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Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 2 - numero 7 - Aprile 2009
Mensile Anno 2, Numero 7
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Direttore politico
Massimo Fini Direttore responsabile
Valerio Lo Monaco
America Latina: HASTA SIEMPRE, CHÁVEZ Fini: I TALEBANI E LA DISINFORMATIA Fmi e Banca mondiale: GLI USURAI DI BRETTON WOODS Facebook: VUOI ESSERE MIO AMICO? NO! Crisi economica: È INIZIATO IL CONTO ALLA ROVESCIA
Anno 2, numero 7, Aprile 2009 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com) Art director: Alessio Di Mauro Hanno collaborato a questo numero: Alessio Mannino, Giuseppe Carlotti, Bianca Berardicurti, Roberto Alfatti Appetiti, Alessia Lai, Giuseppe Pennisi Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Agenzia Stampa e comunicazione: Agenzia Inedita tel. 06/98.26.24.96 Progetto Grafico: Antal Nagy Impaginazione: Mauro Tancredi La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000 Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008 Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti. Chiuso in redazione il 31/03/2009
Occidente e Afghanistan: tra viagra e disinformatia
2 La rivoluzione del centimetro quadrato 6 Conto alla rovescia 9 Qui ti aiuto e qui ti inchiodo 17 Global Commons 23 Fini & interessi 26 Chávez, El Pueblo Unido 29 Nunca Mas. Mai più desaparecidos 35 di Massimo Fini
di Federico Zamboni
di Valerio Lo Monaco
di Federico Zamboni
di Giuseppe Pennisi
di Alessio Mannino
di Alessia Lai
di Bianca Berardicurti
Social Network: il paese dei balocchi (altrui)
41 Usciti ieri: Il Castello 45 Borderline: Cobain, l’urlo nel tunnel 49 di Giuseppe Carlotti
di Valerio Lo Monaco
di Federico Zamboni
Musica: X factor, la fabbrichetta delle star(s) di Roberto Alfatti Appetiti
Il film: NON una scelta d’amore di Ferdinando Menconi
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di Alessio Di Mauro
Leggo al minimo. Il Tempo divora gli occhi e il resto. Ma “La Voce del Ribelle” merita di vivere. Qualcuno... chissà... Guido Ceronetti 1° marzo 09
FINI MASSIMO
Occidente
e Afghanistan: tra Viagra e disinformatia
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di Massimo Fini
na volta c'era la "disinformatia" sovietica. Era così palese e grossolana da diventare ridicola e infatti in Europa e negli Stati Uniti era materia di un'infinità di barzellette. Oggi la "disinformatia" è passata all'Occidente, e, quanto a ridicolo, non ha nulla da invidiare a quella sovietica, anzi riesce ad essere perfino peggiore. Alla vigilia dell'8 marzo, festa della donna, la CNN e le televisioni americane, seguite pedissequamente da quelle europee e, naturalmente, italiane, hanno dato notizia che in Afghanistan i Talebani avevano iniziato una campagna di stupri sistematici. Non è solo una notizia inverosimile, è inventata di sana pianta. Se i Talebani si sono affermati in Afghanistan, trovando l'appoggio della stragrande maggioranza della popolazione, è proprio perché misero fine alle prepotenze, ai taglieggiamenti, alle estorsioni, alle ruberie, agli assassinii e anche agli stupri perpetrati dai cosiddetti "signori della guerra" e dai loro seguaci. La carriera di Leader del Mullah Omar comincia proprio così. Dopo aver combattuto, giovanissimo (aveva 19 anni) contro i sovietici, Omar era tornato a vivere nel suo povero villaggio vicino a Kandahar. Una di queste bande aveva rapito due ragazze del posto e se le era portate in un luogo sicuro per stuprarle in tutta comodità. Omar a capo di altri "enfants de pays" aveva inseguito e raggiunto i banditi, li aveva sconfitti liberando le ragazze e, per buona misura ed esempio, aveva fatto impiccare il capo della banda all'albero della piazza del suo paese. E si era comportato nello stesso modo quan-
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do, poco dopo, erano state sequestrate altre due ragazze in un villaggio vicino. Questa era la sua maniera di difendere la dignità della donna (in Occidente ci riempiamo la bocca con la "dignità della donna", ma quando una ragazza viene stuprata in pieno giorno nel centro di una città, gli strenui difensori di questa dignità si girano dall'altra parte). Quando nel 2001 gli americani attaccarono l'Afghanistan appoggiandosi, sul terreno, ai Tagiki di Massud, una giornalista inglese penetrò in territorio afgano travestita da uomo. I Talebani la scoprirono e la arrestarono. Avrebbero potuto farne quel che volevano, usarla a fini di ricatto come abbiamo visto fare tante volte in Iraq con i civili, stuprarla o sottoporla a sevizie e umiliazioni anche peggiori, tipo Abu Ghraib dove la "cultura superiore" ha dato il meglio di sé, o semplicemente dimenticarsela in prigione perché avevano altro cui pensare perché erano in una situazione impossibile avendo di fronte, sul terreno, uomini di pari valentia guerriera mentre dal cielo gli irraggiungibili B52 americani bombardavano a tappeto le loro linee. Invece la trattarono con il rispetto che sempre si deve a un prigioniero, uomo o donna che sia, la interrogarono e, appurato che non era una spia come avevano ragione di sospettare, la riportarono al confine e la liberarono. E lei si convertì all'Islam. Nell'Afghanistan talebano esisteva un "Corpo per la promozione della Virtù e la punizione del Vizio" il cui compito era quello di vigilare sulla morale, in particolare quella sessuale. I Talebani sono degli integralisti religiosi, dei puritani, dei sessuofobi se si vuole. Possono essere feroci e crudeli ma lo stupro non solo è estraneo alla loro mentalità, lo considerano un delitto gravissimo, più dell'omicidio, perché offende la morale e la donna di cui hanno un'alta concezione anche se in modo diverso dal nostro. Continuamente le cronache e i reportage occidentali si occupano, lacrimando, delle disastrose condizioni in cui versa "questo martoriato Paese" (come se si fosse "martoriato" da solo e non fossimo stati noi a ridurlo nelle condizioni in cui è): il tasso di disoccupazione viaggia fra il 40 e il 50%, la corruzione, nel governo, nell'amministrazione pubblica, nella polizia, è endemica, i "signori della guerra" hanno ripreso a spadroneggiare e a taglieggiare (un camionista che attraversi l'Afghanistan deve passare fra i 20 e i 30 posti di blocco, pagando ogni volta il "pizzo"), la sicurezza non esiste, il mercato della droga impera, oggi l'Afghanistan produce il 93% dell'oppio mondiale. Nessun cronista e nessun inviato però si chiede mai com'era, da questi punti di vista, la situazione dell'Afghanistan sotto i Talebani. Perché il confronto sarebbe devastante. La disoccupazione non c'era. Per il semplice fatto che, come in tutte le realtà tradizionali, ogni famiglia, contadina o artigiana che fosse, viveva sul suo e del suo. L'ingresso dell'economia di tipo occidentale l'ha disgregata. Facciamo un esempio, piccolo ma significativo. Le donne afgane continuano a portare il burqua. I burqua erano confezionati da famiglie di artigiani afgani; adesso li fanno i cinesi. Perché i cinesi, con le loro macchine, fanno in poche ore decine di burqua là dove una famiglia afgana per confezionarne uno ci metteva una giornata. Ergo, migliaia di persone hanno perso il loro lavoro.
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La corruzione non c'era. Perché i Talebani facevano impiccare i corrotti allo stadio, cosa che tanto faceva inorridire gli occidentali. C'era una giustizia spiccia, ma c'era. Le estorsioni, i taglieggiamenti, i "pizzi" dei "signori della guerra" non c'erano per la semplice ragione che i Talebani, dopo averli sconfitti, li avevano cacciati dal Paese. L'Afghanistan era un Paese sicuro. Bastava rispettare la dura legge imposta dai Talebani. Gino Strada, che in quell'Afghanistan ci ha vissuto, mi ha raccontato che vi si poteva girare, in tutta tranquillità, anche di notte. Nel 2001 il Mullah Omar impose e ottenne che i contadini non coltivassero più il papavero da cui si ricava l'oppio. Un risultato straordinario, quasi miracoloso se si pensa ad altre situazioni come, per esempio, la Colombia. Ma documentato e inoppugnabile: se si guardano i diagrammi si vede che nel 2002 (anno in cui rileva il provvedimento del Mullah preso nel 2001) la produzione di oppio in Afghanistan crolla quasi a zero. Con la nostra invasione e occupazione abbiamo distrutto un Paese che, dopo dieci anni di conflitto con l'Unione Sovietica e sei di guerra civile, aveva trovato un suo equilibrio e un suo ordine, sia pure un duro ordine. Se le cose stanno così perché allora continuiamo ad occupare l'Afghanistan? Dice: perché lì combattiamo il terrorismo. Quale terrorismo? Bin Laden è Notizie inventate scomparso dalla scena da cinque anni. E del resto il califfo saudita i Talebani se lo di sana pianta. sono trovati in casa e costituiva un probleRealtà coperte ma anche per loro. Tanto è vero che quando nel 1998 Bill Clinton propose ai Talebani (come il crollo farlo fuori questi si dichiararono disponidella produzione di di bili. Il Mullah Omar inviò a Washington il suo papavero del 2001) "numero due", il ministro degli Esteri Watkij, e la guerra vile con in possesso di un ottimo inglese, il quale disse al Presidente USA che il governo talei Dardo e i Predator. bano era d'accordo a fare questa operazione, sia direttamente sia dando agli ameriDove l’Occidente cani le coordinate esatte di dove si trovava non riesce con la Bin Laden, purché le responsabilità dell'attentato se le assumessero gli Stati Uniti. Ma forza, prova all'ultimo momento Clinton, che pure era a corrompere l'autore della proposta, si tirò indietro. con il Viagra. I veri Gli afgani non sono mai stati terroristi, tantostupratori siamo noi. meno kamikaze, non è nella loro natura e nella loro cultura, sono dei guerrieri che è cosa diversa. Non c'era un solo afgano nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle e non è stato trovato un solo afgano nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda scoperte dopo l'11 settembre. C'erano arabi sauditi, yemeniti, giordani, marocchini, algerini, tunisini, egiziani, ma non afgani. Nei dieci anni di durissima guerra di guerriglia contro il potentissimo esercito sovietico non si registrò nemmeno un attentato terroristico, né
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dentro né fuori l'Afghanistan (e un Aereoflot poco protetta non sarebbe stata difficile da colpire). E anche oggi che si trovano di fronte a un nemico che, a differenza dei sovietici, non ha nemmeno la decenza e la dignità di stare sul campo, ma bombarda con aerei senza pilota, i Dardo e i Predator, gli atti terroristici dei Talebani all'interno di una sperequatissima guerra in cui, diversamente da quanto succedeva nel conflitto con i russi, non hanno l'appoggio di nessuno, nemmeno dell'Iran che li vede come dei pericolosi concorrenti ideologici, più "duri e puri" e più coerenti, sono molto pochi se paragonati a quanto successo in Iraq, e sempre mirati a obiettivi militari o politici e mai contro i civili (anche se hanno pure essi degli "effetti collaterali", comunque infinitamente inferiori a quelli provocati dagli americani con i loro bombardamenti a casaccio sui villaggi). E in ogni caso non si può gabellare una guerriglia che dura da otto anni, con l'evidente e indispensabile appoggio di buona parte della popolazione, come terrorismo anche se, di quando in quando, ne fa uso. Negli stessi documenti interni del Pentagono e della Cia i combattimenti afgani, talebani e non, sono definiti "insurgents", insorti. Si tratta di una guerra di liberazione contro l'occupazione dello straniero che non si vede da quale punto di vista si possa considerare illegittima. C'è da aggiungere, infine, che se anche i Talebani riprendessero il potere, da cui sono stati spodestati con la violenza, nel loro Paese, l'Afghanistan non costituirebbe un pericolo per nessuno. Non è dotato, a differenza del Pakistan, dell'atomica, non ha mai posseduto, a differenza dell'Iraq, "armi di distruzione di massa", è armato in modo antidiluviano e nella sua lunga storia non ha mai aggredito alcun Paese, né vicino né lontano. Gli afgani si sono sempre fatti gli affari loro. E allora perché l'Occidente continua ad occupare l'Afghanistan seminando morte, distruzione, miseria, disgregazione sociale ed è anzi considerato da mister Obama, il nero "democratico", il target principale? Semplicemente perché non ci piacciono i Talebani, non ci piacciono (ne abbiamo anzi paura) i loro valori, la loro dura legge, la shariah, le loro idee (che sono una declinazione radicale del pensiero khomeinista) che vogliamo sostituire, a tutti i costi, con le nostre leggi, le nostre istituzioni, la nostra democrazia, i nostri valori, la nostra devastante economia. E per ottenere questo obiettivo siamo disposti a tutto, a usare, oltre alle bombe, ogni mezzo e mezzuccio, dalla "disinformatia" in stile sovietico all'offerta ai capi tribù - ultima, geniale, idea della CIA - di Viagra gratis. Quando si arriva a questo vuol dire che si è proprio rischiato il fondo della botte. E quando una democrazia, per combattere le idee altrui è costretta a ricorrere a questi mezzi, infami o ridicoli, vuol dire che non è più tanto convinta delle proprie.
La rivoluzione E
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del centimetro quadrato di Federico Zamboni
hilà, sorelle marionette. Ehilà, fratelli burattini. Con alcuni di voi ci conosciamo di persona e, da marionette e burattini intelligenti quali siamo, abbiamo sempre un sacco di cose da dirci: ci scambiamo analisi dettagliate, e talvolta brillanti, sui nostri fili e su quelli degli altri; ci chiediamo come mai così tanti pupazzi si illudano di essere liberi, anche se poi non fanno altro che sgambettare di buon grado sulla scena; e soprattutto immaginiamo il momento in cui gli odiatissimi burattinai arriveranno alla fine dei loro giorni. O del loro potere, almeno. Come forse ricorderete, la volta scorsa ho fatto un bel discorsetto che si intitolava “Ribelli e operativi”. Qualcuno ha scritto per dire che gli era piaciuto. Qualcun altro per dire che era perplesso. Uno ha buttato lì due domande precise. La prima: allora creiamo una massoneria di "ribelli"? La seconda: stiamo forse ipotizzando una rivoluzione tipo quella Francese? Non vedo molte alternative – ha concluso – ma accetto suggerimenti. Io gli ho risposto privatamente in modo sommario, tanto per non farlo aspettare un intero mese. Gli ho mandato una mail che diceva: Nessuna massoneria, ci mancherebbe. E men che meno “una rivoluzione tipo quella francese”. L’idea è un’altra. E parte da una domanda: è possibile fare qualcosa di più che osservare criticamente la realtà, al solo scopo di scambiarsi “acute” osservazioni su quello che non va? Noi crediamo di sì. Ma non in termini strettamente politici, cioè finalizzati immediatamente a un’azione rivolta al cambiamento della società nel suo insieme. In termini, diciamo così, personali. Benché la situazione circostante sia così degradata, è comunque possibile (e secondo noi doveroso) passare a un atteggiamento più attivo. Come? Ne parleremo nel mio editoriale del prossimo numero.
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Se il realismo tende a degenerare in cinismo – e quindi nell’inerzia di chi si affretta a dare per certo che non ci sia niente da fare, perché tanto “è sempre stato così” – l’idealismo tende a diventare astrazione, e rischia a sua volta di non misurarsi mai sul terreno della realtà. Affascinato, o soggiogato, dalle proprie visioni, l’Idealista con la I maiuscola osserva le proposte altrui e le trova invariabilmente imperfette. Oddio: non è che non sia proprio tutto da buttare, ma bisogna pur riconoscere che l’obiettivo è parziale, il risultato incompleto, e che perciò il cambiamento che si prospetta, quand’anche venisse realizzato, resterebbe comunque lontano, lontanissimo, da quella palingenesi morale e politica di cui ha bisogno l’Italia. Anzi l’Europa. Anzi l’Occidente. Anzi il mondo intero. Cazzate. Un conto è prendere atto che dietro certi effetti negativi ci sono dei vizi strutturali, e avere ben chiaro che, se passi la vita a occuparti delle conseguenze, non ti resterà molto tempo per eliminare le cause. Tutt’altra cosa è concludere, diventando maledettamente simili ai suddetti realisti-quasi-cinici, che al di fuori della Rivoluzione con la R maiuscola non c’è da fare un bel nulla. E invece c’è. Eccome se c’è. Invece di accarezzare il momento, esso sì meraviglioso e gratificante, in cui si plasmerà l’universo a propria immagine e somiglianza (a proposito: sicuri di esservi osservati bene nello specchio? Sicuri, sicurissimi di poter fungere da modello per chiunque altro, per oggi e per sempre?), ci si può rimboccare le maniche e iniziare da quello che si ha effettivamente a disposizione. In attesa della Battaglia Finale, la fatale Armageddon in cui il Bene e il Male regoleranno una volta per tutte il loro spiacevole, e plurimillenario, contenzioso, si può fare quello che fanno tutti gli eserciti degni di tal nome: erigere il campo, fortificarlo come si deve, addestrarsi individualmente e in gruppo. Osservare il nemico, per sapere di che forze dispone. Controllare che le scorte vengano ricostituite con la dovuta regolarità.Tutte le scorte: non solo pallottole ed esplosivi e traccianti; anche, innanzitutto, l’acqua e il cibo, i vestiti per l’estate e per l’inverno, il carburante per muoversi e quello per scaldarsi.
