, i reazionari ne hanno una, ma anche i rivoluzionari, perché la nostalgia è la capacità di pensare oltre, e se necessario contro, la realtà di acque basse nelle quali siamo oggi.

Valerio Lo Monaco

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ANALISI

Gli alberi della laguna

“Pensare di raggiungere obiettivi rilevanti senza modificare il paradigma economico di fondo sarebbe inutile e controproducente”. Questo dovrebbe essere il vero tema delle conferenze mondiali sul clima.

N

di Francesco Bertolini

ell’antica Repubblica di San Marco ai piromani e a chi era sorpreso a tagliare un albero abusivamente, attentando al delicato equilibrio idrogeologico della laguna di Venezia venivano inflitti quindici anni di esilio «da tutte le terre e i luoghi del serenissimo dominio» e ai recidivi sette anni di galera; erano considerati farabutti della peggior specie. Se avessimo dovuto utilizzare la giustizia della serenissima negli ultimi quaranta anni, le nostre carceri sarebbero piene di geometri, architetti, ingegneri, nonché di sindaci, assessori, con celle di isolamento per gli immobiliaristi, burattinai che han tirato i fili di un sistema che ha distrutto il paese e provocato migliaia di vittime per le conseguenze del dissesto idrogeologico. Ma le carceri sono piene di disgraziati, tutti gli altri sono terrorizzati dall’immigrazione e sono preoccupati di comprarsi la nuova casa vista mare o in qualche vallata montana non ancora completamente distrutta. Strano vedere come è cambiato il concetto di farabutto. L’Italia, nonostante presenti il 70% del territorio a rischio idrogeologico e quindi sia fragile di fronte alla crescita degli eventi estremi, conseguenza del cambiamento climatico è, tra i paesi svilup-

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pati, il più arretrato nell’implementare politiche atte a ridurre l’emissione di gas climalteranti. Gli eventi climatici estremi sono in forte crescita a livello mondiale, fondamentalmente a seguito dell’aumento dei “gas serra” e del conseguente incremento della temperatura media del pianeta. Oltre ai terremoti, frane e smottamenti, alluvioni, inondazioni e siccità sono i principali rischi e l’Italia è uno dei paesi europei a più elevato pericolo di catastrofi ambientali; la cementificazione del territorio ne ha accentuato la gravità, sia in termini di perdite di vite umane che in termini di danni economici, ma la stessa Italia continua a pensare che il cambiamento climatico sia un passatempo da intellettuale. Non si può perder tempo con l’ambiente, è necessario riprendere la crescita, in Italia centrata, ancora e sempre, sulla ripresa dell’edilizia e sulle grandi infrastrutture, come se il territorio fosse infinito e si potesse continuare a costruire ville e villette, palazzi e palazzine, strade e autostrade. Che diritto hanno di disintegrare un paese splendido, costruito con armonia e in armonia con il territorio? È evidente ormai a tutti coloro che hanno buon senso che ci si trovi ormai al 29° giorno, come nel famoso indovinello sulle ninfee nello stagno, utilizzato per spiegare ai bambini la crescita esponenziale. L’indovinello recita: in uno stagno c’è una foglia di ninfea. Ogni giorno che passa, il numero delle foglie si raddoppia: due foglie il secondo, quattro il terzo, otto il quarto e così via. La domanda che segue è: se lo stagno si ricopre interamente di foglie il trentesimo giorno, quando si troverà coperto per metà? La risposta: il 29° giorno. Il nostro paese, come più in generale l’intero pianeta è un grande stagno di ninfee; in molti si sono accorti di essere al 29° giorno ma non agire di conseguenza è un atteggiamento criminale. A Copenaghen il mondo si è riunito per cercare una difficile strada che consenta di evitare l’ultima drammatica crescita di foglie nello stagno, che porterebbe al soffocamento di chi ci vive. Si è partiti da un punto morto, da quel famoso protocollo di Kyoto che non ha prodotto nessun risultato, visto che le emisisoni globali, rispetto al 1990, non solo non sono diminuite, ma anzi sono significativamente cresciute. E lo scenario di riferimento dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), prevede che il consumo mondiale di energia primaria aumenti di circa l’1,7% all’anno nelle prossime tre decadi tra il 2000 e il 2030 a causa della crescita economica e demografica, con la conseguenza che le

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emissioni mondiali aumenteranno dell’1,8% all’anno fino a 38 miliardi di tonnellate nel 2030 – Il 70% sopra i livelli del 2000. Il protocollo di Kyoto è stato siglato nel 1997 e, in quella città dei templi, l’aver raggiunto un accordo di principio sulla necessità di ridurre le emissioni era un grande risultato, veni-

“Il nostro paese, come più in generale l’intero pianeta è un grande stagno di ninfee; in molti si sono accorti di essere al 29° giorno ma non agire di conseguenza è un atteggiamento criminale.” va condiviso il problema e venivano fissati degli obiettivi. Oggi bisogna cominciare a togliere le foglie dallo stagno, ma per far questo è necessario modificare il baricentro delle politiche mondiali: pensare di raggiungere obiettivi rilevanti senza modificare il paradigma economico di fondo sarebbe inutile e controproducente. Il protocollo di Montreal, siglato nel 1987 per la messa al bando dei clofluorocarburi, reponsabili della stratificazione della fascia di ozono, ha dimostrato come sia possibile raggiungere risultati che sembravano difficilissimi (oggi infatti il famoso buco nell’ozono sta iniziando, anche se in misura impercettibile, a invertire la rotta e a ridursi). La riduzione delle emissioni di gas climalteranti è un obiettivo molto più difficile, sono quindi necessarie non solo misure tecnologiche, ma un nuovo modello fiscale che incida molto di più su tutti quei modelli di produzione e consumo ad alto impatto ambientale (dalle seconde case alle automobili, ai voli…) e nuovi modelli di consumo e non consumo, dove la durata di un prodotto è un elemento di qualità, per eliminare quella idiozia storica con conseguenze devastanti che è l’obsolescenza forzata dei prodotti, che ci impone di cambiare prodotti funzionanti e che è basata su una progettazione che riduce sempre di più la loro vita.

Francesco Bertolini UniBocconi

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ANALISI

Il Clima:

I

una questione di civiltà e destino

Al di là del nulla della conferenza - “nulla” tradotto in tutte le lingue del mondo la realtà è la seguente: stiamo già vivendo in condizioni atmosferiche nelle quali l’uomo non ha mai vissuto.

di Eduardo Zarelli

l vertice sul clima recentemente svoltosi a Copenhagen ha certificato – quantomeno - la consapevolezza generalizzata della drammatica cesura tra la civilizzazione industriale e l’ambiente, tra cui i primi responsabili che sono gli Stati Uniti e la Cina. Ancora a Kyoto nel ’97 erano molti i riluttanti che si nascondevano dietro la stucchevole querelle tra scienziati scettici o persuasi schierati ad avanspettacolo, quando i più preveggenti, descrivono l’evoluzione possibile dello sconquasso climatico, parlando di guerra. Guerre tra Stati, per metter le mani su acqua, combustibili, metalli scarseggianti. Non seguiremo quindi le percentuali stabilite sul taglio alle emissioni nel confronto tra necessità economiche, compatibilità ambientali e rapporti di forza internazionali, ma cercheremo la persuasione di un ragionamento consapevole. Ciascun nuovo rapporto proveniente dai climatologi di ogni latitudine ci fa capire che il cambiamento climatico è il problema più angosciante col quale ci siamo mai confrontati. Sembra ad esempio che stiamo già vivendo in condizioni atmosferiche nelle quali gli esseri umani non hanno mai vissuto prima: siamo, infatti, entrati in un territorio climaticamente sconosciuto. Il mutamento climatico sta procedendo a velocità superiore alle previsioni: l’obiettivo che fino a ieri sembrava sufficiente, un tetto di concentrazione di CO2 in atmosfera di 450 parti per milione, non ci protegge dal rischio della catastrofe. Nello studio “Il cambio climatico in Antartide e l’ambiente” redatto da nove scienziati (fra cui l’italiano Guido Di Prisco), con il contributo di oltre 100 ricercatori, per conto del Comitato Scientifico Internazionale per la Ricerca Antartica, si sostiene che i mari si

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alzeranno, di almeno 1,4 metri. Non si tratta di scienziati contro scienziati. La diversità di previsione riguarda la rapidità di scioglimento dei ghiacci artici rispetto a quelli antartici. Paradossalmente l’Antartide è rimasta inalterata negli ultimi decenni per lo strato di ozono compromesso dalle emissioni industriali, ma tutto questo sta finendo. Il cambiamento climatico che causa anche l’indebolimento della corrente del golfo, molto più velocemente di ciò che si pensava fino ad oggi, parados-

«La paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo perorarne la causa, poiché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici» salmente significa che il riscaldamento globale potrebbe far sì che le zone dell’Europa del Nord ed altre zone nel mondo si congelino - anche se la tendenza, a lungo termine, sarebbe quelle di andare incontro ad un aumento delle temperature. Ciò che è ancora più allarmante è che questi e altri cambiamenti potrebbero chiaramente avere luogo molto più velocemente di quello che pensiamo. I “ribaltamenti” climatici che portano a condizioni climatiche molto diverse tra loro, sembrano aver avuto luogo negli ultimi dieci anni. Nel frattempo siamo già testimoni di una nuova tendenza del clima nella quale si è notato un aumento di lunghi periodi di siccità, alternati a violenti temporali, alluvioni - una tendenza che potrà solo peggiorare all'aumentare delle temperature mondiali. I maggiori panieri del mondo, quali la Cintura del Mais americana, le Pianure canadesi e la Cintura di

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grano australiana, hanno subito grandi periodi di siccità negli ultimi anni. Queste zone diventano sempre più secche, con una corrispondente riduzione delle risorse mondiali di cibo. In aggiunta, le risorse dei maggiori fiumi mondiali si trovano in zone montane quali le Montagne Rocciose negli USA e in Himalaia in Asia. In primavera le masse nevose ed i ghiacciai si sciolgono riempiendo i fiumi, tuttavia, le piogge stanno aumentando e sostituendo la neve ed i ghiacciai si stanno ritirando, e questo causa una corrispondente riduzione della portata stagionale dei fiumi e della possibilità dei contadini di irrigare i loro raccolti. Se questo non bastasse, l’aumento dei livelli dei mari fa stimare - a cura del Pannello Intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) - che il 30% del terreno agricolo mondiale potrebbe essere saturato dall'acqua salmastra e delle alluvioni durante i distruttivi storm-surge e le conseguenti onde anomale. Dobbiamo anche comprendere che il cambiamento climatico ha delle ripercussioni in ogni aspetto della nostra vita, non solo nel procurarci cibo, ma sulla nostra salute, poiché le zone temperate saranno invase dai vettori e dai patogeni delle malattie tropicali e, più in generale, di forme virali mutanti. Anche l'economia ne sarà seriamente affetta. Dobbiamo anche considerare che, anche senza un cambiamento climatico, dovremo sostituire i nostri consumi di petrolio poiché le riserve mondiali di petrolio, conveniente e accessibile, si stanno esaurendo rapidamente e ci si attende che la produzione raggiunga il suo apice entro i prossimi decenni. D’altra parte la domanda sta salendo vertiginosamente, soprattutto quale risultato della rapidissima industrializzazione della Cina, dell’India e d'altri paesi asiatici. Data la correlazione economica e finanziaria con gli Stati Uniti e, più in generale, con l’Occidente, i prezzi saranno soggetti a speculazioni senza pari e le ristrettezze nelle riserve saranno all’ordine del giorno. Che cosa fare? Chiaramente per prima cosa dobbiamo sganciarci dalla nostra dipendenza dal petrolio ed imparare a farne decisamente a meno. I deficit nelle scorte di petrolio possono causare una grave recessione, mentre un deficit permanente potrebbe causare un vero collasso economico dato che il petrolio non è solo un carburante per i trasporti ma anche la base

