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ISSN 2035-0724
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Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 2 - numero 5 - Febbraio 2009
Mensile Anno 2, Numero 5
€5
Direttore politico
Massimo Fini Direttore responsabile
Valerio Lo Monaco
Economia: SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO Fini: PIRATI, IL BELLO DELL’ARREMBAGGIO Destra: BERLUSCONI E NULLA PIÙ Obama & Co.: L’OCCIDENTE SI RIFA’ IL TRUCCO Israele: ECCESSO DI ILLEGITTIMA DIFESA
Anno 2, numero 5, Febbraio 2009 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com) Art director: Alessio Di Mauro Hanno collaborato a questo numero: Marco Travaglio, Alessio Mannino, Laura D’Alessandro, Giuseppe Carlotti, Tommaso Della Longa, Giampaolo Musumeci Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Lucia Casellato Agenzia Stampa e comunicazione: Agenzia Inedita tel. 06/98.26.24.96 Progetto Grafico: Antal Nagy Impaginazione: Mauro Tancredi La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000 Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008
Elogio della filibusta di Massimo Fini
Israele-Palestina: quale giustizia? di Valerio Lo Monaco
Giù le nuove maschere di Federico Zamboni
Liberismo e bene comune: un veloce ripasso di Carlo Gambescia
La faccia scura di Obama di Ferdinando Menconi
La crisi occidentale: una scelta di vita di Eduardo Zarelli
La nostra strana crisi di Daniele Lazzeri
Il declino di un paese abbronzato di Francesco Bertolini
La destra che non c’è di Alessio Mannino
Gaza: agonia di un popolo di Augusto Curino
Prezzo di una copia: 5 euro
Obama, il silenzio. E il terrorismo
Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali
di Valerio Lo Monaco
Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista
Quando il reality offusca la realtà di Laura D’Alessandro
Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma
Borderline: Prezzolini
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Usciti ieri: Trainspotting
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di Massimo Fini di Matteo Orsucci
Musiche ribelli di Federico Zamboni
Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti.
Il film: “V” per riVoluzione di Fedinando Menconi
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FINI
EloGio S della Filibusta
ono tornati i pirati. È tornata la "fairy band" della Tortuga. Anche se la loro base non sta più nella mitica isola delle Antille, dove ebbero la loro epopea soprattutto nel XVII secolo, ma nei porti somali di Harardhere, di Ely e di Bossaso. I pirati infatti sono somali, per lo più ex pescatori, pattugliano il Corno d'Africa e il Golfo di Aden, individuano la preda e poi l'attaccano. Questi nuovi pirati si servono di alcuni mezzi tecnologici, Internet per trattare lo smercio del bottino e i riscatti, radar per seguire le rotte oltre che di informatori che hanno su tutta la costa. Ma al momento del dunque si va con i vecchi metodi. I bucanieri mascherano i loro navigli come insospettabili navi d'appoggio, poi, all'ultimo momento, quando sono vicinissimi, calano dei veloci barchini, con non più di due o tre uomini a bordo, e via all'arrembaggio con regolare bandana (che ha un significato un po' diverso da quell, ridicolo, di mister Berlusconi). Rubano ma non uccidono. Se si tratta di petroliere, l'obiettivo più ghiotto, le sequestrano insieme all'equipaggio e chiedono un riscatto. Nel 2008 hanno fatto 167 arrembaggi, catturato più di cento navi, e nelle loro mani ci sono attualmente 17 petroliere. Tengono in scacco le marine militari più sofisticate del mondo. Cinquanta navi da guerra, americane, russe, cinesi, australiane, incrociano nelle acque del Corno d'Africa ma senza cavarne un ragno dal buco. Perché i pirati sono rapidissimi nell'azione (l'arrembaggio della Sirius Star, nave Saudita battente bandiera liberiana, una superpetroliera da 310 mila tonnellate carica di preziosissimo greggio, è durato quindici minuti) e nello sganciarsi rifugiandosi in porti sicuri. Adesso la cosiddetta "comunità internazionale" (ma chi è?) sta cercando di correre ai ripari costituendo una forza di intervento, a guida americana, chiamata Combined Task Force 151. Ma intanto importanti compagnie marittime come la danese Moeller Maersk, una delle più grandi del mondo, hanno pensato bene di gira-
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MASSIMO
di Massimo Fini
MASSIMO FINI
re al largo riscoprendo il vecchio Capo di Buona Speranza e facendo il giro dell'Africa. Ma evitare il Canale di Suez comporta un aggravio di spesa del 40% e un allungamento del viaggio dai cinque ai quindici giorni.Altre come la Fortline Ltd stanno negoziando il cambio di rotta con le più importanti compagnie petrolifere, la Chevron, la Bp, la Shell, la Exxon Mobil. Insomma la pirateria sta mettendo in crisi il grande business dell'oro nero.
È
stupefacente, ma non privo di significato, che nell'era della globalizzazione, mentre si va allegramente verso un unico governo mondiale (a guida americana), un'unica polizia mondiale, la Nato, un unico diritto , con regole uguali per l'intero pianeta (e, naturalmente, un unico tipo di individuo: il Grande Consumatore), rinasca la pirateria. Questa è gente che se ne frega di Stati, regole e razionalizzazioni. Che vuol vivere a modo suo. I pirati somali sono assolutamente a-ideologici. Quando le Corti islamiche gli hanno chiesto di liberare la Sirius Star in nome della solidarietà musulmana e perché l'Islam condanna la pirateria, minacciando di intervenire con la forza, un portavoce dei pirati (perché hanno, come si deve, anche dei portavoce) ha risposto: «Non ci provate neanche. Siamo pronti a respingere qualunque blitz. Non abbiamo nulla I pirati somali contro gli islamici, lo siamo pure noi, e abbiamo il sono del tutto massimo rispetto del sacro regno saudita. Ma la aideologici. Chi nave catturata è solo una questione di affari». I denari che guadagnano li spendono degnamennon riesce a te, come è d'uso fra i bucanieri di tutti i tempi: a capirlo sospetta donne. che a manovrarli Poiché per la comunità internazionale è inconcepibile qualsiasi cosa che esca dalle sue logiche si sia il Mossad. è avanzato il sospetto che siano manovrati dal Oppure, tutto al Mossad per permettere alle armate occidentali di intervenire direttamente in Somalia contro le odiacontrario, Bin te Corti islamiche (in precedenza, quando queste Laden. Ma va là. Corti erano legalmente al potere in Somalia, gli americani hanno usato come testa d'ariete Sono pirati l'Etiopia imponendo il solito governo fantoccio). e fanno i pirati. Oppure, all'opposto, che siano seguaci del fantasma di Bin Laden, un misirizzi ormai buono, insieme al comico Al Zawahiri, per tutti gli usi. Ma va là. Sono pirati e fanno i pirati. E noi siamo perdutamente, appassionatamente con loro. Con la nuova Tortuga. Con i bucanieri. Con la filibusta. Perché anche noi, sia pur a modo nostro, meno rischioso, meno romantico e senza bandana, battiamo bandiera corsara. Massimo Fini
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Quale C giustizia?
onosciamo un modo solo per affrontare problematiche di questo genere: quello della logica e della razionalità.Fuori dalle inutili polemiche,più simili a quelle di una tifoseria da stadio quando non incrementate anche dalle altrettanto inutili querelle mediatiche delle settimane scorse,è il caso di fare una messa a punto generale sulla situazione israelo-palestinese. E questo sia per (ri)stabilire alcune coordinate concettuali con le quali affrontare la questione, sia per sgomberare il campo da pelose interpretazioni,spesso a senso unico (o quasi) che i media ufficiali e a grande diffusione del nostro Paese, e dell'Occidente atlantista nel quale viviamo, ci hanno propinato recentemente. Ne abbiamo avuto prova sui quotidiani, nei salotti televisivi e anche sul web in innumerevoli casi recenti. Come si sarebbe potuto rimanere nell'equilibrio politicamente accettabile del riconoscimento delle posizioni di entrambi gli schieramenti (equilibrio peraltro fortemente pendente verso Israele, almeno nel nostro mondo) quando nello stesso momento la situazione è stata terribilmente squilibrata dagli attacchi israeliani più simili a un genocidio che a una risposta militare? Su questo punto è il caso di fare qualche precisazione almeno qui ove, a differenza che in tanti altri casi, non si è in conflitto con le parole e si possono rispedire al mittente,senza possibilità di essere smentiti,eventuali strali o anatemi per quanto si andrà ad affermare. Capire ciò che accade in quella zona del pianeta, concettualmente, è di una semplicità disarmante: un popolo senza terra si è insediato in una terra ove era già presente un altro popolo,e dallo scontro delle due contrapposte volontà – quella dei primi di insediarsi definitivamente, quella dei secondi di non perdere la propria terra - discende,di fatto,tutto quanto è accaduto sino a oggi. Quanti, tra chi legge e si fosse trovato nella situazione di un palestinese, avrebbe accettato o accetterebbe oggi una situazione analoga? La legittimità della creazione di uno Stato Ebraico sul territorio dell'antico “Erets Israel”, peraltro, discende da due elementi ben precisi. Il primo di carattere religioso: rinvia a un passaggio della Bibbia (Gen. 15, 18-21). Il secondo di carattere storico: l’aver posto i palestinesi, nel 1948, di fronte
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Lo Monaco
di Valerio Lo Monaco
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al fatto compiuto. Mentre al primo si deve necessariamente accordare il valore che si dà a questo genere di letteratura, al secondo si lega il nodo cruciale della questione: aver proceduto all’occupazione di un territorio sulla base di una decisione sovranazionale che,con la forza,tutti - e in particolare modo i residenti palestinesi - hanno (o avrebbero) dovuto accettare, con le buone o con le cattive. Le chiavi dello Stato, dunque, agli ebrei sono state date non dal Messia, ma dall'Onu. Quest'ultimo aspetto, peraltro, è indicativo di una ulteriore imprecisione (e mistificazione) che è abitudine trovare in giro: confondere sionismo con ebraismo. Si tratta a tutti gli effetti di un abuso dovuto in primo luogo a una semplificazione arbitraria,in secondo luogo dovuto all’utilità di voler tacciare di antisemitismo chiunque si appresti a una critica di Israele. Il sionismo è (stato) in primo luogo un movimento nazionalista come tanti altri in Europa, al quale si deve accordare la legittimità che si deve a qualunque altro di questi movimenti. Il fondatore di questo movimento, Theodor Herzl, da nazionalista tedesco volle affrontare, a un certo punto, la questione del suo popolo. Il movimento peraltro dovette affrontare molte critiche, sia dal giudaismo ortodosso che vedeva un sacrilegio immorale ed empio voler creare uno Stato ebraico prima della venuta del Messia (tendente a staccare gli ebrei dalla Torah) sia dalla corrente del Bund, che si opponeva all'idea stessa di uno Stato. La prima corrente oggi sopravvive in alcuni piccoli gruppi ultra-ortodossi, la seconda è stata assottigliata dall'antisemitismo di Hitler. Il sionismo aveva la volontà di far confluire un certo numero di ebrei in uno Stato indipendente, ma non vi era alcuna indicazione vincolante sul luogo: solo in un secondo momento prevalse la volontà di costituire tale Stato in Palestina. Confondere sionisti e israeliani (ed ebrei) è dunque un abuso e una scorrettezza: secondo logica, l'antisionismo dovrebbe implicare unicamente il rifiuto che gli ebrei possano avere un proprio Stato, in qualunque luogo esso sia. Ora, è chiaro che tale confusione esista (così come è esistita quella tra russi e comunisti o tedeschi e nazisti) anche perché Ariel Sharon stesso, nel 2004, si era auto-dichiarato "capo del popolo ebraico", non fosse però che tanti ebrei (ne citiamo solo uno, intellettuale di fama mondiale e presenza costante nelle nostre letture: Noam Chomsky) non sono né sionisti né filoisraeliani.Non ci si può insomma stupire di questa commistione se da una parte si parla a nome di tutto il popolo ebraico e dall'altra si tacciano di tradimento gli stessi ebrei che invece non appoggiano affatto Israele ma che rappresentano la prova vivente - ed evidente - di tale sbagliata commistione. Beninteso, non che non esistano movimenti di ispirazione antisemita,ma il fatto principale,viziato da quanto abbiamo scritto,è che oggi l'accusa di antisemitismo,rivolta praticamente a chiunque osi criticare o anche solo riflettere in maniera critica sulle vicende israeliane, viene usata come una sorta di arma di intimidazione di massa, che ha sull'avversario l'effetto di impedire di parlare o di essere ascoltato.Stravolgendo il senso dei termini,è come se qualunque critica allo Stato di Israele venisse interpretata come non altro che antisemitismo. In altre parole: si fa passare il concetto che la critica alla politica israeliana non è mai accettabile. Ed ecco spiegato il motivo del cortocircuito mediatico: tentare d'impedire qualsiasi critica alla politica del governo israeliano proprio nel momento in cui tale politica è diventata tanto impopolare da divenire intellettualmente impossibile da difendere. Se si rappresenta una ostilità allo Stato di Israele in forme solo fanatizzanti e dunque poco tollerabili - cosa peraltro frequente - lo scopo è quello di depotenziare, anzi
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annientare, qualsiasi tipo di ostilità, anche razionale e ragionevole. Se a questo si aggiunge lo sfondo del "dovere della memoria" risulta quasi impossibile,a chi ne subisce il ricatto, muovere non tanto delle critiche ma anche delle semplici riflessioni non allineate con quelle imposte.
Non è il nostro caso. Unitamente a questo, peraltro, e ironia della storia, quello che oggi è sotto gli occhi di tutti è esattamente l'opposto di quanto voluto dal sionismo, che mirava a creare un luogo dove gli ebrei, a lungo perseguitati, trovassero finalmente pace e sicurezza.Ebbene,se esiste un posto al mondo dove gli ebrei non hanno né pace né sicurezza è proprio lo Stato di Israele, a metà tra un bunker ed un ghetto, separato dagli arabi grazie a muri e armi. Tanto che Israele è in guerra con la maggior parte delle popolazioni vicine che non gravitano nell'area del suo protettore più assiduo e potente,ovvero gli Stati Uniti d'America,e del modello di sviluppo del quale Usa (e Israele) sono punte di lancia nel mondo.Usa che, dalla creazione dello Stato di Israele a oggi, hanno offerto un un aiuto politico, militare e finanziario a Israele che non ha eguali nella storia. Anche in questo caso - concettualmente - una guerra, è facile da capire: o si annienta il nemico (o i nemici) o si firma un armistizio,scelta politica conseguente,appunto,alla guerra.Del resto,non è certo perché hanno letto i "Protocolli dei savi di Sion" che il 59% degli europei - dati di un sondaggio Eurobarometro dell'ottobre 2003, e dunque oggi presumibilmente molto più alti - ritengono che lo Stato di Israele sia una minaccia per la pace nel mondo.
Futuro nero Gli indiani d'America torneranno mai a possedere le terre che gli sono state sottratte attraverso il genocidio più grande della storia del mondo moderno ad opera di ciò che è diventato poi gli Stati Uniti d'America? Difficile pensare che ci sarà giustizia in questo senso, in Palestina, con un ipotetico ritorno dei palestinesi in quella che fu la loro terra. Israele farebbe saltare in aria il mondo, piuttosto. Ciò che ci si può chiedere,dunque - ammesso che si voglia accettare un discorso del genere, e mettere sullo stesso piano i diritti degli oppressi e quelli degli oppressori - è quale forma limitata di giustizia si potrà mai ottenere. La risoluzione 242 parlava di una federazione economica, non invocava specificatamente due stati.E il motivo era,ed è,semplice: due stati,in una regione del genere,non hanno molto senso. Si tratta di una regione troppo integrata, con confini di fantasia, più che altro, con gli enormi problemi di risorse e dell'integrazione delle diverse zone. Naturalmente, questo, ammesso che a una integrazione si voglia arrivare. E senza considerare, ovviamente, che Israele ha operato da sempre sino a oggi per un soffocamento continuo delle rivendicazioni palestinesi. Le opzioni in campo, insomma, ovvero le volontà delle parti (sia specifiche, dirette, che relative, indirette e collegate alla volontà di altri attori in campo, come gli Usa) non appaiono solo di difficile conciliazione, ma in assoluta e pressoché totale divergenza. Questo è certo con i fatti, checché se ne dica nei teatrini mediatici e diplomatici. E il futuro, in tal senso, appare a tinte molto fosche. E insanguinate. Valerio Lo Monaco
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ANALISI
Giù le
nuove maschere
Le Borse crollano? La recessione avanza? L’Occidente capitalista fa i salti mortali per cambiare la propria immagine avida e spietata. Da Obama a Tremonti, ecco gli inni al mercato in salsa etica. Per chi ci crede
S
di Federico Zamboni
e ci si ferma alle parole si può anche restare affascinati. Se ci si limita ad ascoltare ciò che dichiarano adesso i leader occidentali, a cominciare da Obama, può venire istintivo tirare un sospiro di sollievo e aprire il proprio cuore alla speranza che davvero, come essi vanno ripetendo, stia per cominciare una nuova stagione della politica americana e di quella europea. Non più in balìa del mercato, e della grande speculazione finanziaria, ma in sella a una ritrovata saldezza morale, che restituisca ai cittadini la convinzione di vivere in una società fondamentalmente sana: nella quale permangono senz’altro enormi disparità di reddito, nonché ingiustizie e iniquità di varia natura e gravità, ma al cui interno ciascun individuo “di buona volontà” può aspettarsi di trovare una collocazione adeguata alle proprie doti. O, quanto meno, un lavoro stabile e una retribuzione decente. Come affermava già 60 anni fa la Costituzione italiana, del resto, nel nostro Paese “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. Obama non può certo dirlo in questi stessi termini, vista l’impostazione assai meno solidaristica della società statunitense, ma il suo messaggio agli americani non è poi così dissimile.Di fronte a una crisi economica devastante, che dopo essersi sviluppata nel mondo finanziario si è abbattuta su quello produttivo, portando la disoccupazione a superare il nove per cento, il neo presidente chiama tutti a raccolta e promette una riscossa collettiva che permetta a ogni cittadino opero-
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Abbiamo ancora il diritto di manifestare. Ma è un diritto sempre piÚ fine a se stesso.