Qui. Ora. Noi È ovviamente una metafora, quella militare. Ed è ovviamente una speranza quella di avere già delle schiere così nutrite da richiedere un’organizzazione collettiva. Facciamo un passo indietro, allora. Pensiamo al nostro bravo guerriero (guerriero: non un qualsiasi facinoroso che non vede l’ora di menare le mani) e immaginiamolo che si prepara. Immaginiamolo, ancora meglio, che si tiene pronto a battersi quando verrà il momento, ma che non per questo si aggira bellicoso per ogni dove. Al contrario: egli conduce la propria vita quotidiana nel modo più equilibrato e armonioso di cui è capace, facendo ciò che serve con la cura di un contadino che ama la sua terra, di un artigiano che sa e vuole lavorare solo a regola d’arte, di un artista che insegue un’autentica ispirazione e non intende accontentarsi di nessun trucco e di nessuna scorciatoia. Cerca di essere d’esempio a se stesso e agli altri. Sa che
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Il meglio è nemico del buono
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le parole, anche le più belle, persino le più giuste, sono soltanto chiacchiere, se non trovano riscontro nei comportamenti reali. Questo nostro guerriero – che io mi immagino come Cincinnato, che amava vivere in pace e coltivare i suoi campi, e che prendeva la spada solo se era assolutamente necessario – non aspetta di avere chissà quale grande occasione per fare del suo meglio. Lo fa costantemente. O almeno ci prova. A un certo punto della sua vita, o prima o dopo, in un modo o nell’altro, ha capito una cosa fondamentale: quando non puoi scegliere il cosa, puoi ancora scegliere il come. Come Papillon (un burattino decisamente con le palle) può darsi che sia prigioniero in una qualche prigione. E che non abbia modo di evadere, e neppure uno straccio di piano di fuga da elaborare. E che addirittura, per un’evasione fallita in precedenza, o per una sacrosanta insubordinazione, l’abbiano chiuso in isolamento. Per punirlo. Per spezzarlo. Ma lui, come Papillon, conosce sia la bellezza del sogno che la forza della disciplina. Come Papillon si alza da questa tavola di legno che chiamano branda e, oscurità o non oscurità, scarafaggi o non scarafaggi, si impone di camminare. Tre passi in una direzione e tre passi nell’altra. Nulla di straordinario, in assoluto. Qualcosa di magnifico, viste le circostanze. Come Papillon si tiene vivo. Come Papillon si tiene all’erta. Tutto qui, care sorelle marionette e cari fratelli burattini. Ognuno di noi, anche nelle condizioni peggiori, anche in questa nostra società corrotta e malsana, ha l’opportunità di fare qualcosa di meglio che restare inerte a contemplare lo sfacelo circostante. Per ognuno di noi, sul posto di lavoro, nella vita privata, nelle attività di rilievo e in quelle del tutto ordinarie, c’è continuamente l’occasione di vivere in maniera diversa da quella che cercano di imporci. Vogliono metterci tutti contro tutti? Rispondiamo coi fatti. Non lasciamoci imporre la grossolana, ottusa, nevrotica alternativa tra essere inermi o essere aggressivi. Sforziamoci di essere calmi, entusiasti, generosi. Restituiamo valore alle parole: non può essere sempre una discussione all’ultimo sangue in cui ci tocca dimostrare che noi abbiamo ragione al 101 per cento e che gli altri hanno torto marcio. Restituiamo valore ai gesti, alla normalità del fare le cose solo perché è giusto così: ti aiuto perché mi va di farlo, punto. Non ti sentire in debito. Non con me, almeno. Tutt’al più, se te la senti, prova a fare lo stesso con qualcun altro, la prossima volta. Chiamatela “rivoluzione del centimetro quadrato”, se vi va. Cercate di ricordarvi che c’è sempre un pezzettino di realtà che dipende solo da noi. Continuate, continuiamo, a pensare di cambiare il nostro Paese, l’Europa, l’Occidente e persino il mondo intero, ma nel frattempo cambiamo quel po’ di vita che ci scorre accanto. Ehilà, sorelle ex marionette e fratelli ex burattini. Ehilà, protagonisti. Ehilà, ribelli. Federico Zamboni
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Conto alla rovescia
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Globalizzazione, esaurimento energetico, poche alternative, mistificazioni, perdita della sovranità monetaria e problemi ambientali: il mondo (e l’Italia) è in ginocchio. Appunti per non farsi incantare. E per non credere in false aspettative. di Valerio Lo Monaco
a fede non è cieca. È visionaria. Soprattutto in questo momento. E avere “fiducia” in un sistema che crolla, una Italia fallita e nessuna possibilità di ripresa, più che un atto di fede è ormai pratica disperata.Tolti i temi religiosi, considerato che in questo caso vogliamo parlare di cose tutt'altro che spirituali, è il caso pertanto di eliminare le credenze di qualsiasi tipo e attenersi ai fatti. Con due premesse, anzi tre. La prima: eliminare i dogmi significa fare tabula rasa di quanti sino a ieri lodavano il mondo nel quale vivevamo e, dopo averci condotto al disastro attuale senza abbozzare la benché minima esegesi o critica, pretendono oggi di essere ascoltati ancora. La seconda: ciò che ci apprestiamo a fare è la realizzazione di un mosaico composto da alcuni punti chiave sui quali riflettere; sui quali lasciamo a chi legge l'onere di trarre conclusioni. Con un suggerimento: razionalità. E ora la terza e ultima premessa: cerchiamo di arrivare a capire la situazione attuale per quella che è e soprattutto a pensare al futuro per quello che verosimilmente potrebbe essere. Non per quello che vorremmo o ci auguriamo che sarà. Va da sé che la cosa implichi realismo assoluto. Ebbene, è - o dovrebbe - essere chiaro ormai a tutti che siamo arrivati al countdown finale. Qualcuno, sappiamo per certo, bollerà quanto andiamo a scrivere come pessimismo cosmico e disfattismo. Non ci interessa. Siamo convinti di fare unicamente opera di puro - e salutare - realismo. Che è quello che serve, a meno di non pendere dalla labbra di personaggi come l'attuale Presidente del Consiglio, che a fronte della situazione intima agli italiani di lavorare di più e di avere fiducia nella ripresa dell'economia. Su quali basi non è dato sapere. Per chi si sottrae alla confusione mediatica, invece, è fin troppo facile mettere a fuoco i motivi
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per i quali avere fiducia nella ripresa del nostro modello di sviluppo ormai in crisi è non solo un atto, appunto, visionario,ma anche colpevole.Colpevole della propria sorte e di quella degli altri, in primo luogo dei nostri figli e nipoti. Così come è colpevole il silenzio di chi, venuto a conoscenza di dati tanto allarmanti quanto incontrovertibili, si ostina a non diffonderli. E dunque a mantenere la gente nell'ignoranza più totale. Beninteso, La Voce del Ribelle è contro il nostro sistema di sviluppo in sé. Arrivati al punto in cui siamo non ci si può però esimere dall'entrare nel dettaglio pratico dei motivi per il quale sta crollando.E dei motivi per il quale non risorgerà. Globalizzazione, finaziarizzazione, tessuto industriale, perdita della sovranità monetaria, petrolio ed energie, ecosistema. Tutti ambiti collegati strettamente al fattore
C’è l’economia, al centro del nostro modello di sviluppo. E per capirne il tracollo dobbiamo scrutare nei suoi meccanismi. Come se si trattasse della scatola nera di un aereo precipitato. economico, come è inevitabile che sia, visto che al centro del nostro sistema di sviluppo, ormai in fase terminale, c’è proprio l’economia. Ed è al suo interno che si deve scrutare, come nella scatola nera di un aereo precipitato, per cercare di capire le cause che hanno portato allo stato attuale. Soprattutto per capire cosa non è lecito aspettarsi - ovvero in cosa è lecito non avere fiducia - al fine di prendere davvero coscienza della situazione. Centriamo il tutto sull'Italia, anche se tutti i temi, strettamente collegati tra loro, fanno parte ormai di una problematica mondiale.
Un sistema auto-divorante Cosa che ci introduce subito al primo tassello del mosaico. Ovvero la globalizzazione. Partiamo da oggi e andiamo rapidamente a ritroso: oggi dobbiamo consumare per poter lavorare. Una volta era il contrario: si lavorava per poter consumare, ovvero per vivere. Non solo: oggi lavoriamo anche per coprire dei debiti di varia natura. La voracità del mercato e della natura intrinseca del sistema stesso ci ha imposto di consumare sempre di più, anche oltre le nostre possibilità. E dunque ricorrendo ai debiti, che sono principalmente di due ordini: economici ed ecologici, o meglio, ecocompatibili. Nella fase attuale ci troviamo nella situazione di chi ha
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speso molto più di quanto ha guadagnato e ha contratto talmente tanti debiti da non poter spendere nulla di più e anzi, da essere costretto a lavorare come uno schiavo solo per fare fronte ai debiti da saldare. E il conto è salato.Tanto salato da rendere impossibile che si arrivi ad estinguerlo. Non solo: la natura stessa di questo meccanismo, ovvero della ricerca del massimo profitto delle aziende, che si sono preoccupate solo di produrre al minor costo possibile, ha innescato, dalla rivoluzione industriale in poi, una lunghissima serie di reazioni a catena e di effetti collaterali che hanno precipitato la situazione mondiale in una selva di errori, alcuni dei quali irreparabili. Questi non hanno fatto altro che spingere il sistema stesso al collasso al quale ci stiamo rapidamente avvicinando. Ne sono testimonianza, tra le altre cose, i crescenti scontri civili in varie parti del mondo. Troppi nodi sono venuti al pettine. Tutti riconducibili a un unico, madornale errore: sviluppo infinito in uno spazio finito. È irritante, quasi inconcepibile, pensare a come tutto il nostro modello di sviluppo si fondi sulla responsabilità di chi ha basato i propri calcoli (e la sedicente "scienza" economica) su questo errore e ci ha portato allo stato attuale per non aver compreso (o peggio, tenuto nascosto) un assunto da prima elementare: dato uno spazio finito quanto potrà crescere al suo interno un contenuto? Ancora di più è incredibile come si sia potuto nascondere a miliardi di persone una verità tanto elementare. Naturalmente parliamo delle persone che vivono all'interno di questo modello, non già di chi lo subisce sotto forma di guerre e sfruttamento. Soprattutto, è incredibile come una quantità così piccola di persone abbia potuto sprofondare il mondo intero in questo stato. E come tutti si siano fatti docilmente conquistare e ridurre in schiavitù senza ribellarsi. Comprati - letteralmente - da promesse fasulle su un futuro impossibile, elettrodomestici a basso costo e mignotte da teleschermo. Non è un caso che chi invece aveva colto l'assurdo del nostro modello sia stato messo a tacere attraverso l’oblio e l’ostracismo. Che si tratti di intellettuali, politici, scienziati o saggisti, chiunque abbia tentato di far capire l'errore di fondo è stato silenziato per non disturbare i gruppi di potere, i manovratori dei fili, nel raggiungimento del loro intento.Mediante la commistione dei poteri economico-politico e mediatico si è riusciti a sabotare, quasi del tutto, qualsiasi pensiero non conforme. Entrare in possesso, ovvero avere accesso a dati scientifici e prodotti intellettuali fuori dalla logica attuale, pertanto, è stato ed è compito non facile. Preclusi ai più, questi testi fortunatamente filtrano in
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piccola parte attraverso saggisti, intellettuali, giornalisti ed editori indipendenti - nel senso letterale del termine - e coraggiosi. E attraverso la "luce" che ogni tanto si accende nella mente delle persone.Sopra a tutto,e in particolare oggi,l'esigenza di accedere a tali dati per confermare le proprie intuizioni in seguito agli effetti che viviamo della caduta dell'industrialismo e dell'economicismo,apre nuove possibilità di conoscenza.Che devono essere perseguite. La crisi attuale è esplosa per una congerie di motivi tra loro collegati, e tutti riconducibili all'errore primigenio. Sopra a tutti l'esplosione (dagli effetti non ancora manifestati del tutto) dell'ultimo stadio di questo diabolico dogma, ovvero la finaziarizzazione. Il tentativo di creare ricchezza dal nulla - letterale - e di moltiplicarla esponenzialmente senza considerare gli effetti reali di una speculazione avvenuta su binari virtuali. Ovvero falsi, inesistenti, puro esercizio grafico su fogli di carta. Dai reali, questo sì, effetti devastanti sull'economia e la vita vissuta. Su quest'ultimo punto non è il caso di tornare sopra. A meno di essere totalmente incoscienti si ha oggi una percezione più che nitida dello stato delle cose. Ciò che si fatica ancora a vedere e a mettere in prospettiva, sono invece altri fenomeni collegati, i quali sono poi quelli che dovrebbero indurre a capire perché il richiamo alla fiducia nella ripresa di questo sistema dovrebbe essere considerato come un crimine contro l'umanità. Il nostro sistema si basa sullo sfruttamento. Di risorse umane e naturali. E produce dei "rifiuti". Umani e naturali. I quali sono arrivati oggi a dei punti di non ritorno.
Energia? Esaurita È iniziato il conto alla rovescia riguardo l'energia. Il petrolio, materia prima che ha permesso l'espansione del capitalismo industriale, sta finendo. Malgrado le poche scoperte annuali di nuovi giacimenti, e malgrado le guerre di conquista dei territori che ne contengono in maggiore misura, la curva di produttività sta rapidamente scemando. Stiamo raggiungendo, peraltro, la curva di rendimento. In parole molto semplici: tra poco per ogni barile di petrolio estratto dovremo impiegarne un altro per estrarlo. Mentre è facilmente comprensibile - o dovrebbe esserlo - capire cosa questo comporti a livello globale, altrettanto non si può dire di chi si ostina a credere a fonti di energia alternative. Qualcuno ipotizza di iniziare a depredare nuovi giacimenti di carbone. Qualcuno sostiene il nucleare. Qualcuno addirittura l'idrogeno. Partiamo da quest'ultimo. Prima mistificazione: l'idrogeno è una fonte di energia. Sbagliato. L'idrogeno è un vettore di energia. È un elemento che non esiste allo stato naturale. Per procurasi l'idrogeno si deve ricorrere ad altre fonti di energia. Vero è che una volta bruciato (calore o conversione energetica) si produce come scoria solo innocuo vapore acqueo, ma il problema è a
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monte: per estrarlo e lavorarlo si devono usare processi chimici ed elettrolisi. E dunque elettricità. E siamo da capo. L'energia necessaria per produrlo è superiore a quella che si ottiene a processo finito. Rispetto alle energie alternative è in corso una seconda farsa: non si tratta di alternative ma di derivative. Senza considerare il punto cruciale ulteriore, che ci porta dritti e rapidamente a un altro aspetto. Le scorie, i rifiuti. È iniziato il conto alla rovescia per il nostro pianeta. E sempre per effetto del vizio originario. Le scorie che produciamo non si eliminano, ma si accumulano. I materiali che estraiamo e i sistemi con i quali deprediamo il pianeta non sono infiniti.Stanno finendo.Ma mentre per il secondo punto le conseguenze non sono ancora arrivate al punto zero, per il primo abbiamo già compromesso molto di ciò che avevano a disposizione. Ciò che bruciamo finisce nell'atmosfera, nei nostri polmoni, nel cibo che mangiamo, nell'acqua che beviamo, nei mari. L'era dell'automobile è finita. Solo in un mondo folle si poteva pensare che fosse normale passare due ore al giorno nel traffico per andare al lavoro senza che questo aspetto avesse un impatto psicologico sulla qualità della vita e uno fisico sull'inquinamento. La via d'uscita non è quella di trovare una nuova fonte di energia, con gli inceneritori (solo nel nostro paese, pelosamente, vengono chiamati termovalorizzatori che non valorizzano proprio nulla,ma semplicemente inceneriscono i rifiuti per volatilizzarli nei nostri polmoni e nel terreno che coltiviamo e sul quale alleviamo). E non è nemmeno nel nucleare, che è una tecnologia incompleta, visto che produce scorie dannosissime per le quali ancora oggi non è stato trovato un sistema di smaltimento sicuro e definitivo oltre al problema dell’uranio, che anch’esso, prima o poi finirà. Stesso dicasi per altri fonti energetiche che bruciano qualcosa (carbone, legno...) e che immettono nell’aria altri rifiuti. L'unica prospettiva realistica pertanto è quella di consumare meno energia. Ovvero di usare quella che non produce scorie (sole, vento) ma a patto di tenere bene a mente che questo tipo di energia non sarà mai sufficiente a mantenere il consumo attuale. Il che significa averne a disposizione molta meno di quella che abbiamo utilizzato sino a ora depredando la terra, inquinando le nostre vite e modificando il nostro pianeta. Dunque, si tratterà di cambiare sensibilmente il proprio stile di vita. E di fare i conti con chi, pur di non modificarlo, continuerà a uccidere la terra e il futuro dei propri figli.
“Tessuto industriale”. Per cosa? È iniziato il conto alla rovescia, peraltro, del tessuto industriale, soprattutto di quello invischiato nel gioco globale. E non solo per i motivi energetici che abbiamo visto. Ma anche per altri due
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motivi: da una parte il fatto che la merce ha saturato le umane possibilità di accumulo e acquisto; dall'altra parte per il fatto che il nostro Paese, perdendo posti di lavoro in seguito alla delocalizzazione delle aziende verso mercati con un costo del lavoro più basso e nessuna regola contrattuale, non è più in grado di consumare, né di fare debiti per continuare a farlo. L'errore delle aziende è stato proprio quello di non comprendere che la delocalizzazione ha permesso sì a loro di ridurre i costi e massimizzare i profitti sul breve termine, ma allo stesso tempo ha ridotto le possibilità di acquisto (ovvero il denaro che i lavoratori erano in grado di spendere dopo averlo guadagnato) di chi poi avrebbe dovu-
Con una popolazione impoverita, fiaccata da precariato e disoccupazione, schiacciata dai debiti già contratti e senza possibilità di farne altri, come si può sperare in una ripresa industriale? to comperare. Produrre altrove e ridurre la forza lavoro in Italia ha contribuito a bloccare il circuito, falcidiando la capacità di acquisto proprio nello stesso luogo in cui la merce prodotta altrove tornava per essere venduta. Senza considerare la provenienza indiscriminata di altri prodotti da parte di altri Paesi (vedi la Cina), a costo ancora più basso. Con lo sfruttamento assoluto del presente si è finito col bruciare tutto il futuro possibile. Ora, realisticamente, con una popolazione impoverita, fiaccata dal precariato e dalla disoccupazione, con debiti economici già contratti e dunque nessuna possibilità di acquisto, come è possibile sperare in una ripresa del tessuto industriale? Chi comprerà cosa? E con quali soldi?
