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ISSN 2035-0724
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Spedizione in abbonamento postale, Testata registrata al Tribunale di Roma n° 316 del 18 Settembre 2008
Mensile Anno 1, Numero 3
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Direttore politico
Massimo Fini Direttore responsabile
Valerio Lo Monaco
Altra Economia: NON SI VIVE DI SOLO PANE Scuola: NON È INTELLIGENTE E NON SI APPLICA Luttazzi: “SONO UN CANE SCIOLTO E MI VA BENE COSI’” Sudamerica: NO MAS WASHINGTON, NON MAS WALL STREET Fini: SVEGLIATEVI, UOMINI A META’
Anno I, numero 3, Dicembre 2008 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com)
Chi siamo e cosa vogliamo
Hanno collaborato a questo numero: Carlo Gambescia, Alessio Mannino, Alessio di Mauro, Alessia Lai, Francesco Bertolini, Eduardo Zarelli, Lucia Casellato, Eduardo Fiorillo, Bianca Berardicurti
di Massimo Fini
Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Lucia Casellato
Che gli uomini tornino uomini
Agenzia Stampa e comunicazione: Agenzia Inedita tel. 06/98.26.24.96 Coll.ne Diffusione e Distribuzione: Francesca Del Campo (francescadelcampo@ilribelle.com) Progetto Grafico: Antal Nagy Impaginazione: Mauro Tancredi La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000 Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008 Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista
Un’altra scuola, un’altra società di Eduardo Zarelli di Eduardo Fiorillo
Diritto allo studio, che inganno di Federico Zamboni
Talis pater, talis filius di Carlo Gambescia
Aggiungi un posto in cattedra di Francesco Bertolini
Università da rifondare di Bianca Berardicurti
Università libera, ma di Bruxelles di Ferdinando Menconi
America Latina: il nuovo mondo possibile? di Alessia Lai
“Economia della Felicità” di Valerio Lo Monaco
La Casta delle Caste di Alessio Mannino
Intervista a Daniele Luttazzi: “Vita dura per i troppo liberi”
Usciti ieri: “Il Lupo della Steppa” di Valerio Lo Monaco
Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma
Borderline: Il posto di Rosai
Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com
Bruce Springsteen The Seeger Session
Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com
di Federico Zamboni
Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti.
di Lucia Casellato
Film: Masseria della Shoah di Ferdinando Menconi
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Chi siamo
e cosa vogliamo di Massimo Fini
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l vuoto interiore non potrà mai essere riempito con le scoperte o conquiste materiali esteriori, per quanto straordinarie, anzi in questo modo non farà che allargarsi”. Così parlava verso la fine del 1400 Girolamo Savonarola. Del resto nei secoli precedenti la Scolastica (Tommaso d’Aquino, Nicola Oresme, Giovanni Buridano, Gabriel Biel, Molina de Lugo) aveva condotto una lunga, e per molto tempo vincente, battaglia non solo contro il profitto e l’usura ma anche contro l’interesse puro e semplice e in quest’ultimo caso con un’argomentazione assai sottile: il tempo è di Dio, cioè di tutti, e quindi non può essere oggetto di mercato (se i neocon e i teodem se ne fossero ricordati forse non saremmo giunti al crack di oggi). Papa Alessandro VI, non volendo probabilmente perdere troppo i contatti con i “tempi moderni”, condannerà a morte Savonarola e, con lui, la Chiesa perché nel giro di qualche secolo l’Occidente sarà completamente desacralizzato. Quando Nietzsche negli anni ‘80 dell’Ottocento proclama “la morte di Dio” constata semplicemente, sia pur con un certo anticipo, che Dio è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. Chi nell’attuale galassia antimodernista o della ‘decrescita felice’ avanza diritti di primogenitura nella denuncia della catastrofe, esistenziale, sociale, etica, ecologica, provocata dal modello di sviluppo occidentale dovrebbe fare professione di umiltà ricordando le parole di Savonarola.
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Non siamo vergini. Se un merito possiamo attribuirci è quello di essere stati fra i primi (ma, anche qui, ci sono precedenti assai più illustri nei pensatori della ‘cultura della crisi’) a riprenderci, sia pur barcollanti, dalla sbornia d’ottimismo e di positivismo indotta dalla Rivoluzione scientifica e industriale, poi razionalizzata dall’Illuminismo nelle due sue varianti, liberista e marxista e nelle loro successive declinazioni. Ma ci abbiamo messo più di due secoli. Ciò che Savonarola profetizzava con tanto anticipo è puntualmente avvenuto. Il consumo ha finito per consumare il consumatore, ha rotto i nuclei costitutivi più profondi dell’essere umano, l’ha reso un sacco vuoto o quasi. Se non portasse sfiga potremmo quindi dire, come dicevano i comunisti d’antan, che noi antimodernisti ‘veniamo da lontano’. Tuttavia Movimento Zero di cui La Voce del Ribelle è un’espressione, non è un movimento religioso. Se non altro perché una volta che Dio è morto nessuno può resuscitarlo. Rimaniamo dei razionalisti che denunciano gli orrori della Ragione illuminista, che assolutizzandosi ha fatto di sé un nuovo dio, con gli strumenti della ragione, ricordando però che non esiste solo la Ragione illuminista, ma ne sono esistite anche altre come quella greca che sapeva coniugare, soprattutto nei presocratici, in Eraclito e in Parmenide, razionalità e intuizione. Intuizione che, insieme agli istinti, è quasi completamente svaporata nell’uomo contemporaneo e tecnologicizzato. Non siamo nemmeno degli ecologisti ‘strictu sensu’, se non nei termini che diremo fra poco. Siamo stati spesso accusati d’essere abili nel demolire l’attuale modello di sviluppo, ma di non avere proposte alternative (da ultimo Antonio Carioti “Massimo Fini, Talebano della jihad moderna”, Il Corriere della Sera, 01/11/08). Certo distruggere è più facile che costruire, si sa. Ma in realtà ciò che vogliamo è semplice, almeno concettualmente: riportare l’uomo al centro del sistema, al centro di se stesso, relegando economia e tecnologia al ruolo marginale che avevano sempre avuto prima della rivoluzione industriale. Come? Con un ritorno ‘graduale, limitato e ragionato’ a forme di autoproduzione e di autoconsumo che passano, necessariamente, per un recupero della terra e un drastico ridimensionamento dell’apparato industriale e tecnologico oltre che di quello economico e finanziario (che è poi quanto sostengono alcune correnti di pensiero americane, come il bioregionalismo e il neo comunitarismo). Perché è nel legame con la terra, da cui veniamo e a cui fatalmente torniamo, e in ambienti circoscritti, limitati, comprensibili (questo significa autoproduzione e autoconsumo) che l’uomo può ritrovare se stesso e il rapporto con gli altri nel bene e nel male, naturalmente. A differenza di Savonarola e di Rousseau noi non crediamo che l’uomo nasca naturaliter ‘buono’. Non ci interessa l’uomo buono. Ci interessa l’uomo. Con i suoi istinti, le sue passioni, i suoi sogni e anche le sue ombre, i suoi vizi, le sue violenze. Ma vivo, perdio, vivo. Non un automa omologato dal potente meccanismo (“produci, consuma, crepa” per dirla, sinteticamente, con i Klasse Kriminale) che lo sovrasta, lo asserve a sé, lo avvilisce. Nel 1930 lo scrittore D. H. Lawrence notava come la seconda fase della Rivoluzione industriale inglese avesse cambiato, oltre al paesaggio, l’antropologia, riducendo l’uomo per una metà a un cadavere, ma con l’altra metà ancora sufficientemente sensibile per rendersi conto del proprio stato. Un essere tragico e sofferente (se fossimo stati resi interamente automi, come nel Mondo Nuovo di Aldous Huxley, non avremmo problemi). Poiché riteniamo che questa sensibilità resista, nonostante tutto, anche in moltissimi uomini e donne d’oggi (da qui il disagio acutissimo del vivere nella società contemporanea) è a loro che ci rivolgiamo, perché si risveglino, perché rifiutino di essere persone a metà, perché si riprendano la propria integrità. Questo è il nostro sforzo. E questo è il senso del nostro giornale.
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Un’altra scuola un’altra società di Eduardo Zarelli*
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autunno delle contestazioni studentesche ha molti commentatori. Non basta insegnare in un liceo per dire cose non banali, ma perlomeno garantisce una testimonianza credibile; infatti, ci si sente schizofrenici nel vedere tanta tensione sui media rispetto all’ordinaria vita scolastica di un istituto centrale in una importante città italiana. Plesso occupato e centro di agitazione per qualche giorno, partecipe per la maggior parte dei suoi studenti e insegnanti al recente sciopero generale, ma in tutto ciò privo di qualsiasi nota difforme dalla ciclicità stagionale degli eventi descritti. Sarà la capacità delle strutture sindacali di governare le istanze sociali nel mondo del lavoro; sarà il consenso di molti docenti con le rivendicazioni in corso, ma un primo dato rappresentativo - per uscire dalla stucchevole retorica degli eterni cantori della propria giovinezza, vale a dire del ‘68 o del ‘77 - è che voler trasgredire con l’approvazione sociale, anzi con la sicurezza individuale garantita, è una contraddizione in termini dell’opulento occidente. La mentalità contemporanea che fa della trasgressione un “diritto”, ne uccide sul nascere la possibilità di rimettere realmente in discussione ciò che contesta. Per dei giovani poi, che modellano il loro carattere in questa fase nitida dell’esistenza, la trasgressione è solo per chi sa assumersene le conseguenze, anche estreme e non sembra proprio che ci sia nell’aria nulla di realmente radicale, esistenziale, in gioco. In piazza c’è sicuramente la legittima ansia delle giovani generazioni in un paese gerontocratico e clientelare, amplificata dalla constatabile crisi socio-economica; c’è il tentativo politico di utilizzare pro domo sua la questione reale dell’inadeguatezza della trasmissione culturale e della conoscenza nel nostro paese; c’è il naturale protagonismo dei vent’anni, ma manca la consapevolezza di voler cambiare alla radice le cose, di uscire dal recinto dell’individualismo risentito e giocare la partecipazione come modello altro di vita e di società. La trasmissione culturale è il midollo osseo di una società - anche se spesso le migliori menti e pensatori si sono formate a prescindere da scuola e università – e rappresenta quel momento di formazione imprescindibile nel definire l’identità individuale e collettiva. Limitarsi quindi a dibattere sulla formazione del sapere in termini di tagli nella finanziaria limita la questione alla funzionalità del sistema. La sinistra, in tal senso, confonde demagogicamente lo stato sociale con la clientela assistenziale; la destra, sovrappone consapevolmente lo stato liberale con la razionalizzazione aziendale. In entrambi i casi non si è in grado di assicurare parità democratica d’accesso al sapere e merito nella sua resa pubblica. Manca cioè l’orizzonte del bene comune per cui spendere un ideale disinteressato
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capace di aggregare le giovani generazioni in uno scarto epocale che rimetta in discussione il paradigma della conoscenza. L’istruzione non è un corpo avulso dalla società edonistica e individualistica in cui vive il disorientato uomo contemporaneo. Non si cambia né rendendola un servizio di assistenza sociale permissivo, né inseguendo la competizione economica, in entrambi i casi trainate dal suicida determinismo della globalizzazione. Bisogna, in contro tendenza, avere la forza di emanciparsi dal mercenario spirito dei tempi e riformulare un primato del pensiero disinteressato rispetto al pragmatismo utilitaristico della società industriale. Karl Polanyi ben descrisse - di contro agli economisti classici liberali e marxisti - che oltre allo scambio e alla redistribuzione, c’è la reciprocità comunitaria. Questa è individuabile nei soggetti socio-culturali dove la dimensione dello scambio è colto sul piano del dono, antropologicamente pre-economico. La Res Publica è politicamente legittimata dall’affermazione della giustizia come diritto individuale e dovere personale per la comunità che esprime il “bene comune”. La democrazia procedurale della “destra” e della “sinistra” tradisce questo fondamento politico, dimostrandosi nei fatti una coazione oligarchica al potere. Il primato culturale – di contro - ricostruisce la comunità in cui è possibile l’economia,non l’innaturale contrario dell’aristotelica crematistica. La parola “economia” è formata dai termini oikos e nomos; “ecologia”, da oikos e logos; oikos significa “casa”, nomos “criterio di condotta” e logos “pensiero conseguente”. Ora, se la prospettiva è di mutare il paradigma dominante, ecologicamente suicida (perché espressione del divorzio tra uomo e natura), culturalmente sterile (perché alimentato dal disincanto nichilistico), economicamente utopistico (perché fondato sull’irrealistica crescita illimitata) e socialmente anomico (perché animato da un individualismo opportunistico, che corrode moralmente il contesto sociale su cui dovrebbe poggiarsi), è coerente solo un cambiamento radicale della scuola e dell’università, non difenderle per quello che sono. È illegittimo un governo che taglia tutto, finanziando però le banche che la crisi l’hanno veicolata e mantenendo la più impresentabile classe politica occidentale e il suo indotto clientelare, ma una contestazione di sostanza non può limitarsi al contrasto tra le parti in commedia nell’amministrare l’esistente. La leva del cambiamento è la parte per il tutto, ma nel contesto dell’educazione ha un suo primato esemplare. Il degrado dell’istruzione intacca ancor prima del ruolo sociale, la dignità del docente e l’irripetibilità del discente. Il compromesso impiegatizio, lo squallore familistico del baronato accademico, l’ignoranza studentesca che si propaga e raggiunge i vertici professionali in ogni dove… Nessuno è più disponibile a giocarsi coerentemente la vocazione di una scelta di vita, a partecipare alla trasmissione culturale come evento irripetibile nella formazione spirituale dell’essere, del sentirsi partecipe di un tutto universale. La domanda da porsi è banale, elementare: chi è il bravo insegnante, quello che cova la sua frustrazione nei mille rivoli del compromesso sociale o quello che fa una lezione meravigliosa sull’origine dell’universo? Il paradosso è che l’insegnante che si limita a fare lezioni straordinarie, di quelle da incantare anche i sassi, è bravo perché non è “misurabile”, ma per i funzionari del grigiore questo è intollerabile: una lezione “invisibile”, non è valutabile, scende nell’anima, s’inabissa chissà dove e magari agisce dopo vent’anni e crea uno sconquasso. Chi la misurerà mai? Peccato che sia l’unica “prestazione” che distingue un “maestro” da un intrattenitore sociale. Le “riforme” succedutesi senza posa inseguono le imprese, le banche, che devono intervenire per dare uno “scopo” a Dante e Platone: e se invece - a costo zero - ci venissero in soccorso i movimenti studenteschi e le famiglie, cambiando modo di vivere e ricominciando a educare i figli (meno weekend per esempio,
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meno consumi?). Può esistere oggi un’idea alternativa di scuola, se non esiste un’idea forte del mondo, della società, della vita e della morte? Il gioco, ragazzi, è a somma zero: dentro o fuori dal muro della mercificazione, dentro e fuori di voi. Ribelli si, ma solo se per cambiare veramente la società in cui domani sarete voi ad insegnare.
*Eduardo Zarelli - Università Bologna
Che gli uomini tornino uomini
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di Eduardo Fiorillo*
i fanno schifo gli ultras, quelli buonisti, quelli dello striscione “non siamo delinquenti”, quelli che cercano una giustificazione dove non c’è e non ci può essere ed è giusto che non ci sia. Mi guardo dentro e penso cosa può essere cambiato, cos’è che spinge l’uomo a voler dimostrare che mai su di lui, il vizio, la violenza, l’ingiustizia prendano il sopravvento seguendo una ancestrale voglia di ritornare verso le radici animalesche e barbare. Il confronto fisico, il coraggio, la paura, il cameratismo, la lealtà, in un gioco di sentimenti ed emozioni che forse solo la guerra sapeva insegnare. Ma in un mondo di finti assassini che lanciano missili da migliaia di km di distanza, di finti ladri che rubano speculando sulla finanza creativa, di finti onesti, in cui non la colpa ma il verdetto decide anche per la coscienza (se hai rubato ma sei assolto ti senti innocente), in questo mondo anche l’ultras diventa una vittima dell’ipocrisia compiacente nel regolarizzare tutto ciò che non si riesce a comprendere. Nulla può sfuggire alla valutazione, alle regole, alle risposte. Insomma tutto deve finire, deve passare come la giovinezza di chi se prendeva una manganellata o un sasso e poteva essere anche qualcosa di molto più tragico non pensava di essere vittima di un complotto, ma solo di essere stato un fesso che aveva trovato quello che sperava di non trovare, ma che ci poteva stare. E nel mezzo però c’era l’adrenalina pura, quella cosa che ti faceva sentire non di di essere migliore di qualcun altro, ma di essere vivo e di non essere solo. Ridate agli uomini ciò che è degli uomini, se spariranno i ruffiani, gli ipocriti, i vili, quelli che si ostinano a farsi dare retta, spariranno anche gli ultras se ce ne sono ancora.
*Eduardo Fiorillo - produttore, regista
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Diritto allo studio che inganno
Il governo mira a privatizzare la scuola? Sbagliato. La scuola è e deve restare pubblica. Gli studenti scendono in piazza per protestare? Giusto. Ma solo se sono davvero “studenti”. Ragazzi che studiano. E fanno del loro meglio. di Federico Zamboni
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scuola ci siamo stati tutti, chi più e chi meno. Abbiamo visto quello che c’è di buono (poco) e quello che c’è di male (tanto, a volte tantissimo). Quali che siano stati i nostri percorsi, dalle elementari alle medie inferiori, dalle superiori all’università, almeno una cosa l’abbiamo potuta osservare innumerevoli volte: le aule sono piene di ragazzi che non hanno voglia di studiare e, simmetricamente, le cattedre sono spesso occupate da professori che, per incapacità intrinseca o per sopravvenuta indolenza, non hanno voglia di insegnare. Di fronte a una situazione così poco confortante – e sorvoliamo, almeno per ora, su tutto il resto che non va, dalle condizioni degli edifici scolastici al business dei libri di testo – si discute di tutto tranne che della questione fondamentale. Che diavolo intendiamo per “diritto allo studio”? Ovverosia: a cosa serve studiare, nella scuola italiana? E per essere ancora più chiari – e provocatori: è poi così vero che la generalità degli esseri umani avverte il bisogno di un’istruzione, nell’accezione scolastica del termine? La discussione dovrebbe (ri)partire da qui. Nel pandemonio di contestazioni, denunce e proclami che hanno fatto seguito alla cosiddetta “riforma Gelmini”, nessuno ha avuto la franchezza, o persino la brutalità, di chiedersi se questa nostra scuola italiana non abbia bisogno innanzitutto di una drastica cura dimagrante. Se non sia meglio far studiare i giovani per meno tempo, ma con un percorso formativo che miri innanzitutto a farne dei cittadini consapevoli, responsabili e attivi, e se la soluzione al sovraffollamento e alla scarsità di fondi non consista, semplicemente, nel procedere a una congrua selezione tra chi ha un’autentica attitudine allo studio e chi, al contrario, non solo non ce l’ha ma neppure la desidera. Oggi, in Italia, l’obbligo scolastico è fissato a 16 anni. I dati ufficiali attestano che poco meno del 75% arriva al diploma: pur essendo un risultato infe-
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riore alla media europea, significa pur sempre che la stragrande maggioranza dei ragazzi arriva al termine delle superiori. Apparentemente, specie se lo si confronta con quanto accadeva in passato, è un successo. Apparentemente è la dimostrazione di un sistema educativo – sia pure “educativo” nel senso limitato e quasi fuorviante di una preparazione puramente intellettuale – che funziona bene. Presi in consegna a cinque anni, i bimbi vengono accompagnati passo passo fino alla maggiore età. Con tanto di valutazioni riepilogative al termine di ciascun anno e di prove finali (l’altisonante “esame di Stato”) al compimento di ogni ciclo scolastico. Ergo, suggeriscono le statistiche, se una così alta percentuale supera le singole verifiche e completa tutto quanto l’iter, non si può che concludere che l’obiettivo è stato raggiunto. Sia pure tra mille difficoltà, l’istituzione ha realizzato il suo scopo. Il livello culturale dei giovani, e quindi dell’intera popolazione, è cresciuto.