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so di ottenere ciò di cui ha bisogno. Già quattro anni fa, nel discorso che tenne alla convention dei Democrats in cui si sanciva la candidatura di John Kerry alle Presidenziali 2004, e in cui lo stesso Obama conobbe la prima consacrazione a livello nazionale, il semisconosciuto aspirante governatore dell’Illinois fece risuonare le medesime note. Da quell’accorto oratore che è, accostò via via la vita vissuta e le affermazioni di principio, la sua vicenda personale e la Storia degli Usa. Parlò dei genitori e ricordò che essi «immaginavano che sarei andato nelle migliori scuole del paese, anche se non erano ricchi» poiché «in un’America generosa non devi essere ricco per raggiungere i tuoi obiettivi». Poi lodò i suoi connazionali, che «non si aspettano che il governo risolva tutti i loro problemi. Ma essi percepiscono nel profondo che basta un piccolo cambiamento di priorità per assicurare ad ogni bambino in America una vita decente e fare in modo che le porte delle opportunità rimangano aperte a tutti». E infine, dopo aver solleticato le corde del patriottismo («Siamo un solo popolo, tutti noi abbiamo prestato giuramento di fedeltà alle “stelle e strisce”, tutti noi abbiamo difeso gli Stati Uniti d’America»), aveva lanciato la Grande Promessa. Che in quel momento poteva solo annunciare in nome e per conto del ticket Kerry-Edwards, ma che quattro anni dopo lo avrebbe accompagnato nella corsa trionfale verso la Casa Bianca: «Credo che possiamo dare un sollievo alla nostra classe media e fornire alle famiglie di lavoratori un percorso di opportunità. Credo che potremo dare lavoro ai disoccupati, case ai senzatetto e risanare i giovani delle città americane dalla violenza e la disperazione». Aggiungeteci il desiderio istintivo dei subordinati di identificarsi in chi comanda, l’umanissimo bisogno di sperare che parole così belle e convincenti scaturiscano da un’intima convinzione di chi le ha pronunciate, e il gioco è fatto: ci si getta alle spalle il passato e si guarda in avanti. Pronti a fare quello che ci viene chiesto. Pronti, soprattutto, ad affrontare nuovi sacrifici, in attesa di una ricompensa che è di là da venire. E che è tutt’altro che certa.
Primo, ricominciare daccapo In Italia c’eravamo già passati con Tangentopoli. I vizi di un intero sistema – non solo politico, ma economico e sociale – erano stati spacciati come illegalità specifiche, sia pure così diffuse da determinare un grave fenomeno collettivo.Invece di chiedersi da dove provenisse il virus della corruzione, e di rispondersi correttamente che esso era solo uno degli effetti collaterali di una società sempre più succube del denaro, si liquidò la questione disintegrando i partiti allora esistenti (salvo poi ricollocarne gran parte del “personale” nelle nuove formazioni che ne presero il posto) e decretando in gran fret-
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ta il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Oplà: la crisi morale del Paese venne risolta con un restyling della partitocrazia e con un turnover dei personaggi di vertice. Via i vari Forlani e Craxi (ma non Andreotti, guarda caso nominato senatore a vita a decorrere dal 1 giugno 1991) e avanti le seconde schiere. Nonché le “new entry”, Berlusconi in testa. Convinta di proiettarsi in una fase completamente nuova, la popolazione smarrì rapidamente il sacro furore della protesta, che nelle fasi più caldi delle inchieste aveva fatto balenare la possibilità di chissà quali rivolgimenti, e si accontentò dei modestissimi esiti della presunta palingenesi. D’altro canto, la vita doveva pur andare avanti e c’era da fare i conti, letteralmente, con i vincoli imposti dall’Unione Europea in materia di deficit di bilancio e di debito pubblico. Vincoli che sarebbero sì diventati operativi solo nel 1999, ma che intanto erano stati fissati dal Trattato di Maastricht, sottoscritto il 7 febbraio 1992. Vale a dire, per un’interessante coincidenza, appena dieci giorni prima dell’arresto di Mario Chiesa per la tangente del Pio Albergo Trivulzio. Oggi, come ben sappiamo, il capro espiatorio è un altro. Al posto dei partiti, che allora andavano colpiti per non affrontare il vero nodo del debito pubblico – attraverso il quale non solo si sono zavorrate a colpi di interessi passivi le generazioni a venire ma, quel che è peggio, si è compromessa la loro possibilità di gestire in piena autonomia la sovranità nazionale, stante la necessità di appoggiarsi all’infinito ai creditori internazionali per non sprofondare nella bancarotta – le vittime sacrificali, si fa per dire, sono gli speculatori di Borsa.Anzi: nemmeno gli speculatori in carne e ossa, visto che la follia dei derivati era talmente diffusa da disperdere le responsabilità individuali nell’immenso calderone del “così fan tutti”, ma l’idea astratta di speculazione. «La nostra economia – ha detto Obama nel suo discorso di insediamento a Washington,il 20 gennaio scorso – è duramente indebolita, in conseguenza dell'avidità e dell'irresponsabilità di alcuni, ma anche del nostro fallimento collettivo nel compiere scelte dure e preparare la nazione a una nuova era.» A sua volta, proprio nelle prime righe del best seller La paura e la speranza, la cui prima edizione è del marzo 2008, il ministro per l’Economia Giulio Tremonti scrive: «È finita in Europa l'“età dell'oro”. È finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la “cornucopia” del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro». Appunto. C’è stata una svista collettiva e adesso, preso atto dell’abbaglio, ci tocca ricominciare daccapo.A proposito: chi ha dato ha dato, e chi ha avuto ha avuto. Ovvio: se ci siamo sbagliati tutti insieme, come fai a distinguere?
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Credere, obbedire, collaborare Ancora Tremonti, ancora dallo stesso libro. «Per cambiare, l’unica politica che si può fare è una politica alternativa al mercatismo e per farla serve una “filosofia” politica diversa, una filosofia che ci sposti dal primato dell’economia al primato della politica. Serve una leva che – come ogni leva – per funzionare deve però avere un punto di appoggio. Questo punto può essere uno solo: quello delle “radici”, le “radici giudaico-cristiane” dell’Europa». Ancora Obama, ma questa volta dal discorso della vittoria elettorale, tenuto a Chicago il 5 novembre 2008. «Vi chiedo di unirvi nell'opera di ricostruzione della nazione nell'unico modo con il quale lo si è fatto in America per duecentoventi anni, ovvero mattone dopo mattone, un pezzo alla volta, una mano callosa nella mano callosa altrui. (…) Troviamo e mettiamo insieme dunque un nuovo spirito di patriottismo, di servizio e di responsabilità, nel quale ciascuno di noi decida di darci dentro, di lavorare sodo e di badare non soltanto al benessere individuale,ma a quello altrui.Ricordiamoci che se mai questa crisi finanziaria ci insegna qualcosa, è che non possiamo avere una Wall Street prospera mentre Main Street soffre: in questo Paese noi ci eleveremo o precipiteremo come un’unica nazione, come un unico popolo.» Da un lato le “radici giudaico-cristiane”; dall’altro le radici della Nazione Americana. Due potentissime “leve”, per usare la stessa parola utilizzata da Tremonti, che si prestano perfettamente allo scopo: sostituire al traballante mito del capitalismo due elementi altrettanto mitici, che inducano i popoli occidentali, degli Stati Uniti e della Ue, a fare buon viso a cattivo gioco. Nel momento in cui è caduta in disgrazia la favoletta della crescita esponenziale, e persino negli Usa si profila un drastico ridimensionamento dei consumi interni (finora sostenuti artificiosamente dagli acquisti a credito, a loro volta alimentati dagli immensi ma inaffidabili profitti delle diverse bolle speculative), viene a mancare l’arma essenziale della propaganda liberista: quel totem del benessere materiale che permetteva di far accettare, o comunque tollerare,il degrado morale e l’istupidimento generalizzato,nonché quella lunghissima serie di malesseri individuali e collettivi che portano, tra l’altro, al dilagare degli psicofarmaci. Il vuoto deve essere riempito. Il totem deve essere rimpiazzato. Di fronte ai tempi grami che si preparano, è tanto essenziale quanto urgente che i cittadini vengano motivati in maniera diversa. E ricorrere all’identità nazionale, come fa Obama, o a quella cultural-religiosa, come fa Tremonti, è la soluzione ideale. Col vantaggio aggiuntivo di non dover sottostare, almeno per parecchio tempo, a verifiche di efficacia.Trattandosi di valori “morali”, le difficoltà materiali passano giocoforza in secondo piano. Come ha detto Obama il 5 novembre, «la strada che ci si apre di fronte sarà lunga. La salita sarà erta. Forse non ci riusciremo in un anno e nemmeno in un solo mandato». E pur tuttavia, come ha specificato il 20 gennaio successivo, non c’è da domandarsi «se il mercato sia una forza per il bene o per il male. Il suo potere di generare ricchezza e aumentare la libertà non conosce paragoni». Vedete? Il dogma è rimasto immutato. E indovinate chi sarà, a portarne il peso.
Federico Zamboni
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ANALISI
Liberismo e bene comune:
un ripasso veloce
Si può far coesistere il desiderio individuale di arricchirsi col benessere di tutti? La realtà dimostra il contrario. Ma c’è chi pensa, o si illude, che basti un po’ più di controllo
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di Carlo Gambescia*
l concetto di bene comune è politicamente caduto in disgrazia nel 1945. A causa dell’abuso che ne avevano fatto nei decenni precedenti i totalitarismi nero, bruno, rosso. L’affermazione è tranchante e va perciò giustificata, facendo un piccolo passo indietro.
Due teorie politiche Semplificando: le teorie politiche e della giustizia ruotano intorno a un antico problema: viene prima l’uomo o la società? La società è una realtà che preesiste all’individuo, o è solo la pura e semplice somma degli individui che la compongono? E non si tratta di un interrogativo retorico, dal momento che si tratta di stabilire chi sia reale tra l’individuo e la società, soprattutto quale dei due elementi rappresenti il valore supremo. E dal tipo di riposta che viene storicamente data dipende l’organizzazione politica dell’ordine sociale. Se è l’individuo a essere considerato il valore supremo, allora l’ordine sociale sarà organizzato intorno ai valori individualistici. Non si parlerà di bene comune, ma di diritto individuale alla felicità. Per contro se è la società a essere considerata superiore all’individuo, sarà quest’ultimo a essere sacrificato in nome di un’idea di bene comune, fondata su precisi doveri sociali verso la comunità. Doveri che dovranno sempre prevalere sui diritti individuali. I totalitarismi di cui sopra abusarono dei doveri sociali, puntando su un’idea di bene comune intesa come ragion politica assoluta. Di qui l’utilizzazione di quei concetti di stato, razza, classe, come veicoli di perseguimento del bene comune. Con tutti i mezzi, guerra inclusa.
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L’idea di bene comune Come accennavamo all’inizio, per reazione la sconfitta dei totalitarismi ha condotto al rifiuto di qualsiasi idea di precedenza della società sull’individuo e dunque di bene comune condiviso. Un rifiuto che si è avvalso dell’ascesa di un liberalismo individualista basato sul consumismo, sul mercato, sullo sviluppo economico. E nel 1991, grazie a questo vulcanico mix, anche il totalitarismo sovietico finisce nella soffitta della storia.Il lettore ora si chiederà se storicamente siano mai esistite società capaci di conciliare individuo e società, senza precipitare nel buco nero del totalitarismo. Diciamo che il mondo pre-moderno era socialmente più coeso di quello moderno. E soprattutto l’economia vi svolgeva un ruolo integrativo, legato al conseguimento dell’autosufficienza. E non un ruolo dominante e disgregativo come nel capitalismo moderno. Il bene comune in Occidente, grosso modo, fino alla Rivoluzione francese, è stato di volta in volta interpretato come esito di una naturale dipendenza dell’individuo al sociale e alle sue gerarchie politiche. Le quali dovevano provvedere al bene della società nel suo insieme per puro senso del dovere sociale. Ovviamente, l’assenza di capitalismo favoriva ritmi di vita più lenti e comunitari, mentre, qualche volta, l’assenza della democrazia dei diritti come la intendiamo noi moderni, facilitava la decisione politica. E non sempre a fin di bene (comune). Ad esempio, la storia della città-stato greca,con i suoi alti e bassi,mostra tutti i pregi e difetti di una società dove il bene di tutti doveva in qualche modo prevalere su quello individuale. Il consapevole sacrificio di Socrate alle leggi delle città, può essere interpretato come il punto più alto o più basso (dipende dal punto di vista) dell’ idea di bene comune antica e probabilmente anche pre-moderna. Perché il senso di appartenenza venne ripreso dal cristianesimo in chiave ultraterrena, ma anche di doveri sociali verso la comunità terrena dei sudditi come dell’imperatore, del re e del principe.
Mano invisibile o bene comune? La vera questione è che il liberalismo moderno – non proprio tutto come poi vedremo - sembra non compatibile con l’idea di bene comune. Non ha bisogno del cittadino Socrate… Cerchiamo di capire perché. Il punto di rottura del liberalismo individualistico è nel suo accoppiamento poco giudizioso con la mano invisibile (del mercato). Che implica la credenza nell’automatica composizione-trasformazione, attraverso la scatola magica del mercato, degli interessi individuali priva-
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ti in pubblici. Il far sorgere il Bene (il giusto ordine sociale) dal Male (gli interessi, spesso egoistici, dell’uomo), taglia fin dalle radici qualsiasi idea di bene comune. E per almeno due ragioni. In primo luogo, perché a meno che non si abbia in tasca il segreto della storia, l’ordine capitalista e liberale non può essere considerato l’incarnazione finale del Bene sulla Terra. Probabilmente per alcuni è meno ingiusto di altri “ordini” storici, ma ciò non ha nessun valore morale assoluto. In secondo luogo, una volta accettato il principio che dal Male può nascere il Bene, tutto diventa possibile: qualsiasi azione umana individuale, anche spregevole, può essere giustificata a posteriori, ponendo come limite la sola “utilità sociale”, cioè la sua compatibilità con un ordine sociale ritenuto giusto, solo perché esistente. Ma c’è dell’altro. Se come nell’opera di Hayek – ma si potrebbe risalire a Smith – si accetta l’idea che il capitalismo sia frutto di un ordine spontaneo e provvidenziale (sorto da milioni di interazioni casuali), e come tale né giusto né ingiusto, si chiede all’uomo di accettarne con ras-
Esiste anche un liberalismo che nega la dittatura del mercato. E che si basa su un’idea di bene comune condivisa da tutti e sostenuta da élite politiche pronte a sacrificarsi per la comunità. Altro che Obama, Sarkò e Berlusconi. segnazione i misteriosi “decreti” (disoccupazione, povertà, diseguaglianze). Insomma, addio libertà umana… In questo senso il liberalismo “mercatista”, per usare un termine alla moda, somiglia a una teodicea medievale, ma di tipo “laico”, perché sostituisce la mano invisibile di Dio con quella del Dio-Mercato. Dietro il quale non c’è alcuna idea di bene comune,ma solo milioni di individui,con interessi individuali spesso mascherati da diritti, che fanno a pugni tra loro, e spesso non solo metaforicamente. A tale proposito, se Carl Schmitt tornasse fra noi, parlerebbe subito, storcendo il naso, di volgare teologia economica. Pertanto è inutile meravigliarsi se oggi quasi tutti i politici, da Barack Obama a Sarkozy e Berlusconi, quando accennano al bene comune si riferiscono principalmente al buon funzionamento del mercato: l’unica istituzione sociale, dichiarano, capace di garantire il bene comune. E la crisi economica attuale mostra in che modo…
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Un “liberalismo” che piacerebbe a Carl Schmitt Come uscire da questo vicolo cieco? Difficile dire. Esiste però, come il Settimo Cavalleria che in Ombre Rosse salva la diligenza dall’attacco indiano, anche un liberalismo realista, politico, “tosto”, se ci si passa l’espressione. Il lettore non storca subito il naso.Certo,ragioniamo in chiave teorica. Indichiamo solo autori e letture. E sappiamo benissimo che le idee devono camminare sulle gambe degli uomini. E che uomini politici come Obama, Sarkozy e Berlusconi, pur di restare al potere sarebbero disposti a tutto. Anche a dichiararsi liberali realisti… Però, ecco, si tratta di autori, in parte classici. E qui facciamo solo alcuni nomi, rinunciando a complicate genealogie storiche: Tocqueville, Pareto, il Max Weber politico, sincero liberalnazionale, Ortega, Croce, Röpke, Berlin, Aron, Freund. Per questi pensatori gli interessi non si compongono spontaneamente attraverso il mercato ma per mezzo della spada politica. Per certi aspetti questo liberalismo sconfina nella dottrina antica dei doveri sociali – e in primis delle élite dirigenti – verso la città: l’apprezzamento (liberale) per l’individuo si unisce così al gusto per le differenze, le tradizioni e la decisione politica coraggiosa. Semplificando al massimo: per i liberali realisti il diritto di proprietà, senza una “decisione” politica” che lo introduca, e soprattutto una forza pubblica che lo sostenga, non ha alcuna possibilità di realizzarsi. Il che significa che la composizione degli interessi ha sempre natura politica: il contratto privato, secondo il realismo liberale, senza una spada “pubblica” che lo garantisca, può facilmente essere violato. Ma occorre anche una comunità coesa. Di qui la necessità di un’idea di bene comune condivisa da tutti e sostenuta da élite politiche pronte a sacrificarsi per la comunità. Altro che liberali dediti al “particulare” come Obama, Sarkozy, Berlusconi… I pensatori ricordati propugnano un’idea di bene comune che può essere condensata anche in una carta costituzionale: versione moderna delle tavole legislative della città antica. Anche per il liberalismo realista la costituzione scritta, che un popolo si è liberamente data, rischia di restare un puro e semplice pezzo di carta, se alle spalle non ha un esecutivo capace di attuarla collegandola alle tradizioni della comunità e all'occorrenza difenderla, anche usando la forza, dai suoi nemici interni ed esterni. Diciamo che si tratta di un “liberalismo” dei doveri sociali e dedito al bene comune, ammesso che lo si possa definire ancora tale. Un liberalismo molto atipico che non dispiacerebbe a Carl Schmitt. Il quale, come è noto, non era propriamente filo-liberale. Proprio come noi.