Stato italiano: economicamente fallito. È iniziato il conto alla rovescia per lo Stato italiano nel suo insieme. E la causa principale ha la data di un evento preciso: quello della perdita della sovranità monetaria. Aspetto economico e politico al tempo stesso. Molti ancora non si rendono conto di questo meccanismo. Il che non è strano, considerata la difficoltà dell'argomento. Lo approfondiremo in altra circostanza, ma ora in un periodo o due cerchiamo di impostare il tema. Logica vorrebbe che uno Stato sovrano fosse padrone della propria moneta. Cioè che i cittadini italiani stessi fossero padroni della propria moneta. Ovvero che un istituto
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statale preposto alla cosa stampasse moneta secondo le esigenze interne e, soprattutto, in base a un controvalore certo. La Banca d'Italia, in teoria, dovrebbe essere questo organismo. E molti ancora oggi credono che sia così. Accade invece una cosa assurda: la Banca d'Italia non è un organismo statale, ovvero degli italiani. La Banca d'Italia è un istituto privato - ovvero posseduto da pochi privati - nella fattispecie una Spa, per giunta controllata da altre banche anch'esse private (come IntesaSanPaolo, Unicredit e Capitalia) le quali hanno, come in tutte le società per azioni, il solo scopo di guadagnare (ancora: guadagno privato). Dunque di non servire a una funzione pubblica. Ancora, e più importante: la moneta attualmente in circolazione nel nostro Paese non è nostra. Ma ci è stata prestata. Da chi? Dalla Banca Centrale Europea. La cosa è evidente: se il popolo è sovrano - la nostra Costituzione questo dice... - perché mai dovrebbe essere costretto a chiedere in prestito la moneta? In prestito si chiede una cosa che non è propria. Appunto. Inoltre, ed ecco che il cerchio si chiude, come tutte le cose in prestito, anche la moneta si deve rendere. Con un interesse. Ergo, la moneta che la Bce - attenzione: banca privata anch'essa, ovvero posseduta da pochi privati - è stata "autorizzata" a stampare e far circolare nella Unione uropea e della quale ha monopolio assoluto (ovvero è l'unica moneta accettata legalmente) viene prestata allo Stato italiano. Il quale la deve rendere con un interesse. Come avviene la cosa? Lo Stato italiano ha bisogno di denaro; la Bce lo stampa e glielo conferisce dietro l'emissione di titoli di Stato (praticamente delle cambiali) che lo Stato italiano si impegna a onorare, ovvero a pagare, con la maggiorazione di un interesse. A chi? Alla Bce. Ai privati che posseggono la Bce. Una volta che i Titoli di Stato arrivano a scadenza, lo Stato italiano deve onorarli, ovviamente maggiorati dell'interesse. Ebbene, attenzione: gli interessi gravano in misura decisiva sul nostro debito pubblico. Debito pubblico del quale sentiamo parlare in ogni trasmissione televisiva senza avere mai spiegazione in merito ai motivi reali della sua provenienza. E senza che uno straccio di conduttore si premuri, come deontologia professionale vorrebbe, di chiedere al politico di turno di spiegare la cosa. Riepiloghiamo: un gruppo di soggetti privati è autorizzato a stampare denaro, lo presta a tutti noi a fronte di un interesse, decide quanto deve darcene e decide a quale tasso darcelo. E attenzione: i conti dell'Italia sarebbero a posto. Il bilancio
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primario del nostro Paese, ovvero la differenza tra le entrate tributarie e le spese dello Stato (stipendi dipendenti pubblici, servizi eccetera) è ampiamente superiore allo zero. Il che significa che è in attivo, non fosse che per quanto abbiamo detto. Come mai allora abbiamo uno dei più alti debiti pubblici del mondo? Tirate voi le somme. La domanda alla quale rispondere per leggere un po' il futuro è dunque la seguente: visto che attualmente lo Stato italiano non riesce a pagare non solo gli interessi, ma neanche gli interessi sugli interessi, e vista la situazione produttiva del nostro Paese, la perdita dei posti di lavoro e la impossibile speranza di vederli ricomparire secondo il sistema di sviluppo precedente alla crisi, quale possibilità razionale c'è anche solo di ipotizzare il sistema con il quale pagare tali debiti. E quando? Basteranno i nostri figli? O i figli dei figli dei nostri figli?
Fiducia in cosa, dunque? Sapete cosa può - temporaneamente - fare finta di salvarci? Un'altra bolla. Un'altra speculazione. Un altro spostamento in là dei nodi attualmente al pettine. Il mercato, i padroni del vapore faranno di tutto per inventarsela. E i media ufficiali, che ai signori sono collegati, faranno di tutto per non raccontare le cose come stanno e per coprire per l'ennesima volta lo stupro sistematico dei cittadini. Aspettare una nuova bolla - sia pure senza considerare quanto abbiamo detto in merito al petrolio, all'energia e ai problemi ecologici dietro l'angolo - equivale però a dire che non si tratta di un salvataggio. Ma di uno spostamento nel tempo dello schianto. Una dilazione che non farebbe altro che peggiorare la situazione, peraltro. Caricando le generazioni - attenzione: non quelle che sopravverranno tra qualche secolo, ma già quella attuale e quelle immediatamente successive - del conto che nel frattempo si sarà gonfiato ancora di più a dismisura. Cosa aspettarsi? Immaginatelo voi stessi. Con un suggerimento di metodo, però: seguite la logica e il ragionamento. Pensate a cosa può accadere, non a cosa vorreste che accadesse. Tanto meno a cosa ci dicono che accadrà. Insomma, ragionate con la vostra testa e non fatevi abbindolare dai richiami di politica e media: esattamente quei richiami che hanno portato (per molti inconsapevolmente, per altri colpevolmente) allo stato attuale delle cose. La prossima volta proveremo a ipotizzare il momento zero. Perché ci aspetta e va pertanto affrontato. Con forza, onore e dignità. Certo, cambiando sensibilmente le proprie abitudini. Sul prossimo numero proveremo a ipotizzare qualche azione da intraprendere - e da subito - per non farci trovare del tutto impreparati nel momento in cui i processi che abbiamo delineato arriveranno a compimento.
Valerio Lo Monaco
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ANALISI
QuiE quiti tiaiuto. inchiodo
S
Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono stati ideati con gli accordi di Bretton Woods del 1944. In teoria dovrebbero sostenere i Paesi in difficoltà. Di fatto, li schiavizzano di Federico Zamboni
embra un paradosso, ma è quello che accade abitualmente: più un’assemblea è ampia e composita e più ha bisogno, per poter agire in modo efficace, di avere al proprio interno una fazione che sia nettamente più forte di tutte le altre. La forma è democratica. La sostanza è oligarchica. Il dibattito può snodarsi liberamente. Le conclusioni no. Le conclusioni devono arrivare là dove il gruppo dominante desidera che arrivino. L’esempio più noto è l’Onu. Formalmente le decisioni – e in particolare le cosiddette “risoluzioni” – vengono assunte a suffragio universale. Solo che poi, se serve, scatta il diritto di veto. Riservato, da sempre e per sempre, a cinque soli Paesi: Francia, Inghilterra, Russia, Cina e Stati Uniti d’America. La distinzione tra membri di prima classe e associati di contorno diventa ancora più palese, però, in quegli organismi, come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che non avendo natura immediatamente politica, ma finanziaria, sfuggono al classico principio “una testa, un voto”, adottando invece lo stesso criterio che vige nelle società di capitali: più quote possiedi, più voti esprimi. Nel caso dell’FMI, istituito così come la Banca Mondiale nell’ambito degli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, le quote più cospicue sono detenute dai cinque membri permanenti del Consiglio Esecutivo: nell’ordine, Usa (17,09), Giappone (6,13), Germania (5,99), Regno Unito (4,94) e Francia (4,94). Quanto al resto, la massima parte è suddivisa fra altri sedici Paesi, tra cui l’Italia (3,25), mentre il 30 per cento residuo è disperso tra ben 165 Stati. Sul piano decisionale le conseguenze sono ovvie: si fa quello che decidono gli Occidentali, Stati Uniti in primis, e gli altri si adeguano. Come dicevamo all’inizio, più un’assemblea è ampia e composita... eccetera eccetera.
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Ottime intenzioni, come sempre Gli scopi dell’FMI sono elencati nell'articolo 1 dell'Accordo Istitutivo1. L’elenco completo comprende sei punti, ma i passaggi fondamentali si riducono a quattro: la promozione della cooperazione monetaria internazionale, lo sviluppo del commercio internazionale, la vigilanza sulla stabilità dei rapporti di cambio, anche per evitare le svalutazioni competitive, l’aiuto agli Stati Membri, utilizzando le risorse del Fondo per affrontare eventuali difficoltà della bilancia dei pagamenti. Tradotto in termini strategici, significa utilizzare il denaro come leva politica. Da un lato con un’azione a larghissimo raggio: subordinando gli aiuti all’adesione a determinati programmi di sviluppo si diffonde, o si consolida, il modello economico occidentale, nella consapevolezza che, una volta finiti all’interno della ragnatela commerciale e valutaria, è pressoché impossibile liberarsi. Dall’altro, con operazioni circoscritte a un certo Paese o a una certa area: attraverso la concessione o il diniego dei finanziamenti si rafforzano, oppure si indeboliscono, i relativi governi. In questa duplice prospettiva realtà come l’Africa, e più in generale i cosiddetti Paesi in via di sviluppo (PVS), assumono un ruolo importantissimo. L’attuale direttore
«In Africa - ha detto il mese scorso il direttore FMI - la minaccia non è solo economica. Non si tratta tanto di proteggere i redditi ma di contenere i rischi di violenze civili. E di guerra». del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, lo ha sottolineato il 20 marzo scorso, sia pure come riflessione en passant all’interno del comunicato con cui ha accolto la decisione dell'Unione Europea di finanziare l’FMI con un prestito di 75 miliardi di euro. «Un grande contributo – si legge nel documento – al mantenimento della stabilità dei mercati finanziari e dei capitali che dimostra chiaramente un forte impegno al multilateralismo. [Una scelta che] costituisce un passo importante verso la stabilizzazione del sistema finanziario globale durante questo periodo di tensioni senza precedenti. L'impegno servirà ad aumentare la fiducia che le risorse dell’FMI saranno sufficienti a soddisfare i bisogni dei suoi Paesi membri – in particolar modo dei membri dei Paesi emergenti – se dovessero rivolgersi al Fondo per un sostegno.»
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Pochi giorni prima, del resto, l’organizzazione aveva promosso un vertice panafricano che si era svolto il 9 e 10 marzo, a Dar es-Salaam, in Tanzania, alla presenza dei ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche centrali di 53 Stati. Dopo aver ricordato che «la crescita mondiale potrebbe essere negativa nel 2009, per la prima volta da decenni», Strauss-Kahn aveva indicato a chiare lettere le possibili conseguenze: «La minaccia non è soltanto economica. C’è il rischio certo che milioni di africani sprofondino nella povertà. Non si tratta soltanto di proteggere la crescita economica o il reddito delle famiglie, ma di contenere anche la minaccia di violenze civili, forse anche di una guerra». Il problema degli aiuti finanziari internazionali, e delle
Secondo una ricerca dell’Economist Intelligence Unit, nei prossimi due anni 95 dei 165 Paesi studiati saranno a “rischio alto o molto alto” di caos politico e di regimi non democratici. loro ripercussioni sulla politica interna dei Paesi che si decide di supportare – o che al contrario si abbandonano al proprio destino, vedi il default che nel 2002 ha travolto l’Argentina2 – è stato rilanciato recentemente, qui in Italia, da Mario Monti. In un editoriale pubblicato lo scorso 22 marzo sul Corriere della Sera, sotto il titolo “Gli Stati disarmati”, l’ex Commissario Ue scrive: «Un pericolo ancora più grave [degli eccessi della finanza] viene dalle crescenti diseguaglianze, tra Paesi e all’interno dei Paesi. Oltre a causare sofferenze umane e sociali, esse rischiano di scatenare reazioni capaci di far cadere il mondo nel protezionismo e vari Paesi nel caos politico o in regimi non democratici. Secondo una ricerca dell’Economist Intelligence Unit (Manning the barricades: who is at risk), 95 dei 165 Paesi studiati sarebbero a “rischio alto o molto alto” nei prossimi due anni.» Siamo alle solite. Il liberismo è grande e l’Occidente è il suo profeta. L’unica difesa dalla barbarie assolutista, o tout court dal «caos politico», è nel consueto, inscindibile kit di espansione economica e sociale predisposto nell’Inghilterra di Adam Smith e così grandiosamente sviluppato negli Stati Uniti d’America: libertà d’impresa (e di speculazione, why not?) e democrazia a go-go. Niente da fare: la teoria resta sempre quella. Solo che ultimamente, anche se Mario Monti pare non avere nes-
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suna voglia di prenderne atto, le condizioni generali sono cambiate. Da parecchi mesi i mercati finanziari sono in preda all’infezione, o alla metastasi, dei derivati di Borsa. L’Occidente “cash & carry” boccheggia per la mancanza di liquidità e prega Dio, o chi per esso, che la recessione non sia troppo grave e che non duri troppo a lungo. Il suddetto kit di espansione economica e sociale è ancora in circolazione, infiocchettato a puntino dai Ben Bernanke statunitensi e dai Francesco Giavazzi nostrani. Però, sai com’è, si vende un po’ meno bene che in passato.
Tutti uniti. Anzi, no «Gli Usa – scrivevano nel settembre 2000 William Bristol, Robert Kagan, John R. Bolton e gli altri ‘neocon’ autori dell’inquietante Project for the New American Century3 – sono l’unica super potenza del mondo, combinando la supremazia del potere militare, la supremazia tecnologica globale, e la più grande economia mondiale. Inoltre, l’America è a capo di un sistema di alleanze che include le altre principali potenze democratiche del mondo. Al momento gli Stati Uniti non hanno rivali sulla terra.» Sembra passato un secolo. Gli Stati Uniti di inizio 2009 traballano vistosamente. Sul versante interno sono sballottati dalla crisi economica innescata dal guazzabuglio dei subprime, che peraltro ha fatto da detonatore a una situazione che era già esplosiva di suo per molti e sostanziali motivi, a cominciare dal-
Il mondo di Obama è molto diverso da quello su cui si affacciò George W. Bush nel 2000. La Russia è tornata una grande potenza. La Cina lo è diventata. L’America Latina ha preso le distanze da Washington. l’eccessivo ricorso al credito bancario per sostenere le vendite dei beni di consumo. Sul versante estero devono riposizionarsi in maniera più accorta e credibile dopo gli otto, deliranti anni del doppio mandato di George W. Bush alla Casa Bianca: impresa che già sarebbe impegnativa di per se stessa – vista l’arroganza dell’ex presidente e la successione di fallimenti militari e diplomatici che ha contraddistinto le sue ricorrenti crociate contro «l’asse del male» – ma che è resa ancora più difficoltosa dai cambiamenti sopravvenuti sulla scena mondiale, dalla resurrezione politica della Russia al consolidamento economico della Cina e allo slancio bolivariano dell’America Latina. In questa situazione di indebolimento degli Stati Uniti, e di rifles-
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so dell’Europa, gli organismi internazionali a leadership occidentale perdono di compattezza all’interno e di autorevolezza all’esterno. Nel caso dell’FMI, inoltre, si aggiungono le conseguenze negative della crisi internazionale. Sull’arco di pochi
L'FMI avrebbe tutto l'interesse a sfruttare la situazione per dare nuovo impulso alle proprie strategie di asservimento, correndo in soccorso dei Paesi più danneggiati dalla crisi. Ma ci sono almeno tre ostacoli. mesi le sue prospettive sono profondamente cambiate, ma non certo in meglio. Ancora nel luglio 2008 un esperto come Giorgio Gomel4 poteva scrivere che «oggi l’FMI è una istituzione in forte crisi di identità, e nel mezzo di una transizione resa più difficoltosa dai problemi prodotti, paradossalmente, dalle favorevoli condizioni che hanno caratterizzato l’economia mondiale negli ultimi anni. La domanda di credito da parte dei tradizionali "clienti" del Fondo è quasi scomparsa (in valore assoluto, lo stock di prestiti dell’FMI è sceso sotto i livelli dei primi anni ottanta). Poiché il reddito netto del Fondo monetario dipende dai prestiti, è venuta meno la principale fonte di copertura delle spese. D’altro lato, molti paesi emergenti hanno teso ad accumulare ingenti riserve, anche riflettendo l’obiettivo di svincolarsi dalla tutela finanziaria dell’FMI. Oggi tali riserve superano di oltre dieci volte la dimensione finanziaria del Fondo; non sono mancate proposte, soprattutto da parte dei paesi asiatici, di utilizzarne una parte per istituire nuovi "fondi monetari regionali"». E adesso? Adesso l’FMI, così come la Banca Mondiale, è preso in mezzo tra ciò che vorrebbe fare e quello che può fare effettivamente. La crisi internazionale richiede che si sostengano quanti più Paesi è possibile, per evitare che il crollo dei singoli inneschi il temutissimo "effetto domino". Inoltre, l'FMI avrebbe tutto l'interesse a sfruttare la situazione per dare nuovo impulso alle proprie strategie di asservimento, correndo in soccorso dei Paesi maggiormente danneggiati dalla crisi. Sulla sua strada, però, ci sono almeno tre ostacoli: il primo è squisitamente finanziario e rinvia alla carenza di liquidità che ha investito le economie occidentali; il secondo è diciamo così ideologico, e ruota intorno alla perdita di attrattiva, se non proprio di credibilità, subita dal modello liberista in genere e da quello della globalizzazione in particolare. Il terzo, infine, è allo stesso tempo politico e culturale: chi ha voglia, in questo momento di possibili (probabili) rivolgimenti geopolitici, di legarsi a filo doppio a
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un’istituzione che, fin dalla sua progettazione a Bretton Woods, è stata pensata come un puntello degli interessi statunitensi nel mondo? Infatti.Al di là delle apparenze, e delle dichiarazioni di principio
L’altra faccia del credito accordato è un debito da ripianare. Ovverosia un legame a lungo termine. Meno si è forti e più ci si consegna a una sorta di amministrazione controllata. E guai a chi sgarra. che tendono a far passare i prestiti come una sorta di manifestazione di solidarietà, la vera funzione del Fmi e della Banca Mondiale non è affatto attenuare le disuguaglianze tra i vari Paesi, ma incasellare un numero sempre maggiore di popoli all’interno degli schemi economico-finanziari occidentali: l’altra faccia del credito accordato – cosa ovvia ma spesso dimenticata – è un debito da ripianare. Ovverosia un legame. Una volta ricevuti i finanziamenti non solo li si dovrà restituire, coi relativi interessi, ma ci si dovrà attenere a precise regole di comportamento. In maniera dapprima implicita, ma sempre più esplicita e persino pressante nel caso in cui si deroghi a certi standard di condotta economica, ci si consegna a una sorta di amministrazione controllata. Che verrà esercitata non solo dal soggetto che ha effettivamente erogato il denaro (o meglio: accordato le aperture di credito), ma anche dalle altre istituzioni che “vegliano” sul sistema, ivi incluse società private come le agenzie di rating: esprimendo giudizi sull’operato dei governi che hanno ricevuto i prestiti, si farà in modo da sconsigliare qualsiasi forma di autonomia sostanziale. Il debito finanziario come vincolo politico.Tu chiedi, o supplichi, e loro concedono. E poi non te ne liberi più.