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chimica della maggior parte dei prodotti di trasformazione industriale. Questo significa soprattutto aumentare velocemente l’efficienza energetica. I veri tagli alle emissioni si possono realizzare eliminando gli sprechi e l’inefficienza. L’energia rinnovabile, in particolare quella eolica, ad oggi molto economica, dovrebbe giocare un ruolo come quella solare. Due regioni spagnole, la Navarra e l’Aragona, in dieci anni sono arrivate al 70 per cento di elettricità da fonti pulite. Perché non fare altrettanto? Jeremy Rifkin parla poi dell’economia a idrogeno come propellente di una nuova rivoluzione industriale, trasmessa quindi su tre ruote motrici: le energie rinnovabili, gli edifici sostenibili e le reti intelligenti per distribuire l’energia secondo il modello del web, spostando il potere speculativo dalle oligarchie dell’energia fossile alle persone e quindi alle comunità partecipate. Altri ecologisti hanno minori certezze sul futuro delle celle a combustibile legate all’idrogeno. In ogni caso, è oramai gioco forza proiettare la decisione politica su scenari di reale mutamento paradigmatico del modello di sviluppo, fino ad oggi pensato come illimitato. Non è infatti solo una questione di petrolio. Il mondo naturale, in particolare le sue foreste e tutta l’altra vegetazione, le zone umide, le sue terre e soprattutto i suoi oceani, sono in grado di assorbire fino al 50% delle emissioni di anidride carbonica. Come tutti sappiamo, vengono distrutte a una velocità senza precedenti e questo potrà solo ridurre drasticamente il loro potere di assorbire le emissioni di anidride carbonica. L’Hadley Centre ha considerato questo in un modello recente, che ha portato alla revisione delle stime fatte dall’IPPC, in cui si diceva che le temperature medie terrestri potrebbero salire fino a 5.80 centigradi entro la fine di questo secolo. Per riuscire a salvare il nostro pianeta, questa distruzione deve finire e finire molto velocemente mentre il resto del mondo naturale deve essere protetto coscienziosamente. Una severa conservazione, non lo sviluppo, devono essere all’ordine del giorno. Ad esempio, non si dovrà più permettere alla silvicoltura di abbattere foreste naturali ed in particolare le foreste tropicali. Altre attività che prevedono la distruzione delle foreste, quali le attività di miniera e la costruzione di grandi dighe, dovrà essere seriamente ridotta, mentre al contrario, dobbiamo aumentare significativamente le zone di sottobosco. L’industria agricola dovrà fare a meno delle macchine pesanti e dovrà abbattere i propri arsenali, pieni di sostanze chimiche tossiche, che distruggono gli ecosistemi trasforman-

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do rapidamente il terreno fertile in polvere e rilasciando enormi quantità di carbonio nell’atmosfera. Il vero problema che si dovrebbe affrontare è: quanto tempo ci vorrà per assicurare questa transizione necessaria? L’agenda politica si muove su estensioni temporali non credibili all’oggi. La scala di attuazione per decenni è un tempo troppo lungo poiché le nostre attività distruttive possono trasformare il mondo naturale in una sorgente di emissioni di anidride carbonica piuttosto che un fisiologico assorbitore, allo stesso modo dell’aumento delle temperature e se le temperature continuano ad aumentare alla velocità attuale, questo potrebbe accadere entro i prossimi 30-50 anni e noi potremmo trovarci ad un punto incontrollabile verso l’aumento inesorabile delle temperature. Per questo motivo, dobbiamo prendere provvedimenti adeguati ora. Non c'è più tempo da perdere. Anche se dovessimo ridurre le emissioni del 60%-80% per prevenire la destabilizzazione climatica, la temperatura della superficie terrestre continuerà ad aumentare nei prossimi 150 anni, tempo in cui l’anidride carbonica rimane nell’atmosfera e per molto più tempo, nei mari e oceani. Conseguentemente, possiamo solo sperare che l’aumento delle temperature rallenti abbastanza da garantire che il nostro pianeta possa rimanere un luogo vivibile, una volta che il clima si dovesse stabilizzare. La paura può trasformarsi in responsabilità politica. È la convinzione del filosofo Hans Jonas: «La paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo perorarne la causa, poiché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici» (Il principio responsabilità, Einaudi 2009). Dobbiamo quindi creare un tipo di società che minimizzi l’utilizzo del combustibile fossile e ridefinisca nella sostenibilità il rapporto tra cultura e natura. Il solo tipo di società in grado di soddisfare queste condizioni è una società comunitaria in cui le attività economiche siano condotte su scala più ridotta, occupandosi principalmente dell’interdipendenza dei mercati locali e regionali, con un respiro continentale mediato dalla sussidiarietà e il pluralismo identitario. L’Europa è storicamente l’avanguardia della battaglia per la difesa della biosfera, un motivo in più per sfruttare le sue grandi potenzialità in una visione geopolitica multilaterale dei destini mondiali.

Eduardo Zarelli

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METAPARLAMENTO

Berlusconi rockstar?

L

Ma non rocker!

Dalle chitarre rotte sul palco al Duomo di Milano sui denti. Dai fan, dagli appelli “love love love” ai comportamenti stravaganti, non fosse che è l’uomo a guidare l’Italia (sic): una perfetta rockstar, vero. Che non ha nulla del rocker.

di Alessio Mannino

a rivista Rolling Stone ha ragione: Berlusconi è una rockstar, una “icona pop”, come sostiene da tempo Giuliano Ferrara, uno dei suoi Mogol di fiducia. Narciso, ossessionato dal voler piacere a tutti («Faccio tutto per essere amato») e strappare l’applauso, le prime pagine dei giornali, la simpatia dell’italiano medio (la bandana, le corna, le barzellette), tipicamente moderno nell’inseguire la giovinezza eterna (i lifting, le cure ringiovanenti), a 73 anni suonati “utilizzatore finale” di donnine che si concedono per soldi, candidature o appalti, strabordante, eccessivo, incontenibile, pacchiano, arrogante, trasformista (il presidente operaio, canzoniere, corruttore, separato dall’ex attrice Veronica Lario, cowboy con Bush e affarista col colbacco da Putin), bugiardo che crede alle proprie bugie (definizione di Montanelli), con due famiglie da mantenere e fra cui spartire l’eredità miliardaria, abile stregone di luoghi comuni e viveur tutto festini e aragoste nelle sue principesche ville in Sardegna. È lui, prima come “Sua Emittenza” presidente delle televisioni commerciali Fininvest negli anni ’80, poi come capo di un partito vincitore a sorpresa nel 1994 a suon di spot e jingle musicali (“…e Forza Italia, e siamo tantissimi….”), è Silvio che rende senso comune nel nostro paese il modello americano del successo, dei soldi per i soldi, della politica come continuazione degli affari con altri mezzi. Sull’archetipo dei serial come Dallas e Dynasty, veri racconti omerici del consumismo di massa.

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Come ha scritto il giornalista Stefano Pistolini per spiegare la scelta di dedicargli la copertina come rockstar dell’anno, l’egocentrico pur aeternus di Arcore ha la capacità di far parlar di sé in ogni caso, bene o male non importa purchè si parli di lui, secondo la regola ferrea della società dello spettacolo. Regola messa a frutto dal direttore del mensile, Carlo Antonelli, riuscito grazie a Lui ad entrare nel grande dibattito pubblico evadendo per una volta dalla nicchia dei lettori rockettari. Un bel colpo, non c’è che dire. Ma un colpo mortale alla percezione che l’Italia di Berlusconi (e di Apicella) ha del “rock”. Ora, visto che qualcosa in merito ci capiamo per aver dedicato gli ultimi anni, come musicisti e appassionati, ad un personale culto del genere nato negli anni ’50 negli Usa, ci permettiamo di chiarire la questione ai profani. Prima di tutto allo stesso Antonelli, il quale, pur di un posto in prima pagina sui grandi media generalisti, del mondo che vorrebbe rappresentare ha dimenticato l’essenza: lo spirito di ribellione. Fisica, esistenziale, immediata, dionisiaca. Il rock’n’roll è una musica che vuole semplicemente dare forma, col suono e con l’immagine, ai bollenti istinti di chi ha meno di 30 anni. La stessa parola non ha altro significato che quello riassuntivo di ogni voglia giovanile: scopare (“roccia che dondola”, il su-e-giù dell’atto sessuale). E la sua tradizione, cominciata, per non citare i soliti Elvis, Jimi Hendrix o Mick Jagger, con un Little Richard nero, omosessuale e senza freni sul palco – ci voleva un bel coraggio a essere tutte queste cose messe assieme, nella razzista e bigotta Georgia del dopoguerra – non ha fatto altro che superare se stessa nel regalare talenti travagliati, borderline, iconoclasti, generosi nella distruttività e nell’autodistruttività, dediti all’alcol, alle droghe e all’erotomania per genuini dolori interiori, fuga dalla normalità o conclamata stupidità. Ma sempre autentici anche nella maschera da eroi del microfono e della chitarra. Perché animati da un oscuro, spesso inconsapevole, bisogno di libertà assoluta, vissuta nel godimento estemporaneo. Come se la vita fosse un party senza fine – ma non lo è. Il rock’n’roll, per come la vedo io, è la ricerca dell’adrenalina per colmare il vuoto tragico di un’esistenza che altrimenti sarebbe scandita dai ritmi soffocanti dell’ufficio, della fabbrica e dei piaceri programmati (tv, cinemino, amplesso familiare, vacanze-esodo - e l’immancabile, maledetto shopping). Il rocker, quello vero, è un disagiato, un disadattato benché abbia un lavoro ed una casa come tutti, uno che si sente costretto nella banalità del bene, uno che non sopporta l’ordinario e il conforme, un anarchico senza utopie rivolu-

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zionarie, un umorista perché sensibile alla sofferenza, un seguace di Charles Bukowsky anche se magari non ne ha mai letto una riga, un irregolare che ha regole tutte sue, uno che sente in corpo il bisogno animale di avere sempre un sottofondo musicale per rendersi meno pesante la noia di vivere. La rockstar è la degenerazione di tutto questo a uso e consumo dei media. È la stella famosa che se la tira, che ama i fan ma sotto sotto li disprezza, quei fan grazie ai quali lui è lì

“Il rock’n’roll, per come la vedo io, è la ricerca dell’adrenalina per colmare il vuoto tragico di un’esistenza che altrimenti sarebbe scandita dai ritmi soffocanti dell’ufficio, della fabbrica e dei piaceri programmati...” a sfondarsi di vizi, che fa lo stronzo dandosi arie da immortale e da intoccabile. È quello che non sa vivere se non attorniato da folle osannanti, che caccia i giornalisti che gli rivolgono domande scomode, che fa scenate perché si sente incompreso o equivocato. È una primadonna, spasmodicamente alla ricerca del primo piano, felice della claque come un bambino, assetato di ricchezza, di lussi, di vertigini sempre più alte. Ha venduto l’anima a tutto ciò contro cui il rock è nato: al sistema psicologicamente devastante e repressivo fondato sul denaro unico dio e sul potere fine a se stesso. Berlusconi è una perfetta rockstar. Ma del rocker non ha niente. Neanche un capello trapiantato.

Alessio Mannino

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Moleskine gennaio 2010

L’intervista a de Benoist in Dvd

Ecco come dobbiamo sperare che finisca veramente Berlusconi.

L’intervista completa ad Alain de Benoist, realizzata a Parigi a dicembre 2009 - delle quale trovate un piccolo estratto in questo stesso numero della rivista sarà presto disponibile in edizione Dvd presso la nostra Editrice. Conterrà, oltre alla intervista integrale, dei materiali inediti e di approfondimento su questo fondamentale intellettuale della nostra epoca.