(*) Carlo Gambescia - sociologo
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ANALISI
Lascura faccia di Obama Il primo afroamericano a diventare Presidente. La promessa milleusi dello “Yes, we can”. La campagna elettorale più costosa di sempre. Le luci le vedono tutti. Le zone d’ombra no.
L’
di Ferdinando Menconi
ondata di incondizionato entusiasmo ha toccato il suo apice.La notte di follia bipartisan che ha accompagnato l’elezione di Barack Obama è archiviata. D’ora in avanti, per forza di cose, il passaggio dalla teoria alla pratica porterà progressivamente alla consapevolezza che il “change” tanto sbandierato non ci sarà. Soprattutto non ci sarà in Italia. Il tentativo era quello di illudersi che il Partito Democratico statunitense fosse tutt’uno con quello italiano e che la vittoria dello Yes we can fosse quella del sepoffà.Faceva comodo delegare all’estero il cambiamento dopo che in Italia il centrosinistra ha fallito, e non a causa della sconfitta elettorale, e sempre ammesso che il tentativo ci sia stato davvero. Strumentalizzazioni a parte, bisogna uscire dall’ordine di idee che, se gli Stati Uniti eleggono il miglior presidente possibile, questo sia un bene per l’Europa. Prima di esultare è meglio pensarci due volte. E darsi da fare per cambiare le cose a casa nostra. Obama sarà presidente degli Usa e legittimamente agirà per gli interessi statunitensi, non per i nostri, come già fece Clinton. Qui da noi sarebbe già molto eleggere uno che non persegua i suoi interessi privati. A livello internazionale l’immagine di Obama è ancora brillante, anche se il mondo comincia a distrarsi, e ancor più lo è negli USA, e non ci si può permettere che non sia così. È una presidenza fondata sull’immagine, che fa tornare alla mente il famoso dibattito NixonKennedy, quello su cui JFK fondò la sua vittoria elettorale. La maggioranza di chi lo vide in televisione si lasciò conquistare dall’immagine del candidato democratico, chi lo ascoltò per radio si fece convincere dalla sostanza delle parole del candidato repubblicano. Una vittoria dell’immagine,allora come oggi,anche se la statura dei personaggi è decisamente mutata. Una differenza c’è: Kennedy infilò gli USA nel Vietnam, mentre Obama deve tirarli fuori dall’Iraq, un “Vietnam” che Bush padre riuscì ad evitare. Quello che comincia a trasparire è il bisogno di alimentare il consen-
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so ricorrendo a manifestazioni sempre più spettacolari e artificiose. Vengono rispolverati simboli come Lincoln col suo viaggio in treno e la proclamazione di emancipazione degli schiavi… dimenticando che Lincoln abrogò la schiavitù solo negli Stati confederati, mentre non interferì con gli Stati schiavisti (Kansas, Missouri, Kentucky e Virginia) che combattevano a fianco dell’Unione. Proprio così: alcuni Stati “Nordisti” erano schiavisti e la guerra di Secessione non fu combattuta per abolire la schiavitù. Crederlo sarebbe come credere che in Iraq si sia andati a esportare democrazia e combattere il terrorismo. Quelli sono solo i motivi con cui gli uffici di propaganda e controllo dell’informazione mobilitano le masse e mandano la gente a morire.
Razzismo sì, ma a rovescio Il tema razziale è stato centrale nell’elezione di Obama e si è spesso sbandierato il timore che il voto razzista potesse essere l’ostacolo principale per Barack. Tutti hanno esultato nel constatare che l’handicap non c’era stato, mentre invece c’è stato, ma a tutto vantaggio del nuovo presidente. Secondo i sondaggi, infatti, il voto bianco si è diviso al 50%, mentre il voto delle altre etnie è andato in maggioranza a Obama, con punte oltre il 90% fra gli afroamericani; non essendo il razzismo un privilegio dei “bianchi”, dunque, questo è un voto razzista. Anche scorrendo le dichiarazioni di esultanza per la vittoria di Obama, si nota che la motivazione principale non è tanto il suo programma o le sue qualità personali, cosa che sarebbe stata difficile visto che è un uomo senza esperienza di governo, ma il fatto che lui è afroamericano. E questa è una motivazione razzista: magari di razzismo al contrario, ma sempre di razzismo si tratta. Cambiamento, si dice e si ripete a proposito dell’uomo che ha preso il posto di George W. Bush. Ma di vero cambiamento negli standard statunitensi per l’elezione di un Presidente c’è molto poco, a parte il colore della pelle. La stessa Sarah Palin avrebbe segnato un cambiamento molto più radicale per l’establishment USA. Magari non un cambiamento per il meglio, ma un cambiamento di sicuro. Per adesso di cambiamento, di rottura con il passato, non c’è segno a partire dai collaboratori scelti, Hillary Clinton su tutti. Obama non è il messiah che tutti aspettano per cambiare un mondo allo sbando. È solo l’uomo ideale per un establishment da Gattopardo: per fare sì che nulla cambi facendo credere che tutto stia cambiando, e per convincere l’opinione pubblica c’è anche voluto poco. Questo non è neppure un lifting. È solo una passata di fard.
di Ferdinando Menconi
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CHIAVE DI LETTURA
La Crisi
C
occidentale: una scelta di vita
Il modello capitalista è la causa economica del degrado morale in cui viviamo. Ma a sua volta è l’effetto di un vizio culturale: credere di poter asservire la Natura alle nostre pretese
di Eduardo Zarelli*
ertezze sulla sostanza e gli esiti dell’attuale crisi del sistema nel mondo capitalista non ci sono, tranne che i suoi protagonisti non hanno intenzione di rimettere in discussione lo sviluppo “illimitato” e l’ideologia del progresso che lo sostiene. Indubbiamente abusata, ma non per questo meno appropriata, è l’immagine concettuale formulata da Zygmunt Barman che coglie la condizione moderna come “fluida”. La liquidità è una condizione fisica che comporta l’impossibilità di assumere una forma stabile, duratura. Conseguente quindi fotografare la flessibilità e la precarietà come abito economico dello sradicamento universale operato dalla globalizzazione. La folla solitaria dell’occidentalizzazione del mondo incede nelle metamorfosi di un individualismo sempre più disperato. La liquidità è per definizione senza forma, priva di luogo, si identifica con il tempo, la velocità degli spostamenti, la rapidità delle transazioni, la frenesia del lucro. In contro tendenza, resistendo alla “liquidità” temporale, i mondi preglobali hanno svolto millenariamente lo scopo culturale e filosofico di cogliere tragicamente l’essere oltre l’incedere inesorabile del divenire. Come non pensare quindi alla distinzione evoliana fra civiltà moderne, divoratrici dello spazio, e civiltà tradizionali, divoratrici del tempo. Le prime, immedesimate nel determinismo storico, rose dalla febbre del movimento e della conquista. Le seconde, acroniche, rituali, fondate sacralmente sulle “terre immobili” di una identi-
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tà archetipica. In tal senso si coglie nel profondo la trasformazione della civilizzazione occidentale in ideologia espansiva. Non più luogo, topos opposto e quindi complementare all’Oriente, ma “spirito del tempo”, condizione “moderna” in conflitto con tutto ciò che al suo interno e al suo esterno ne risulta irriducibile. Non esiste più l’amico, ma il contemporaneo, né esiste il “nemico”, ma il barbaro, il retrogrado, colui che non vive nel nostro tempo, e va dunque conquistato, acquistato, convertito o, al limite, cancellato dalla sincronicità dell’Occidente. L’immaginario economicista egemone nasce dalla dissoluzione utilitaristica dell’idea sacrale di spazio e, quindi, del limite naturale. Da qui la sua capacità prometei-
La cultura dominante sostiene che le leggi di natura sono pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche. Vivere secondo natura significa, invece, porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda. ca, tecno-scientifica, di omologazione planetaria nell’idea di “progresso”. In tale prospettiva, l’attuale crisi economica non può suscitare la riduttiva esigenza di riformare i meccanismi che l’hanno causata, ma di contestarne il suo stesso fondamento; una occasione per uscire dal primato dell’economicismo, dal rapporto alterato tra Uomo e Natura. Dal latino “revolvere”, rivoluzione significa nel suo etimo latino “ritorno al principio”, a imitare la dinamica ciclica e reversibile di ogni manifestazione. Nell’attuale società economicistica della crescita illimitata, dell’utilitarismo individualistico, c’è ben poco da conservare. Bisogna cambiare, “rivoluzionare”, ma per tornare agli equilibri dinamici profondi del vivente, “conservativi”, ricomponendo la dolorosa scissione tra cultura e natura divaricata dal titanismo industriale. Ogni individuo ed ogni popolo, hanno scoperto il mondo circostante a poco a poco. Questo significa che il modo di comportarsi, individuale e collettivo nei confronti degli “altri” e del mondo procede antropologicamente per cerchi concentrici. Mentre la globalizzazione (il mondo visto come un tutt’uno suddiviso in parti) è un prodotto della
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modernità e degli strumenti scientifici, il localismo è il normale modo di vedere dell’uomo: vista limitata, sensi limitati, possibilità di spostamento limitata, possibilità di conoscenza limitata. Si può affermare che il localismo è il modo di pensare ecologico per eccellenza, perché lega l’uomo alla natura, al territorio, e non ad una sua visione “costruita”, pensata, artificiale. Il legame con un territorio dato, rende uomini e culture consapevoli del concetto di limite. Se le ideologie della modernità avevano spiegato e piegato universalisticamente il locale, all’oggi, in controtendenza, si torni a guardare l’universale da prospettive locali, minimalistiche, ma a misura d’uomo e quindi di natura. D’altronde l’insicurezza cresce con l’incertezza del progresso, la sua protervia ripropone il “limite” come argine alla “volontà di potenza” industriale, che con la cibernetica e le biotecnologie arriva a manipolare le stesse interazioni, che sono all’origine della coerenza olistica del vivente. Una consapevolezza ecologica profonda riconosce la fondamentale interdipendenza di tutti i fenomeni e il fatto che, come esseri umani e sociali dipendiamo e, contemporaneamente, incidiamo sui processi ciclici della natura. La cultura dominante sostiene che le leggi di natura sono pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l’impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni. Scegliere la sobrietà in controtendenza allo spreco consumistico, ci pone di fronte al dettato psicologico, ancor prima che ideologico della modernità: il diritto alla felicità. Avvertiva già Alexis de Tocqueville sotto quali nuovi tratti il dispotismo si sarebbe dispiegato nel mondo: «vedo una folla innumerevole di uomini simili e uguali che girano senza riposo su loro stessi per procurarsi dei piccoli e volgari piaceri con i quali riempiono la loro anima. Al di sopra di questi si eleva un potere immenso e tutelare che da solo si incarica di assicurare il loro godimento e di vegliare sulla loro sorte». Sottrarsi all’edonismo dominante è tanto difficile quanto indispensabile per praticare uno stile di vita diverso da quello impostosi con lo sviluppo industriale. In realtà, sappiamo bene che è una ridotta percentuale dell’umanità a vivere di consumismo, ma la minoranza occidentale che lo pratica, nell’irresponsabilità più devastante per gli equilibri naturali e di giustizia socia-
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le, detiene la potenza tecnologica, scientifica e militare per imporre alla maggioranza i propri interessi particolari, giustificandoli come “missione” della storia universale. La saggezza filosofica e sapienziale di ogni tempo rifugge da una vita intesa come un continuo fluire, come dimensione unilaterale del movimento, implicita nella nozione di piacere. Platone paragonava tale stile di vita al caradrio, uccello mitologico cui si attribuiva la caratteristica di mangiare e di evacuare continuamente, mentre il piacere vero deve essere stabile in sé: la misura. Il compito primo quindi, di una cultura anticonformista consiste nello sposare la sobrietà degli stili di vita ad una felicità cercata nella virtù, in controtendenza alla dissoluzione della vita comunitaria nell’egoismo, che fa della felicità un diritto a discapito dei doveri dell’uomo nei confronti della natura di cui è parte. Una società ispirata a una felicità-virtù ridurrà i bisogni materiali, la complessità organizzativa e quindi la tensione psicologica, decisionale del singolo; all’opposto, una società edonistica, sposando una felicitàpiacere, proietterà i bisogni nell’artificio e nell’illimitatezza (pianificata scientemente con il marketing), fino al punto di “patologizzare” l’indecisione individuale nell’ansia bulimica o anoressica del consumismo. La libertà interiore è autodominio, coerenza, stile, semplicità. Lo “sviluppismo” industriale è parallelo al fallimento di una democrazia che attraverso il parlamentarismo liberale è diventata esclusivamente rappresentativa e quindi non rappresenta più nessuno, tranne gli interessi oligarchici. Paul Valéry diceva acutamente che la politica risiede nell’arte di impedire alla gente di aver parte nelle faccende che la riguardano. La sovranità democratica non è la sovranità statuale, ma la sovranità popolare, ciò implica la necessità di ricostituire la dimensione politica come partecipazione sociale. La politica che parte dalla base implica la sovranità condivisa, il principio di sussidiarietà e la sostanzialità delle libertà fondamentali. Tutto ciò è a dimensione locale. Il controllo democratico partecipativo del potere corrisponde comunitariamente ad un territorio condiviso dove, tra i singoli, i rapporti sono regolati da forme generali di giustizia distributiva ispirate al dono e alla reciprocità e, in ultima analisi, la sobrietà dello stile di vita rafforza la coesione del legame sociale. Diversità e pluralità delle identità comunitarie contrastano l’unilateralismo, garantiscono l’esistenza delle culture e la convivenza dei Popoli contro l’omogeneizzazione e la mercificazione dell’umanità.