Federico Zamboni
note: 1 - Il documento, in inglese, si può consultare sul sito dell’FMI, imf.org (Statutes and Decisions). 2 - Per tutti gli anni Novanta l’Argentina aveva perseguito politiche iperliberiste, arrivando a stabilire la parità fissa tra peso e dollaro. A dicembre 2001 sprofondò nel default a causa della mancata concessione, da parte dell’FMI, di un ennesimo prestito. 3 - L’originale è sul sito newamericancentury.org. Una traduzione in italiano è disponibile su clarissa.it 4 - Giorgio Gomel, attualmente direttore del Servizio Studi e Relazioni Internazionali di BankItalia, ha lavorato per l’FMI dal 1982 al 1984.
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PROSPETTIVA
Global commons Ammesso che al G-20 si arrivi a una visione incondizionata e globale, e (per ora) al di là di giudizi di merito sulla cosa, il dubbio più profondo è un altro: chi riuscirà a far rispettare gli accordi a livello globale? E come?
L’
di Giuseppe Pennisi
integrazione economica internazionale è fenomeno che ci tocca tutti da vicino. Alla fine degli Anni 80 una Ford Escort montata negli impianti di Halewood in Gran Bretagna o di Saarlius nella Repubblica Federale Tedesca conteneva parti prodotte nel Regno Unito, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Svezia, Norvegia, Danimarca, Germania federale, Austria, Giappone, Italia, Spagna, Stati Uniti, Canada e Francia; alla fine degli Anni 90, un'automobile ad essa analoga conteneva in misura crescente parti prodotte nei Paesi di nuova industrializzazione dell'Estremo Oriente e del Bacino del Pacifico e nei Paesi in transizione dell'Europa Centrale ed Orientale. Già venti anni fà, inoltre, una multinazionale del settore petrolifero come la Exxon aveva un fatturato annuo che superava il p.i.l. di Paesi europei come la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Grecia, l'Ungheria, l'Islanda, l'Irlanda, il Lussemburgo, la Norvegia, la Polonia, il Portogallo, la Romania, la Turchia e la Jugoslavia, nonché di numerosissimi Paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina. Da allora sono passati quasi quattro lustri: nel mondo ci sono 200 milioni di lavoratori “migranti” (in quanto nati in uno Stato differente da quello in cui lavorano) e circa 35 milioni di “profughi” (autorizzati, ufficialmente, a soggiornare e lavorare in Stati differenti di quelli di cui sono cittadini per ragioni politiche od in seguito a catastrofi naturali). La letteratura sul’integrazione economica internazionale è sterminata. Soprattutto adesso che la crisi finanziaria ed economica sta innescando rigurgiti di protezionismo ed un forte intervento pubblico nell’economia pure di società (come quella degli Stati Uniti) tradizionalmente molto radicata nel libero mercato. L’integrazione economica internazionale è stata sviscerata tramite una saggistica molto vasta: solamente nel 1990 (quando il termine
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“globalizzazione”, un brutto neologismo allora coniato da pochi anni), cominciava a circolare pure sulla stampa quotidiana d’informazione, oltre 10.000 acquisizioni di nuovi libri da parte della biblioteca dell’Università di Harvard lo avevano nel loro titolo. Accanto all’integrazione dei mercati intesa in senso stretto (in quanto integrazione della finanza, delle merci e dei servizi, nonché del diritto di stabilimento delle imprese e della circolazione delle persone), si stanno sviluppando nuovi fenomeni che, sotto molti punti di vista, rappresentano una sfida sia agli Stati sia alle organizzazioni ed istituzioni finanziarie più di quanto non lo faccia l’integrazione dei mercati. Si tratta di fenomeni che oltrepassano sia i confini che, tradizionalmente, determinano le competenze d’influenza degli Stati sia le materie su cui possono incidere le organizzazioni internazionali. Sono fenomeni relativamente nuovi (a livello internazionale), quali i “global commons”, i beni pubblici globali (sotto il profilo economico) per la difesa dell’ambiente e per la tutela da pandemie infettive. Sono tali, insisto, “dal punto di vista economico” poiché “indivisibili” e “non-rivali” (nel lessico dei corsi d’introduzione alla politica economica - la fruizione da parte di uno di noi non impedisce a nessun altro di fruirne). Non sono, però, necessariamente “beni pubblici” dal punto di vista giuridico dei singoli Stati (che a volte tentano, raramente con successo, di regolamentarli, e di vigilare su di essi) e non lo sono neanche da parte delle organizzazioni ed istituzioni internazionali (che, anche esse, provano, senza grandi esiti, a governarli). In effetti, sono proprio i campi in cui sia gli Stati sia gli organismi internazionali annoverano maggiori insuccessi. Si pensi, ad esempio, al G8 ospitato dall’Italia a Genova nel 2001: la sua agenda riguardava essenzialmente i “global commons” (l’adesione al trattato di Kyoto del 1997, il dilagare dell’Aids a macchia d’olio in Africa e non solo) ma (non solamente a ragione dei disordini di piazza) si finì a mere dichiarazioni d’intenzioni di buona volontà ed all’impegno di stanziamenti di somme a favore di organizzazioni internazionali – quali l’Organizzazione Mondiale per la Sanità – nell’illusione che sarebbero riuscite ad incidere. Un paio d’anni fa hanno affrontato il tema due studiosi italiani molto differenti: Giampaolo Crepaldi (Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e Presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Dottrina sociale della Chiesa) e Maria Rosaria Ferrarese (ordinario di sociologia del diritto a Cagliari). Giampaolo
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Crepaldi esamina la globalizzazione alla luce della Dottrina della Chiesa, in particolare dei pronunciamenti più recenti di Papa Woytila e di Papa Ratzinger. Sottolinea l’esigenza del rule of law (e su questo punto converge con le tesi di Maria Rosaria Ferrarese), ma pone l’accento come tale rule of law (ed in senso più ampio la democrazia che dovrebbe essere frutto della globalizzazione) sia “anche e soprattutto tutela e sviluppo della persona”. Maria Rosaria Ferrarese analizza invece la transizione da un rule of law essenzialmente statuale ad un diritto “sconfinato” di cui il diritto transazionale ed il diritto sopranazionale sono le maggiori incarnazioni: un rule of law “che diventa un’ape instancabile sempre in movimento che cerca di nutrirsi proprio di elementi diversi e che vive di contatti numerosi e variabili anche con altri mondi”. Preoccupate e preoccupanti le conclusioni a cui arriva Crepaldi. Dimostrata la centralità del criterio di inclusività per le concezioni di persona e di democrazie nate in Occidente, si domanda se “l’Occidente riuscirà ad offrire” al resto del mondo “una visione incondizionata della persona su cui costruire una democrazia come strumento per la tutela e la promozione dell’uomo” nella convinzione che “l’Occidente senza il Cristianesimo non riesce ad essere sé stesso e a dare il proprio contributo sostanziale – che non è né tecnico né economico- alla globalizzaione”. Meno preoccupata e meno preoccupante la visione laica, ma non laicista, di Maria Rosaria Ferrarese: L’ape del nuovo “diritto sconfinato” della globalizzazione vive di pendoralismo tra grande e piccolo e tra culture differenti per vedere la verità umana contemporanea nelle sue sfaccettatture di contraddizioni ed illusioni. Resta, però, un dubbio profondo. Non solamente se l’Occidente riuscirà ad offrire “la visione incondizionata” di cui parla Crepaldi ma se tale “visione”, unitamente al “diritto sconfinato” proposto dalla Ferrarese potranno governare fenomeni globali che per la loro natura intrinseca sfuggono sia agli Stati (ed ai loro confini) sia alle organizzazioni ed istituzioni internazionali (ed alle loro procedure e prassi basate, anche esse sulle regole degli Stati).
Giuseppe Pennisi Professore emerito alla Scuola superiore della pubblica amministrazione, insegna economia internazionale e politica economica internazionale all’Università Europea di Roma ed all’Università di Malta.
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METAPARLAMENTO
Fini
& interessi
Dai e dai ci sono riusciti. Prima la “svolta” di Fiuggi, adesso la dissoluzione completa con l’ingresso nel PdL. Eppure, a sentir loro, non c’è stato nessunissimo tradimento
C
di Alessio Mannino
on la fondazione del Popolo della Libertà non è nato un nuovo partito. È nata una corporation. L’azionista padre-padrone è ovviamente lui, Silvio Berlusconi, che ha dato vita ad una grande impresa con un grande interesse: il suo. Il Popolo sono gli elettoriconsumatori di marketing politico, unica spinta che anima l’ammucchiata Fi-An più cespuglietti cortigiani (fra cui la nipotissima Alessandra Mussolini, tutta cognome, pummarola e poltrona). La Libertà è quella intesa dal Cavaliere, emblema vivente di una democrazia che fa da copertura allo strapotere dell’economia e dei media di massa: la libertà di vivere per comprarsi il Suv. E di perseguire i propri interessi a qualunque costo. È il “partito degli italiani”, ed è proprio questo che preoccupa: gl’italiani sono sempre pronti a salire sul carro del vincitore. E Berlusconi appare oggi come un vincente, capace di rigenerarsi e dar di sé l’immagine di uomo del cambiamento continuo, di homo novus perenne. In barba ad un quindicennio di politica romana, a tre governi, a due sconfitte, a contratti televisivi non rispettati, a ribaltoni e bicamerali, a riporti, barzellette e lifting per tentare di fermare il tempo che avanza inesorabile. E che prima o poi, come succede a tutti gli umani, lo farà scomparire dalla scena. Momento che ardentemente aspettano i comprimari di Alleanza Nazionale per coronare il loro sogno: il potere assoluto sull’Italia che non vota a sinistra (parlare di destra è troppo, farebbe rivoltare nella tomba Prezzolini, Longanesi e Montanelli; perfino Galli Della Loggia ha evidenziato la pochezza dell’ultimo brand arcoriano,ancora e sempre
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fermo all’anticomunismo senza più i comunisti1. Al vertice del PdL Gianfranco Fini fa il socio di minoranza, l’eterno secondo in consiglio di amministrazione. E, successione o no, tanto gli basta: gregario era e gregario è rimasto. I Gasparri, i La Russa, i Matteoli, gli Urso, gli Alemanno e gli altri “colonnelli” dell’ex Msi gongolano: ora sono ai piani alti di un partitone di maggioranza relativa, che aspira al 50% dei voti. Non male, per essere partiti come dirigenti del Fronte della Gioventù, trattati come degli appestati nella Prima Repubblica dell’arco costituzionale e del “fascisti carogne tornate nelle fogne”.Carrieristi soddisfatti tutti quanti,gli ex gerarchi missini che ora fanno atto di fede nei “valori” proclamati da Silvio, presidente per acclamazione in un’investitura truffaldinamente chiamata congresso. E invece non c’è stato nessun congresso. Né valori o ideali, a parte la recitazione dei mantra di facciata (libertà, democrazia, eccetera) dietro cui imperano venalità, arrivismo sociale, egoismo individualistico e ossessione cieca per il mercato. E non si venga a dire che An, in fatto di regole di partito e patrimonio ideale, porta una dote migliore rispetto ai fagocitatori forzisti. Gli ideali li hanno dimenticati per il successo, i figliocci di Giorgio Almirante.Che del resto è stato,più di Bettino Craxi - ricordato da Berlusconi, giustamente, come suo padrino - il vero precursore di questa sottospecie snaturata di destra vuota, né liberale né conservatrice, ma solo berluscocentrica. «Io non voglio morire da fascista.Tanto che sto lavorando per individuare e far crescere chi dovrà prendere le redini del Msi dopo di me. Giovane, nato dopo la fine della guerra. Non fascista. Non nostalgico. Che creda, come ormai credo anch’io, in queste istituzioni, in questa Costituzione. Perché solo così il Msi può avere un futuro»2: questo diceva, rigorosamente a taccuino chiuso, il capo carismatico del neofascismo italiano al giornalista Daniele Protti dell’Europeo, nel 1982. Il futuro vagheggiato da Almirante è arrivato. Con la sistematica negazione, in questi ultimi anni, di qualunque vero confronto congressuale all’interno di An: troppa strizza, rischiavano imbarazzanti sconfessioni dalla base, Fini e il suo stato maggiore. Con la costruzione di un pantheon intellettuale di riferimento che sembra una maionese impazzita, con dentro tutto e il contrario di tutto. Croce e Gentile, Gramsci e Pareto, Pound e, perché no, anche Popper. Però Mussolini, il faro di una vita, no: non è più statista del secolo, per il campione di ravvedimenti cronometrati sulla convenienza, l’ex fascista del 2000 Gianfranco. E con il tatticismo esasperato che di tattico non aveva nulla, visto che non c’era e non c’è neppure adesso una strategia. Quali sono i punti strategici di un’An incorporata nella Corporation della Libertà? Chi lo sa. Non lo sa Fini e non lo sa nessuno del management colonnellesco. Perché non gliene importa niente. Loro badano al sodo: il potere per il potere. L’interesse per l’interesse. E così si intruppano felici nel partito-azienda. Il loro motto di un tempo era “non restaurare, non rinnegare”. Hanno rinnegato tutto. E il prezzo dello sdoganamento, dice bene un cane sciolto un tempo a destra come Franco Cardini, «è già la perdita d’identità: il totale cedimento a una forza liberista, occidentalista, atlantista, che ha il suo reale punto di forza nella monopolizzazione della paura di una società civile che si sente arrivare addosso la prossima crisi mondiale e reagisce solo invocando maggior “sicurezza” e rispolverando le vuote banalità retoriche del Dio-Patria-Famiglia»3.
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I Fini-boys sono stati bravi: nel manipolare a tal punto la realtà da illudere la gente di An che quest’evoluzione pilotata e farlocca conservi una sostanziale continuità ideologica con la Fiamma. E ci sono riusciti nel più facile dei modi: rinviando sempre la verifica delle idee. Il momento della verità non è venuto e non ci sarà mai più. Nessuno ha potuto chiedere al glaciale Gianfranco di motivare il salto ideologico fra quanto asseriva vent’anni fa, allora giovane e “idealista” segretario del Movimento Sociale («Credere profondamente nell’uomo che non vale solo per quello che produce ma per ciò che è. Sentirsi profondamente radicati nella nostra nazione e nella nostra Europa. Sentire la necessità di una terza strada tra comunismo e capitalismo»4) e quanto sostiene oggi, per esempio quando boccia leggi perché puzzano di “Stato etico”, cioè di Stato fascista. Ha ragione il francese Alain De Benoist, che infatti di destra non è più da un pezzo perché ha smesso di credere alle destre pataccare e vendute: «Quella attuale è una destra senz’anima e senza idee, ma dominata dal denaro. Quelle correnti della destra che in passato guardavano con sospetto il denaro, l’individualismo e il dominio dell’economia sulla politica oggi hanno pienamente accettato questa prospettiva, aderendo in toto al capitalismo e al mercato. La destra è diventata una coalizione di interessi, che sul piano internazionale fa parte del grande club occidentale contrapposto al resto del mondo»5. Il berlusconismo, via italiana all’americanismo politico, ha vinto. E la “destra nazionale” almirantiana e finiana si è fatta docilmente e interessatamente inglobare. Grazie soprattutto all’ipocrisia del suo leader, che da Presidente della Camera fa i predicozzi sul rispetto delle forme democratiche e poi porta all’eutanasia il suo partito senza uno straccio di democrazia interna né una parvenza di discussione programmatica. «Siamo alla comica finale, noi non entreremo mai nel Popolo della Libertà e Berlusconi non tornerà mai più a Palazzo Chigi con i voti di Alleanza Nazionale», aveva declamato sprezzante Fini quando il principale annunciò la nascita del PdL sul predellino di una macchina, con contorno di piazza spontaneamente telecomandata. Di comico, invece, c’è solo lui. Tragicamente comico. Grottescamente ipocrita. Berlusconianamente Fini.