Martiri? No, grazie. Figuriamoci se dopo aver attentato alla democrazia, spaccato in modo virulento l'Italia a metà, calpestato la nostra Costituzione e più in generale aver commesso tante di quelle nefandezze che la metà sarebbero state anche troppe, dobbiamo auspicare che accada qualcosa in grado di far passare Berlusconi come martire per levarcelo di torno. Riuscire a distogliere l'attenzione dal clamore mediatico di quanto accaduto a Milano con il lancio della statuetta del Duomo (del che, si potrebbero fare diverse elucubrazioni simboliche) non è agevole. Ancora di più dalla mole di dichiarazioni e contro dichiarazioni (e smentite e contro smentite, in pieno stile berlusconiano) che stanno piovendo da tutti attraverso le agenzie di stampa in tutti i quotidiani. Ma la cosa è necessaria. E logicamente intuitiva, in fin dei conti. Al di là delle strumentalizzazioni di rito, anche Di Pietro, sul quale si sono abbattuti gli strali di tante parti (anche da parte dei suoi presunti alleati) non ha detto nulla di grave. Ha condannato l'evento com'era giusto facesse. E ha ribadito che un clima di odio politico c'è. Il responsabile di tale clima è facile individuarlo. Si situa, grossomodo, con la stessa persona che ha ricevuto una statuetta sui denti. L'analisi e le dichiarazioni di Di Pietro sono corrette. Ma non è di un martire che abbiamo bisogno. Figuriamoci. Nè di attentati Kamikaze. Questa è la cosa più importante da capire. Perché un Berlusconi martirizzato sarebbe veramente troppo da sopportare, per la memoria collettiva. Berlusconi finirà a modo suo. Tradito e infilato da qualche suo sodale che si sarà stancato di leccargli il culo per decenni e poi vedersi passare sotto al naso, al suo posto e in qualche posizione di rilievo, l'ultima mignotta che ha passato la notte nel lettone di Putin. Oppure finirà come è normale che sia per un uomo dichiarato da molti (sua moglie in primis) come un malato. Per un uomo considerato da molti come uno squilibrato ipertrofico. Circondato da ambienti e persone di dubbio, se non nullo, spessore morale, etico, politico e civile. Tra collusioni, condannati in Parlamento e prostitute, adolescenti sulle ginocchia e iniezioni e docce fredde e finte colate laviche da parvenue. Berlusconi deve finire come è giusto che sia. Implodendo su se stesso. Da folle esibizionista malato. Nudo, con un trench aperto davanti a una ragazzina tredicenne di fronte a una scuola media. Poi potremo tirare lo sciacquone.

Tutta la bibliografia di Alain de Benoist tradotta in italiano, è disponibile sul nostro sito internet nella sezione Biblioteca Ribelle (www.ilribelle.com/biblioteca).


L’ALBA di una nuova era

MOLESKINE

La notizia è passata praticamente sotto silenzio, nel nostro Paese, considerando come fondamentale, al suo posto, diramare i comunicati clinici di Berlusconi ogni ora, quasi fosse un Wojtyla qualunque ricoverato in agonia, oltre ai commenti confusi di maggioranza e opposizione. Eppure, ci sarebbe dovuta essere maggiore attenzione all'altra cosa, da parte di media che si reputino destinati a informare i propri lettori su fatti rilevanti e se vogliamo determinanti. Ebbene la notizia è che l'ALBA ha deciso di abbandonare completamente il Dollaro. Venezuela, Cuba, Bolivia, Nicaragua, In queste brevi righe non vogliamo entrare Ecuador e Honduras si sono riuniti a Cuba e nel merito delle interazioni fra le, oggettive, diversità etnico-culturali e il razzismo: è que- hanno confermato che completeranno l'uscita dall'area del Dollaro. stione molto complessa e delicata. Merita una riflessione ampia che, soprattutto, non L'"Alternativa Bolivariana para los Pueblos può essere liquidata con una stronzata de Nuestra America" (ALBA) che racchiude come dare, a chi ritiene vi siano delle diffei paesi appena citati, ha insomma deciso di renze, dello stronzo. lasciare alla deriva una moneta ormai priva L’esternazione finiana (Fini GF, beninteso) è un sintomo di pochezza intellettuale, vero è di valore e di senso, per far entrare in vigore, che per riconoscere l’esistenza di differenze all'interno della sua associazione, una fra le culture una cultura bisogna averla: nuova moneta chiamata SUCRE (Sistema molto più facile, quindi, liquidare chi la Unico di Compensazione dei pagamenti pensa diversamente come “stronzo”. Ma il fascismo, Fini non l’aveva superato? Reciproci). Non solo quello “movimento” e “corporativiLa cosa è rilevante per due ordini di motivi, sta” (con l’adesione incondizionata al liberiuno dei quali almeno, il primo, è rilevante smo l’ha ben provato) ma anche a quello anche per chi - a nostra differenza - non ha “regime”, quello autoritario, quello de “il capo ha sempre ragione”. particolarmente a cuore lo studio e l'analisi Dall’esternazione non si direbbe, visto che di alternative monetarie del mondo. Se per usi strumentali di piccolo cabotaggio politico, anziché avviare una riflessione, liqui- quest'ultimo è infatti oggetto di riflessione e importanza soprattutto per chi ha ben da il tutto dando dello “stronzo” all’avversario, che poi dovrebbe essere un alleato, e a messo a fuoco la sistematica natura chiunque pensi che la questione andrebbe predatrice delle Banche Centrali (molti, affrontata e non liquidata. ancora oggi, non si rendono conto della Alla superficialità del battutista vengono cosa) ebbene l'altro aspetto, il principale, però immediatamente in soccorso gli intellettuali di corte, pallida imitazione degli ovvero l'abbandono del Dollaro, sarebbe intellettuali organici da anni 70 e precedendovuto essere fondamentale da far sapere ti, che cercano di dare dignità, rincarando la dose e l’offesa al diverso, non quello di etnia da parte dei media. Che invece hanno taciuto, o quasi. o cultura, ma quello di pensiero… Eppure, la “destra mulino bianco”, non Il motivo è presto detto: questa decisione aveva superato anch’essa il fascismo regidell'ALBA conferma ancora una volta lo me? schianto - definitivo - verso il quale si sta Ma chi dà dello stronzo a chi è diverso da lui perché considera ci siano dei diversi, non dirigendo l'economia americana e quella è per conseguenza logica anche lui stronzo? mondiale a essa collegata. Lasciamo pure l’indagine approfondita su I motivi chi ci legge, almeno, li conosce. quest’ultima stronzata a coloro che credono di fare futuro mentre si limitano a un dispera- Stampa indiscriminata di banconote senza copertura reale da parte della Fed, debito to, ma fruttifero, tentativo di dare spessore alla pochezza del meschino cabotaggio pubblico alle stelle e nessuna possibilità di politico da lite condominiale del presente. ripresa per una economia Affronteremo a breve, noi altri, lo stesso matematicamente già fallita decenni tema: con argomentazioni differenti, s’intenaddietro, sono gli elementi che fanno de. E fuori dalla corte, ci mancherebbe.

Stronzi e stronzate


emergere (o dovrebbero) la realtà per quella che è: l'era del Dollaro è alla fine. E se i biglietti verdi conservano ancora temporaneamente una certa valuta e una certa credibilità ciò avviene per due motivi ben precisi. Il primo: non ci si rende conto della follia della Fed di stampare banconote prive di valore e immetterle sul mercato. La seconda: cadendo il Dollaro, cadrebbero molte delle economie a esso collegate. Non è un caso che, senza dare troppo nell'occhio, molte economie mondiali (Cina in primis) stiano ricorrendo all'oro cercando di dismettere per quanto possibile tutte le riserve e i titoli in Dollari presenti nei propri forzieri. L'ALBA lo fa strillando, come è sua consuetudine. In altri tempi, una dichiarazione del genere avrebbe fatto scatenare una reazione militare negli Stati Uniti. Vedremo. Ciò che conta, è verificare ulteriori punti che confermano l'analisi fatta. Quanto potrà ancora durare il Dollaro e le economie a esso collegate?

Nobel Parabellum Il conferimento del Nobel per la pace a Obama ha destato molte perplessità, un po’ come se a Madre Teresa l’avessero dato mentre era ancora novizia, ma il suo osannato discorso sul perseguimento della pace anche attraverso la guerra ne desta un’altra. Però l’antico concetto romano del si vis pacem parabellum, riciclato in una versione che suona più si vis pacem paraponziponzipò, non era lo stesso di

George W. Bush con l’attacco preventivo? E le guerre per la pace che sta conducendo Obama, non sono forse le stesse guerre che ha scatenato Gorge W.? Siamo dunque al plagio e alla presa di un’onorificenza che, alla luce del discorso del nuovo Messiah d’oltreoceano, sarebbe legittimamente dovuta spettare all’uomo che ha i riflessi più lesti di Berlusconi. O forse il premio è stato conferito perché Obama ha sviluppato ulteriormente il concetto, gettando e chiedendo ad altri di gettare nuova carne e cannoni nei conflitti, radicalizzandoli sempre più?


Al Direttore di Repubblica

MOLESKINE

Gentile Direttore, trovo divertente che il suo quotidiano di oggi (30 novembre 2009) abbia deciso di ospitare sulle proprie pagine una lettera nella quale Pier Luigi Celli rivolgendosi al figlio prossimo alla laurea - parla con toni molto accorati di un paese sostanzialmente allo sfascio, che sarebbe bene abbandonare per tempo, esattamente come fanno i proverbiali topolini con la nave che affonda. Trovo divertente, dicevo, che l'eminente autore di un libro dal titolo "Comandare è fottere" (Ed. Mondadori), ex Direttore Generale della Rai nonchè attuale Direttore Generale della Luiss, membro dei consigli di amministrazione di Lottomatica, Hera SpA e Messaggerie Libri, ex Direttore del Personale in Eni, Omnitel, Olivetti ed Enel, nonchè ex Direttore Corporate Identity di Unicredit, descriva il cosiddetto "sistema Italia" con toni così catastrofisti. Certo, quello che scrive Celli è vero. Questo paese è gestito da baronie e corporativisimi. Questo paese non offre alcuna prospettiva ai giovani. Questo paese non è fondato su alcun valore anche solo vagamente simile alla meritocrazia. Questo paese relega fior di laureati in posti di lavoro umilianti e sottopagati. Questo paese dispone di un top managment assolutamente impreparato alle sfide del mercato globale. Il sistema bancario (dai mutui "in Ecu" di trent'anni fa ai mutui "congelati" dei giorni nostri) di questo paese fa sorgere da decenni in quasi tutti i cittadini italiani un vago e mai sopito sospetto di organizzazione truffaldina. Le istituzioni democratiche di questo paese sono minate dalla presenza di individui che spesso si pongono al confine con la criminalità - molto spesso oltrepassandolo. Non voglio qui soffermarmi sulle assurde modalità con le quali - da sempre - sono stati gestiti i cosiddetti colossi industriali del nostro paese (Alitalia e Fiat solo per parlare degli anni recenti, ma volendo tornare indietro potrei citare Alfa Romeo, Iri, Ferrovie dello Stato e decine di altri). Non voglio nemmeno parlare delle tematiche della giustizia, tanto care anche al quotidiano che Lei dirige. Non mi soffermerò sul buco nero del nostro sistema universitario, del quale il nostro Celli è peraltro parte attiva ed integrante, come peraltro è parte storicamente integrante di quasi tutte le realtà che ho sopra menzionato. I fatti sono sotto gli occhi di tutti e l'unica diretta conseguenza di questo stato di cose è l'assoluta impossibilità per i ragazzi compresi nella fascia tra i 18 ed i 40 anni di progettare un futuro lavorativo e quindi sociale anche solo appena dignitoso. Gentile Direttore, potrei raccontarle la mia storia e che cosa faccio nella vita, ma qualsiasi suo collaboratore potrà agevolmente informarsi su Wikipedia. Oggi io le scrivo come potrebbe scriverle qualsiasi semplice cittadino 35enne, laureato in giurisprudenza, con una moglie ed un figlio di un anno e mezzo. Mi creda quando le dico che c'è tanta rabbia nella mia generazione: una rabbia che temo prima o poi possa deflagrare. La scorsa