(*) Eduardo Zarelli - Università di Bologna
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ANALISI
La nostra strana crisi Siamo ufficialmente in recessione, ma gran parte dei cittadini italiani non si rende ancora conto di quello che stiamo rischiando. E che potrebbe travolgerci da un momento all’altro
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di Daniele Lazzeri*
on c’è alcun dubbio che l’attuale situazione di crisi sia davvero strana. O forse che, a tratti, non paia nemmeno una vera crisi. Si passa, infatti, dall’euforia natalizia all’insegna del “nulla è cambiato” al canto della cicala dello “spendi-fin-che-puoi” prima dell’arrivo degli anni di vacche magre. In questo tourbillon massmediatico sono coinvolti operatori economici di tutti i settori produttivi, consumatori e risparmiatori che non si sono ancora fatti un’idea certa di quanto sta accadendo. Da un lato i timori della recessione in arrivo vengono quotidianamente sparati sulla folla dai mezzi di comunicazione, dall’altro lato gli effetti diretti di tale situazione tardano ad essere percepiti concretamente, spingendo all’errata convinzione che, tutto sommato, gli anni a venire non saranno diversi da altri difficili momenti già vissuti nel passato e quindi, grazie agli strumenti messi in campo da banche centrali e governi nazionali in tutto il mondo, sarà possibile uscirne a breve, limitando i danni. In effetti questa crisi è proprio “strana” e rappresenta un evento nuovo e drammatico al quale non siamo preparati. Non si tratta, infatti, di un ciclo negativo già visto in passato ma della crisi del sistema stesso. Siamo dunque giunti a quel collo d’imbuto del quale si parla da vent’anni sia in ambienti “non ortodossi” sia nei ristretti club della finanza internazionale. Da un lato la tanto sbandierata globalizzazione ha impresso un’accelerazione innaturale e forzata all’apertura dei mercati internazionali a causa delle direttive emanate dalla World Trade Organization. La WTO, infatti, ha promosso a partire dagli anni Novanta la liberalizzazione del commercio di merci e incentivato il massiccio spostamento delle catene di produzione dai distretti industriali occidentali ai Paesi dell’est Europa e dell’Asia, incrementando il livello di sfruttamento econo-
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mico dei paesi in via di sviluppo. Dall’altro lato è entrato in crisi il modello della cosiddetta finanza creativa. Banche e istituzioni finanziarie, nel corso degli ultimi due decenni, hanno sviluppato i prodotti strutturati, i derivati che, unitamente agli altri strumenti di ingegneria finanziaria, stanno trascinando nel baratro i risparmi di milioni di persone, affossando progressivamente anche il settore produttivo. Il fallimento dell’ormai ex corazzata Lehman Brothers rappresenta solo il primo segnale di cedimento struttu-
Tra ottobre e dicembre 2008, dopo le maxifusioni e i superfinanziamenti governativi, la fase peggiore sembrava ormai superata. Adesso, una nuova ondata di fallimenti è alle porte. rale del castello di carta messo in piedi dagli stregoni della finanza internazionale. La non indifferente massa di denaro immessa sul mercato da banche centrali e le operazioni di salvataggio poste in essere dai governi nell’ultimo trimestre del 2008 hanno dato l’impressione di aver trovato la soluzione definitiva ad una falla che è stata in realtà solamente tamponata. Tra ottobre e dicembre dello scorso anno, dopo le maxi fusioni tra istituti di credito sia negli Stati Uniti sia in Europa ed il parallelo ingresso del settore pubblico in molte banche, il pericolo sembrava davvero scongiurato. Gli organi di stampa specializzati glorificavano i meriti del mercato, sempre in grado di autoregolarsi, bacchettando l’esagerato interventismo del settore pubblico, quale esempio di nefasta ingerenza. Ora, una nuova ondata di fallimenti è alle porte. Il governo inglese è, infatti, dovuto nuovamente intervenire mettendo altre risorse a disposizione delle banche ed ottenendo dai mercati una sonora bocciatura a suon di vendite, con perdite sui titoli finanziari quotati sui listini delle borse europee di quasi il 10% in un giorno. Il gigante bancario Royal Bank of Scotland precipita in caduta libera, lasciando sul terreno quasi il 60% del suo valore in poche ore, a seguito dell’annuncio di una maxiperdita operativa nel corso del 2008 di circa 8 miliardi di sterline. Ma la perdita complessiva dell’anno potrebbe arrivare a sfiorare i 28 miliardi di sterline se si
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considerano nuove svalutazioni già preannunciate. Ma anche Barclays, da poco affacciatasi anche in Italia ed in una situazione finanziaria leggermente migliore, è stata trascinata a ribasso dai risultati del settore bancario nel suo complesso. Così come Deutsche Bank che, dopo le notizie delle ultime settimane relative all’ingresso nel capitale sociale del Tesoro tedesco, finisce nel girone infernale dei crolli di borsa. E, in Italia, la stessa sorte non ha risparmiato colossi come Unicredit e Banca Intesa. Cos’hanno capito finalmente i grandi investitori internazionali? Forse hanno cominciato a comprendere che le forze messe in campo, sia di natura economica che di stampo normativo, nulla possono fare contro il gigantesco buco nero alimentatosi negli ultimi lustri. L’importo complessivo dei cosiddetti titoli tossici è, infatti, ancora materia oscura, ben occultata nei bilanci delle banche che, esse stesse, hanno finito per perdere il controllo contabile della situazione. L’effetto moltiplicatore causato dalla diffusione degli strumenti di finanza derivata, ha ingigantito ed aggravato il problema che da megatruffa si è trasformato in catastrofe internazionale. La ricetta per rispondere a questa seconda valanga finanziaria è sempre la stessa: massicce iniezioni di denaro, abbassamento dei tassi di interesse per far
A quanto ammonta il “buco nero” causato dai derivati? Non si sa. O non si dice. Ma i governi si preparano a turare le falle. Scaricando alla collettività il peso della speculazione. affluire liquidità nelle casse degli istituti finanziari e piani varati dai governi per sostenere le aziende di credito. Dopo il primo intervento da 250 miliardi di sterline degli scorsi mesi, il governo di Londra ha lanciato, infatti, un altro piano da 100 miliardi di sterline per sostenere il sistema bancario. Gli Stati Uniti, nel frattempo, aggiungono ai 700 miliardi di dollari varati dall’amministrazione Bush altre centinaia di miliardi per agevolare il compito al neopresidente Barack Obama. L’idea di base, seppur con notevoli variazioni di percorso, rimane quella di creare un fondo destinato all’acquisto dalle banche degli asset cancerogeni, dei mutui subprime ed in generale di titoli derivati senza alcuna copertura, spo-
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stando così il peso del crimine truffaldino cagionato da manager spregiudicati sulle spalle dell’intera comunità. Il peso del debito pubblico incrementato da questi piani di risanamento sarà, infatti, scaricato sulle future generazioni, aggravando ulteriormente una situazione che, già ora, appare drammatica.
Il debito delle famiglie italiane sfiora a malapena il 30% del reddito nazionale. Negli Usa sono già a quota 98. E se si aggiunge il debito pubblico e quello delle imprese, si supera il 300% del Pil. Anche in Irlanda le cose non sono andate meglio: lo Stato, che a seguito della crisi finanziaria ha rischiato il collasso, ha recentemente preso il controllo di Anglo Irish Bank, dopo le svalutazioni miliardarie che hanno portato il titolo a perdere il 98% del suo valore. Nel frattempo, la nostra Italia, da sempre considerata il fanalino di coda dell’innovazione finanziaria, si barcamena alla meno peggio, conscia del fatto che, questa presunta arretratezza rappresenta per ora il maggior viatico al superamento della crisi. Pur non uscendone indenne, infatti, il Bel Paese è schiacciato da un debito pubblico molto simile, in rapporto al Pil, a quello americano (dopo gli interventi messi in campo dall’ex segretario al Tesoro Henry Paulson). Ma il grado di indebitamento di un paese non è relegabile al solo settore pubblico ma è da leggersi complessivamente nella somma tra debito pubblico e debito privato. E questo è anche il miglior indice per comprendere il livello di garanzia e solidità di uno Stato. È, dunque, pur vero che l’Italia ha il terzo debito pubblico al mondo, ben al di sopra di tutti gli altri partner europei. Ma la differenza è che l’indebitamento privato italiano sfiora a malapena il 30% del reddito nazionale. Negli Stati Uniti, invece, il debito finanziario è solo un terzo del totale (e cioè il 121% del Pil), quello delle imprese è al 77 per cento, quello delle famiglie al 98% del reddito nazionale. A questi dati va aggiunto il debito pubblico che si avvicina al 100% del Pil. Non c’è che dire, per ogni dollaro prodotto negli Usa, c’è un debito di 3 dollari e mezzo.
(*) Daniele Lazzeri - saggista
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ANALISI
Il declino di un paese
L
abbronzato
Ci siamo: arrivano gli anni delle “vacche magre”. Ma la soluzione non è stringere i denti e sperare che passi. La soluzione è liberarci di questo folle modello di sviluppo di Francesco Bertolini
a crisi economica non servirà a niente, in quanto non potranno essere i responsabili della crisi a trovare le soluzioni, ma almeno su qualche punto forse, e sottolineo il forse, potrebbe cominciare a far riflettere e si spera a far agire gli abitanti di questo paese. Il declino industriale del nostro paese, ormai da molti anni, non è più uno scenario futuro, ma un presente che andrebbe interpretato non solo rispetto al mondo del lavoro, ma anche rispetto alla gestione del territorio. Infatti nonostante il calo della produzione industriale e, dato molto più critico, la pesante riduzione della quota italiana a livello di commercio internazionale i paesaggi delle periferie delle nostre città continuano a essere pianificati con zone industriali, con conseguenti capannoni destinati a ospitare non si sa bene quali attività produttive. Sembrano lontani gli anni del "miracolo del nord est", quando migliaia di piccole imprese conquistavano il mondo e i piani regolatori dei comuni veneti; con una deroga dietro l'altra, consentivano la realizzazione di terribili prefabbricati che, se messi in fila, avrebbero unito Venezia a Torino. Oggi molti di quei capannoni sono vuoti, alla ricerca disperata di nuovi padroni; i vecchi se ne sono andati in Romania, Turchia e Cina, in una rincorsa che potrebbe rivelarsi suicida per il paese. Ma la globalizzazione non consente analisi strategiche di lungo periodo, obbliga solo a competere riducendo i costi, aumentando la produttività e cercando nuovi mercati. Nascono così nuovi colossi economici, di cui Wal Mart è l'emblema mondiale, che creano ricchezze immense con comportamenti non molto diversi dai grandi coltivatori di cotone
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dell'ottocento, polverizzando benefici sociali e civili, oltre che economici. E così si distruggono comunità create in millenni di storia per risparmiare sul tostapane o sull'asciugacapelli e non ci si ferma a riflettere su ciò che si va distruggendo: le reti locali d'interdipendenza economica e le comunità che su di esse si fondavano. Ma una analisi di questo tipo implica una consapevolezza profonda del concetto di policy, definito in passato come "tutto ciò che i governi decidono di fare o di non fare". Nei tempi recenti tale concetto ha assunto un'accezione più allargata, fino a comprendere non più solo i governi, ma "un insieme di attori che agiscono in relazione a un problema collettivo". Una policy in grado di resistere alla globalizzazione è un obiettivo non facile, a prescindere dai proclami declamati negli infiniti convegni che affrontano questo tema. Non è facile, soprattutto perché il sistema nel suo complesso rischia di essere in ritardo, forse, come in molti sostengono, fuori tempo massimo rispetto ai tempi della natura. La crescita infinita carattere fondante della globalizzazione rappresenta un'eccezione storica; la crescita è sempre stata, come hanno evidenziato gli antropologi,
Milioni di giovani nel mondo sono riusciti a rompere il monopolio delle major discografiche attraverso internet. Va seguita la stessa strada: la mobilitazione contro l’alta velocità in Val di Susa ne è un esempio. qualcosa di impensabile per molte società preindustriali. Le società primitive ponevano limiti alla produzione, mentre oggi i sostenitori di un modello fautore della decrescita, come unica, strettissima strada da percorrere per salvare il pianeta, vengono considerati, nella migliore delle ipotesi, dei provocatori. La globalizzazione traguardo finale dello sviluppo industriale fondato sulla continua innovazione tecnologica è riuscita a far passare per naturale ciò che non è secondo la natura umana e, fattore ancora più devastante, è riuscita a stabilire un legame indissolubile tra l'ideologia della crescita economica e quella individuale. Di fronte a una sovrastruttura di questo tipo, che
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sembra impossibile solamente scalfire, vi sono vari punti di vista, ma l'unico che sembra poter incidere su questo modello stagnante, democratico solo a parole, è quello fondato sull'informazione; si pensi a come milioni di giovani nel mondo siano riusciti a rompere il monopolio delle grandi case discografiche attraverso internet. Si deve seguire la stessa strada: la mobilitazione contro l'alta velocità in Val di Susa ne è un esempio; si è forse superato il limite di tolleranza che ha attivato nella popolazione un meccanismo di rivolta, a volte timbrato con il temine "eversione", ma che in realtà è solo la manifestazione di un profondo disagio per decisioni basate su logiche legate alla globalizzazione economi-
Domandiamocelo: perché non esiste un disegno strategico per evitare che questo Paese, culla della cultura occidentale, si trasformi definitivamente in un enorme centro commerciale? ca, lontane dagli interessi di comunità con identità e culture fondate, appunto, su quella straordinaria rete di interdipendenza economica e culturale suddetta. E le mobilitazioni non avvengono solo in Italia, ma contro l'alta velocità si segnalano manifestazioni in Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo, Germania e persino in Giappone. È incredibile vedere come le politiche di sviluppo globali stiano determinando risultati completamente opposti rispetto agli obiettivi, le poche volte in cui questi vengono dichiarati (spesso si procede solo per inerzia e incapacità di opposizione ai grandi gruppi economici ormai intrecciati paurosamente con il potere politico e dell'informazione); il nuovo paradigma è infatti sostanzialmente fondato sul definitivo declino dello stato nazione (si pensi all'allargamento geografico e politico dell'Unione europea e ai tentativi di creazione di mercati comuni in altre aree del mondo), dalla deregulation spinta dei mercati internazionali ecc. Ma il nuovo ordine mondiale, così come tutti i poteri, ha terrore del vuoto e produce, quindi, una moltitudine di norme e standard finalizzati alla propria legittimazione a lungo termine e che ricoprono l'intero spazio mondiale, con conseguente annullamento di identità, cul-
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ture e modelli economici sviluppatisi nel corso dei secoli. Una visione dello sviluppo di questo tipo che personalmente considero una profonda regressione dell'umanità, indipendentemente da considerazioni di sviluppo tecnologico è ancora più triste in Italia, dove questo modello inevitabilmente si scontra con il fascino di uno dei territori più belli del mondo da un punto di vista della biodiversità naturale e culturale. Perché non esiste un disegno strategico per evitare che questo paese, culla della cultura occidentale, si trasformi definitivamente in un enorme centro commerciale? I capannoni di un'industria che sta scomparendo ospitano outlet con prodotti made in China, sale giochi e solarium, dove dopo un'intera giornata in un ufficio condizionato, in una automobile condizionata, in uno shopping center condi-
Dobbiamo affrancarci dalla schiavitù del Pil. Perfino in Bhutan, piccolo regno tra le montagne himalayane, lo sviluppo viene misurato in “felicità interna lorda”. zionato, si cerca un sole finto per poter giocare in questa enorme finzione in cui anche il nostro paese si sta ormai trasformando. Ma come sempre, di fronte a cambiamenti epocali, oltre un certo limite scatta automaticamente un meccanismo di autodifesa, disperato, aggrappato a non perdere valori oggi sempre più importanti, e che non si misurano in prodotto interno lordo, parametro di un secolo andato che ostinatamente ci viene propinato come misuratore dello sviluppo quando ormai perfino in Bhutan, piccolo splendido regno tra le montagne himalayane, lo sviluppo viene misurato in "felicità interna lorda", indicando un percorso verso cui tutti i governanti dovrebbero tendere, ma che purtroppo rischia spesso di essere solo un alibi per continuare sulla stessa strada o per aprire nuovi mercati in logica equa e sostenibile soprattutto per chi arriva da mercati maturi e cerca nuovi sbocchi. Purtroppo la reale qualità di vita non è lo spirito che ispira la pianificazione e il governo del nostro territorio, un governo che purtroppo ormai è divenuto solamente "amministrazione", e che ha perso l'elemento fondamentale, il pensiero, evaporato nei saloni di abbronzatura.
Francesco Bertolini
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METAPARLAMENTO
Lachedestra non c’è
È
L’altra faccia del bipolarismo, perfettamente speculare al centrosinistra del Pd. Dentro al Parlamento c’è il PdL dominato da Berlusconi, fuori il guazzabuglio dei ducetti alla Storace
di Alessio Mannino*
ben strana la destra nel nostro Paese: verrebbe voglia di dirle «di’ qualcosa di destra!», se non fosse che al solo pensiero di passare per dei Nanni Moretti al rovescio ci viene l’orticaria. Sarà forse perché a noi, di primo acchito, la parola “destra” ci fa venire in mente soltanto la mano con cui scriviamo, o il diritto di precedenza sulle strade. O sarà che ce ne impipiamo del campionato truccato fra le due squadre: destra o sinistra pari – o meglio complementari – sono.
La patacca di Silvio Sarà quel che sarà, tuttavia preghiamo chiunque sappia cosa vuol dire essere di destra oggi in Italia di farsi vivo e comunicarcelo. Perché noi, umili di spirito, non riusciamo a venirne fuori. Per esempio: è di destra, Berlusconi? Concezione padronale della politica, con lui nel ruolo di demiurgo sforna-partiti per farne vetrine del suo ego e succursali dei suoi interessi; disprezzo per la legalità e per l’istituzione preposta alla sua tutela, la Magistratura; allergia alle regole che limitino l’arbitrio dell’imprenditore, secondo lui unico cittadino degno di tal nome; ostentazione sfacciata di lussi e ricchezze accumulate tra favori e sospetti di mafia da un brianzolo diventato monopolista pressoché assoluto dell’etere, in spregio di quel liberalismo di cui lui e i suoi lacchè si riempiono la bocca un giorno sì e l’altro pure. La sua è una “patacca” di destra, poiché l’incestuosità fra pubblico e privato, le leggi ad personam e la cafoneria con bandana in fronte stanno alla destra, a qualsiasi destra di qualunque latitudine, come Giuliano Ferrara sta alla coerenza e all’indipendenza intellettuale.
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Il tubo vuoto di An Sono di destra Gianfranco Fini e la sua creatura, Alleanza Nazionale? Manco per niente. La Patria, la Nazione: ferrivecchi messi in soffitta per far posto all’impresa, alla competizione, agli affari, alla modernità. Il Tricolore lo hanno buttato nel cesso, gli ex missini, e non per la buona ragione che è sempre stata una bandiera posticcia e minoritaria, ma perché le camicie nero-sbiadite si sono vendute all’american dream, all’edonismo straccione e al capitalismo mafioso di banche e corporations. Hanno abbracciato in toto il dogma unico del mercato, riducendo al silenzio quelle frange comunitariste e socialisteggianti (la “destra sociale”) da sempre attive e vivaci eredi dell’anticapitalismo non marxista. Montano campagne sul nulla alimentando la paura dei ricchi e grassi italiani contro torme di immigrati abbagliati dal nostro presunto benessere, e lo chiamano “problema sicurezza”. Salvo poi accodarsi alla demonizza-
Berlusconizzata, a corto di idee e di slancio, Alleanza Nazionale è un tubo vuoto, riempito di volta in volta dai pensamenti e dai ripensamenti di Fini, il fido scudiero di padron Silvio. zione dei magistrati e alla carneficina del diritto portate avanti con livore sistematico dagli alleati di Forza Italia, una cosa impensabile in tutte le destre del mondo, tradizionalmente ossequiose del law&order. Loro, i camerati ripulitisi con l’acqua battesimale di Fiuggi, la legge e l’ordine li sbandierano solo per non perdere voti a favore della Lega Nord. Contentandosi di far coincidere la propria identità col darsela da sceriffi contro i delinquenti da strada, guardandosi bene dall’alzarla, però, contro tutte quelle misure pelosamente “garantiste” e sfacciatamente feudali con cui la destra al governo ha reso i processi ancora più farraginosi di quanto non siano mai stati e instaurando, di fatto, una giustizia per i ricchi e una per i poveracci. Berlusconizzata, anestetizzata, deprivata di ogni slancio passionale, depurata dai fervori intellettuali (le loro rivistine e centri culturali, che pure ci sono, non contano niente), Alleanza Nazionale è un tubo vuoto, riempito di volta in volta dai pensamenti e dai ripensamenti di Fini, il fido scudiero di padron Silvio. Può chiamarsi “destra” perché non finge di criticare, come fa la sinistra, l’egoi-
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smo di massa che anima il nostro modello di sviluppo: lo esalta, e per difenderlo, in una contraddizione che fa a cazzotti con la logica più elementare, rispolvera le radici cristiane dell’Europa, funzionali a dar di sé l’idea di guardiani dell’identità.Tutta una sceneggiata, perchè nessuna identità nazionale, europea o occidentale è possibile quando il “progresso” della Coca-Cola sommerge ogni cosa. E per giunta mal condotta, dato che il Fini, volendo modernizzare il partito, si scaglia contro il relativismo «morale e culturale» (che sono due cose distinte, e il secondo è prezioso proprio per mantenere le identità) ma al dunque, se deve dire quali sono i valori della destra, farfuglia ipocritamente di «valori condivisi», come un qualunque bipolarista di strada.