Alessio Mannino
note: 1.«Anche un ascolto o una lettura superficiali del discorso di Silvio Berlusconi al Congresso di fondazione del Popolo della libertà consentono di coglierne immediatamente il cuore ideologico: è l'anticomunismo. Tutto il resto appare solo accennato, sbrigato in poche parole e comunque affatto generico», E. Galli Della Loggia, Le ombre del passato, Corriere della Sera, 29 marzo 2009. 2.D. Protti, Quando Almirante disse…, L’Europeo, marzo 2009. 3. F. Cardini, L’epilogo occidentale della destra italiana, HYPERLINK "http://www.francocardini.net" www.francocardini.net, 22 marzo 2009 4.G. Fini, L’Europeo, 1988 5.Alain De Benoist, La Repubblica, 24 marzo 2009
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PROSPETTIVA
Chávez, El Pueblo Unido
S
L’Occidente lo considera un megalomane. Ma la sua “rivoluzione bolivariana” trionfa in Venezuela. E accende l’America Latina di Alessia Lai
ono passati dieci anni dall’arrivo di Chávez al potere. La vittoria della enmienda, il referendum con cui il 15 febbraio scorso sono stati approvati cinque emendamenti costituzionali che consentono la candidatura indefinita per le cariche elettive designate con voto popolare, prima fra tutte la presidenza della Repubblica, ha coinciso con il decennale dell’ascesa del chavismo al potere. La visione non casualmente distorta di questo processo referendario data dai mass media occidentali è stata l’ennesimo segnale di insofferenza di una parte del mondo nei confronti della Rivoluzione bolivariana di cui il presidente venezuelano si fa portatore. In Italia come in Spagna, in Francia come negli Stati Uniti, la propaganda del grande capitale, quella maggiormente impegnata nel tentativo di ridicolizzare o abbattere le aspirazioni sociali bolivariane e la conseguente rinascita del ruolo dello Stato contro il predominio delle corporation economico-finanziarie, ha puntato il dito contro un referendum fatto passare come l’imposizione di una carica presidenziale vitalizia. Nella falsa dialettica di un emisfero autoproclamatosi democratico il messaggio che è stato fatto passare è a senso unico: con il voto del 15 febbraio Chávez ha legalizzato una dittatura. Eppure, il referendum non proponeva questo, ma la possibilità di candidatura senza limite di mandati. E non solo per Chávez, ma per chiunque voglia accedere ad una carica elettiva con voto diretto. Quello che in occidente non è stato volutamente sottolineato è che, pur potendosi ripresentare alle consultazioni, non è detto che gli elettori decidano di scegliere per la continuità di un Chávez, così come per un qualsiasi deputato o amministratore locale. È solo l’ultimo dei numerosi e frequenti tentativi del cosiddetto “fronte democratico”, al di qua e al di là dell’oceano Atlantico, di screditare un potere da dieci
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anni chiaramente e cristallinamente derivato dal volere popolare. Questa ennesima vittoria alle urne, alla faccia di chi trova “carenze democratiche” nella presidenza Chávez, ha dato il via ad una nuova fase della rivoluzione bolivariana: quella dell’implementazione del “socialismo del XXI secolo” e dell’integrazione, della creazione del blocco geopolitico latinoamericano. È infatti una rivoluzione in divenire, quella nel nome di Simon Bolivar, di cui fa parte, dal 2005, il progetto della realizzazione di quello che il presidente venezuelano ha battezzato il “socialismo del XXI secolo”. Parole che spaventano, in primis, Washington, che nel giro di pochi anni ha visto sfuggire al suo controllo, uno dopo l’altro, la maggior parte dei Paesi latinoamericani. Paesi che proprio sulla spinta del Venezuela stanno acquisendo una consapevolezza anestetizzata da anni di “laboratorio neoliberista” applicato con una spudoratezza tale da permettere di passare sopra a qualunque diritto umano, politico, sociale, dei popoli latinoamericani. Quella fase si è conclusa, o si sta avviando verso la fine, e gran parte del merito risiede nel vento di cambiamento arrivato da Caracas, passato per Porto Alegre, in Brasile, ed estesosi, in misura
Difficile dimenticare il modo in cui i media dipingevano i golpe militari in America Latina, spacciandoli per l’unica alternativa agli spauracchi del socialismo o del comunismo. diversa per adesione e intensità, a tutta l’area centro e sudamericana. L’ALBA, L’Unasur, il Petrocaribe, il Mercosur, sono strutture che fanno parte di questa nuova onda integrazionista latinoamericana partita dai “barrios” della Caracas bolivariana. Quelli della presidenza Chávez sono stati dieci anni difficili, costellati di vittorie elettorali, e quindi democratiche nonostante in molti – anche i socialdemocratici di casa nostra, spaventati dalla divisa di Hugo Chávez, etichettato come un nuovo caudillo sudamericano – dicessero e dicano il contrario. Anni di cambiamenti ai quali le oligarchie filo imperialiste venezuelane, orfane di una classe dirigente corrotta che ne garantiva la sopravvivenza a fronte dell’80% della popolazione in uno stato di miseria assoluta, hanno
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risposto di volta in volta con atti violenti che, ormai fuori tempo e fuori contesto, sono miseramente falliti. Fuori tempo perché gli anni dei golpe finanziati ed eterodiretti dal dipartimento di Stato Usa erano caratterizzati dalla mancanza di una alternativa d’opposizione all’informazione ufficiale. Difficile dimenticare come per decenni i mass media dipingessero la presa del potere in America Latina da parte di gerarchie militari corrotte e violente quale unica soluzione necessaria a tutelare i cittadini dai più o meno presunti fantasmi socialisti, comunisti, piuttosto che social-cattolici. Un’attitudine possibile anche grazie alla totale mancanza di consapevolezza da parte delle masse popolari, costrette nella miseria e nell’ignoranza, di poter
L’esercito era formato per il 99,9 per cento da contadini, operai, uomini dei ceti medio-bassi. E comprese subito che genere di cambiamento stesse apportando Chávez al Venezuela. essere forza e colonna portante di una Nazione. Un sentimento e una coscienza che Chávez ha saputo restituire, prima ai venezuelani e poi, di riflesso, ai popoli vicini. Sette anni fa, quando le oligarchie capitaliste di Caracas e Maracaibo cercarono di prendere il potere esautorando con la forza il legittimo presidente, iniziava ad esistere una rete telematica che consentiva, già allora, di accedere ad informazioni altrimenti impossibili da acquisire. Ad essa si unì, in quel giorni del golpe del 2002, la grande forza del popolo venezuelano, che aveva assaggiato i primi anni di un cambiamento percepito soprattutto dalle classi sociali più derelitte e disagiate. L’esercito, formato per il 99,9% da «contadini, operai, gente che viene dai ceti medio-bassi», come ha avuto modo di spiegare lo stesso presidente in una intervista concessa anni fa a Gianni Minà, percepiva che genere di cambiamento Chávez aveva cominciato a portare nel Paese. Parte di questo mondo con le stellette lo aveva già appoggiato nell’insurrezione del 1992, nata sull’onda del cosiddetto “Caracazo” del 1989, quando migliaia di manifestanti scesi nelle strade per protestare contro il pacchetto di riforme iper liberiste imposto dal governo di Carlos Andrés Pérez, vennero massa-
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crati senza pietà. Per il fallimento della rivolta armata da lui guidata, l’attuale presidente venezuelano scontò due anni di carcere. Ma allora quel manipolo di militari aveva una forza limitata, la ribellione non poteva essere stata un golpe, visto che non erano presenti “alti papaveri” tra le loro fila ma si trattava di una rivolta armata di gente del popolo in grado, per il lavoro che svolgeva, di ricorrere alle armi. Dopo quel fallimento la classe militare ebbe modo di riscattarsi in occasione del golpe, quello vero, attuato contro
La rivoluzione bolivariana cammina ormai sulle proprie gambe. È un processo lento, graduale, che deve rigenerare un Paese rimasto troppo a lungo nelle mani di élites dedite soltanto al potere e al denaro. Chávez anche da altri settori delle forze armate, quelli elitari, vicini all’ambasciata Usa di Caracas. Furono i paracadutisti venezuelani a liberare il presidente e a riportarlo a Palacio Miraflores, appoggiati da imponenti manifestazioni popolari in favore di Chávez. In pochi giorni il tentativo di destituire colui che dalla stampa asservita alle oligarchie veniva definito un dittatore (ma democraticamente eletto) era giunto alla fine, con il fallimento dei golpisti che dalla Casa Bianca e dalla Moncloa presieduta dal leader del Partido Popular spagnolo Aznar erano stati immediatamente riconosciuti come un governo legittimo solo poche ore prima della disfatta. Fallito il tentativo diretto di allontanare Chávez dal potere, gli stessi organizzatori del golpe passarono al boicottaggio, attraverso le loro quinte colonne, dell’industria petrolifera nazionale. Volevano mettere in ginocchio il Paese, erano disposti a mandare in rovina tutto il Venezuela pur di riprenderne il controllo. Anche allora il progetto è fallì. Come fallisce la quotidiana, puntuale, diffamazione che da dieci anni a questa parte i mezzi di comunicazione privati in mano alle opposizioni fanno del primo mandatario e delle sue iniziative. La rivoluzione bolivariana cammina ormai sulle proprie gambe. È un processo lento, graduale, perché è impossibile cambiare in un batter di ciglia un Paese per anni ostaggio di élites dedite esclusivamente alla spartizione del potere e del denaro da esso proveniente. Chávez ha iniziato con l’istruzione, garantendo a tutti i bambini del Venezuela una scuola completamente gratuita mentre prima non lo era. Si può ben immaginare come, in un Paese con un tasso di povertà altissimo, fossero molto poche
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le famiglie che potevano permettere ai loro figli di conseguire anche la sola istruzione elementare. Questo accadeva negli anni ’90, pochi anni fa. Oggi i bambini venezuelani frequentano la scuola, dove fanno colazione, pranzano, studiano e fanno attività sportiva. Lo stesso tipo di stravolgimento è stato riservato al settore sanitario, prima appannaggio esclusivo di chi poteva pagarlo, oggi gratuito e diffuso anche nelle zone più remote del Paese. Dopo queste misure di intervento “immediato”, successive alla prima elezione di Chavez, sono arrivate la legge sulla redistribuzione dei latifondi improduttivi e quella sugli idrocarburi, secondo cui almeno il 51 % delle azioni dell’aziende strategiche del settore, un tempo pubbliche prima delle privatizzazioni selvagge degli anni ’80 e ’90, doveva tornare nelle mani dello Stato. La borghesia venezuelana non tollerava e non tollera che il governo Chávez utilizzi il denaro proveniente dalla vendita del petrolio, per mettere in atto i cambiamenti previsti dalla rivoluzione bolivariana, cambiamenti tangibili che mirano a migliorare la qualità della vita di una popolazione fino a pochi anni fa destinata alla miseria più assoluta nonostante il paese galleggi su un mare di “oro nero”.
L’indice di povertà è sceso dal 50 al 30 per cento. Quello di indigenza dal 21,7 al 9,9. Il 96 per cento dispone di acqua potabile. L’analfabetismo è un ricordo. Non sono cifre fornite da Chávez. Sono i dati ONU. Occorrerebbero molto tempo e molto spazio per raccontare e spiegare come la rivoluzione bolivariana di Chávez ha cambiato il Venezuela in questi dieci anni. Non basta, certo, ma già le sole cifre dei risultati dicono tanto: ha dimezzato la povertà e la disoccupazione. Ha spostato, seppure in minima parte visto il potere delle opposizioni che lo gestiscono, il baricentro di un’informazione mediatica espressione del “pensiero unico”, dando voce, anche nelle televisioni, a quel Venezuela mai interpellato dalle classi dirigenti. Secondo il CEPAL, l’istituto di studi economici delle Nazioni Unite, ha fatto passare gli indici di povertà dal 50 al 30% e quelli di indigenza dal 21.7 al 9.9%. È stato costruito da zero o quasi un sistema di salute pubblica che ha permesso la più grande riduzione al mondo della mortalità infantile. Dal 2005 l’UNESCO ha dichiarato il Venezuela libero dall’analfabetismo; il 96% dei venezuelani ha oramai accesso all’acqua potabile.
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Mentre faceva tutto questo e implementava il “socialismo del XXI secolo”, tutelando il potere d’acquisto dei cittadini, imponendo prezzi calmierati per i beni di prima necessità, Chávez subiva attacchi di ogni genere da parte delle opposizioni filo
Il progetto bolivariano - spiegò Chávez in un’intervista rilasciata a Minà, quando la sua esperienza presidenziale era ancora agli inizi - spezza o cerca di spezzare il giogo del pensiero unico neoliberista. atlantiche, dal colpo di stato al blocco del settore petrolifero e delle infrastrutture. E nonostante tutto vinceva, sempre. Votato e scelto dal suo popolo, che lo ha difeso e ha permesso che Chávez diventasse anche il motore di una integrazione latinoamericana che si sta concretizzando negli ultimi anni. La rivoluzione bolivariana, infatti, con il vento di cambiamento portato da Caracas, si fa sentire in tutto il continente. Il suo nome non è lo stesso in Bolivia, in Ecuador, in Argentina o in Brasile, ma con sfumature e parole diverse rappresenta un cambiamento radicale nel continente latinoamericano. Nell’intervista rilasciata a Gianni Minà agli inizi della sua esperienza presidenziale, Hugo Chávez spiegò che il progetto bolivariano non poteva essere definito «ortodossamente socialista», «però non è nemmeno un progetto capitalista. Spezza o cerca di spezzare il giogo del pensiero unico neoliberista. Certo, siamo solo agli inizi, ma credo che questo seme azzurro che ho in mano, la nostra Costituzione (approvata nel 1999, ndr,) stia cominciando a germogliare in molti altri popoli, dove avrà magari colori, radici e caratteristiche diversi». Questo è accaduto e accade nel continente latinoamericano. Il cambiamento si chiama Lula in Brasile, Kirchner e Fernandez in Argentina, Correa in Ecuador, Morales in Bolivia, Ortega in Nicaragua, Lugo in Paraguay, e di recente, Mauricio Funes nel piccolo El Salvador, che dopo 20 anni di destre reazionarie e filo-Usa ha scelto il Frente Farabundo Martì di Liberacion Nacional.
Alessia Lai
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PROSPETTIVA
“Nunca mas”
Mai più desaparecidos
La crisi economica può spianare la strada ai governi autoritari. Come quello che dal 1976 al 1981insanguinò l’Argentina di Bianca Berardicurti […] per questo non ti nascondo che mi hanno dato tante di quelle scosse elettriche Che a momenti mi massacravano i reni Tutte queste piaghe, questi gonfiori e ferite Che i tuoi occhi rotondi Guardano ipnotizzati Sono durissimi colpi Sono stivali presi in faccia, troppo dolore perché io te lo nasconda supplizio troppo grande perché mi si cancelli di dosso. Ma è anche bene che tu sappia Che tuo padre è stato zitto O ha imprecato come un pazzo Che è un bel modo di stare zitti. […] Mario Benedetti.
N
on è un caso che proprio nei giorni recenti si cerchino paralleli nel passato per cercare di comprendere la situazione attuale. Per avvicinarsi a qualcosa di già successo, dunque di commensurabile, al fine di trovare risorse almeno mentali per abbozzare un intervento. E non è un caso che si torni con la mente alla crisi del '29. Oppure ai fatti recenti di Islanda. Il che è comprensibile: in un momento di buio e senza strategie plausibili per tornare a vedere la luce, per orientarsi si può utilizzare la conoscenza del passato. Non è dunque esercizio sterile (anzi, al contrario) tornare all'esperienza argentina, paradigma di qualcosa che è difficile sostenere con certezza che oggi (o domani) non possa più accadere, sebbene in forme anche differenti.
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Nel 1984 La Commissione Nazionale sui Desaparecidos argentini consegna la propria relazione al Presidente della Repubblica. I dati che emergono da quelle pagine sono scioccanti per un paese che esce in ginocchio dagli anni che ricorderà come i più bui della propria storia: le persone scomparse durante la dittatura militare dal 1976 al 1983 sono circa trentamila; un milione gli esuli, novemila i prigionieri politici. Circa quindicimila le persone fucilate per la strada. Un totale infame di vite violentate senza pietà e una cicatrice indelebile che attraversa tutta l’Argentina. Nel 1976, il 24 marzo, Jorge Rafael Videla capeggia il colpo di stato che apre il Processo di Riorganizzazione Nazionale che governerà sanguinosamente l’Argentina per sette lunghissimi anni. Non fu una sorpresa: un colpo di Stato non arriva all’improvviso, e non è all’improvviso che un paese diventa prigioniero nei suoi confini. Il golpe del 1976 fu il tristissimo esito di un lungo processo di assoggettamento del paese al potere militare; frutto di anni di lotta tra le forze della democrazia e quelle della repressione; tra le forze dei diritti umani e la loro negazione, tra la trasparenza e l’oscurantismo.