estate intrattenni un breve rapporto epistolare con Rita Clementi, la ricercatrice che scrisse al Presidente della Repubblica prima di lasciare per sempre il nostro paese e mi creda quando le dico che non saranno certo le parole di Pier Luigi Celli a contribuire in qualche modo ad acquietare questa rabbia. Mi domando se davvero il figlio di Pier Luigi Celli si potrebbe mai ritrovare un giorno nella spiacevole condizione di non trovare un posto di lavoro, o di doversi rassegnare ad una postazione di call center a seicento Euro al mese. Mi chiedo come interpretare il messaggio che Celli vuole trasmettere al proprio figlio e - indirettamente - alla nazione: se come una implicita dichiarazione di fallimento personale nei confronti di un mondo imprenditoriale, industriale e politico che in qualche modo - con il proprio operato - si è contribuito ad assecondare oppure come una semplice dichiarazione di disfattismo tipicamente italiano simile a tante altre e - come tale - non proprio necessaria. E ancora mi domando se Pier Luigi Celli - che è stato direttore generale della Rai dal 1998 al 2001, in tempi politicamente turbolenti - avrebbe scritto un'analoga missiva disfattista anche se al governo ci fossero stati coloro che oggi sono all'opposizione, o se piuttosto in tale circostanza non avrebbe optato - nel rivolgersi al proprio figlio - per quel senso di incrollabile speranza nel futuro che noi tutti conserviamo in qualche sempre più recondito angolo del nostro cuore. Fortunatamente (o sfortunatamente per qualcuno), in questo paese c'è ancora una nicchia di cittadini che conserva memoria degli anni e degli eventi passati. Ed è proprio in base alla memoria che voglio esprimerLe tutta la mia perplessità sulle parole di Pier Luigi Celli, piovute dal cielo non certo come le parole di un qualsiasi padre ad un qualsiasi figlio, ma come un qualcosa di più autorevole, sebbene non si capisca a quale titolo. Spero che con tale intervento il quotidiano da Lei diretto non abbia voluto semplicemente raccontare ancora una volta di un paese mal governato e quindi prossimo allo sfascio totale. In tal caso mi sentirei di rassicurarla: tale sensazione di estrema precarietà è - da almeno una quindicina d'anni - assolutamente scolpita nell'animo di tutti noi. Piuttosto sarebbe bello che il suo quotidiano - anche per impostazione politica - potesse trovare il tempo ed il modo di ospitare le parole magari di un padre ex dipendente di Eutelia oppure ex-operaio tessile in Veneto, piuttosto che di un padre "Megadirettore generale" esattamente come, da ragazzo, leggevo nei romanzi di Paolo Villaggio. Perchè, come vede, la storia di questo paese non cambia mai, e quarant'anni dopo Fantozzi - sono sempre gli stessi notabili a poter usufruire del diritto di parola. Ma che - oltretutto - siano quegli stessi notabili a suggerire ai giovani "neolaureati senza prospettive" di lasciare il paese per sempre io lo trovo davvero grottesco, oltre che di pessimo gusto. Cordialmente, Giuseppe Carlotti


ANALISI

Minareti

e dintorni

“Il minareto sta alla moschea come il campanile alla chiesa”. Islam, Occidente, immigrazione, identità, multiculturalismo, piccole patrie e nostalgie. Cosa pensare?

Q

di Fulvio Lo Monaco

uesta volta la Corte di Strasburgo non dovrà pronunciarsi sulla recente decisione della Svizzera, intesa a vietare la ulteriore costruzione di minareti sul proprio territorio, a differenza del pronunciamento sul crocefisso sconsigliato o addirittura vietato per le scuole italiane. La Corte non potrà mettere becco nelle decisioni della Confederazione Elvetica, per il semplice fatto che la Svizzera, con un referendum, a larga maggioranza ha bocciato nel 2001 l’adesione all’Europa Unita. Insomma la Svizzera può fare ciò che vuole a casa propria, anche in fatto di religione, come insegna la predicazione di Zwingli e di Calvino che al di là delle nostre Alpi guadagnarono un largo consenso alla Riforma. Ecco, dunque, che la Svizzera fa un po’ invidia a noi Italiani. Invidia nella correlazione tra due negazioni, il crocefisso e il minareto, il primo negato da un entità sovranazionale che ha giustamente messo in sospetto il popolo nostro, il secondo una più che legittima decisione di un paese che batte la propria moneta ed è perfettamente sovrano tra i propri Cantoni. Con questo non vogliamo fare l’agiografia della Svizzera, ma entrare nel merito della decisione di porre un fermo al proliferare dei minareti, nonostante questa decisione venga da una nazione eccentrica – singolare anche per il tardivo voto concesso alle donne - nei confronti della storia d’Europa e del mondo.

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La Svizzera è uno strano paese che piace molto ai buonsensai, agli amanti della pace in chiave concettuale e non importa se utopistica, molto meno a chi si impegna sulle idee e non rifiuta le azioni, anche se ribelli. La Svizzera è infatti povera di storia e vanta forse un solo eroe nazionale, un arciere di nome Guglielmo Tell, le cui imprese si perdono tuttavia nella leggenda. In quanto alla decantata forma statuale della Svizzera, non si tratta di un deliberato autoctono. Al contrario, la Repubblica fu imposta dai rivoluzionari francesi nel 1798 e fu trasformata in confederazione di Stati solo nel 1803, guardacaso da un Napoleone che, nella fattispecie, è senz’altro condiviso nel giudizio da Umberto Bossi. Inoltre, se è ingeneroso pensare alla Svizzera come alla città dei balocchi, con banche, orologi e cioccolata, è vero però che la neutralità della Svizzera, nei due conflitti mondiali del secolo scorso, è dovuta al denaro conservato nelle sue banche dai contendenti delle due guerre, forse – e diciamo forse - al prezzo della sentenza per cui la storia non avrebbe rispetto dei popoli imbelli. Fatto sta che molto del denaro dei vinti delle due guerre mondiali – dei vinti morti – è rimasto nelle mani degli Svizzeri senza che alcuno potesse reclamarlo. In compenso – per chi vuole pensarlo tale - molto del poco denaro che sta affluendo allo Stato italiano, grazie al discusso “Scudo fiscale”, proviene proprio da quelle banche svizzere. Come si vede, anzi si legge, la Svizzera non rappresenta dopotutto un modello privo di difetti, sorvolando anche sul nano esercito mercenario fornito al Papa sul soglio. Ma sui minareti la Svizzera ha perfettamente ragione. Una ragione che si può definire tempestiva, considerando le nude cifre. La Confederazione elvetica conta attualmente 350.000 musulmani su una popolazione di 7 milioni di abitanti. Dunque una decisione presa anche sul divenire, profetica, pensando al proliferare della mezzaluna sul proprio territorio, dando per certo che dietro la negazione di ulteriori minareti vi è certamente la volontà di arginare l’immigrazione in generale e quella musulmana in particolare. In altre parole la Svizzera si difende da una ingerenza montante e nega il minareto non perché offenda il paesaggio delle Alpi e dei laghi. Lo nega perché sa benissimo che dietro la moltiplicazione di alcuni edifici eretti a simboli, superficialmente giustificati dalla libertà di preghiera, vi è la presa di possesso di una forza etnica e demografica

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che sta invadendo l’Europa e minaccia anche la “mite” Svizzera. Sulla decisione di questo paese a noi confinante si è udita naturalmente una qualche eco, a nostro avviso troppo debole rispetto al problema della immigrazione e alla altissima percentuale di musulmani nei 4 milioni e passa di immigrati che conta la nostra nazione. In una puntata di Porta a Porta, a esempio, Gianni Riotta ha dichiarato che la scelta della Svizzera è da considerare sbagliata, senza peraltro fornire una sufficiente spiegazione di questo parere.Ambigua, invece, la posizione di Fini (quello sbagliato). Il Presidente della Camera dapprima si è espresso in modo implicitamente favorevole alla costruzione di nuove moschee in Italia, ovviamente con i relativi minareti, ma poi si è pronunciato negativamente sulla prevalenza del precetto religioso dell’Islam a fronte delle regole laiche del vivere civile. E su quest’ultimo aspetto, singolare ne è risultata l’assonanza di Fausto Bertinotti che, con la consueta eleganza, si è fermato sul primato religioso dei musulmani che nega legittimità alla politica. Tralasciando allora questo incontro salottiero e pensando a un nostro teorico referendum sulla decisione svizzera, si può credere con buona approssimazione che gli elettori si dividerebbero tra i sostenitori dei minareti - favorevoli a un mondo multirazziale, multireligioso - e i difensori della propria identità storica e fideistica schierati per il fermo alla proliferazione dei minareti. Vale a dire tra chi crede alla inarrestabilità del fenomeno migratorio, e anzi lo auspica, e coloro che invece inneggiano alla decisione svizzera, cioè a un paese coerente nel restare fuori dell’Europa e fuori della portata migratoria, eretto a caposaldo della propria riconoscibilità in un mondo che minaccia una mortale confusione. Non sappiamo quale sarebbe l’esito matematico del referendum che si è ipotizzato. Ma si può spendere qualche parola sull’oggetto in sé, sul minareto, e su quello che il minareto comporta. Il minareto sta alla moschea come il campanile alla chiesa. E dal minareto il muezzin annunzia le ore e chiama i fedeli alla preghiera - cinque volte al giorno - come dal campanile si leva il suono delle campane che ricorda ai fedeli gli appuntamenti del mattino e del vespro. Entrambi, minareto e campanile, sono chiaramente simboli fallici, così come è un fallo – lo diciamo di passaggio - l’obelisco egizio di

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piazza san Pietro, con i geroglifici del faraone, sul quale i cattolici hanno posto una croce. Ma il minareto e il campanile, erosi dal cosiddetto progresso, hanno tuttavia perduto una parte del fascino primigenio, lì dove hanno sostituito con un nastro magnetico il muezzin e il campanaro. Manca il contatto umano con il popolo, un contatto diretto esercitato dal banditore in persona, e un contatto sia pure indiretto ma valido, propiziato dalle mani che tirano la corda della campana. C’è poi attualmente una differenza notevole tra il campanile e il minareto. Quello, il campanile, è in fase decrescente come insegna la flessione della chiesa cristiana e quella della chiesa cattolica che più ci riguarda. Questo, il minareto, è invece in fase crescente con le migrazioni delle genti musulmane e si dimostra, pertanto, invasivo. Il minareto, inoltre, vanta un titolo semantico che il campanile non ha. La parola viene dall’arabo manara che significa luce, faro proprio oggi in cui si spegne il cattolicesimo, affogato nelle oscurità dei dogmi. Attenzione, però. Nonostante le contraddizioni, il cristianesimo e il cattolicesimo nostrano, sono al contempo portatori di indiscutibili valori e, soprattutto, partecipano fortemente della nostra identità. Se c’è da cambiare qualcosa nella nostra religione e nel nostro modo di essere, le riforme debbono partire dagli Italiani, come si è osservato a proposito del crocefisso negato dalla Corte di Strasburgo. Non possono essere imposte dalla invasione musulmana, perché è questo che in fondo ci minaccia. Non abbiamo nulla di prevenuto nei confronti dell’ Islam, a patto che resti nel proprio seminato in quanto a pretese che non hanno nulla in comune con l’integrazione, vantata follemente da alcune frange no global dei Centri sociali. I musulmani non possono integrarsi con l’Occidente così come gli occidentali di educazione cristiana non possono integrarsi con l’Islam. Possiamo scambiare culture ed esperienze, questo sì, mantenendo però le proprie ragioni di essere. Pim Fortuyn è morto ammazzato perché aveva riassunto in cinque punti – proprio come i pilastri dell’Islam - ciò che in modo insormontabile ci divide dall’Islam: il principio della responsabilità personale, la separazione fra Stato e Chiesa, la parità fra uomo e donna, i limiti dell’autorità degli adulti su bambini e giovani. Ed a questo si aggiunge un patto pericoloso, non altrettanto presente tra gli occidentali, che i musulmani si portano dietro dall’Arabia, condensandolo nella perentorietà di una sola parola: Asabìa, che vuol significare solidarietà di clan, di tribù e, più propriamente, di sangue. Quel sangue ci riporta di filato al minareto e alla Svizzera, terra disponibile e ambita dagli esuli e dai fuorusciti, come insegna

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l’ospitalità fornita a personaggi spesso tra loro lontani anche nel tempo, come fu per Mazzini a petto del giovane socialista fuggiasco, Mussolini. Una Svizzera quindi storicamente ospitale, ma oggi contestualmente decisa altrimenti, dalla deriva musulmana nel proprio paese. I minareti svizzeri, quelli esistenti e quelli negati, sembrano mandare un messaggio non avulso da questo giornale. Per non essere sopraffatti nelle idee, nelle azioni, nella volontà di conservare ciò che del passato non passa (Veneziani) è lecito ribellarsi. Eppure abbiamo il massimo rispetto dell’Islam. L’angelo Gabriele che visitò Maometto sul monte Hira, è lo stesso angelo - sia pure un tantino invecchiato - che cinque secoli prima annunciava la gravidanza alla giovane Myriam, nella vulgata, a Maria. Forse per questo anche il minareto e la moschea sono spesso molto belli a vedersi, se osservati nel loro ambiente da tempo radicato nella storia. I musulmani hanno lasciato dietro di loro imponenti testimonianze di scienza e di arte, di matematica e di letteratura. Hanno conservato i testi dei filosofi greci quando i cristiani li bruciavano sul rogo. E una genìa particolare di musulmani, i Mori di Spagna, prima di essere scacciati da Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, perché minacciavano l’economia del paese e il cristianesimo, avevano costruito meraviglie come la moschea di Cordova e l’Alambra di Granada. Che dire, poi, dell’aspetto esotico, con le favole ismaelite che animavano le soste della carovana, dopo la proschinesi e la lettura del Corano? Che dire dell’Islam ottomano che colorava gli ambienti di odalische velate? Lawrence d’Arabia racconta di una casa le cui stanze sono costruite con mattoni impastati con acqua di zàgare e di rose, tranne una: la stanza più bella, priva di essenze ma aperta al ghibli, perché affacciata sulla immensità del deserto. Nostalgia? Sì, di un mondo ancora non completamente perduto, fatto di viaggiatori desiderosi di apprendere e di scambiare culture, e non di colonialisti invasori da ovest, con l’economia globale, con la democrazia coatta e dove non basta con le armi, da Sud e da Est con i musulmani in viaggio disperato sulle carrette del mare. Utopia? Forse. Utopia di un mondo fatto di entità aperte, ma non per questo promiscue e indefinite, magari di piccole patrie, come altri hanno autorevolmente suggerito. Un mondo non ostile ma fortunatamente diviso.