Dentro l’inganno È una colossale panzana. Le bassissime percentuali di bocciati non confermano affatto che il processo di apprendimento è andato a buon fine, ma esattamente l’opposto. Non è che i somari non esistono più, o che esistono in misura minima e, comunque, inferiore al passato. È che i somari, adesso, non vengono più identificati come tali. Invece di fermarli per tempo, li si lascia proseguire comunque. Per quanto scarsi essi siano, li si mette in condizione di arrivare ugualmente al traguardo. Non potendone migliorare la qualità, e le prestazioni, si riducono a zero, o quasi, le difficoltà che sono chiamati a superare. Basta che non stramazzino al suolo, abbandonando la corsa prima che essa sia finita, e li si spaccia per purosangue. O, se non altro, per onesti corridori. Il teorema, capzioso fino alla mistificazione, è che il sistema scolastico è tanto più efficiente quanto più alto è il numero dei promossi. Ed è lo stesso teorema, sia detto en passant, che si va affermando nel mondo della formazione professionale, specialmente quando a commissionarla sono gli enti pubblici: se mi paghi perché io trasferisca know how ai tuoi dipendenti, perché mai dovrei dirti io stesso che in parecchi casi non ci sono riuscito? Il rischio, come minimo, è che in futuro non mi rinnovi l’incarico. Ed eccoci al punto. La stessa scuola che dovrebbe mirare alla selezione, affinché soltanto chi lo merita continui a studiare a spese dello Stato, mira invece a conservare se stessa. A perpetuarsi così com’è nelle sue strutture, nelle sue zone d’ombra, nelle sue clientele. Ridurre sensibilmente la quantità di studenti, o presunti tali, significherebbe dover ridurre in proporzione la quantità dei professori, o presunti tali. Se non si fa selezione, in altre parole, è per non correre il rischio di essere selezionati a propria volta. Meglio annoiarsi in classi svogliate, che essere costretti a fare i conti con la ricerca di una collocazione professionale diversa e meno agevole, che obblighi a chiedersi se realmente, per preparazione culturale e per capacità pedagogiche, si è preparati alla bisogna. Meglio vivacchiare alla meno peggio: come si è detto dei giornalisti,“sempre meglio che lavorare”. Ma c’è dell’altro, naturalmente. C’è che un lungo, lunghissimo percorso
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scolastico tiene milioni di giovani in una situazione di attesa, posticipandone l’impatto con la vita reale. Dilazionando il momento in cui dovranno affacciarsi sul mondo del lavoro e scoprire, tra sorpresa e rammarico, che per lo più i loro bei diplomi, e spesso anche le loro belle lauree, non garantiscono un bel niente. Ammesso che abbiano studiato con impegno, non è detto che ciò che hanno appreso sia funzionale a ottenere un impiego affine alle loro “competenze” e retribuito come si conviene. Ammesso che abbiano acquisito davvero le conoscenze ricomprese nel loro titolo di studio, non è detto che abbiano anche sviluppato la prima qualità che dovrebbe apportare una crescita culturale degna di tal nome: la capacità di imparare sempre nuove
Conclusi gli studi le domande giuste devono essere brutali. Che cosa ho imparato? Che cosa so fare davvero? Perchè qualcuno dovrebbe pagarmi quanto desidero? cose, saldando la teoria alla pratica, guardando con inesauribile interesse a ciò che fanno gli altri. Per incredibile che possa sembrare, dopo tutto quello che si è visto negli ultimi anni, l’idea dominante continua a essere la solita. Con l’ottenimento del titolo di studio il più è fatto. Il famigerato “pezzo di carta” è la chiave che aprirà, se non proprio spalancherà, le porte delle aziende o degli enti pubblici o delle libere professioni. E se poi si è aggiunto un master, o magari due… Un’altra panzana. Un’altra illusione. Stupido chi ci crede, ma criminale chi le alimenta. Il primo messaggio che la scuola dovrebbe dare agli studenti, invece, è che non c’è più nessun automatismo tra il raggiungimento di una laurea, e tanto meno di un diploma, e un adeguato inserimento lavorativo. Sei laureato in legge, in medicina, in architettura, o addirittura in qualche disciplina insolita come l’archeologia? Non significa che sei destinato a fare l’avvocato, il medico o l’architetto; e men che meno l’archeologo. Conclusi gli studi non devi affatto chiederti quanto guadagnerai il primo mese o il primo anno. Le domande giuste sono altre. E sono brutali. Che cosa ho imparato? Che cosa so fare, davvero? E ancora: perché qualcuno dovrebbe pagarmi quanto desidero? Cos’è che mi rende migliore degli altri che nutrono le mie stesse aspirazioni?
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Se la scuola non trasmette questa chiarezza, questa lucidità su se stessi e sulla realtà circostante che è la prima e imprescindibile forma di intelligenza (l’intelligenza come consapevolezza dei dati da cui si parte), il suo compito educativo è totalmente fallito. Così come è fallito, sul duplice binario della preparazione al lavoro e dell’interazione sociale, se non tempra il carattere dei giovani. Se non sviluppa in loro il senso di responsabilità, la capacità di concentrazione e (parola grossa) di sacrificio, la convinzione assoluta e definitiva che ogni buon risultato è la conseguenza di un impegno assiduo. Se non li abitua a essere esigenti innanzitutto con se stessi. Se non li porta a condividere, in sintesi, l’idea e la cultura della meritocrazia.
Se l’esempio è pessimo Ma per trasmettere qualcosa a qualcuno, ovviamente, bisogna prima possederlo. Possederlo individualmente, come insegnante, e possederlo collettivamente, come società. Non si può auspicare che la scuola sia sana, e dispensatrice di valori etici e di altezze culturali, quando essa si trova a operare all’interno di uno Stato degradato, nel quale la parola d’ordine è farsi largo con qualsiasi mezzo e la cui classe dirigente, a cominciare da quella politica, non brilla certo né per competenza né per dirittura morale. Quand’anche la scuola, miracolosamente, ritrovasse un’identità diversa e migliore rispetto a ciò che la circonda, non basterebbe comunque a controbilanciarne gli influssi negativi sulle nuove generazioni. Alla base di tutto, infatti, c’è l’esempio che si riceve. L’esempio che si ricava dall’osservazione – ma forse è meglio dire “dalla percezione”, a sottolineare la prevalenza dell’aspetto psicologico su quello concettuale – del comportamento degli adulti. I giovani, e in particolare i bambini e gli adolescenti, imparano innanzitutto per imitazione. Guardano quello che fanno “i grandi” e si regolano di conseguenza. Si chiedono quale sia il gioco che si sta giocando, e come si faccia a vincere, e iniziano ad adeguarsi. Vanno per la maggiore le apparenze obbligatorie e instabili del consumismo? Diventano consumisti a caccia di prodotti firmati o comunque alla moda. Si affermano personaggi di nessuno spessore, tipo quelli dei Reality Show? Sognano di fare altrettanto. La sopraffazione e la scorrettezza regnano sovrane dappertutto? Si allenano ad angariare i deboli, e a violare le regole, là dove possono: e innanzitutto a scuola. Cosa c’è di strano? Sono o non sono i cuccioli di questo
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nostro branco incattivito e famelico? Sono o non sono i figli di un Paese in cui l’onestà è diventata talmente rara che, se un politico non ruba (o è così abile e accorto da convincere tutti di non averlo mai fatto), si grida quasi al miracolo e non si manca mai di sottolinearlo come se si trattasse di chissà quale dote? I giovani ci copiano, tutto qui. Al di là delle apparenze, al di là del loro tipico bisogno generazionale di rimescolare le carte e di elaborare i propri codici di comportamento e di espressione, si muovono nella stessa direzione in cui ci stiamo muovendo noi. Vogliono divertirsi e lavorare il meno possibile. Come noi. Vogliono affermare i loro diritti e scansare i propri doveri. Come noi. Vogliono entrare nel Lunapark che hanno visto in televisione, o in ogni altro genere di pubblicità, e rimanerci per sempre. Logico, no? Questo è ciò che conoscono, ciò che
Per fortuna, grazie a famiglie ancora salde o in virtù di innate qualità interiori, tra i ragazzi c’è più di qualcuno che si applica a fondo e che fa del suo meglio. vedono affermarsi, e questo è ciò che desiderano. A chi volete che diano retta? Al professore che se ne sta in cattedra e che, per dirla con Roberto Vecchioni, «è uno sfigato da 1.500 euro al mese», oppure a Fabrizio Corona, che ne combina di tutti i colori ma è strapieno di soldi e che, tra una denuncia e l’altra, viene puntualmente invitato in tivù a illustrare la sua (sic) filosofia di vita?
Meno forma, più sostanza Senza generalizzare, certo. Senza credere che tutti ma proprio tutti i ragazzi, così come tutti ma proprio tutti gli adulti, siano omologati al peggio della società occidentale e che, per di più, siano ben contenti di esserlo. Per fortuna, grazie a famiglie ancora salde o in virtù di innate qualità interiori, ce n’è più di qualcuno che si applica a fondo e che fa del suo meglio. Per quanto frenati da insegnanti mediamente inadeguati, da compagni di classe mediamente inferiori alla sufficienza, nonché da ogni altra carenza di quel sistema elefantiaco e farraginoso che è la pubblica istruzione in Italia, ci sono ragazzi e ragazze che compiono ogni sforzo per tirare fuori il massimo dal percorso che vanno compiendo. La tutela nei loro confronti deve essere assoluta. Ciascuno di essi deve poter accedere, in modo totalmente gratuito e magari con ulteriori sussidi, a quanto di meglio vi sia nel nostro Paese in termini di offerta formativa. È in questo senso che la
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battaglia contro la privatizzazione della scuola è sacrosanta. È in questo senso che va stroncato sul nascere qualsiasi tentativo di creare due percorsi alternativi e paralleli: di qua la scuola pubblica, che annaspa affannosamente sotto l’obbligo di legge di tenere tra i banchi chiunque fino ai sedici anni, e sotto la pretesa di portare la quasi totalità degli allievi a concludere le superiori; di là quella privata, che essendo libera da tutto questo può offrire agli studenti – sia pure in cambio di rette dispendiose e accessibili soltanto ai più agiati – la qualità e il rigore necessari a restituire credibilità e sostanza ai diplomi e alle lauree. La chiave di volta, infine, è nell’abolizione del valore legale del titolo di studio. O meglio: nel superamento della situazione attuale, che subordina le lauree al superamento dei singoli esami e le abilitazioni professionali al possesso di un diploma. Gli esami pubblici vanno sì mantenuti, a tutela degli utenti e a verifica della preparazione di chi si accinge a svolgere un dato lavoro e, a maggior ragione, una determinata libera professione, ma senza vincolarli a nessun percorso predeterminato. Se un esame è degno di tal nome, deve per definizione essere in grado di accertare hic et nunc se il candidato possiede la preparazione necessaria. Si ritiene che non basti, per riuscire nell’intento, la consueta trafila di una prova scritta e di una orale? Si passi a uno stage di uno o più giorni. Un vero “diritto allo studio” presuppone anche questo: che non vi siano più pastoie burocratiche, quand’anche sotto forma di percorsi di apprendimento obbligatori e inderogabili, che limitano o precludono la possibilità di vedersi riconosciuta la propria competenza in un certo ambito. Lo Stato ha il dovere di predisporre i migliori strumenti didattici e di metterli a disposizione di chi ha le qualità intellettuali e l’autodisciplina necessari a utilizzarli come si deve, cioè a vantaggio di se stesso e della comunità alla quale appartiene. Il singolo, di contro, ha il diritto di far valere le proprie capacità in qualsiasi momento, indipendentemente dal modo in cui le ha acquisite. Autodidatta non è una parolaccia: è il segno di una volontà di apprendere, e di migliorarsi, che è così forte da essere pronta a cercarsi da sola la strada per arrivare a destinazione.
Federico Zamboni
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Talis pater talis filius
Non è un’ipotesi da verificare. È un dato Istat: l’84% dei figli di genitori laureati si iscrive all’università mentre tra i figli dei non laureati la percentuale scende al 38% di Carlo Gambescia*
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cuola, università e mobilità sociale Messo così, in sociologhese, l’argomento sembra più adatto a un seminario universitario sulla società italiana. Invece si tratta di una tema “caldo” che riguarda tutti, come dimostrano, da ultime, le manifestazioni di protesta contro i provvedimenti del ministro Gelmini. Una questione che chiama in causa Sua Maestà il Denaro. Come capirà il lettore, se avrà la pazienza di giungere fino in fondo all’articolo.
L’improbabile eguaglianza Una prima domanda cui rispondere è quella se al dettato costituzionale (articoli 3 e 34) sull’eguale diritto del cittadino di raggiungere “i gradi più alti dell’istruzione”, abbia corrisposto nei fatti una reale crescita della mobilità sociale, culturale e professionale. Una risposta si può trovare nella ricerca del 2006 a cura di Daniele Checchi, Carlo Fiorio e Marco Leonardi dell’università degli Studi di Milano (si veda: Sessanta anni di istruzione scolastica in Italia – www.rivistapoliticaeconomica.it/2006/lug_ago/Checchi_Fiorio.pdf). Ne riassumiamo le conclusioni. A sessant’anni dalla sua promulgazione, per un verso si è avuta una crescente scolarizzazione, che ha inciso sulle disuguaglianze in termini assoluti. Semplificando: se un padre nel 1948 era analfabeta o non aveva conseguito la licenza elementare il figlio negli anni SessantaSettanta ha raggiunto la licenzia media, e così via (ma fino a un certo punto, come poi vedremo). Di conseguenza si è potuto osservare,“anche per effetto della crescente scolarizzazione (…) un aumento del grado di mobilità intergenerazionale, misurato in termini di anni di istruzione. Essendosi ridotta la parte bassa della distribuzione della scolarità (ci sono meno genitori analfabeti o che non hanno completato l’obbligo scolastico)”
Famiglie di laureati che riproducono laureati Tuttavia, per un altro verso,“il processo rallenta o addirittura inverte la tendenza alla convergenza quando si consideri il conseguimento del livello più
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alto di istruzione, quella universitaria” . In questo caso i figli dei genitori non laureati incontrano l’equivalente di un“soffitto di vetro”, non riuscendo in larga misura, come poi vedremo, a laurearsi. Resta infatti, per dirla ancora in sociologhese, un “differenziale di probabilità” nel conseguimento dei livelli più alti, basato sul diverso background familiare. Il che in soldoni significa che “grazie alle reti familiari i figli dei genitori più istruiti, a parità di titolo di studio conseguito, trovano accesso alle occupazioni migliori (lavori più interessanti, meglio retribuiti, con migliori prospettive di carriera)”. Mentre “i figli dei genitori meno istruiti hanno minori incentivi a proseguire”. Inoltre, il fatto che i figli di genitori senza laurea non si iscrivano all’università potrebbe essere determinato dal differente “costo-opportunità” davanti alla scelta di un lungo periodo di studio, che una famiglia di condizioni modeste può sostenere solo rinunciando al salario aggiuntivo prodotto da un figlio. Proseguire nel processo di istruzione implica per i figli dei non laureati una possibile perdita se confrontata con quella, sicuramente inferiore o inesistente, dei figli di genitori laureati, con maggiori disponibilità di reddito. Un’ultima spiegazione, complementare alle due precedenti, si fonda sulla diversa rischiosità dell’investimento in “titolo di studio universitario” legata alla differente “avversione al rischio” tra figli di genitori con titoli di studio differenti. Se l’iscrizione all’università è considerata un investimento rischioso, perché la famiglia non ha redditi sufficienti, a causa del basso coefficiente di istruzione dei padri,“allora la differenza nei gradi di conseguimento della laurea dei figli a seconda dell’educazione dei padri potrebbe essere spiegata dalla differente rischiosità dell’investimento e dalla diversa avversione al rischio”. Ci permettiamo di aggiungere, andando oltre l’impostazione, per certi aspetti economicista, della ricerca di Checchi, Fiorio e Leonardi, che spesso un ruolo è giocato anche dal senso di onore generazionale che caratterizza una famiglia con più generazioni di laureati. Il che ovviamente rinvia anche (ma non solo) a quella buona dotazione economica di base, reddituale e patrimoniale, che rende accettabile il rischio di un investimento in studi più lunghi.
Una questione di “conoscenze” Di qui gli alti tassi di dispersione tra coloro che provengono da famiglie di non laureati. Eredità di una reificata cultura della sfiducia verso la possibilità di potere trovare un lavoro economicamente in sintonia con il titolo accademico. Un atteggiamento, quest’ultimo, legato anche al fatto che il mercato del lavoro italiano è particolarmente caratterizzato da vischiosità familistiche, soprattutto nelle professioni liberali, e da vincoli di tipo fiduciario (tradotto: da una specie di capitale relazionale fatto di buone conoscenze, legate in misura scalare al progressivo volume del reddito familiare prodotto). In buona sostanza questi meccanismi hanno fatto sì che dal 1948 ad oggi, 2 figli su 3 svolgono lo stesso lavoro del padre, o comunque all’interno della stessa fascia di reddito, 1 su 3, un lavoro diverso, ma appena superiore in termini di reddito a quello paterno, e 2 su 3 continuano a trovare lavoro grazie a relazioni di tipo fiduciario.