Fra Mussolini e Santanchè Allora, per dio, sarà di destra almeno La Destra, il partito dei fuoriusciti da An capeggiati da Francesco Storace? Peggio che andar di notte. Da notare, tanto per cominciare, che quando si sente il bisogno di nominare una formazione politica a partire dalla sua collocazione e non dalle idee, vuol dire che evidentemente è più importante il contenitore del contenuto. E se la fede va più all’involucro – e quindi a una cornice, a un passato, a qualcosa che si conosce già e da cui non ci si riesce a staccare – è facile dedurre che aprendolo si sentirà puzza di vecchio. E di marcio. Ennesima sigla di una galassia infinita di clan, sétte e movimenti che di riffa o di raffa non recidono il cordone ombelicale col fascismo, il partitino storaciano fino a ieri affidava la sua immagine a una certa Daniela Santanchè, più esperta di salotti e feste romane che non di sezioni e borgate come invece un Teodoro Buontempo, il più rispettabile di tutta la famiglia. Parlano di temi misconosciuti come il signoraggio e si occupano di precari e disoccupati, i camerati della Destra. E con le varie Azione Sociale della Mussolini, Forza Nuova di Fiore e Fiamma di Romagnoli sono accomunati dall’apprezzabile intento di tener vivo un qualche fuoco ideale, in questo agghiacciante deserto che è la politica. Il guaio è che si premurano subito di spegnerlo, e lo fanno in due modi: o masturbandosi ancora e sempre con formule antiche di ottant’anni che non spiegano più nulla (il corporativismo, la socializzazione, lo Stato etico, e via archeologando), o restando ambigui, reticenti, metà democratici e metà fascisti, metà anti-americani e metà no, metà anti-israeliani e metà anti-islamici. E spesso, all’avvicinarsi delle elezioni, inten-
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ti a inseguire un’alleanza di comodo con il Polo, Casa o Popolo della Libertà di turno. Aridatece Almirante, che non era un nostalgico, ma neppure un venduto né un mezzo-e-mezzo. Impreciso e sommario, il quadretto che abbiamo abbozzato rende l’idea di un guazzabuglio dove c’è tutto e il contrario di tutto.Vediamo perciò di chiarire alcuni punti fissi. Uno: la destra parlamentare, moderata, quella avviatasi al partito unico (PdL) fra schiere di agenti Publitalia, craxiani, democristiani dorotei e missini del “fascismo male assoluto”, è una congrega di potere speculare alla sinistra veltroniana, lingua in bocca quando c’è da santificare il dio Mercato e partecipare ai suoi utili in
La destra estrema è un pulviscolo di eterni reduci, nobilitati dall’idealismo delle intenzioni ma persi nel passato. I migliori fra loro sono i ragazzi dei centri sociali, che si battono e si sbattono sul campo. sonanti poltrone. Due: la destra estrema è un pulviscolo di eterni reduci, che pur nobilitati dall’idealismo delle intenzioni hanno lo stesso difetto che Nietzsche imputava agli storici: sono come i gamberi, ragionano all’indietro. Di estremo, poi, hanno poco: parolai e massimalisti nei proclami, non vedono o non vogliono vedere che il solo radicalismo buono, positivo, vitale, rinuncia ai miti passatisti e ai simboli auto-ghettizzanti del Ventennio (e del neofascismo repubblicano), e batte vie radicali sì, ma attuali. I migliori fra loro sono i ragazzi dei centri sociali occupati, che si battono e si sbattono sul campo - purtroppo, però, inacidendosi nell’odio verso nemici più immaginari che reali, i loro omologhi di sinistra. Tre: di destre ce ne sono state e ce ne sono molte, in Italia e in giro per il mondo. Si tratta di intendersi su quale sia la destra autentica.
Princìpi fondamentali Per pescarla siamo andati a rivisitare alcune pagine di Giuseppe Prezzolini, uomo talmente fedele a una destra vera, arci-italiana e orgogliosamente conservatrice, da dover autoesiliarsi negli Stati Uniti per poter campare. Lui, il fondatore della mitica “Voce” (a cui il giornale che state leggendo si rifà, nel nome e nello spirito rinnovatore), enuncia grossomodo cinque caratteristiche eterne di ogni destra.“Rispettare ciò che è naturale”, come il “senso della proprietà”. Rispettare: non rendere la propria, vile roba l’unico scopo dell’esistenza. “Disuguaglianza naturale”: gli uomini non nascono tutti uguali, né tutti buoni, anzi sono “naturalmente aggressivi”. Ecco perché, hobbesianamente, serve lo Stato: per porre limiti alla
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“legge della giungla”. Limiti, regole, leggi, polizia, giudici: tutto il contrario dell’illegalismo teorizzato e praticato da ciò che si fa passare per destra oggi giorno. La libertà, un “ideale aristocratico”, perché “le masse non sentono il bisogno della libertà; sentono il bisogno del cibo. Alla libertà, che comporta rischio, responsabilità, fatica, preferiscono la sicurezza. Non a caso il liberalismo ha così pochi sostenitori in Italia”. Direi che, se confrontate con gli editoriali dei sedicenti liberaloni alla Panebianco o alla Ostellino, per i quali essere liberali equivale a difendere sempre e comunque gli interessi forti del capitalismo di Mediobanca e soci, queste parole dicono già tutto. La difesa dell’ambiente: “in nome delle rivoluzioni – sociali, tecniche, industriali – l’uomo ha dissipato le risorse della Terra. Ecologia significa conservazione: conservazione dell’ambiente in cui vive l’uomo, per poter conservare l’uomo. È la libertà che ha avvelenato acqua, aria, terra. Si è concessa troppa libertà alla fabbrica, alla macchina, al produttore e al consumatore”. E ora fate mente locale ai muggiti della mandria dei destrorsi nostrani, che ogni santo giorno ci rintronano le orecchie perché “si deve consumare per produrre”, perché “bisogna stimolare la crescita”, perché opporsi alla grandi opere, alla Tav, alla circolazione di merci e allo Sviluppo è da retrogradi, da folli, da nemici del progresso. In tutto questo, la destra moderata (Berlusconi, Fini e compagnia) si trova a braccetto con la sinistra altrettanto moderata, ambedue con appese le ragnatele di un pensiero vecchio e sconfitto dalla realtà: il liberal-liberismo. E la destra estrema, col suo bla bla bla di vecchia bacucca che racconta sempre un magnifico passato che non passa, non costituisce un’alternativa, ma al massimo un consolatorio bisogno di sopperire alla senilità trastullandosi con simulacri vuoti. Quanto a noi, che i santini di destra e di sinistra li abbiamo lasciati ai creduloni, proviamo a dire “qualcosa di ribelle”. E lo diciamo con Prezzolini, che pure si autodefiniva un conservatore. Ce ne fossero, di conservatori come lui. Sentitelo: “il Vero Conservatore, il VC, come lo chiamo io, non si confonde con i reazionari, i tradizionalisti, i nostalgici. Sa che a problemi nuovi si devono dare risposte nuove, ispirate però a princìpi permanenti”. Vi pare che, estremi o moderati che siano, i destri italioti abbiano prodotto uno straccio d’idea nuova, in questo inizio millennio? O invece, come acutamente osserva Pietrangelo Buttafuoco, si sono contentati di fare gli occidentali ciotola in mano, «in coda per essere ricevuti all’ambasciata americana»?
(*) Alessio Mannino - giornalista
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REPORTAGE
Gaza
agonia di un popolo
Decenni di parole, di risoluzioni dell’Onu, di summit sotto l’egida degli Usa. In linea di principio nessuno nega il diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato. Ma la realtà è che non cambia nulla. Anzi, va sempre peggio
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di Augusto Curino/dalla Palestina
orte. Distruzione.Violenza. Uso di armi non convenzionali. Questo è il tetro spettacolo che abbiamo vissuto in diretta tv, ovviamente non sui canali troppo “embedded” italiani, nei giorni dell’attacco israeliano alla Striscia di Gaza. Un lembo di terra, una delle zone più densamente popolate nel mondo intero, che è stata prima messa in ginocchio da mesi di chiusura totale dei valichi. E poi, bombardata e sostanzialmente distrutta dall’esercito di Tel Aviv. E poco importa se ormai nell’immaginario collettivo italiano grazie alla scarsa professionalità di media e politica, la maggior parte delle persone crede che Tel Aviv si sia solamente “difesa” dai continui lanci di razzi Qassam da parte di Hamas. Ora, piano piano, con gli appelli delle organizzazioni umanitarie sta venendo fuori la verità. E cioè che Israele ha sfruttato il momento esatto in cui alla Casa Bianca non c’era nessuno per rioccupare Gaza e togliere ogni speranza al popolo palestinese di avere una nazione. E anche nella Cisgiordania la situazione non è tanto diversa. Altro che tregua violata: nei sei mesi senza attacchi da Gaza, Israele non ha mai smesso le operazioni militari contro i palestinesi, strozzando il milione e mezzo di palestinesi residenti nella Striscia sigillando ogni passaggio. Finita la tregua, Israele non ha aperto i valichi e ha continuato le operazioni militari. A quel punto sono ricominciati i lanci di razzi. Questo significa “rompere una tregua”? Nel Vicino Oriente, esiste ancora un’occupazione militare che quo-
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Le due facce della tragedia: la disperazione dei civili e la bellicositĂ dei militanti di Hamas
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tidianamente strappa la terra al popolo palestinese e che fa di tutto per ridurre il sogno di una “Gerusalemme liberata” in un gruppo di enclave all’interno dello stato ebraico. Con i confini del 1967 che sono ormai diventati una chimera e una vita quotidiana assolutamente straziante. E non servono tanti giorni nella terra palestinese per rendersene conto. Dopo le lunghe trafile all’arrivo nell’aeroporto internazionale Ben Gurion, già la strada tra Tel Aviv e Gerusalemme è esemplificativa. A un certo punto sulla sinistra si vede chiaramente una struttura fatta di mura di cinta altissime e torrette blindate: è
“Freedom for Palestine”, si legge in un graffito firmato dai nazionalisti scozzesi e irlandesi: nei loro Paesi, come qui, si sa bene cosa significano occupazione e oppressione. il carcere dove vengono portati i palestinesi, peccato che i prigionieri siano sistemati in tende sotto il sole, d’estate, e al freddo e alla pioggia, d’inverno. Un modo per torturare anche nella vita di tutti i giorni i detenuti, molte volte imprigionati per motivi politici. Le Ong urlano allo scandalo, nessuno fa nulla. Appena il semaforo si fa verde e passa qualche chilometro, ecco che sempre sulla sinistra si incominciano ad alzare imponenti reticolati, improvvisamente sostituiti da lastre di cemento altissime. Ecco a voi, il muro voluto dall’allora premier Sharon.
Con la scusa della difesa Una cicatrice che non si può rimarginare all’interno della Cisgiordania che, a lavori conclusi, dovrebbe cingerla per difendere Israele dai kamikaze. Peccato che normalmente un muro di difesa si costruisce a casa propria e non sul terreno altrui. Peccato che ancora oggi il tracciato dell’orrida costruzione si mangia intere parti dei territori palestinesi e divide famiglie da famiglie. Come nel caso di Gerusalemme est. Qui il muro si insinua tra le case, con una logica assurda: chi rimane oltre il muro è cittadino di Gerusalemme, gli altri diventano residenti di altri villaggi. Perché tutto questo? Semplice, è l’unico modo per tagliare definitivamente anche sulla carta le aspirazioni palestinesi ad avere come capitale la Città Santa della moschea di al-Aqsa. “Freedom for
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Palestine”, firmato dai nazionalisti scozzesi e irlandesi che salutano con un graffito sul muro i fratelli di Palestina: in Scozia e in Irlanda, come da queste parti, sanno bene cosa significano occupazione e oppressione.
Gaza, vergogna “off-limits” Anche la morte, da queste parti, diventa un modo per prendere la terra. Un esempio? Il biblico “monte degli ulivi” si trova nella parte est di Gerusalemme e si affaccia sulla Spianata delle Moschee. Bene, oggi, mentre si viene rapiti dalla visione mozzafiato della Cupola d’oro, tutt’intorno si possono vedere solo ed esclusivamente tombe. Eh sì, qui una società israeliana ha iniziato ad espandere negli anni il piccolo cimitero ebraico situato a valle. In poco tempo gli ulivi biblici sono diventati solo un ricordo. Ma l’assurdo è che non si tratta di morti di questa terra. La società organizza il trasporto delle salme di ebrei di tutto il mondo. Un buon modo per fare business e soprattutto un altro modo per occupare terra, strumentalizzando anche l’ultimo momento della vita terrena. Fin qui, ancora, non abbiamo parlato di Gaza, non a caso. Troppo semplice raccontare delle migliaia di feriti che riempiono gli ospedali della Striscia. O dei medicinali che mancano. O del cibo che le truppe di Tel Aviv non fanno passare. O ancora dei 400 mila palestinesi rimasti senz’acqua. Vittorio Arrigoni, unico italiano rima-
Per tutta la durata della guerra gli israeliani hanno impedito l’accesso alla stampa. Anzi, hanno anche sparato ai pochi cronisti impavidi che raccontavano i massacri in corso. sto sotto le bombe e per questo “condannato a morte” dagli estremisti sionisti americani, sulle colonne del Manifesto e tramite il suo blog (http://guerrillaradio. iobloggo.com/) ce lo ha raccontato fin troppo bene. E poi qualcuno potrebbe pensare al solito buonismo d’accatto o a una buona dose di solidarietà pelosa. A Gaza, manca tutto. E oltre i proclami dei governanti occidentali ora bisognerà vedere quello che succederà. C’è un lavoro di ricostruzione enorme e un bisogno continuo di far fronte all’emergenza umanitaria. Eppure quando ci si mette in viaggio per la Striscia non si riesce
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ad entrare. Né al valico di Heretz né a quello di Kerem Shalom. Nel momento in cui scriviamo il valico di Rafah (quello a sud tra la Striscia e l’Egitto ndr) è stato aperto ai media internazionali. Gli israeliani, bisogna denunciarlo con forza, hanno impedito per tutta la durata della guerra l’accesso alla stampa. Anzi, hanno anche sparato a Gaza City a quei pochi cronisti impavidi che riuscivano a raccontare il massacro in corso. Ma d’altra parte, dopo i profughi, la Mezzaluna Rossa, l’Onu, i bambini, mancavano solo i giornalisti all’appello di chi è stato preso di mira dal Tsahal. E allora, se proprio non si può andare a documentare Gaza, l’itinerario viene spostato verso Sderot, la città israeliana che “vive nel terrore” per i razzi lanciati da Hamas. Strade perfette. Giardini curati. Case normal-borghesi. Questo è il paesaggio che ci si trova davanti. Un accompagnatore scherzando dice: «ecco alla vostra sinistra la distruzione nella città di Sderot, con i profughi, i feriti, i morti. Bisognerebbe chiedere all’Onu di organizzare un campo per gli sfollati». Certo, non deve essere bello vivere rischiando di ricevere un razzo nel giardino di casa.