Fulvio Lo Monaco

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ANALISI

Un avvocato

e troppi misteri

Non solo Berlusconi e la querelle “corrotto” e “corruttore”: David Mills, ecomafie, armi e rifiuti tossici. E un “perdono” pagato dal nostro Stato 40 milioni di dollari. A spese dei contribuenti.

A

di Germana Leoni

partire dagli anni Ottanta si è registrato un notevole incremento del volume di affari delle ecomafie, neologismo coniato da Legambiente per indicare organizzazioni dedite ad attività criminose di stampo prettamente ambientale: organizzazioni che si avvalgono del supporto esterno della criminalità organizzata ma che pullulano in realtà di colletti bianchi. Fra questi Giorgio Comerio, ingegnere italiano titolare della nota Oceanic Disposal Management (Odm), società registrata nel 1993 nelle Isole Vergini Britanniche. Secondo le indagini della magistratura, Comerio era anche coinvolto nell'affondamento doloso nel Mediterraneo di navi cariche di sostanze tossico-nocive e radioattive, peraltro solo una delle svariate forme di smaltimento illegale dei rifiuti speciali. Coinvolto anche in traffici d'armi, Comerio era sospettato di appartenere ai servizi segreti, aveva contatti internazionali a livello di ministeri, godeva di protezioni eccellenti e usufruiva di finanziamenti istituzionali, come peraltro ammesso dallo stesso e confermato il 27 luglio 2004 in risposta a un'interpellanza parlamentare dall'onorevole Carlo Giovanardi, all'epoca ministro per i rapporti con il Parlamento. Parallelamente le indagini di Greenpeace International avevano evidenziato, tramite semplici intrecci societari, che i personaggi che risultavano direttamente o indirettamente collegati alla rete Odm non

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La Commissione d’Inchiesta ha definito il caso oggetto dell’articolo “una truffa anglo-italiana”.

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erano dei banali faccendieri, bensì dei rinomati professionisti, avvocati, imprenditori, finanzieri, banchieri e comunque insospettabili di altissimo livello che si muovevano sulla scena internazionale. E dal rapporto di Greenpeace, a sorpresa, spuntava ripetutamente il nome di David Mills, avvocato londinese noto alle cronache italiane solo per le sue disavventure giudiziarie relative alla costituzione delle società offshore della Fininvest. Ma Mills era anche un personaggio di primo piano nei circoli che contano di Londra. Fino al 2006 era stato sposato con Tessa Jowell, un membro del Gabinetto di Tony Blair, ed era il cognato della chiacchierata Barbara Mills, negli anni novanta responsabile prima del Serious Fraud Office e poi del Public Prosecution Office. E il padre, Kenneth Mills, alla fine della Seconda guerra mondiale aveva diretto la sezione di Gibilterra dell'MI51, il servizio segreto di Sua Maestà. Quanto alla controversa attività dell'avvocato, nel 2003 era rimasto coinvolto nella tentata, e pare fallita, vendita di aeromobili della British Aerospace all'Iran, paese sul quale gravava un pesante embargo statunitense2. Curioso perché il paese degli ayatollah, sulla carta uno “stato canaglia”, già negli anni Ottanta era stato clandestinamente armato dagli americani tramite complesse triangolazioni che avevano coinvolto diversi servizi segreti occidentali. David Mills era inoltre presentato da Greenpeace come la connessione britannica di Filippo Dollfus, finanziere svizzero socio di Giorgio Comerio e azionista della sua Odm. Già inquisito negli anni novanta dalla procura della repubblica di Palermo, Filippo Dollfus era assurto alla ribalta delle cronache italiane nel 1994 per aver partecipato al salvataggio, tramite acquisizione, della società Acqua Marcia di Francesco Caltagirone. Filippo Dollfus era anche azionista della Fitrade Ltd, società britannica il cui nome originario era Piergate Investments Ltd, e come tale era stata registrata nel 1992 da David Mills presso la sua Cmm Ltd3. Cmm sta per Carnelutti McKenzie Mills, laddove Carnelutti è il nome del titolare del noto studio legale presso il quale l'avvocato aveva iniziato la sua carriera, e McKenzie è il secondo nome dell'avvocato David McKenzie Mills. Oltre a Dollfus, nel consiglio di amministrazione della società sedevano Tanya Manyard, il braccio destro di David Mills, e Margaret Carrington, consigliera quest'ultima anche della Technological Research and Development Ltd (Trd), altra società britannica registra-

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ta da David Mills4, la stessa che nel 1988 aveva spedito a diverse ditte italiane una lettera con la quale reclamizzava la propria disponibilità a smaltire rifiuti industriali e “scorie” in un paese africano. Nel suo consiglio di amministrazione sedeva anche l'avvocato ticinese Marco Gambazzi, presidente fino al 1995 della Geam Sa, società di Lugano azionista a sua volta della Cantieri Navali Rodriquez, di proprietà della famiglia di armatori messinesi Rodriquez. Ed è almeno dalla seconda metà degli anni Ottanta che anche i Rodriquez diventavano clienti di David Mills nel contesto di una vicenda talmente bizzarra da determinare a fine anni Novanta l'istituzione di un'apposita Commissione d'inchiesta per affari del Commonwealth britannico5. La materia d'indagine riguardava la vendita a una società caraibica di tre aliscafi preposti, almeno in teoria, a garantire un servizio ferry inter-insulare di lusso nel mare dei Caraibi: una vendita per $ 29.800.000 (ventinove milioni e ottocentomila) finanziata da un consorzio di sette banche rappresentate dalla Morgan Grenfell, una merchant bank della City di Londra. Il contratto era stato firmato il 4 marzo 1985 fra la società venditrice, la messinese Aliscafi Snav del gruppo Rodriquez, e la Nautical Trading Ltd, società acquirente di Saint Kitts and Navis6, arcipelago delle Piccole Antille. La Nautical era stata incorporata il 15 dicembre del 1984 dal britannico William Adams7, alias Bill Evans, individuo in possesso di due passaporti del quale la commissione d'inchiesta aveva evidenziato il “notevole record criminale”8. Era stato la mente dell'intera operazione. Nell'ottobre del 1986 la Alscafi Snav, e cioè la società dei Rodriquez venditrice degli aliscafi, aveva acquisito il 25% del capitale azionario della Nautical Trading, la società acquirente il cui direttore era David Mills, legale al tempo stesso dei Rodriquez dal luglio del 1986.9 Curioso no? Soprattutto perché dei tre aliscafi commissionati ne sarebbero stati consegnati solo due il 5 agosto 1985. Non male per quasi 30 milioni di dollari incassati per la vendita di due aliscafi di seconda mano che oltretutto sarebbero spariti pochi mesi dopo, e cioè nel marzo del 1986, nel tratto da Saint Kitts a San Juan de Puerto Rico. Gli aliscafi sarebbero però ricomparsi nel marzo del 1992 a Cipro, solo per essere svenduti a soli $ 380.000 alla cipriota Winnerstar Shipping Company Ltd, società che secondo la Commissione d'inchiesta apparteneva a un ex direttore della Aliscafi Snav10 ed era rappresentata da David Mills11.

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La Commissione metteva volutamente in evidenza il fatto che, alla sparizione dei due aliscafi, la Nautical non avesse fatto assolutamente nulla per capire che fine avessero fatto. In aggiunta la polizia locale non aveva avuto mandato di aprire nessuna inchiesta e la reazione del Governo di Saint Kitts and Navis era stata di totale indifferenza... A prima vista la vicenda sembrerebbe “solo” una mega-truffa dal sapore kafkiano se non fosse che, secondo la Commissione presieduta da Sir Louis Blom-Cooper, la vendita dei due aliscafi, finanziata da un consorzio di sette banche, era stata garantita per 40 milioni di dollari (costo più interessi) dalla Sace, e cioè dallo Stato italiano12. Garantita dalla Sace e contro-garantita dal Governo di Saint Kitts and Navis, il cui Primo Ministro, il Dr Kennedy Simmonds, al momento di risarcire aveva inizialmente dichiarato che la sua firma era stata una pura formalità, e aveva successivamente chiesto scusa al Governo italiano ottenendo il “perdono”. E tanto sembra fosse bastato. Commenta al riguardo il rapporto della Commissione: “Il Governo italiano non ha intrapreso alcuna azione legale né in un tribunale di Saint Kitts and Navis, né in Italia e nemmeno in Inghilterra, dove la legislazione non avrebbe probabilmente dato scampo al Governo di Saint Kitts and Navis. Il risultato è stato che il Dr Simmonds, parlando a nome del suo Governo, ha effettivamente ottenuto il 'perdono' che aveva chiesto....”13 Un “perdono” da 40 milioni di dollari pagato dai contribuenti italiani per finanziare ciò che la Commissione d'inchiesta ha definito: “una truffa anglo-italiana i cui tentacoli si sono estesi a un piccolo, non sospettoso e non sofisticato Stato”14. Cosa nascondeva questa farsesca vicenda? E dove sono finiti i quasi 30 milioni di dollari pagati per due aliscafi di seconda mano spariti a pochi mesi dalla consegna? E per quali servizi? È lecito chiedere spiegazioni a David Mills e sperare di aver capito male?