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Stando ai dati dell’ISTAT sugli sbocchi lavorativi dei diplomati delle scuole superiori nel 1995 e nel 1998 (citiamo sempre dalla ricerca di Checchi, Fiorio, Leonardi): “l’84% dei figli di genitori laureati si iscrive all’università mentre solo il 38% dei figli di genitori non laureati si iscrive all’università. Ma una volta iscritti, solo il 5,8% dei figli dei laureati abbandona gli studi nel corso dei primi 3 anni, mentre la stessa percentuale sale al 15% per i figli dei non laureati”. Non c’è insomma di che stare allegri.
Una mobilità sociale quasi inesistente. Pertanto, se si astrae dalla mobilità sociale di confine, soprattutto fra gli strati più alti delle classi operaie e
Non lo si ricorda praticamente mai, ma la società italiana presenta un elevato tasso di concentrazione della ricchezza: il 45% del totale è detenuto dal 10% delle famiglie. quelli più bassi del ceto medio, la mobilità sociale italiana è ferma agli stessi livelli dei primi anni Sessanta. Perciò le numerose riforme scolastiche, da allora succedutesi, non hanno influito sulla mobilità sociale vera. Si è avuta una dilatazione cooptativa, verso il basso, del ceto medio. Semplificando al massimo: i figli degli operai e dei contadini più volitivi e con titolo di istruzione elementare, si sono diplomati (1 su tre) o laureati (2 su 10), trasformandosi in impiegati e insegnanti (ma su questi argomenti si veda l’indagine di Mauro Magatti e Mario De Benedittis, I nuovi ceti popolari, Feltrinelli 2006): vera mobilità sociale verticale dalla base verso la sommità della società non vi è stata. E di questo passo la situazione rischia di diventare socialmente esplosiva. Stante, soprattutto, la recessione economica mondiale in atto. Alla quale si affianca un mercato del lavoro, che è stato capace negli ultimi vent’anni di generare “lavoretti”, principalmente nel terziario semipovero (telefonisti, camerieri, vigilanti, guardiani, ecc.). E che di conseguenza non riesce ad assorbire, se non a termine, una massa crescente di diplomati, ai quali si vanno aggiungendo anche i figli degli immigrati. Si pensi a una porta molto stretta dalla quale siano costrette a passare insieme, invece di una o due, dieci persone alla volta, ma
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per poi riuscirne subito, e ricominciare a fare la fila davanti a un’altra porta, ancora più stretta. Il rischio è quello che le porta, prima o poi, possano essere scardinate o abbattute con la forza, insieme alle pareti e ai muri maestri.
Una società gerontocratica Anche perché la società italiana, cosa di cui si parla malvolentieri, ma documentata, gode, si far per dire, di un elevato tasso di concentrazione della ricchezza: il 45 per cento dell’intera ricchezza netta delle famiglie italiane è posseduto dal 10 per cento delle famiglie più ricche (si veda: www.bancaditalia.it/statistiche/indcamp/ bilfait/boll_stat/suppl_07_08.pdf - ). E non solo. Come si legge in un recente libro di Carlo Carboni ( Élite e classi dirigenti in Italia, Editori Laterza 2007) la “power élite” italiana è segnata dall’ingombrante e massiccia presenza di sessantenni e ultrasessantenni: trentasei “potenti” su cento hanno più di sessantacinque anni. Il che indica scarso ricambio, almeno dal punto di vista ideale dell’elitismo democratico. E quindi poche possibilità per un giovane di farcela, anche se in possesso di buoni titoli accademici. Di qui la famosa fuga dei cervelli. Dalle indagini condotte da Carboni sulla banca dati del Who’s who, che riduce a 5500 i personaggi di spicco italiani (su circa venticinquemila persone in tutto, tra leader, élite collegate e classe dirigente diffusa sul territorio), risulta infatti “che i quattro quinti dei potenti over 60 erano presenti già a partire, come minimo, dal 1998, mentre si riscontra una percentuale pressoché dimezzata fra coloro che avevano nel 2004 massimo 40 anni”.
Una ricchezza concentrata in poche mani Ora, in questo quadro, che evidenzia una società chiusa o quasi, parlare di riforme scolastiche e universitarie, senza prima aver reciso (o almeno alleggerito il peso…) - ci si perdoni l’espressione probabilmente retorica - le catene della ricchezza, è assolutamente ridicolo. Di qui l’importanza di affrontare preliminarmente questo problema. Ci spieghiamo meglio. La distribuzione della ricchezza è connessa a due regolarità, una statistica e una politologica. La prima riguarda la sua forma grafica “a fiasco”: pochi in alto, molti al centro, pochi in basso (ma sempre in misura maggiore rispetto ai detentori di ricchezze elevate). La seconda consiste nel fatto, che quanto più la ricchezza si concen-
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tra in poche mani, a prescindere dai valori dei patrimoni medi, tanto meno una società è libera e democratica. Dal momento che quei pochi, di regola, decidono di fatto in luogo dei molti. Ora, che il 45 per cento dell’intera ricchezza netta delle famiglie italiane sia posseduto dal 10 delle famiglie più ricche non è un dato incoraggiante. Soprattutto se nei prossimi anni il trend continuerà a crescere. Evidentemente qualcosa non funziona nella distribuzione del reddito. Che cosa?
Come combattere sua Maestà il Denaro In primo luogo, su questa tendenza incide pesantemente l’ "elusione fiscale" (l'evasione pura e semplice, se ci si perdona la caduta di stile, è roba da ceti medi piccoli piccoli...). Si tratta di un fenomeno che riguarda soprattutto i ceti più ricchi, che godono di maggiori informazioni per eludere il fisco. Una pos-
Se si punta alla privatizzazione della scuola e dell’università è per trasformarle in lucrosi affari per alcuni privati. A danno della stragrande maggioranza di coloro che non possono permettersi il pagamento di rette salatissime. sibilità legata appunto al fatto di potersi permettere consulenze “tecniche” di altissimo livello. In secondo luogo, in Italia, paese familistico per eccellenza, tuttora si ritiene che i figli non possano farcela da soli nella vita... Di qui "l'aiutino", diciamo così, patrimoniale dei padri: tanto più consistente quanto più la famiglia è ricca. E che come principale conseguenza ha portato alla difesa della trasmissione del patrimonio familiare ai figli. Una difesa tanto più dura quanto più esso è ingente, spesso anche ricorrendo a modalità elusive e/o illecite. Di qui la grande difficoltà politica di introdurre in Italia una tassa di successione, in grado di assicurare una migliore redistribuzione della ricchezza. Legata, ovviamente, anche allo scarso coraggio, e alla connivenza con i poteri economici forti, dei politici italiani. In terzo luogo, accanto a queste cause strutturali, va aggiunta quella legata agli effetti economici delle “privatizzazioni”, che, seppure modeste, negli ultimi due decenni sono andate a rimpinguare le casse del capitalismo familiare italiano. Il che, per inciso, spiega perché, oggi, si punti anche alla privatizzazione della scuola e dell’università: per trasformarle in lucrosi affari per alcuni privati, a danno della stragrande maggioranza di coloro che non possono permettersi il pagamento di rette salatissime. Altro che l’eguaglianza sancita dalla Costituzione…
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In quarto luogo, sul versante dell’impoverimento sociale, che rappresenta il rovescio della crescente concentrazione di ricchezza, hanno inciso la precarizzazione dei rapporti di lavoro e il passaggio dalla Lira all’Euro. Soprattutto quest’ultimo fatto ha costituito una "benedizione" per coloro, che godendo di grandi patrimoni, hanno potuto mettere a frutto il rafforzamento dell’Euro, investendo all’estero. Mentre si è risolto in una "maledizione" per coloro, la maggioranza dei cittadini, che hanno visto eroso il già magro bilancio familiare.
Conclusioni Risulta perciò evidente che quanto più la politica italiana favorirà la precarizzazione del lavoro, la privatizzazione dell’economia e l'elusione fiscale dei grandi patrimoni, tanto più crescerà la disuguaglianza dei redditi e la concentrazione della ricchezza in poche mani. E tanto più sarà inutile pretendere di trasformare, come per incanto, a colpi di provvedimenti legislativi, scuola e università in strumenti di mobilità sociale. Perché siamo convinti che non si tratti di un problema, come spesso si legge, di buona finanza pubblica e di borse di studio (o comunque non solo), ma di una scuola che tuttora riflette, pagandone le colpe, una struttura sociale tendenzialmente oligarchica. Pareto la definirebbe plutocratica. In ultima istanza, e per dirla fuori dai denti, il nemico principale di un’autentica riforma della scuola e dell’università è il pericoloso strapotere di sua Maestà il Denaro.
(*)Carlo Gambescia – sociologo
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un posto in cattedra Nell’università dei baroni i corsi di laurea servono a foraggiare gli amici degli amici. In quella della Gelmini rischiano di sparire le facoltà che non sono funzionali al mercato. di Francesco Bertolini
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iforma dell’università! L’esplosione dei corsi di laurea, con l’inaugurazione di sedi distaccate ha caratterizzato gli ultimi anni accademici. Corsi di laurea fantasmi ma cattedre e stipendi veri; cattedre nate per collocare migliaia di “protetti”, di pseudo professori e ricercatori, incapaci, come uccelli nati in cattività, di spiccare il volo e di sopravvivere in ambienti di libero mercato, tanto invocato spesso nei loro insegnamenti. L’università italiana è piena di questi personaggi, i migliori spesso non arrivano a posizioni strutturate, i concorsi sono costruiti ad hoc per collocare i più fedeli, non i più bravi. L’università riflette esattamente la politica di cui è spesso figlia; non c’è quindi da scandalizzarsi, mentre è invece vergognoso che, a fronte di migliaia di inetti che sopravvivono con ricerche inutili e contributi pubblici, si abbia la totale assenza di una politica del lavoro giovanile . La pseudo riforma Gelmini non modifica la sostanza del problema, è solo un cambio di prospettiva, forse migliore rispetto al lassismo totale degli ultimi anni, ma che va nella nuova direzione strategica di una università funzionale al mercato, con cattedre e ricerche sponsorizzate dalle grandi aziende, migliorando in questo modo i conti ma annientando definitivamente la libertà intellettuale di cui l’università dovrebbe essere portatrice. Siamo nell’epoca degli stage, nuova modalità di sfruttamento del lavoro intellettuale; stage all’università, al master, dopo il master, in una rincorsa spesso infinita di un lavoro riconosciuto, sia professionalmente che economicamente. Un’epoca dello stage che accentua ulteriormente l’era dello stress, concetto attribuito all’alienazione di un lavoro sempre più competitivo che ha portato una dissociazione sempre più diffusa tra ciò che si fa e ciò che si vorrebbe fare. In realtà il termine stress nasce dalla realtà bellica, legato all’erosione della meccanica delle armi. Diventa quindi inevitabile, quando si analizza l’etimologia del termine seguire il ragionamento che ci con-
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duce alla guerra quotidiana che si combatte sui luoghi di lavoro. Una guerra che lascia le proprie vittime dagli analisti, che nella nostra epoca secolarizzata hanno sostituito i preti, nell’offrire ascolto ai caduti dello stress; una sostituzione costosa, ma oggi ciò che non costa non ha valore, non può essere misurato, confrontato, migliorato. E così, questa nuova, grande società dalle mille opportunità, globalizzata, con stage disponibili in tutto il mondo, dove svolgere lavori che arricchiscono pochi e affamano una generazione di giovani che rimangono giovani sempre più a lungo, sembra aver intrapreso un vicolo cieco. Cosa fare, di fronte a soloni che, con super stipendi, rendite di posizione e ruoli intoccabili, illustrano i benefici della flessibilità e dell’economia globale? Mi sembra a volte che questa manodopera abbondan-
Strana società, la nostra, dove la riforma della scuola ha ridotto ancora il tempo dedicato alla musica. E l’arte viene vista dai più come un’attività folcloristica. te, a costo basso, nuova schiavitù alimentata con buoni pasto e abbonamenti ai mezzi pubblici abbia le armi spuntate; per uno che rinuncia cento sono pronti a inserirsi in questo girone infernale, iniziando un percorso che, nella migliore delle ipotesi lo porterà a sostituire, nel lungo periodo, il suo schiavista. Strana società la nostra, dove la riforma della scuola ha ulteriormente ridotto il tempo dedicato alla musica e l’arte viene dai più vista solo come un’attività folcloristica di qualche disadattato, spesso, in realtà, invidiato dai cosiddetti leader. Ma l’arte, quando diffusa a larghi strati della popolazione e non riservata a pochi, secondo alcune teorie che hanno analizzato vari paesi e vari conflitti, è risultata essere uno dei pochi antidoti alla guerra, in quanto consente il manifestarsi di emozioni che nelle nostre ricche, grigie, noiose ma nello stesso tempo iper conflittuali società non sono più contemplate o tollerate. Ricordiamoci l’origine dello stress.
Francesco Bertolini
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Università da rifondare
Non è soltanto un problema di fondi e di tagli. Prima di discutere di soldi e di strutture bisogna capire cosa vogliamo dai nostri Atenei di Bianca Berardicurti*
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uando l'Università si ammalò, nessuno ebbe ad accorgersene. Per questo motivo, anche se sarebbe facile semplificare in tal senso, bisognerà ammettere che il Decreto Gelmini (ovvero la legge del Taglione), non uccide, quanto piuttosto si accanisce su un corpo ormai già praticamente esanime. Quella dell'Università italiana è stata una malattia lunga, durata anni, in cui ha subito un accanimento di riforme inutile ad ogni cambiar di governo, e un aumento spropositato di corsi di laurea iperspecialistici e superlflui (da 2244 nel 2000 a 5517 nel 2007 secondo il Ministero dell'Istruzione). Sono stati gli stessi anni in cui professori e rispettivi allievi si sono tacitamente accomodati su un modello di collaborazione e selezione per la carriera accademica ormai divenuto prassi: partenza dalla tesi, per poi passare a lunghi periodi in cui i "ricercatori invisibili" scrivono e producono per meriti che non saranno loro stessi a prendersi, nell'attesa di essere "piazzati" dal docente in qualche concorso. Gli stessi anni in cui gli Atenei hanno iniziato la loro febbrile gara in retromarcia su eccellenza e severità, nella necessità di attrarre iscrizioni, sfornare quante più lauree possibili e mantenere le medie alte, dati che in Finanziaria rimangono, insieme ad altri che generalmente variano di anno in anno, parametri di valutazione della produttività degli Atenei per l'attribuzione di fondi. Le conseguenze di questo gioco concorrenziale al contrario sono palesi: lauree più facili, livellamento verso il basso della formazione degli studenti, insufficiente per affrontare il mercato del lavoro e la competizione a livello internazionale. L'Università italiana si è ammalata anche per questo, per non essere stata in grado di attirare studenti stranieri offrendo loro lezioni in inglese e adeguati laboratori linguistici, paralizzando così l'integrazione tra sistemi e culture diverse e la collaborazione nella ricerca; e per non essere stata in
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grado di controllare gli accordi tra professori e case editrici che hanno comportato l'adozione di libri di testo spesso superati, a volte obsoleti, in qualche caso persino inutili, ma comunque estremamente costosi per gli studenti di ogni fascia di reddito. Di fronte a questo scenario pregresso rispetto all'arrivo della legge del Taglione, è lecito rimanere perplessi e domandarsi quale sia l'improvviso disagio e quali siano le richieste portate avanti dalle persone che hanno "inondato" le piazze da settimane a questa parte; il disagio e la richiesta tipici di ogni gruppo sociale che manifesti il suo dissenso. Le numerose analisi di cui i media ci hanno ricoperti in questo lasso di tempo hanno sempre trascurato di localizzare entrambe le cose. I quotidiani nazionali, ormai tendenzialmente disabituati all'approccio critico, reso superfluo grazie alla più semplice necessità di schierarsi su posizioni antitetiche e marcatamente ovvie, hanno avvilentemente presentato una prospettiva binaria, le due diverse dicotomie tra studenti facinorosi, svogliati e contrari alla prospettiva dell'irrigidimento delle regole universitarie, accompagnati da ricercatori aggrappati al sistema cooptativo e non meritocratico, accomunati dall'attaccamento allo status quo, contro il Governo virtuoso e liberale; oppure la dittatura molle che subdolamente punta al degrado dell'istruzione, dolosamente preordinando una riforma che ne distrugga le fondamenta e i giovani paladini della giustizia che a ciò si oppongono. Vale forse la pena chiedersi, a questo punto e per l'ennesima volta, a cosa sia servito l'acquisto dei quotidiani che, senza pietà per il lettore, hanno sciorinato in tutti i modi e gli esercizi possibili, queste posizioni standard preconfezionate senza il minimo sforzo di approfondimento. È certamente innegabile l'ambiguità di una protesta che improvvisamente ricompatta entrambi i lati della cattedra e che si scaglia, pergiunta, contro un provvedimento che non si può certo chiamare riforma e che lascia ancora aperti numerosi interrogativi. Ancora più ambigui sono i politici che, fino all'altro ieri in stato di apparente coma vigile, ma interessatisi all'istruzione nella loro pur annosa carriera, chiamare a gran voce garrula o profonda, non importa - il rispetto del " sacrosanto diritto allo studio". A lorsignori verrebbe quasi da domandare in che paese abbiano vissuto in tutti questi anni in cui abbiamo assistito al degrado totale dell'Università italiana, attraverso l'istituzione di corsi di laurea inutilmente iperspecialistici,
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come Scienze della comunicazione nell'era della globalizzazione (come se fosse necessario istituire una nuova facoltà anzichè premurarsi di avvertire tutti i docenti e gli allievi dell'avvento dell'era della globalizzazione); perchè abbiano ritenuto che il diritto allo studio venisse tutelato con la proliferazione di sedi distaccate di facoltà in piccoli comuni, costose e con pochissimi utenti; come si concilii il culto del diritto allo studio con l'istituzione del sistema dei "crediti formativi", le cui modalità di distribuzione hanno spesso finito per il rasentare il ridicolo di seminari inutili, assistenti universitari frustrati, e orde di studenti in fila per firmare la presenza. Ad avere davanti Lorsignori, tutti, di tutto l'arco parlamentare, democraticamente senza distinzione di fazioni, ci sarebbe da chiedere perchè nessuno finora, e probabilmente neanche la Gelmini con la sua legge del Taglione, abbia avuto il coraggio
Protestare, come sembra fare l’Onda, per chiedere che nulla cambi è non solo un grande errore ma una perversione. di stravolgere le carte in tavola, innovando davvero, tutelando davvero il diritto allo studio. Abolendo, per esempio, il valore legale della laurea, nella speranza che gli Atenei tornino così a misurarsi nel campo dell'eccellenza e della formazione; liberalizzando gli stipendi dei professori, attualmente saldamente ancorati al criterio dell'anzianità, e abbassando il tetto dell'età pensionabile. Investendo, come direbbe Du Bois, sugli esseri umani per ottenere altri esseri umani: sulla qualità delle persone che facciano della ricerca la loro professione e che della loro professione siano soddisfatte, grazie a uno stipendio decoroso e al riconoscimento della loro dignità di studiosi. Investendo sulla selezione delle persone, responsabilizzando chi di questa selezione si occupa: il passaggio da commissioni interne a commissioni su scala nazionale previsto dal decreto non risolve praticamente nessun problema, finché il “galateo accademico” impone alcune scelte ai membri della commissione e la discrezionalità della selezione copre ogni abuso, ogni accordo, ripicca, favore, omaggio a bon ton accademico reciproco tra professori. Usando, infine, il criterio di razionalizzare prima di quello della forbice impietosa. Se si segue questa linea si può forse arrivare a capire per quale motivo discrete folle di giovani abbiano paralizzato le città (per il diletto dei telegiornali che, magno cum gaudio, hanno potuto trasmettere in tutte le salse i disagi dei tassisti, dei turisti, dei ferrotranvieri e degli autotrasportatori per terra e
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degli speedy boys), e perchè improvvisamente la goccia abbia fatto traboccare il vaso. In mezzo agli studenti serpeggia un aspecifico e generico malcontento ed è quello di una classe di ragazzi deresponsabilizzata dalla società attuale, abbandonata a sé stessa, che percepisce la carenza di formazione delle proprie strutture universitarie, forse consapevole che dovrà in molti casi subirne le conseguenze appena varcata la soglia che li separa dal mondo del lavoro e demotivata dalle funeree e poco dignitose prospettive che il mercato di oggi offre ai giovani laureati; e, dall'altra parte della cattedra, oltre ai baroni sì saldamente aggrappati allo status quo, il disagio di ricercatori che hanno il timore di perdere quel tanto di riconoscimento acquisito con il lungo (e spesso invisibile) lavoro in condizioni non certo ottimali. Una volta capito - e con questo non necessariamente giustificato - il disagio della folla e persino il motivo della protesta preventiva,Il problema, il nodo centrale, sta piuttosto nel cos'è che si vuole da chi spennella la riforma nelle sedi competenti e che nel frattempo sembra aver adottato la filosofia del bisogna che tutto cambi perchè tutto resti uguale. Protestare, come attualmente l’Onda sembra inconsapevolmente protestare, per chiedere che nulla cambi tout court si rivelerebbe - anzi, effettivamente si rivela - non solo un grande errore, ma una perversione intollerabile del diritto di manifestare il proprio dissenso, in questa situazione. Uscire definitivamente dall'ottica del tenersi stretto quel poco che si ha per evitare di cadere dalla padella alla brace sembra l'unica posizione praticamente possibile, e si dovrebbe farlo con lo scopo di riprendersi il controllo di ciò che ci spetta come cittadini e come studenti; pretendere che l'azione si rivolga verso quello che non si è mai fatto, che non si è mai osato fare; un sovvertimento totale del sistema, senza parlare necessariamente e sempre di meritocrazia e società meritocratica (di gran lunga la parola più pericolosamente abusata di questo periodo), ma intanto ispirandosi al merito, che è concetto di più profondo valore ed estensione, tanto da comprendere competizione corretta, preparazione, etica, solidarietà sociale e impegno. Se in questo si concretizzeranno le richieste della generazione che scende per strada, e in questo senso si indirizzeranno le risposte di chi di dovere, non sarà stato tutto tempo perso. Ma in caso contrario, si dovrà concludere che siamo di fronte alla solita classe di politici irresponsabili, ma anche davanti alla solita piazza senz'anima.