Sicurezza a senso unico Ma questo non può essere una giustificazione all’orrenda ventata di morte portata a Gaza. Altrimenti, viene subito alla mente il paragone, cosa avrebbero dovuto fare gli inglesi durante i “troubles” in Irlanda del Nord negli anni ’70 e ’80 quando l’Irish Repubblican Army mieteva un numero molto più grande di morti in confronto ai Qassam? Lanciare una bomba atomica tra Derry e Belfast? Qui da queste parti le similitudini con le Sei contee dell’Isola verde sono molte e tante sono le icone della sopraffazione continua. Le bandiere con la stella di davide che garriscono al vento anche vicino ai villaggi palestinesi.Telecamere puntate verso i palestinesi, un grande fratello fatto di aerei senza pilota e mongolfiere che spiano la vita quotidiana minuto dopo minuto. Prefabbricati dei coloni usati per strappare terra ai vicini. Con un livello dello scontro e della resistenza che si radicalizza di anno in anno, di giorno in giorno, davanti all’oppressione e all’ingiustizia. Chi ha avuto la bontà di arrivare fin qui magari starà pensando che c’è poca lucidità in queste righe e molto spirito di parte. Eppure, la vita quotidiana a Betlemme, Hebron, Jerico, Gerusalemme, Gaza, Khana Younis è proprio così. Scandita dai check-point che bloccano la sacrosanta libertà di movimento. Dagli attacchi dei coloni contro i villaggi. Dagli ulivi sradicati. Da un vero e proprio apartheid praticato scientificamente. Altro che due popoli in due stati. Quello che si dice chiaramente da queste parti è che agli israeliani non gliene importa proprio nulla. «La pace significa prosperità. Possono i palestinesi darci scuole, ricchezza, lavoro? No. E allora perché dovremmo volere la pace? A noi interessa solo la sicurezza». Ecco la vulgata comune. Ecco il motivo di una situazione destinata a far scomparire la Palestina per come l’avremmo potuta immaginare fino a qualche anno fa. E, sottolineiamolo, tutto questo non è dettato dall’ultima aggressione israeliana o dallo strapotere di Hamas. Queste è la vita quotidiana in Palestina da tanti anni. Solo che oggi ci si avvicina sempre più a una fine tragica.
di Augusto Curino
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Obama
il silenzio. E il terorrismo
I
di Valerio Lo Monaco
l silenzio di Obama sulla questione Israele-palestina, è emblematico tanto quanto la violazione della tregua, da parte di Israele, proprio quel 4 novembre in cui veniva eletto il nuovo Presidente americano.Per provare ad abbozzare qualche ipotesi sul futuro bisogna capire se vi sarà un cambiamento di rotta da parte di Washington, ovvero se dopo decenni gli Stati Uniti intendono rinunciare alla difesa e all'aiuto a oltranza di Israele. Circolavano voci in tal senso durante l'ultima campagna elettorale, e nel momento nel quale la comunità internazionale offre un ampio consenso alla soluzione - comunque tutt'altro che facile da attuare - di due Stati indipendenti, ovvero della creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, tutto dipende dal fatto se gli Stati Uniti decideranno di continuare a respingerla, come fanno da oltre trent'anni, o meno. In un importante discorso durante la scorsa campagna elettorale - precisamente quello tenuto da Obama all'American Israel Public Affairs Committee (ovvero la lobby filoisraeliana di Washinghton) il neo-eletto è arrivato a dire che "Gerusalemme rimarrà la capitale di Israele, e non dovrà essere divisa". Discorso scritto, vale la pena riferirlo, da quel Daniel C. Kurtzer, scelto come consulente per gli affari nella regione specifica, già ambasciatore di Clinton e Bush in Egitto e Israele. La posizione espressa nel discorso, tanto radicale, ha costretto poi i collaboratori di Obama a una secca smentita. E durante il viaggio stesso di Obama in Israele, il nuovo Presidente ha detto tutto e il contrario di tutto. Poi ci sono stati i fatti recenti di Gaza, ultima tragica conseguenza delle elezioni - pacifiche e democratiche - tenute nella regione nel gennaio del 2006,peraltro giudicate corrette da tutti gli osservatori internazionali, nelle quali i palestinesi hanno scelto Hamas in luogo di Abu Mazen e del suo partito Al Fatah (sponsorizzato vivamente, invece, da Stati Uniti e Israele). I palestinesi la loro scelta l'hanno fatta. E come in tutti i casi analoghi dove "chi disubbidisce al padrone la deve pagare cara",la punizione è arrivata con tutta la violenza che (malgrado l'ipocrisia dei media ufficiali) abbiamo potuto, almeno in parte, vedere e capire. Israele - aumentando gli attacchi a Gaza, rapendo molti dei suoi leader,stringendo d'assedio (come da anni) la Striscia e tagliando l'acqua,oltre che uccidendo migliaia di civili (ciò non ha impedito a Olmert di affermare che “Israele ha agito senza violare alcun diritto internazionale”) - sta facendo in modo che Hamas non possa governare. Anche dopo l'accettazione del cessate il fuoco di dicembre Israele lo ha subito violato: in primo luogo continuando l'assedio - che è un atto di guerra, non dimentichiamolo - quindi impedendo all'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di distribuire aiuti ai palestinesi (Unrwa) di ricevere i rifornimenti - quindi aumentando l'embargo nelle settimane successive fino alla fine della tregua - 19 dicembre - e dunque, invadendo (e distruggendo) la Striscia Gaza.Difficile immaginare,nella situazione attua-
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le, un momento meno propizio a un accordo sulla creazione di due stati. Il fattore determinante appare dunque essere, ancora una volta, la disponibilità del Presidente degli Stati Uniti. In un momento, peraltro, di debolezza assoluta, sia economica,sia militare,sia diplomatica,di quello che essendo stato la punta di lancia del nostro modello di sviluppo, è oggi il primo attore della sua decadenza irreversibile. Il che apre il sipario, e lo lascia aperto, agli ulteriori sviluppi anche in queste ore stesse in cui andiamo in stampa - di spirali di violenza. Peraltro asimmetrica. Una delle più grandi mistificazioni che si fanno in merito al cosiddetto terrorismo palestinese, poi, mistificazione operata in primo luogo dai grandi media di massa, risiede nella definizione di "guerra al terrorismo". Nel nostro caso, di "guerra ai terroristi di Hamas". Si rimuove erroneamente la logica secondo la quale una guerra mira sempre a far cedere una volontà politica. In una società in cui ci si dimentica troppo spesso che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, mistificando il concetto di guerra al terrorismo, si devia l'attenzione dai punti cardinali della questione. Un popolo sradicato dalle proprie terre, rinchiuso in una zona invivibile, assediato e perseguitato dal punto di vista delle risorse, del riconoscimento della propria esistenza e dei diritti civili, rappresenta un tema politico.Ancora prima che militare. Se riconosciamo ad Hamas la qualifica di terrorismo è necessario ribadire che al terrorismo si risponde a un livello inferiore con azioni di polizia, a un livello superiore con azioni diplomatiche. Ovvero politiche per risolvere il motivo della sua esistenza. Non con massacri incondizionati come quelli delle settimane scorse. Non pare invece che si siano utilizzate sino a ora né l'una né l'altra delle opzioni.E che si sia scelta una soluzione militare,molto più vicina ad aspetti che fanno tornare in mente azioni di annientamento,rispetto a soluzioni di polizia. O rispetto a soluzioni politiche evidentemente "impossibili", ovvero, molto più chiaramente, non accettabili da parte dei palestinesi. E dunque, a priori, non contemplate da Israele nel novero delle possibilità. Le prospettive appaiono rimanere,dunque,politiche o militari.E tutto ruota attorno a questo punto: se ciò che i palestinesi dovrebbero accettare dal punto di vista politico è,di fatto,inaccettabile, non vi può essere soluzione politica. A meno che Israele torni a più miti pretese e che gli Stati Uniti appoggino una rivisitazione di tali pretese.In altro caso, non vi è che la soluzione militare, nella quale appare veramente difficile tracciare il confine delle azioni che una delle due parti - i palestinesi, in questo caso - possono o non possono utilizzare per cercare di ottenere i propri obiettivi, fosse anche il solo diritto all'esistenza - di fronte a un Israele armato fino ai denti e sostenuto dalla più grande potenza imperiale del mondo. Nulla è escluso. Ed è l'ultima riflessione, almeno in questa sede. Un luogo della terra dove vi sono dei conflitti di fatto insanabili,interessi geopolitici di carattere mondiale - gli Usa hanno le loro multinazionali e gli interessi sul petrolio e, allo stesso tempo, non vogliono lasciare l'area in mano alle pretese dei paesi dell'est che a quel punto, vista la grande importanza energetica dell'era moderna, avrebbero gioco ulteriormente più facile a mettere in crisi la già debole economia americana - un luogo dove vi è la più grande concentrazione di armi,atomiche incluse, e rivendicazioni di carattere locale e internazionale, è insomma una polveriera che può avere ripercussioni non solo locali,ma globali.E dagli effetti potenzialmente devastanti. E terminali. di Valerio Lo Monaco
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ANALISI
Quando
S
il reality offusca la realtà
Dal Grande Fratello all’Isola dei Famosi: si comincia a guardarli per curiosità e si finisce col desiderare di farne parte. O addirittura col credere che la vita sia tutta un Truman Show di Laura D’Alessandro*
intomi: ansia, depressione, aggressività, cambiamenti d’umore e dei comportamenti alimentari, abuso di droghe o alcol. Diagnosi: sindrome dei non famosi. Terapia: spegnere la tv ogni volta che va in onda un reality o un talent show. Sembrerà esagerato, sembrerà paradossale, ma se a dirlo sono dei neurologi bisognerà pur crederci: l’indigestione quotidiana di reality show, dicono, rischia di farci cadere nella depressione più nera, per il fatto di non avere la stessa popolarità dei personaggi televisivi e di non poter entrare a far parte dello scintillante mondo dei Vip. A rischio non è solo la mente, ma anche la salute fisica, visto che i modelli estetici proposti in tv possono portare a una vera ossessione per il corpo e a malattie come anoressia e bulimia. L’allarme dei neurologi italiani è di qualche anno fa(1), nel momento del boom degli spettacoli in stile Grande Fratello, ma si rivela attualissimo in questi tempi di voyeurismo sfrenato e corsa alla celebrità. Se non bastasse, pochi mesi fa anche gli psicologi americani sono tornati sull’argomento, per parlare della sindrome di Truman(2). Così chiamata dal film The Truman Show, è una nuova psicosi che colpisce chi è convinto che la propria vita sia filmata minuto dopo minuto e guidata da una regia invisibile, proprio come fosse un grande reality show. È la paranoia di sentire la propria privacy continuamente violata e di non sentirsi padroni della propria esistenza. Tuttavia, più di coloro che temono di essere spiati da una telecamera 24 ore su 24 sono quelli che vorrebbero esserlo a tutti i costi. C’è
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chi vuole andare sull’isola e chi sceglierebbe la fattoria, chi vorrebbe giocare a fare la talpa e chi preferirebbe ballare con le stelle, chi sogna di sfondare come cantante grazie a Simona Ventura e chi invece grazie a Maria De Filippi. L’importante è avere un pubblico, essere riconosciuti per la strada, essere imitati, sentirsi “arrivati”. Non importa dove. Certo, non sarà tutta colpa del Big Brother se una generazione di giovani sta crescendo col
La strategia dei reality è sempre la solita e continua a funzionare: un sapiente mix di esibizionismo, competizione, pettegolezzi, pianti, risse, volgarità, sesso. In breve: trash. mito delle veline e dei personaggi alla Fabrizio Corona, ma è vero che i modelli relazionali proposti dai protagonisti dei reality sono quelli del successo a tutti i costi, della competitività, della furbizia, della violenza verbale. Sta di fatto che un genere televisivo la cui morte è stata più volte annunciata sembra godere invece di ottima salute. La strategia dei reality è sempre la solita e continua a funzionare: un sapiente mix di esibizionismo, competizione, pettegolezzi, pianti, risse, volgarità, sesso: in una parola, trash. La puntata d’esordio del nuovo Grande Fratello, lo scorso 12 gennaio, è stata vista da più di 5 milioni e mezzo di italiani, mentre altri 3 milioni erano sintonizzati su X-Factor(3). Ascolti in crescita per entrambi e la solita sequela di commenti, polemiche, retroscena, giudizi che dilatano l’evento mediatico sino all’insostenibile. Forse neanche Andy Warhol avrebbe immaginato che quei 15 minuti di fama da lui vagheggiati per ognuno di noi si sarebbero trasformati per alcuni in un tempo ben più lungo di pseudo-celebrità e sovraesposizione mediatica, in un continuo rimbalzo di (non) notizie dalla tv ai giornali, dai giornali al web e viceversa. Non stupisce che persino la politica si occupi dei reality show. Nel novembre scorso la vittoria dell’ex parlamentare Vladimir Luxuria all’Isola dei Famosi era stata salutata dalla sinistra comunista come il primo atto della possibile riscossa politica contro Berlusconi.A gennaio il leader del Partito democratico Walter Veltroni ha polemizzato con «i programmi marziani in cui si possono guadagnare centinaia di migliaia di euro senza saper fare nulla»(4), ed è stato seguito a sorpresa anche da
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Maurizio Gasparri di Alleanza Nazionale. Della serie: ai problemi del Paese pensiamo domani. E se l’attualità si occupa del reality, come può il reality non occuparsi dell’attualità? Ecco quindi che, dopo aver portato alla ribalta nella scorsa edizione la storia di un transessuale, quest’anno il Grande Fratello ci propone tra gli altri un ex clandestino rom, un cieco e una ex hostess di Alitalia. Personaggi che, neanche a dirlo, meritano come gli altri un loro posto nella Casa e una chance nel mondo dello spettacolo, ma che finiscono per essere niente altro che “casi umani” messi sapientemente su un piedistallo per far parlare di sé, per creare altro cicaleccio. Accanto a loro, i personaggi-stereotipo di sempre: la maggiorata senza cervello, il playboy, la scontrosa, l’operaio, l’imprenditore e via così. Persone accomunate dalle basse aspirazioni e dal linguaggio urlato, ridotto ai minimi termini. Ha scritto Aldo Grasso: “L’urlo è connaturato al reality, che poi è, appunto, una realtà sopra le righe, gridata, strillata. L’urlo serve per entrare in tv, per segnalare la propria presenza, per
Quasi dieci anni di reality show, qui in Italia. Risultato: una generazione di frustrati e delusi, estromessi da una vita che considerano migliore. Quella vissuta dai personaggi televisivi. segnare il territorio, come fanno gli animali. Dove la solitudine finisce, comincia la tv e dove comincia la tv ha pure inizio il rumore della Grande Commedia”(5). Dove finisce la Grande Commedia, possiamo aggiungere, c’è la vita vera di tante persone che devono fare i conti con una realtà ben diversa da quella televisiva e che anche per questo vedono nei partecipanti ai reality un modello da seguire. Risultato: una generazione di frustrati e delusi, estromessi da una vita che considerano migliore, quella vissuta dai personaggi televisivi. «La tv italiana è tutta all’insegna dei dilettanti allo sbaraglio», ha detto recentemente Umberto Eco(6). D’altro canto, la retorica dell’”uno su mille ce la fa” è alimentata da programmi come Amici, X-Factor e simili, dove i pochi fortunati ammessi abdicano alla propria privacy in cambio di un sogno e la loro performance si confonde continuamente con la vita reale. Al pubblico – che sadico guarda e giudica – la formula piace e dunque via a sforna-
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re nuove giovani star, poco importa se saranno comete che si bruceranno nel giro di pochi mesi. Il guru della televisione Maurizio Costanzo ha scomodato il grande registra Alfred Hitchcock per indicare nel film La finestra sul cortile l’origine di tutti i reality show(7). A noi viene in mente il visionario Essere John Malkovich del molto meno noto Spike Jonze. La trovata del film è che chiunque – percorrendo un passaggio segreto – può entrare nientemeno che nel cervello dell’attore americano, vivendo e provando esattamente quello che egli vive e prova. Malkovich diventa così, suo malgrado, prima un mero contenitore di anime aspiranti a fama ed eternità, poi una vera e propria marionetta nelle loro mani. Ecco, chissà che nel prossimo futuro non si arrivi anche a questo: saziare la propria fame di celebrità prendendo in prestito mente e corpo del Vip preferito, per illudersi di essere come lui. Il business, in Italia, sarebbe garantito.
(*)Laura D’Alessandro - giornalista Note: (1) Ne parlò il professor Rosario Sorrentino, membro dell’Accademia americana di neurologia, al convegno “La nuova solitudine” a Roma, il 14 dicembre 2004. (2) Corriere della Sera del 25 novembre 2008. (3) Italia Oggi del 14 gennaio 2009. (4) Repubblica del 16 gennaio 2009. (5) Corriere della Sera del 14 gennaio 2009. (6) Intervistato dalla tv svizzera il 18 ottobre 2008, in occasione dell’assegnazione del Premio Manzoni alla carriera a Lecco. (7) Nel film del 1954 un fotografo, interpretato da James Stewart, è costretto a casa con una gamba rotta e si mette a spiare i vicini per passare il tempo, finché scopre un uxoricidio e rischia la sua stessa vita per smascherare il colpevole.
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BORDERLINE
Prezzolini
C
Il vizio inguaribile dell’indipendenza
A diciassette anni abbandonò il liceo per protestare contro un professore. A ottanta suonati lasciò l’Italia e si trasferì in Svizzera. Non certo per portarci i suoi soldi. Ma per salvarsi dalla marea montante del malcostume di Massimo Fini
ent'anni da borderline. Cent'anni di solitudine. Questo è stato Giuseppe Prezzolini (1882-1982). Nonostante abbia attraversato nei primi decenni del Novecento le più importanti esperienze culturali, e non solo culturali, italiane ed europee, da testimone e da protagonista (nel 1903, a 21 anni, fondò, insieme a Papini, il Leonardo e nel 1908 La Voce da cui uscì il meglio, dal punto di vista intellettuale, del fascismo e dell'antifascismo), questo straordinario poligrafo autodidatta, giornalista, scrittore, editore, traduttore (introdusse per primo in Italia Stevenson, London, Novalis, Mauriac) e, su tutto, grandissimo operatore culturale, è stato sempre isolato. Aveva il vizio inguaribile dell'indipendenza. Che manifestò fin da giovanissimo, a 17 anni, lasciando da un giorno all'altro il liceo per protesta contro una frase infelice di un professore. Pur essendo amico personale di Mussolini, di cui era stato mallevadore facendolo collaborare a La Voce dove il non ancora Duce scrisse alcune bellissime inchieste, nel 1929, a quasi sessant'anni, sentendo puzza di regime si trasferì negli Stati Uniti pur avendo una scarsissima opinione della democrazia («è la parificazione degli sporcaccioni con i galantuomini»). Da Mussolini avrebbe potuto avere tutto ma non volle dover nulla al fascismo. A New York, per un modesto stipendio, insegnò italiano alla Columbia University. Sfangava una vita durissima in una "penthouse", caldissima d'estate, fredda d'inverno. Nel dopoguerra collaborava, sempre per poche lire, al Resto del Carlino che
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senza alcun riguardo alla sua età (aveva ormai quasi ottant'anni) lo mandava in giro per le Americhe e il Canada come inviato. Ma finchè restò in America tenne botta magnificamente, come fosse un giovane cronista. Quando nel 1962, dopo la morte della prima moglie, decise di rientrare in Italia, stabilendosi a Vietri sul Mare, crollò di colpo, fisicamente. Nei suoi Diari ci sono delle descrizioni impietose di questa decadenza. L'aria d'Italia, paese, per eccellenza, dei "furbi", non
Era stato rimosso e dimenticato da tutti. Dalla destra perché aveva voltato le spalle al fascismo, dalle sinistre perché lo consideravano un fascista. Anzi, “un vecchio arnese fascista”. era fatta per lui. Nel 1968 si trasferì quindi a Lugano. Quando qualcuno gli chiese le ragioni di questo secondo espatrio rispose: «Dovete capire che un uomo della mia età ha bisogno di un luogo dove i sì siano dei sì e i no dei no, non degli eterni ni». Ma era da decenni che, tranne qualche eccezione (Montanelli che lo considerava il suo maestro), era stato rimosso e dimenticato da tutti. Dalla destra perché aveva voltato le spalle al fascismo, dalle sinistre perché lo consideravano un fascista. Nell'orgia di sinistrismo degli anni Settanta se per caso si accennava a Prezzolini veniva bollato come "un vecchio arnese fascista". Poco contava per i "rivoluzionari con la mutua" che avesse abbandonato il regime, nelle condizioni per lui più favorevoli, per andare a fare una vita da cenobita. Ma ancora nel 1996, ad acque ormai calmate, il volume Intellettuali italiani del XX secolo (Editori Riuniti), curato da Eugenio Garin, che cita persino Claudio Petruccioli, riservava all' “intellettuale più originale e scomodo del Novecento”, come lo definisce Gennaro Sangiuliano nel suo recentissimo Giuseppe Prezzolini. L'anarchico conservatore (la prima biografia, che io sappia, che gli è stata dedicata), al fondatore e animatore della più importante rivista culturale del secolo, due reticenti paginette. Fu per questo che quando, in piena orgia sessantottesca, Papa Paolo VI, in un'omelia in Piazza San Pietro, disse di punto in bianco: «E aspettiamo ancora Prezzolini» colse tutti di sorpresa. Prezzolini, chi era
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costui per meritarsi un simile riconoscimento dal Papa? Ma non sfuggiva a un uomo dalla intelligenza finissima come Montini quale preda prelibata fosse Prezzolini, un agnostico che per tutta la vita aveva cercato Dio senza trovarlo (un po' come Ingmar Bergman). Ma Prezzolini declinò. Era un pessimista cronico. Nei suoi Diari scrive: “A ottantasei anni e mezzo non ne so di più di quando ne avevo diciannove”.