Quelli che precedono il golpe del ‘76 furono anni di “educazione” alla repressione e alla progressiva perdita delle libertà, sotto gli occhi di tutti. Ma troppi fecero finta di non vedere. Ancora una volta la storia stupisce nel rivelarsi talvolta semplice e manichea nella sua tragicità, quando gli eventi vengono ridotti alla loro sostanza. Il golpe non arrivò senza preavviso, ma fu preceduto da anni di riorganizzazione e di rafforzamento interno del potere militare; anni durante i quali l’intensità di questo potere oscillò, come oscillarono gli umori sociali dai quali fu talvolta persino supportato. Quelli che precedono il golpe del 1976 furono anni di “educazione” alla repressione e alla progressiva perdita delle libertà, sotto gli occhi di tutti. Milioni di occhi spettatori di questo processo, molti dei quali drammaticamente chiusi, o puntanti dalla parte sbagliata. Quando nel 1966 il Generale Ongania destituì il presidente Illia, in particolare, gli occhi erano puntati sulla
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situazione di crisi che attraversava il paese, sotto molteplici punti di vista. Una sfiducia generalizzata nei confronti di una politica marcia e incapace di reagire con spirito modernizzatore alla staticità dell’Argentina; l’effettiva debolezza del potere politico rispetto a quello militare;un forte declino economico e sociale: tutti questi motivi comportarono l’appoggio di parte della società civile e della maggioranza dei partiti (compresi quelli di sinistra) all’avvento del regime militare, comunemente avvertito come l’unica speranza per un intervento deciso ed energico. Naturalmente non tutti accolsero con plauso il governo militare: ad iniziare da Cordoba ed espandendosi poi a macchia d’olio per tutto il paese si susseguirono proteste studentesche e
Quando il nemico del popolo è il potere sovrano, il potere sovrano deve indicare un altro nemico, ben visibile. Il pericolo dei ribelli comunisti diventò la scusa per le esecuzioni sommarie. sindacali che si trasformarono con il tempo in un enorme movimento popolare di protesta contro il governo che nel frattempo aveva intrapreso una politica disastrosa a livello economico, un’azione di fortissima repressione contro i movimenti sindacali, e che aveva comportato un blocco completo dello sviluppo scientifico con conseguente e continua fuga all’estero dei migliori ricercatori. All’interno del movimento popolare contro il governo si aggrega un’ala più radicale, estrema e armata, formata dai Montoneros, dall’Ejercito Revolucionario del Pueblo, di stampo trozkista e Fuerzas Armadas Revolucionarias, convinte dell’impossibilità di recuperare la vera sovranità popolare attraverso il recupero potere politico con mezzi di tipo democratico e prescindendo dall’uso della forza. Gli anni successivi si caratterizzeranno per un’azione abbastanza costante di questi gruppi, di cui solo quello dei Montoneros finirà per spalleggiare il ritorno di Peròn, e dalla lotta tra questi e il potere politico, favorendo, paradossalmente, la posizione dei militari; quando il nemico del popolo è il potere sovrano, il potere sovrano deve indicare un altro nemico, ben visibile: la lotta al pericolo dei ribelli comunisti fu da quel momento il lasciapassare verso l’esecuzione sommaria e irra-
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gionevole di molti studenti e rappresentanti sindacali, anche se non coinvolti nella lotta armata, con il placet, o almeno l’indifferenza, di gran parte della società borghese. Potrebbe sembrare assurdo a dirsi, ma ancora, in quel momento, l’Argentina poteva contare su un sistema non completamente marcio, e sullo sbocco in una soluzione democratica: le esecuzioni e le uccisioni erano esemplari, violente, ingiustificabili, ma avvenivano alla luce del sole. La forza del regime non era ancora organizzata abbastanza, né abba-
La Storia è fatta anche di questo, di uomini sbagliati e mentalità criminali in posizioni chiave della politica: persone che in modo oscuro e perverso esercitano la propria influenza sui processi decisionali. stanza forte ed indiscussa, da perpetrare abusi, omicidi e violenze senza assumerne la responsabilità davanti ai cittadini. Lo sbocco democratico e il ritorno di Campora, uomo di Peron, e poi di Peron stesso con il sessantacinque per cento dei voti, lasciarono sperare in una nuova primavera argentina. Per la prima volta nella storia del peronismo il presidente era appoggiato da gran parte dei giovani studenti, espressione della classe degli intellettuali; i provvedimenti presi dal governo Campora fecero pensare a un socialismo avanzato e moderno. Ma i segnali di pericolo si manifestavano senza destare il dovuto allarme: l’uccisione di centinaia di giovani della sinistra peronista al ritorno del presidente, allora esule a Madrid, all’aereoporto di Ezeiza, l’atteggiamento ambiguo e debole del terzo mandato Peron, che si schiera talvolta persino contro i giovani della sinistra e contro i “Montoneros imberbes”, come li chiamò al suo ritorno in Argentina; le notizie di riorganizzazione delle forze militari. E l’elezione di Lopez Rega al ministero del “bienestar social”: perché la Storia è fatta anche di questo, di uomini sbagliati e mentalità criminali in posizioni chiave della politica; di persone che esercitano la propria influenza in modo oscuro e perverso sui processi decisionali. Lopez Rega, detto “el brujo” (lo stregone) ex poliziotto, massone, esperto di esoterismo, rappresenta l’anello di congiunzione tra la fine della dittatura di Ongania, la breve parentesi democratica, e la definitiva rovina con il Golpe di Videla. È Lopez Rega che governa dietro la facciata di Isabelita Peron, succeduta al marito dopo la sua morte; lui a prendere misure economiche sbagliate e conservatrici, aumentando verti-
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ginosamente l’inflazione e svalutando la moneta. Lopez Rega fu il creatore della “triple A” , l’alleanza anticomunista argentina, che già dal ritorno di Peron, sporadicamente e durante il governo della debole e soggiogata Isabelita, con molta più costanza, si macchiò di numerosi omicidi e sparizioni. In questo contesto di confusione, insicurezza e instabilità, di guerriglie urbane e proteste, nonché di forte disagio economico, fu facile per il potere militare, nel frattempo ricompattatosi, tornare a profilarsi all’orizzonte come figura salvifica. E invece di salvarlo, il Paese, con il pugno di ferro e la mano forte, il governo militare lo schiaffeggiò fino a lasciarlo esanime, devastandone l’economia con provvedimenti illiberali e irragionevoli, portando l’inflazione a livelli mai toccati prima in Argentina. Ma soprattutto reprimendo con inaudita violenza qualunque forma anche non minacciosa o non violenta di dissenso contro la dittatura: «prima uccideremo tutti i sovversivi, poi uccideremo i loro collaboratori, dopo i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti ed infine i timidi», dichiara il Generale Iberico Saint Jean, governatore di Buenos Aires. La dittatura militare e il suo braccio esecutivo portato a spas-
Anche questa vicenda si inserisce in una fase storica in cui il Sudamerica era il Medio Oriente delle grandi potenze. Un bacino di risorse umane ed economiche manovrate e sfruttate dai soliti noti. so sulle ormai famigerate Ford Falcon, torturarono, uccisero e fecero scomparire migliaia di persone, con macabra fantasia, passando per le scosse elettriche, per gli stupri collettivi di donne davanti ai loro genitori, compagni o figli, fino ad arrivare ai famosi “vuelos de la muerte” durante i quali i prigionieri venivano gettati in mare o nel Rio, i più fortunati sotto l’effetto di sostanze soporifere. Questa fantasia, tuttavia, come più in generale la politica dittatoriale, non fu opera di un gruppo isolato di menti criminali che agivano per scopi e su piani meramente personali: anche questa vicenda si inserisce in una fase storica in cui il Sudamerica era il Medio Oriente delle grandi potenze, un bacino di risorse umane ed economiche manovrate e sfruttate dai soliti noti, di cui tutt’oggi subiamo gli umori spesso senza batter ciglio. La vicenda dell’Argentina e lo stupro della sua democrazia costituiscono una pagina buia e cruenta del Novecento occi-
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dentale, di cui non si parla e non si è parlato mai a sufficienza. Ma l’esercizio della memoria senza una critica è spesso sterile, e finisce per tornare in sé; è per capire, che si deve ricordare. Per capire che la dittatura non raggiunge mai i suoi
Le libertà non vengono sottratte tutte insieme, ed è da quelle che sembrano superflue che il potere comincia. Dalle libertà quotidiane che sembrano insignificanti. Che non destano allarme. tristi apici senza un lungo processo di educazione di un popolo alla sottomissione e di diseducazione alla schiena dritta; che le libertà non vengono sottratte tutte insieme, ed è da quelle che sembrano superflue, che il potere comincia a lavorare. Dalle libertà quotidiane, apparentemente insignificanti, che non destano allarme. Per capire che la ribellione deve essere vigile attenta e costante, perché possa zampillare ogni volta che una parte sottile dei nostri diritti ci viene negata o anche solo quando si tenta di farlo. Perché la ribellione deve essere uno stato mentale e sociale, senza di che, purtroppo come spesso accade, rischia di essere drammaticamente intempestiva.
Bianca Berardicurti “ Piangi, piangi pure figlio mio. È una bugia quella che gli uomini non piangono. Qui piangiamo tutti. Gridiamo, strilliamo, ci affanniamo, protestiamo Malediciamo. Piangi, ma non dimenticare.”
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PROSPETTIVA
Social Network il paese dei balocchi (altrui)
S
Entrarci è facilissimo. E la regola è mettere in mostra tutto, o quasi, quel che ti riguarda. Un mucchio di dati che non potrai più cancellare di Giuseppe Carlotti*
ocial network, ovvero “Rete sociale”. Una grande promessa: chi non ha abbastanza amici nella realtà “reale”, potrà finalmente averne a bizzeffe nella realtà “virtuale”. Ma è tutto così semplice? Dietro il boom di portali come Facebook, MySpace o ASmallWorld non c’è soltanto il bisogno di ritrovare vecchi compagni di scuola che si credevano perduti per sempre negli scompartimenti della memoria. C’è - soprattutto - un enorme business che ruota proprio attorno agli utenti i quali, manco a dirlo, sono gli inconsapevoli e minutissimi ingranaggi di un gigantesco meccanismo mangiasoldi e mangiaprivacy. Iscriversi ad un social network come Facebook o MySpace è estremamente semplice: bastano un’email e cinque minuti di pazienza. Ecco subito il primo punto a vantaggio della macchina mangiaprivacy: i dati immessi su questa tipologia di siti internet sono solitamente veritieri ed attendibili. Infatti, se invece di registrarmi con il mio vero nome mi registrassi su Facebook come il signor Pinco Pallino, come farebbero i miei amatissimi ex compagni delle elementari a rintracciarmi? La griglia di iscrizione iniziale, oltre a domandare nome e cognome, chiede anche data di nascita, città di residenza, email, numero di telefono cellulare e moltissimi altri dati, come ad esempio orientamento religioso e convinzioni poltiche. Tutto materiale utilissimo per catalogare, schedare eppoi rivendere a terzi tonnellate di contatti validi e dettagliatissimi ai quali successivamente propinare paccottiglia varia come magliette personalizzabili o creme all'aloe vera, a seconda della propensione all'acquisto del singolo utente. Dietro siti internet come Facebook, infatti, si celano mastodontici meccanismi che spiano ogni nostra azione sulla rete ed ogni nostra ricerca di pagine su internet, ne valutano i possibili risvolti commerciali ed impostano una “contromossa per poterci vendere qualcosa”. Ecco un meraviglioso esempio che potete provare anche voi a casa: anziché andare a cercare su Facebook la vostra
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vecchia cara fidanzatina Moira, provate a cercare marchi come Dior, McDonald’s, Coca Cola. Sono tutti registrati, e spesso offrono anche l’occasione di inviare agli altri utenti fotografie, giochini elettronici ed altre inutili cazzate promozionali ideate per compiere quell’azione che in termini di marketing si chiama “branding”, ovve-
Nel regolamento dei social network c’è un codicillo che passa inosservato: qualsiasi cosa venga immessa dagli utenti diventa di proprietà dei gestori. Che possono farne quel che vogliono. ro diffondere un marchio ed i valori ad esso connessi. Anche gli utenti possono promuovere su Facebook un loro prodotto oppure un loro servizio: basta pagare. Esiste infatti un apposito link “Pubblicità”, che spiega quali siano gli enormi vantaggi della promozione tramite social network. Nel caso si voglia invece sfruttare gratuitamente il portale per scopri meramente personali, ad esempio promuovere un libro oppure una raccolta di poesie oppure per diffondere fotografie artistiche, immagini di proprie opere d’arte o anche il semplice e banalissimo lavoretto di bricolage del genere “questo l’ho fatto io”, il regolamento dei social network, una specie di colossale “codicillo” composto da migliaia di parole che normalmente i singoli utenti approvano all’atto dell’iscrizione senza nemmeno degnarsi di leggerlo, parla estremamente chiaro. Vi è scritto, tra l’altro, che qualunque contenuto multimediale (testo, musica, immagini e video) venga immesso dagli utenti sul portale internet diventa automaticamente una proprietà del social network stesso a livello di diritti e di copyright. Secondo le condizioni di iscrizione a Facebook, ad esempio, i contenuti sono proprietà del sito, che è libero di rivenderli e trasmetterli a terzi, e di (questa è una vera chicca) conservarli anche dopo la cancellazione degli utenti. Cioè, se un mio amico decide di pubblicare per scherzo una foto del mio pisello scattata sotto la doccia al termine di una partita di calcetto, ed io decido di telefonargli per obbligarlo a cancellarla immediatamente, ecco che Facebook si arroga il diritto di “conservare” l’immagine del mio ammennicolo a futura (ed imperitura) memoria nel proprio immenso archivio digitale. Inoltre, se per ipotesi io pubblicassi on-line e gratuitamente un mio romanzo su Facebook e successivamente decidessi di farne un libro da vendere in
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libreria e, poniamo il caso, questo libro venisse anche acquistato da una casa di produzione cinematografica con l’intento di farne un film…beh! Rischierei seriamente di ritrovarmi ad avere Facebook quale socio forzato, nonché “fraterno” condivisore di tutti i miei introiti. Fin qui la “macchina mangiasoldi” e la “macchina mangiaprivacy”. Ma non è finita. Quanti dipendenti – pubblici o privati che siano - perdono il proprio tempo con i social network anziché lavorare? Sono quasi 4700 gli aderenti al gruppo "Cazzeggio al lavoro con Facebook". 200 mila per la petizione anti Gelmini, più di 50 mila per il gruppo "Silvio, sei hai i capelli è per merito della ricerca". Il gruppo Poste Italiane, recentemente, ha negato l'accesso a Facebook per i suoi dipendenti e al comune di Napoli l'hanno “razionato”: un'ora al giorno, suddiviso in razioni da 10 minuti l'una. Eppure l’ondata di iscrizioni è inarrestabile: a settembre 2008 erano iscritti al solo Facebook italiano ben 4,2 milioni di utenti.Tutti fannulloni che andrebbero licenziati? “Ma poi” - si legge su Repubblica - “chiedi alla Fiat, nel posto che ti immagini più occhiuto e severo d'Italia. E scopri che al marketing tengono tutti i modelli su Facebook perché così li promuovono meglio.” Il presidente dell'Autorità garante della privacy Francesco Pizzetti ha recentemente dichiarato: «Estendendo l'uso della rete e dei social network come Facebook, attraverso i quali la gente mette sul web
Se oggi un diciottenne cerca foto porno su Facebook, la ricerca viene registrata e archiviata. E tra 40 anni, magari, la si utilizzerà per screditare l’ex ragazzo divenuto famoso. informazioni sui propri comportamenti cresce sempre più il rischio che utilizzando un semplice motore di ricerca in qualunque momento chiunque possa venire a conoscere queste informazioni. Rischiamo di essere la prima generazione destinata a portarsi dietro tutto il proprio passato perché i dati che mettiamo in rete non sono cancellabili e possono sfuggire al nostro controllo». Eh già. Perché se oggi un diciottenne in preda ad una crisi ormonale decide di cercare su Facebook le fotografie di una pornostar (ad esempio provate con “Jenna Jameson”) oppure le istruzioni per compiere una qualsiasi pratica sessuale (ad esempio provate
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con “Pompino”, dove - tra l’altro - si legge: “La cosa più bella al mondo per un uomo e sicuramente, a volte, molto meglio di una sana scopata! L'erotismo sta alla pornografia come la fellatio sta al pompino!”), magari tra quarant’anni qualcuno potrà tirare fuori quella ricerca a scopi denigratori. Un’autentica manna per screditare gli avversari in caso di elezioni politiche, ad esempio. Ecco perché i social network sono rischiosi: possono agire infatti come mezzo di controllo e di ricatto delle masse, oltre che come autentica miniera di dati. Il tutto senza contare le truffe telematiche ed i furbetti che riescono a cavare dati da questi portali in modo illecito ma comunque ingegnoso. Due studenti del MIT, nel 2006, riuscirono ad esempio a scaricare
Le reti sociali sono soggette al fenomeno della creazione di falsi profili di personaggi famosi. Quello su Alessandro Del Piero, per esempio, celava un gruppo neonazista. più di 70.000 profili di Facebook utilizzando uno piccolo software automatico. Nel 2008 un programma della Bbc, "Click", mostrò che era possibile sottrarre i dati personali di un utente e dei suoi amici. Inoltre quasi tutti i siti di social networking prevedono che le informazioni immesse dall'utente (nome, indirizzo email, numero di telefono, ecc.), l'indirizzo IP e le informazioni relative al browser utilizzato dall’utente vengono registrate ad ogni accesso, permettendo così - volendo - di individuare in tempo reale il luogo da dove ci si sta connettendo. Le reti sociali sono inoltre soggette al fenomeno di creazione di falsi profili di personaggi famosi per scopi altamente discutibili. Ad esempio, il 5 febbraio 2009 è stato segnalato un falso profilo di Alessandro Del Piero riconducibile ad un'associazione nazista. Chissà cosa ne pensa l’uccellino della pubblicità. Nel frattempo, il fratello e procuratore del calciatore, Stefano, ha dichiarato che Del Piero non possiede alcun account su Facebook ed ha annunciato che avvierà delle pratiche legali in merito. Personalmente, su Facebook, trovo utile esclusivamente il gruppo di utenti nato per segnalare le buche stradali nella città di Roma. Un salva-vita quasi certamente più efficace degli “Alcolisti anonimi” (solo 558 iscritti), ai quali – per indole sociale e per convinzione culturale - ho deciso di preferire il gruppo “Non siamo alcolisti anonimi ma ubriaconi famosi” (oltre 99.000 iscritti).