Germana Leoni

Note:

1. The Independent – 'David Mills – The Networker' - 25 febbraio 2006 2. Si vedano il The Independent, il The Guardian e il The Observer 3. La Rete - rapporto di Greenpeace – settembre 1997 4. Ibid 5. La Commissione d'inchiesta era stata voluta dal Governatore per indagare sul comportamento di alcuni organi istituzionali, fra cui il ministero delle Finanze, nella vicenda dei tre aliscafi. 6. Dal 1983 Stato insulare indipendente all'interno del Commonwealth. 7. Unitamente al britannico Roger Morgan 8. Report of the Commission of Inquiry of Sir Louis Blom-Cooper – 14/7/1999. Chiamato ad indagare dal Governo di Saint Kitts and Navis era stato Sid Bloxom, ispettore della Royal Canadian Mounted Police. 9.Ibid 10. Vittorio Morace 11. Report of the Commission of Inquiry of Sir Loui Blom-Cooper - 14/7/1999 12. Ibid 13. Ibid 14. Ibid

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ANALISI

Bullismo

L

e comunità

“Il vero nemico di una comunità non è la comunità vicina, ma l’ideologia che le vuole cancellare entrambe: la globalizzazione.” Introduciamo il comunitarismo: azione positiva possibile. di Manuel Zanarini

e ultime notizie di cronaca riferiscono dell’ennesimo atto di brutalità commesso tra giovani, per non dire giovanissimi; nello specifico, mi riferisco alla stupro di gruppo subito da una ragazza quattordicenne nel foggiano. Mentre i maggiori media del paese si perdono in stupide, quanto inutili dietrologie su violenza sessuale, ruolo della donna nella società attuale, ecc., io penso che queste dovrebbero essere “buone occasioni” per riflettere sulla situazione delle giovani generazioni nell’attuale contesto storico, per poi allargarsi alla condizione dell’“uomo” in generale. Quello che, a mio avviso, appare evidente è come le persone, con particolare riferimento ai giovani, si sentano estranee alla società in cui vivono, finendo col ripiegare in ambiti nichilisti di isolamento sociale (videogiochi, chat, social network virtuali, ecc.) o dando vita a sottoculture non-ufficiali (ultras, bande di bulli, ecc.). La domanda che ci si dovrebbe porre, di fronte a questi eventi, è se ciò sia frutto di un caso, di una crisi passeggera, o non sia il risultato di un sistema – il liberal-capitalismo – che, con la fine delle grandi ideologie novecentesche (fascismo per sconfitta militare e comunismo per implosione interna) si sta imponendo come “unica ideologia globale dominante”. Per rispondere a tale domanda, credo sia fondamentale porre l’accento su alcuni tratti caratteristici dell’ideologia che fa da base a tale sistema. L’elemento caratteristico della società attuale è l’ atomismo, il considerare l’individuo come un’entità isolata, sia in senso orizzontale (nel confronto coi suoi simili), sia in senso verticale (rispetto alla storia della collettività e della nazione in cui vive). Ma questo isolamento, ed estraniamento, non è frutto di un momento transitorio, di

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una fase di crisi del sistema; bensì è l’elemento caratteristico per capire la società che è emersa dopo la fine della Rivoluzione Francese, e che ha raggiunto il suo apice nel corso del XX Secolo. Tale risultato è assolutamente funzionale all’imposizione del “libero mercato mondiale” dominato dalle multinazionali; infatti, quello di cui i grandi sforzi del capitale hanno bisogno è un “consumatore unico” a livello planetario, un essere umano che soggiaccia alle stesse mode, abbia gli stessi bisogni indotti, addirittura gli stessi gusti alimentari, in modo da poter imporre le proprie merci uguali in tutto il mondo (assolutamente tipico il caso di Mc Donald’s) e a tutte le persone della Terra. Nella cosiddetta “società Occidentale”, in effetti, l’individuo si trova schiacciato tra due forze devastanti: da un lato sono stati eliminati tutti i vincoli che lo legavano ai suoi simili (dalla famiglia, al vicinato, alla tradizione, allo Stato nazionale, ecc.), dall’altro si trova al centro di una massiccia opera di appiattimento globale.Va detto, che ciò non è avvenuto pacificamente, né naturalmente; anzi, è stato imposto o “manu militari” (in Europa con la II Guerra Mondiale, e nei paesi musulmani con le varie “guerre preventive” in atto), oppure attraverso pressioni economiche internazionali (la “politica del debito” nei confronti dei paesi in via di sviluppo da parte dei “poliziotti della globalizzazione” come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, la WTO, ecc.). Quello che ora dobbiamo chiederci, è se avesse ragione Fukuyama, secondo il quale siamo arrivati alla “fine della storia”, cioè al momento in cui “una società migliore non sia possibile”; oppure, esiste un’alternativa concreta a tale ideologia e al sistema che ha generato. La risposta che credo sia ottimale a tale quesito è fornita dal comunitarismo. Questa corrente filosofica ha origini abbastanza lontane; infatti, risale al periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione Francese, quando i pensatori “conservatori”, come Jean Bodin o De Maistre, cominciarono da subito a denunciare la distruzione dei “vincoli tradizionali” che da secoli dettavano il vivere comune, e la loro sostituzione con ideologie figlie dell’Illuminismo. Classica del periodo è l’opposizione all’ideologia (che oggi si vorrebbe imporre con invasioni e bombardamenti ai paesi riottosi) dei “Diritti dell’ Uomo”, sintetizzabile nella massima: « Non ho mai incontrato l’uomo della Dichiarazione dei Diritti, ma solo italiani, russi, francesi, ecc.».

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Quello che è centrale in questo modo di pensare è che, a differenza di ciò che affermano i contrattualisti, l’“essere umano” non esiste al di fuori e a prescindere dalla società in cui nasce e vive ( il “contesto”, per usare un’espressione di Heidegger), e che la felicità della collettività non è data dalla somma delle felicità dei singoli. Particolarmente significativa a riguardo è la teoria di Emile Durkheim dei fatti sociali, cioè quei fenomeni che esistono socialmente già al momento della nascita del singolo (ad esempio il linguaggio) e che finiscono col determinarne l’individualità. Per dirla con uno dei padri del nuovo comunitarismo statunitense, Alsdair McIntyre, « la storia della mia vita è sempre inserita nella storia di quelle comunità da cui traggo la mia identità». Ma allora, su cosa si baserebbe questa comunità, che si opporrebbe alla società odierna? Una risposta, la possiamo trovare nel primo pensatore che usò espressamente tale termine: Ferdinand Toennies. Costui affermava che, mentre la “società” si basa sul “contratto”, e quindi su un’unione transitoria nata per soddisfare i bisogni dei singoli; la “comunità”, invece, si basa sul consensus, un sentimento istintivo di reciproca comprensione, frutto di valori e tradizioni comuni perduranti nel tempo. Per semplificare, possiamo seguire Marcello Veneziani, quando afferma che «l’individuo liberal è figlio del tempo; mentre, quello comunitario è figlio del luogo». Ecco allora che diventa fondamentale ridurre le dimensioni del nostro vivere, abbandonare l’idea di un’unica società globale, e globalizzata, per riscoprire la cultura, la tradizione e il luogo in cui siamo nati, viviamo, e che, in un’ultima analisi, ci identifica. Così come nel “sociale”, bisogna riattivare quella rete comunitaria che lega gli individui vicini, così a livello economico, finanziario e politico, bisogna che il potere venga riportato a livelli più prossimi agli individui. Oggi, tutto è controllato da pochi centri mondiali, privi di legittimità democratica (ONU, banche centrali, ecc.), in quanto non eletti e non responsabili di fronte a nessuno. Al contrario, affinché il singolo possa tornare a partecipare alla vita della collettività, il potere deve partire “dal basso”, secondo la teoria della “società a cerchi concentrici”, espressa da Alain de Benoist, per la quale, ogni piccola comunità deve essere il più autosufficiente possibile (resiliente) e gestire quanto più potere sia possibile, unendosi alla più vicina per quel-

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le problematiche a cui non può provvedere da sola, formando un cerchio più grande, e procedendo di questo passo, fino a formare cerchi sempre più ampi. Quindi, non un sistema di comunità chiuse e in guerra tra loro, come abbiamo spesso visto in passato, e come ha giustamente sottolineato il prof. Costanzo Preve; bensì, un insieme di gruppi umani coesi e resilienti, che hanno capito perfettamente che il vero nemico di una comunità non è la comunità vicina, ma l’ideologia che le vuole cancellare entrambe: la globalizzazione. Per tornare, in conclusione, allo spunto dal quale siamo partiti, è necessario che tutti noi, ma in particolare i giovani, possiamo trovare un tessuto comunitario in cui identificarsi e nel quale possiamo esercitare un reale potere sulle nostre vite. Come fare concretamente? La risposta sarebbe molto articolata; ma, in questa sede, è possibile accennare qualche spunto. Bisogna che il “mercato” venga allontanato da ogni settore possibile; infatti, come fa notare Pietro Barcellona, molti ambiti che prima erano gestiti a livello comunitario o famigliare, oggi sono controllati da società private, le quali, ovviamente, hanno come primo obiettivo il profitto. Basti pensare al fiorire di asili e case di cura privati. Secondariamente, bisogna “accorciare la filiera” produttiva: consumare cibo locale, produrre energia localmente, premiare il commercio e la produzione di beni locali (rispetto alle multinazionali), ecc. Tutto questo, che sembra utopico, sta già avvenendo, per esempio con il Movimento per la Transizione, nel quale grazie all’uso di monete locali, banche del tempo, corsi di formazione su lavori manuali, ecc. piccole e medie città britanniche stanno raggiungendo interessanti livelli di auto-sufficienza (di questo parleremo nel prossimo numero, N.d.R.). Infine, ma non meno importante, cercare di allontanare le persone da quelli che il sociologo francese Marc Augè definisce i “non-luoghi” (ipermercati, multisale, parchi del divertimento), per far riscoprire i nostri centri storici, quella “piazza”, che giustamente de Benoist indica come elemento caratteristico delle democrazie greche, e successivamente di ogni sistema popolare europeo, al fine di dar forza agli elementi, tanto culturali quanto paesaggistici, che determinano l’essere delle singole comunità. In definitiva, come abbiamo visto, la “storia non è ancora finita”, e al di là dell’american way of life, basato sul motto “produci, consuma e crepa”, il comunitarismo può fornirci un diverso modo di vivere, che riporti al centro il benessere delle comunità, e in definitiva dell’individuo, contro il profitto delle multinazionali e dei “signori della globalizzazione”.

Manuel Zanarini

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CHIAVE DI LETTURA

I

Stato

quotidiano La macchina mediatica, in una emergenza di simboli e parole, ci divide e tribalizza, in un perverso studio e controllo delle nostre coscienze. Il tempo che viviamo, è veramente nostro?

di Simone Olla

l lontano non è mai stato così lontano, rimosso, escluso completamete dalle invasive (e invasate) cronache del quotidiano: la prospettiva temporale di lunga data è ormai logora e inutilizzata forma d'essere: la modernità è minata nel/dal quotidiano; ecco la postmodernità, quotidianizzazione esplosa dell'esistenza.Viviamo uno stato quotidano, una prospettiva che dura il levarsi e il calare del sole, un sentimento di presenza a progetto. Lo stato quotidiano è uno stato mentale con il compito di gestire l'attiva passività postmoderna (Michel Maffessoli); nella vita dell'uomo contemporaneo vi è un continuo richiamo al dinamismo declinato in gestione del quotidiano: la politica è gestione del quotidiano e – attraverso i media – gestione quotidiana dell'accadimento politico; il lavoro è gestione di uno spazio/tempo; le relazioni (sociali) sono gestite e filtrate da un mezzo (telefono o internet). Secondo Jean Baudrillard, rispondiamo con l'indifferenza all'indifferenza subita dal quotidiano: «Siamo in uno stato sociale impazzito: assenti, svaniti, senza significato ai nostri occhi. Distratti, irresponsabili, innervositi. Ci hanno lasciato il nervo ottico, ma hanno snervato tutti gli altri. In questo l'informazione assomiglia alla dissezione: essa isola un circuito percettivo, ma disinnesca le funzioni attive. Resta solo lo schermo mentale dell'indifferenza, che risponde all'indifferenza tecnica delle immagini.»1 La gabbia mentaltemporale all'interno della quale siamo costretti a osservare/subire il mondo, per il solo fatto di esistere, legittima e perpetua uno stato quotidiano individuale che, su larga scala, diventa stato quotidiano collettivo ovvero stato quotidiano nazio-

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nale: il superamento del quotidiano nazionale passa attraverso la dequotidianizzazione individuale; la crisi in cui versa lo Stato-nazione – crisi di sovranità popolare2 da ricercarsi nel suo atto di nascita – è (anche) crisi di prospettiva (comune?), isolamento, annullamento. Lo stato quotidiano è alimentato da figure mitiche e da icone: le prime consentono allo stato quotidiano quel minimo di evasione temporale dionisiaca; le seconde – alimentando forma e contenuto delle prime – riportano lo stato quotidiano al qui e ora. Mito e icona contribuiscono al travestimento quotidiano della postmodernità rafforzando quella che Michel Maffessoli ha definito la trasfigurazione del politico; o passaggio dall'ideale democratico all'ideale comunitario, dall'uomo democratico all'uomo comunitario, dall'individuo alle tribù. È innegabile l'emergere di rivendicazioni di carattere etnico, religioso, linguistico, territoriale ma le sole rivendicazioni non bastano a giustificare un ideale comunitario, ancor meno quando tali rivendicazioni sono mosse dall'emozionale.3 Queste manifestazioni di presenza/esistenza s'inscrivono dentro uno stato quotidiano di reazione a uno stimolo esterno: la condivisione necessita di un progetto per manifestarsi: siamo nell'on/off della relazione. Il principio moderno di cittadinanza, sostiene Alain de Benoist, «non tiene […] conto di lingua, cultura, credenza, sesso, etc., insomma tutto ciò che fa sì che la gente sia fatta in un certo modo e non altrimenti. Tale principio riposa sull'uguaglianza degli individui nel solo ambito del sistema politico, mentre tutto ciò che li differenzia viene confinato nella sfera privata.» La riattualizzazione del domestico segue un percorso parallelo alla saturazione collettiva del politico: gli elementi etnici e culturali della sfera politica sono banditi e confinati nella socità civile, nel privato: vi è dunque la necessità di una ridefinizione in termini di spazio e tempo del principio di cittadinanza: «L'esigenza della rappresentanza unica – continua Alain de Benoist – che fa capo alla nazione politica (una sola assemblea deve rappresentare tutti i cittadini) implica che non potrebbero esserci leggi particolari che si applicano ad un gruppo specifico; non ci sono che leggi generali, che si applicano a tutti gli individui al di là delle loro caratteritiche specifiche. La nazione si identifica, allora, non più con il popolo