“Fu per questo che quando, in piena orgia sessantottesca, Papa Paolo VI, in un’omelia in Piazza San Pietro, disse di punto in bianco: ‘E aspettiamo ancora Prezzolini’” Delle citazioni da Prezzolini mi piace ricordare questa: «L'Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano e crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l'Italia sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono». Fu scritta nel 1921 (Codice della vita italiana) ma mi pare particolarmente attuale. Negli ultimi anni voleva donare il suo archivio che, in un secolo di vita, conteneva carteggi con i più importanti personaggi del Novecento, alla Biblioteca di Firenze, la sua città d'origine. Ma gli amministratori fiorentini non lo vollero. Allora Prezzolini lo donò alla Biblioteca di Lugano. Meglio così. L'Italia non lo meritava. Era un fesso.
Massimo Fini
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USCITI IERI
Trainspotting
E
Le droghe cambiano gli sbandati restano Erano gli anni Novanta e la faceva da padrona l’eroina. Oggi dilagano le pasticche e chissà che altro: ma il punto non è il modo in cui scappi. Il punto è che hai bisogno di scappare di Matteo Orsucci*
dimburgo, Scozia. Dopo che ti sei sparato una capatina ad Aberdeen ed una visita a Loch Ness confidando d’essere il primo che vedrà davvero il mostro del lago beh allora puoi anche mettere in conto di spararti una dose di eroina in vena. Sono gli anni Novanta. Trainspotting di Irvine Welsh non è un capolavoro, ma il benpensantismo importato dal decennio precedente fece sì che la stampa lo definisse pomposamente uno scandalo letterario. E gli scandali piaccia o no fanno vendere.La verità è che Trainspotting è pure un discreto libro, con molti “fuck” che di certo in patria avranno cozzato con l’ingessato British style. Qua in Italia dovevano fare i conti con le pagine altrettanto dense ma affatto pericolose di Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro. Lo Spirito del Tempo sotto questo punto di vista è assai sciasciano: a ciascuno il suo, e mentre Oltremanica dal plot di Welsh si tirava fuori un film – un bel film per la regia di Danny Boyle – qua dalle Alpi alle Madonie si tentava solo di dissuadere i ragazzini dall’avvicinarsi in libreria a quel libro peccaminoso. Trainspotting è un pugno di trecentosessata pagine che l’editore Guanda ripubblica ciclicamente perché ogni volta fa il tutto esaurito e anche questo significherà pur qualcosa. È scritto per far male e diciamo pure che Welsh ci riesce bene. Siamo negli anni Novanta appunto.Sono gli anni dell’attesa.Un’attesa che però va di pari passo ad un certo smarrimento. La generazione degli anni Ottanta, quelli goduriosi e di plastica, ormai è cresciuta. Ragazzi e ragazze ventenni negli Ottanta, quando è uscito Trainspotting avevano già messo su famiglia, erano già stati davanti al prete per officiare il matrimonio di rito, avevano smesso di tirare cocaina in discoteca da almeno cinque anni… Certo avevano un
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mutuo a tasso fisso, un tetto sulla testa, due taglie in più ai pantaloni,camicie di seconda scelta per lui e abitini scontati alla Upim per lei, la domenica passata alla Rinascente, un’auto non troppo impegnativa e l’eventualità di avere un figlio pianificata come si pianificano le ferie d’estate… Erano finiti i tempi del bomber, degli scarponcini, delle fibbie, delle domeniche tutti assieme e della musica da tempo delle mele. Quel piccolo mondo plastificato era durato appunto dieci anni, scaduti i quali però giunse a mo’ di undicesimo comandamento l’imperativo di rimboccarsi le maniche e fare qualcosa. È la generazione dei quarantenni di oggi, quelli che ancora non hanno un inquadramento certo, quelli che non fanno carriera o che comunque si fermano sempre un passo prima di avere un riconoscimento lavorativo. Gli eterni Fantozzi della scala sociale su cui grava il peso del piedone delle generazioni precedenti, molto più spregiudicate. Ma gli anni Novanta sono anche gli anni dei giovani d’oggi, sono gli stessi anni di Mark Renton, Sick Boy, Madre Superiora, Tommy, Spud e tutti i figuranti della più grande e tragica commedia mai scritta nero su bianco. Messa in scena a Edimburgo appunto. Sono gli anni dell’evasione, della scuola mollata il primo giorno, dei locali lerci , birra
Sono ragazzi di periferia, di una provincia un po’ squallida e molto sporca, succursale di un mondo che è all’apice del rampantismo. a fiumi e tanta droga. Irvine Welsh spaventò e spaventa per questo. Il ritratto che venne fuori di quegli anni è un dipinto a tinte chiarissime di una generazione allo sbando, una comunità all’interno della quale si poteva e si sapeva parlare solamente il verbo del nichilismo. L’orizzonte verso cui i ragazzi di Welsh si muovono è l’orizzonte dell’oggi, un eterno presente che sputa sul passato e ignora l’avvenire.La trama del libro è di per sé abbastanza semplice. La comitiva di tossicomani che frequenta Mark Renton è al centro di tutto lo svolgersi della pellicola e degli eventi.Sono ragazzi di periferia,di una provincia un po’ squallida e molto sporca, succursale di un mondo che è all’apice del rampantismo coi manager in giacca e cravatta, la Borsa di Londra, gli imprenditori di se stessi… Qui invece siamo lontani dalla City,e Welsh lo sa bene.Qui ci sono famiglie che fanno i conti con lo stipendio che
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non basta mai, i figli che rubano i quattrini sotto al materasso per comprarsi l’ennesima dose… L’eroina è la protagonista involontaria del libro perché è alla fine la guest star di quegli anni. Una droga economica, impresentabile, brutta e che affronta il più grande dei tabù, quello del sangue. Non è la cocaina, pulita e semplice, sempre a portata di mano per i novelli yuppies londinesi, la polverina che dà la carica e non lascia traccia. No, l’eroina è la droga dei relitti sociali, quella che costa poco, che si scalda su cucchiai improbabili a casa di Madre Superiora e si inietta in vena... Il viso che si deforma, le vene che collassano, il battito del cuore che rallenta, un po’ di sudore freddo, il respiro si fa più profondo e inizia il viaggio e non si è più ad Edimburgo. Mark e i suoi amici vivono di espedienti, piccoli furti, serate in qualche pub, grandi risse, accoltellamenti, sale da biliardo, alcol a fiumi… Sono i ragazzi senza futuro che scelgono di essere i ragazzi di un oggi possibilmente infinito. Giocano con la vita altrui, coi sentimenti, con gli affetti che non hanno, perché alla fine un viaggetto in prima classe sul vagone dello sballo resetta il cervello e sei solo con te stesso. Mark, Sick Boy, Spud e Tommy (l’unico sano della combriccola) sono spesso insieme. Un passatempo è quello di andare lungo la linea della ferrovia e guardare i treni che passano, indovinare il numero di matrice dei vagoni (da cui il titolo del libro, trainspotting appunto). Decidono pure enne volte di smetterla con la droga. Mark si rinchiude in una camera con gelato alla crema, zuppa di funghi in scatola, un secchio per il vomito, uno per le feci, uno per l’urina, un materasso, riviste pornografiche, televisione, sigarette… Ma alla fine non ce la fa e ricomincia. Sick Boy è l’elegante ragazzo cui piace sviversi addosso, odia la vita e forse la vive per affronto.Tommy ha invece una bella ragazza, una di quelle di buona famiglia. Lui è un ragazzo che fa sport, ci tiene alla salute, beve poco, piace ai genitori di lei, insomma tutto è pronto per il matrimonio. Poi però lei lo molla,Tommy chiama Mark, racconta l’accaduto e dice di voler provare la “roba”, quella roba. Mark è titubante, ma davanti ai soldi di Tommy non resiste. Scalda il cucchiaio, cucina il tutto, si fa dare il braccio e iniziano il loro viaggio. «Cazzo, avevi ragione – dice Tommy ancora cosciente – è il migliore orgasmo che ho mai provato». Tommy però diventa dipendente, cerca di riconquistare la sua ragazza. Le compra un gattino, cerca di portarglielo ma lei non ne vuol sapere… Il micio resta con lui, ma lui sta in uno scantinato ché i genitori lo hanno cacciato di casa. Gli anni Novanta sono gli anni dell’Aids, anche se nessuno
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lo dice. Il gattino aveva la toxoplasmosi e il sistema immunitario di Tommy era a zero, un ascesso al cervello e lo trovarono riverso nel suo vomito con ancora la siringa in mano. Mark andò al funerale, in Chiesa, la mamma di Tommy piangeva, il padre aveva finito le lacrime da un bel po’ di tempo. Ci si chiedeva il perché tra le panche quando tutti lì sapevano il motivo e non adducevano scuse. Mark uscì dalla chiesa, uscì dalla droga. Ci provò almeno. L’ultima volta, ancora a casa di Madre Superiora, per poco gli costò la vita. Una dose e mezzo, roba buona, servito su un piatto d’argento, una cintura di cuoio come laccio emostatico e via… Si buca la vena, aspira un po’ di sangue, e via tutta la dose… Inizia l’oblio. Nel film di Boyle questa è la scena più suggestiva perché Mark sprofonda nel pavimento che diventa una bara sulle note di Perfect day di Lou Reed quasi pietoso lamento funebre. Poi la clinica, il bambino di Sick Boy che muore, le amicizie
È una straordinaria cronaca di quegli anni: che non dà giudizi ma che lascia al lettore tutto il tempo di riflettere. Ti stende con un pugno al mento, ma una volta ripreso... che si sfaldano, quelle che restano, la nuova scommessa senza eroina e il pensiero a quel monologo fatto nei mesi addietro sulle Highlands: «Io non odio gli inglesi, odio noi scozzesi che ci siamo fatti colonizzare da un popolo di mezzeseghe. Siamo più mezzeseghe di loro, cazzo». Poi quel «Prendi la famiglia,la casa di proprietà,la lavatrice,il televisore…» e cambialo di segno. Mark si trasferisce a Londra. Fa l’agente immobiliare.Vende catapecchie. Ma tira a campare. «La Scozia si droga per difesa psicologica», gli fa dire Welsh. Questo è il libro più sporco degli anni Novanta, altro che Melissa P con pruderie da onanismo adolescenziale. Oggi chi scherza con le stanze del buco, con la droga-terapia, con un sacco di cose serie spacciate quali quisquilie da due soldi e una lira farebbe bene a rileggerselo. È una straordinaria cronaca di quegli anni che non dà giudizi, ma che lascia al lettore tutto il tempo di riflettere.Ti stende con pugno al mento, ma poi una volta ripreso puoi anche commentare le vicende si Mark Renton e gli altri. Quelli di Welsh erano ragazzi in vendita che stavano svendendo il loro futuro sciogliendo il presente in un cucchiaio con molta eroina. Mark se ne andò a Londra e quella Scozia di morte fu bruciata in un buco a tondo. Sarebbe bene trovare qualche altra City per i ragazzi di oggi, per ogni Mark Renton che si incontra svoltando l’angolo.
(*) Matteo Orsucci - giornalista
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MUSICA
Musiche ribelli
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I grandi cantautori degli anni 70, rivisitati da Luca Carboni. Cover così così, ma è la chance per rievocare un decennio fondamentale di Federico Zamboni
ono stati demonizzati, gli anni Settanta. Essendo gli anni in cui divampò al massimo grado il conflitto politico, con i ragazzi di destra e di sinistra a picchiarsi-sprangarsi-spararsi (e chi tirava i fili della “strategia della tensione” a rallegrarsi che tanta animosità si disperdesse in una lotta così vana), sono stati etichettati riassuntivamente come “anni di piombo” e spediti in archivio, salvo poi riesumarli come esempio negativo ogni volta che serve: ogni volta che, di fronte al riaccendersi di qualche focolaio di rivolta, specialmente giovanile, fa gioco rievocare le violenze e i morti ammazzati di quel periodo, liquidando tutto quello che avvenne come la drammatica, delirante, inaccettabile conseguenza di qualsiasi posizione politica che non accetti di buon grado di confluire, e di acquietarsi, nella palude parlamentare; come la definitiva e inappellabile dimostrazione di ciò che di negativo producono le ideologie, con la loro assurda pretesa di interpretare in modo organico l’intera realtà e di perseguire l’avvento di un’umanità migliore. Ma gli anni Settanta, naturalmente, sono stati molto altro. E per chi non abbia il tabù della legalità, c’è parecchio da rimpiangere. Quando non degenerava in scontro fratricida tra giovani delle opposte fazioni, infatti, il desiderio di cambiamento alimentava innumerevoli tentativi di dare senso e intensità alle proprie vite. Con tutti gli errori e i ruzzoloni del caso, come bimbetti che imparano a camminare a forza di scivolate e capitomboli. Ma anche con un’energia diffusa e scalpitante, che trovò nella musica il proprio linguaggio naturale e che, non a caso, portò al sorgere delle radio libere. Chi è arrivato dopo può legittimamente ignorarlo – specie se non ha avuto modo di vedere il gran bel ritratto che ne fa Ligabue in Radiofreccia – ma nello scorcio iniziale della loro esistenza, per i primissimi anni successivi ai vittoriosi blitz del 1975, le emittenti “fai da te” furono una straordinaria esplosione di libertà. A tutte le ore del giorno e della notte, con un piccolo spostamento della sintonia, ci si poteva imbattere in programmazioni quanto mai diversificate: a mez-
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zogiorno uno mandava in onda per intero Selling England By The Pound dei Genesis, alle tre del mattino c’era gente che ancora parlava e discuteva a ruota libera, in qualsiasi momento ci si collegasse si poteva trovare qualcuno che badava innanzitutto a esprimere se stesso e a condividere con gli ascoltatori la musica che amava – e non a imitare i dee-jay di Radio Montecarlo augurandosi di diventare così bravo da fare carriera. Non era intrattenimento: era comunicazione. Per lo più caotica, volenterosa, sgangherata. Ma schietta. E un ruolo determinante, accanto al rock internazionale, lo giocarono i più autentici e interessanti degli artisti italiani: i cantautori.