(*) Bianca Berardicurti - Laureanda in Giurisprudenza, Roma
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Università libera,
ma di Bruxelles Si parla tanto delle realtà universitarie degli altri Paesi spesso tacendo su aspetti “altri” che pure è il caso di valutare, tanto per essere corretti. di Ferdinando Menconi
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iforme universitarie. Ognuno pronto con la sua riforma che sistemi tutto ma che nulla cambi, soprattutto che nulla cambi. Studenti che manifestano legittimamente nelle piazze, ma troppo sinistramente a fianco dei professori; troppi capetti che all’università chiedono una carriera di ricercatori e non una preparazione che consenta loro di entrare a testa alta nel mondo del lavoro. Talmente troppi aspiranti “ricercatori” nella protesta che mi sorgono legittimi dubbi sul fatto che si voglia realmente, anche dal basso, riformare l’università per il meglio, perché svolga il suo ruolo in maniera efficace, sia per lo studente che per la società, e non sia solo una fabbrica di stipendi o un parcheggio per studenti a vita. Così ripenso con nostalgia a quando presi un pezzo di carta post-universitario all’Università Libera di Bruxelles, e potei confrontare il sistema di tipo francese con il nostro caos. La cosa maggiormente apprezzabile, dal mio punto di vista, è che non c’era spazio per chi l’università la voleva tirare in lungo e pascolarci per lustri, poco importa se per avere medie da 110 del vecchio ordinamento. I corsi di laurea hanno una durata specifica e chi rimane più a lungo rappresenta un costo ingiustificato per il contribuente e poi: siamo così sicuri che chi si laurea in corso, magari non brillantemente, sia peggiore di chi ci mette il doppio del tempo per la vanità del 110? Di sicuro costa di più e grava non sull’impersonale Stato, ma sul fine mese di tutti. A Bruxelles non c’era spazio per i calcoli tipici di molti studenti italiani, il corso aveva le sue sessioni d’esame, due, e le date erano stabilite in maniera inderogabile. Non era consentito individuare la data fra più opzioni all’interno della sessione, magari iscrivendosi a più appelli e ingolfando un sistema già sovraccarico, salvo poi rinunciare all’ultimo e ripresentarsi quando faceva più comodo: la data era una punto e chiuso, salvo reali motivati impedimenti, non insicurezze isteriche dell’ultimo minuto. La data era comunicata con ampio anticipo, quindi non restava
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che prepararsi in maniera responsabile all’esame, da adulti, ed affrontarlo senza rimandarlo, perché nella vita non si possono rimandare a piacimento le scadenze. Rifiutare il voto? Impossibile, quello che si merita si riceve, peggio per chi non è preparato, perchè non si può impegnare tutta una struttura più e più volte affinché qualcuno possa arrivare al trenta.Ancora posso capire chi rifiuta un 21 vecchio ordinamento, ma chi rifiuta un 27… Sì, è un sistema selettivo, ma l’università deve essere selettiva. Il diritto è allo studio, non al pezzo di carta che, senza selezione, perde tutto il suo valore e apre la via solo a un futuro da disoccupati. Non c’è da preoccuparsi, però, più di tanto: il sistema di tipo francese è più che abbordabile per chi viene dal sistema italiano, fidatevi di questo mediocre studente. In primo luogo gli esami non sono quei mallopponi di migliaia di inutili pagine come i nostri, dove i testi spesso sono imposti non per la loro utilità, ma per far avere i diritti d’autore a un professore che ha scritto inutili pagine e che su quelle interrogherà per avere certezza non della preparazione ma che detti diritti siano stati effettivamente versati. All’Università Libera di Bruxelles la maggior parte delle volte gli esami andavano preparati su testi che rispondevano esattamente al corso seguito, perché scritti dal professore stesso e pubblicati dalla libreria universitaria, magari in edizioni povere, fresche di ciclostile (sì è passato molto tempo dai miei pezzi di carta). In fondo il professore è pagato per tenere un corso, il che implica anche la redazione del relativo testo e, incredibile dictu, la sua presenza in aula! Perché a Bruxelles i professori non mancavano una lezione, o quasi, non come qui che delegano il compito a poveri assistenti sfruttati in maniera indegna. È una truffa ai danni dello Stato e del contribuente. Ridicolo, in Italia, dire sono allievo del tale o talaltro luminare: si è allievi del suo assistente, sulle cui spalle il luminare vive da parassita. Altro fatto curioso, per chi veniva da esperienze italiane, erano i requisiti per il superamento dell’anno accademico. Sì, proprio dell’anno accademico, perché lì si superano gli anni accademici in blocco, non esame per esame. Cioè, chiaro che si sosteneva un esame alla volta, però per completare l’anno non era necessario avere la sufficienza ad ogni esame. Sì, avete letto bene, qualche insufficienza ci poteva stare. Su voti espressi in ventesimi, nello specifico di quel corso di “licence speciale” era necessaria la media del 12 per il complesso degli esami dell’anno, e si potevano avere fino a due insufficienze purché non inferiori all’otto. Cosa non impossibile e anzi, per chi è abituato al caos italico, quasi troppo facile: sforzi minori per ottenere risultati, anche in termini di preparazione, superiori. C’era, però, una “controindicazione”. Essendo le date degli esami stabilite e i voti non rifiutabili, chi falliva falliva. C’era, sì, una sessione di “rattrappage” dove sostenere nuovamente gli esami con esiti inferiori a una certa media, e non solo quelli insufficienti, ma se poi non la si superava si ripeteva l’anno. Sì, l’anno: nessun esame veniva salvato! Di più: l’anno poteva essere ripetuto una volta sola. Altre università o corsi di laurea concedevano una doppia ripetizione, ma non di più. Mi sembra anche giusto. Non viene chiesto l’impossibile allo studente, gli
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viene solo imposto di non gravare a vita sulle spalle del contribuente. In fondo chi reclama il suo sacrosanto diritto allo studio deve anche studiare. Sottolineo l’anche. A vent’anni si ha anche il sacrosanto diritto a godersela, la vita, e non crediate che gli studenti belgi o francesi non se la godano… Va da sé che vanno trovate formule particolari per gli studenti lavoratori, quelli veri però, quelli che il mazzo non se lo fanno solo sui libri: fare cocktail tre volte a settimana nei pub di San Lorenzo non conta. L’università deve selezionare, deve dare un pezzo di carta che non sia solo un pezzo di carta, deve essere formazione e non area di parcheggio, neppure per chi è in grado di raggiungere il massimo dei voti nel doppio del tempo: bisogna dimostrare quello che si vale nei tempi giusti! Non credo che un sistema di questo tipo sarebbe realmente gradito: responsabilizza troppo. Figuriamoci poi quanto farebbe piacere agli insegnanti che si troverebbero improvvisamente costretti a dover essere professori in aula e non solo sul biglietto da visita. No, non credo sarebbe gradito anche se a questo potesse venir affiancato quello che le università di area francese offrono: a partire dai servizi, quali alloggi a costi ragionevoli in efficienti città universitarie, testi a cura delle librerie universitarie a basso costo e aule adeguate alla bisogna. Certo: non basta eliminare chi pascola negli atenei a discapito di chi studia, chiaro che in ambito universitario dovrebbero esserci massicci investimenti, che sono cosa diversa dai finanziamenti a pioggia, ma se non si eliminano gli sprechi si finisce per continuare a foraggiare chi l’università l’ha portata al disastro. Anche l’accesso ai dottorati di ricerca, in Francia, è decisamente più trasparente e non riservato a chi supera concorsi più o meno pilotati e, poi, deve pagar dazio per la grazia ricevuta. Occorre un sistema che tuteli gli studenti meritevoli e la società che vuole investire su di loro, non sulle famiglie e sui famigli dei baroni. Le proteste degli studenti dal ‘68 ad oggi sono sempre state più che giustificate, ma dal ‘68 ad oggi, purtroppo, sono servite solo a cambiare le baronie non ad abolirle, e temo che anche l’”onda” una volta rifluita ci lascerà la spiaggia desolata di sempre. Gli studenti, forse, riusciranno a non farsi strumentalizzare dai partiti, forse neppure dai professori, ma non so se riusciranno a non farsi usare da quelli che altra aspirazione non hanno che di vivere a carico del contribuente, con una bella sine cura universitaria, e che nulla potrebbero temere di più che un’università efficiente, che un domani potrebbe costringerli a lavorare come quelli che, invece, vanamente si attendono dal diritto allo studio un’adeguata preparazione professionale e culturale.
Ferdinando Meconi
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America Latina.
Il nuovo mondo possibile? Wall Street traballa e le Borse di Europa e Asia seguono ogni seduta col fiato sospeso. Ma altrove c’è chi non batte ciglio. Perchè si è svincolato dagli Usa e dal modello occidentale. di Alessia Lai*
L
a crisi che di recente ha colpito la finanza internazionale è globale, ma non ovunque ha avuto gli stessi effetti. Premesso che il vero tracollo economico planetario non lo abbiamo ancora visto, le economie meno coinvolte nella rete della finanza speculativa e, soprattutto, i Paesi più abituati a fare conti con una povertà endemica, hanno risentito molto meno, anche psicologicamente, del crollo finanziario che tanto ha spaventato il ricco Occidente. Articolare la premessa è indispensabile: dagli Usa all’Europa, le misure poste in atto dai governi per arginare la debacle di grossi gruppi finanziari hanno impedito che la percezione del crollo creasse vero panico. Non sembra che, dalle nostre parti, siano crollati gli acquisti di telefonini e televisori al plasma. Sì, la vita costa indiscutibilmente di più, ma ancora ci indebitiamo per avere accesso alle ultime tecnologie e la gran parte della nostra popolazione vive in abitazioni degne di tal nome, anche se per grossa parte proprietà di banche che hanno concesso il mutuo per acquistarle. La percezione della crisi, dunque, è stata falsata dalle operazioni di salvataggio poste in essere dalle amministrazioni statali. Operazioni che altro non sono che un pannicello caldo per un moribondo. Per questa ragione quando il vero crollo arriverà - non oggi, non domani, ma arriverà - quel giorno gli Usa e le economie strettamente legate ad essi saranno nell’occhio del ciclone. Chi si salverà saranno i Paesi che già oggi hanno risentito meno della batosta finanziaria per aver capito in tempo come l’affrancamento da Washington, politico ed economico, sia l’ancora di salvezza in un sistema economico ormai fuori da ogni controllo, anche di coloro che lo hanno creato. L’esempio più calzante è quello dell’America Latina, che da qualche anno vive una serie di trasformazioni fino a poco tempo fa impensabili. Se il recente tracollo fosse arrivato tra gli anni ’80 e ’90, il Sudamerica, il vero e proprio laboratorio, in quegli anni, del capitalismo della scuola di Chicago, si sareb-
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be letteralmente disintegrato. Oggi non è stato così, e il motivo ha tante facce e molti nomi: rivoluzione bolivariana, Mercosur, Alba, Unasur, Banca del Sur. Tutto è partito dal Venezuela di Hugo Chávez, questo ex militare tanto inviso alla casa Bianca da non poter destare sospetti. Nel senso che se Washington ha così tanta paura del primo mandatario venezuelano da cercare di spodestarlo con un golpe nel 2003 - abbondantemente fuori tempo rispetto alla moda anni ’70-’80 dei colpi di stato targati Cia – quel che diceva Hugo Chávez doveva essere realmente pericoloso. Era una dottrina non certo nuova, ma la cui portata rivoluzionaria è dipesa dall’applicazione senza compromessi. Nazionalizzazione delle risorse, ridistribuzione delle terre,
Diversificando e ampliando il loro commercio con l’estero i Paesi del Sudamerica hanno ridotto la propria dipendenza dagli Stati Uniti. socializzazione dell’economia. Parolacce per la dottrina liberalcapitalista di marca statunitense che aveva nel “cortile di casa” una fonte pressoché inesauribile di risorse a basso costo (soprattutto petrolio e gas) rese disponibili grazie a regimi compiacenti.
Verso il futuro Oggi quel periodo sembrerebbe – il condizionale è sempre d’obbligo - finito. Uno dopo l’altro, i Paesi latinomericani si stanno affrancando dalla stretta mortale statunitense. Chi più intensamente, chi meno, le amministrazioni centro e sudamericane stanno subendo l’influenza di Caracas: dalla Bolivia di Morales e dall’Ecuador di Correa, fedelissimi alleati del presidente Chávez, alle più blande socialdemocrazie del Cile della Bachelet e dell’Uruguay di Tabaré Vázquez, passando per l’Argentina peronista di Cristina Fernández de Kirchner e il Brasile del presidente-sindacalista Lula da Silva.È un’onda,quella bolivariana,che travolge o blandisce ma comunque fa sentire la sua presenza. E che sta creando consapevolezza: una presa di coscienza diffusa sulla possibilità di essere blocco e di poter giocare un ruolo importante nello scacchiere globale. Dall’8 all’11 ottobre si è tenuta nella capitale del Venezuela la “Conferencia Internacional de Economía Política: Respuestas del Sur a la Crisis Económica Mundial”, cui hanno partecipato economisti ed esponen-
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ti di governo oltre che dell’America latina di numerosi altri Paesi, europei e asiatici, tra cui Cina e Corea del Sud. Dall’incontro è scaturita una linea comune che invita le nazioni ad “adottare delle misure di garanzia del benessere e dei diritti dei popoli… e a non ricorrere al salvataggio dei banchieri responsabili della crisi, così come accade in Europa e negli Stati Uniti”, mettendo in atto “controlli immediati sui cambi” e sui movimenti di capitali per riprendere il controllo dei rispettivi sistemi bancari nazionali, chiudere
La Colombia smania per firmare i Tlc, i trattati di libero commercio con gli Usa, ma si tratta dell’ultimo bastione della storica sudditanza a Washington nell’America del Sud. tutte le ramificazioni di banche nei paradisi fiscali, prevenire “le fughe di capitali”, considerare l’ipotesi di “sospendere i pagamenti del debito pubblico”, assicurare “la sovranità energetica e alimentare”.Tutto finalizzato alla “costruzione di una nuova architettura finanziaria internazionale”. A non usare mezzi termini, durante la conferenza, è stato proprio il presidente venezuelano. Chávez ha accusato della crisi finanziaria mondiale il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che a suo parere “dovrebbe convocare una sessione e dichiarare la propria dissoluzione”. Ma stavolta,quell’America latina che ha già vissuto “cento volte”, come ha evidenziato Chávez, il tracollo economico che si è portato dietro la miseria, la povertà, la denutrizione infantile che affliggono gran parte della regione, ha retto il colpo.Il primo mandatario venezuelano ha affermato che questo, per il suo Paese, è stato possibile perché il governo aveva già ritirato delle banche statunitensi la sua riserva monetaria nazionale che attualmente raggiunge i 38.771 milioni di dollari, secondo dati della Banca Centrale. Un passo fondamentale che sta alla base del nuovo sistema finanziario che da Caracas sta prendendo piede contagiando più o meno intensamente il resto dell’America Latina e che beneficia di rapporti internazionali che fanno venire i brividi a Washington. Di questo nuovo sistema economico infatti fanno parte il progetto di una “banca petrolifera internazionale” e quello delle banche bi-nazionali, come quelle che il governo venezuelano sta creando con Iran, Russia e Cina, gli altri Paesi che turbano i sonni degli
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inquilini della Casa Bianca. Chávez lo ha spiegato ancora meglio pochi giorni dopo la Conferenza internazionale di Caracas, a fine ottobre, quando ha dichiarato che il Venezuela “è “blindato” contro la crisi bancaria mondiale”, grazie alla “esistenza di un proprio sistema finanziario e al progetto di avviare un asse economico mondiale del socialismo, prendendo come consigliere Fidel Castro. È l’opportunità - ha aggiunto il presidente venezuelano - di rafforzare la Banca del Sur, a cui il Venezuela trasferirà parte delle sue riserve internazionali, così come faranno Brasile e Argentina”.
