Il Ribelle (Agosto-Settembre 2009)

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ISSN 2035-0724

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Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 2 - numero 11-12 - Agosto-Settembre 2009

Mensile Anno 2 Numero 11-12

€5

Direttore politico

Massimo Fini Direttore responsabile

Valerio Lo Monaco

Travaglio: È L’ORA DE “IL FATTO” Fini: FUORI DALLA NATO FUORI DALL’AFGHANISTAN Agenda Setting: COME CONTROLLANO CIÒ CHE SAPPIAMO Le notizie: OMOLOGAZIONE DI UN PAESE INTERO Editoria in Italia: LE SETTE SORELLE DELL’INFORMAZIONE


Anno 2, numero 11/12, Agosto/Settembre 2009 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com) Art director: Alessio Di Mauro Hanno collaborato a questo numero: Marco Travaglio, Liano Castelli, Lucrezia Carlini, Giuseppe Carlotti, Sara Santolini, Fabrizio Revenge, Alessio Mannino, Eduardo Zarelli

Fuori dalla Nato fuori dall’Afghanistan di Massimo Fini

La verità tutti i giorni di Marco Travaglio

Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602

Agenda Setting

Progetto Grafico: Antal Nagy Mauro Tancredi

Omologazione a colpi di news

La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000

Inganni e luoghi comuni

Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com

di Lucrezia Carlini

Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008

di Giuseppe Carlotti

Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali

di Valerio Lo Monaco di Federico Zamboni di Liano Castelli

Editto bulgaro (e seconda pelle) Sex Sex Sex e il successo è assicurato Bombardati dalle notizie di Sara Santolini

Liberi di non essere (informati)

Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista

di Fabrizio Revenge

Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma

Le Sette Sorelle della manipolazione

Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com

di Alessio Mannino

Informazione? L’artificio di una simulazione di Eduardo Zarelli

La realtà in versione film Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti. Chiuso in redazione il 27/08/2009

di Ferdinando Menconi

Il futuro de Il Ribelle di Valerio Lo Monaco

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Leggo al minimo. Il Tempo divora gli occhi e il resto. Ma “La Voce del Ribelle” merita di vivere. Qualcuno... chissà... Guido Ceronetti 1° marzo 09



FINI

Fuori dalla Nato

fuori dall’Afghanistan

er gli europei, almeno quelli che durante la "guerra fredda" appartenevano al blocco dell'Ovest, ci sono molte buone ragioni per lasciare l'Afghanistan e una guerra combattuta senza motivo, senza logica, senza etica e senza onore (mezzi tecnologicamente sofisticatissimi, aerei, Predator e Dardo, senza pilota ma muniti di missili assassini, contro uomini armati quasi solo della loro pelle e del loro coraggio). Ma una delle ragioni è la stessa per cui gli americani ci vogliono rimanere a tutti i costi coinvolgendo gli alleati. Ed è che l'eventuale sconfitta della Nato in Afghanistan significherebbe la fine della Nato. E ciò non può che convenire all'Europa. La Nato è stata infatti per più di mezzo secolo, e ancora lo è, lo strumento con cui gli americani, forti della vittoria nella seconda guerra mondiale, hanno tenuto l'Europa in uno stato di minorità, di sovranità limitata, soggiogandola militarmente, politicamente, economicamente e, alla fine,anche culturalmente. Finché è esistita l'Unione Sovietica questa alleanza impari con gli Stati Uniti era obbligata, perché solo gli americani possedevano il deterrente atomico per dissuadere l' "orso russo" dal tentare avventure militari in Europa Ovest. Ma dopo il crollo del muro di Berlino l'Alleanza atlantica per noi europei non ha più senso. Ne paghiamo tutti i pedaggi, come un tempo, senza averne, a differenza di un tempo, i vantaggi. Per la verità dubbi sulla Nato sarebbero dovuti venire già a metà degli anni Ottanta quando Ronald Reagan in un momento di stanchezza o di ubriachezza o di inizio di Alzheimer o di brutale sincerità si lasciò sfuggire che «l'Europa può essere teatro di una guerra nucleare limitata». Cioè che non era affatto scontato, come

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MASSIMO

P

di Massimo Fini


MASSIMO FINI

pensavano gli alleati europei, che se l'Urss avesse sganciato l'atomica su Bonn o su Roma sarebbero partiti immediatamente dagli Stati Uniti dei missili nucleari diretti a Mosca, ma sarebbero stati indirizzati su Praga o Sofia o Bucarest, lasciando intoccate le due Superpotenze. In ogni caso è certamente dal 1989 che l'Europa avrebbe dovuto cominciare a prendere le distanze dagli Stati Uniti che, liberatisi del loro principale competitore militare, si sono lanciati in una politica estera avventurista che, in nome della pace e della sicurezza o dei "diritti umani", ha già causato quattro guerre: all'Iraq (1990), alla Serbia (e quindi a una parte dell'Europa)1999, all'Afghanistan (2001), di nuovo all'Iraq (2003) e, un giorno sì e uno no, per compiacere l'alleato israeliano, ne minaccia una quinta, all'Iran. Con molti anni di ritardo, quasi quindici, alcuni importanti Paesi europei, come la Germania, la Francia, la Spagna, meno caninamente servili dell'Italia di Berlusconi, hanno cominciato perlomeno a tentare di smarcarsi dal pericoloso e inquietante "amico americano". Francia e Germania non hanno mandato truppe in Iraq, la Spagna di Zapatero le ha ritirate. Anche con l'Iran la politica dei Paesi europei è stata molto più cauta. Agli Stati Uniti, come collante in politica estera, resta solo l'Afghanistan dove sono riusciti a coinvolgere i Paesi europei sull'onda dell'emozione suscitata dagli attentati dell'11 settembre e della lotta al terrorismo internazionale. Ma oggi, a otto anni di distanza, l'Afghanistan non c'entra più nulla col terrorismo, ammesso che ci abbia mai avuto a che fare. Bin Laden - che, come ho documentato in altra occasione, costituiva un problema anche per il governo del Mullah Omar - è scomparso da tempo. Gli afgani, per loro natura e cultura, non sono terroristi. Sono dei guerrieri, che è cosa diversa. Tantomeno sono dei terroristi internazionali. Gli interessa solo il proprio Paese. Non c'erano afgani nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle. Non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda scoperte dopo l'11 settembre. C'erano arabi sauditi, giordani, yemeniti, egiziani, tunisini, ma non afgani. Nei dieci anni di durissima guerra di guerriglia contro i sovietici non si è registrato un solo atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, né in Afghanistan né fuori (eppure un'Areoflot poco protetta non era difficile da trovare). E se oggi i Talebani si sono decisi a ricorrere, all'interno della guerriglia, anche ad atti di tipo terroristico (comunque relativamente pochi se pensiamo all'Iraq e sempre mirati a obbiettivi militari o politici) è perché si trovano di fronte, a differenza che con i sovietici, un esercito che non ha nemmeno la decenza di battersi sul campo, un esercito seminvisibile che usa i Dardo e i Predator. Dice: ma i Talebani sono alleati con i terroristi di Al Quaeda. La Cia ha calcolato che fra i circa 50 mila guerriglieri talebani ci sono 350

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stranieri. Ma sono ceceni, uzbeki, turchi. Non arabi. Del resto per escludere che il terrorismo internazionale si annidi in Afghanistan basta un ragionamento semplice. Che interesse avrebbero i terroristi internazionali a concentrarsi in un Paese dove ci sono 80 mila soldati della Nato e non piuttosto nello Yemen, dove sono protetti dal governo, o in Giordania, in Arabia Saudita, in Egitto dove possono mimetizzarsi facilmente fra la popolazione per preparare in tutta tranquillità i loro eventuali attentati? Bisogna finirla con questa menzogna insostenibile, e quasi oscena, che gli occidentali sono in Afghanistan per fare la guerra al terrorismo. Non si può gabellare per terrorismo una resistenza allo straniero che dura da otto anni, che tiene in scacco il più potente esercito del mondo e che ha, con tutta evidenza, l'appoggio di buona parte della popolazione senza il quale non potrebbe esistere. Il fatto è che gli Afgani, talebani e non, non tollerano di avere sulla testa gli scarponi chiodati di eserciti stranieri. Lo hanno dimostrato con gli inglesi nell'Ottocento, con i sovietici vent'anni fa. E ancor meno sopportano gli occidentali che per soprammercato, a differenza di inglesi e sovietici, non si limitano ad occupare ma pretendono di rubargli l'anima (cioè i loro usi, i loro costumi, le loro tradizioni, il loro sistema di vita, la loro concezione della famiglia e del ruolo che la donna ha al suo interno, la loro organizzazione sociale) per sostituirla con la propria. E non saranno certo le elezioni-farsa del 20 agosto, mandate in onda dai media italiani con la stessa ottica con cui valutano gli sconci equilibrismi della politica di casa nostra, a cambiare questo stato di cose. La guerriglia continuerà. E se dovesse vincere sarà la fine della Nato e la liberazione dell'Europa. Massimo Fini

Non ce ne frega niente di...: le primarie del Partito Democratico *** i titoli dei quotidiani sulla crisi *** i vip in vacanza ***** il nuovo romanzo di Veltroni non giudicabile

le nozze di Chelsea Clinton * Pannella *****

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La verità

Travaglio

tutti i giorni

N

di Marco Travaglio

on è semplice descrivere un giornale che sta nascendo, ma ancora non c’è. Ma è più facile descriverlo su una rivista intitolata “La Voce del Ribelle”. Perché il giornale che abbiamo in mente sarà, almeno nelle nostre intenzioni, molto ribelle. Non ribelle per partito preso, o per moda, o per posa. Ma perché ogni barlume di normalità e ragionevolezza, in questo paese alla rovescia, diventa rivoluzionario. A cominciare dal rispetto delle regole (lo diceva già Ennio Flaiano, un bel po’ di tempo fa: «In Italia la vera rivoluzione è far rispettare la legge»). Dunque, abbiamo messo in piedi un giornale. Si chiamerà “Il Fatto Quotidiano”, in omaggio a Enzo Biagi e ai fatti. Alle notizie. Un giornale che vuole scrivere le cose che gli altri non vogliono, o non possono scrivere. Uscirà sei giorni su sette, tranne il lunedì, a partire dal 23 settembre. Avrà, per cominciare, 16 pagine tutte a colori. Lo dirigerà Antonio Padellaro, giornalista libero e di lungo corso, una carriera fra il Corriere della sera, l’Espresso e l’Unità. Lo cucineranno in redazione un pugno di giovani giornalisti appena usciti dalle scuole. E lo scriveranno alcuni inviati di punta, più un bel numero di collaboratori di prestigio. Comincio, visto che siamo sulla Voce del Ribelle, da Massimo Fini, che fin dall’inizio ha partecipato con entusiasmo al nostro progetto e lo impreziosirà con una rubrica settimanale più altri commenti sull’attualità. Ma la squadra dei commentatori e dei rubrichisti è molto nutrita e variopinta: Furio Colombo, Oliviero Beha, Antonio Tabucchi, Maurizio Chierici, Pino Corrias, Bruno Tinti. Il punto di forza però sarà il pool degli

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L’inchiesta, l’analisi, l’approfondimento, la memoria richiedono tempi e spazi difficilmente compatibili col linguaggio della tv e di internet. Per questo, Il Fatto Quotidiano uscirà sia su carta sia su web. Qualcuno dirà: ma vi siete ammattiti? Mentre la carta stampata è in crisi in tutto il mondo, i giornali chiudono o licenziano o prepensionano, voi ne fate uno nuovo? Sarà una follia, ma vogliamo provarci. Convinti come siamo che non è la carta la ragione della crisi: è quel che ci si mette, anzi non ci si mette sopra. Certo, molti – soprattutto giovani – preferiscono l’informazione mordi e fuggi di internet, che fornisce poche notizie ultrarapide e in presa diretta. E molti – soprattutto anziani – preferiscono la sbobba della televisione. Ma noi restiamo convinti

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Travaglio

inchiestisti, di cui farò parte anch’io, insieme a Peter Gomez, Marco Lillo, Luca Telese, Antonio Massari, Gianni Barbacetto, Francesco Bonazzi, Sandra Amurri, Silvia Truzzi, Leo Sisti. Ci sarà anche qualche altra grossa sorpresa, alla quale stiamo ancora lavorando e che ci riserviamo per il momento del lancio. Non mi pare, fatti questi nomi, che sia il caso di illustrare la “linea” del Fatto Quotidiano. La nostra “linea” è la Costituzione della Repubblica Italiana, dal primo all’ultimo articolo. Nulla da aggiungere né da togliere. Se poi questa linea sia di sinistra o di destra, lo lasciamo decidere a chi ci leggerà. Il Fatto Quotidiano sarà un giornale eccentrico, e non solo perché si propone di raccontare i fatti. Ma anche perché non avrà padroni, intesi come grandi imprenditori, palazzinari, banchieri, finanzieri, concessionari pubblici che mettono milioni in cambio di sappiamo bene che cosa. E non chiederà una lira allo Stato, magari travestendosi da organo di partito, come fanno tanti giornali senza lettori ma pieni di milioni pubblici, finanziamenti anche da chi mai si sognerebbe di comprarli. La società editrice, la Editoriale Il Fatto, l’abbiamo costituita alcuni di noi che ci scriveremo: Padellaro, il sottoscritto, Gomez, Tinti, insieme a due editori, Chiarelettere e Aliberti, a una società di comunicazioni, la Monteverdipromotion, a un piccolo imprenditore marchigiano che si occupa di brevetti per bancomat, ciascuno con quote che non superano ciascuna un sesto del capitale sociale (600 mila euro in tutto). Più avanti, come ci hanno chiesto in molti, apriremo una quota all’azionariato popolare non appena avremo l’autorizzazione della Consob. In ogni caso – altro fattore di eccentricità – dipenderemo in tutto e per tutto dagli abbonamenti e dalle vendite in edicola: secondo i calcoli del nostro amministratore Giorgio Poidomani, se riusciremo a superare le 10-12 mila copie di media quotidiana saremo in attivo. Altrimenti andremo in perdita e, vista l’esiguità del capitale, saremo costretti a chiudere in poco tempo. Il nostro padrone è il lettore, e non è uno slogan: è la matematica, ed è anche una scelta.


Travaglio

che esista un tipo di informazione che non si può fare né in tv né in rete. L’inchiesta, l’analisi, l’approfondimento, la memoria richiedono tempi e spazi difficilmente compatibili con il linguaggio televisivo e internettiano. Per questo, Il Fatto Quotidiano uscirà sia su carta sia su web. Il sito registrerà le principali notizie della giornata, a mano a mano che arrivano, con l’aggiunta di contributi originali (interviste, filmati, videoinchieste, contributi anche dei lettori e dei “navigatori”) e con una rassegna dei blog dei collaboratori e degli amici del nostro giornale. Il quotidiano di carta, invece, cercherà di superare ciò che già tutti sanno dal giorno prima, e di spiegarlo, collegarlo, inquadrarlo, aggiungendovi notizie inedite, reportage, analisi, commenti, inchieste. E, la domenica, un inserto satirico con alcuni fra i migliori autori e vignettisti, molti dei quali giovanissimi e già bravissimi, senza contare veterani come Stefano Disegni e altri ancora top secret. Le prime risposte del famoso “mercato” (di cui tutti parlano, ma da cui tutti si tengono alla larga, preferendo monopoli, privilegi, rendite di posizione) sono, almeno per noi, esaltanti: abbiamo raccolto, in un mese (luglio-agosto, quando la gente è in vacanza) la bellezza di 21 mila abbonamenti. Cioè: 21 mila persone hanno sfidato la canicola e versato la loro quota per assicurarsi una copia quotidiana del Fatto, o scaricandola da internet, o facendosela consegnare dal postino ogni mattina, o procurandosi un coupon da “spendere” ogni giorno in edicola. Per chi fosse interessato, non ha che da entrare nel nostro sito provvisorio, www.antefatto.it, e troverà tutte le istruzioni per abbonarsi. Fra breve comunicheremo l’elenco delle province in cui il nostro giornale arriverà nelle edicole: non saranno, purtroppo, tutte le edicole d’Italia, che sono 39 mila e, per i nostri modesti mezzi, sono anche in parte irraggiungibili. I costi di distribuzione, per chi sceglie quella capillare su tutto il territorio nazionale, anche nei luoghi più sperduti, sono proibitivi. Non ce li possiamo permettere. Dunque, nelle zone d’Italia che non riusciremo a “coprire” in edicola, il Fatto Quotidiano arriverà soltanto in abbonamento: per conoscerle nel dettaglio, il riferimento è sempre www.antefatto.it Mi pare di aver detto tutto, o quasi. Il resto lo scoprirete il 23 settembre. Non dimenticatelo: un giornale libero può sopravvivere senza padroni né aiuti di Stato, ma non senza lettori. Marco Travaglio

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ANALISI

Agenda

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Setting e controllo. Altro che info

Quello di cui veniamo a conoscenza seguendo i grandi media non è ciò che accade. Ma ciò che governo, economia e poteri forti vogliono che noi sappiamo. E come. È indispensabile evadere. Subito.

di Valerio Lo Monaco

utte le cose di cui veniamo a conoscenza e alle quali non assistiamo in prima persona, sono mediate. C'è qualcuno, in altre parole, che ce le racconta. Più le cose accadono distanti fisicamente da noi, oppure in ambiti difficili da conoscere, più diventa importante "chi" ci racconta cosa. Siccome la possibilità diretta di venire a conoscenza dei fatti è giocoforza limitata, è evidente che per sapere ciò che accade ci si debba affidare a mediatori, ovvero a persone o gruppi di persone che in un modo o in un altro riescono (o dovrebbero riuscire) a venire a conoscenza dei fatti e dunque abbiamo come oggetto del proprio lavoro quello, appunto, di informare. A questo punto risulta chiara l'importanza della mediazione, o ancora meglio, la necessità di affidarsi a dei media nei quali si ripone fiducia. Qui il discorso si complica. Ogni volta che veniamo a conoscenza di qualcosa alla quale non abbiamo potuto assistere direttamente, prendere per buona l'informazione ricevuta significa concedere fiducia assoluta a chi ce la ha raccontata. In primo luogo, ed ecco il punto principale di questa prima riflessione, riporre fiducia nel media che si è scelto a iniziare dalla accettazione della sequenza delle notizie che ci vengono raccontate, evidentemente in ordine di importanza. In quanto sarebbe impossibile - sia fisicamente sia mentalmente, nel senso di assorbimento delle notizie - oltre che inutile, tentare di essere informati su tutto, il primo atto di fiducia che si concede al media che si sceglie per informarsi è esattamente la gerarchia con la quale il media stesso decide di proporre le

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notizie. Gerarchia nel senso di scelta delle notizie e di presentazione delle stesse nell'arco del tempo/spazio a disposizione del media stesso. In parole semplici, la scaletta televisiva o il timone del giornale. Scelta delle notizie, posizionamento in scaletta o in pagina, con più o meno spazio ed enfasi, è già una scelta fondamentale per guidare il fruitore attraverso una gerarchia di importanza stabilita dalle redazioni. I media decidono insomma gli argomenti e le notizie alle quali prestare maggiore attenzione. Il criterio che è alla base di questa scelta è la rilevanza delle notizie stesse. Rilevanza: ecco il concetto chiave. Rilevanza in base a cosa? E per chi? Si tratta di un metodo potentissimo: l'attenzione del pubblico viene focalizzata attorno agli argomenti e alle notizie scelte dal media. E solo a quelle. Il resto è come se non accadesse. La scelta degli argomenti e il loro modo di porli all'attenzione è definita, tra gli altri, col termine di Agenda Setting. I media, insomma, "fissano le priorità". I grandi giornali e le grandi reti televisive hanno in mano le risorse maggiori - economiche, politiche e umane - per venire a conoscenza degli argomenti e dunque hanno in mano la possibilità di scegliere quelli ai quali dare maggiore attenzione. I media più piccoli, se inseriti nella stessa logica di "vendita" delle informazioni, non hanno altra possibilità che adeguarsi all'agenda setting impostata dai grandi gruppi. Il concetto in sé è stato ampiamente dimostrato, oltre al fatto che si intuisce facilmente la veridicità del fenomeno, ma ancora prima di entrare nel dettaglio vale la pena fugare qualche dubbio in merito a una delle - poche e deboli - obiezioni che vengono mosse a chi reputa l'agenda setting un aspetto decisivo nella percezione della realtà da parte del pubblico. Ebbene tale obiezione parte dal presupposto della libertà di ogni media nello scegliere gli argomenti da affrontare. E viene sostenuta ancora di più sottolineando il grandissimo numero dei media disponibili, e dunque il pluralismo dell'informazione alla quale attingere. Si tratta di una semplificazione per non affrontare a fondo il problema. Basti citare il fatto che le più importanti agenzie di stampa internazionali (alle quali giornali, radio e tv attingono costantemente per i propri palinsesti e timoni) non arrivano a una manciata, e che quasi tutte quelle locali hanno rapporti di stretta collabora-