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o con la soceità, ma con lo Stato. È costituita dallo Stato e lo Stato coincide con essa.»4 Lo stato nazionale rimanda ogni giorno la sua fine partecipando all'informazione del quotidiano: la macchina mediatica, nel lungo periodo, divide e tribalizza il fruitore – lettore, ascoltatore, telespettatore – che a seconda del giornale letto o dei programmi visti/ascoltati si sente emozionalmente parte di un tutto; quel tutto più vasto è un'esigenza comunitaria caratterizzante la postmodernità ma anche uno sforzo di immaginazione, forse un'illusione, o l'incapacità di fornire un senso fuori dal medium, di essere artefici di destino. Ecco lo stato quotidiano, un'emergenza di simboli e parole, una prigione nazionale che ogni giorno obbliga a un confine: lo stato quotidiano di ogni individuo è un pezzo di stampella del menomato Statonazione, ridotto oramai a un impazzito flusso di segni mediatici, a una cartina 1:300.000 appesa alle pareti della scuola dell'obbligo. Lo Stato-nazione è uno stato quotidiano, e la politica sembra giovarsi di questo anacronismo proseguendo nella sua pluridecennale funzione di studio e controllo dell'opinione pubblica (Cristopher Lasch). Ciò non sarebbe possibile senza l'appoggio più o meno diretto dei media: socializzando la popolazione, i media impongono uno stato quotidiano nazionale ad ogni individuo che si interfacci con loro, uno spazio temporale di brevissimo periodo, confinato, entro il quale l'unica libertà concessa è quella di subire la cultura di stato: la quotidianizzazione dell'esistenza rafforza il potere costituito: il tempo – scandito nel quotidiano da media e lavoro – è un tempo di stato, ideologico e non a disposizione: questo tempo non è più nostro.

Simone Olla

Note:

[1] Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pag. 148. [2] Cfr. Alain de Benoist, Cos'è la sovranità in Le sfide della postmodernità, Arianna Editrice, Casalecchio (Bo) 2003 [3] Cfr. Michel Maffessoli, Icone d'oggi. Le nostre HYPERLINK "mailto:idol@trie"idol@trie postmoderne, Sellerio, Palermo 2009 [4] Alain de Benoist, I principî del federalismo. Oltre lo Statonazione in Incursioni n. 2, luglio 2006

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MUSICA

Le ragioni

L

del vagabondo

Tom Waits: 60 anni compiuti il 7 dicembre. Gli eccessi sono alle spalle. La volontà di fare a modo suo è ancora indomita

di Federico Zamboni

o dice la parola stessa, vero? Il vagabondo è uno che vaga di qua e di là. Non sa stare fermo. Non pensa molto al futuro. Non sa cosa fare di sé e della sua vita.Trova un lavoro e lo lascia.Trova una donna e la perde. Odia le abitudini, queste scatole impilate con cura in cui non c’è mai nulla di nuovo. Ama le sorprese: un bagliore improvviso che si accende e che richiama l’attenzione, come se il destino ti stesse facendo un cenno e ti strizzasse l’occhio senza aggiungere nulla, per vedere se sei abbastanza sveglio per capire. E per afferrare al volo il messaggio. Tom Waits appartiene in pieno alla categoria. È un veterano, in effetti. Se portasse sul petto i nastrini di ogni “campagna” di sbornie e di eccessi alla quale ha partecipato, mostrando il dovuto sprezzo del pericolo (e della morale corrente), le sue giacche trasandate risalterebbero come le giubbe di un generale. Il comandante Waits potrebbe passare in rassegna i giovani coscritti, allora, e fermarsi un momento a guardarli in faccia – tutti e nessuno, ma specialmente quelli che con ogni probabilità non sono davvero tagliati per questo tipo di guerre – e domandarglielo senza mezzi termini, con quella sua voce aspra e frastagliata come le rocce scavate dal vento del deserto: siete proprio sicuri, ragazzi? Sicuri di voler vivere per sempre fuori dalle regole? O siete solo curiosi? Pensateci bene. Non è un singolo week-end di trasgres-

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sione lontano dalla famiglia e dalla vostra solita vita. È una missione che non finisce mai. Niente nastrini, invece. Niente reclute schierate e niente discorsi espliciti. Il generale Waits nasconde i suoi gradi e lascia che siano gli altri a farsi carico del compito di riconoscerlo. E, eventualmente, di avvicinarlo. Anche se adesso è molto più noto di un tempo, e i suoi trascorsi turbolenti sono ormai rubricati come intemperanze giovanili, le difficoltà sono rimaste più o meno le stesse. Tom Waits incide dischi e suona dal vivo, ma non si sbraccia per vendere una copia o un biglietto in più. Fa il suo lavoro con onestà e passione, e gli sembra abbastanza. Che il risultato non sia adatto a tutti lo sapeva fin dall’inizio: non è con una voce e una musica come le sue, che si possono soddisfare le esigenze di chi vuole solo un po’ di svago in attesa di riprendere il tran-tran. Questo qui è whisky per accendere il cuore, non per spegnere il cervello. Ci sono già il pop e la tivù, per addormentarsi a occhi aperti. E gli psicofarmaci per annullarsi del tutto.

Keep out, stupid È diventato lunghissimo, il viaggio a fianco (o sulle tracce) di Tom Waits. Lui ha compiuto sessant’anni il 7 dicembre scorso. La sua “carriera”, cominciata ufficialmente nel 1973 con “Closing Time”, è prossima ai quattro decenni, che nel suo caso non costituiscono nessun traguardo ma un dato di fatto. Una semplice circostanza. Chi non pianifica il percorso non può avere traguardi. E non avverte alcun bisogno di

“Questo qui è whisky per accendere il cuore, non per spegnere il cervello. Ci sono già il pop e la tivù, per addormentarsi a occhi aperti. E gli psicofarmaci per annullarsi del tutto.” festeggiamenti a posteriori: men che meno delle medagliette da quattro soldi distribuite dall’industria dello spettacolo a chiunque, in un modo o nell’altro, abbia contribuito a movimentare il mercato e a diffondere, quand’anche senza volerlo, l’idea che la risposta a tutto sia nello show. «Siamo sepolti sotto il peso delle informazioni, che vengono confuse con la conoscenza. La quantità è scambiata con l’abbondanza e la ricchezza con la felicità. Il cane di Leona

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Helmsley ha guadagnato 12 milioni di dollari l’anno scorso… e Dean McLaine, un contadino dell’Ohio, ne ha portati a casa 30.000. È una versione colossale della pazzia che germoglia nei nostri cervelli, senza eccezioni. Siamo scimmie armate e piene di soldi.» Potrebbe essere una piccola regola da tenere a mente: più una cosa sembra accattivante e più è

“È una versione colossale della pazzia che germoglia nei nostri cervelli, senza eccezioni. Siamo scimmie armate e piene di soldi.” sospetta. Ciò che è gradevole al colpo d’occhio, a meno che non sia frutto della natura o del caso, è quasi sempre qualcosa che hanno intenzione di venderti. Dicevamo degli psicofarmaci: nomi fantasiosi che suonano bene; colori vivaci che ricordano le caramelle. Sia benedetta la voce rugosa di Tom Waits, perciò. Serve a tenere a distanza chi si ferma alla prima impressione. Serve a far capire che dentro certe canzoni non si entra come in un centro commerciale pieno di vetrine sfavillanti e di commesse carine e servizievoli. Dentro certe canzoni si entra come viandanti che scorgono un riparo in una notte di tempesta. Vedono una luce lontana e si avvicinano. Sperano che la porta sia aperta.

Racconta, Tom L’ultimo album è uscito a fine novembre. Si chiama “Glitter and Doom”, che Gino Castaldo ha efficacemente tradotto come “Lustrini e rovina”, ed è un live registrato nel corso del tour 2008 che si è fermato a lungo in Europa e che ha toccato anche l’Italia. All’interno ci sono due cd: il primo è il concerto che ti aspetti. Il secondo è una mossa imprevedibile, ma tutt’altro che pretestuosa: una sorta di doppiofondo riempito di sole parole, che riunisce gli intermezzi verbali in cui Tom interrompe il concerto (il concerto, non la performance) e si mette a parlare. Non proprio dei racconti, con dei personaggi e una storia che si snoda – e che si spiega. Carrellate veloci, e allo stesso tempo pigre, su certi aspetti della realtà che per lo più non interessano a nessuno. Osservazioni da vagabondo che non ha fretta e che,

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quindi, può permettersi di contemplare le cose e le persone a prescindere dall’equazione standard per cui quello che non ci tocca direttamente non ci riguarda e non merita nessun approfondimento. Quasi degli apologhi, ma col dubbio che non lo siano. Spezzoni di vita quotidiana raccolti lungo la strada, come oggetti buttati via, o perduti, ruzzolati ai bordi della carreggiata. Difficile dire con certezza se potranno venire utili, in seguito. Ma intanto li tiri su e te li metti in tasca. O nello zaino. «Benissimo... adesso chiacchieriamo un po’. Okay, uhm, questa è davvero strana. Sapete, gli avvoltoi, io ne ho visti un mucchio da quando ho attraversato il confine del Texas, un mucchio di avvoltoi. La cosa interessante riguardo agli avvoltoi è che, beh, la ragione per cui passano tanto tempo in aria è che sono così leggeri perché mangiano così di rado. Siccome sono tutti piume, tu ne vedi volteggiare uno e pensi “Probabilmente tra un po’ atterrerà e mangerà”, e quello invece si sta chiedendo “Come cazzo faccio a scendere laggiù?”. Ora, ecco la parte triste, immaginati di essere nella stessa situazione. Dopo aver mangiato, e obiettivamente la maggior parte degli avvoltoi che vengono feriti, stando al Soccorso Aviario... la maggior parte degli avvoltoi che vengono feriti sono feriti mentre mangiano. Ecco la cosa triste... essere colpiti da un’auto mentre stai mangiando; ma il problema è che una volta che sono atterrati e che si sono rimpinzati – loro mangiano così tanto perché mangiano così di rado – sono talmente pieni che non possono alzarsi in volo senza vomitare. Lo so, è dura... che razza di scelta, sapete, ti sei appena fatto una gran mangiata e ti tocca vomitare tutta quella dannata roba solo per tornare di nuovo su nel cielo. Io penso a questo, tutte le volte che passo un momento difficile». Cose così. Cose che non andrebbero lette ma solo ascoltate. Ascoltate sul momento, mentre vengono dette. Mentre accadono e, accadendo, ci ricordano che molto prima dell’arte da impacchettare e da vendere c’è un’arte che si annida nel vivere e che va scoperta per conto proprio. Vagabondaggi senza pretese e senza copyright, ma in cui niente è stabilito a priori. Il mondo non è solo un fondale. Nessuno, se ha cuore e cervello, è solo una comparsa.

Federico Zamboni

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CINEMA

Arriba

parias de la tierra

“...senza una spinta irrazionale, quasi gioiosa, non è possibile scatenare una rivoluzione e, forse, non vale neppure la pena farla”. Ecco Terra e libertà.