Buone intenzioni. E stop Trenta anni dopo, all’incirca, Luca Carboni tira fuori questo album che si intitola Musiche ribelli. Dieci cover di brani più o meno celebri degli anni Settanta. Si comincia col Claudio Lolli di Ho visto anche degli zingari felici e si prosegue col De Gregori di Raggio di sole. E poi, via via, Venderò di Edoardo Bennato, Eppure soffia di Pierangelo Bertoli, Vincenzina e la fabbrica di Enzo Jannacci, Musica ribelle di Eugenio Finardi («Una canzone sulla forza della canzone», e da qui il titolo della raccolta), La casa di Hilde ancora di De Gregori, Up Patriots To Arms di Battiato, Quale allegria di Lucio Dalla e infine («Canzone incazzata di cui apprezzo molto l’ironia») L’avvelenata di Francesco Guccini. Un omaggio, dice Carboni, ai «cantautori italiani degli anni '70, spiriti liberi che hanno lavorato per mettere in discussione la società di quel tempo e farci scoprire che esistevano ben pensanti e convenzioni». E aggiunge: «Sono canzoni del passato ancora attualissime, anche ascoltate fuori dal contesto politico in cui sono nate. Perché sono canzoni che hanno cambiato gli italiani. È un fatto affettivo, lucido, critico, musicale: volevo mostrare quanto sono ancora forti». Tutto condivisibile, e detto in un modo che fa pensare a un impulso sincero. Solo che poi, purtroppo, il risultato non è all’altezza delle intenzioni: Carboni prende gli originali, che ovviamente possedevano ciascuno il piglio di chi li aveva scritti e interpretati, e li appiattisce in una rilettura fin troppo omogenea. Da un lato non può essere diversamente, perché la voce è a sua volta quella di un cantautore, che risulta tanto più efficace quanto più propone le sue stesse composizioni, e non quella di un interprete puro, che sa appropriarsi del repertorio altrui aggiungendovi più di quel che toglie. Ma dall’altro sembra un difet-
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to di approccio: come se Carboni avesse paura di sfigurare, nel confronto con le vecchie versioni, e si muovesse in punta di piedi, timoroso di allontanarsi troppo dalle loro atmosfere. Potrà anche dipendere da una forma di rispetto, e del resto egli stesso ha dichiarato senza remore di aver escluso dal disco il rifacimento di Via del Campo di Fabrizio De André («alla fine non ero contento del risultato e ho rinunciato: è difficile cantare quelle canzoni senza quella voce»), ma resta il fatto che in questo modo l’intera operazione rischia di mancare l’obiettivo fondamentale. Se lo scopo, infatti, è arrivare a chi appartiene alle nuove generazioni e ignora bellamente, perché li sente lontani, i vari De Gregori e Guccini, la maniera migliore per tentare di colmare il gap è rinnovare profondamente la veste sonora dei brani, sperando di creare una corrente di affinità che possa poi tradursi, in un secondo momento, nella curiosità di ascoltare anche gli originali. Così, invece, l’aria che tira è quella dell’amarcord. Che delizia chi se lo concede e lascia indifferenti tutti gli altri. Roba da 40/50enni (Carboni è nato il 12 ottobre 1962) convinti poter di trasmettere le antiche passioni ai teenager. Se non che… Gli fai vedere le foto di quando eri giovane – tutto contento di rivederti tu stesso com’eri, in quel tempo eccitante e perduto – e loro vedono solo delle vecchie immagini scattate alla meno peggio, coi colori che iniziano a perdere di brillantezza (se mai l’hanno posseduta) e che non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelli, essi sì perfetti, dei loro scatti digitali con la fotocamera “5.2 megapixel” del cellulare. Magari fosse così semplice. Magari bastasse tirare fuori i ricordi e rinfrescarli appena un po’, per risvegliarne il potenziale e trasmetterne il significato a chi non li ha vissuti in prima persona. Per riuscire a far capire che, nonostante tutti i fallimenti individuali e collettivi che sono seguiti, in quegli anni c’era davvero qualcosa di straordinario. Uno slancio che spesso si è risolto in militanza politica, ma che al fondo scaturiva da qualcos’altro. L’essenza della ribellione era nell’essere giovani: non solo in senso anagrafico, e quindi accidentale, ma come se si trattasse di una scelta. Di una rivendicazione. Di una distanza incolmabile dagli adulti e dal loro lento sprofondare nella meschinità delle paure e degli interessi, schiacciati sotto il peso del bisogno vigliacco di sopravvivere a qualunque costo. L’essenza della ribellione era nell’essere giovani: e nel desiderare, contro ogni logica e ogni reprimenda, di esserlo per sempre.
Federico Zamboni
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CINEMA
V per
I
riVoluzione
Guy Fawkes “l'unica persona ad essere mai entrata in parlamento con oneste intenzioni”. Vecchio detto anarchico
di Ferdinando Menconi
l cinema hollywoodiano, nella pochezza di nuove idee che ha caratterizzato la fine e l’inizio del millennio, si è spesso rivolto al remake e al fumetto, banalizzando classici di valore o partorendo insensate vuote orge di effetti speciali ad uso di supereroi senza spessore. Fumetto, anzi Graphic Novel, com’è obbligatorio dire oggi, è anche V per Vendetta (il termine Vendetta è usato anche nell’originale), però i fratelli Wachowski, gli stessi di Matrix, riescono a proporre una distopia che è sì un film hollywoodiano, con tutti i suoi limiti, ma che apre ad approfondimenti e riflessioni anche di notevole spessore. V, la lettera V, intesa anche come 5 in numeri romani, è il filo conduttore del film, a partire dall’eroe,“V”, appunto, che porta la maschera di Guy Fawkes, il protagonista della Congiura delle polveri che il 5 (V) novembre del 1605 avrebbe dovuto far saltare il parlamento inglese, re compreso. Il film si apre proprio con la filastrocca popolare inglese “Remember, remember the 5th of November” e la rievocazione della fallita congiura, mentre la voce fuori campo della protagonista femminile ci ricorda che un uomo può fallire, ma l’idea resta, e che un’idea è ancora in grado di cambiare il mondo, finché ci sarà gente disposta a uccidere o morire per essa. Siamo di fronte ad un interessante capovolgimento di simboli e valori per il mondo anglosassone. Il 5 novembre viene ancora celebrato in parecchi di questi Paesi, ma le celebrazioni si chiudono con i bonfire, roghi in effige del “terrorista cattolico” Guy Fawkes esecutore materiale di una congiura papista. Va, comunque, aggiunto che i
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Le armi della rivoluzione. La V dovunque anche nei pugnali del vendicatore.
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congiurati erano probabilmente delle marionette inconsapevoli nelle mani di Sir Robert Cecil, 1st Earl of Salisbury, che aveva interesse a che ci fosse una congiura (naturalmente da sventare all’ultimo) per così poter dare nuovo impulso alle persecuzioni anticattoliche… ma anche questo è un tema, quello del complotto dello Stato contro se stesso per poter prendere una via autoritaria, che tornerà più avanti e che è sinistramente attuale. Tornando ad un’analisi più cinematografica va segnalato lo splendido monologo di presentazione di V, una allitterazione in V recitata nella miglior tradizione teatrale inglese, una splendida prova d’interpretazione per un attore che non potrà mai mostrare il volto in tutto il film. Come anticipato sopra, il termine Vendetta è in italiano e non dispiace vederci attribuita una primazia nel suo esercizio in questo mondo che condanna le vittime al perdono dei carnefici e gli oppressi alla sopportazione col mito castrante della non violenza. La lotta che V conduce, per liberare l’Inghilterra del 2038 da un regime integralista cristiano, è tutt’altro che non violenta e si apre con l’esplosione dell’Old Bailey (il V di novembre naturalmente) con un tripudio di fuochi d’artificio. Questa volta è Fawkes a gestire i fuochi con la promessa che il successivo 5 novembre sarà il Parlamento a saltare. È interessante notare come nel film il parlamento sia simbolo di tirannide, mentre solitamente se ne ha una visione opposta, specie se si tratta di quello inglese. Comunemente si propaganda il mito della tradizione democratica anglosassone e l’idea che la sua massima incarnazione sia il regime liberalparlamentarista, che oggi viviamo e che ci viene smerciato come unica possibile via democratica. Al contrario è la consacrazione di oligarchie e poteri forti che imbrigliano e castrano la sovranità popolare con ritualità e parole d’ordine che poco hanno a che vedere con la libertà. Parlamenti e parlamentari gridano contro i tentativi di delegittimazione accusando, a seconda del caso, di populismo, qualunquismo, giustizialismo, quando invece ciò che maggiormente delegittima i parlamenti sono coloro che vi siedono dentro, specie nel nostro paese, come ben intuì l’aviatore Keller che con gesto futurista, nel primo dopoguerra, vi gettò sopra un pitale… forse l’unico uomo a volare sopra un parlamento con intenzioni oneste, mentre l’unico ad esservi entrato con intenzioni oneste resta, invece, nella realtà come nel film, Guy Fawkes. Riflessioni di questo genere non sono apertamente presenti nel film, non siamo di fronte a un regime liberalparlamentarista ma a uno tirannico dal vago retrogusto nazi-
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sta. Solo vago, però, quasi un contentino per il grande pubblico che così si trova di fronte a un male assoluto che giustifica violenze che altrimenti condannerebbe. Comunque la nazisteria è appena accennata, siamo di fronte a una dittatura fondata sull’integralismo religioso e l’Inghilterra non ha bisogno di riferimenti ad Hitler avendo già avuto un regime del genere con Cromwell come fanatico religioso e tiranno, genocidio compreso in terra d’Irlanda. In effetti non poteva esserci miglior paese dell’Inghilterra dove ambientare questa distopia. Punto di maggior contatto fra l’Inghilterra di V e il mondo in cui viviamo è l’impiego distorcente dei media. Il regime non è così dichiaratamente totalitario, è un uso sapiente della televisione e dei media che tiene la popolazione sotto controllo. È una propaganda incessante, sia diretta
L’uso delle parole è fondamentale. V lo sostiene e nel film si colgono riferimenti al 1984 di Orwell. Esempio più lampante è il continuo, ossessivo impiego del termine “terrorista”. che velata, fatta di negazione di notizie, di distorcimento e falsificazione delle stesse a tenere in piedi il regime e a coagularvi intorno il consenso, qualcosa di abbastanza familiare in fondo. Certo almeno le televisioni dell’Alto Cancelliere non arrivano al ridicolo del nostrano telegossip, anche sotto dittatura la TV inglese mantiene stile e professionalità. Non andiamo però a limitare i parallelismi all’uso berlusconiano dei media come arma di distrazione di massa: ci possono essere, certo, ma non ne ha l’esclusiva, neppure in Italia, e non è neanche il migliore, soprattutto se guardiamo all’estero. Rispetto alla CNN le nostre veline di regime rasentano l’informazione completa e imparziale. Il terreno di coltura di V è, però, più pronto alla verità di quanto non lo siano le tifoserie, perché di questo si tratta, politiche italiane. Quando la maschera di Guy Fawkes irrompe nei programmi, i “teleutenti” si rivelano pronti a recepire il suo messaggio, anche mentre afferma che la violenza può essere per il bene e che, sebbene vi siano persone più colpevoli di altre, per trovare un colpevole della situazione di degrado basta guardare in uno specchio. Se qualche stomaco debole o pacifista “senza se e senza ma” volesse obiettare che la violenza mai può esse-
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re per il bene, basti ricordare i movimenti europei di resistenza al nazismo, per chi invece storcesse la bocca a questo riferimento, beh, non si tratta certo di qualcuno che ha problemi con la violenza. L’uso dei termini, delle parole, è fondamentale,V lo sostiene e nel film si colgono riferimenti al 1984 di Orwell. Esempio più lampante è il continuo, ossessivo, impiego del termine terrorista, del quale anche oggi si è perso il significato originario.Terrorismo è un metodo di guerra che colpisce i civili per seminare panico nel nemico e indurlo alla resa che può ben essere impiegato anche da chi indossa l’uniforme di un esercito regolare. Da un punto di vista tecnico terroristici sono stati il bombardamento di
Il limite alla volontà rivoluzionaria del film è che, come al solito, abbiamo un uomo solo che fa tutto lui. La rivoluzione pioverà dal cielo senza che il popolo debba fare nulla, in attesa del Godot della rivolta. Dresda, Rotterdam, Hiroshima, ma durante la seconda guerra mondiale venivano chiamati terroristi i Maquisard o i Partigiani, per un uso propagandistico di un termine che ne stravolge il significato. Tecnicamente quando l’IRA mette una bomba nella metropolitana di Londra e non la fa esplodere è un atto di terrorismo, quando bombarda a colpi di mortaio una stazione di polizia inglese facendo vittime non lo è. Non è l’uniforme dell’attore il discrimine del terrorismo, ma della vittima. Salvo poi come stabilire chi è terrorista. Eamonn De Valera è stato per anni un pericoloso terrorista sulla lista nera di Sua Maestà, poi è divenuto lo stimato Presidente della Repubblica d’Irlanda… non per questo ha, però, cessato di essere nemico dell’Inghilterra. Il problema è che nell’ipocrisia di oggi il nemico deve essere un “male assoluto”, non basta che sia nemico, non ci sono nemici per il buonismo imperante, al limite ci può essere solo un “male assoluto da combattere” e questo aiuta molto i regimi a limitare le libertà fondamentali col consenso dei cittadini. Così è nel film. La dittatura cristiano-integralista si instaura dopo attacchi di bioterroristi che seminano vittime con virus mortali, fornendo così un male assoluto da combattere anche a prezzo di rinunciare alle libertà fondamentali. Questo grazie anche alla provvidenziale, potente casa farmaceutica che ha trovato l’antidoto… salvo poi scoprire che è il regime stesso che ha usato il virus, sviluppato dalla stessa casa farmaceutica del vaccino, contro il suo stesso popolo. Se si vuole il potere interno, l’arma ter-
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ribile non va usata contro il nemico, ma contro la propria gente e fare della paura una preziosa alleata della dittatura… Come tutto ciò è sinistramente simile a quando sta venendo orchestrato da una decina d’anni a questa parte. Il film porta avanti brillantemente queste tesi, fra abili citazioni di altre distopie come il motivetto di Brazil e riferimenti letterari alla vendetta come Il conte di Montecristo. Una calata di tono si ha quando per prendere un esempio di discriminazione viene usata l’omosessualità, certo è coerente con un regime integralista cristiano, ma lo stesso sarebbe se fosse integralismo islamico o israelita a onor del vero. Gli autori, però, vogliono andare sul sicuro col pubblico e scelgono una discriminazione che lo spettatore medio considera odiosa. L’omosessualità è ormai più che largamente accettata, avrebbero potuto osare di più e prendere dei veri discriminati o portatori di abitudini sociali che vengono vissute come disvalori. Sarebbero bastati i fumatori per osare di più e sfidare molte censure, quella statunitense in primis: oggi è più difficile vivere una sigaretta che non l’omosessualità… Pensateci bene: quante sigarette vedete fumate in televisione e quanti omosessuali? Comunque in V l’omosessuale dissidente, brillante e colto, comico satirico di successo della televisione, fa una brutta fine. Egli crede nel potere della satira, specie se in un programma seguitissimo, e pensa di poter dare un colpo al regime senza pagarne le conseguenze, invece morirà per colpa di una esilarante scenetta comica che è anche un omaggio al mai giustamente valutato Benny Hill. Il limite alla volontà rivoluzionaria del film è che, come al solito, abbiamo un uomo solo che fa tutto lui. La rivoluzione pioverà dal cielo senza che il popolo debba fare nulla, il solito discorso dell’eroe che porterà il cambiamento e si esce dal cinema con la coscienza tranquilla, inveendo contro il regime aspettando il Godot della rivolta. Un paio di aiuti, però, in realtà il nostro V li ha. Uno quasi involontario: il detective Finch, funzionario di polizia incaricato delle indagini per la bomba all’Old Bailey. Finch non contesta il regime, ma cerca la verità, cosa che lo porterà inevitabilmente contro il regime, forse anche perché di madre irlandese, cosa che lo fa sospettare dai servizi segreti dell’Alto Cancelliere. È una figura che, cinematograficamente, ricorda alla lontana l’Omar Sharif de La Notte dei Generali. Due curiosità sull’attore che lo interpreta, Stephen Rea, irlandese presbiteriano, ma nazionalista: questi fu sposato con una militante dell’IRA che era stata in prigione per un fallito attentato dinamitardo proprio all’Old Bailey e ha prestato la voce a Gerry Adam, leader dello Sinn Fein, nelle interviste alla BBC… sì nella “liberissima” Inghilterra i membri di un partito regolarmente rappresentato in parlamento non avevano il diritto a parlare in tv, quindi li si vedeva in video con le loro dichiarazioni doppiate da un attore che cercava di rispettare il labiale. Decisamente surreale, oltre le più
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fervide fantasie di qualsiasi sceneggiatore di distopie. L’altro aiuto viene da Evey, con cui vive una storia d’amore che non può essere consumata e che viene accompagnata da citazioni da Il Conte di Montecristo e da Il Fantasma dell’Opera.V la addestrerà crudelmente alla rivoluzione, facendole soffrire tutto quello che il regime le avrebbe fatto soffrire se l’avesse arrestata, e non sbaglia e lei se ne rende conto. In troppi si gettano alla leggera in romanticismi rivoluzionari e poi si pentono e vendono i propri compagni. Ritrattano, si scusano o evitano estradizioni dichiarando stati depressivi… di rivoluzionari così la rivoluzione può e deve fare a meno, fanno venir voglia di stare dalla parte del regime. Per Evey non sarà così, anzi sarà lei a schiacciare il bottone che abbatterà il parlamento, perché è lei la rivoluzionaria,V ha predisposto tutto ma si rende conto che la sua motivazione è più vendetta che “giustizia, e giustizia e libertà sono più che parole”. Una delle scene più significative è quando, alla vigilia dell’esplosione di Westminster, ballando con Evey,V sostiene che una rivoluzione senza un ballo è una rivoluzione che non vale la pena fare, e qui viene in mente un altro film, per l’esattezza i titoli di testa di Giù la testa dove viene citato Mao che afferma che la rivoluzione non è un ballo di gala. In effetti la rivoluzione è sangue e violenza, non un ballo di gala, ma può essere un ballo di popolo, volgare ma allegro, come una Carmagnola intorno all’albero della libertà. In questo hanno mancato le rivoluzioni del XX secolo, non hanno avuto un ballo, e anche quando gli eredi di questi grandi sogni li hanno traditi, facendo dell’insulto riformista la loro bandiera, sono rimasti pedanti e noiosi. Nella scena finale il film diviene però fantascienza pura. Quando la massa si muove e le migliaia che hanno raccolto il messaggio di V avanzano, tutti con la stessa maschera di Guy Fawkes, verso il parlamento, le truppe inglesi che lo presidiano abbassano le armi e lasciano passare i disarmati manifestanti. Pura utopia nella distopia. Per vedere al cinema un comportamento realistico delle truppe inglesi di fronte a pacifici, disarmati manifestanti, il rimando è a Bloody Sunday di Paul Greengrass… E poi la rivoluzione non si esaurisce nell’attimo dell’insurrezione, l’esercito abbassa le armi, il parlamento salta e tutti felici e contenti… Nella storia delle rivoluzioni è più il sangue che scorre per mantenere la libertà conquistata che quello versato per raggiungerla. Una libertà che poi andrebbe costruita e mantenuta giorno per giorno ricordandosi sempre che “i popoli non dovrebbero avere paura dei loro governi, sono i governi che dovrebbero aver paura dei loro popoli”.
Ferdinando Menconi
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di Alessio Di Mauro