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zione con queste. Per la precisione: le quattro maggiori agenzie di stampa internazionali dell'Occidente - Associated Press AP, United Press International, Reuters e Agence-France-Presse - controllano il fluire delle notizie per l'ottanta per cento dell'informazione mondiale. La Ap è di proprietà dei giornali, la Upi è privata, la Reuters è una società per azioni e le altre, come la Agence-France-Presse (e praticamente tutte le agenzie di stampa italiane, per venire al nostro caso) ricevono sostanziosi contributi economici dai governi. Per intenderci, e in particolare modo su quest'ultimo punto: i contributi governativi (ovvero con denaro di tutti) che vengono elargiti alle agenzie di stampa nazionali rappresentano circa il settanta per cento del fatturato complessivo delle agenzie stesse. Ora, da chi "dipenderanno"? E così i nostri giornali che beneficiano del contributo pubblico. Di più, e in modo decisivo, basti pensare che i più importanti poli informativi mondiali e dei singoli paesi sono votati non già al criterio dell'informazione, bensì a quello del profitto. Dunque del mercato, del commercio. Della vendita e dell'incasso. E che sono di proprietà di pochi grandi gruppi imprenditoriali che hanno appunto nel guadagno il proprio obiettivo. Salvo poche e lodevolissime realtà, i grandi media di massa, che si tratti di televisioni, radio o giornali, informano la stragrande maggioranza delle persone con una agenda setting più o meno controllata dai grandi gruppi di potere economico e politico che ne sono a capo. Le classi superiori e medio-superiori - prendendo come misura il potere economico e politico - dominano il mercato delle idee plasmando, di fatto, il modo in cui tutta la società percepisce la realtà e la gamma delle oggettive possibilità politiche e sociali. Possibilità, naturalmente, avallate dalle classi superiori stesse. Questi grandi media che fissano l'agenda setting hanno diverse cose in comune. In primo luogo sono grandi società commerciali collegate a gruppi economici spesso ancora più grandi. Come tutti i grandi gruppi commerciali, hanno un prodotto da vendere (l'informazione) a un grande pubblico, ma in aggiunta hanno un grande pubblico da "vendere" agli inserzionisti pubblicitari, ovvero ad altri grandi gruppi commerciali. Torniamo all'economico, e dunque - oggi - alla politica asservita all'economia, e scopriamo che i princi-

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pali committenti dell'agenda setting che viene proposta al pubblico sono i centri del potere economico, finanziario e politico. Dunque non c'è da stupirsi se questi media, per un verso o per un altro, rispecchiano le prospettive e gli interessi dei venditori e degli acquirenti del prodotto stesso. Discorso diverso, poi, è l'interpretazione dei fatti. Ovvero il modo con cui ci vengono raccontati ed eventualmente commentati. Per chi è aduso a riflettere su quanto accade e desidera ascoltare idee e opinioni, il tema dei commenti è ancora più delicato. Beninteso, dibattiti anche accesi, sui media se ne trovano: quando ci sono élite in contrasto tra loro si possono scatenare anche vere e proprie campagne, ma queste sono sempre all'interno di una griglia di problematiche determinata dagli interessi delle élite stesse che di fatto controllano i media. L'unico criterio veramente utile per affrontare il problema è verificare in che modo economia e politica sortiscono effetti sul sistema della informazione: su come si costruisce la notizia, su come si seleziona e si elimina e su come viene impostata e trattata la notizia negli editoriali e nei servizi. Se i gruppi di pressione politica ed economica che detengono i media di grande diffusione possono fissare le premesse del discorso, decidere cosa la gente deve sapere e cosa no, su cosa deve meditare e come, se essi sono cioè in grado di dirigere l'opinione pubblica della maggioranza - in sintesi di imporre l'agenda setting - allora vuol dire che il circuito dell'informazione diventa in realtà uno strumento di controllo e coercizione. Lo schema è classico e funziona attraverso campagne di indignazione, autocensure, enfatizzazioni e sottovalutazioni, rimozioni, selezione dei contesti e messe in prospettiva particolari, scelta dei temi da trattare e di quelli da non trattare, veicolazioni tambureggianti di alcune sensazioni e anatemi su pensieri altri. Sia chiaro, che vi siano attenti lettori e telespettatori, informati e formati culturalmente, i quali possano da soli cercare notizie, analizzarle con distacco critico, e infine svincolarsi dal giogo, non dimostra quanto gli stessi media ripetono per darsi una parvenza di legittimità, ovvero che vi è grande pluralismo e che chiunque può farsi una opinione libera su tutti i fatti. Al contrario, dimostra esattamente che l'informazione di massa non esiste, se per averla si deve essere colti, attenti e si deve lavorare di gomito per potervi accedere. La massa è insomma spacciata. Tutto avviene per un filtraggio di quanto accade, ovvero per mezzo di una mediazione che risponde a logiche ben precise, le quali come abbiamo visto tutto sono fuorché una

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informazione imparziale. Ancora, una volta, la chiave di lettura risiede nella ratio di questo filtraggio. Governo, leader del mondo produttivo, proprietari e dirigenti e gruppi di pressione decidono cosa dobbiamo sapere e in che modo, cosa non dobbiamo sapere e quali sono i limiti delle possibilità di pensiero. Il resto è out. Ogni tanto si lascia trapelare qualche dissenso e qualche fatto scomodo, ma il tutto con grande parsimonia e sempre all'interno di assunti di principio ben stabiliti. Il dissenso radicale è del tutto assente. Il primo filtro ad incidere sulla informazione è quello, come abbiamo visto, della proprietà, dell'orientamento al profitto del media e di chi lo possiede. La concentrazione di denaro necessaria per avere un grande media è ingente, poiché gli investimenti da fare sono molto onerosi. Il secondo filtro è quello della pubblicità: per vivere, questi grandi media sono "consegnati" non solo ai grandi gruppi economici che li possiedono e alla politica che ne permette la diffusione, ma anche agli investitori pubblicitari, ovvero al mercato. Impossibile sperare di avere una informazione imparziale quando gli interessi sono tanto orientati. Il terzo e decisivo filtro è la scelta delle fonti da parte dei media stessi: cessata la possibilità di mandare inviati per conto proprio, le fonti alle quali attingono i media sono le agenzie di stampa di cui abbiamo già detto. Resoconti burocratici, politici ed economici, vengono diffusi dalla fonte all'utente finale. Ma se le fonti sono banche, governi e agenzie di comunicazione, il lavoro giornalistico si limita a riferire quanto comunicato - ovvero marketing, propaganda - da chi ha proprio l'interesse di comunicare un messaggio ben preciso. Un esempio su tutti: il Pentagono. Già nel 1980, il Pentagono (coi soldi di tutti i contribuenti americani) di fatto controllava 140 giornali, 37 stazioni radio e 17 stazioni televisive per lo più al di fuori dei confini nazionali. Emetteva 45.000 comunicati stampa e programmava 6.600 interviste con i media di vario tipo, 3.200 conferenze stampa, 500 voli dimostrativi per i giornalisti, 50 incontri con staff editoriali e 11.000 conferenze. Facile supporre cosa avviene ai giorni nostri. Le uniche realtà, al momento, che possono permettersi di non subire l'agenda setting - e che consentono al pubblico la possibilità di uscire da questa dinamica - e in altre parole di pensare con la propria testa e in modo svincolato dalle situazioni e dagli interessi che abbiamo visto, sono quelle delle piccole riviste e dei piccoli giornali. Oltre al web, fenomeno che permette - selezionando molto accuratamente le proprie fonti - di scegliere media che, con costi relativamente bassi, possono permettersi una controinformazione e una diffusione potenzialmente molto capillare. Giornali e tv in crisi, e ascesa del web e dei media non conformi, sono fenomeni che vanno letti in questa nuova e fondamentale ottica.

Valerio Lo Monaco

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DI LETTURA

CHIAVE

L’omologazione

V

a colpi di news

Ci avvolgono, ci circondano, ci pressano 24 ore su 24. Tv, radio, internet e persino i cellulari. Milioni di notizie per tenerci informati sul mondo. O per impedirci di dimenticare cosa è bene e cosa è male di Federico Zamboni

e la ricordate la “Golden Share”? Nel 1997 ci fecero addirittura un referendum. Secondo i radicali, che lo promossero unitamente ad altri cinque, la norma di riferimento andava abrogata. Ancora prima di andare alle urne (si fa per dire: alla consultazione partecipò appena il 30,2% degli aventi diritto, cominciando così la lunga stagione della disaffezione popolare e del mancato raggiungimento del quorum) si sapeva benissimo che a monte del voto c’era un problema fondamentale. E irrisolto. La stragrande maggioranza dei cittadini non sapeva nemmeno vagamente cosa fosse la “golden share”. E, di conseguenza, non solo non aveva nessuna opinione in merito, ma non avvertiva alcuna necessità di formarsene una1. A prima vista potrebbe sembrare un’anomalia episodica. Il corto circuito determinato da una questione prettamente tecnica, che di per sé è legittimo ignorare, che viene portata alla ribalta solo dall’improvvida decisione di farne l’oggetto di un referendum e che perciò, ma solo una tantum, mostra i limiti del sistema mediatico nel fornire alla generalità della popolazione le informazioni delle quali ha bisogno. Non è così. Il caso della Golden Share non fa altro che rendere palese una situazione che di solito rimane nell’ombra, occultata da uno dei principali e più insidiosi luoghi comuni della contemporaneità: i media

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Il gossip esplicito e quello occulto: l’importante è non smettere mai di parlare. Anzi, di spettegolare.

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danno le informazioni necessarie a comprendere ciò che accade e gli utenti, senza troppo sforzo, arrivano a essere puntualmente ed efficacemente aggiornati su quello che accade e sulle cause che l’hanno fatto accadere.

Il punto è cosa si percepisce Nella percezione corrente, in altre parole, l’informazione è talmente diffusa, talmente amplificata dalla stampa, dalla radio e dalla televisione (e in ultimo da Internet), da rendere pressoché automatico il processo di apprendimento. Chi legge con regolarità un quotidiano, e persino chi si limita a seguire i telegiornali, tende a convincersi di aver fatto la propria parte e di non avere bisogno di altro. Immerso com’è in un flusso che viene continuamente alimentato – e che, apparentemente, non manca mai di aggiungere a una nuova notizia i chiarimenti necessari a comprenderla – il lettore/spettatore non si rende conto di essere vittima di un colossale inganno. A differenza di ciò che crede, la sua piacevole sensazione di competenza, rispetto alle innumerevoli vicende che si dipanano in Italia e nel mondo, non deriva da una conoscenza effettiva ma dal suo esatto contrario: se fosse davvero competente non si limiterebbe a leggere gli articoli del giorno o ad ascoltare i servizi televisivi – che senza dirlo si attengono a logiche ben precise, interpretando qualsiasi avvenimento in base a chiavi di lettura preesistenti e guardandosi bene dal dare spazio a domande tanto impegnative da mettere in discussione i fondamenti stessi del sistema – ma avvertirebbe l’esigenza di scavare più a fondo. Molto più a fondo. Domandandosi, per cominciare, se tutta una serie di termini e di riferimenti che dà per acquisiti, essendosi abituato a sentirli citare in tutte le salse, corrispondono davvero a cognizioni adeguate. Cognizioni rigorose, dettagliate, esaurienti.

Al Jazeera, ma certo. Il Nasdaq, come no? L’esperimento è semplice. Si prende carta e penna (o una pagina Word, se si predilige il computer) e per prima cosa si trascrivono una ventina di parole tratte dalle cronache nazionali e internazionale. Le prime due, s'il vous plaît, posso-

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no essere quelle contenute nel titolo di questo paragrafo. Al Jazeera e Nasdaq. Poi, accanto a ciascuna di esse, si prova a specificare di cosa si tratta esattamente, come se lo si dovesse spiegare a qualcuno che lo ignora del tutto.

“Nella percezione corrente, in altre parole, l’informazione è talmente diffusa, talmente amplificata dalla stampa, dalla radio e dalla televisione (e in ultimo da Internet), da rendere pressoché automatico il processo di apprendimento...” È un esercizio istruttivo. Tranne rare eccezioni, se lo si effettua senza barare ci si renderà conto di una verità tanto elementare quanto preoccupante. La familiarità superficiale non coincide con la conoscenza effettiva. Sicuro: Al Jazeera è un’emittente in lingua araba. Ma da dove trasmette? E soprattutto: a chi appartiene? E a quali interessi fa capo? Chiaro: il Nasdaq è un indice della Borsa di Wall Street. Ma quali titoli aggrega? E soprattutto: che rilevanza ha rispetto all’insieme dei listini statunitensi? Quanto è significativo sul piano economico, sia in termini di Pil che di posti di lavoro? Beninteso: non c’è nulla di sbagliato nel fatto che queste cose non si sappiano, a meno di non doversene occupare per ragioni specifiche; la cosa sbagliata, e fuorviante, e che nessuno sottolinea, è fingere che non sia così. Fingere che tutti, chi più e chi meno, possiedano gli elementi necessari ad orizzontarsi nella complessità (nelle complessità) della nostra epoca e siano in grado, pertanto, di dare giudizi qualificati su questo e su quello. In una realtà meno fasulla e manipolata, ovverosia in una società in cui uno degli scopi essenziali sia aumentare il livello di consapevolezza dei cittadini, il principale obiettivo di chi operi nei media – così come, ancora prima, delle strutture educative a partire da quelle della pubblica

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istruzione – dovrebbe consistere nello sgombrare il campo da qualunque semplificazione indebita. Il primo messaggio, la prima avvertenza, dovrebbe essere un richiamo alla necessità, inderogabile, di non fermarsi alle apparenze. In che modo? Innanzitutto con l’esempio. Ciascun aspetto della comunicazione giornalistica, e a maggior ragione di quella culturale, andrebbe elaborato nel segno di una riflessione autentica, tesa non solo a dare risposte puntuali alle domande più immediate ma anche a focalizzare quesiti meno ovvi, che permettano di individuare prospettive critiche e chiavi di lettura alternative a quelle abituali. Si pensi alle interviste, per esempio. Sempre più spesso, a causa della sciagurata commistione di indolenza e di ossequiosità che affligge la categoria, si risolvono in un omaggio all’interlocutore di turno. Invece di metterlo sotto pressione, per indurlo a uscire allo scoperto e a chiarire a fondo il suo punto di vista (nonché, cosa ancora più importante, a rispondere pubblicamente della sua condotta), ci si limita ad assecondarne le intenzioni. Invece di fare quel che dovrebbe, ovverosia fare domande scomode in nome e per conto dell’opinione pubblica, il giornalista si comporta come il più amichevole degli ospiti. Cauto al di là del lecito. Enormemente, colpevolmente, al di là della correttezza professionale. Lietissimo di mettersi al riparo, con la scusa del fair play e della buona educazione, da qualsiasi possibile attrito. L’escamotage ricorrente, ammesso che anche la domanda iniziale non fosse insulsa, è non darle alcun seguito, sorvolando con serafica indifferenza sul fatto che la risposta sia stata evasiva. O capziosa. O palesemente bugiarda. Tutti a ridere di Marzullo e del suo proverbiale “Si faccia una domanda e si dia una risposta”: ma lui, almeno, lo dice apertamente e, in ogni caso, lo fa all’interno di un programma che per fascia oraria e approccio generale si colloca a mille miglia di distanza dall’informazione con la I maiuscola. Molti di quelli che ghignano alle sue spalle non fanno nulla di diverso e di migliore. Al contrario: formulando domande che hanno il solo scopo di permettere all’interlocutore di rispondere quel che più gli conviene, si nascondono dietro il dito di una professionalità fittizia. E alla fine, magari, lo ringraziano pure, come se invece del solito mazzetto di bugie “prêt à porter” e di ovvietà autocelebrative avesse appena fornito chissà quali indicazioni illuminanti. Marzullo riduce l’intervista a chiacchiericcio. Loro la riducono a una pantomima. Marzullo fa pena. Loro fanno schifo.

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Manipolare per indebolire La fanno gli scopi, la differenza. E se non c’è nessuno scopo proficuo, nessun obiettivo nitido e verificabile, allora si tratta solo di un passatempo. Di un trastullo. Travestito da cosa seria (sotto l’Altissima Tutela dell’articolo 21 della Costituzione...) ma frivolo e inconcludente. Peggio: nocivo. Truffaldino perché non si presenta per quello che è davvero, deteriore perché mira non soltanto a distrarre ma anche a manipolare. Trucco numero uno: spostare l’attenzione su ciò che è secondario, o del tutto trascurabile, in modo tale che non ci si accorga di quello che invece è importante. E decisivo. È la regola base di qualsiasi prestigiatore: la mano sinistra si agita per far sì che tutti la osservino, e intanto la mano destra lavora di soppiatto. È l’accorgimento minimo di qualsiasi truffatore: si occulta l’inganno sotto una miriade di indi-

In una realtà meno fasulla e manipolata, ovverosia in una società in cui uno degli scopi essenziali sia aumentare il livello di consapevolezza dei cittadini, il principale obiettivo di chi operi nei media – così come, ancora prima, delle strutture educative a partire da quelle della pubblica istruzione – dovrebbe consistere nello sgombrare il campo da qualunque semplificazione indebita...” cazioni verosimili, e persino attraenti, che avvolgono la vittima in una ragnatela di false certezze. Trucco numero due: far credere alle controparti di essere perfettamente in grado di giudicare ciò che viene detto e mostrato. È un messaggio che per lo più resta implicito, come una premessa universalmente condivisa che non c’è più alcun bisogno di dimostrare, ma che ogni tanto viene ribadito, ad esempio con l’abusato “tutte le opinioni sono degne di rispetto”. Il risultato è che chiunque, o quasi, si sente in diritto di dire la sua su qualsiasi argomento. I giudizi si confondono con le opinioni, le opinioni con le impressioni. In teoria dovrebbero essere tre stadi successivi, con livelli crescenti di approfondimento – e di cautela. Si comincia partendo da un’impressione (George W. Bush sta esagerando il pericolo di al Qaeda) e a forza di documentarsi su ciò è stato detto e fatto si perviene a un’opinione (sì, il terrorismo

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islamico è funzionale agli interessi statunitensi) che solo alla fine, dopo ulteriori verifiche, può sfociare in un giudizio conclusivo (gli attentati alle Twin Towers sono stati strumentalizzatati dalla Casa Bianca per attaccare prima l’Afghanistan e poi l’Iraq). Di fatto, invece, si valuta al colpo d’occhio. Si interloquisce a cuor leggero. Si parla, e si straparla, con lieta e inebriante sicumera. Il piacere di esprimersi, su un piano più emotivo che razionale, al posto del dovere di riflettere. L’establishment ringrazia: blandisce i sudditi permettendo loro di presenziare ai dibattiti televisivi, o di intervenire “in diretta” a qualche trasmissione radiofonica, e in tal modo li mantiene nella debolezza originaria. Li avviluppa nell’illusione di credersi competenti e ascoltati. Esaltando le loro qualità immaginarie legittima il proprio potere reale. Se tutti sono in grado di giudicare, e liberi di farlo, va da sé che viviamo in una democrazia e non in un regime oligarchico. Se la maggioranza dei cittadini non protesta, e non si chiama fuori dal gioco delle parti, va da sé che è d’accordo – al di là di talune, secondarie divergenze – con la classe dirigente che la governa.