*Giuseppe Carlotti - scrittore
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USCITI IERI
Assedio
al Castello Come rileggere il grande romanzo di Kafka. E capire che il protagonista, l’agrimensore K., è a suo modo un ribelle
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di Valerio Lo Monaco
no degli errori più diffusi nell'interpretazione de Il Castello di Franz Kafka è sempre stato quello di cercare di offrirne significati univoci. Ma allo stesso tempo sono simili le considerazioni che vogliono nella lettura dei tre testi principali dello scrittore (America,Il Processo e Il Castello) la medesima istanza,ovvero il problema esistenziale. Ne Il Castello troviamo la rappresentazione metafisica della difficoltà all'inclusione. Ma non solo. Cosa ancora più importante è inoltre il fatto di inserire il libro all'interno del contesto nel quale è stato scritto, ovvero nel periodo storico di riferimento,e ancora di più correlandolo alla produzione sotto certi aspetti anticipatrice che si dipanava in Europa durante gli stessi anni. Il Castello di Kafka viene pubblicato postumo e incompleto nel 1926 (ma la scrittura è databile intorno all'inizio del 1922) e l'atmosfera culturale di quegli anni, appena dopo la Grande Guerra, aiuta se non altro a capire il momento storico-esistenziale. Nel 1922 esce Siddhartha di Hermann Hesse, ovvero la leggenda indiana di evasione dalla civiltà tecnologica verso il misticismo orientale.L'anno successivo Freud pubblica il suo fondamentale L'io e l'es e Brecht compone il dramma Nella giungla della città (rappresentato con il titolo Nella giungla) nel quale trasferisce in una favola cupa l'istinto agonistico che pervade la sua epoca. Fino a Thomas Mann e al suo La montagna incantata (1924), che in pratica è una sintesi di tutte le speranze deluse e dei problemi mai risolti che la sua generazione ha subito con l'esperienza tragica della prima guerra mondiale. Nel 1925 esce il Mein Kampf di Hitler, e Heidegger - nel quale molti riconoscono la trasposizione esistenzialista di Kafka - lavora a Essere e tempo. La storia de Il Castello è, in apparenza, di una semplicità disarmante. Il protagonista, che Kafka chiama unicamente con l'iniziale K. - particolare che contribuisce a incrementare l'anomia del clima - è un agrimensore che ingaggia una lotta impari, disperata, per inserirsi in una compagine che da un lato lo invita (almeno così sembra) e dall'altro
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tende a emarginarlo e ad escluderlo, al fine di poter praticare il proprio mestiere all'interno del feudo. Ma come l'orizzonte che appare avvicinarsi a ogni passo ma inesorabilmente arretra all'incedere dell'uomo, così si svolge la vicenda di K., a un passo dall'ottenere ciò che vuole dai signori del castello e sempre, per un motivo o per un altro - il più delle volte inspiegabilmente - rimandato ad altro momento. L'atmosfera stessa che avvolge villaggio e castello impregna i rapporti umani dell'estraneità e della
La natura stessa degli abitanti del castello kafkiano è il paradigma di quella che oggi viene chiamata distanza tra politica e società civile. solitudine, tranne che per minuscoli intervalli i quali non hanno altro effetto che fortificare il punto principale del libro. Cogliere analogie con il presente, rilevando il senso di precarietà angoscioso che pervade quegli anni e la storia di K. è esercizio persino superfluo. K. è straniero nel villaggio dove arriva, in un ambiente indifferente e ostile simile al decrepito impero asburgico di allora e della repubblica cecoslovacca immediatamente dopo. Il parallelo - o i paralleli - possibili con la realtà attuale sono sotto certi aspetti sconcertanti. Una delle chiavi di lettura stessa del libro, il probabile obiettivo di Kafka, trova riscontri nell'attualità con una capacità veggente. Così come i libri di diversi autori che producevano nello stesso tempo. Il Castello si pone oggi come una ulteriore conferma, proveniente dal passato, del fatto che molti, già agli albori di quello che è diventato oggi il sistema in rovina nel quale viviamo, avevano colto distintamente le caratteristiche alienanti di una società che sotto tanti aspetti attrae mentre allo stesso tempo, metodicamente, respinge. Gli uomini del castello, intransigenti con le donne, non hanno in sé nessuna maestà ma sono anzi lo specchio stesso della miseria che coinvolge tutti e tutto, anche il castello stesso. Allo stesso modo, i rapporti che intercorrono tra i signori e gli alti funzionari, i quali amministrano la (loro) legge in modo unilaterale, quindi gli impiegati minori (ovvero gli esecutori fedeli e ottusi) e infine la folla della classe popolare (timorosa di compromettersi in alcun modo) non si discostano molto dai modelli consueti (di allora e di oggi) della società capitalistica autoritaria e arretrata.Il tempo medesimo del racconto appare svolger-
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si in un lungo, interminabile momento immobile e senza senso. C'è una chiara contemporaneità di passato, presente e futuro nel corso di tutta la storia. Come se prima vi fosse un passato senza significato, innanzi un futuro senza alcuna speranza e in mezzo un labirinto sterile e perenne. Non solo. La natura stessa degli abitanti del castello kafkiano è il paradigma di quella che oggi viene chiamata distanza tra politica e società civile. Non è un caso che oggi le sedi dei partiti siano vuote, che l'unico sistema per accedere alle stanze segrete di potere sia quello della cooptazione più assoluta o del dispotismo più incestuoso. La riproduzione in serie (se vogliamo la clonazione) delle classi dirigenti attuali, la loro necessità di chiudersi a riccio e di evitare qualsiasi contaminazione con il mondo esterno, pena il rischio della perdita della propria sovranità, sono esattamente le stesse che troviamo in questo libro. Ancora: la stessa esigenza di "far credere" all'agrimensore K. di poter un giorno entrare a far parte del castello, di poter essere accettato e di poter svolgere il proprio lavoro in modo finalmente riconosciuto,è lo specchio degli attuali ammonimenti della politica nei confronti di chi vi si avvicina. Finta inclusione sino al momento del voto, mera e strumentale auto-legittimazione elettorale, e quindi il buio. Come non cogliere nei comizi volti all'inclusione nelle folle e nelle arringhe plastificate dei politici nostrani la necessità di mantenere un finto legame con il territorio che gli serve unicamente per auto-confermarsi la legislatura in arrivo? Il rivoluzionario nel senso più comune del termine può provare odio per K., ma non tanto per il fatto che il protagonista del libro non mette in discussione esplicitamente il burocrate o il borghese - dai quali anela per tutto il libro la legittimazione a poter operare come agrimensore - quanto perché egli rifiuta ogni burocrazia, ogni borghesia. Il Kafka de Il Castello è dunque in questo caso non un rivoluzionario, ma un ribelle. Apparentemente sceso a patti con il nemico, ma in realtà in tutto e per tutto diverso. Un castello esiste per essere espugnato. Ha la sua ragione di costruzione nel difendere qualcosa, qualcuno. E allo stesso tempo, dall'altra parte, attrae chi è all'esterno proprio per il divieto che rappresenta. La sua cifra è la separazione tra dentro e fuori. Tra chi evita intrusioni e chi invece vuole penetrarlo. L'assedio con vari mezzi, strategici o tattici, cruenti o meno, rimanda al concetto della lotta, di cui il simbolo è la virtù.
Valerio Lo Monaco
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BORDELINE
Cobain,
l’urlo nel tunnel
Era il leader dei Nirvana. Era una star a cui il successo non bastava. E a 27 anni lo trovarono morto. Suicida?
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di Federico Zamboni
oleva fare musica a modo suo: e c’era riuscito. Voleva incidere dischi e suonare dal vivo ed essere conosciuto come artista: e c’era riuscito.A vent’anni aveva messo su i Nirvana, a 22 aveva pubblicato l’album d’esordio, Bleach, a 24 aveva azzeccato il pezzo che ti cambia la vita: uscito come singolo nel 1991, Smells Like a Teen Spirit era esploso al di là di qualsiasi aspettativa. La tiratura iniziale che sparisce rapidamente. Quelle successive altrettanto. I ragazzi che non si limitano ad acquistarlo, come un qualsiasi hit del momento, ma che ne fanno un punto fermo. La bandiera sghemba che non è destinata a nessun pennone. L’inno nevrotico che non celebra un cazzo. «Ciao, ciao, ciao, quanto depresso?/ E dimentico quello che assaggio / Oh sì, credo che mi faccia sorridere / L'ho trovato difficile, era difficile da trovare / Oh beh, comunque non importa / Ciao, ciao, ciao, quanto depresso?» Impossibile da capire, se non ci stai dentro. Non è un altro tipo di identità: è quello che resta quando l’idea stessa di identità si è dissolta. Anzi, disintegrata. Pezzetti più o meno piccoli che si infilano dappertutto. Detriti che si depositano nei meccanismi e li inceppano. Bloccano i freni e puoi soltanto accelerare. Bloccano l’acceleratore e vai avanti solo con quel po’ di inerzia che hai accumulato. Ciao ciao ciao, quanto depresso? Ciao ciao ciao, quanto ti resta prima di schiantarti? O di fermarti del tutto? Rabbia. Disorientamento. Insoddisfazione. Non è un altra idea di società. È quello che resta quando non ti fidi più nemmeno di te stesso. Le ribellioni politiche attaccano il potere e non vedono l’ora di spiegarti il perché: ehi, guarda che abbiamo le nostre ragioni, e una logica ineccepibile, e programmi precisi su ciò che si deve fare per il nostro bene e per quello di tutti. La rivoluzione come palingenesi. Come guarigione miracolosa dell’individuo e della collettività. Unisciti a noi. Lotta con noi.Vinci con noi.
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Tu non lo sai, cosa bisogna fare. E quando ti sembra di saperlo («Sarebbe bello vedere gli avidi essere perseguitati così comunemente da portarli all’opposto delle loro abitudini o da terrorizzarli al punto di non fargli più mettere il naso fuori di casa»)1 non ti fai nessuna illusione sul numero di persone che sono in grado di aprire gli occhi e che sono disposte ad agire. Il massimo che puoi fare è stilare un inventario di quello che non va: tutti quei pregiudizi, tutta quella smania di potere. Hai l’identikit dei
Accanto al cadavere hanno trovato uno scritto, autografo, e non hanno avuto dubbi a considerarlo il suo biglietto d’addio. Ma c’è chi pensa che lui, invece, sia stato ammazzato. responsabili, ma nessuna pattuglia alla quale trasmetterlo. Continui a osservare. Riempi pagine su pagine di annotazioni. Il puntiglioso e incazzato pronipote punk di Philip Marlowe. Perdi i quaderni con gli appunti e ricominci. Cerchi di non lasciarti ingannare. Vedi i potenti che schiacciano la gente. Vedi la gente che si lascia schiacciare. Ma vedi anche te stesso che cambi all’improvviso, che un attimo prima stai benissimo e un attimo dopo malissimo. L’energia che diminuisce. L’entusiasmo che diventa un ricordo, una parola sempre più astratta. Una cosa da bambini. Che non può sopravvivere al passare degli anni. Che in te, Kurt Donald Cobain, non è sopravvissuta. Nessun rancore, in fondo: ma è andata così.
Il peggior crimine è fingere Le ricostruzioni ufficiali2 dicono che si è ucciso. Il 5 aprile 1994. Con un colpo di fucile. Accanto al cadavere hanno trovato uno scritto, autografo, e viste le circostanze non hanno avuto dubbi a considerarlo il suo biglietto d’addio. «Vi parlo dal punto di vista di un sempliciotto un po' vissuto che preferirebbe essere uno snervante bimbo lamentoso», comincia il testo. Poi, nello stile frammentario di Cobain (così ben rappresentato nei suoi Diari, pubblicati nel 2002 e prontamente ripresi da Mondadori, che l’anno successivo li ha inseriti negli Oscar Bestsellers), si addentra nel rapporto con la musica e, più ampiamente, con l’esistenza. La ricognizione è sconsolata, più che drammatica.
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Fotografie da angolazioni diverse ma tratte dallo stesso scenario scabro e appiattito. Dettagli di un deserto che con l’andare degli anni, col consumarsi del tempo, si è ingrandito fino a occupare tutto, o quasi, lo spazio a disposizione. Peccato: un tempo lui era stato un bambino pieno di gioia, prima che i suoi genitori si separassero. Un tempo c’erano stati dei giardini, addirittura un grande parco lussureggiante (anche se assai poco curato), e ora solo questa distesa di nuda terra cosparsa di schegge. Schegge di pietra. O di ossa?! «Io non provo più emozioni nell'ascoltare musica e nemmeno nel crearla nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole.» Il ragazzo aveva dei sogni, e con quei sogni di futuro riscattava il presente. O lo puntellava, se non altro. Nel mondo invaso dalle menzogne – pensava il ragazzo nato nel fondo della provincia dello Stato di Washington, nella piccola dogmatica insopportabile Aberdeen – aprirò degli squarci di assoluta sincerità. Apparirò come sono. Dritto, storto, una via di mezzo. Luce cangiante e instabile. Una fiamma precaria ed esposta alle intemperie. Ma non un fottuto neon, almeno. «Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco. Ho provato tutto quello che è in mio potere per apprezzare questo. Ho apprezzato il fatto che io e gli altri abbiamo colpito e intrattenuto tutta questa gente. Ma devo essere uno di quei narcisisti che apprezzano le cose solo quando non ci sono più.» Il sogno si era realizzato. Il sogno era appassito, attorcigliandosi su se stesso. Il futuro aveva smesso di essere un rifugio e si era trasformato in una gabbia. Doveva essere un’apoteosi di libertà. Era diventato una successione di obblighi da rispettare, di aspettative da assecondare, di caratteristiche da mantenere immutate. Il giovane Kurt Cobain voleva fare dei dischi nei quali rispecchiarsi. La star KURT COBAIN doveva fare dei dischi in cui si rispecchiassero gli altri. Non era questo, quello che si era immaginato. Lui era uscito dal buco in cui abitava ed era andato alla festa solo per distrarsi un po’. Giusto perché non aveva di meglio in programma. E adesso veniva fuori che si trattava di un set cinematografico. Di un accidente di docufilm sulla scena alternativa di Seattle. La X-Generation, il
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grunge, quella roba lì. Musica ai confini del rumore, ma visto che funziona... A proposito: carino, quel Kurt. Guarda come lo guardano. Come un’icona.
Riavvolgere il nastro. Cancellare tutto Era sembrata una buona idea, mettersi a suonare e scrivere canzoni e costituire i Nirvana e tutto il resto. Un buon punto di partenza, quanto meno. Come quando ti viene in mente un accenno di melodia e prendi la chitarra e provi a svilupparla. Metti in conto che ci vorrà un po’, e che non sarà esattamente come allungare la mano e spiccare ciliege dal ramo, ma non è che hai dei veri e propri dubbi. Si sa. Lo sai. I semi danno frutto, se hai la volontà di coltivarli e la pazienza di attendere. E non c’è niente di male, a pregustare la soddisfazione del raccolto. Del momento in cui ne offrirai agli altri. Del momento in cui ne offrirai a te stesso. E invece no. Il raccolto era arrivato ma i frutti non erano quelli che si aspettava. Dovevano essere dolci ed erano aspri. Dovevano deliziarlo e invece lo stomacavano. Non era un’impressione. Era un dato di fatto. Incredibile: piacevano agli altri ma non a lui. Era andato tutto come ci si poteva augurare tranne quel piccolo stramaledetto determinante dettaglio. Il tempo era stato buono. Il raccolto era stato abbondante. Lui non sapeva che farsene. «Mi è andata bene, molto bene durante questi anni, e ne sono grato, ma è dall'età di sette anni che sono avverso al genere umano. Solo perché a tutti sembra così facile tirare avanti ed essere empatici. Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente. Grazie a tutti voi dal fondo del mio bruciante, nauseato stomaco per le vostre lettere e il supporto che mi avete dato negli anni passati. Io sono troppo stravagante, lunatico, bambino! E non ho più nessuna emozione, e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.» Troppo. Amo troppo. Mi rammarico troppo per la gente. Sono troppo stravagante, lunatico, bambino. E non ho più nessuna emozione. E ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.
Federico Zamboni 1 Diari (Mondadori, Oscar Bestsellers, 2003), pag. 134.Tutte le citazioni successive, invece, sono tratte dalla lettera che venne rinvenuta sul luogo della morte di Cobain. 2 L’inchiesta della polizia si chiuse con una constatazione di suicidio, ma quasi subito venne formulata l’ipotesi che si trattasse di un assassinio. Al tema sono stati dedicati diversi libri: in inglese, tra gli altri, Love & Death. The Murder of Kurt Cobain di Max Wallace e Ian Halperin (Atria Books, 2004) , in italiano Il caso Cobain. Indagine su un suicidio sospetto di Episch Porzioni (Chinaski, 2008, pp. 208, € 15)
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MUSICA
X Factor, la fabbrichetta delle star(s) Dilettanti che si illudono e professionisti che se li coccolano. Ma solo finché sono in gara. Solo finché servono allo show
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di Roberto Alfatti Appetiti
iace ai gggiovani. Perché – ti spiegano gli analisti dell’audience – su dieci telespettatori ben sei hanno meno di quarantacinque anni. E la media, dato inequivocabile, è di “soli” quarantadue. Praticamente un pubblico di adolescenti. Prendiamone atto una volta per tutte: in Italia il mondo giovanile è sempre più rappresentato dai quarantenni. L’età in cui ci si sente finalmente giovani – chiosava Pablo Picasso – ma ormai è troppo tardi. Non abbastanza, evidentemente, da evitare di appassionarsi a uno dei programmi più modesti nella storia televisiva nazionale, X Factor. Format comprato all’estero (versione strapaesana di American Idol), metà reality e metà concorso musicale, il talent show di Raidue, giunto alla fine della seconda edizione, ha radunato un esercito di oltre tre milioni di affezionati. All’incirca un quarto del pubblico dei laureati, esulta la produzione. A conferma, piuttosto, di quanto il titolo di studio non sia necessariamente espressione di “maturità” culturale . Il gioco è sin troppo semplice: gli aspiranti cantanti – i pochi sopravvissuti a selezioni ed esibizioni varie – vivono nella loro gabbia dorata, un loft in via Mecenate a Milano, sotto l’occhio vigile delle telecamere. In palio un megacontratto discografico con la Sony Bmg. Decide il pubblico sovrano. Tutti con la mano sul telefono/ino: 60.000 sms soltanto nella prima puntata. Proprio così: (l’altro)ieri – sempre loro, i gggiovani – volevano cambiare il mondo e adesso si accontentano del televoto, espressione compiuta di telecrazia diretta. Chiamati a decidere su questioni di assoluta importanza: ovvero di quello che si affaccia sul piccolo schermo, ché il resto non conta. E da un reality all’altro i grandi temi non mancano. Vanessa sceglierà definitivamente Alberto o tornerà da Marco? Aveva ragione Marina Ripa di Meana o Fabrizio Corona? Meglio Daniele o Matteo? Enrico o i Bastardi?
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Dal massimalismo ideologico del Novecento al minimalismo da buco della serratura di quest’epoca coatta. Cercavano la rivoluzione, i più arditi. Quantomeno l’amore, gli inguaribili romantici. Oggi sognano un futuro da tronisti o, nella peggiore delle ipotesi, da corteggiatori delle troniste. E viceversa, intendiamoci. Altro che vita da mediano, l’unica panchina che sono disposti a fare è quella, comoda, dei salotti televisivi. Certo, occorrono dei requisiti per stare in video. Non
Devi essere bello. E se non lo sei non puoi fare a meno di essere telegenico, o di diventarlo. Basta affidarsi. Farsi consigliare, vestire, truccare. Meglio: riverniciare. parliamo del talento. Perché quello vero lo si scopre a posteriori, non si pianifica né si costruisce a tavolino. Devi essere bello. E se non lo sei (la natura, si sa, è crudele) non puoi fare a meno di essere telegenico o di diventarlo. E il casting, c’è da dire, è pietoso: guarda in faccia a tutti. Basta affidarsi. Farsi consigliare, vestire, truccare. Meglio: riverniciare. Apprendere l’abc del come si serve la società dello spettacolo. Rinunciare, sin dall’inizio, a essere se stessi in cambio della possibilità – più o meno remota – di essere piazzati come prodotti: cantanti, attori, alla peggio opinionisti senza opinioni ma pronti ad alzare la voce e a strappare un applauso nel palcoscenico borderline del trash televisivo. Andando incontro al pubblico che, regola fondamentale, ha sempre ragione. Loro – i deus ex machina della tv, i demiurghi che muovono i fili – conoscono il mercato e sanno cosa vogliono vedere i consumatori annoiati, ne conoscono e stimolano le curiosità più malsane. E certo non è un caso se la durata delle canzoni sia stata ridimensionata rispetto allo spazio dedicato al “personale” dei ragazzi in gara, sapientemente dilatato. «Spettacolarizzano il disagio e la pena di ragazzi che si sentono braccati – ha detto Renato Zero, uno che il successo se l’è conquistato senza protettori, fieramente controcorrente – e sono aggressivi fra loro come gladiatori al Circo Massimo. Fossi al posto di quei ragazzi – ha concluso l’artista romano – scapperei a gambe levate. Neanche sono nati, come cantanti, e gli sbattono addosso le telecamere, con i
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maestri che li nevrotizzano a forza di suggerimenti». Perplessità che si sommano a quelle espresse da Eros Ramazzotti: «X Factor? Il posto peggiore dove un esordiente possa capitare. Che tristezza, il mondo della canzone ridotto a un reality show». Parliamoci chiaro: altro che programma sulla musica. La musica è libertà d’espressione. È rifiuto di ogni condizionamento. Non asseconda le mode, semmai ne crea di nuove. Niente a che vedere con fabbriche di replicanti e procreazione assistita di artisti. L’X Factor, quel talento speciale che fa di un essere umano un artista, è unico e imprevedibile per definizione. Non è sufficiente studiare la lezione a memoria, né scalare una hit parade a colpi di televoto come nel caso del giovane Marco Carta a Sanremo.Vittoria che, semmai, ha consacrato definitivamente Maria De Filippi – “preside” di Amici, la corazzata televisiva che, schierata nel palinsesto del martedì contro X Factor, l’ha letteralmente “stracciato” doppiandone l’audience – quale regina della tv generalista. Con lei – ha scritto tempo fa Aldo Grasso – si afferma «la tv più vecchia che esista, quella ferocemente pedagogica. Con le sue scuole pomeridiane, i precettori (i consigli per le letture di Aldo Busi), i professori e le classi. Mascherata da “scuola democratica” (gli allievi possono dire la loro, c’è l’assemblea parenti/genitori, c’è persino il rappresentante Codacons), la De Filippi si propone di insegnare l’abietto piacere di annullarsi, da professionisti, nella tv. Invece di formare una personalità, la dissocia e la rimodella con l’aiuto dei “professori”, per creare tante figlie di Maria». Al confronto – per rimanere alle parole del critico del Corriere della Sera – X Factor finisce per risultare «il programma involontariamente più comico dell'anno». Una delle cause è nell’inadeguatezza dei conduttori-giudici: «Perché è condotto da un presentatore che non sa presentare, Francesco Facchinetti. Perché c’è Simona Ventura che vuol fare la Maria De Filippi, ma senza darlo troppo a vedere. Perché c’è Mara Maionchi, una simpatica manager che ricorda un po’ Iva Zanicchi e un po’ Vanna Marchi. Però il più comico di tutti è Morgan, alias Marco Castoldi. Con la sua puzzetta sotto il naso, con le sue velleità artistiche e letterarie, con il suo maledettismo, e il suo francobattiatismo, con l’antologia di Spoon River sotto il braccio, ecco con tutte queste ubbie Morgan è il protagonista di un reality, al pari di un qualsiasi scalcinato partecipante al Grande Fratello».