“T

di Ferdinando Menconi

erra e libertà” non è un kolossal hollywoodiano quindi può essere preso come una lezione di storia, ed è una grande lezione di storia quella che ci offre questo film, forse il più riuscito fra quelli di Ken Loach. Il che è tutto dire, visto che stiamo parlando di un regista che di film, in pratica, non ne ha sbagliato uno. Certo, un paio di errori, anche se veniali, possono essere riscontrati: Loach attribuisce a Franco la rivolta contro la Repubblica, mentre all’inizio era solo un comprimario, e nel coinvolgente commento musicale di Gorge Fenton viene usato, per una delle canzoni più popolari fra le forze repubblicane, un testo che fa riferimento ad una battaglia che all’epoca dei fatti ancora doveva essere combattuta. Nel complesso, però, sono venialità perdonabili visto che il regista ci offre una delle pagine più occultate e scomode della guerra civile spagnola del 1936-39: il massacro degli anarchici e dei trozkisti che fu perpetrato non già dai franchisti ma dagli stalinisti dopo che ebbero preso il controllo della Repubblica. La persecuzione e riduzione al silenzio della componente anarchica e trozkista da parte dei comunisti durante la guerra civile spagnola, è una di quelle verità scomode, forse anche più di quella di Katyn (la recensione di questo film è stata pubblicata

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Guerra civile spagnola ed eventi occultati. Ăˆ il cinema, il cinemacultura a riportarli alla luce.

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nel numero di novembre de La Voce del Ribelle, N.d.R.) che sono note a tutti ma che devono rimanere patrimonio solo degli addetti ai lavori. Ken Loach, forse l’ultimo fra i registi “impegnati”, invece getta in faccia al grande pubblico il crimine degli stalinisti e dei loro alleati che volevano il monopolio della rivoluzione per soffocarla, con-

“La forza di Loach è quella di privilegiare la storia, intesa come narrazione, sul messaggio politico. Sono le vicende dei personaggi ad essere in primo piano, e le loro vicende coinvolgono profondamente, qualunque sia l’ideologia dello spettatore” formemente al principio che non può e non deve esistere nulla a sinistra del Partito Comunista ufficiale e dei suoi eredi. Principio ancora in voga nonostante i comunisti non esistano più. Il film fece scandalo, ma al contrario di Katyn non poté essere occultato, sia perché decisamente migliore da un punto di vista meramente cinematografico, sia perché andava a toccare un periodo fra i più stimolanti per l’immaginario dei romantici della rivoluzione di entrambi gli schieramenti. Non poté essere occultato e fu un successo al botteghino, con buona pace di coloro che sostengono che al pubblico piacciono solo i cinepanettoni e non c’è spazio per il buon cinema, soprattutto quello che fa riflettere. La forza di Loach è quella di privilegiare la storia, intesa come narrazione, sul messaggio politico. Sono le vicende dei personaggi ad essere in primo piano, e le loro vicende coinvolgono profondamente, qualunque sia l’ideologia dello spettatore. Queste vicende, peraltro, permettono al regista di far filtrare, grazie alla grandiosa cornice della guerra, con forza, il proprio messaggio politico. Con forza e soprattutto efficacia, perché Loach sa quanto sia inutile convincere chi è già convinto: l’obiettivo è invece convincere chi non lo è. Pare una verità ovvia ma quello di impegnar-

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si per convincere i convinti è un vizio molto diffuso nel mondo dell’arte, della politica e del giornalismo. Forse i trozkisti, nel film, sono dipinti un po’ troppo senza macchia, e in quell’immenso carnaio che fu la guerra civile spagnola ognuno ci mise del proprio, ma si può ben accettare che il gruppo dei protagonisti sia rimasto esente da efferatezze: in fondo di puri, in quella rivoluzione, ce ne furono, come in tutte, e da entrambe le parti. Proprio questo aspetto è parte della forza di Loach: riuscire a dar voce anche alle opinioni discordanti, pur senza nascondere la propria preferenza, ma concedendo sempre dignità e legittimità alle posizioni altrui, a meno che non siano ipocrita propaganda o supina, acritica, accettazione di questa. Loach non dimentica mai che sta girando un film e non un documentario storico, quindi riesce a non essere mai didascalico o pedante, trovando sempre il modo per avvincere lo spettatore anche quando si trova a spiegare il bivio della rivoluzione: quello di continuare a perseguire in via massimalista i suoi ideali, impaurendo così le democrazie borghesi che negavano il loro aiuto alla Repubblica, o di stemperarli per averne l’appoggio, tradendo però se stessa e rendendo così inutile il sacrificio dei miliziani. L’escamotage usato è una infiammata riunione sulla collettivizzazione di terre appena liberate, dove riesce a far emergere in tutta la loro dram-

“...in fondo di puri, in quella rivoluzione, ce ne furono, come in tutte, e da entrambe le parti...” maticità le contraddizioni della rivoluzione, dando voce a tutte le sfumature ideologiche della Repubblica e spiegandone le ragioni senza mai cadere in una noiosa lezione di storia della politica. Un simile escamotage lo riproporrà poi ne “Il vento che accarezza l’erba” , altro eccellente film, anche se non all’altezza di questo, di cui abbiamo già avuto modo di parlare in queste pagine (recensito sul numero di ottobre 2008 de La Voce del Ribelle, N.d.R.).

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“Terra e libertà”, un titolo che racchiude tutto, in cui si scatenano tutte le passioni del rivoluzionario, di ogni segno e di tutte le epoche. È la formula assoluta, se vogliamo, per gli amanti della libertà, che non può essere senza giustizia sociale, il cui simbolo più forte è il libero possesso della terra, della propria terra, e non il doverla lavorare per altri per salari da fame. Affrancarsi dal controllo economico è il presupposto necessario alla libertà, valido in ogni luogo, allora come oggi, che la dittatura si manifesta col controllo brevettuale delle sementi. L’esproprio della terra, anche - e fu grave errore - ai danni dei piccoli proprietari coltivatori diretti e non solo ai grandi latifondisti, per l’anarchico e il trozkista non si risolveva nel trasferirla dal capitalismo privato a quello di stato, ma nella

“Allora come ora, infatti, l’accusa di “fascismo” o “comunismo” sono molto spesso solo vuoti slogan di propaganda per delegittimare l’avversario ed eccitare masse ottuse...” collettivizzazione, vale a dire nella sua gestione diretta da parte del lavoratore, riunito in cooperativa, quello che in chiave industriale si chiama socializzazione. Questo è il punto principale che rese, e rende ancora, l’anarchia il peggior nemico del capitalismo di stato stalinista e non solo. Da questo punto di vista, in fondo, l’accusa di “socialfascismo”, mossa a anarchici e trozkisti, non era così peregrina, ma visto che, indebitamente, si faceva rientrare il franchismo fra i fascismi, assolutamente ingiustificata per altri versi. Allora come ora, infatti, l’accusa di “fascismo” o “comunismo” sono molto spesso solo vuoti slogan di propaganda per delegittimare l’avversario ed eccitare masse ottuse. Il lavoro di ricostruzione storica di Loach attinge a piene mani a “Omaggio alla Catalogna” di Orwell, forse il libro meno noto dell’autore di “1984” e de “La fattoria degli animali”. Testo che coglie in pieno lo spirito della rivoluzione spagnola nella sua prima, libertaria, fase, e ne descrive la decadenza nella seconda fino ai tragici fatti di Barcellona, che videro definitivamente spazzato via l’ideale a favore della realpolitik stalinista. Orwell visse in prima persona quegli eventi, fu anche ferito al fronte, e seppe leggere oltre la propaganda e descrivere i fatti come furono. Al contrario di altri, che pure li vissero, come Hemingway, il quale in alcune righe di “Per chi suona

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la campana” mostra, grazie alla sua visione “bianco/nero” alla statunitense, di essere caduto in pieno nella trappola propagandista. Anche Hemingway, però, ha combattuto in quella guerra, gliene va reso merito, e l’ha saputa descrivere in pagine memorabili, anche se forse inferiori a quelle de “L’espoir” di Malraux, che forse più che combatterla quella guerra ha detto di averlo fatto, anche se l’ha detto molto bene... Erano generazioni di intellettuali che le loro idee le combattevano anche sul campo, non si limitavano all’armiamoci e partite da topi di biblioteca o che, peggio, si asservano alla corte del vuoto politico del potente di turno raccontando di fare futuri che sono solo banalità del presente. Intellettuali che spingevano al romanticismo della rivoluzione. Spirito che Loach coglie e rende in pieno, grazie anche al fatto che la guerra civile spagnola, capitolo della più ampia guerra civile europea, è forse l’episodio rivoluzionario che maggiormente si presta a questa chiave di lettura, specie se ambientato fra i miliziani dell’anarchia e del trozkismo. Certo la rivoluzione non è gioco, e la tragedia è ben presente nel film, ma senza una spinta irrazionale, quasi gioiosa, non è possibile scatenare una rivoluzione e, forse, non vale neppure la pena farla. Non è possibile non provare simpateticità per questo gruppo di allegri disperati che combattono fianco a fianco, senza gerarchie e discipline, legati solo dall’ideale e dal cameratismo. Uomini e donne in trincea insieme, uguali, a dispetto della misoginia sessufobica marxista, che infatti in Spagna riuscirà nel vietare il combattimento alle donne della Milizia, o del maschilismo clericale dell’altro fronte. Sono, anzi, forse proprio le donne i personaggi più forti e determinati del film, anche se, per una volta, gli uomini non ci fanno la solita brutta figura alla quale la cinematografia da buonismo psicanalitico ci ha abituato oggi. “Terra e libertà” è forse il miglior film di Ken Loach, e sicuramente il più controverso ed attaccato da chi teme la verità della storia e vuole restare saldo e sicuro nelle verità di propaganda. Finte verità sulle quali pretende ancora informare la politica di oggi per impedire che vada avanti soffocando ogni possibilità di alternativa. Ogni possibilità di nuove sintesi che sono sempre più inderogabili per uscire dal pantano contemporaneo. Questa è la lezione che si può imparare da Loach e dal sacrificio della milizia. Certo anche questo è un guardare indietro, ma deve essere un guardare indietro per andare avanti non per ripiegarsi su se stessi.

Ferdinando Menconi

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parol e avvel e nate Minchiate a 150 all’ora

M

entre gli abitanti degli Stati Uniti si stanno armando fino ai denti, e da anni, per prepararsi a fronteggiare la guerra civile prossima ventura, quando si scoprirà che la stampa di banconote di carta igienica senza valore non sarà servita a fermare il collasso del loro sistema; mentre il Nobel per la pace invia 10 mila nuovi uomini in Afghanistan, ma non per eliminare i Talebani, che ormai controllano due province su tre, quanto per dare in pasto alla stampa la forza ancora intatta dello zio Sam e allo stesso tempo fa rientrare in patria 200 mila uomini in sordina, ritirandoli da 800 basi in 39 paesi del mondo, per difendere la Casa Bianca dall'assalto della gente; mentre accade tutto questo, mentre ci scippano per l'ennesima volta il Tfr; mentre le banche di tutto il mondo si preparano al serrate i ranghi perché la gente inferocita andrà a cercare inutilmente di ritirare i propri risparmi (che peraltro non varranno più un granché); mentre La Repubblica continua a fare una raccolta di firme al giorno; mentre a Copenhagen parlano del nulla traducendolo in tutte le lingue del mondo; mentre la mafia vede finalmente la messa in opera delle sue richieste nei papelli vari; mentre Naomi e la D'Addario chi se le ricorda più, mentre il Vaticano sta con Tettamanzi, mentre Rutelli chiama Fini per completare lo smantellamento di An, mentre Venezia sfida Roma per le Olimpiadi del 2020 ammesso che il mondo ci arrivi; mentre la Juve crolla e il Milan passa il turno facendo dimenticare il No-B day quando allo stesso tempo in Francia si preparano al No-Sarkozy Day e insomma basta che il derby della capitale l'ha vinto la Roma. Ecco, mentre accade tutto questo, noi discutiamo di quanto si può o non si può andare veloce in autostrada. Di quali punti della rete autostradale, con che cilindrata di auto e per quanto tempo. Per non andare da nessuna parte, naturalmente. Per il grande esodo e controesodo perenne. E comunque per fare a gara a chi è più stronzo, s'intende. Steppenwolf

Ci occuperemo

invece di...: il Gruppo Bilderberg Europa-Russia: Eurasia nel futuro? la coppia scoppia. E non solo la coppia conflitti sociali: dotatevi di un kalashnikov crisi: previsioni “non autorizzate” per il 2010 Transition Town



di Alessio Di Mauro


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