Manipolare per omologare Non c’è solo questo. Non c’è solo la falsa promessa che, grazie ai media, i cittadini possano comprendere ciò che accade e indirizzarlo attraverso le proprie scelte: da un lato i loro consumi, a fare da architrave alla democrazia economica, falso obiettivo del liberismo; dall’altro il loro voto, architrave della democrazia politica, falso obiettivo del liberal-parlamentarismo. Nel modo in cui è organizzato l’intero sistema dell’informazione c’è un obiettivo ancora più insidioso. L’omologazione culturale. La trasformazione del cittadino che si fa i fatti suoi in un convinto sostenitore dello statu quo. Alle diverse forme di manipolazione dei contenuti, dalle notizie omesse alle interpretazioni distorte, si aggiunge perciò una manipolazione più sottile e insinuante: l’avallo, o persino la celebrazione, di determinati modelli di comportamento, nel presupposto che la loro continua reiterazione li renda dapprima consueti e poi, stante il loro dominio, ammirati e condivisi. La tecnica si fa raffinata, e più che mai subdola. I ragionamenti nascondono emozioni, le emozioni nascondono ammaestramenti. La

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crisi economica, che è la conseguenza diretta dell’incessante ricerca del massimo profitto, viene spacciata per un incidente di percorso. La colpa di una minoranza, ormai neutralizzata. Tutt’al più un errore di valutazione. Che però, per quanto grave, non inficia la bontà della rotta. Né, tanto meno, l’affidabilità di quelli che la tracciano. La massima ambizione diventa il ritorno ai “tempi felici” che precedettero il crollo delle Borse. Lo Stato deve salvare le Banche. Tutti noi dobbiamo fare del nostro meglio perché le difficoltà vengano superate. Napolitano, come già Ciampi, si appella alla concordia nazionale. Supportare i padroni del vapore come dimostrazione di patriottismo. Bravi consumatori, bravi cittadini. Cittadini che si commuovono, immancabilmente, ogni volta che un soldato italiano rimane ucciso, o anche solo ferito, in Iraq o in Afghanistan, o dove accidenti li abbia spediti l’asservimento dei nostri governanti agli interessi americani. La favoletta ipocrita delle missioni di pace. Quella ancora più astuta dei “diritti universali”. Noi occidentali il Bene con la B maiuscola. Tutti quelli che non sono d’accordo con noi – anche se sono perfettamente d’accordo tra loro – dei selvaggi da correggere. Degli incivili da educare. Sempre che non siano potenti come la Cina, ça va sans dire. Progressivamente, specie in ambito televisivo, la pseudo esperienza dell’essere spettatori prende il posto dell’esperienza diretta. L’individuo-massa, infatti, si abitua (e viene abituato) a privilegiare una vita riflessa, che ruota intorno alla rappresentazione mediatica della vita collettiva. Poiché la sua stessa esistenza è, o gli appare, priva di grandi stimoli e di adeguate soddisfazioni, egli si accontenta di colmare i propri vuoti interessandosi alle vicende dei personaggi famosi. Dei quali invidia i privilegi e ai quali, più o meno consciamente, più o meno compulsivamente, vorrebbe assomigliare. La lezione che gli arriva dai media è una continua conferma della medesima regola: il valore si identifica nel successo e la notorietà, quale che ne sia la causa, è l’irrinunciabile discrimine tra chi ha valore e chi non ce l’ha. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, dai Reality Show espliciti come Il Grande Fratello a quelli occulti come i programmi contenitore della domenica pomeriggio, e ci piace pensare che non ve ne sia bisogno. Ciò che vale la pena di sottolineare, invece, è l’alibi dietro cui si trincerano i responsabili di questo immane baraccone, in cui le

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facili seduzioni del pop precipitano sempre più spesso nel cinico adescamento del trash: se a così tanta gente piace questo genere di cose, perché non dovremmo “offrirglielo”? E ancora: non vorrete mica dire che sono tutti stupidi? E infine: che male c’è a divertirsi, a maggior ragione quando le cose, sul piano economico e sociale, non vanno per il meglio? L’individuo-massa guarda. Ascolta. Assorbe. Si impregna di tutto questo e, come quelli che vivono in mezzo all’immondizia, smette di sentirne il tanfo. Come quelli che non si lavano per settimane smette di sentire che quel tanfo lo emana egli stesso. Quando sente quell’odore, anzi, lo trova famigliare e rassicurante. Se non è un profumo è un richiamo. Irresistibile.

Come un’indagine di polizia Se ne esce in un solo modo. Rifiutando la logica dell’informazione quotidiana come obbligo inderogabile. Ristabilendo una gerarchia tra ciò che è utile, ai fini delle analisi e dei giudizi, e ciò che non lo è. Documentarsi scrupolosamente è doveroso. Affastellare nozioni superflue è stupido. E controproducente. Ciò che bisogna capire è che le notizie non sono un valore in se stesse. Le notizie hanno valore, o non ne hanno, in rapporto a un determinato scopo. E gli scopi, a loro volta, non sono tutti della medesima importanza. Al pari di un cacciatore esperto, che riconosce tutte le tracce in cui si imbatte ma poi segue solo quelle dell’animale che intende raggiungere, si deve imparare a selezionare. Se si è in viaggio ascoltare le informazioni sul traffico ha senso. Se stiamo a casa nostra non ne ha. Il “gravissimo incidente” a 500 chilometri da dove abitiamo non ci riguarda, semplicemente. A meno che non lo colleghiamo a una più generale riflessione sul problema della circolazione stradale, non esiste nessun motivo di interessarsene. Nessun altro motivo che non sia quello, autoreferenziale e dispersivo, della sua attitudine a divenire un possibile oggetto di conversazione. Si scrive informazione, si legge pettegolezzo2. In moltissimi casi è questa la motivazione principale, ancorché inconscia, che induce a seguire assiduamente i notiziari: essere in grado di parlarne con le persone con le quali si verrà a contatto. Per un verso si dimostra di essere aggiornati su ciò che accade. Per l’altro ci si mette in condizione di prendere parte al rito collettivo dei commenti a ruota libera. Le notizie, dunque, come pretesto dal quale partire per attivare un processo di comunicazione interpersonale. Che, se c’è bisogno di sottolinearlo, è essenzialmente di carattere emotivo e ha come scopo prioritario, appunto, lo scambio di emozioni tra

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chi vi partecipa: a volte una conferma del comune sentire; altre volte la riaccensione di un dissenso già noto; sempre e comunque una verifica (una mappatura?!) della posizioni reciproche.

“Ciò che bisogna capire è che le notizie non sono un valore in se stesse. Le notizie hanno valore, o non ne hanno, in rapporto a un determinato scopo. E gli scopi, a loro volta, non sonmtutti della medesima importanza.” L’alternativa – che non esclude e non demonizza l’uso delle notizie a fini di socialità spicciola, ma che nemmeno dimentica l’abissale differenza tra le chiacchiere d’occasione e le forme più profonde di elaborazione e confronto – è ancora una volta nel passare dalle abitudini indotte alle scelte consapevoli. La domanda che bisogna porsi, di fronte a ogni ulteriore notizia, è se essa possa influire, e quanto, sui giudizi di carattere generale. I singoli avvenimenti vanno selezionati in base alla loro rilevanza. Potrebbero essere indizi utili all’indagine che stiamo compiendo, ma potrebbero anche non esserlo. Se noi ci comportiamo da investigatori degni di tal nome, e non da perditempo che se ne vanno a zonzo senza meta, selezionare i fatti e le testimonianze è precisamente il nostro dovere. Ed è indispensabile che ci concentriamo su alcuni casi specifici e lasciamo perdere gli altri. Salvo affidarci, per le questioni che non abbiamo modo di approfondire personalmente, a coloro i quali abbiano dimostrato di farlo con la stesso rigore con cui lo faremmo noi. In una società migliore sarebbe il compito naturale dei giornalisti. In quella attuale è l’incombenza, e la sfida, di un pugno di ribelli che sono costretti a cercarsi, e a riconoscersi, uno per uno.

Federico Zamboni

Note: 1 “Mia moglie, che è cardiochirurgo, - racconta Nerio Nesi, esperto di economia di Rifondazione comunista - non sa che cosa sia la golden share. (...) Il vicepresidente della Camera Lorenzo Acquarone, del Partito popolare: "Non si voterà, nel mio studio a Genova ci sono 21 avvocati amministrativisti: almeno la metà non sa che cos'è la golden share. Io credo che il Parlamento potrà intervenire prima". (Corriere della Sera, 31 gennaio 1997, ‘Golden share, rischio di quorum mancato’) 2 Marshall McLuhan lo scrisse già nel 1964, nel suo Understanding Media (Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, pagg. 332, € 20): “La nostra stampa a grande diffusione è vicinissima al pettegolezzo. In confronto il giornalista russo o europeo è un letterato”. Come in tanti altri casi, gli Stati Uniti mostravano con largo anticipo dinamiche che qui da noi sono emerse soltanto negli ultimi anni.

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DI LETTURA

CHIAVE

Inganni

e luoghi comuni Prima regola della messinscena: fare finta di essere liberi, di poter trattare qualsiasi tematica, di poter dire qualunque cosa. Dibattiti finti, esperti fasulli, giornalisti acquiescenti. E guai a chi non si adegua

“I

di Liano Castelli

o n o n s o n o m a i s t a t o c e n s u r a t o ” . Lo si sente affermare fin troppo spesso. E con tono piccato, per di più. Ma che significa, realmente? Il discorso è molto semplice: qualunque imprenditore chiama a dirigere un ramo della sua azienda una persona fidata, capace e in linea con la sua visione dell'azienda. Non affida un settore importante a una persona quasiasi. E, allo stesso modo, offre lavoro e assume persone di cui apprezza le caratteristiche. Non solo quelle che hanno. Anche, e talvolta soprattutto, quelle che non hanno. Il discorso è valido in ogni campo, com’è facile intuire. E non farebbe un grinza, non fosse che il mestiere di giornalista - ché di questo stiamo parlando - dovrebbe rispondere ad alcuni criteri propri della professione, e non solo a quelli richiesti-imposti dal proprietario dell'azienda (in questo caso un editore, si fa per dire) che consente di produrre e diffondere il prodotto editoriale. Come ben sappiamo (e come viene approfondito in altra parte di questo numero della rivista), le aziende proprietarie dei grandi media sono però editori atipici: spesso multinazionali, quotate in borsa, con profitti stratosferici e stretti rapporti di interesse con politica e mondo economico. Soprattutto, con un minimo comu-

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I “talk show”, regno incontrastato dei politici da salotto. E catalogo infinito di compiaciute banalità.

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ne denominatore che nulla ha a che fare con il caposaldo deontologico dell'informazione: generare profitti. Direttamente o indirettamente. Direttamente per le copie vendute e ancora di più per la quantità di pubblicità raccolta. Indirettamente con il diffondere un "pensiero" in linea con le aspettative di imprenditori e politici dai quali l'azienda stessa (in un modo o nell’altro, ivi inclusi i finanziamenti pubblici, le concessioni, gli accordi incrociati, etc.) dipende. Chiaro, dunque, che coloro i quali occupano posizioni di rilievo all’interno di un media - per esempio il direttore politico, quello responsabile, quello editoriale e i vice direttori, ma anche i capi

Chi si allinea fa carriera, o se non altro conserva il posto. Chi crede in altri valori, lontani dal Pensiero Unico, è sistematicamente bandito. redattori e gli editorialisti, oltre che i giornalisti ai quali è permessa una maggiore libertà di manovra - condividano tutti, per un verso o per un altro, il medesimo modo di interpretare le cose. Che è quello del proprietario dell'azienda. In più, c'è da aspettarsi che ne condividano anche gli atteggiamenti e le aspirazioni, fino a un’identificazione pressoché totale. La classica risposta "io non sono mai stato censurato" che generalmente offrono giornalisti di vario tipo, riflette dunque l'errore di fondo della domanda: sarà anche vero che non si è mai stati censurati, ma solo perché, se si fosse stati di idee differenti, non si sarebbe neanche arrivati a lavorare in quella determinata redazione. Beninteso, stiamo parlando di esempi legittimi. Giornalisti che in buona fede, aderiscono agli stessi “valori” dell'editore. Giornalisti che svolgono il proprio lavoro con impegno e competenza. Ma il problema rimane: in una testata a grande diffusione non approdano (se non in piccolissima parte e magari solo per fare sfoggio di pluralismo) giornalisti, editorialisti e intellettuali con idee sostanzialmente differenti dal proprietario del media stesso. Per fare carriera, o anche solo per conservare il

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posto, è necessario allinearsi. Come abbiamo appensa detto c’è chi si allinea perché la pensa davvero così. Ma ci sono anche moltissimi altri che lo fanno per interesse. Giornalisti che pensano una cosa ma che per motivi di necessità, o peggio di opportunismo, si auto annientano (e si autocensurano) pur di poter accedere a media ad alta diffusione e agli onori e ai privilegi che questo comporta. Si tratta di arrampicatori. Chi si arrampica rampica, ovvero striscia verso l'alto. Di loro è superfluo occuparsi: in quanto a dignità, occupano il gradino più basso della scala sociale. Degli altri è invece opportuno mettere a fuoco alcune cose. Con qualche esempio pratico. E recente. Belpietro è passato dal Giornale a Panorama per arrivare ora a dirigere Libero. Feltri dall'Indipendente al Giornale e quindi a Libero e ora di nuovo al Giornale. Ferruccio de Bortoli dal Corriere della Sera al Sole 24 Ore e ritorno. Gad Lerner dalla Rai a La7 passando per una vacanza in yacht con l'imprenditore De Benedetti (gruppo L'Espresso-Repubblica). Vespa organizza cene con Berlusconi. Si potrebbe continuare a lungo. È il solito balletto attorno ai pochi e ricchi tavoli ai quali siedono, more solito, sempre gli stessi imprenditori, politici e (fidati) giornalisti. Ultimo caso, emblematico, quello di Enrico Mentana: qualche sgarro di troppo, e via. Dove? Pare alla corte di Murdoch, sulla piattaforma a pagamento Sky del super magnate imprenditore a capo di uno dei più grandi poli

Trovare contenuti non omologati sui grandi media è pura utopia. Bisogna pensarci ogni volta che si va in edicola o s’accende la tv. economico-finanziari del pianeta, NewsCorp. I giornalisti che entrano a pieno titolo in questo sistema non possono fare strada se non interiorizzandone i valori. Non hanno, in altre parole, alcuna necessità di essere e sentirsi censurati, visto che già sono arrivati lì. Chi non si adegua, invece, viene fatto fuori attraverso meccanismi che sono noti a (quasi) tutti. In modo soft, semplicemente silenziandoli, non scegliendoli, non facendoli lavorare se

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non in ambiti di modesta o nulla diffusione e incidenza. Insomma, sperare di trovare argomenti altri, non conformi, e differenti dal panorama dominante sui grandi media di massa, è oggi pura utopia. Bisogna pensarci ogni volta che si decide di comperare un quotidiano o di accendere un canale televisivo: cosa e chi rifletterà quello che andremo a leggere o a vedere?

L'esperto nelle trasmissioni televisive A corredo dei giornalisti e degli editorialisti compiacenti, o comunque in linea con gli interessi dei poteri economici e politici dominanti, i gruppi di pressione ricorrono a un ulteriore meccanismo per arrivare alla massima diffusione possibile del proprio punto di vista. Tengono a libro paga intere schiere di "esperti", come polli in batteria pronti, al momento opportuno, a essere tirati fuori e lasciati liberi di saltabeccare tra prime pagine dei quotidiani e talk show, quando non anche nelle dotte disquisizioni di saggi pompati fino all'inverosimile, per ottenere un preciso effetto: fissare e ribadire le tacite e indiscutibili premesse alle quali dovrà sottostare il dibattito. Personaggi della più varia origine che vengono accreditati come esperti di qualcosa e che vengono poi utilizzati per bloccare lo spettro delle interpretazioni possibili su un dato argomento. L'esperto di questo tipo è in genere una persona che ha scritto alcuni saggi - spesso smentito esplicitamente e in modo incontrovertibile da altri saggisti ai quali non si è degnato di rispondere non avendo argomentazioni parimenti forti per farlo - oppure è un professore universitario, titolare di qualche cattedra in un’università prestigiosa. O ancora è uno "studioso" a capo di qualche fondazione sovvenzionata da contributi statali. Perfettamente in linea coi dettami del pensiero dominante, egli espone le proprie idee nel tentativo di far sì che il pubblico trasferisca su di esse l’autorevolezza, vera o presunta, della sua figura accademica. Il meccanismo è in fin dei conti elementare. L'esperto è apparentemente fuori dalle (falsissime) diatribe giornalistiche e politiche, e dall'alto della sua finta posizione super partes espone la propria tesi. Il pubblico prende per buona quella (finta) posizione terza e la fa propria. La sua, infatti, non è una parola qualsiasi. È la parola dell'esperto. Poco importa, poi, se si tratta di un esperto a libro paga - direttamente o indirettamente - di qualche industriale o politico: vuoi in cambio della certezza di vedersi pubblicato il proprio prossimo (nauseabondo) romanzo, vuoi dell'appalto pubblico alla propria azienda, o ancora dei finanziamenti per la pro-

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pria fondazione o per il proprio (ponderoso) quadrimestrale venduto a non meno di quarantacinque persone... Ancora peggio, infine, i personaggi che sono diventati più o meno famosi in un campo qualsiasi e che finiscono con l’assurgere al ruolo di “esperti” di questo e di quello, per non si sa quali meriti acquisiti. Da lì in avanti ce li troveremo davanti di continuo, ovunque ci siano una telecamera e un microfono. Invitati a dire la loro - e i telespettatori costretti ad ascoltarli - su questioni lontane anni luce dalle loro effettive capacità cognitive e intellettive. Inutile fare nomi. Basta fare un po’ di zapping.

I "falsi" contraddittori Gli esperti e i giornalisti di corte sono visibili in quantità industriale soprattutto nei talk show televisivi, tra un politico e un altro, tra un sindacalista e un altro, tra un imprenditore e un altro. Nei classici contraddittori organizzati dalle redazioni dei programmi televisivi dove la discussione è infuocata (almeno apparentemente) su alcuni aspetti - che magari vengono portati all'esasperazione dialettica per simulare un’autentica e nobile contrapposizione ideale - ma si iscrive pur sempre in una concezione simile della società e dell’economia. Per anestetizzare lo spirito critico dei telespettatori, i falsi contraddittori sono una delle soluzioni più efficaci. E il mezzo televisivo si presta in modo eccezionale alla bisogna. Il metodo è collaudato: ci sono opinioni cui è consentito manifestarsi e tutte le altre sono puntualmente escluse. Lo spettro di queste opinioni dipende dal consenso, esplicito o implicito, dei potenti, e il dibattito viene incoraggiato solo finché resta all’interno di quei limiti. La discussione può essere accesa quanto si vuole, purché si eviti che il pubblico entri in contatto con visioni alternative. Che pure ci sarebbero, eccome, ma che in virtù della loro estraneità al sistema-blocco di media, politica e potere, vengono sistematicamente escluse. In pratica, dunque, si pongono limiti preventivi a ciò che è "pensabile". Si tollera il dibattito ma sino a un certo punto. Gli altri, quelli che vorrebbero sollevare tesi differenti e introdurre argomenti diversi, sono out. Unico approdo, e nemmeno sempre, la stampa a diffusione ridotta, fatalmente priva dei mezzi necessari per poterla aumentare. Facciamo tre esempi, di questi dibattiti a scartamento ridotto. Primo: si può discutere di legge elettorale, di doppi turni, di premi di maggioranza e di doppi sbarramenti percentuali alla Camera e al Senato, ma non si può affrontare - né viene invitato alcun intellettuale che intenda farlo - di quello che invece è uno dei punti vera-

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mente nodali di tutto il sistema politico italiano, ovvero delle preferenze. Del reinserimento, cioè, di quella scelta diretta del politico da eleggere, che dovrebbe essere normale e inderogabile in una democrazia e che di per se stessa basterebbe a eliminerebbe la maggior parte di quelli - arrivisti, puttane, nipoti, figli e mogli e mariti "di" - che oggi siedono in Parlamento grazie alle liste bloccate. Secondo: si può parlare delle regole di ingaggio dei nostri militari in Afghanistan, di come si dovrebbe agire militarmen-

Il giornalista che fa domande stringenti non esiste più. Sa benissimo che se ci prova una volta, a porre una domanda poco gradita, non avrà un’altra chance. te e diplomaticamente, ma non si può discutere del vero motivo per cui l'Occidente, USA in testa, ha invaso quel Paese sovrano. Terzo: si può parlare di nucleare e termovalorizzatori, di come e dove costruirli, e con il concorso di chi, ma non si può parlare dell’opportunità di non farli per niente, visto che si tratta di uno dei sistemi più dannosi per la salute umana, che non esaurisce i suoi effetti negativi nel nostro tempo ma che si ripercuoterà anche sulle generazioni future.