Si parla quasi esclusivamente di Chavez riguardo al nuovo corso latinoamericano, ma è tutto il continente che sta mutando. Dalle basi, con movimenti di popolo. Pochi giorni dopo il termine della conferenza di Caracas, la “presidenta” argentina Crisitina Fernández ha annunciato la sua intenzione di nazionalizzare il sistema dei fondi pensione privati – uno dei cardini attorno cui è ruotata la deregulation in America Latina negli anni ‘90 – per tornare alle pensioni statali obbligatorie. Il sistema pensionistico privato argentino vige dal 1994, istituito dall’allora presidente Menem, e conta 9,5 milioni di affiliati. Pochi mesi prima un’altra iniziativa, la ri-nazionalizzazione delle Aerolinas Argentinas, altra vittima delle privatizzazioni selvagge dell’era Menem. E poi, dopo l’affrancamento dal Fmi messo in atto da suo marito Nestor, l’annuncio della “presidenta” di voler rifondere per intero il Club di Parigi. Più che segnali, vere e proprie misure strategiche volte ad assicurare all’Argentina una nuova sovranità economica. Misure “preventive” visto che della recente crisi hanno sofferto le entità, per la maggior parte banche estere, soprattutto spagnole, danesi e statunitensi, che amministrano i fondi pensione argentini. La loro debolezza avrebbe messo in pericolo i futuri pensionati e pertanto lo Stato è intervenuto.
L’unione fa la forza Così gli effetti della crisi sull’America Latina, si capisce, sono limitati,se non per i Paesi ancora legati a doppio filo con Washington e la sua economia. I paesi latinoamericani più esposti alla crisi finanziaria degli Stati Uniti e dell’Unione Europea sono infatti quelli più aperti agli investimenti provenienti da queste economie, cioè il Messico e tutti i paesi firmatari dei TLC (Trattati di Libero Commercio) con gli Usa. La Colombia, ultimo bastione della sudditanza a Washington nell’America del sud, non a caso smania per firmare, mentre il Costa Rica, in Centramerica, lo ha fatto pochi giorni fa.Ma sono ormai mosche bianche,la realtà latinoa-
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mericana è un’altra. I Paesi sudamericani stanno diversificando ed ampliando il loro commercio con l’estero, così facendo hanno ridotto la loro dipendenza dagli Stati Uniti. Strumenti come il Mercosur,l’ALBA e il Petrocaribe hanno fatto in modo che si stringessero legami economici e finanziari tra Stati vicini, geograficamente e culturalmente. E poi c’è l’Unasur, organismo sovranazionale pensato quattro anni fa e varato nel marzo di quest’anno, col trattato firmato a Brasilia e formato da tutti gli Stati sudamericani, esclusa la Guyana francese e altri piccoli territori a giurisdizione europea (es. le isole Malvinas). Un ulteriore e definitivo passo verso la coordinazione economica e geopolitica del continente sudamericano, cioè una fase più avanzata degli accordi commerciali parziali tuttora esistenti, come la Comunità Andina (CAN) o il Mercosur. Un nuovo passo verso la definizione di un blocco regionale che si potrà ritagliare uno spazio importante nelle dinamiche planetarie, non più da “cortile di casa” ma da attore principale. Gli obiettivi dell’Unasur sono infatti la creazione di un mercato unico sudamericano, la cooperazione al fine di costruire infrastrutture continentali, la libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione, una politica energetica e di difesa comune (con il Consiglio sudamericano di Difesa) tra gli stati membri. E, vera rivoluzione, la creazione di quella Banca del Sur che, come affermato dal presidente Chávez,Venezuela, Brasile e Argentina finanzieranno con parte delle loro riserve monetarie. Un sistema finanziario condiviso che dovrà creare reti di sovvenzione comuni e che darà la possibilità di fare investimenti nell’area,sostituendo di fatto, nel ruolo di investitore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, quello stesso FMI che nella visione del mondo chavista dovrebbe dissolversi per autodecisione. Una banca il cui ruolo non sarebbe solo quello di fare concorrenza ad altri istituti di credito, sovranazionali e no, ma quello di un istituto di credito con scopi sociali e non meramente di ‘profitto’. Sarà una banca al servizio della popolazione. E sarà frutto di una decisione presa dall’America Latina per il continente latinoamericano, senza intercessione da parte di nessuno. Se il progetto vedrà la luce, e secondo il presidente venezuelano dovrebbe accadere entro la fine dell’anno, sarà una vera rivoluzione, finanziaria, economica e sociale. L’ultima crisi che ha scosso le fondamenta del sistema liberalcapitalistico globale non ha fatto altro che aumentare le potenzialità del sistema alternativo proposto da Hugo Chavez. Una volta che le risorse dei Paesi del Sudamerica potranno tornare ad essere controllate da loro stessi, una volta che anche Brasile e Argentina, e a seguire gli altri Paesi che aderiranno all’Unasur,ritireranno le loro riserve nazionali dalle banche del nord del mondo (Brasilia ha 200mila milioni di dollari nelle banche estere, Buenos Aires 30mila) e le investiranno nella creazione della Banca del Sur, della banca dell’ALBA e
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delle banche bi nazionali come quelle istituite dal Venezuela, verrà ridotta drasticamente la dipendenza da Paesi e istituzioni esterne e il destino del Sudamerica potrà cambiare veramente.
In un mondo multipolare Durante la sua ultima visita a Mosca, nel luglio scorso, ben prima dell’esplosione della crisi finanziaria, il presidente del Venezuela, Hugo Chávez, si era augurato la creazione di un mondo basato su un ordine multipolare, con il pieno diritto dei popoli alla libertà, in contrapposizione a quello attuale, un mondo unipolare gestito e tiranneggiato dagli Stati Uniti d’America e dalle istituzioni internazionali, economiche e politiche che a questi fanno capo.“ Essere liberi è una strada difficile, ma questa è la nostra elezione, un ordine internazionale basato sul policentrismo”, gli aveva fatto eco nel suo commento il presidente russo Dmitri Medvedev. In quei giorni si andava solidificando il rapporto privilegiato tra Russia e Venezuela che oggi si estende alla collaborazione in campo tecnico-militare, con l’ammodernamento del sistema difensivo del Venezuela, e in campo nucleare, visto che qualche giorno fa è stata annunciata l’intenzione di sviluppare sinergie tra Caracas e Mosca nel campo dell’energia atomica a scopi civili. Tutto questo, come detto, fa parte del più ampio programma di indipendenza finanziaria che mira a integrare Caracas, e l’America Latina tutta, con Paesi antistatunitensi, per cultura e sistema economico, come Iran, Russia e Cina. Il nome di Hugo Chávez ricorre molto quando si parla di questo nuovo corso latinoamericano, ma è tutto il continente che sta cambiando, e lo fa dalle sue basi, con movimenti di popolo che si richiamano al bolivarismo e che vedono nel Venezuela il faro verso un nuovo futuro. Certo, il grado di adesione alle politiche sociali proposte dal primo mandatario venezuelano non è lo stesso in tutti i Paesi latinoamericani, ma sembra ormai sempre più concreta la possibilità che il Sud America possa riuscire a competere compatto, in materia di politica ed economia, con l’Unione Europea, i paesi asiatici e soprattutto con gli Usa. La dimostrazione del fatto che si tratti di una realtà concreta, non di un tentativo velleitario o di un sogno irrealizzabile, la danno proprio gli ex “padroni di casa”, gli Stati Uniti, talmente preoccupati da questo nuovo blocco emergente, socialista e anticapitalista, da ripristinare la IV flotta, creata 65 anni fa e scomparsa negli anni ‘50, che oggi viene riattualizzata e rimessa in attività nel mare che separa la Florida dalla Terra del Fuoco per “inviare un messaggio” al blocco geopolitico sudamericano, per frenare il suo crescente protagonismo politico, diplomatico, economico e finanziario.
(*)Alessia Lai - giornalista
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Altra Economia l’uomo al centro
Privazioni spirituali in cambio di beni materiali (e ora neanche quelli). C’è bisogno di un cambio di paradigma: torna l’era della conoscenza. “Economia della Felicità”, di Luca De Biase, ci aiuta a introdurre un tema che affronteremo a fondo. di Valerio Lo Monaco
E
ppure esiste qualcosa che cambia, in positivo stavolta, e che difficilmente – quando non mai – è registrata dai media di massa e dagli intellettuali e commentatori embedded al sistema dominante. Esiste una marea montante di persone che ha messo a fuoco l’impalpabilità di una vita condotta alla rincorsa perenne dell’accumulo di materiale, di merce, di oggetti. Che ha capito l’inutilità – e probabilmente la follia – di dipendere dal (surplus di) lavoro necessario ad accumulare denaro per avere la capacità, poi, di spenderlo. In altre parole – probabilmente anche grazie ai fenomeni attuali di crollo del sistema economico, e dunque del sistema tout court visto che quello nel quale viviamo è un sistema prettamente economico e mercificato - esiste gente che ha messo a fuoco almeno tre aspetti collegati e che di conseguenza ne ha tirato le somme. Questa gente sta agendo – dal punto di vista pratico – per svincolarsi, quanto più è possibile, dal sistema di sviluppo dell’Occidente nel quale ci è dato, in questi decenni, di vivere. Queste persone hanno messo a fuoco il gioco, anzi il giogo, che in un modo o in un altro, attraverso il sistema soft tanto caro ai guru moderni, pare invece avere invaso, in maniera tossica, la maggior parte della società. È un modo differente di pensare e, in conseguenza, di comportarsi. E il sistema non capisce, o quando capisce, è terrorizzato dalla cosa. Torneremo personalmente sul tema molto presto, con uno specifico lavoro diffuso. Per ora alcuni punti chiave e il suggerimento di una lettura molto interessante che dà il là a questo argomento, almeno sulle nostre pagine. I tre aspetti cui facevamo cenno poco fa e che cominciano a essere messi a fuoco per bene sono la presa di coscienza dell’alienazione e dell'inutilità del ritmo lavora-consuma-crepa cui si sottopongono le vite intere di miliardi
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di persone; l’assunto che la sola economia e il possesso di oggetti non porti alla felicità (anzi, che il desiderio costante di raggiungere sempre di più, porti di fatto alla infelicità di una vita spesa solo per lavorare senza potersi accontentare mai); e il fatto, in ultima analisi e ancora più importante,che la carenza più urgente da colmare,e che manca, di fatto, al nostro sistema di sviluppo, sia quella del “senso”.
Fermi tutti voglio scendere Capacità analitica, un po’ di cultura e volontà di riflettere – quando non anche la sola percezione di questo meccanismo – sono i fattori che stanno di fatto suggerendo un ritorno a una sorta di umanesimo. Al fatto di mettere l'uomo e le necessità che non siano solo quelle materiali, al centro di tutto. Difficile non è il fatto di sentire la voglia di scendere, di sottrarsi a questo sistema. Difficile è farlo. Ma sarà poi così vero?
Beni materiali in cambio dell’anima Forse capendo a cosa stiamo rinunciando può riuscire a focalizzare meglio il tutto. Dunque, a cosa stiamo rinunciando? Quando a mancare è il tempo, la tranquillità, la serenità, la possibilità di avere rapporti umani e sociali, la pulizia della nostra terra, si può dire che l’economia, il nostro sistema di sviluppo, in pratica ci sta chiedendo, tra le altre cose, dei sacrifici spirituali in cambio di soddisfazioni materiali. Queste ultime, peraltro, iniziano a rivelare tutta la loro aleatorietà quando non proprio il limite veramente fisico di un sistema che crolla. Soprattutto c'è qualcosa che non va quando, malgrado il fatto di lavorare a più non posso, oggi la maggior parte delle persone non riesca a soddisfare che le mere necessità primarie (molti, e un numero in crescita, più neanche quelle). Esistono degli studi, dei modelli detti Gasp (Growth as substitution process) che tendono a far perseguire alla società un percorso, a tutto vantaggio del consumo, attraverso dei modi per motivare le persone ad accumulare denaro (e dunque a lavorare di più, e dunque a diventare schiavi): creare una società dove gratuitamente si possa fare sempre meno. Soprattutto a carico del benessere il quale, per essere raggiunto, deve necessitare sempre di maggiore denaro. In una società dove il benessere può solo essere acquistato, poiché altri aspet-
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ti attraverso i quali lo si può raggiungere vengono ridotti (se non eliminati) è una società che di fatto annienta le possibilità di vivere senza avere sempre più denaro a disposizione. In un crescendo che è tale almeno quanto la crescita dei bisogni indotti che il potente mezzo della propaganda, di come ci raccontano la società, induce a perseguire. Non è un caso che una volta i beni primari costassero poco, di fatto, mentre quelli voluttuari fossero nettamente più costosi e oggi invece ci si trovi a dover pagare (e dunque lavorare) anche per soddisfare la maggior parte delle minime necessità. C’è una stretta, in questo senso. In una società sempre più insicura si deve pagare per la sicurezza, per venire legalmente a capo delle liti sempre più numerose.A costare di più sono i beni primari: cibo, casa, utenze, e presto persino l'acqua. Per soddisfare i quali, pertanto, si è costretti a lavorare. A lavorare sempre di più per assicurarsi sempre maggior denaro che però è in grado di acquistare sempre meno. Il più delle volte, per poter soddisfare appena la sopravvivenza. E non sempre, come vediamo dai livelli delle soglie di povertà del mondo e del nostro Paese in particolare.
Ne vale la pena? Vale la pena di continuare a perpetrare questa spirale di desertificazione? No. I recenti fatti lo dimostrano, a chi abbia occhi per vederlo, a chi si riesce a sottrarre alla tossicità dei mezzi di informazione apertamente schierati per questo sistema. L’economia non è scienza come ci vogliono far credere. I fallimenti finanziari ed economici che sono sotto gli occhi di tutti continuano dai più a essere descritti come frutti marci, non come frutti di un albero malato. La teoria apparentemente scientifica dell’economia non riesce a spiegare i fatti che accadono. E in tale caso, una scienza, dovrebbe (deve) cambiare teoria. Invece gli economisti preferiscono cambiare i fatti. C'è qualcosa che non va, anche se tentano di farci accettare il contrario.
La necessità di un senso Malgrado questo meccanismo di mistificazione, però, molti avvertono l’errore del sistema economico in sé, e ancora di più, la mancanza della cosa più importante per cercare di arrivare alla felicità: il senso. Privato di questo, l’uomo è poca cosa. Anzi, l’uomo è tale poiché a differenza delle altre specie viventi, è datore di senso. Siamo noi che diamo senso alle cose. Siamo noi
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che lasciamo alle cose avere un senso per noi. Se diamo senso all’accumulo di merce, di materiale, di denaro – al di là di voler dare un giudizio sulla cosa - una volta che non è possibile tutto questo, come sta puntualmente avvenendo con il crollo del nostro sistema, cosa rimane? Ancora di più: la storia, in sé, non ha senso. La storia ha senso quando l’uomo che la agisce, per dirla alla De Benoist, gliene conferisce uno. Dunque la domanda è su quale senso dare alla storia propria personale. E quando questo senso manca, malgrado gli analgesici del modello materialista, è naturale che si manifestino disagi interiori (ed esteriori). Ora, pare che il migliore dei mondi possibili ci metta a disposizione una unica interpretazione, un unico modo di comportarsi, un unico modo, o quasi, di dare senso alla nostra storia: denaro, merce, materia. Privandoci, per sua natura intrinseca, di tutto il resto. Di cosa ci ha privato questo modello di sviluppo? Quali sono, tra le altre, alcune cose che hanno un senso e che questo meccanismo ci ha sottratto e che ora ci mancano? Relazioni personali. Relazioni che non siano legate all’unico mondo del lavoro. Tempo, che non sia legato alla nostra attività necessaria a vivere. Serenità. Silenzio. Natura e mondo che ci circonda. Spirito comunitario, di far parte di qualcosa che non sia l’apolide esistenza della vita economica. E sicurezza. E tante altre. Tutti temi che affronteremo uno per uno nei prossimi numeri della rivista. Per ora accendiamo la luce su un fenomeno molto più ampio di quello che è dato conoscere (se le proprie fonti sono esclusivamente quelle tradizionali e più diffuse) e faremo in modo di vederci più chiaro molto presto. Dal politico all'economico. Così è stato fino a ora. Ma adesso è ora di far tornare al centro l'uomo.
Intervista a Luca De Biase Qualcuno ha messo a fuoco in maniera magistrale sotto tanti aspetti questo argomento, si chiama Luca De Biase - caporedattore dell’inserto Nova del Sole24Ore che tratta temi tecnologici - e ha scritto un libro che non può mancare nella personale libreria di chi tiene alla propria formazione ed è interessato a queste dinamiche. Si chiama “Economia della Felicità” ed è edito da Feltrinelli. Parte del libro si sofferma sul fenomeno dei blog, dei siti gratuiti (argomento sul quale torneremo presto) e che è paradigmatico, nel suo specifico, di buona parte della tematica affrontata. È un libro moderno, attuale, e a nostro avviso va sommato a tutta una serie di pubblicazioni - di cui parleremo presto - per impostare un percorso di studi adatto a formarsi su questi temi.
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Ma in questo libro specifico, è la parte analitica del fenomeno dell’esigenza di una nuova economia, di un nuovo modo di intendere la propria vita, a rappresentare una lettura veramente utile e gratificante. L’autore ci ha concesso recentemente questa intervista. Lei parla di concetto di crescita illimitata che determina infelicità, mi può dire qualcosa di più in merito? Non è che determini infelicità, più precisamente non c'è relazione tra la crescita del Pil e dei consumi e la valutazione che le persone danno del loro stato di felicità. Ormai milioni di persone hanno risposto a sondaggi di questo tenore: "quanto ti senti felice?". Naturalmente la felicità è sempre un fenomeno soggettivo ma, avendo diversi centri di ricerca di ogni parte del mondo fatto rilevazioni di questo tipo in un lungo periodo di tempo, si è scoperto che non c'è relazione tra la crescita del Pil o dei consumi e la percezione di felicità delle popolazioni. Questo è il dato sul quale si concentrano gli economisti della felicità per cercare di capirne il motivo. Uno dei temi della nostra rivista è il fatto che già un modello di sviluppo basato sulla crescita infinita in uno spazio finito è, anche dal punto di vista matematico, impossibile. Ci sono dei dati odierni, e mi riferisco ovviamente a quello che sta succedendo negli Stati Uniti, che indurrebbero l'economia a rimettersi in gioco, invece lei, nel suo libro, dice che di fatto l'economia non si rimette in gioco, perché? L'economia funziona in un certo modo e il pensiero retrostante, fino ad appunto queste ricerche di cui stiamo parlando, è stato dominato dall'idea che l'economia non si occupa dei fini delle persone, degli scopi, del perché fanno le cose. L'economia non pensa all'ambiente come a una risorsa scarsa, non considera il valore di ciò che è gratuito - come le relazioni tra le persone, la fiducia che intercorre tra le persone - non si occupa delle cose che sono gratuite ma di grande valore, che hanno a che fare con le radici culturali e i beni culturali eccetera. Questo insieme di cose l'economia non le tratta. Tratta solo la questione di moltiplicare le risorse e i beni sulla base dell'ipotesi che questa sia l'unica cosa che l'economia può fare per rispondere alle esigenze e ai bisogni considerati infiniti delle persone. Questo è il problema del pensiero economico tradizionale, che naturlamente non è stato privo di critiche in tutti i tempi dello sviluppo del pensiero economico. Già Malthus alla fine del '700 diceva che le risorse ambientali erano scarse e la crescita infinita impossibile. Poi, naturalmente, c'è stato un pensiero maggioritario che ha prevalso.