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Battute a parte, l’accusa che muove Grasso è precisa: i tre “capitani” di X Factor – la Ventura della categoria 16-24, Morgan dei 25+, e la Maionchi dei Gruppi Vocali – non sono al servizio della musica, ma usano i cantanti «per la loro personale esibizione. La Ventura capisce poco di musica ma sa come funziona la tv; Morgan ha la grande occasione della vita e prende di mira la Ventura che è l’unica che può oscurarlo». Bulimica donna di spettacolo, la non più giovanissima Simona – classe 1965 – nella stagione televisiva in corso è passata dall’Isola dei famosi a Quelli che il calcio, fino a indossare con professionale disinvoltura, in X Factor, i panni di esperta musicale. Con quale competenza? Facchinetti junior, con i suoi trent’anni e l’imbarazzante slang giovanilistico alla Gioca Jouer (a confermare i danni irrever-
Partito per sconfiggere i Gigi D’Alessio della musica italiana, X Factor ci ha dato Giusy Ferreri, trasformata da sconosciuta cassiera dell’Esselunga a vero e proprio fenomeno pop. Valeva davvero la pena? sibili che possono provocare “cattivi maestri” come Claudio Cecchetto) è la mascotte dei conduttori, eppure il fatto che riesca a parlare un italiano elementare ma comprensibile ha entusiasmato la critica (evidentemente, non speravano tanto). Non si fa (più) chiamare Dj, come ai tempi de La Canzone del capitano, e al posto dei tatuaggi, miracolosamente spariti, ostenta abiti talmente rassicuranti da piacere persino a Del Noce. Che, per la serata finale, l’ha promosso su Raiuno. Perché conduca X Factor, però, rimane un mistero. La spiegazione ufficiale – sul sito del programma – recita così: «È da sempre attento alle nuove tendenze». Poi c’è Morgan, leader dei Bluvertigo riconvertito conduttore televisivo. Quasi suo malgrado, poiché non perde occasione per esprimere il proprio disagio di «delegato della musica». Ma, paradossalmente, le sue performance – i frequenti litigi con i colleghi capitani – risultano come le più “televisive” (almeno a giudicare dall’audience). Stefania Berbenni su Panorama lo definisce il rappresentante «dell’Italia radical-chic, amato ma anche con un’aura da perdente, improvvisamente assurto al ruolo di guru da terzo millennio. Piace ai concorrenti, al pubblico, alle ragazze, tutti lì a pendere dalle sue labbra truccate e dai movimenti del pizzetto inquieto. Morgan è un anarchico amante delle regole, è
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uno snob alla quinta, un nietzscheano contemporaneo. È l’intellettuale del gruppo, quello che più assomiglia alla sinistra che ha perso le elezioni: guarda spesso la realtà dall’alto in basso, pecca di superbia intellettuale e a volte non capisce cosa stia succedendo davvero. Sentenzia, vorrebbe cambiare il sistema e il sistema se lo mangia. E forse per questo risulta irresistibile a molti». Tra coloro che, invece, spezzano una lancia in favore del programma c’è Patty Pravo: «X Factor? Non posso che pensarne bene perché in un posto come l'Italia, dove i giovani non hanno neanche la possibilità di utilizzare una sala prove, in fondo è già qualcosa». Possibilista si mostra anche un acuto osservatore come Edmondo Berselli. Anche se i motivi d’interesse richiamati sono ironici: «Il super super super reggiseno di Simona Ventura, la testa di Morgan, con un’acconciatura che è un’autentica opera d’arte informale. Ma soprattutto la cattiveria di Mara Maionchi, manager discografica che sembra avviarsi a una bella carriera di gloriosa stroncatrice». Sì, perché un pizzico di cattiveria può rappresentare l’unico antidoto alla formula buonista del Saranno famosi all’italiana. Partito per sconfiggere i Gigi D’Alessio della musica italiana, X-Factor ci ha dato Giusy Ferreri, trasformata da sconosciuta cassiera dell’Esselunga a vero e proprio fenomeno pop. Valeva davvero la pena? Su questa tragica questione apriamo il televoto. «Oggi – ragiona Francesco Guccini – le case discografiche non possono più investire tanti soldi sui personaggi. Per cui è difficile sfondare se non si passa per questi canali. È l’unica possibilità per un giovane che voglia fare musica nuova. Un tempo questo ruolo era svolto da Sanremo». Giusto, azzardiamo noi: X Factor, opportunamente ripensato, potrebbe diventare il format in grado di fare del Festival di Sanremo qualcosa di decente. Magari eliminando la componente reality e affidando il programma a persone competenti, puntando sulla qualità della musica e non sul gigionismo sornione di conduttori lautamente pagati col plauso brunettiano. Nel frattempo le galline dalle uova d’oro vanno sfruttate e International Music sta già preparando il primo tour estivo di X Factor. I concerti inizieranno a fine giugno e proseguiranno a luglio e agosto per circa 20 tappe. L’idea – confessa con disarmante sincerità il promoter Francesco Cattini – è quella di «sviluppare gli artisti a 360 gradi, per sfruttare tutta la filiera di ricavi che un artista possa produrre». Con buona pace della musica.
Roberto Alfatti Appetiti
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CINEMA
NON
una scelta d’amore
Due ragazzi che militano nell’Ira e condividono gli stessi valori. Ma non così le loro madri. La meno istruita, una contadina, capisce il figlio e appoggia la sua lotta. L’altra, un’insegnante, difende il suo solo per affetto. E per egoismo
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di Ferdinando Menconi
edere il lato politico e di rivolta in un film che ripercorre le vicende di Bobby Sands e degli Hunger Strikers1 del 1981 è fin troppo evidente, troppo facile quasi. Troppo facile partire dalle immagini di Margaret Thatcher che cita San Francesco e poi inizia una politica di isolamento, chiudendo le strade fra Eire e Irlanda del Nord nell’Europa della “libera circolazione”; di criminalizzazione, i volontari dell’IRA non devono essere considerati guerriglieri e quasi neanche terroristi, ma criminali comuni; di demoralizzazione, spezzando il morale dei detenuti nelle carceri, carceri dove i POWs2 dell’IRA si troveranno a dover spargere le feci sui muri e a subire vessazioni più da dittatura militare latino americana che da Paese che ci viene sempre spacciato come padre della democrazia. Troppo facile. Sarebbe come tenere un comportamento da Thatcher. Tutto questo è presente nel film e si tratta del miglior film mai girato sulla vicenda di Bobby, che ripercorre in maniera storicamente ineccepibile, senza nulla omettere ma senza neppure lasciarsi andare a compiacimenti voyeuristici nel descrivere gli eventi. Interessante e degno di approfondimento, invece, è l’escamotage usato per raccontarli: attraverso l’incontro fra due madri, profondamente diverse, che si troveranno a vivere lo stesso dramma e che ha portato la distribuzione italiana a cambiare il titolo in Una scelta d’amore. Pessima abitudine nostrana e in questo caso oltre che
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Nella versione italiana il titolo originale venne stravolto, diventando lo smielato “Una scelta d’amore”
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ingiustificata decisamente fuorviante. Una delle due è una contadina, Annie Higgins, interpretata da Fionnula Flanagan, fieramente figlia della sua terra, in costante attrito con le forze di occupazione, due figli dati alla lotta armata, di cui uno già caduto, e una figlia che studia in una scuola cattolica dove insegna l’altra madre, Kathleen Gillen, vera protagonista del film e interpretata magistralmente da Helen Mirren. L’insegnante vive la sua vita piccolo borghese completamente distaccata dalla realtà che la circonda, quella vera, non il paesaggio da cartolina in cui è immersa la sua casa in riva al mare. Il suo piccolo mondo è incontaminato, ha la sua tranquillità economica lontanissima dalle lotte sociali e la disoccupazione endemica dei ghetti di Belfast e Derry. Ancor più lontana per lei è la lotta per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord. Naturalmente condanna la violenza, la sua identità irlandese è blanda, quasi di facciata o semplice abitudine, più legata alla religione che alla nazione, contrariamente a quello che è nella realtà irlandese. Nessuna preoccupazione, la guerra le scivola addosso lontana, è più nemica dell’Ira e dello Sinn Fein che non dell’esercito britannico. Il quadretto idilliaco è completato da una figlia perfettamente inquadrata e giusto un po’ fissata, ironia della sorte e degli sceneggiatori, sulle diete, e un figlio, un tranquillo ragazzo che non dà preoccupazioni. La guerra farà, però, irruzione nella vita della donna in una scena altamente simbolica che è anche una delle più belle rappresentazioni cinematografiche di un’azione di guerriglia. Al ritmo incalzante della musica irlandese, con un montaggio alternato fra una lezione di danza tradizionale tenuta dalla donna, con la cinepresa che indugia sui piedi delle ballerine, e l’azione di due volontari dell’Ira, i figli delle due madri fanno saltare con un RPG un mezzo dell’esercito britannico. Lo spostamento d’aria sfonda i vetri della scuola e la guerra entrerà nella vita dell’insegnante. Per quanto uno possa voler ripudiare la guerra, non è detto che la guerra ripudi lui. I due volontari saranno arrestati insieme. Per la contadina sarà rabbia mista ad orgoglio, si schiererà subito a fianco del figlio, ne sosterrà ogni scelta, condividerà la sua lotta insieme anche al partito, lo Sinn Fein, perché la lotta del figlio è anche la sua, è la
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lotta dell’Irlanda da generazioni e generazioni, e nella loro generazione sono i Provisional Sinn Fein e IRA a portarla avanti. Diverso è per il personaggio di Helen Mirren, è un fulmine a ciel sereno, è stupita di vedere piombare la polizia in casa, non può credere che il figlio sia implicato in un’azione del genere, gliene chiede spiegazione, come se non fossero più che ovvie le ragioni per un irlandese del nord. Crede ancora nella giustizia inglese, cerca di imporgli un avvocato mentre era prassi degli indipendentisti non riconoscere le Dilock Courts3, si scontra con gli esponenti dello Sinn Fein che vede solo come fomentatori della violenza che sconvolge le sei contee occupate dell’Ulster e turba la sua tranquillità borghese. È talmente incapace di capire, non solo la situazione, ma anche che il figlio non è più un bambino ma un Uomo, che quando lo rimbrotta per averle mentito, nascondendole la sua appartenenza all’IRA, alla sua risposta «l’ho fatto per proteggerti», gli risponde «sono tua madre, sono io che devo proteggere te…», ci manca solo un «al prossimo attentato mettiti la maglia di lana». La sua fiducia nelle istituzioni andrà a disgregarsi progressivamente, a cominciare da quando le verrà negato un colloquio col figlio perché lui sta seguendo una protesta. È la dirty protest, che i Blanket men4 iniziarono a causa delle vessazioni che subivano quando si recavano alle docce. La reazione delle autorità carcerarie fu di non svuotare più i buglioli, i detenuti provarono a svuotarli fuori dalle finestre rompendone i vetri: furono schermate ma i vetri non riparati. Il freddo entrava e la merda sparsa sui muri. Questo in un paese che ci dicono fra i democraticamente più avanzati d’occidente e sotto il governo della “mitica” Margaret Thatcher. Il rapporto fra le due donne è inizialmente conflittuale, in particolare quando il figlio della Mirren le trasmetterà un messaggio da consegnare allo Sinn Fein. Quello però è il messaggio che preannuncia il famoso sciopero della fame dell’81, cui i due figli delle donne aderiranno. Così i rapporti fra le due donne andranno a cambiare radicalmente, accomunate dalla tragedia, seguendo il lento spegnersi di Bobby Sands, fino ad una comprensione reciproca se non complicità. Un reciproco scoprire mondi diversi.
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La Mirren comincerà anche una vita da attivista sostenendo la campagna elettorale di Bobby Sands al Parlamento di Westminster, mettendosi anche contro le gerarchie cattoliche della scuola. Una vittoria inutile. Non solo Bobby Sands non poté mai sedere nel Parlamento cui il popolo lo aveva eletto, ma nemmeno poté mai parlare con la stampa. Lui, un deputato legittimamente eletto, sarà lasciato morire di fame in carcere. Il rifiuto di accettare le richieste degli hunger strikers, la principale delle quali era indossare abiti civili e non divise da criminali, fulcro della politica di criminalizzazione della Thatcher, che credeva così anche di isolare i combattenti dalla popolazione, porterà a un balletto di intrighi e trattative, con indebite intromissioni della Chiesa, più attenta ai suoi interessi che a quelli dell’Irlanda, e dei servizi segreti (deviati?) inglesi, molto più efficaci nel perseguimento degli obiettivi, ma non degli scopi di fondo, del governo di sua maestà. È, però, proprio in questa fase che si nota come l’adesione
Kathleen Gillen, l’insegnante interpretata da Helen Mirren, è l’anello debole della catena. Autorizzerà l’alimentazione forzata del figlio e inizierà la disgregazione del fronte di resistenza interno al carcere. alla lotta d’Irlanda della madre borghese sia di facciata, di opportunità, per il figlio e basta… ma contemporaneamente anche contro il figlio, contro quello in cui crede. Le liti fra i rappresentanti dello Sinn Fein e le altre parti interessate, col rifiuto dei detenuti a interrompere lo sciopero perché sarebbe stato consentito loro il “privilegio”, non il “diritto”, di portare abiti civili, non le comprende, per lei sono solo lotte di potere che mettono a repentaglio la vita del figlio. Non così è per la contadina, lei sa perché il figlio sta morendo, perché in tanti stanno morendo e che lo Sinn Fein sta lottando con loro. Il governo inglese cercherà di fiaccare il morale5 degli Hunger Strikers ricorrendo alla possibilità di dare alle famiglie, una volta entrato in coma il soggetto, la facoltà di autorizzare l’alimentazione forzata. Già, il governo inglese della cinica Margaret Thatcher non imponeva l’alimentazione forzata neppure a coloro che considerava terroristi della peggiore risma. Vista la loro chiara volontà, poteva non farli sedere in Parlamento, ma quella
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volontà la rispettava. Da qui il titolo italiano “una scelta d’amore”. Il personaggio della Mirren è l’anello debole della catena, autorizzerà l’alimentazione forzata del figlio e inizierà la disgregazione del fronte interno al carcere. La scelta dell’insegnante, però, non è una scelta d’amore, è una scelta di egoismo, calpesta ogni ideale del figlio, se ne frega della lotta degli altri, di tutto un popolo, pensa al suo piccolo mondo e basta. Solo un momento di partecipazione al dolore dell’altra madre che, invece, ha rispettato il figlio, che lo ha lasciato morire per la loro Irlanda. E se nella versione italiana, che rispetta il testo ma non il tono della frase, sembra quasi che ci sia comprensione, così non è nell’originale e la Mirren, grande attrice, esce dal carcere con una vergogna che annega nell’incomprensione delle ragioni dell’altra, nell’incapacità di capire che ci sia un qualcosa di più grande del proprio interesse privato, sia esso la vita di un figlio o la propria.
Ferdinando Menconi
note: 1- si ricorda sempre e solo Bobby Sands ma furono in dieci a morire in quello sciopero della fame e tutti meritano di essere ricordati: Volontario Bobby Sands, IRA Vol. Francis Hughes, IRA Vol. Patsy O'Hara, INLA Vol. Raymond McCreesh, IRA Vol. Joe McDonnell, IRA Vol. Martin Hurson, IRA Vol. Kevin Lynch, INLA Vol. Kieran Doherty, IRA Vol. Thomas McElwee, IRA Vol. Michael Devine, INLA 2 - POWs: Prisoners Of War, prigionieri di guerra 3 - Tribunali speciali senza giuria, con procedure e valutazione delle “prove” che sarebbero state illegali nel resto del territorio del Regno Unito. 4 - Blanket, coperta: i detenuti irlandesi rifiutavano di portare le uniformi da criminali comuni e indossavano esclusivamente la coperta in dotazione. 5 - La tattica si rivelerà efficace, a fronte del crescente numero di famiglie che intervenivano al momento dell’entrata in coma, lo sciopero della fame verrà interrotto. Le richieste degli Hunger Strikers verranno soddisfatte al termine dello sciopero della fame. Per il puntiglio di Margaret Thatcher morirono in dieci ma l’IRA, dopo, raggiungerà il massimo del consenso anche a livello internazionale.
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