Le domande non fatte Parte il Tg, comincia la nota politica dell'inviato alla Camera, viene delineato l'argomento del giorno, ed ecco comparire la mano di un giornalista invisibile che offre al politico di turno - prima del governo, poi dell’opposizione e infine della maggioranza, rigorosamente nell'ordine - la possibilità di fare il comizietto da trenta secondi sulla posizione del proprio partito. Quindi si passa al servizio successivo. Ma questo, così, non è un servizio informativo. È il costoso ufficio stampa del potere pagato dai contribuenti (sulle reti pubbliche) o dai grandi gruppi industriali che pagano inserzioni pubblicitarie (sui grandi network privati). Il giornalista che fa domande stringenti non esiste più. O è una rarità assoluta. Il tipico giornalista televisivo sa benissimo che se ci prova una volta, a porre una domanda poco gradita, la volta successiva non avrà modo di poterne rivolgere nessun’altra. Per non parlare, poi, delle "seconde domande". Non le interviste fiume. E neanche le grandi inchieste. Solo le semplici, legittime e sacrosante seconde domande. La successione è (sarebbe) semplicissima: dopo la prima domanda e la risposta del politico, spesso inadeguata quando non avvilente, deontologia vorreb-

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be che arrivasse subito una seconda domanda, affinché l’intervistato chiarisca la propria posizione. Magari gli si potrebbe anche rammentare, e chiederne conto, la risposta completamente diversa che aveva dato, sullo stesso argomento, non più tardi di due giorni prima. Oppure sottolineare la vacuità della prima risposta - e in molti casi significherebbe fare piazza pulita della loro fama, usurpata, di accorti dialettici. Oggi, invece, il giornalista non la pone neanche più, la seconda domanda. E molto spesso, addirittura, non insiste nemmeno se alla prima non è stata data risposta. Un caso emblematico: a Ballarò, in diretta e in prima serata, Floris chiede a Massimo D'Alema - giustamente, vista l'attualità dell'argomento - qualcosa in merito alle scalate bancarie su cui indagava la Forleo e che, secondo quest’ultima, lo vedevano implicato con un “ruolo attivo”. La risposta dell'allora leader Ds fu perentoria: «lei non si preoccupi di questo». E Floris passò ad altro ospite e ad altro argomento. Oplà. Il giornalista, e spesso il media nel suo insieme, si riduce a "prendere atto" di quanto detto dal politico di turno. A ricopiare una agenzia di stampa o un comunicato stampa. Con buona pace dell’informazione.

“E che, ci vogliamo sorprendere?” Giuseppe Cruciani, dapprima conduttore de “La zanzara” su Radio24 (gruppo Sole24Ore) e poi approdato in tivù a La7, ce l’ha nel novero delle espressioni favorite, e la utilizza sovente per replicare alle telefonate di ascoltatori variamente scandalizzati dalle notizie del giorno: "e che, ci vogliamo sorprendere?". Di fronte a notizie che in una società sana sarebbero ritenute intollerabili e in grado di innescare delle rivolte (se non proprio delle rivoluzioni), il sagace giornalista invita l’ingenuo interlocutore, e insieme a lui tutti gli altri che si trovano all’ascolto, a non sorprendersi più di tanto. È un atteggiamento che si va diffondendo. Un trucchetto facile facile per minimizzare. Per dire che va tutto bene e che, anche quando non va bene, non è comunque il caso di stracciarsi le vesti. Il sistema è a posto. Il guasto è secondario. Voi state quieti. Qualcuno provvederà. Senza troppo chiasso. E invece no: anche solo per difendere la propria sanità mentale, è giusto e doveroso non smettere mai di sorprendersi. E incazzarsi. E farlo sapere agli altri, responsabili del misfatto in primis. Poi, certo, sarebbe anche il caso di dare un seguito alla sorpresa. Magari affrontando ancora meglio il punto in questione e cercando di capirne di più. Tirando delle somme alla fine della riflessione. Formulando, finalmente, qualche sentenza veramente degna di questo nome.

Liano Castelli

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ANALISI

Editto Bulgaro

(e seconda pelle)

Giornalisti in ginocchio. Costretti a ogni genere di compromesso pur di non essere licenziati. Vittime di una concezione feudale del potere che dilaga ovunque. E che, ormai, viene messa in pratica in modo brutale

“P

di Lucrezia Carlini

orta a Porta di ieri è stata il punto più basso del nostro mestiere da anni”. L’SMS è desolato. Me lo invia un collega anziano (ma non domo, scherziamo amaramente) il mattino del 6 maggio scorso. La sera prima, da Vespa, la Povera Patria ha assistito all’one man show del Presidente del Consiglio, già macchiato dalla pubblica, inequivocabile condanna della moglie, dal caso Noemi, dai primi segnali di crepe nel rapporto con il Vaticano. Il fido Bruno, dagli schermi del servizio pubblico, gli offre la possibilità di spiegare al popolo le sue ragioni, tutte le sue ragioni, nient’altro che le sue ragioni. Un monologo autoincensatorio. Lo seguo con altri colleghi. Nessuno commenta. Neanche per schernire. Siamo turbati, sgomenti. Il contraddittorio è affidato a direttori di quotidiani amici che, per l’occasione, si producono in domande senza punto interrogativo. Fra questi, anche Ferruccio De Bortoli, appena tornato alla direzione del Corriere della Sera da cui era stato cacciato due anni prima - secondo i bene informati - per aver tenuto una linea troppo ostile a Berlusconi. La sua critica più significativa è: se mi permette, Presidente, trovo inopportuno che Lei si mischi a Ciro o’ Panettiere. E Berlusconi, gongolante: io amo la

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C’è un’enorme differenza tra Stato e partiti. La stessa differenza che c’è tra “servizio pubblico” e RAI

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gente comune e la gente comune mi ama. È questo a spaventarci. Sullo schermo passa non solo l’abdicazione personale di un giornalista ai fondamentali del mestiere. Quello che va in scena, a beneficio dei pochi che hanno gli strumenti per capire quale sia la posta in gioco, è la capitolazione, sotto forma di omaggio pubblico, del gruppo di potere di cui il Corriere della Sera è stato finora la voce. Il mes-

Tutti gli abbonati Rai dovrebbero pretendere una visita autogestita a Saxa Rubra. Vedrebbero come nasce la cattiva informazione dei vari Tg. saggio è forte e chiaro: sono cambiati gli equilibri del capitalismo italiano. I principali oppositori del potere berlusconiano, i vecchi poteri forti sostenuti da alcuni banchieri, hanno perso forza. Marina Berlusconi pochi mesi prima è entrata nel patto di sindacato di Mediobanca, il sancta sanctorum che fino a qualche anno fa, sotto la gestione Cuccia, non avrebbe permesso a nessun Berlusconi di avvicinarsi. Poi, la crisi finanziaria ha travolto le banche; a quel gruppo di potere non resta che inchinarsi al nuovo padrone.

Il significato Cosa significa per noi giornalisti riuniti lì, di fronte a uno schermo, una sera come tante? Che non è una sera come tante. Che un altro pezzo di informazione della Povera Patria risponderà allo stesso, unico referente. Che diminuirà la libertà per tutti – non ci siamo mai illusi che la libertà di informazione in Italia potesse mai essere assoluta (ab soluta, libera da lacci), ma riuscivamo a ricavarne un poco facendo la tara alle tante appartenenze politiche. Sottraendo, aggiungendo, bilanciando, decifrando messaggi in codice di interessi politici o economici. Ma se lo scontro si fa più aspro, la guerra diventa senza quartiere e il prezzo della sopravvivenza (professionale e politica) più basso. Accade questo, una sera di maggio, in diretta sul servizio pubblico. E noi che abbiamo i mezzi per

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capirlo non abbiamo i mezzi per fermarlo. Era l’estate del 2003. Ero stagista al Gr Radio, alla sede Rai di Saxa Rubra. Tutti gli abbonati Rai dovrebbero pretendere, all’atto del pagamento del canone, una visita autogestita a Saxa Rubra. Sarebbe loro utile, più di mille domande, per capire come nasce la cattiva informazione che continuano a foraggiare. Per me, quei mesi furono illuminanti. Ero stata assegnata alla fascia: uno stanzone al piano del direttore e dei molti vicedirettori, dove le notizie vengono confezionate e, soprattutto, impaginate per le edizioni nazionali. Raramente si attinge alla fonte diretta: di solito si fa un taglia-sintetizza&incolla delle principali agenzie. L’estate era torrida, in ogni possibile senso. Ai primi di luglio Silvio Berlusconi, Premier in carica, in visita ufficiale all’Europarlamento, aveva replicato alle critiche del capogruppo socialista Martin Schulz dandogli del kapò. I redattori del GR erano piombati nel terrore. “La diamo o non la diamo?”- “Non possiamo non darla!” – “Perché, secondo te possiamo darla?”. Si era giunti a un molto disonorevole, quanto ovvio, compromesso: la notizia era stata data, ma,

La mala politica è dappertutto. E inquina ogni angolo del sistema dell’informazione. Le nomine sono pezzi di una scacchiera, l’informazione solo propaganda. usando un eufemismo, senza enfasi. I telegiornali, invece, erano andati pesanti di montaggio, facendo saltare le parole di Berlusconi. Il resto del mese si trasformò in un incubo. Ad ogni notizia dalla vaga eco politica, i molti vicedirettori, ognuno espressione di una stratificazione partitica e correntizia, emergevano dalle loro stanze, attraversavano il corridoio e si aggiravano, penna in mano, lungo le postazioni con il compito di verificare, emendare, ammorbidire, censurare. Il pranzo era appesantito dall’angoscia; si tornava dalla mensa con la domanda: Ha parlato? Ha esternato? Che ha detto?

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Ad agosto andai agli Esteri, dove, si diceva, era appena passata la disposizione, emessa dall’alto, di evitare scenari e analisi e limitarsi a cronaca e costume – alleggerire, credo suonasse il mantra - , soprattutto per le notizie dal Medio Oriente e dagli Stati Uniti. Doveva essere vero, perché pochi giorni dopo ci fu un memorabile black-out negli Usa, e a me venne assegnato un servizio sulla comunità dei mormoni che, grazie al loro rifiuto della modernità e della tecnologia, del black out non si erano accorti. 50.000 mormoni inconsapevoli contro milioni di americani incazzati. Su tre canali radio. Per tutto il giorno. Nessun approfondimento sulle cause, sulle ricadute

È un Nuovo Medioevo. Senza nessuna possibilità di ascesa o di carriera, se non dentro un brutale torneo al servizio e per il piacere del barone di turno. economiche, sulle conseguenze politiche. Sopraffatta dalla vacuità della richiesta, decisi di compensare con un soprassalto di fantasia e scrissi tre pezzi in punta di penna, gigioneggiando con idilliache descrizioni di calessi illuminati da candele, torce a squarciare la notte silenziosa, lumini per il riposo notturno. Fui convocata da uno dei molti vicedirettori. Pensai che mi avrebbe cazziato per l’evidente presa in giro; invece si complimentò per la qualità giornalistica dei pezzi. Sono passati sei anni, e oggi leggiamo senza conati di vomito virgolettati come questo: “No alle ipocrisie, è un diritto mettere i nostri a Viale Mazzini”. (Paolo Romani intervistato da Goffredo De Marchi su Repubblica, 18/7/2009). Lo rivendica, a proposito di nomine, il viceministro alle Comunicazioni, e poco importa a quale partito appartenga. La mala politica è ovunque. Inquina ogni angolo del sistema dell’informazione. Le nomine sono pezzi di una scacchiera, l’informazione nient’altro che propaganda.

Un inchino per favore Nell’attesa di sapere a chi dovrà inchinarsi, il redattore, il caposervizio, il capostruttura, il regista, lo stagista, il sindacalista restano immobili. Cinque anni fa, all’inizio di una collaborazione con i programmi radio, a una domanda sul palinsesto estivo (come ero giovane, face-

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vo ancora domande sul futuro) mi sentii rispondere: non si sa, siamo fermi in attesa delle nuove nomine. Intanto le redazioni, di testate pubbliche e private, si saturano di mediocri, ubbidienti yes man, anziani cronisti rotti a tutto, giovani senza alternative che trovare uno sponsor. Tutti paralizzati, sfiancati dall’attesa, mortificati dal deteriorarsi di contenuti, mezzi, prospettive, costretti a scegliere fra lo stipendio e la dignità. La crisi fa il resto: la coperta è corta, entrano solo i garantiti, quelli che fanno parte o aspirano a far parte, a tutti i costi, di un’elite chiusa, e ne perpetuano i vizi e le clientele. È la selezione del mediocre, quello che non fa mai la seconda domanda, quello per cui l’intervista al politico è mettergli davanti un microfono e aspettare il messaggio alla nazione. Un Nuovo Medioevo, con un imperatore, dei signori e dei servi. Senza nessuna possibilità di ascesa o di carriera se non dentro un brutale torneo, al servizio e per il piacere del barone di turno. Dentro o fuori – dentro a certe regole, fuori senza regole, alla deriva in un mondo del lavoro dove si fa la selezione per la selezione a un colloquio per uno stage gratuito di sei mesi, rinnovabile.

Altro che informazione I programmi di informazione? Parliamo ancora della Rai, che il dovere di un’informazione corretta ce lo dovrebbe avere nel Dna. Quali sono i programmi di approfondimento televisivo della Rai? Vogliamo nominare, in ordine alfabetico, Annozero, Ballarò, Report? La quasi totalità dei giornalisti che vi lavorano, con le poche eccezioni degli interni storici, sono ragazzi pagati a puntata. Consulenti o freelance che svolgono un lavoro giornalistico senza contratto giornalistico, costretti dal servizio pubblico ad aprire partite IVA

Anche nei programmi migliori, da Annozero a Report, la quasi totalità dei giornalisti è costituita da ragazzi pagati a puntata. Le poche eccezioni sono gli interni “storici” per consentire alla maggiore azienda culturale italiana di scaricare sulle loro fatture i propri costi. E, soprattutto, esposti alle eventuali conseguenze giudiziarie dei loro servizi e delle loro inchieste, senza la protezione garantita da un contratto giornalistico. Una rete che, bypassando perfino le rimostranze dei conduttori di quei programmi, consente questo nei maggiori e

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migliori programmi di informazione del suo palinsesto manda un messaggio forte e chiaro: volete fare informazione seria? Non vi tuteleremo. Uno scandalo di cui l’Ordine dei giornalisti, il sindacato, la Federazione nazionale della stampa sanno. E su cui tacciono. Il 24 giugno scorso, Silvio Berlusconi, premier ed editore in carica, ha pubblicamente invitato i pubblicitari a non investire nelle testate del gruppo Espresso, a cui appartengono fra gli altri La Repubblica e il settimanale l’Espresso, che da anni ormai conducono una battaglia mediatico-politica contro ogni suo gesto o pensiero. Non, o non esclusivamente, per amore della verità: il referente politico del gruppo è il PD, di cui l’editore

La Repubblica è, quindi, molto prima che una testata giornalistica, un giornale politico, espressione di interessi politici precisi (o nel caso del PD, tragicamente confusi) esattamente come l’Unità, Europa o il Secolo d’Italia. Solo che non lo indica affatto nella gerenza. Carlo De Benedetti ha voluto la tessera numero 1. La Repubblica è, quindi, molto prima che una testata giornalistica, un giornale politico, espressione di interessi politici precisi (o, nel caso del PD, tragicamente confusi) esattamente come l’Unitá, Europa o il Secolo d’Italia, anche se non lo indica nella gerenza. In ogni caso, quella del Presidente del Consiglio è una pesante immoral suasion. In un momento in cui la raccolta pubblicitaria è in drammatico calo per tutte le testate, invitare a investire altrove significa far saltare la testa e il lavoro di molti giornalisti. Parlare di conflitto di interessi è fuori moda – sembra ormai la mania di velleitari fuori dal tempo. Ma quella pubblica dichiarazione è un nuovo editto bulgaro, che qualcuno, o molti, potrebbe eseguire per eccesso di zelo. (Già oggi, ed è un mistero gaudioso che sfida ogni legge del marketing, Mediaset fa meno ascolti della Rai ma ha una maggiore raccolta pubblicitaria). Come l’editto bulgaro, serve a minacciare i diretti interessati e a intimidire tutti gli altri. Non ce n’è alcun bisogno. Per troppi giornalisti l’autocensura è, ormai da tempo, la seconda pelle. Alzi la mano chi non tiene famiglia. Lucrezia Carlini

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ANALISI

Sex Sex Sex

e il successo è assicurato

Lo dicono in tanti: il futuro dei giornali è in rete. Una volta sbarcati su Internet, però, anche i quotidiani di gran nome si buttano a pesce sul gossip e sul trash

“P

di Giuseppe Carlotti

allanuoto a seno scoperto". "Presto suora, in topless su Facebook". "Troppo sexy per fare la guardia carceraria. Giovane inglese costretta a dimettersi". Niente paura, non stiamo rovistando tra le pagine di un giornaletto di quart'ordine, ma tra gli articoli più letti della settimana (la terza di Luglio 2009) sul sito internet del Corriere della Sera, il più importante quotidiano nazionale. Non va meglio con Repubblica, dove troviamo decine e decine di pseudo notizie come quella titolata "La bella Erin è nuda": la storia di una giornalista americana immortalata senz'abiti all'interno della propria stanza d'albergo grazie ad un provvidenziale (si fa per dire) buco nel muro. Il popolo di internet, lo si sa, è in massima parta composto da giovani maschi sessualmente attivi. Eppure lo scadimento nel tono e nella qualità delle notizie fornite dalle versioni on-line dei nostri migliori quotidiani (migliori si fa per dire) rispetto alle versioni cartacee è davvero rilevante. Certo, per vendere gli spazi pubblicitari sul web occorre aumentare il numero di pagine visitate dagli utenti ogni giorno. E non c'è miglior sistema per aumentare il numero delle pagine visitate che pubblicare qua e là le immagini di qualche bel seno o di qualche natica tornita. Con buona pace di chi, dalla stampa più prestigiosa del paese, si aspetterebbe un minimo di professionalità. Business is business, e con i tempi che corrono, con il numero di copie vendute in edicola che cola a picco, la vecchia grande strategia di

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assecondare i pruriti sessuali si rivela ancora una volta vincente. Già nel lontano 1995 il grande Mastroianni si lamentava nei confronti delle copertine di prestigiosi settimanali come L'Espresso e Panorama sbuffando all'intervistatore di turno «Le femmine mi piacciono, ma non ridotte così». Oggi, 22 luglio 2009, a distanza di quasi 15 anni, il video più votato tra quelli accessibili sul portale Kataweb (Gruppo L'Espresso) s'intitola "La più figa della terra". Sempre meglio che il porno esplicito, con tanto di video e fotografie, accessibile direttamente all'interno delle pagine del portale "SuperEva.it". Basta infatti digitare su un motore di ricerca le parole "Supereva porno video" per accedere ad un numero incalcolabile di filmati hard senza limiti e senza alcun tipo di censura. Il tipo di contenuti ideali per bambini e giovanissimi adolescenti. Per chi non avesse mai sentito nominare il portale SuperEva, potrebbe essere utile sapere che esso appartiene al Gruppo Dada (acronimo di Design Architettura Digitale Analogico), una società attualmente partecipata al 49,51% da Rizzoli - Corriere della Sera Mediagroup. Ma il Gruppo Dada è famoso anche per essere il leader in Italia dell'intrattenimento mobile, ovvero la società che - più di ogni altra - vende servizi in abbonamento per cellulari come quelle fastidiose suonerie che tutti

I grandi gruppi editoriali italiani, gli stessi che gestiscono e regolano l'informazione politica ed economica nel nostro paese, gestiscono anche una serie di canali internet di dubbio spessore. Al cui interno chiunque, compresi i minorenni, può trovare film e foto porno. conosciamo. Ma restiamo nel campo dell'informazione. Sul sito del TGCOM, la costola d'informazione su internet del Gruppo Mediaset, c'è un'intera sezione dedicata al gossip con titoli come "Al topless non si rinuncia" e "Sharon Stone resta in mutande". Dal canto suo, il più "corretto" ed "esplicito" è sempre stato Roberto D'Agostino, deus ex machina del celebre sito Dagospia, vero punto di riferimento per le chiacchiere politiche nella capitale, che per anni ha ospitato link a filmati più o meno pornografici ed ora riesce a mantenere la sua creatura grazie ad abbonamenti e pubblicità "ortodossa" (più o meno). Da questa breve carrellata sul web se ne deduce che i grandi gruppi editoriali italiani, gli stessi che gestiscono e

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regolano l'informazione politica ed economica nel nostro paese, non solo non disdegnano di accrescere il traffico sui propri portali d'informazione attraverso notizie non propriamente intellettuali, ma gestiscono - chi più chi meno, chi in maniera diretta e chi in maniera indiretta - una serie di canali internet di dubbio spessore culturale, attraverso i quali è talora possibile persino visualizzare materiale pornografico senza limiti, senza restrizioni per i minorenni e senza

Quando si parla di “boom dell’informazione su internet”, sarebbe il caso di andare a controllare quali pagine della cosiddetta informazione vengano effettivamente lette dalla grande massa dei navigatori elettronici. Tenendosi pronti a qualche grossa sorpresa. alcun tipo di controllo. A questo punto è lecito interrogarsi non solo sull'attendibilità e sulla correttezza dei contenuti pubblicati da questi grandi gruppi in rete, ma soprattutto sulla correttezza etica con la quale certi business vengono "disinvoltamente svolti" (per usare un gioco di parole) magari alle spalle di utilizzatori finali sensibili. Nessuno, nel nostro Paese, si è mai posto il problema di "chi controlla il controllore" e, mentre quella del giornalismo resta una casta di moralisti e bacchettoni che si permettono di rovistare spesso e volentieri nelle vite altrui per poi trarne considerazioni che vanno dal sociologico al morale, sorge il dubbio che i loro lauti stipendi, visto il palese crollo del numero delle copie di quotidiani vendute ogni giorno (con picchi del 18% su base annua), paiano talora provenire almeno parte da introiti non propriamente nobili. Più in generale, quando si parla di "boom dell'informazione su internet", sarebbe il caso di andare a controllare quali pagine della cosiddetta informazione vengano effettivamente lette dalla grande massa dei navigatori elettronici. Con la promessa di non sorprendersi nello scoprire che la foto di una qualsiasi Giovannona Coscialunga desnuda possa quintuplicare o decuplicare il traffico di utenti generato rispetto magari ad un reportage sull'esito dell'ultimo G8 in Abruzzo.