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Chiaramente la concezione dell'attenzione all'ambiente, alle relazioni tra le persone, ai beni culturali in questa fase storica stanno tornando di attualità, ed economisti da premio Nobel se ne stanno occupando. Si tratta di una cosa curiosa perché, se si vuole l'economia come una scienza, in questo senso allora l'economia si deve rimettere in gioco. Ciò che lei dice, che premi Nobel se ne stanno occupando, è giusto, eppure noi registriamo costantemente che in realtà l'economia va avanti su un binario che è quasi ideologico invece che scientifico. C'è una forza di inerzia nella pratica dell'economia che appunto di per sé non sembra cogliere questi segnali e non sembra far tesoro dei nuovi pensieri che stanno emergendo ma, insomma, è chiaro anche che ci sono dei tempi di maturazione in questo genere di cose. Io penso che la consapevolezza ecologica di quaranta anni addietro fosse chiaramente meno ampia e diffusa di quella che c'è adesso nei Paesi occidentali. Credo che nella maturazione della consapevolezza di queste cose ci voglia del tempo: storicamente è così che succede. Indubbiamente dichiarare che l'economia non cambierà mai sarebbe abbandonare le speranze e abbandonare anche il pensiero, perchè l'osservazione storica ti consente di dire che certe cose alla fine maturano. Il libro si basa sulla necessità di trovare una nuova economia, che lei chiama "della felicità". Possiamo quindi dire che di fatto l'economia non porta alla felicità, non è il solo fattore, ma c'è un bisogno di senso? Questa è una chiave di lettura del suo libro, se non sbaglio. Sì, certo. Difatti, sebbene appunto soltanto adesso ci sia un recupero anche da parte degli economisti di questo genere di pensieri, le persone sanno che la felicità è qualcosa di diverso dalla soddisfazione dei bisogni materiali. Il problema è trarne le conseguenze sia in termini di dibattito pubblico sia in termini di scelte personali, e a questo proposito un fatto è che il racconto che la società fa di se stessa attraverso i media sta cambiando strutturalmente, anche in relazione al successo di questi nuovi media orizzontali fatti di persone che comunicano, si esprimono molto, con molta densità umana. Tutto ciò, ed è questa l'ipotesi storica che si sente in giro e che propongo io stesso, avviene in questo momento anche perchè stiamo passando una fase di trasformazione importante nei parametri fondamentali dell'economia mondiale. Dicendo questo intendo richiamare in quache misura il superamento dell'epoca industriale e l'arrivo dell'epoca della conoscenza. Dell'epoca della conoscenza ne sappiamo poco, però sappiamo che dal punto di vista economico è tale da concentrare il valore sul contenuto informativo di idee, di
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immagine dei prodotti e dei servizi. Se questo è vero, il valore fondamentale è il senso delle cose, quindi si riappropria l'economia della ricerca sul perché, sullo scopo, sui fini, e lo si reimmette nel gioco del valore. E dunque si ritorna a poter parlare anche a livello economico di relazioni tra le persone, di valore dell'ambiente, di valore dei beni culturali. È un po’ quello che lei chiama un "cambio di paradigma". Una funzione che una volta è stata dalla politica all'economia, mentre oggi c'è solo economia e poca politica, ci pare. E questo è il passaggio prossimo anche secondo Touraine e altri: un ritorno al paradigma culturale dove le idee sono al centro della questione. L'ultima parte del libro riguarda i media, che è un tema che ci interessa in modo particolare, soprattutto media e pubblicità. Un media basato sulla pubblicità come può criticarla? Allora la domanda è questa: i media, che oggi sono sempre più collegati, e parlo di media tradizionali naturalmente, alla politica, e dunque all'economia, forse non sono gli strumenti adatti per capire la realtà. I media cambiano al cambiare dei contesti storici. Possiamo dire che nell'epoca industriale tutta la società era catalizzata dal progetto di produrre beni materiali e il racconto sociale di questa epoca, non a caso, è fatto dalla televisione: un medium che valorizza gli stessi concetti che sono valorizzati dall'industria di massa, cioè lo stesso prodotto si compra per tutti, lo stesso racconto si consuma e si trasmette nei media. Era una interpretazione, quella della televisione, che era adeguata all'epoca industriale, lo è meno in questa, di epoca, nella quale prevale tutt'altro: non abbiamo nessuna forma di massa, abbiamo tante comunità, tanti punti di riferimento culturale, tanti comportamenti diversi e nell'ambito di questo le persone e la loro capacità creativa e umana ritornano ad essere importanti. Non a caso parallelamente si vede l'emergere di un nuovo medium fatto di persone che si esprimono e si connettono tra loro. Questo solleva il tema, perchè ovviamente stiamo parlando del web, dove c'è poco controllo e si spera ci sia maggiore autocontrollo, della net neutrality al quale lei è molto sensibile, ne parla spesso. Questo è uno dei temi del prossimo futuro, non è la prima volta che si sente parlare di mettere un freno a internet e qualche Paese addirittura ci riesce. Come lo vede questo problema almeno per i prossimi mesi? Io ho l'impressione che sulla net neutrality si faccia molta confusio-
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ne dovuta alle mille spinte lobbystiche che ci sono in atto. Da un lato i possessori di diritti d'autore - che fanno di ciò l'industria dei media tradizionali - tendono a voler controllare internet nel senso di impedire le forme di pirateria e di illegalità nella trasmissione dei contenuti. La confusione a questo proposito è che controllando internet non solo salvaguarderebbero il loro diritto d'autore ma frenerebbero anche la generazione di nuova autorialità di proprietà comune, che proprio gli autori vogliono sia comune. Altro tema della net neutrality è quello delle comunicazioni che vedono in internet da un lato una opportunità, dall'altro lato una minaccia per il loro modello di business tradizionale, e anche questi stanno interpretando l'idea della net neutrality come un'idea da combattere perché consente lo sviluppo di tecnologie e utilzzi della rete che fanno concorrenza al loro modello di business tradizionale. L'idea di controllare internet in quanto sistema per controllare i contenuti dei pacchetti che viaggiano sul web va combattuta perché solo grazie alla net neutrality, cioè al fatto che la rete sia neutrale rispetto ai contenuti che viaggiano nei suoi pacchetti, si può generare quella spinta creativa che ha fino adesso potuto generare. Le faccio un'ultima domanda proprio riguardo la spinta creativa: lei scrive un'immagine bellissima, a mio avviso, ipotizzando una sorta di percorso tra Leonardo Da Vinci e San Francisco, che è un po’ la chiave di volta, di fatto, di quello di cui abbiamo parlato (internet, N.d.R.) cioè di questa rivoluzione - ovviamente proveniente in primo luogo dalla Silicon Valley. Com'è possibile che dall'interno degli Stati Uniti, che poi se vogliamo sono la punta di lancia di questo sistema economico che è in crisi e che pertanto fa venir fuori questa necessità di una economia della felicità, in realtà sia nata una spinta rivoluzionaria in tal senso? Gli Stati Uniti sono un grandissimo Paese denso di diversità e diverse polarità. È vero che gli Stati Uniti sono il posto dove l'idea dell'uomo economico si è più sviluppata in maniera spesso devastante, è anche vero che gli Stati Uniti, però, sono il posto dove l'innovazione e la creatività hanno trovato un ambiente fertile. Penso che sia possibile dire che anche negli Stati Uniti c'è posto per tante cose. A San Francisco sicuramente si è trovato insieme un gruppo di persone molto ampio che ha creduto nell'innovazione e ha creduto nel valore di connettere queste ricerche profonde alle quali si allude parlando di Leonardo. Ricerche che sono poi quelle dell'arte, della scienza e della tecnologia. Leonardo è stato contemporaneamente uno scienziato, un tecnico e un artista, e il suo pensiero era la sintesi di queste tre profonde ricerche. Ci serve come simbolo per pensare quello che potremmo tornare ad essere: uomini interi, sinteticamente orientati a sviluppare le nostre capacità di ricerca in tutti e tre gli ambiti. A San Francisco qualcosa di questo si vede. Non solo a San Francisco, naturalmente, ma a San Francisco forse lo si vede di più.
Valerio Lo Monaco
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La Casta delle Caste
Libro fortunato. Siamo d’accordo. E utile. Ma anche pericoloso, a dire il vero. Per la sua capacità, talvolta, di neutralizzare la protesta più vera. di Alessio Mannino*
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d è arrivato anche l’aggiornamento al libro-tormentone di questi ultimi due anni. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo hanno aggiunto le ultime notizie alla loro magistrale inchiesta su sprechi e privilegi della politica, la Casta (Rizzoli). I detrattori, in genere gli stessi mandarini sotto accusa, li hanno additati come qualunquisti, quasi come antidemocratici. Ma non è così.“Non si capisce perché l’indignazione di un britannico sia indignazione, e l’indignazione di un italiano sia qualunquismo”1, ha sbottato in tivù lo stesso Stella in risposta al sottosegretario Roberto Castelli, che aveva liquidato al solito modo i dati inoppugnabili enumerati dal giornalista del Corriere della Sera. Il quale, intendiamoci, è un segugio di razza: documentato, ficcante, con la suola consumata sul campo come le migliori penne di una volta. E con il merito indiscutibile di aver messo nero su bianco una tale montagna di scandali e ruberie da giustificare in pieno un sacrosanto disgusto per questi pover’uomini, i politici, dediti al basso saccheggio satrapesco. Eppure, lasciando stare gli inglesi, imbattibili quanto a senso civico ma poco invidiabili su tanti altri fronti (l’alienazione capitalistica l’hanno inventata loro, mica noi), Stella ha torto e Castelli, benché sia dura ammetterlo, ha ragione. Ma non per i motivi suoi. Non perché denunciare il feudalesimo straccione della politica corrisponda a un insulso e indistinto rifiuto della politica tout court. Solo a lorsignori, difatti, può venire la sfacciataggine di negare che sono proprio loro, coi loro maneggi e carrozzoni clientelari, a incancrenire la storica estraneità degli italiani alla cosa pubblica. No, è per un’altra ragione che ha torto, il vendicatore dei torti di bilancio. Una ragione decisiva. Questa: l’italiano medio, col suo atavico disprezzo misto a ipocrita riverenza per lo Stato, si nutre di un’irritazione facilona, ciclica, pompata interessatamente dai poteri forti attraverso i media, poiché una regoletta antica quanto l’arte di governare dice che scoppi controllati di costernazione popolare sono un ottimo strumento per tenere il guinza-
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glio al collo della plebe. Mantenendola così insensibile alla stretta dall’alto, che resta ben salda nelle mani dei grandi interessi economici. Che il Quirinale ci costi di più di Buckingham Palace è di sicuro un oltraggio per quell’Italia impoverita che non arriva a fine mese. Ma limitarsi educatamente a chiedere tagli etici quando è l’intero edificio della res publica a costituire un’infamia fondata sul furto di sovranità, equivale a indicare il dito e non guardare la luna. Insomma, ci vogliono mezzi ciechi e spodestati, oltre che derubati.
Antipolitica? Sebbene possa sembrare un paradosso ai più, questo risentimento da ragioneri contribuisce al qualunquismo come nessun Beppe Grillo potrà mai fare. Anche perché Grillo non è qualunquista: fa politica, altrochè antipolitica. Come definire altrimenti le centinaia di migliaia di persone che al V-Day 1
Una democrazia mafiosa, la nostra. In cui il gioco delle cupole economiche è educare il popolo a una politica in ostaggio dei partiti, i loro picciotti. dell’8 settembre 2007 firmarono per “ripulire” il parlamento dagli indagati, limitarne i mandati e reintrodurre la preferenza elettorale, seguite da altrettante nel V-Day 2 del 25 aprile scorso per abolire l’Ordine dei giornalisti, il finanziamento pubblico all’editoria e la legge Gasparri? Ma tanto bastò all’informazione di regime, in testa il Corriere, per far risuonare il fuoco di fila della Casta sbertucciata fino a un giorno prima, con l’intero arco parlamentare che liquidava il movimento del Vaffanculo come una marmaglia di estremisti, populisti, addirittura terroristi e, immancabilmente, qualunquisti. Uno per tutti, basti ricordare il compagno D’Alema, che, sinceramente protervo come sempre, dichiarava un «fastidio antropologico»2 per quei minus habens scesi in piazza.
Il vero qualunquismo Il qualunquista vero sta ai piani alti. Più alti delle Camere del Parlamento. Siede dietro le lussuose scrivanie di ciliegio degli editori di giornali e televisioni, ovvero i gruppi industriali e finanziari che finanziano e ricattano gli omuncoli della partitocrazia (i quali sono molto contenti di entrambe le cose: sono palanche e visibilità garantite). Sono i signorotti delle multinazionali, delle banche e delle assicurazioni, cioè i reali detentori delle leve del Potere, quello con la P maiuscola: quell’Idra di interessi poco visibili che condiziona le scelte politiche e la gestione
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dei beni pubblici in misura incomparabilmente superiore rispetto al voto del gregge, a cui resta il contentino della crocetta elettorale. Sono i più bei nomi dell’imprenditoria e dei salotti bancari a muovere le truppe cammellate dei giornalisti loro dipendenti su un unico obbiettivo: il politicante arraffone. Mettere alla gogna una Casta per garantire la perpetua salvezza delle altre, compresa quella degli scribacchini a libro paga. Ma soprattutto per rendere eternamente al di sopra di ogni contestazione la propria casta: la Casta delle Caste.
Pensiero unico I giornalisti come Stella, piaccia a loro o meno, scrupolosi e seri quanto si vuole, sono complici di questa operazione. Sono davvero qualunquisti, ma perché evitando di puntare il dito contro l’ingiustizia di fondo, fanno credere al popolo bue che il problema sia soltanto la pensione del deputato. Mentre le prebende stratosferiche e i baracconi per sistemare amici e parenti sono la punta dell’iceberg. Per affondare il quale ci vuole ben altro che un ente in meno o un risparmio in più. Ci vuole un cambiamento culturale, profondo, di sistema.Antropologico. Non devono cambiare solo le leggi, dobbiamo cambiare noi italiani. Piantandola di autoassolverci facendo i conti della portinaia, perché la portinaia dovrebbe stramaledire prima di tutto chi, con le tariffe in perenne aumento, i rincari della spesa, gli affitti impossibili, la benzina come l’oro, fa i gran soldi sulla sua pelle. Non illudersi che sia sufficiente incolpare chi raccoglie le briciole dei finanziamenti elettorali e del posto fisso da Vespa o Santoro.
Tutto per denaro I soldi sono diventati tutto, siamo schiavi di un pensiero unico: i danè, gli schei, i piccioli. Per far girare la macchina, la loro macchina, dobbiamo trasformare le nostre coscienze in calcolatrici. Dobbiamo ragionare sempre e comunque in termini di ricavi e perdite. Ma per distoglierci da questo orrore, una verità troppo brutta da sopportare, hanno ridotto la politica a una commedia delle parti. In cui mai e poi mai qualcuno si azzarda a mettere in discussione il pensiero unico del mercato, del dio quattrino. La gente si appassiona al teatrino di pupi, e non s’avvede che dietro le quinte la regìa è dei pupari. È una democrazia mafiosa, la nostra. In cui il gioco delle cupole economiche è educare il popolo a una politica in ostaggio dei partiti, i loro picciotti. L’equazione è facile facile: politica uguale partiti, non si scappa. E chi scappa, Dio lo fulmini: è un pazzo, un paria, un sovversivo. Un qualunquista. Ed è un pericolo. Perché il corollario prevede che chi non si genuflette alla sacralità della forma-partito è un anti-democratico. Perciò, in quanto tale, perde ogni diritto a dire la sua, e se
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lo fa andando in piazza, luogo primigenio della democrazia, aggiunge scandalo a scandalo. Il popolo puzza, eccezion fatta per quello che si raccoglie nelle adunate di partito per contarsi e fare a gara a chi ce l’ha più lungo – il consenso. La politica, in altri termini, va lasciata ai professionisti inquadrati in apparati mafiosi, che oggi giorno, per soprammercato, lo sono ancora di più poiché a decidere tutto, eclissatesi le diatribe ideologiche, rimangono solo i clan personali di questo o quel leader. Solo coloro che si riconoscono nello status quo sono considerati buoni cittadini.Tutti gli altri, se si fanno gli affari loro, che votino o non votino, pazienza: “lasciateci lavorare in pace”, è il messaggio dei mandarini partitocratici. Ma guai ai facinorosi che osino rifiutare questo regime di tessera in cui, come scriveva Panfilo Gentile nel suo ancora attualissimo saggio “Democrazie mafiose” (1969), «solo i conformisti sono cittadini di pieno diritto»3. Morale della favola: se ti impegni politicamente senza i paraocchi dell’appartenenza alla destra e alla sinistra, sei un qualunquista. Se invece ti lagni e sbraiti della destra e della sinistra solo perché costano troppo, va bene, anzi comprati pure l’inchiestona di Stella e indìgnati. Ma fermati lì.
Pensiero forte Il qualunquismo è un pensiero debole. Anzi, è il più debole di tutti, perché basato esclusivamente sul denaro. E’ un pensiero contabile, che come in un’azienda, misura la vita comune con criteri economicistici: costi-benefici, efficienza, risultati. Una critica da topi di bilancio a una società che non conosce più ideali ma solo valori, come in Borsa (che non a caso in origine si chiamava, e si chiama ancor oggi,“Borsa Valori”), è fare critica miope. Da quattro soldi. Che il Sistema economico tollera, anzi vuole e perciò sollecita, facendo risuonare la gran cassa della campagna anti-sprechi. Rafforzando nella gente la convinzione che la politica, in fin dei conti, non è diversa da tutto il resto: è una merce, con un suo prezzo e un suo mercato. Questo è il più puro e il più becero qualunquismo, di cui anche un bravissimo Stella è il portato. Al contrario, non lo è il pensiero forte di chi vorrebbe dare un calcio nel sedere a questa cultura bottegaia perfettamente funzionale all’economia e ai profitti di industriali e banchieri. Alcuni dei quali, riuniti nel cosiddetto “salotto buono” italiano, sono non a caso gli editori e i datori di lavoro di Stella.
(*)Alessio Mannino - giornalista Note: 1) Anno Zero, 13 novembre 2008 2) Festa dell’Unità, intervista di Bianca Berlinguer, 13 settembre 2007 3) Democrazie mafiose, Ponte alle Grazie, 2005, pag. 80.
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Vita dura
per i troppo liberi Fatto fuori dalla Rai, da Mediaset e da La7. Altri si atteggerebbero a martiri della satira: lui tira dritto come sempre. E riempie i teatri. intervista raccolta da Federico Zamboni
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artiamo dalla stretta attualità: negli Usa hanno eletto Obama e i media magnificano l’evento, come se i guasti del passato fossero definitivamente alle spalle e ci attendesse una rinascita generale. Come minimo occidentale. Forse addirittura planetaria. Ti associ anche tu all’euforia
generale? L’euforia generale è dovuta soprattutto al cambiamento che Obama ha promesso. A settembre ero a New York da Letterman il pomeriggio che ha intervistato Obama. Ero in prima fila, Obama era a cinque metri da me, me lo sono studiato bene. Dopo la sua prima risposta il pubblico era già in visibilio: Obama non dice nulla di diverso da quello che i democratici USA hanno sempre detto, ma sa dirlo in maniera avvincente. E con meno ambiguità rispetto a una Hillary. È ancora presto per giudicare. Le questioni cruciali, come si sa, saranno la politica estera (ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan, rilancio della diplomazia e delle relazioni internazionali) e la politica economica (new deal, fine della speculazione finanziaria). Non ci resta che aspettare. Adesso un passo indietro. Torniamo al famigerato “editto bulgaro”. Biagi ha fatto in tempo a rientrare in Rai, Santoro ha recuperato stabilmente il suo spazio; com’è che tu sei ancora fuori? Perché sono un cane sciolto. L’Italia è divisa in clan che si spartiscono il potere. Se non appartieni a nessuno di essi, ti fanno fuori in due secondi. E come lo si vive questo ostracismo? Al di là dell’orgoglio per non essere scesi a compromessi, viene mai il dubbio che alla fine non ne valga la pena? Ma la satira è un’arte! Gli artisti non ragionano in termini di convenienza materiale: obbediscono alla loro musa. I greci la sapevano lunga. Va da
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sé che la mordacchia alla satira, oltre a essere anticostituzionale, è insopportabile. I bacchettoni mi fanno schifo. Chi ne giustifica le azioni censorie, ancora di più. Di nuovo il presente. L’unico aspetto positivo della crisi in cui stiamo sprofondando è che ha messo in luce, come non mai, i vizi e le contraddizioni del capitalismo, specialmente di quello finanziario. La tua impressione qual è? Il capitalismo troverà il modo di proseguire nello sfruttamento. È il suo mestiere. Fra qualche decina d’anni,
“Il pensiero unico reazionario e guerrafondaio sta governando il mondo col precariato di massa, le politiche antisociali e le speculazioni finanziarie. È la peste attuale, cui alludo col mio Decameron” però, la crisi ambientale romperà il giocattolo: quello capitalistico è un modello insostenibile. Si sta avviando un vero ripensamento dello schema nevrotico “nasci produci consuma crepa”, oppure c’è solo il rammarico per non poter continuare a inebriarsi con lo shopping, eventualmente con la carta di credito e i pagamenti ”in comode rate”? La decrescita è una necessità. A poco a poco diventerà un sapere di tutti. I tuoi spettacoli? A proposito: va bene che li definiamo così o preferisci qualche altro termine? Il termine è giustissimo. I monologhi sono rappresentazioni teatrali. Che aspettative hai da parte del tuo pubblico, e come sono cambiate, se sono cambiate, nel corso del tempo? Scrivo e recito cose che fanno ridere me. Quando il pubblico si rivolge a te come a un guru senza macchia, o come a un leader che è lì a indicarti la verità e la via, sbaglia e gli va detto. In questo Paese, i demagoghi attecchiscono troppo facilmente, coi risultati che vediamo e da cui la storia del secolo scorso pare
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non averci immunizzato. Il mio punto di riferimento è Lenny Bruce. Diceva: ”Io faccio parte della corruzione che metto alla berlina.” Un atteggiamento molto più sano. E quest’ultimo testo che hai scritto, come è nato? A cosa mira? Ogni testo comico/satirico ha come obbiettivo la risata più grande possibile. Col monologo Decameron estendo ai fatti nuovi la satira dell’omonimo programma tv che La7 interruppe un anno fa per motivi misteriosi e ancora tutti da spiegare (c’è un processo in corso) dopo appena 5 puntate, nonostante gli ascolti mastodontici. Sono due ore di satira incandescente contro la politica reazionaria del governo Berlusconi, contro l’opposizione molle del PD, contro l’oscurantismo del Vaticano, e contro il potere della satira. In Italia sembra impossibile, passare dal dissenso individuale a una controcultura diffusa e in qualche modo coesa, sia pure con tutte le possibili (e magari anche auspicabili) diversità interne. Come va con gli altri che fanno satira non addomesticata, come Beppe Grillo o Sabina Guzzanti? C’è una differenza enorme: loro si fanno forti del numero di chi li segue, io no. Una controcultura ha i suoi tempi. Coagulerà. Un’ultima cosa: chi o che cosa ti fa incazzare di più in Italia o nel mondo? I soprusi del potente sul debole. Soprusi che oggi sono sistema: il pensiero unico reazionario e guerrafondaio sta governando il mondo col precariato di massa, le politiche antisociali e le speculazioni finanziarie. È la peste attuale, cui alludo col mio Decameron. La peste del Boccaccio segnò la fine del medioevo e l’inizio del Rinascimento. Auguriamocelo. Gran finale: una battuta inedita per i nostri lettori. L’altra mattina ho acceso la tv. “Borghezio ricoverato per un malore.” E io: -Uh, ha vinto Obama!-
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Steppenwolf due anime non bastano Uomo e Lupo, ma non solo: migliaia di nature diverse. Hermann Hesse mette a fuoco i luoghi comuni per uscire dalle gabbie della modernità. di Valerio Lo Monaco
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l Lupo della Steppa di Hermann Hesse è un libro ad altissimo rischio odio. Almeno da parte di quanti - e sono molti - se lo sono visto imporre durante gli studi medi. Ma è anche un libro a serio rischio di interpretazione superficiale. Oltre che un libro di una visionaria capacità psicologica ed analitica sulla natura umana e sugli sviluppi sociali del Novecento e oltre. Quest'ultimo è l'unico aspetto che dovrebbe interessarci e che sarà stato sicuramente già assorbito, invece, per quanti, dai tempi del liceo, non smettono di ringraziare (in un dialogo interiore di rara franchezza) i professori che allora li indirizzarono all'amore per i libri e per la lettura proprio attraverso questo testo. Per gli altri (ma "soltanto per pazzi", come scritto nel libro stesso) e come fosse uscito ieri, dovrebbe essere assorbito a ogni rilettura periodica, vista l'attualità dei temi che vi si trovano e che possono essere reinterpretati oggi. Anche se lo scrittore tedesco diede alle stampe Der Steppenwolf nel 1927, a ridosso della seconda guerra mondiale (dalla quale si tenne a debita distanza) il valore intrinseco di questo libro è di respiro perenne. Ma torniamo al rischio di lettura superficiale. Quanti, tra chi legge, hanno pensato almeno una volta nella vita di avere due anime? Quanti hanno riconosciuto in sé l'inclinazione ad avere due modi di comportarsi, di valutare le cose e di agire, in modo diametralmente opposto tra loro? Questa è, appunto, la vicenda di Harry Haller, protagonista del libro con chiari riferimenti all'autore (ad iniziare dalle iniziali del nome), della "dissertazione sul lupo della steppa" che il protagonista si trova a scoprire, a leggere, e alla fine a vivere in prima persona. Due anime, un uomo solo, un epilogo disorientante. Almeno per chi non lo declina, poi, in una delle interpretazioni possibili.
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L'uomo. E il lupo Da una parte l'uomo delle quiete stanze borghesi, lo sguardo profondo sulla realtà circostante, la falsità dei luoghi comuni e delle piatte esistenze - spesso inconsapevoli - degli uomini ingranaggi del sistema e dunque il disincanto sul mondo e sul senso, in realtà, di una vita spesa senza alcun ideale. Senza il sussulto di una emozione, di una battaglia per la quale vivere. Senza l'entusiamo che da trascinato di giorno in giorno ti fa diventare trascinante anche per chi ti è attorno. Dall'altro lato il lupo e la sua voglia di ribellione. L'onestà di dimostrare tutta la rabbia che si cova, la volontà di non tacere sulle miserie delle persone sino a
“Nessun uomo infatti... è così simpaticamente semplice che si possa spiegarne la natura come una somma di soltanto tre elementi principali...” offendere la loro stessa sicurezza. L'assoluta mancanza di ipocrisia e la verità sbranata famelicamente come carne cruda in mezzo alla steppa. E dunque, la solitudine di chi inevitabilmente fa terra bruciata attorno a sé. Salvo poi pentirsi amaramente di aver mostrato le fauci. Harry, alle prese con il pensiero sempre più martellante di farla finita, incontra una donna leggera e profonda, che legge nel suo animo. Che conosce la sua doppia natura assecondando o limitando con ironia ora una ora l'altra, sino a condurlo oltre il limite che Harry stesso aveva auto imposto alla sua doppia natura, per noia e pavidità. La scoperta di poter godere (anche) della vita semplice, comune, distrattamente normale e pure non così insostenibile come sembra a chi, non trovandovi un senso, invece di andare avanti anestetico dopo anestetico, arriva a pensare di togliersi la vita piuttosto di continuare inutilmente.
La verità profonda Eppure la scoperta più clamorosa di Harry sarà un'altra. Che è poi la chiave di volta vera del libro e il merito più grande: sbaglia chi pensa che l'anima di una persona sia solo una. Che solo una sia la propria capacità di leggere il mondo e di comportarsi. Ma sbaglia anche chi pensa che all'interno di noi alber-
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ghino due anime, sebbene contrapposte come quella dell'uomo e quella del lupo. Le anime delle persone, le capacità, i modi di interpretare ciò che accade e di conseguenza le possibilità differenti d'azione sono molteplici, infinite. Almeno quante quelle riflesse negli innumerevoli specchi del teatro all'interno del quale, nel libro, si compie l'epilogo.
False dicotomie Il Lupo della Steppa è una lettura fondamentale, paradigmatica e fortemente contundente del nostro sistema di sviluppo ma soprattutto della noia mortale di una vita trascorsa senza lasciare traccia. Uno spaccato della società nella quale viviamo ancora oggi dove il modello dominante appare - ci fanno apparire - essere uno solo o al più, indicando falsamente la cosa come pluralità, al massimo due. Con o contro il mercato. Con o contro gli Stati Uniti. Con o contro la democrazia. A destra o a sinistra, per attualizzare il discorso ai giorni nostri. Falso. Diabolicamente falso. Steppenwolf ci aiuta a capirlo, ci apre gli occhi. Ci trascina fuori dall'ipnosi dei luoghi comuni e della realtà che ci raccontano. Impedire di
“La sua vita (...) non oscilla soltanto fra due poli, diciamo quelli dell’istinto e dello spirito (...) ma fra migliaia, fra innumerevoli paia di poli” far uscire l'uomo dalle dicotomie imposte per tenere a freno le sue pulsioni e arginare le tante possibilità, è uno dei meccanismi attraverso i quali poter prevedere ogni comportamento umano, ogni possibilità di essere fuori dagli schemi. E dunque di neutralizzare tutte le spinte di ribellione e affrancamento. Di pensare e agire diversamente. Riconoscere la vera pluralità di se stessi, riconoscere le infinite possibilità, è invece il primo passo per spezzare le catene imposteci dai carcerieri della finta libertà, del finto pluralismo, del finto bipolarismo. L'uomo a tutto tondo non ha una singola anima. E neanche soltanto due. Dalle possibilità infinite, necessariamente, può nascere il nuovo e il diverso. E dunque, anche il meglio.
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Il posto di Rosai Oggetto di definizioni ossimoriche, l’artista, vissuto nel pieno del Fascismo, va invece ri-considerato unicamente per la sua genialità ribelle. di Lucia Casellato
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ll’inizio di quest’anno, a Firenze, una mostra ha celebrato il cinquantenario della morte, avvenuta ad Ivrea nel 1957, del pittore Ottone Rosai. L’evento ha fornito l’occasione, a critici e giornalisti, non solo e non tanto per tornare a discutere e rivedere criticamente l’opera pittorica dell’artista, sulla quale non sembra aver mai gravato nessun pregiudizio, quanto piuttosto per ristudiare le sue posizioni culturali e soprattutto politiche, che negli anni lo resero inviso sia alla destra sia alla sinistra decretando, di fatto, una sorta di messa al bando intellettuale. Già Pier Carlo Santini, curatore della personale di Ivrea del ’57, che Ottone non riuscì a vedere morendo d’infarto proprio alla vigilia dell’inaugurazione, definiva l’artista “una figura controversa, e come prigioniera di un destino che lo pose fin dalla giovinezza al centro di polemiche, di contrasti e di dissidi privati e pubblici che mai si placarono”. La personalità di Rosai pare infatti essere stata per alcuni come un puzzle i cui pezzi non sembrano riuscire mai a comporre un’immagine chiara e univoca, di quelle pretese da chi ha sempre bisogno di solide certezze. Di qui le tante definizioni, più o meno ossimoriche, coniate per cercare di cogliere il carattere problematico dell’artista: “teppista per bene”,“anarchico nero”,“omosessuale cattolico”,“antiborghese manganellatore”, solo per citarne alcune tra le più note. Sicuramente non fu d’animo docile il nostro Rosai e fin da giovane dimostrò un indole tutt’altro che mansueta e obbediente. Espulso dall’Istituto d’Arti Decorative di Firenze nel 1908 (secondo alcuni a causa di certi suoi disegni a soggetto erotico, ma più probabilmente per una connaturata insofferenza verso ogni tipo di disciplina), Ottone incontra, nel 1913, i Futuristi, con i quali sente subito di condividere lo stesso spirito eversivo e rivoluzionario: “Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. Il coraggio, l'audacia, la ribellione saranno ele-
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menti essenziali della nostra poesia”, aveva gridato Marinetti dalle pagine del Le Figaro. Preso sotto l’ala protettrice di Soffici e Papini, il diciottenne Rosai, assecondando il proprio carattere “sempre molto emotivo ed istintuale”, abbraccia gli ideali futuristi con passione violenta partecipando al movimento sia artisticamente – la sua prima opera futurista è Dinamismo bar San Marco, del 1914 – sia spiritualmente. D’altronde, non dimentichiamolo, il Futurismo era una vera e propria “filosofia di vita” e non una semplice corrente artistica. Volontario interventista, ovviamente, si arruola e combatte con eroismo sul Monte Grappa. L’esperienza militare lascia su di lui un segno indelebile, e Ottone non mancherà in seguito di ricordare quei momenti sia, brevemente, in alcune pagine del suo
“...il primo moccione si fa avanti e chiede a gran voce il nostro posto... ...di qual posto reclama? L’abbiamo noi forse avuto?” Libro del Teppista, del 1919, sia in modo più esteso in Dentro la guerra, del 1934. La storia di quest’ultima opera è però anche emblematica del problematico rapporto che Rosai ha intrattenuto con il fascismo. Il libro, scritto nel 1930 e apparso a capitoli su alcune riviste, suscitò non pochi dubbi e perplessità nei funzionari del Ministero di Stampa e Propaganda, al punto che venne consigliato allo stesso Mussolini di porre il veto sulla pubblicazione, che venne infatti data alle stampe solo quattro anni più tardi. Ottone aveva peraltro attivamente partecipato, fin dal 1926, alla rivista il “Selvaggio” che, sebbene nata come rivista del “Battagliero fascista”, si era successivamente trasformata, sotto la direzione di Mino Maccari, in giornale crudamente satirico, come ci ricorda Maccari stesso in una lettera indirizzata proprio a Rosai: “credo che questo numero del Selvaggio avrà dato nel naso a di molti”. I sospetti e le perplessità dei gerarchi erano dunque alimentati soprattutto dalla difficoltà di assegnare un “posto” accettabile all'eterodosso e intemperante Rosai, fascista certamente, ma scomodo, perché “a briglia sciolta” e perciò potenzialmente pericoloso – basterebbe citare qui il violento scritto Per lo svaticanamento d’Italia, in cui il pittore denunciava il tradimento dello spirito anticlericale propugnato dal giovane Mussolini. A tutto ciò si aggiunga, sul piano più strettamente personale, il fatto che la sua omosessualità – che egli stesso tentò di nascondere con un matrimonio di “copertura” – fu naturalmente ulteriore motivo di diffidenza e contribuì ad alimentare l'ostilità del Regime nei suoi confronti.
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Nonostante le difficoltà di dialogo con gli organi centrali del partito, Rosai ottenne comunque, nel ’42, in riconoscimento dei suoi meriti artistici, l'incarico di professore di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Esperienza, tuttavia, di breve durata, conclusa pochi anni dopo, nel ’44, con i processi di epurazione – di cui furono vittime altri artisti illustri, come lo scultore Arturo Martini. D'altronde, l’“incompreso” Rosai, proprio nel ’44, aveva dato asilo e nascosto nella propria casa in via de’ Benci a Firenze alcuni suoi amici, fra i quali il pittore Enzo Faraoni, che erano membri attivi della Resistenza. Dal dopoguerra fino alla morte il pittore fu assorbito unicamente dalla propria professione, riscuotendo successi sia all’estero sia in Italia, nonostante il peso dell'ipoteca che ha continuato a gravare sul suo passato. Un passato comunque non univoco, difficile da giudicare a posteriori almeno quanto fu difficile, persino per il regime,“inquadrare” le scelte e la condotta di vita dell'artista, né apocalittico né integrato. In fondo, la riflessione più amara ma anche per questo forse più autentica su l’uomo Rosai ce l’ha lasciata lui stesso quando, ancora trentacinquenne, in uno dei suoi scritti, Via Toscanella, ricordava quasi con rabbia e risentimento una giovinezza troppo rapidamente consumata: “Io e come me tanti altri abbiamo avuto il torto di nascere o troppo presto o troppo tardi. Insomma l’avventura di esser nati dai trentadue ai trentasei anni fa ci ha posti nelle condizioni di gente tra l’uscio e il muro. La guerra ci prese al momento del nostro ingresso alla vita e ci restituì miracolosamente dopo averci adoprate le nostre migliori energie. Nessun pentimento da parte nostra, ma anzi quel po’ di fiato che ci rimaneva lo mettemmo con entusiasmo di guerrieri a pro del Fascismo. Oggi a cose ormai fatte, il primo moccione nato diciotto anni fa si fa avanti e chiede a gran voce il nostro posto e si professa l’uomo dai diritti. Ma di grazia qual posto reclama? L’abbiamo noi forse avuto?”.