Giuseppe Carlotti

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ANALISI

Bombardati

C

dalle notizie

Si chiama Information Overload. È la ricezione simultanea di una quantità troppo alta di informazioni. Fino ad annullare la capacità di ricordare e di comprendere. Cioè di conoscere

di Sara Santolini

ome se lo stress più classico, provocato dal lavoro e dalla vita personale, in questo tempo di crisi, non bastasse a renderci complicata la vita, ecco riprendere forza una patologia relativamente nuova, figlia dell’età di internet. Come al solito, a parole suona come una cosa semplice: ricevere troppe informazioni provoca un sovraccarico delle facoltà che ci consentono di comprendere, memorizzare, collocare nel mondo e nello spazio le cose che accadono ogni giorno e di cui abbiamo notizia. Questo sovraccarico manda in tilt la nostra capacità cognitiva, provocando una serie di conseguenze personali - oltre che sociali. Tale patologia, cui tutti siamo potenzialmente esposti, è già motivo di un vero e proprio “allarme tecnostress” - intendendo con questa parola lo stress dovuto sia all’uso reiterato degli strumenti elettronici - computer, ma anche telefonini, tv, videogiochi ecc. - sia all’eccessiva eccitazione delle nostre capacità di analisi e conoscenza dovuta alla quantità enorme di stimoli che ci raggiungono in massima parte attraverso internet. La motivazione scatenante di tanto allarmismo sarebbe l’evidente peculiarità principale dell’era dell’informazione (quella nella quale viviamo): l’aumentare continuo nella rete, in quantità enormi, di contenuti di ogni genere - da leggere, da guardare, da ascoltare - che raggiungono ogni ango-

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Osservate l’immagine. Contate fino a tre. Avete memorizzato qualcosa? Chissà . E in ogni caso: che uso pensate di farne?

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lo del pianeta, superano ogni confine, valicano ogni limite e ogni misura. Si tratta di un vera e propria valanga di informazioni, cui assistiamo grazie e a causa - del web.

Effetti sulla qualità dell’informazione Dagli anni Novanta a oggi la quantità di informazioni che ogni giorno ci raggiungono è aumentata in maniera esponenziale. Secondo l'IDC1, un istituto di ricerca specializzato sulle nuove tecnologie, nel 2006 abbiamo prodotto circa 161 exabyte2 di informazioni digitali. Inoltre, secondo una stima elaborata dall'Emc Corporation3, nel 2010 ci saranno 0,6 miliardi di nuovi utenti, e raggiungeremo così la soglia di 1,6 miliardi di fruitori del web. I numeri sono impressionanti, e sono destinati a salire nel

L'aumento rapido e vertiginoso delle informazioni ha palesato la nostra incapacità generale – sia fisica che intellettiva - di gestirle, selezionando solo le più utili. futuro ancora più velocemente, anche a causa della natura stessa del mezzo internet, libero e a costi bassissimi, che spinge a una sovrapproduzione di contenuti. A favore o a sfavore dell’informazione in sé, della conoscenza di quello che accade nel mondo? Questa è una delle domande da porsi. A prima vista parrebbe naturale pensare che una quantità sempre maggiore di informazioni voglia dire anche una sempre maggiore comprensione del mondo; che un luogo libero da ogni regola, ma anche da ogni tipo di censura, offra di conseguenza notizie più vere, dirette, possa addirittura dar vita a una sorta di “democrazia dell’informazione” e dunque offrire maggiore chiarezza, consapevolezza, comprensione del mondo ai singoli. Invece non è così. L'aumento rapido e vertiginoso delle informazioni ha palesato la nostra incapacità generale – sia fisica che intellettiva - di gestirle, di effettuare rapide ma necessarie valutazioni per la selezione di quelle utili, e ha finito per creare una estrema confusione. Inoltre in questo modo le infor-

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mazioni stesse, sempre più numerose, finiscono per risultare semplice “rumore di fondo” in termini cognitivi, cosicché nessuna di essa salta ai nostri occhi, ci colpisce, resta impressa nella memoria. In pratica si rischia di avere sempre più informazioni, ma sempre meno conoscenza. Si tratta del cosiddetto “sovraccarico cognitivo” o Information Overload, termine coniato da Richard Saul Wurman, professore al Mit di Boston per indicare la ricezione contemporanea di una quantità troppo alta di informazioni che ne rende impossibili la valutazione, l’approfondimento, la verifica, la comprensione. A tal proposito lo studio dell’educazione e dell’apprendimento multimediale ha cercato delle spiegazioni4. La comunicazione multimediale è caratterizzata dall’uso contemporaneo e coordinato di diversi mezzi di comunicazione, e dunque di diversi linguaggi. Basta pensare a un video correlato a delle didascalie, a un’immagine accompagnata da un sottofondo musicale, a un sito internet che abbia, accanto al testo scritto, una web radio e una web tv. Inoltre il mezzo Internet, in più rispetto a tutto il resto della comunicazione multimediale, ha l’interattività: la possibilità dell’utente di “partecipare” con delle scelte o dei veri e propri inserimenti di contributi, alla comunicazione. La multimedialità e l’interattività farebbero del web, potenzialmente, il mezzo più efficace per favorire l’apprendimento. Ma, se da una parte il cosiddetto “apprendimento multimediale” è considerato come forse il più efficace, dall’altra se ne comprendono solo oggi, alla luce dell’evoluzione del mezzo multimediale per eccellenza, il web, i rischi. Anche perché purtroppo spesso ci si imbatte in siti nei quali i contenuti multimediali non sempre sono correlati tra loro, dove per rendere il sito più accattivante si predilige l’animazione, la spettacolarità a tutti i costi, all’efficacia della comunicazione, a discapito della fruibilità stessa. Inoltre non dobbiamo dimenticare che le informazioni che viaggiano nella rete non sempre provengono da fonti ufficiali, o da fonti verificabili, e non sempre sono in realtà rilevanti, rispondendo spesso la selezione dei contenuti a nessun’altro requisito che non sia il gusto personale del creatore dello spazio in questione. In questa situazione diventa sempre più difficile sfruttare le potenzialità comunicative del web, rintracciare informazioni

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utili, scovare siti o blog davvero interessanti, riuscire ad aver chiaro su quali singole notizie valga la pena soffermarsi. Dunque la difficoltà di gestione delle notizie è legata non solo all’immensa quantità di dati che vengono immessi nella rete, ma anche alla scarsa qualità sia delle informazioni che dei modi di trasferirle. Maggiore quantità, in questo caso, significa scarsa qualità. E quello che manca è soprattutto un ordine gerarchico nell’importanza delle informazioni e la possibilità di metterle in prospettiva.

I problemi cognitivi Tornando alle possibilità cognitive un altro studio interessante è quello di Pierre Lévy, docente dell'Università di Parigi, dal titolo La cybercultura e l'educazione5. Lévy si prefigge il compito di affrontare il problema della trasformazione dei sistemi di formazione, e, di conseguenza, anche dei meccanismi cognitivi. Considerando che solo fino a pochi anni fa le agenzie di informazione erano veramente poche - si passava dalla scuola ai giornali, dalla radio alla tv - le fonti di informazione dei singoli erano molto limitate rispetto ad oggi. Se da una parte era limitato anche il flusso di informazioni, senz’altro era maggiormente gestibile la quantità delle notizie che ci raggiungevano come singoli. La mancanza di regole di produzione, di fonti limitate e autorevoli di conoscenza e informazione, come quelle del passato, ha dato luogo nel web ad un fiume impetuoso nel quale chiunque può

È la lezione di McLuhan: i mezzi di comunicazione, i media, ci cambiano di per se stessi, indipendentemente dai singoli contenuti che veicolano. produrre informazione, ma nessuno riesce ad acquisirla appieno. Inoltre secondo l‘analisi di Lévy, il cosiddetto “diluvio di informazioni” immaginato da Roy Ascott, non potrà arretrare in nessun modo, ma continuerà a crescere all’aumentare dell’utenza di internet. Inoltre sarà impensabile creare un' “arca” nella quale si possa salvare da questo fiume l'essenziale delle conoscenze del web, poiché nella sua ampia e disordinata produzione di contenuti non vi è alcuna totalità del sapere che possa essere sintetizzata. Perderemo tutto. O meglio: non acquisiremo alcuna conoscenza. Nell’intento di trovare una soluzione a tutto questo ci viene

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in mente il suggerimento di un altro esperto del settore, Michael Schudson, studioso dei fenomeni legati alla comunicazione di massa, che sostiene la necessità di doversi comportare come dei "monitorial citizen": cittadini dell'era informatica, capaci di fare uno scanning a basso consumo cognitivo che consenta di concentrarsi solo sulle informazioni rilevanti6. Dovremmo operare rapide valutazioni e selezioni delle informazioni, "dominando la transizione, la complessità, il passaggio; niente è duraturo, molte informazioni valgono appena poche ore, al massimo un giorno, […] la mente si deve adattare trasformandosi"7. Eppure questo adattamento non arriva. Possiamo pensare che si tratti di una evoluzione naturale, riportabile alla teoria del pendolo: per ottenere un equilibrio bisogna prima aver provato i due estremi opposti. E forse è questo che stiamo facendo: prima di arrivare a un essenziale equilibrio tra quantità, fruibilità e qualità delle informazioni, siamo passati gradualmente da un essenziale ignoranza sui fatti del mondo a una iper-informazione senza regole.

Effetti sulla salute, e non solo Lo stress proviene anche dalla rapidità con la quale le notizie vengono sostituite, il che rende ancora più difficoltoso qualsiasi intento mnemonico. La nostra mente fatica ad adattarsi, i cambiamenti sono troppo repentini e, almeno per ora, restiamo in balia del mare di informazioni che ci sommergono ogni giorno. Parte della responsabilità di tale stato di cose è del mezzo stesso, del web. Dalle parole di McLuhan8 : “Le conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni introdotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia". Uno stesso contenuto produce effetti diversi a seconda del mezzo utilizzato per la sua trasmissione. Il continuo uso di tecnologie nella vita quotidiana, oltre la tendenza generale a servirsi dei media-estensioni come se fossero esterni e indipendenti da noi, ci pongono nei confronti delle tecnologie come i loro “servomeccanismi”, come semplici dispositivi per il loro controllo meccanico “a distanza”. In tale situazione l’Information Overload ci trova passivi e ben lontani dal modello del monitorial citizen. Tanto che, oltre a creare confusione e assenza di certezze sull'affidabilità dell'informazione, tale sovraccarico può addirittura provocare l'insorgere di disturbi psicocomportamentali causati dai molteplici stimoli che ci arrivano dalle fonti informative. Nel web stesso esiste una certa consapevolezza del fenomeno. Oltre ai numerosi post di blogger e articoli sull’argomento, in Italia Netdipendenze9, una associazione

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Il pericolo Tecnostress I quotidiani di tutto il mondo, dal New York Times al Corriere della Sera14, hanno dedicato numerosi articoli al fenomeno dello stress legato a internet e agli effetti che può avere, ed ha, sulla salute psicofisica degli utenti e degli artefici del web. Matt Richtel15 del New York Times scrive al proposito di come soprattutto i blogger, che tengono un diario on line aggiornato anche venti o più ore al giorno, possano avere seri problemi anche di natura fisica legati al loro lavoro sul web. Perdita o aumento di peso, disturbi del sonno, esaurimento nervoso e addirittura attacchi di cuore: questi sarebbero i sintomi che accusano i blogger e più in generale le persone che lavorano sul web. Il loro stress proviene da più parti, sia dall’uso ripetuto del computer sia dalla quantità immensa di

informazioni che devono costantemente cercare, vagliare, scrivere, in lotta contro il tempo. Il fine sarebbe quello di aggiornare costantemente il loro blog e avere così un sempre maggior numero di lettori oppure un buon pezzo da vendere a qualche casa editrice – anche se di solito per non più di 10 dollari. Questo accade perché i blog sono spesso diventati una sorta di agenzie di informazione, che non solo si fanno concorrenza tra loro ma mettono in difficoltà anche i media tradizionali, cercando di accaparrarsi l’attenzione e ottenere buoni proventi pubblicitari. La pressione della necessità dello scoop, dell’aggiornamento dell’ultimo minuto, è dunque fortissima, e acutizza il tecno stress cui sono sottoposti. Il problema non riguarda però solo chi del web ha fatto un mestiere.

no-profit per la prevenzione delle nuove dipendenze e per la gestione del "tecnostress", sta portando avanti una serie di studi sulle professioni più tecnostressanti, sui metodi per difendersi e sul suo impatto sociale. Un anno fa, nel luglio 2008, inoltre, è nato l’Information Overload Research Group10, un gruppo di industriali, ricercatori accademici e consulenti che si occupano di elaborare soluzioni all’Information Overload. Tra gli altri ne fanno parte Google, Microsoft, Intel e IBM. Il fatto che se ne preoccupino loro è un segnale evidente dell’incidenza

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del’information overload, oltre che sulla sfera privata, sulla vita lavorativa. Sembra infatti che ansia, insonnia e mal di testa siano spesso dovuti al tecnostress, che provoca una diminuzione del rendimento lavorativo e della qualità della vita. Le riflessioni nascono da considerazioni semplici: se ogni giorno ognuno di noi in media controlla la posta cinquanta volte e visita quaranta nuovi siti, com’è possibile che sia veramente “produttivo”? Negli anni sono nate una serie di associazioni e aziende che si occupano dei vari aspetti dell'Information Overload, e più in generale del difficile e spesso sbagliato rapporto tra uomo e macchina dove l’uomo, che ha creato la macchina per facilitare la propria vita, spesso invece viene travolto dalla stessa velocità che dovrebbe rendere le sue attività efficienti. L'esempio più importante ci viene dalla Silicon Valley, dove dal 1998 Jacob Nielsen, direttore del Nielsen Norman Group e esperto del settore, si occupa di web usability. Solo attraverso tale caratteristica - l’accessibilità - la macchina, e dunque anche internet, può tornare ad essere utile, e non tecno stressante, per l’utenza. Nielsen è solito parlare di vera e propria degradazione del web, e di quintali di informazioni spazzatura che rendono poco visibili quelle veramente importanti. A suo parere tale stato di cose sarebbe dovuto in parte all'aumento sconsiderato del media – poiché, come già rilevato, il mezzo informatico è meno costoso dei media tradizionali - in parte alla mancanza di autoregolamentazione dei messaggi: non solo gli utenti privati ma soprattutto le aziende ne riempiono il web, pensando di catturare così l'attenzione dell'utente-consumatore. A quest’ultimo, raggiunto contemporaneamente da molteplici messaggi, sfuggono però le informazioni utili contenute negli annunci, e dunque l’effetto pubblicitario degli stessi messaggi può considerarsi praticamente nullo11. Si tratterebbe quindi di un inquinamento inutile anche a livello divulgativo, oltre che nocivo per la salute dell’informazione. I messaggi pubblicitari, inoltre, spesso sono l’unica informazione che si riesce a selezionare come non utile, ma in maniera indifferenziata, grazie a un meccanismo di autodifesa che si sviluppa di fronte all’arrivo contemporaneo dei vari tipi di informazioni.

Effetti sulla capacità di analisi Una conseguenza ancora più importante e incisiva del sovraccarico cognitivo è il cosiddetto Confirmation Bias. James Reason12 lo descrive come "la tendenza a

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rimanere legati a un’idea che ci siamo fatti sulla base di informazioni preliminari, anche quando evidenze successive contraddicono quell’idea iniziale". Questo significa che, ad esempio, le prime pagine che leggiamo riguardo un argomento su internet andranno a condizionare la nostra valutazione di quell’argomento, a prescindere dall'aver appurato l'affidabilità e la correttezza di quelle indicazioni iniziali. Quindi, oltre alla più volte citata eccessiva quantità di informazioni le possibilità comunicative, l’estensione e la struttura stessa del mezzo internet possono far scattare tutta una serie di meccanismi inconsci che, sommati alla incapacità di riconoscerli, sono un serio rischio per la valutazione delle informazioni ricevute. Anche per questo motivo sembra sia molto importante che le pagine web di un determinato sito appaiano tra i primi risultati dei motori di ricerca: per influenzare la percezione generale dell’argomento che si tratta. Si sfrutta così un meccanismo inconscio per influenzare le opinioni, i giudizi, le valutazioni degli utenti, proprio in quello spazio – il web - che è stato salutato alla sua nascita come il luogo della vera libera informazione, dove avrebbero prevalso le regole della democrazia e dell’indipendenza.

Effetti sulla società Lo stato attuale dell’informazione, e l’incapacità di gestione dei messaggi, ha effetti anche sulla società nel suo insieme. Secondo Francis Heylighen, ricercatore della libera Università di Bruxelles, l’aggressività e la depressione sono spesso dovuti alla percezione del cambiamento troppo repentino del mondo attorno a noi. Non solo. La valanga di informazioni allarmistiche che ci travolge crea uno stato di ansia e diffidenza, e una percezione amplificata del pericolo, tanto che il timore di aggressione tenderebbe ad aumentare più rapidamente dei tassi di criminalità reali13. È vero quindi che l’informazione continua a influenzare in maniera incisiva la nostra percezione del mondo, e quindi i nostri comportamenti, ma quello che percepiamo è la confusa somma di notizie, spesso inutili, che ci arrivano. Questo significa che in realtà, nonostante la loro grande quantità, capiamo molto poco del mondo che ci circonda: spesso navigando nel web, a causa delle pagine che vengono dedicate a una piuttosto che a un’altra notizia, sembra abbia più rilevanza l’ultima fiamma di una pop star che una bomba scoppiata in Iraq. A questo punto, interpretare il mondo, discernere e agire di conseguenza, diventa impresa quasi impossibile. Sara Santolini

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Note: 1 2 3 4

www.idc.com 1 exabyte = 1018 byte www.emc.com http://formare.erickson.it/archivio/giugno_07/5_BERGAMO. html 5 http://www.circolomaniago.it/pdf/levy.cybercultura.pdf 6 “Changing Concepts of Democracy”, Michael Schudson http://web.mit.edu/comm-forum/papers/schudson.html 7 “Information overload, la tecnologia modifica le relazioni “, Prof. Daniele Pauletto - http://www.ikaro.net/articoli/cnt/information_overload-00136.html 8“Gli strumenti del comunicare”, Marshall McLuhan, 1967 9 www.netdipendenza.it 10 www.iorgforum.org 11 “Multimedia and Hypertext: The Internet and Beyond”, Morgan Kaufmann Publishers, 1995, capitolo 8 “Coping with information overload”, http://www.useit.com/jakob/mmhtbook.html 12 Professore emerito dell’Università di Manchester dove è stato docente di psicologia dal 1976 al 2001. 13 “Change and Information Overload: negative effects “,Francis Heylighen - HYPERLINK "http://pespmc1.vub.ac.be/ chinneg.html" http://pespmc1.vub.ac.be/chinneg.html 14 http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/08_aprile_06/ stress_blog_salute_abe29fc6-0400-11dd-bca3-00144f486ba6.shtml 15 http://www.nytimes.com/2008/04/06/technology/06sweat. html

Intervista a Enzo Di Frenna presidente di “netdipendenza onlus” Quali sono i fini di Netdipendenza.it? Netdipendenza.it è il giornale digitale di Netdipendenza Onlus e si pone l’obiettivo di informare i navigatori del web sui rischi collegati a un uso eccessivo delle tecnologie digitali, computer, blackberry, smartphone, telefonini e anche il televisore. Molte ore trascorse davanti agli schermi possono favorire videodipendenze con tutte le problematiche collegate tra cui il tecnostress, il sovraccarico informativo - chiamato anche Information Overload. Fondamentalmente l’obiettivo è informare utilizzando uno strumento di informazione digitale, La cosa può sembrare un po’ paradossale ma in realtà le persone che sono più esposte al rischio di video dipendenze vanno cercate proprio nella rete. Qual è la sua attività più rilevante? L’attività rilevante è organizzare iniziative, eventi e progetti che abbiano come risultato la sensibilizzazione alle tematiche e alle

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problematiche delle videodipendenze. Rientrano nelle videodipendenze tutte le patologie come lo iad (internet addiction disorder), l’e-mail addiction (l’e-mail dipendenza), il tecnostress, l’Information Overload e così via. Netdipendenza Onlus da quando è nata - oltre due anni fa - si propone di organizzare eventi, ricerche, studi che possano in qualche modo informare su questi rischi. Come è nata l'idea del libro Tecnostress in Azienda? L’idea è nata dopo aver partecipato a un forum sulla Mobil Work Life organizzato dalla società Wireless di Milano, al quale erano presenti molti operatori del settore Ict, (information communication technology) e dunque si parlava di tecnostress. Io studiavo il tema da diversi anni e avevo già curato una bozza di ricerca e di studio che dopo questo evento è diventata un libro. All’interno c’è la prima ricerca sul tecnostress in azienda mai realizzata in Italia. Abbiamo intervistato 224 operatori Ict all’evento “Roma Caput Media”, che si è tenuto nel settembre del 2007: è emerso che l’80% degli intervistati, spesso anche senza saperlo, era colpito da tecnostress. Ha condotto degli studi sulle professioni tecnostressanti: quali sono i dati più "imprevisti" che ha rilevato? Dopo la prima ricerca sul tecnostress che è stata presentata a Milano a novembre 2007 presso la sede dell’Asseprin (l’Associazione Professionale d’Impresa dell’Unione del commercio) abbiamo notato che il problema suscitava un certo interesse. Poi abbiamo condotto un’altra ricerca intervistando un campione di 200 professionisti ad alto impatto info-tech e l’abbiamo poi presentata il 15 maggio 2008 a Milano, a Media 2.0. La ricerca evidenziava quali erano le professioni più tecnostressanti. Al primo posto ci sono sempre gli operatori dell’Information Technology ma per esempio al secondo posto ci sono i giornalisti web, gli analisti finanziari, gli operatori web, i web designer e altri. L’elemento imprevisto durante la ricerca è stato notare che spesso gli stessi intervistati, prendendo consapevolezza del problema, si chiedevano quale potesse essere la soluzione. Qualcuno ha proposto di creare delle aree protette all’interno dell’azienda, come ad esempio dei coffee bar: delle aree dove fosse possibile, proprio per legge oppure per accordi stabiliti all’interno dell’azienda, staccare, sconnettersi un attimo e respirare o rilassarsi un momento. Al di là di chi svolge tali professioni, siamo tutti potenzialmente tecnostressati? Sì, purtroppo siamo in molti ad essere potenzialmente tecno-

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stressati perchè oggi nell’era dell’infomazione, nell’era digitale siamo in tanti a usare, spesso per lavoro, la tecnologia moderna e quindi computer, cellulari, video cellulari, smartphone, blackberry ecc. per tante ore e i software collegati - la posta elettronica e così via. C’è pure il rischio della gestione di un’eccessiva quantità di informazioni per troppo tempo, il che favorisce una tensione corporea, una tensione fisica che porta a un’alterazione del respiro, a una tensione mentale che poi si può tradurre nei sintomi classici del tecnostress. Per esempio può favorire l’ipertensione, il calo di concentrazione, mal di testa, problemi gastrointestinali, e, in situazioni più critiche e avanzate - come emerge dalle interviste che abbiamo condotto a dieci grandi cardiologi e cardiochirurghi italiani - il tecnostress può portare anche problemi cardiaci. Il tecnostress è un tema molto trattato sul web, o c'è incoscienza rispetto al problema? Il tecnostress è un problema che inizia ad essere presente in internet grazie alle ricerche e agli studi di Netdipendenza onlus, almeno in Italia. Per quanto riguarda gli altri Paesi è una tematica già affrontata da almeno 20 anni, soprattutto in America dove per la prima volta è stata affrontata dallo psicologo Craig Brod appunto oltre 20 anni fa. In Europa e in Italia in particolare la tematica non era mai stata trattata in maniera esauriente. Ci proviamo noi come onlus che ha appunto l’obiettivo di prevenire queste problematiche e speriamo di continuare a sensibilizzare i liberi professionisti, I lavoratori info-tech su questo problema. Tra l’altro abbiamo creato il primo social network per la prevenzione del tecnostress e del sovraccarico informativo che si chiama “Run for tecnostress” (runfortecnostress. ming.com) dove i lavoratori info-tech discutono sulla problematica ma soprattutto si danno appuntamento fuori dalla rete, fuori dall’ufficio, prevalentemente per andare a correre o per fare un’attività olistica, una passeggiata in montagna, quindi anche per ritrovarsi insieme e valorizzare le relazioni. Può darci un consiglio su come difenderci dal tecnostress? Ci si può difendere dal tecno stress mantenendo vigile l’attenzione e approfondendo un po’ i rischi fisici e collegati alla nostra salute. Quindi, paradossalmente, bisogna informarsi su un problema che può alterare la nostra salute attraverso un eccesso di informazioni. Bisogna tenersi informati, praticare attività fisica e soprattutto mantenere vigile l’attenzione.

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PROSPETTIVE

Liberi di non

essere (informati)

È uno dei miti, e degli obbighi, del nostro tempo: essere aggiornati su tutto, sempre, “in tempo reale”. Ma per capire la realtà non c’è bisogno di vedere tutti i Tg. E un po’ di sano silenzio aiuta a riflettere più a fondo

U

di Fabrizio Revenge

na premessa. Doverosa in omaggio all’onestà di chi legge, ma forse non troppo comprensibile. Non sono in grado di scagliare la prima pietra. E le colpe che vedo negli altri, spesso sono state anche le mie. Per dire che, da che mondo è mondo, ho sempre considerato indispensabile per ogni individuo essere con pienezza al centro del tempo in cui vive. Secondo il principio per cui lasciar scorrere gli eventi esterni e interni senza capirne motivi, origini, radici, è una sorta di peccato mortale. Con fatica, perché costa fatica, ogni buon essere umano, secondo il mio opinabile parere, dovrebbe perciò affannarsi per tenere accesi i sensi, lo spirito, la ragione, allenare la critica. In una parola, inseguire con pervicacia la consapevolezza. Come chiave di lettura della realtà, della direzione delle cose, della propria vita e di come in quelle cose noi ci stiamo muovendo. Un po’ come quando vai in un mega centro commerciale e ti senti sperduto, in balia di un non luogo. Fino a che non arrivi alla mappa, quella colorata coi nomi e i pallini, che ti riporta sulla terra e ti dice “voi siete qui”. Ecco, la consapevolezza è “voi siete qui”, il punto da cui partire o in cui stare, sapendo o immaginando con buona approssimazione, ciò che c’è intorno. E allora abbracciando questo sillogismo elementare, per essere consapevoli è necessario conoscere e per cono-

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Solitudine e spaesamento. Ce n’è di più in un luogo deserto o in un grande centro commerciale?

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scere è necessario accedere a tutto ciò che porta informazione. Ecco il punto. L’informazione. Ho dato per scontato, con peccato e presunzione, che informarsi fosse come nutrirsi, un dovere ma anche un piacere di sopravvivenza. Per camminare spediti, correre anche in posti che non si conoscono tenendo sempre la luce accesa. Informazione come orientamento, un arnese per smussare il proprio metro di giudizio, la propria capacità di scelta. Una possibilità in più per decidere. In un certo momento però è cominciata la perdita di purezza, non delle persone né degli strumenti, ma del concetto stesso, dell’idea, meglio, dell’ideale di informazione. Lo spettacolo si è impadronito delle parole, il mezzo è diventato più importante del messaggio. Il modo di informare si è uniformato al vizio della pubblicità contemporanea, governata dalla comunicazione di secondo livello, in cui l’oggetto scompare, in cui la descrizione e l’esaltazione del pregio e dell’importanza (del perché dovremmo avere bisogno di qualcosa) è quasi marginale per lasciare spazio all’aspetto emotivo. Le immagini, i suoni, le parole producono sensazioni che creano a loro volta emozioni (desiderio come frustrazione) facendoci acriticamente sentire un’indefinita necessità. Non è lontano da ciò che avviene nell’informazione, nella corsa al sensazionalismo, al titolo quasi sempre gridato, funzionale alla creazione di un sentimento (spettacolarizzazione appunto) in una gara mai scevra dalle implicazioni economiche di vendita e pubblicità. Tutto ciò crea confusione, disorientamento in chi ad un tratto da soggetto attivo si è improvvisamente ritrovato a subire le scelte altrui. Un rovesciamento dei ruoli in cui si fa spazio l’impressione forte di passività, del passaggio da “informarsi” ad “essere informati”, ben oltre la propria volontà e secondo i propri desideri. Mario Perniola, docente di letteratura all’Università La Sapienza, a proposito di questa “tracotanza comunicativa” in suo recente lavoro sintetizza bene l’effetto sulle anime e sulle coscienze parlando di “anedonia” (come già pronosticato anni prima da Marshall McLuhan), una sorta di apatia sensitiva ed emozionale in seguito all’invenzione, alla diffusione e all’uso nella comunicazione dei nuovi media. Per Perniola, e non solo per lui, una specie di “narcosi delle nostre facoltà sensitive e affettive”. La sensazione è che nel sentire comune l’informazio-

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ne si sia lentamente trasformata da “esigenza” a “peso”. Mi permetto di banalizzare citando l’esperienza empirica delle vacanze. Se si osserva l’atteggiamento di chi non è “addetto ai lavori” e in qualche modo deformato professionalmente alla ricezione (come al filtro e alla selezione) della pioggia quotidiana di notizie, si nota una sorta di sollievo nel distacco dall’enfasi quotidiana di radio, giornali, tv e, ormai, della stessa rete che in virtù di una genetica anarchia e gratuità è (anche) palestra per ogni funambolica forma di comunicazione. L’impressione è che proprio non si senta l’impulso irrefrenabile di sapere pensieri parole e fatti di casa nostra come di qualche angolo sperduto del pianeta (concetto peraltro magistralmente sintetizzato da Corrado Guzzanti nel dialogo con l’aborigeno). Restituendo quindi assoluta dignità all’ombrellone, si rivendica con forza il diritto di non sapere o di sapere di rimbalzo attraverso il sentito dire o i commenti al baretto facendo colazione prima di andare al mare. Un senso di riappropriazione. Poter decidere se, come e quando scendere nel mondo, anzi in quel mondo, quello che qualcun altro ci racconta spacciandolo come assolutamente reale. O, con tutta la dignità di questa terra, rimanerne fuori. Un’espressione di libertà o magari niente di tutto ciò (solo indifferenza, ma anche questa è un diritto). Ma pur sempre una scelta e in quanto tale meritevole di rispetto. Il fatto è che su chi sceglie di non sapere si è da sempre abbattuto un giudizio di valore. Anzi di disvalore. Non ti informi? Non vuoi sapere? Padrone di farlo, ma la tua persona, sappilo, nella società avrà un peso assai minore. E chi lo ha detto? Noi lo abbiamo detto, noi che facciamo questo mestiere, con presunzione e spesso con arroganza. Noi che intendiamo ciò che scriviamo, comunichiamo, come il centro intorno a cui far ruotare i destini e le esistenze. E che con prosopopea, non nascondiamoci, siamo portati ad emettere proprio quel giudizio di valore su (contro) chi rifiuta o cerca riparo dal frastuono. Ci incattiviamo e ancora di più, forziamo la mano, amplifichiamo, rilanciamo, ribattiamo, quasi a creare in modo subliminale ansia, angoscia, dipendenza. Come se una società di assicurazioni facesse rubare le macchine per far crescere il timore dei furti e aumentare i clienti. È una generalizzazione facile e mediocre, mi rendo conto. Non è sempre

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così e c’è chi per fare con coscienza questo mestiere ci ha rimesso le penne. Ma il fenomeno è vero, reale tangibile. Perché se non è mai giusto elevare a valore assoluto, a Verbo, ciò che si dice, si pensa e poi si scrive ed è in qualche modo salutare ridimensionare la “funzione”, è altrettanto vero che è necessario non sottovalutare “l’impatto” delle parole. Quando si scrive è obbligatorio pensare che tutti coloro che leggono devono poter comprendere. Ma anche che non tutti hanno gli stessi strumenti critici. Per capire dove si ferma il fatto e comincia la letteratura. Le parole, dice Steven Pinker, stabiliscono “le regole fondamentali in base alle quali comprendiamo il nostro ambiente, attribuiamo meriti e colpe ai nostri simili. E in base alle quali stabiliamo le nostre relazioni con loro”. Scriveva Ignazio Silone:“In nessun secolo come in questo la parola è stata mai così pervertita dal suo scopo naturale che è quello di far comunicare gli uomini”.Allora non si può dimenticare che le parole a volte sono bombe, che quando toccano terra creano conseguenze. Non è un caso se parlando di informazione e comunicazione, per definire questo flusso smisurato si parla nove volte su dieci di “bombardamento”. Un frastuono insopportabile che genera a cascata fenomeni. Di fuga, distacco, da qualcosa che fa male e non si comprende, perché ricorda ancora Perniola, “trasmettere tutto è come non trasmettere niente”. Rumore assordante che fa nascere la ricerca ossessiva del silenzio. Parlando di questo su “IL”, Riccardo Paradisi dice che le reazioni alla pervasività di questo frastuono appaiono come dei sedativi per un più profondo dolore morale. Perché l’espansione del dominio di questo rumore si è esteso anche all’anima “imbevuta della chiacchiera quotidiana e della banalità. Bombardata (appunto n.d.r.) dall’alluvione di informazioni ridondanti e contraddittorie la psiche finisce col diventare un blob”. Il silenzio a questo punto diventa sollievo ma anche lo spunto per fare ciò che la frenesia impedisce di fare: riflettere, fermarsi sulle cose, pensare. Ennio Morricone ci ricorda che “nel silenzio della riflessione emergono soluzioni creative”. Parole che aumentano il senso di questo paradosso. Si scrive per informare, per permettere a chi lo desidera di crearsi un’opinione. Ma sopraffatti dalle informazioni, per farlo bisogna mettere per un po’ la testa sottoterra. Ben venga il silenzio allora. Un tempo senza silenzio è un tempo senza scampo. E più vincono le urla e il parlare degradato e distratto, più cresce la nostalgia per il silenzio: che aumenta – sussura Susan Sontag – man mano che diminuisce il prestigio della parola. Fabrizio Revenge

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INCHIESTA

Le Sette

Sorelle della manipolazione

Il presupposto di una stampa libera è che gli editori facciano solo gli editori. Esattamente il contrario di quello che avviene qui in Italia.

B

di Alessio Mannino

enché di recente il governo Berlusconi abbia inferto un colpo alla trasparenza proprietaria delle aziende con una leggina1 che estende le società “fiduciarie”, cioè senza obbligo di dichiarare chi sono i possessori di azioni o obbligazioni, anche al settore dell’editoria, è ancora possibile sapere chi sono i padroni dell’informazione in Italia. I padroni veri, in senso letterale. Basta una ricerca sul sito web della Consob (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa) e voilà l’azionariato, le partecipazioni rilevanti e persino i patti parasociali dei colossi che influenzano l’opinione pubblica del Paese. Esclusi perché marginali o azzoppati gli attori minori2, a controllare ciò che gli italiani devono o non devono sapere sono infatti sette grandi gruppi: Rcs Mediagroup, MediasetMondadori, Gruppo L’Espresso, Gruppo Il Sole 24 Ore, Gruppo Riffeser, Gruppo Caltagirone, Telecom Italia Media. Le Sette Sorelle della (dis)informazione. «La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire», diceva George Orwell, che di Grandi Fratelli, essendone stato il coniatore e preveggente, se ne intendeva. La gente è imbevuta ogni giorno di notizie ma ignora completamente, o quasi, a quali poteri economici e finanziari rispondono coloro che le fabbricano. Gli interessi degli editori italiani non sono “puri”, cioè concentrati esclusivamente nell’ambito editoriale (come in Germania, ad esempio), ma si estendono ai campi più disparati. Questo dato basilare, che spiega perchè vengono resi noti certi fatti e altri no e rende possibile la loro decodificazione, viene scientificamente fatto rimanere nell’ombra. La notizia delle notizie è una non-notizia. Per questo noi ve ne diamo conto qui, in un excursus sommario ma che dà un’idea, ci auguriamo,sufficientemente chiara della cupola che manovra dall’alto il giornalismo tricolore.

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Rcs Rcs ha la proprietà del Corriere della Sera, tradizionalmente considerato il più importante giornale italiano. La holding è molto ramificata e spazia dall’editoria libraria (Rizzoli) ai quotidiani (oltre al già citato Corsera, la Gazzetta dello Sport e il free press City), ai periodici (gli allegati al Corriere come Magazine, Io Donna, Style, e poi Il Mondo, Anna, Amica, Novella 2000, Max, Sportweek, Astra, Brava casa, Casamica), alle radio (Play Radio, Agr Radio,Crn Radio,Rin Digital Radio).In Spagna fanno capo a Rcs le testate El Mundo, Expansion (economia) e Marca (sport). Il capitale sociale è in mano ad un ferreo patto di sindacato che detiene il 60% delle azioni, composto dai più grossi nomi della finanza e dell’industria italiana (il cosiddetto “salotto buono”): Mediobanca (banca d’affari), Fiat (auto), Gruppo Pesenti (cemento), Gruppo Ligresti (costruzioni), Diego Della Valle (abbigliamento), Pirelli (telecomunicazioni), Banca Intesa, Generali (assicurazioni), Capitalia, Sinpar (acciaio), Merloni Invest (finanziaria), Mittel (finanziaria), Eridano (finanziaria), Edison (energia), Gemina (finanziaria), Benetton (abbigliamento, autostrade, autogrill, telecomunicazioni), i costruttori romani Toti. Gli intrecci fra loro costituiscono un groviglio di potere in cui è ravvisabile tutto lo sfacciato imperversare dei conflitti d’interesse all’italiana. Qualche esempio. Mediobanca è partecipata da Mediolanum e dal Gruppo Fininvest, che ha fatto insediare nel board Marina Berlusconi, primogenita del premier Silvio, patron di Mediaset. Intesa partecipa alla Generali, in cui c’è anche Unicredit (e le stesse Capitalia e Mediobanca). Il Gruppo Fiat lo ritroviamo padrone unico dell’altro storico quotidiano nazionale, La Stampa. Del Gruppo Telecom, azionista del patto, è Telecom Italia Media, a sua volta una delle Sette Sorelle. Infine, Rcs ha una quota del 7,5% nella Poligrafici Editoriale,società che fa capo ad un altro gigante “rivale”, il Gruppo Riffeser.

Mediaset-Mondadori Mediaset è l’impero mediatico del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. I suoi tre canali analogici, Canale 5 Italia Uno e Retequattro,formano l’altra metà del cielo televisivo italiano. Le tre emittenti pubbliche della Rai sono comunque sottoposte ai desiderata del Cavaliere, in quanto capo del governo: difatti la scelta dei direttori di rete e dei tiggì passa per Palazzo Chigi e per le alchimie interne alla maggioranza del momento, con le conventicole di viale Mazzini col cappello in mano a reclamare poltrone. Quello berlusconiano è il primo gruppo privato

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in Italia e uno dei maggiori in Europa (in Spagna detiene il 20% dello share). La concessionaria di pubblicità, Publitalia, ha il primato della raccolta pubblicitaria, ed ha fornito i primi quadri di Forza Italia negli anni ’90.Attraverso la casa madre Fininvest, la famiglia Berlusconi possiede anche la Mondadori, principale editrice di libri del Paese, ed è presente in Mediobanca e Capitalia (e quindi in Rcs). Della galassia Mondadori fanno parte Einaudi, Sperling & Kupfer, Electa, Random House Mondadori. Periodici e radio: Panorama, Tv Sorrisi e canzoni, Chi, Donna moderna, Grazia, Auto oggi, Cambio, Casa viva, Confidenze, Economy, Flair, Focus, Guida Tv, Men’s Health, Prometeo, Starbene, Sale & Pepe, Cosmopolitan, Cucina moderna, Nuovi argomenti, Ciak, Radio 101. Come si vede, la presa sulla costruzione dell’immaginario collettivo, che passa anche se non soprattutto dai media di intrattenimento, vede una presenza preponderante del politico-editore Berlusconi. Il fratello del premier, Paolo, è il titolare del quotidiano Il Giornale. L’abnorme conflitto d’interessi che investe il nostro premier, unico al mondo (i suoi affari si allargano alla finanza, al business immobiliare, al cinema, al calcio), è diventato una barzelletta: mai risolto, anzi rivendicato sulla base del fatto che gli elettori lo votano comunque, è il cavallo di battaglia di un centrosinistra che non ha mai mosso un dito, neanche quand’era al potere, per porvi la parola fine.