Lucia Casellato
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Bruce
Springsteen - The Seeger Sessions -
Musica energica, musica autentica, musica di popolo di Federico Zamboni
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olete una formuletta? Il folk è il contrario del pop. Il folk è artigianato, il pop è industria. Il folk – quello vero, non le rievocazioni posticce a uso e consumo dei turisti, o di qualsiasi altra varietà di consumatori occasionali che si avvicinano per curiosità e si allontanano per distrazione – cattura la vita reale e la custodisce a lungo. È legno lavorato a mano. Con gli attrezzi che si hanno a disposizione al momento e facendo di necessità virtù. Con quel tanto di imperfezione che ci sta alla perfezione e che ricorda, da subito, che è una cosa fatta da uomini per altri uomini. «I testi delle canzoni pop – dice Bruce Springsteen – tendono sempre ad addolcire i toni. Addolciscono i toni per rendere tutto appetibile. Quando la musica folk fece capolino i testi erano molto duri. E sono rimasti duri. E capisci che alcune di queste grandi canzoni, come The Swanee River, si sono trasformate negli anni. Ma allora, quando ci si sedeva a scrivere, i testi erano qualcosa di diverso. Erano davvero autentici e sinceri.» È il 2005. Bruce è nella sua casa di campagna, in una grande stanza che conserva i suoi soliti mobili (credenze, tavoli e sedie) ma che per l’occasione si è riempita anche di strumenti musicali, di microfoni e di quant’altro è necessario per registrare, ed è lì per fare una cosa che nessuno si aspetta. Incidere alcuni brani di musica folk della tradizione popolare americana, in vista di un album che uscirà l’anno successivo e che si inti-
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tolerà The Seeger Sessions. Un palese omaggio a Pete Seeger, autore e ricercatore nato a New York il 3 maggio 1919; ancora di più, però, un omaggio a un modo diverso di intendere le canzoni, di scriverle, di ascoltarle, di passarsele di mano in mano come una cosa di tutti e di nessuno, come una pipa che la fuma chi vuole e chi può la riempie, come una bottiglia magica che resta sempre abbastanza piena da consentire un’altra sorsata a chiunque la desideri. Con la maggior parte degli altri suonatori si conosce appena. L’incontro precedente risale a otto anni prima, al tempo di un altro tributo, stavolta collettivo, a Pete Seeger, che nel 1998 era a un passo dagli ottant’anni. Allora l’incontro fu breve. Giusto il tempo di realizzare il pezzo che Springsteen doveva eseguire, e firmare, per prendere parte alla celebrazione di Seeger – e alla parata di grandi nomi accorsi ad omaggiarlo. Bruce cantò We Shall Overcome, e lo fece da par suo. Loro lo accompagnarono come si deve, con quella passione e quella competenza che non dipendono certo dalla notorietà. Un bel momento: stesso slancio, stesso piacere e, per dirla con Guccini, “a culo tutto il resto”. Un momento fuggevole: completata l’opera, Springsteen tornò alle sue attività miliardarie e loro ai propri ingaggi da comprimari. Ma un conto è non sentirsi regolarmente; ben altro fare finta di non essersi mai incrociati. Bruce accantonò l’esperienza ma non se ne dimenticò affatto. Si limitò a metterla da parte, con cura, come un utensile che hai usato solo una volta per un lavoretto speciale. Come le mappe di un viaggio che è stato troppo breve e che non sai se, e quando, avrai modo di ripetere. E di approfondire. Otto anni dopo, appunto, gli venne voglia di riprovarci. Se andava bene anche a loro si sarebbero ritrovati. E avrebbero messo giù, insieme, un po’ di belle cose della tradizione folk americana. Hai presente John Henry? Hai presente Old Dan Tucker? Hai presente Shenandoah? Cotta e mangiata. Non era mica una di quelle superproduzioni che, assai prima che gli artisti possano finalmente incontrarsi, devono vedersi i manager e pianificare tutto. Era una riunione di musicisti che hanno un obiettivo comune e che sanno di poterlo centrare. Gente che conosce il mestiere e che va dritto al sodo. Potevano cavarsela in un paio di giorni? Certo che potevano. La prima volta si videro nel 2005; la seconda all’inizio del 2006. Due giorni di full immersion, di quelli che ci dai dentro e viene quel che viene. Senza starsi a porre il problema di eventuali sbavature. Musica folk, gente. Deve scaldare il cuore a chi ha lavorato tutto il giorno, non soddisfare le esigenze di precisione formale di qualche cretinetti con lo stereo da diecimila dollari. «Volevo il suono di un gruppo di persone che si sono appena
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sedute a suonare», scrive Springsteen nelle note di copertina. E proprio perché si capisca meglio il clima, e attraverso il clima si afferri in pieno il senso del disco, l’album viene pubblicato in versione cd/dvd. Di qua le 13 canzoni da ascoltare. Di là una mezz’ora di immagini sui due giorni di registrazioni, «uno vicino all’altro nella living room della nostra casa di campagna (e i fiati in anticamera)». Bruce, camicia a quadri e il resto di conseguenza, è al tempo stesso l’ospite cordiale, e più che mai informale, e il capobanda esigente. Come sempre – già da quando era un ragazzino timido e risoluto che bussava alla porta di Tex Vinyard per la prima audizione che lo avrebbe portato a entrare a far parte dei Castiles (mai sentiti? don’t worry, erano solo una delle tante teenager band di Ashbury Park) – la sua dedizione è totale e la sua aspettativa, sacrosanta, è che chi suona con lui non sia da meno. Gioco di squadra, ragazzi. Mediani che sbuffano e rifinitori che cesellano, e ancora meglio se ci diamo il cambio nel fare un po’ l’uno e un po’ l’altro, ma funziona solo se diamo tutti il massimo. Se ci diamo una mano l’uno con l’altro. Bruce è al centro della scena, e non potrebbe essere diversamente, ma la presenza degli altri si sente eccome. Scalda la musica. Scalda l’atmosfera. Si capisce che stanno bene insieme e che sono contenti di essere lì. Suonano insieme, bevono e mangiano insieme, se la spassano insieme. Chi se ne frega se è per un giorno o per sempre. Intanto c’è, ed è esattamente come uno desidera. Ogni tanto, tra un pezzo e l’altro, Bruce si ferma e parla di musica. Musica folk, in particolare. Dice: «C’è qualcosa in quegli strumenti. Strumenti che non devi attaccare alla presa. Erano perfetti per viaggiare, con quella connotazione di transitorio. Perfetti per muoversi con le persone. Parte della vita delle persone. Si suonavano a casa, nei bar, o nelle sale da ballo… Questi strumenti prendono vita in posti del genere». Dice: «C’è da dire qualcosa sui diversi posti dove si fa musica. Nei posti più grandi ci sono più comfort, ci si arriva facilmente, c’è tutto quello che offre la vita moderna. A volte però si perde un po’ di fegato, la necessità di metterci un po’ di impegno». Dice: «Quelle canzoni erano… A volte ci si dimentica quanto fossero belle. Questa è una musica che si perde perché non viene adattata a nuove realtà. Se la si adatta un po’, riprende vita. Queste canzoni vanno riscoperte, o ci si dimentica della vita che si portano dietro, tutta l’esperienza che contengono». Il resto è musica. Provata, inseguita, raggiunta. Appena un po’ di teoria e moltissima pratica. Come è giusto che sia. Come dovrebbe essere sempre.
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Masseria della Shoah Tutti sanno cos'è la Shoah, ma se chiedete a qualcuno cosa significa Metz Yeghern difficilmente avrete risposta. di Ferdinando Menconi
“L
a Masseria delle allodole”, dei fratelli Taviani, è un film coraggioso e timido allo stesso tempo, coraggioso perché tenta di portare all’attenzione del grande pubblico il dimenticato genocidio degli armeni, timido perché si svolge su registri melodrammatici che non riescono a restituire in tutta la dovuta crudezza il dramma del primo grande genocidio del XX secolo, un genocidio che non ebbe giustizia e che fu dimenticato aprendo così le porte a quelli che seguirono. Il film alla sua uscita ha subìto numerosi attacchi, non per la sua timidezza nel trattare gli orrori del genocidio o la fattura stessa del film, che ben avrebbero giustificato critiche, ma da parte delle comunità turche per aver osato insinuare che un genocidio c’è stato, perché sulla questione armena esiste un negazionismo di Stato che la Turchia porta avanti con risolutezza e che pochi osano contrastare. La filmografia sul tema è decisamente esigua. Solo in Francia, dove la comunità armena è numerosa, qualcosa è venuto fuori, e a onore della Francia va detto che ha emanato una legge che condanna il negazionismo anche per il genocidio armeno, mentre in Turchia ad affermarlo si possono rischiare tre anni di prigione o essere assassinati come il giornalista Hrant Dink.
La memoria? Ben poche sono le voci, soprattutto quelle ufficiali, che cerchino di tener viva la memoria, anzi Prodi glissò sull’assassinio Dink quando incontrò Erdogan, e, a una domanda sul genocidio, rispose che «le analisi del passato non devono essere utilizzate come strumento per le divisioni di oggi», soprattutto se fa economicamente comodo che la Turchia entri nell’Unione europea. Quindi meglio promettere, come fa il Cavaliere, di dimezzare i tempi di integrazione che non irritarla con insinuazioni sull’or-
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rendo crimine che sta alle radici della Turchia moderna o addirittura pretenderne l’ammissione come condizione necessaria, ma non sufficiente, al suo ingresso in un’Europa che diventerebbe sempre meno tale. Già, la Turchia moderna, quella di Kemal Ataturk, perché non fu il vecchio sopranazionale Impero Ottomano a scatenare il genocidio, ma la Turchia che si apprestava a diventare una nazione ammantata di laicismo. Certo la differenza religiosa aiutò molto nel portare il popolo ad appoggiare il massacro degli Armeni cristiani, ma fu ancor più determinante il fatto che la comunità Armena fosse percepita come un insieme di ricchi mercanti che profittava della Turchia per invece appoggiare le mire dell’espansionismo Russo nel Caucaso, sperando in un ricongiungimento all’ Armenia orientale, già liberata dallo Zar nell’ambito del secondario scacchiere caucasico di quello che XIX secolo fu chiamato il “grande gioco”. In effetti una qualche ragione per diffidare degli armeni i Turchi potevano anche averla – siamo infatti in piena prima guerra mondiale – ma da qui a sterminare un intero popolo, ce ne passa; sarebbe come se gli austriaci in quello stesso periodo avessero sterminato gli italiani delle “terre irredente” perché auspicavano una riunione al Regno d’Italia. Nel film un riferimento all’entrata in guerra dell’Italia c’è, ed è anche ben fatto. Descrive efficacemente il clima di sconsiderata euforia che segnò il 24 maggio e viene magistralmente contrapposto alla disperazione della numerosa comunità armena del veneziano che sperava di avere, nell’Italia neutrale, una base da dove soccorrere i propri connazionali. La guerra in corso permise che lo sterminio si svolgesse senza disturbo, le nazioni erano troppo impegnate in quell’immane tritacarne che fu la Grande Guerra, eppure per il genocidio armeno il “non si sapeva” non vale: un militare tedesco aveva raccolto e diffuso documentazione anche fotografica, i fatti erano noti, anche se non in tutta la loro ampiezza. La Germania provò a protestare, ma non poté più di tanto: l’alleato turco era troppo importante nel tenere impegnato il gigante russo sul fronte del Caucaso. Un po’ così come, oggi, non si vuole disturbare troppo la Turchia, né quando nega il genocidio, né quando nega i diritti dei curdi, che per nemesi storica furono proprio coloro che maggiormente impiegò come manovalanza della morte. Nemesi, vendetta, una parola chiave per il dopo genocidio, perché non ci fu una Norimberga per il popolo armeno, solo pochi processi-farsa presto insabbiati e poche sentenze mai eseguite. Nessuna giustizia insomma, ma gli armeni seppero prendere almeno una loro vendetta con la “Operazione Nemesis”. Molti dei responsabili turchi del genocidio che giravano liberamente per l’Europa vennero raggiunti e giustiziati,
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ma, in effetti, una volta almeno ebbero giustizia. L’esecutore della vendetta su Talat Pasha si lasciò catturare dalle autorità della repubblica di Weimar e fu assolto per infermità mentale causata dal genocidio del suo popolo. L’attenzione che riuscì ad attirare sulla tragedia armena fu, però, effimera, difatti solo pochi anni dopo Hitler poté dire: "Chi si ricorda oggi del genocidio armeno?" e cominciare così il suo di genocidio. Se solo non ci si fosse dimenticati degli armeni forse si sarebbe potuta evitare la Shoah.
Memoria corta, o nulla Un genocidio dimenticato, quello armeno, di un popolo poco conosciuto, eppure antico e importante, l’unico popolo indoeuropeo a sviluppare una scrittura autonoma. Popolo indoeuropeo la cui capitale, sia pur di una manciata di anni, è più antica di Roma. A onor del vero va detto che quando il concetto di Occidente nacque al passo delle Termopili loro combattevano contro, e contro lo spirito di Occidente andarono di nuovo nel 301 dell’era volgare quando divennero il primo regno cristiano della storia, ma fu proprio quello a consegna-
Un po’ così come, oggi, non si vuole disturbare troppo la Turchia, né quando nega il genocidio, né quando nega i diritti dei curdi... re l’Armenia all’Europa e non al Medio Oriente. Dove il cristianesimo si era sviluppato per venirne presto scacciato e prendere una via diversa da quello che sarebbe stato se non avesse dovuto fare i conti con la mentalità europea che affondava nel sue radici nella Grecia e in Roma, e perché no anche nel profondo senso di libertà dei barbari invasori dal nord, che lo costrinsero ad assumere non pochi tratti del sostrato pagano e a dover accettare una sostanziale separazione dei poteri. L’Islam non mai conosciuto il ghibellinismo. Questo legame mai completamente troncato con l’Europa è alla base dello sterminio voluto dai turchi, che invece adesso pretendono di entrarvi. Il primo vero grande sterminio di massa del mondo moderno di qua dall’oceano, perché dall’altra parte un genocidio simile anche nelle modalità era già avvenuto: quello dei nativi americani. In effetti nelle modalità il genocidio armeno assomiglia poco a quello ebraico con la sua
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agghiacciante scientificità, molti invece sono i punti in comune con le lunghe marce della morte cui vennero costretti i pellerossa nei trasferimenti verso le riserve imposte dagli yankee, però almeno le giubbe blu li portavano nelle riserve non a morire di stenti in mezzo al deserto. In questo il film non riesce a rendere in maniera adeguata l’orrore che fu, neppure la scena in cui due donne vengono costrette a soffocare, schiena contro schiena, un neonato perché maschio, riesce a suscitare vero orrore. È una scena toccante sì, ma buona anche per stomaci delicati: la lunga marcia delle donne e delle bambine verso i campi di concentramento in pieno deserto non riflette, nonostante le crocifissioni lungo la strada, la tragedia nei giusti toni.
Trattamenti differenti Marcia della fame solo per donne e bambine, perché i maschi vennero uccisi subito, con modalità che alla Masseria delle allodole ricordano più le orge di sangue delle rappresaglie naziste che non la raccapricciante burocrazia della morte nei campi di sterminio. Gli adulti uccisi perché nemici, i figli perché avrebbero potuto vendicare i padri. Marcia della fame che ci ha lasciato immagini degne di Auschwitz-Birkenau. Cadaveri che sono solo mucchi di ossa e pelle tirata, larve di donne e bambine: nel film questo non si vede, non si ha il coraggio di mostrarlo. Nonostante la fame e gli egoismi che ne discendevano vengano evocati, le donne sono troppo grasse e belle per essere realistiche. Belle abbastanza da far nascere pseudo storie di amore fra vittime e carnefici. Forse anche possibili e che servono da escamotage per far terminare il film, e il romanzo da cui è tratto, prima dell’arrivo delle colonne della morte nel bel mezzo del deserto, a morire in una lunga straziante agonia. Certo i turchi ben approfittarono delle donne armene, che potevano avere letteralmente per un tozzo di pane, ma invece di insistere su questa sopraffazione il film, coi suoi toni melodrammatici, riesce ad infilarci amore dove invece, nella quasi totalità dei casi, c’era solo ricatto e degradazione. In questo stanno i limiti del film. È umanitario, troppo umanitario, a fronte di uno scempio allora senza precedenti nella storia, ma che sarebbe stato presto superato. Non riesce a trovare i toni giusti, eppure è il caso di vederlo perché è l’unico che abbiamo a disposizione. Resta il fatto, però, che non colpisce come un pugno allo stomaco, come invece sarebbe il caso. Rimane trop-
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po delicato, melodrammatico, non riesce a scendere nell’oscenità dello sterminio e per questo anche le vicende umane di contorno risultano poco credibili, eppure almeno ha avuto il merito di aver squarciato il velo su un dramma dimenticato e che si vuole dimenticato, perché la Turchia “deve” entrare in Europa. Poco importa dei suoi crimini, poco importa se non li ammette, meno ancora se punisce chi li ricorda, bisogna dimenticare, seppellire nel passato… già fu fatto una volta ed altri credettero così di poter impunemente sterminare un popolo. Per questo l’ammissione del genocidio e la relativa condanna, ma che non siano solo formali e di comodo come sostiene Bernard Henry Levy, devono essere posti come pregiudiziale all’ingresso della Turchia in Europa, se proprio si vuol portare avanti questa scelta antistorica, e, nelle more, non sarebbe invece il caso di far entrare nell’Unione l’Armenia che,
“Chi si ricorda oggi del genocidio armeno?” e cominciare così il suo, di genocidio. Se solo non ci si fosse dimenticati degli armeni forse si sarebbe potuta evitare la Shoah... al contrario della Turchia, è Europa; e, perché no, riconoscere il Nagorno Karabakh come Stato sovrano.Temo però che gli interessi dell’economia prevarranno su quelli della giustizia e della storia. Il genocidio armeno non va dimenticato e non è difficile farlo. Tutto iniziò il 24 aprile del 1915: perciò, quando alla vigilia del 25 aprile tutti i media vi ricorderanno della liberazione e vi riallacceranno, legittimamente, i temi della Shoah, ricordatevi che questa ha le sue radici nel Metz Yeghern, il genocidio di un milione e mezzo di armeni che cominciò quel dimenticato giorno del 1915.
Ferdinando Menconi
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di Alessio Di Mauro