Espresso Rivale diretto dell’universo Mediaset è il Gruppo Espresso, il cui padrone è l’ingegner Carlo De Benedetti (il cui figlio Marco è il rappresentante italiano del fondo Carlyle, potente private equity americano nei settori delle armi, delle telecomunicazioni e dell’energia). Le testate controllate annoverano al primo posto il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e dal defunto Carlo Caracciolo, La Repubblica (con relativi allegati: Il Venerdì, D La repubblica delle donne, Salute, Trova Roma, Trova Milano, Metropoli, XL, Velvet, Affari&Finanza), e il settimanale L’Espresso. Inoltre: Micromega, Limes, National Geographic Italia, Le Scienze, Il Tirreno, La Nuova Sardegna, Messaggero veneto, Il Piccolo, Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, La Provincia Pavese, Il Centro, La Tribunadi Treviso, Gazzetta di Reggio, La Nuova Ferrara, Nuova Gazzetta di Modena, La Nuova Venezia, La Città. Oltre a De Benedetti, altri soci rilevanti nell’azionariato sono le Generali (anche in Rcs), la Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste e la “zarina” Giulia Maria Crespi (protagonista del turbolento periodo anni ’70 del Corriere, oggi

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a capo del Fondo per l’Ambiente Italiano). Importanti sul mercato le controllate Radio Deejay e Radio Capital, la televisione All Music e la concessionaria di pubblicità A. Manzoni. Repubblica.it e Kataweb sono fra i siti internet più visitati.

Sole 24 Ore Il Sole 24 Ore è il primo quotidiano economico italiano,ed è proprietà della Confindustria, nella quale ritroviamo, in qualità di imprenditori, molti dei nomi che popolano i vertici delle Sette Sorelle. Il Gruppo Sole 24 Ore ha anche un’agenzia di stampa,Radiocor,e un braccio radiofonico, Radio 24, quanto a informazione secondo solo alla radiofonia Rai. La Confindustria è tradizionalmente filo-governativa, posizionandosi a seconda di dove tira il vento: con Luca Cordero di Montezemolo vicino a Prodi, con l’attuale presidentessa Emma Marcegaglia vicino a Berlusconi.

Riffeser La famiglia Riffeser, con Maria Luisa Riffeser Monti (57%) e l’amministratore delegato Andrea Riffeser (7%), ha in mano il gruppo a cui fanno riferimento il Quotidiano Nazionale, Il Giorno, La Nazione, Il Resto del Carlino e la concessionaria pubblicitaria Spe. È da tener presente,però,che i quotidiani sono sotto il controllo della Poligrafici Editoriale, a sua volta controllata al 60% da Maria Luisa (assieme, con una quota minoritaria, a Rcs). Presente anche la Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste (quasi il 3%), che abbiamo già registrato fra gli azionisti del Gruppo Espresso.

Caltagirone Caltagirone Editore è l’espressione del gruppo del costruttore (Cementir, Vianini) e finanziere romano Francesco Gaetano Caltagirone (lo troviamo azionista del Monte dei Paschi di Siena e consigliere di Generali). È suocero di Pierferdinando Casini, segretario dell’Udc, e ha amicizie trasversali (in particolare con gli ultimi sindaci romani, Rutelli e Veltroni). Fanno parte del gruppo il Messaggero, il Mattino, il Gazzettino, il Corriere Adriatico e il Nuovo quotidiano di Puglia, il leader della free press Leggo e il portale Caltanet, le concessionarie Piemme ed Area Nord Spa e l’emittente regionale Telefriuli.

Telecom La rete televisiva La 7 e l’agenzia di stampa Apcom sono i fiori all’occhiello di Telecom Italia Media, società della multinazionale di comunicazione Telecom guidato da Franco Bernabè (e nel cui cda troviamo Tarek Ben Ammar, finanziere tunisino amico di Berlusconi, gli economisti Jean Paul Fitoussi e Luigi Zingales, l’ex presidente Fs Elio Catania, l’avvocato Berardino Libonati ex Eni ed ex Alitalia e nel cda di Mediobanca, Pirelli e Nomisma). La catena di azionisti è folta: il primo, col 24%, è la cordata italo-spagnola Telco Spa

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(Mediobanca, Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo, SintoniaBenetton e Telefónica S.A.), poi ci sono la Findim Group Sa, finanziaria lussemburghese della famiglia Fossati, ed una miriade di investitori esteri (Brandes Investment Partners Lcc, BNP Paribas SA,Alliance Bernstein LP) e italiani.

Statalismo La principale agenzia di stampa, l’Ansa, è di proprietà di quasi tutti i principali quotidiani, mentre l’Adnkronos è della Giuseppe Marra Communications. L’Agi è dell’Eni, compagnia energetica di Stato. A proposito di Stato: dalle casse pubbliche piovono ogni anno generose sovvenzioni all’intero sistema delle agenzie, base informativa di tutti i giornali, radiogiornali e telegiornali, e i contributi pubblici all’editoria ammontano complessivamente ad un miliardo di euro annui. Vediamo come. Per la sola carta stampata, dalle nostre tasche arrivano 600 milioni3 (fra contributi diretti, credito d’imposta per la carta, agevolazioni postali, credito agevolato per gli investimenti, credito d’imposta per investimenti, fondo mobilità e rimborsi per teletrasmissione). Altri 180 milioni tramite provvidenze per radio e tivù locali e aiuti del Ministero delle Telecomunicazioni. Con le agenzie e con la Rai ci sono convenzioni equivalenti a 120 milioni, senza contare quelle stipulate dai vari ministeri, enti e regioni. Infine, 10 milioni per le dirette parlamentari di Radio Radicale. È il magna-magna denunciato da Beppe Grillo col suo secondo V-Day sull’informazione. Un’abbuffata, è bene sottolinearlo, a cui partecipano non soltanto i fogli di partito, gli organi dei movimenti, le più o meno finte cooperative editoriali, le testate della Chiesa Cattolica, i giornali italiani diffusi all’estero, ma soprattutto gli stessi giganti che si spartiscono la torta pubblicitaria. E che magari predicano le virtù salvifiche del libero mercato e montano campagne moralizzatrici contro la Casta arraffona4. Il Sole 24 Ore si becca quasi 20 milioni di euro. Idem al Gruppo Espresso. Rcs si accaparra 23 milioni di euro. La Stampa 7 milioni. Il Gruppo Riffeser più di 3 milioni. L’Avvenire, voce della Conferenza Episcopale Italiana, oltre 10 milioni. Libero, Il Foglio e Il Riformista, tutti e tre in trincea contro l’assistenzialismo e gli sprechi della politica, insieme portano a casa 11 milioni di euro circa.

Primus inter pares Secondo gli ultimi dati forniti dall’Autorità per le Comunicazioni, la carta stampata non arriva a racimolare il 30% della pubblicità, mentre la televisione supera il 55% (con Mediaset che resta a far la parte del leone, e Sky della News Corp di Rupert Murdoch ferma ad un misero 6%, pur avendo superato quest’anno i ricavi pubblicitari di Mediaset)5. Rai e Mediaset, dominate da un sol uomo, stanno allestendo con La 7 una piattaforma satellitare comune, in modo da sottrarsi al monopolio di Murdoch in questa tecnologia. Così

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facendo, tuttavia, la Rai perderebbe di colpo 60 milioni di entrate pubblicitarie a tutto vantaggio dell’alleata-aguzzina Mediaset. Nel frattempo tutti i grandi agglomerati editoriali, per fronteggiare la riduzione di introiti dovuti alla crisi economica (meno 25% rispetto all’anno scorso), stanno tagliando personale e programmi d’investimento. E chi ne approfitta, come al solito, è soltanto il mostro Raiset, con la La 7 e le televisioncine locali a raccogliere le briciole che avanzano. Gli italiani leggono poco, preferiscono guardare la televisione. Questa è il regno pressocchè incontrastato di Silvio Berlusconi, che è anche a capo del governo. Il caso di Europa 7, in questo senso, è emblematico: la tv generalista di Francesco Di Stefano, bloccata per anni per comune accordo bipartisan in aperta violazione della legge che gli conferiva di diritto l’accesso alle frequenze di Retequattro, ha dovuto subire l’ennesima beffa di vedersene assegnate in quantità tale da non coprire l’intero territorio nazionale, restando ancora una volta fuori mercato.Ciliegina finale,il socio occulto dell’intero sistema, la pubblicità, vede in posizione predominante sempre Lui. Che assieme all’affollata brigata di protagonisti col sedere ubiquo in quel consiglio d’amministrazione e in quell’altra società a sua volta incastrata nella concorrente e così via, rappresenta, primus inter pares col suo famoso sorriso a 24 denti, lo sfregio più sfacciato a ciò che viene ipocritamente chiamata “informazione”. Sarebbe meglio ribattezzarla manipolazione. Col fondamentale corollario dell’occultamento dei suoi mandanti e beneficiari. Alessio Mannino

Note: 1 Decreto 207/2008 “Milleproroghe”, art. 41., comma 2. 2 Fra i marginali intendiamo in realtà gruppi di primo piano nelle realtà regionali, come quello di Mario Ciancio Sanfilippo nel Mezzogiorno (La Sicilia, Gazzetta del Mezzogiorno, Gazzetta del Sud,Antenna Sicilia,Telecolor, Radio Sis e Radio Telecolor) o quello Mediapason (Telelombardia, Antenna 3, Videogruppo, Canale 6) dell’editore Sandro Parenzo, che è anche titolare di una società di produzione, la Videa, ed è stato di recente assessore alla cultura nella giunta veneziana di Massimo Cacciari. Fra gli azzoppati, invece, Europa 7 di Francesco Di Stefano, di cui accenniamo alla fine di questo articolo. Sky Italia, ramificazione del gruppo planetario di Rupert Murdoch, sta avanzando ma non ha raggiunto livelli davvero concorrenziali col duopolio RaiMediaset. 3 Tutti i dati di questo paragrafo sono tratti da Beppe Lopez, La Casta dei giornali, ed. Nuovi Equilibri. 4 “In questo quadro è consentita persino la rappresentazione ripetitiva e scandalizzata di una situazione istituzionale sgangherata e di una corruzione diffusa, ma a patto di non illuminare adeguatamente vie d’uscita che siano estranee al gioco degli interessi in concorrenza all’interno dello stesso sistema, o comunque capaci di far saltare il tappo del senso d’impotenza e dell’assuefazione di massa”: ibidem, pag. 24. 5 http://www.giornalismoedemocrazia.it, 24 luglio 2009.

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ANALISI

Informazione? L’artificio di una simulazione I media sono al servizio del modello economico che domina l’Occidente. Ma i singoli contenuti c’entrano solo in parte. La chiave di volta è nel modo in cui allontanano dalla realtà, in una apoteosi di desideri puerili ed egoistici

N

di Eduardo Zarelli

on è facile parlare di informazione senza scadere nella più scontata banalità. Partiamo però dal constatare l’ovvio: la comunicazione negli ultimi decenni ha raggiunto uno sviluppo tecnologico e quantitativo senza precedenti. Cablaggio digitale, satellitare, televisione ad alta definizione collegata in rete telematica, Internet, facebook, iPhone, palmari a console, ecc. Con queste nuove tecnologie – che sempre più si diffonderanno e affineranno - viviamo nell’era della globalità istantanea – per dirla con Paul Virilio - vale a dire della possibilità non solo di una diffusione o di una ritrasmissione, ma anche di un’interazione immediata di qualsivoglia accadimento. I mezzi di informazione possono veicolare con rapidità sincopata quali idee bisogna accettare e quali respingere, quali prodotti acquistare, quali spettacoli bisogna andare a vedere. Non è esagerato dire che tali strumenti e un simile potere vanno largamente al di là delle capacità di propaganda di cui hanno potuto disporre in passato i regimi totalitari. La potenza insita nella comunicazione contemporanea va surrogando la stessa legittimità statuale. La relazione fra la politica e la medialità non può quindi essere ridotta all’emancipazione della seconda dalla prima. L’autorità ha semplicemente cambiato senso. Ci si accorge di ciò constatando quanto ha in sé di anacronistico l’espressione "quarto potere", spesso utilizzata per definire la stampa. Così come l’economia si è prima affermata come un contropotere nei confronti della politica e poi si è issata in posi-

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zione di egemonia, i mezzi di comunicazione hanno smesso da un pezzo di essere un contropotere. Il "quarto potere" è diventato il primo e non esiste più nessun contropotere che riesca a contenerlo. Esistono vari modi di esaminare il sistema massmediale. Il primo livello consiste nello studiarlo come uno strumento di propaganda o di disinformazione. Gli

La televisione e le sue tentacolari protesi digitali spingono ad isolarsi e nel contempo soddisfano un bisogno di evasione stimolato dal crescente isolamento. esempi sono tali e così palmari che nell’imbarazzo della scelta, evitiamo di disperderci nel copioso elenco a disposizione. Un secondo modo di analizzare il sistema dei media consiste nel considerarli uno strumento di controllo sociale. La tecnica, in effetti, non è mai neutra. Le caratteristiche tecniche degli organi di comunicazione ne definiscono non solo lo stile e il contenuto, ma anche le condizioni di esercizio dell’egemonia. Qui il discorso si fa molto ampio, ma anche in questo caso l’evidenza di una società passiva, solitaria e anonima a discapito di relazioni e partecipazione comunitaria è di drammatica evidenza. La televisione e le sue tentacolari protesi digitali spingono ad isolarsi e nel contempo soddisfano un bisogno di evasione stimolato dal crescente isolamento. In questa cultura di evasione, si consuma a mo’ di spettacolo ciò che la vita reale rifiuta: il sesso, il lusso, l’avventura, il viaggio ecc. Ma per acquisire questa distrazione bisogna pagare il prezzo di una sorta di anestesia, che nasce dall’impressione di avere il mondo in casa, di poter andare dappertutto senza muovere un dito, di poter essere al corrente di tutto senza aver bisogno di un’esperienza vissuta. Vi è infine un terzo modo di descrivere i media oggi dominanti, che consiste nel trattare del sistema mediale in quanto sistema in sé, indipendentemente dall’uso che ne fanno i detentori. È senza dubbio quello più emblematico – a nostra opinione – per cogliere la condizione di fatto. Infatti, in altri tempi, si poteva identificare un gruppo sociale che

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esercitava l’egemonia sulla vita pubblica controllando i mezzi di comunicazione. Ciò può ancora accadere, beninteso; ma ormai la sostanza del problema è altrove. La novità radicale dell’oggi è che il medium dominante non è più un mezzo ma tende a porsi come fine di se stesso. In altri termini, i media – a dispetto del nome che si continua a dar loro – non sono più, fondamentalmente, intermediari fra gli autori di un messaggio e i suoi destinatari. Come aveva genialmente notato Marshall McLuhan, sono essi stessi il messaggio. I media non sono più istanze mediatrici, che permettono di passare da un livello all’altro, da uno stato del sociale ad un altro. Sono essi stessi il proprio contenuto: la notizia non è altro che il portatore di notizie. L’avvento di Internet modifica questa situazione? Il giudizio non può che essere controverso. L’esplosione dei punti di informazione e opinione disponibili tramite il rizoma della rete moltiplica il pluralismo fino alla sua irrilevanza nella coscienza critica e, soprattutto, nella formazione reale dell’opinione pubblica generale. Così come la ridondanza industriale dei mezzi si rivela nella mancanza di fini, la quantità di informazioni e messaggi che transitano in rete tendono all’irrilevanza catato-

L’influenza più notevole dei media non proviene da ciò che trasmettono, ma dalla loro stessa esistenza. Non incitano a pensare qualcosa: essi incitano a pensare attraverso i media. nica, in primis per mancanza di differenziazione e di gerarchia fra di essi. È vero che i media contribuiscono a modellare le opinioni, i sentimenti e i gusti, e che da questo punto di vista sono uno straordinario strumento di influenza. Ma l’influenza più notevole che esercitano proviene non da quello che trasmettono, bensì dalla loro stessa esistenza. I mezzi di informazione non incitano a pensare qualcosa, incitano a pensare attraverso i media. Dice lucidamente a tal proposito Jean Baudrillard, «i media non stanno dalla parte di nessun potere perché sono una gigantesca forza di neutralizzazione, di annullamento del senso, e non una forza di informazione positiva, di accrescimento del senso. Neutralizzano sia le forze storiche sia le forze del potere, che diventa di con-

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seguenza trasparente e fluttuante». Per questo sarebbe ingenuo e nel contempo anacronistico analizzare l’influenza massmediale in termini di "complotto", cercando di identificarne i "veri padroni" o i "direttori d’orchestra clandestini". I mezzi di informazione sono padroni di se stessi, e coloro che credono di dirigerli sono di fatto diretti da essi. La "mano invisibile" dei media sono i media. L’unanimismo massmediale non deriva da una deliberata volontà di applicare ovunque le stesse direttive, ma dalla natura sistemica, autoreferenziale, intrinsecamente omogeneizzante, del potere massmediale. I mezzi di comunicazione funzionano nei fatti come se ricevessero istruzioni da una qualche centrale, ma non esiste un centro dei media. Come nel caso della materializzazione dell’economia, dei mercati finanziari, delle reti planetarie, la loro circonferenza è dappertutto e il centro da nessuna parte. Il discorso massmediale è prima di tutto un discorso anonimo, perché non ha un’origine reperibile. Il sistema dei media è un operatore circolare perfetto. Il mezzo essendo già in sé il messaggio è nichilistico per essenza, non ci si può dunque limitare a criticare le idee che veicola o che si suppone veicoli. Questa critica deve estendersi agli organi di trasmissione, vale a dire al sistema che essi costituiscono. Tale sistema ha nome e cognome: mercificazione finanziaria; e in quanto tale diffonde universalmente l’ideologia economicista che sottende l’intera modernità. L’universo della comunicazione mobilita, lo sappiamo, somme di denaro sempre più iperboliche. Se ci si riflette un

Il successo commerciale è l’obiettivo che prevale su tutti gli altri e che determina la qualità. Non è quel che è buono a vendersi meglio, ma è quel che si vende bene a essere considerato buono. istante, ci si rende conto che in ciò vi è qualcosa di molto naturale. In quanto equivalente astratto universale, il denaro è, infatti, l’agente di comunicazione per eccellenza. In altre parole, l’informazione è diventata una merce come le altre. E come tutte le merci vale unicamente nella misura in cui si può vendere e acquistare. Ancora mezzo secolo fa, il successo commerciale immediato era sospetto, tanto più sospetto in quanto le elevate creazioni culturali facevano sempre fatica ad imporsi, e ci riuscivano solo opponendosi alla logica del mercato. Oggi accade il contrario. Il successo commerciale immedia-

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to è l’obiettivo che prevale su tutti gli altri e che determina la qualità. Non è quel che è buono a vendersi meglio, ma è quel che si vende bene ad essere considerato buono, e tanto

La concorrenza obbliga ciascun medium a fare come tutti gli altri, a trattare gli stessi temi o a parlare degli stessi libri. Il presunto “pluralismo” si riduce alla moltiplicazione di un unico modello. migliore quanto meglio si vende. I teorici liberali hanno sempre affermato che la concorrenza favorisce la qualità e la diversità. Ma vediamo tutti i giorni che essa ha effetti diametralmente opposti. La concorrenza non solo provoca la concentrazione del mercato, che ricrea monopoli e oligopoli, e all’abbassamento di livello che è reso obbligatorio dalla corsa all’ascolto; comporta anche l’uniformità dell’offerta a causa del generalizzarsi della rivalità imitativa. Il principio stesso di concorrenza obbliga ciascun medium a fare come tutti gli altri media, a trattare gli stessi temi o parlare degli stessi libri di cui gli altri parlano. Il presunto “pluralismo” si riduce perciò alla moltiplicazione di un unico modello. L’omogeneizzazione del discorso massmediale è ulteriormente rafforzata, al livello degli uomini, dalla straordinaria connivenza fra i giornalisti, i direttori di giornali, i commentatori televisivi e gli uomini di potere, connivenza che favorisce l’autocensura, fa sì che gli interlocutori non si affrontino più in maniera significativa e rafforza una complicità oggettiva fondata su una comune appartenenza alla Nuova Classe cosmopolita e, soprattutto, su interessi comuni. I giornalisti selezionano, consapevolmente o inconsapevolmente, le informazioni a seconda del fatto che corrispondano oppure no alla loro deformazione professionale, cioè alla visione del mondo che è loro imposta dai media. Ciò spiega l’assoluta mancanza di curiosità e senso critico che dimostrano nei confronti di tutto quello che considerano "fuori campo". Allo stesso modo, in televisione, il telespettatore non assiste mai ad un evento, contrariamente a ciò che crede, bensì a una rappresentazione di un evento, a una trasposizione in immagini, in altre parole a una messinscena, che implica sempre una selezione e un montaggio. L’informazione, si potrebbe dire, si è esaurita nella messinscena dell’evento, ovvero, in definitiva, nell’artificio della simulazione.

Eduardo Zarelli

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CINEMA

La realtà

in versione film

Il cinema è innanzitutto emozione. E l’emozione adora la libertà della fantasia. Di tanto in tanto, però, il cinema ci riprova: emozioni forti a partire dalla cronaca e dalla Storia

C

di Ferdinando Menconi

inema e informazione, un binomio che fa immediatamente balzare alla mente il capolavoro di Orson Welles Quarto potere, che peraltro, pur ispirandosi al magnate della stampa W.R. Hearst, mostra notevoli punti di contatto con l’attuale situazione italiana, fatto salvo che la storia degli USA offrì un lieto fine che a noi manca. Il film di Welles è forse la vetta più alta di un genere, il “newspaper movie”, anche se meglio sarebbe dire “media movie”, che negli Stati Uniti ha avuto un grande sviluppo. Genere pieno zeppo di reporter eroici, spesso diretti da buoni registi, come Salvador di Oliver Stone. Più raramente il giornalista è visto in maniera negativa o ambigua, come accade in un altro capolavoro, L’asso nella manica, dove il giornalista Kirk Douglas mette su un circo mediatico intorno a uomo chiuso in pozzo, situazione che all’epoca sembrava improponibile in Italia, tanto da venir dileggiata da Sordi nella scena di Un americano a Roma in cui manda un diplomatico americano in un fosso, poi arrivò Vermicino e ci si accorse che avevamo raggiunto il peggio degli USA. Spesso il cinema ha saputo anticipare le peggiori derive del sistema informativo, attaccando però più i network che i giorna-

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“Il grande dittatore” e “Salvate il soldato Ryan”: canonici film di propaganda, però non si dice.

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listi come in Quinto potere in cui il protagonista, Howard Beale, “è stato il primo uomo ad essere ucciso perchè aveva un indice di ascolto troppo basso”, anche se sono i francesi con La morte in diretta di Tavernier a anticipare le aberrazioni dei reality, certo ancora non siamo a quei punti ma pare sia solo questione di tempo. Altre volte il cinema ha tratto spunti dalla realtà, come nell’eccellente Good night and good luck in cui si ripercorrono i tempi più bui del Maccartismo, o in Tutti gli uomini del presidente in cui viene mostrato come due giornalisti del Washington Post possano far cadere un presidente1. Il cinema italiano non ha potuto fare altrettan-

Il cinema come informazione pura è morto con la Settimana Incom, ucciso dalla tv. Il cinegiornale non poteva seguire l’attualità ed è stato spazzato via dall’avvento dei Tg. to, anche perché Cederna contro Leone non poteva fornire una buona sceneggiatura, solo Il muro di gomma sull’inchiesta del Corsera su Ustica merita una menzione, ma non si tratta di un buon film. Questo perché il giornalismo di inchiesta in Italia non è molto praticato e di solito è asservito al regime e caratterizzato più da bassezze che da momenti eroici. Non a caso l’unico film di spicco lo offre Sordi, grande tratteggiatore dei vizi italici, con Una vita difficile dove il nostro giornalismo non ne esce, giustamente, bene. Questo breve excursus non è però il giusto modo di inquadrare il tema cinema e informazione, questo è cinema sull’informazione. Il cinema come informazione pura è morto con la Settimana Incom, ucciso dalla tv. Il vecchio cinegiornale che non poteva seguire l’attualità è stato battuto dal telegiornale, poteva più essere un indicatore del costume e quei documenti, che ci fanno ormai sorridere, sono preziosissimi come documenti storici. Ancor più lo sono i Cinegiornali Luce o il Ton Woche nazista, si potrà obiettare che quella era più propaganda che informazione, ma anche la propaganda è

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informazione, informazione degenerata, ma sempre informazione (così non fosse dovremmo in Italia cancellare dalla categoria informazione il grosso della tv e della stampa). Nel campo della propaganda il cinema ha esplicato al meglio la sua funzione, “l’arma più forte” come la definì Mussolini. Non è però vero che il cinema di propaganda sia per forza brutto cinema, spesso è così, però alcuni dei maggiori capolavori della storia del cinema sono film di propaganda basti pensare a Eisenstein, alla Riefensthal e, perché no, al Grande dittatore di Chaplin, che è un film di propaganda. Non è che perchè un film faccia propaganda antinazista come quello di Chaplin o antirazzista, come Biko, che questo cessi di essere un film di propaganda. La propaganda in un film è presente indipendentemente da quanto se ne condivida il messaggio, anzi visti i costi di produzione i film tendono a lanciare messaggi sempre più condivisibili dal pubblico, anche perché ormai “l’arma più forte” è diventata “l’arma finale del Dottor Goebbels2. L’abilità oggi, diciamo a partire dagli anni settanta, è di far credere come coraggioso o controcorrente un film che, invece, è ormai perfettamente allineato. Soldato blu, ad esempio segna, sì, come Piccolo grande uomo un punto di svolta nel western nei rapporti con i nativi americani, ma che era ormai maturo nel pubblico. Per assurdo il film coraggioso di quei tempi fu Berretti verdi, brutto e difficilmente condivisibile film con John Wayne a favore della guerra in Vietnam, ma che andava contro il pensiero maggioritario, a dimostrazione di ciò i picchettaggi che subì all’uscita in Italia, le cui conseguenze si rivelarono esiziali per l’MSI.3 I film impegnati - gli altri non meritano neppure considerazione - difficilmente possono essere un buon mezzo per conoscere la storia, possono essere però spunto di approfondimento. Alcuni sono più equilibrati di altri, come lo è La grande guerra, al contrario di Uomini contro che è bassa propaganda per orecchie che volevano sentirsi dire quello e che, colpa peggiore, tradisce in pieno il libro di Lussu Un anno sull’altipiano da cui sarebbe tratto. Oggi poi la propaganda è fatta sul film, più che

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dal film: Salvate il soldato Ryan ci è stato venduto come “lo sbarco in Normadia come non l’avete mai visto”, una drammaticità che Hollywood non aveva mai osato, in contrapposizione con Il giorno più lungo con John Wayne. In effetti nessun soldato vide mai gli effetti speciali delle scie dei proiettili sott’acqua, e Il giorno più lungo racconta tutte storie vere, realmente accadute, anche quella del colonnello dei parà interpretato dal “Duca”, e i commandos di Lord Lovett sbarcarono al suono della cornamusa come fosse una battaglia napoleonica. La propaganda di oggi vuole negare che siano mai esistiti degli eroi, forse perché non vuole che ne nascano di nuovi? Quanto alla drammaticità basta un orologio sul polso di un morto di Omaha Beach ne Il grande uno rosso, per superare la macelleria spettacolo di Spielberg. Da Tiro al piccione all’ultimo El Alamein nessuno ha saputo fare di meglio nel descrivere la guerra senza dover stupire con effetti speciali. Su tutti però domina Orizzonti di gloria, ma quando il regista è Kubrick difficile poter fare di meglio.

Anche i film-documentario di denuncia hanno dei forti limiti. L’obiettività del regista è tutt’altro che garantita. Vedi il più famoso di tutti: “9/11” di Michael Moore. È ancora però possibile fare dei film scomodi, ma occorrono registi di eccellenza oltre che coraggiosi, giusto Ken Loach sembra non fallire un colpo. Certo va visto criticamente anche lui, mai abbandonare lo spirito critico, però riesce sempre a far conoscere ai molti verità scomode che devono restare nascoste in questa società sommersa dall’ignoranza. Terra e libertà è forse il suo film più scomodo, destò scalpore il “rivelare”a metà anni novanta che nella guerra civile spagnola avessero ucciso più anarchici gli stalinisti dei franchisti. Verità ben nota, certo, ma che se restava sotto il tappeto era meglio. Come per il Katyn di Wayda, colpito dalla nuova, efficacissima, forma di censura: non sono più i tempi in cui è necessario censurare un film, come fu per il brutto Il leone del deserto voluto da Gheddafi e censurato da Andreotti, ora basta negare loro la distribuzione, così da poter sostenere che nessuno ha censurato, è il pubblico

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che non era interessato… ma se il film non è distribuito come fa il pubblico a bocciarlo? Un film che merita un discorso a parte è Bloody sunday, che effettua una ricostruzione degli eventi rigorosa come un documentario, fino a ricostruire le pose delle foto dell’epoca, ma con un ritmo e una caratterizzazione dei personaggi da film, un prodotto veramente unico nel suo genere e giustamente premiato a Berlino. Attenzione però, anche i film-documentario di denuncia, che hanno conosciuto un breve momento di fortuna recentemente, hanno dei forti limiti, l’obiettività del regista è tutt’altro che garantita. 9/11 di Moore, il più famoso fra tutti, ad esempio, se è puntuale nel denunciare i misfatti di Bush, che il pubblico ha ben apprezzato, ha completamente sorvolato su quelli delle altri amministrazioni USA. I rapporti a filo doppio con l’Arabia Saudita non li ha inventati la famiglia Bush, esistono da ben prima, e le connivenze con l’estremismo islamico risalgono alla guerra Russo-Afghana e sono proseguuiti fino all’aggressione alla Serbia condotta dall’amministrazione Clinton. Più obiettivo è Supersize me che attacca McDonald e i colossi dell’agroalimentare americano, film che ha anche un coraggio molto raro: quello non di attaccare un nemico politico, ma le multinazionali e i poteri forti della finanza, cosa che ben di rado accade, non solo nel cinema. Certo talvolta c’è nelle trame c’è qualche “cattivo” nell’economia, ma l’uomo ad essere sbagliato non il sistema che è intrinsecamente giusto. Vale però la pena concludere con una risata, quella che ahimè non ha seppellito nessuno, con uno dei più bei film comici sul giornalismo: Prima pagina con l’impareggiabile coppia Lemmon-Matthau che mette alla berlina tutti i vizi del giornalista, ma di quando il giornalismo era ancora passione e non asservimento impiegatizio ad un padrone, palese o nascosto che sia,

Ferdinando Menconi

Note: 1Quel presidente è ovviamente Richard Nixon, e si tratta del celeberrimo caso Watergate. 2 Così Bonvi nelle mitiche strisce delle “Sturmtruppen” chiama la televisione. 3 La vulgata vuole che Gianfranco Fini si sia iscritto al Fronte della Gioventù proprio perché gli fu impedito di vedere quel film.

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Il futuro Lo Monaco

de Il Ribelle

Tiriamo le somme del primo anno di pubblicazioni appena concluso. Qualche dato. Un ringraziamento grande. E tutte le novità in arrivo. Dal mensile al sito web, dalla WebRadio ai contenuti video. E al progetto di un contatto veramente “quotidiano”

E

di Valerio Lo Monaco

noi? Fuori dal mercato. Senza mezzi economici per tentare la grande diffusione. Pochissima o nulla considerazione dai grandi media di regime. Di più: anatemi su anatemi in ogni ambito che ci darebbe il la per avere maggiore diffusione. Gli stessi di cui è vittima il nostro direttore politico da decenni. E non potrebbe essere altrimenti. Ma con le idee ben chiare e la dignità morale per mantenere la schiena dritta. E poi voi.

Anzi, voi lettori per primi. Faccio dei numeri, ve ne spiego i perché e vi dico come proseguiremo. Con trasparenza, schiettezza e onestà: ovvero le basi principali, pre-politiche, con le quali Massimo Fini ha scelto il gruppo di redattori e collaboratori che lavorano a questo progetto e che già conoscete. Il conformismo è molto semplice e permette di ottenere privilegi e prestigio (anche il finto anticonformismo lo è, beninteso) ma qui, attorno al nostro direttore, non poteva essere altrimenti che così come ci conoscete. Ebbene, siete circa 3000 persone. Tra edizione cartacea e quella sul web

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Chi siete Grazie a questo abbiamo una percezione molto prossima alla realtà di che tipologia di lettore frequenta queste pagine. Chi ha tra le mani questo giornale è una persona mediamente colta e attenta a ciò che accade. Soprattutto, è una persona che ha capito il "gioco" e non si lascia più incantare da ciò che gli raccontano i media tradizionali. È un lettore e un lettore attento e preparato, per giunta. Non un lettore da polpettone da spiaggia, per intenderci. Ed è una persona che ha capito anche la necessità di fare un abbonamento a un progetto come questo. Non tanto perché acquista un prodotto, quanto perché - in sostanza - si autotassa per mantenere in vita una realtà più ampia, uno spiraglio di cultura e informazione non conforme nella desolazione dell'asfittico panorama italiano. Un “balsamo per il proprio cervello”: così ci ha scritto qualcuno di voi. Chi si abbona sa che qui viviamo di principi, di idee, di analisi e convinzioni, ma sa anche che (almeno per ora) a fine mese dobbiamo pagare bollette, affitto, tipografia, poste, imposte e tutto il resto, oltre al fatto che per poterci permettere di lavorare a tempo pieno ed essere sicuri di avere un tetto sopra la testa e una cena la sera, qualche euro in tasca dobbiamo pur averlo. E, tanto per essere chiari, mi riferisco ai redattori e a chi lavora in segreteria e alla logistica.

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Lo Monaco

- oltre a chi si è abbonato a entrambe le versioni -: questo è il gruppo di persone con le quali siamo in contatto ogni mese. E pensate che è un numero che fa impallidire la maggior parte dei quotidiani minori che vivono sulle spalle dei contribuenti. Questi sono i numeri dei "lettori" nel nostro Paese, del resto. Tremila, dunque. Manipolo di menti libere e ribelli. Di persone che si oppongono al sistema dominante e preferiscono mantenere la propria mente libera. Abbiamo assoluto rispetto per ognuno di voi e vi dico personalmente grazie di cuore. Perché per acquistare un abbonamento a La Voce del Ribelle ci siete venuti a cercare. Non ci siamo serviti - né lo faremo - di call center per rifilare abbonamenti dopo estenuanti telefonate all'ora di cena. Non ci siamo serviti - né lo faremo - di campagne di abbonamento "tre per due" o pelosi scambi diplomatici negli ambientacci che oggi servirebbero alla bisogna. Qualche giornale e qualche tv, mesi addietro, hanno messo un trafiletto per dire che esistevamo. Qualche sodale giornalista di Fini ci ha dato un po' più di spazio. Per il resto, come è giusto che sia, avete fatto tutto da soli. Ci avete cercato e vi siete abbonati. Perché conoscevate Fini e sapevate che qui non avremmo seguito l'agenda setting che tutti gli altri media impongono. Che qui avremmo ospitato le posizioni culturali, metapolitiche e intellettuali colpevolmente escluse dai dibattiti televisivi e dalle paginate dei grandi quotidiani impostati con prime pagine che parlano di Noemi e Papi e con a fianco la notizia clamorosa del cambio di look di Fabrizio Corona.


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Ecco perché non possiamo lasciare copie gratis dentro le metropolitane.... Non c'è alcun imprenditore che compra improbabili spazi pubblicitari sul nostro mensile per rifilare chissà cosa né, nella maniera più assoluta, accediamo a contributi pubblici di alcun tipo. Non graviamo sulla società, viviamo grazie a voi lettori. E basta. Qualche milione di persone come voi e vivremmo in un mondo molto differente. E chissà che..

Ed è già un anno Il primo anno di pubblicazioni si chiude con questo numero che avete davanti agli occhi. Era quindi tempo di tirare le prime somme e - chiariamolo subito - rilanciare impegno e sacrifici per l'anno che abbiamo innanzi e che comincerà con il numero di ottobre in uscita i primi giorni del prossimo mese. Vi spiego cosa cambierà, cosa abbiamo pensato di fare per questo progetto editoriale che inizia sul serio ad essere stabile e cosa sognamo di fare. Per prima cosa quella più difficile: stiamo pensando, e siamo già al punto pratico, di proporre una versione quotidiana de La Voce del Ribelle. Una versione su internet, per essere precisi, che affiancherà quella mensile che già conoscete. Sarebbe un modo per essere in contatto quotidiano oltre che mensile come adesso. Lasceremmo al mensile gli approfondimenti mentre pubblicheremmo sul quotidiano on line tutte le note, gli editoriali e gli interventi relativi alla stretta attualità. Beninteso, nella versione quotidiana non trovereste un elenco di notizie simile a quello degli altri siti di cosiddetta informazione, quanto una selezione di notizie che a nostro avviso sono veramente importanti - e spesso taciute - che proprio gli altri media (chissà perché?) non affrontano. Ma non solo. Cercheremmo di spiegare i perché della notizia. Di leggere tra le righe. Di capire gli effetti che le cose che accadono hanno realmente su di noi. Altri vi danno le notizie (e non quelle veramente rilevanti) noi vi spiegheremmo i perché, ovviamente con la chiave di lettura che già conoscete. Notizie, editoriali e altre pillole multimediali per avere uno schietto e chiaro contatto quotidiano. Sarò più preciso prossimamente, e vi prometto dei prezzi di abbonamento "ridicoli" al servizio, per lo stesso motivo di quanto detto sopra.

Il sito e non solo Per quanto riguarda il sito e i supporti di WebRadio e WebTv che vi sono collegati, arricchiremo il palinsesto audio con nuove trasmissioni e rubriche e partiremo - presto - finalmente, con i videoeditoriali. Forse con una trasmissione in audio-video in diretta. La sezione per gli abbonati all’edizione web sarà ulteriormente arricchita, con un glossario particolare e con una intera sezione relativa ai libri, alle recensioni e a una “guida” per implementare la propria formazione e la propria biclioteca. Ci siamo già lavorando sodo, e anche la grafica, come vedrete, avrà diversi cambiamenti.

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Sempre in merito al web, contiamo di lanciare presto una piattaforma dedicata a chi - e sono tanti - ama esprimere le proprie idee e vederle pubblicate. Altra cosa: pubblicistica ulteriore. La piccola editrice che pubblica il nostro mensile ha in serbo alcuni libri dei nostri collaboratori. Ve ne parlerò diffusamente uscita per uscita. Ma temi e taglio dei libri li potete di certo già immaginare.

Ora veniamo al mensile cartaceo Dal numero di ottobre ci saranno alcune nuove rubriche. Agili e pungenti, oltre alla tipologia di articoli ai quali già siete abituati. Terremo d'occhio giornali e Tv per verificare come di volta in volta vengono stravolte, taciute o enfatizzate le notizie. E cercheremo di spiegare il perché. La parte di analisi sarà affiancata maggiormente da interventi di attualità. Avremo qualche spunto di satira in più e ci occuperemo di "argomenti altri", esistenziali direi, prettamente di carattere culturale e relativi alla società, visti con la lente d'ingrandimento di uno spirito prettamente ribelle. Come è giusto che sia. Contiamo così di completare, arricchire e migliorare di molto la rivista, per una lettura mensile ancora più gratificante e utile. Cosa non cambierà, invece, come certamente potete immaginare, è lo spirito originario dal quale (e grazie al quale) ha mosso tutto il progetto. Nel fare tutto questo, naturalmente, contiamo solo e unicamente sui nostri abbonati e sui nostri sostenitori. Cioè su di voi. Massimo Fini e noi tutti stiamo affilando le frecce. Appuntamento a ottobre.

Ci occuperemo invece di...: il nuovo record di pignoramenti di case in Usa il ritiro della liquidità in circolazione da parte di Fed e Bce crollo di ascolti per la Rai sul satellite (e senza Sky) addio al bicchiere di vetro nei pub londinesi Stato che sponsorizza le acque minerali private ricostruzione in Abruzzo e business

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di Alessio Di Mauro


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