Il Ribelle (Gennaio 2009)

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ISSN 2035-0724

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Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm.

Mensile Anno 2, Numero 4

€5

Direttore politico

Massimo Fini Direttore responsabile

Valerio Lo Monaco

Congo: IL NERO MUORE, IL BIANCO LUCRA Travaglio: LA QUESTIONE MORALE NON È MAI FINITA Sinistra: L’ALTERNATIVA CHE NON C’È Aids: SE NON CI FOSSE L’AVREBBERO (RE)INVENTATO Fini: OCCIDENTE, NON SEI MIGLIORE DI NESSUNO


Anno 2, numero 4, Gennaio 2009 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com) Art director: Alessio Di Mauro Hanno collaborato a questo numero: Marco Travaglio, Alessio Mannino, Laura D’Alessandro, Giuseppe Carlotti, Tommaso Della Longa, Giampaolo Musumeci Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Lucia Casellato Agenzia Stampa e comunicazione: Agenzia Inedita tel. 06/98.26.24.96

Noi e Lévi-Strauss di Massimo Fini

La questione immorale di Marco Travaglio

Dov’è l’alternativa? di Valerio Lo Monaco

Congo senza futuro di Tommaso Della Longa

Coll.ne Diffusione e Distribuzione: Francesca Del Campo (francescadelcampo@ilribelle.com)

e Giampaolo Musumeci

Progetto Grafico: Antal Nagy

di Tommaso Della Longa

Impaginazione: Mauro Tancredi La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000 Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008

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Inviati, no embedded e Giampaolo Musumeci

Milioni di morti, miliardi di utili di Federico Zamboni

Lega Nord, un bluff di Alessio Mannino

Digitale, a chi giova? di Giuseppe Carlotti

Generazione S., come solitudine di Laura D’Alessandro

Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali

Musica: Motörhead, i duri e puri del rock

Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista

di Alessio Mannino

Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma

Usciti ieri: Jack Kerouac: On the Road

Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com

di Federico Zamboni

Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com

Cinema: Western Samurai

Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti.

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di Ferdinando Menconi

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FINI

Noi L

e Lévi-Strauss

évi-Strauss ha compiuto cent'anni. Per questo, e oserei dire solo per questo, dopo decenni di oblio, si è tornati a parlare di lui. Claude Lévi Strauss, singolare figura di filosofo, antropologo, strutturalista, linguista, ha infatti la grave colpa, che condivide con un altro grande pensatore contemporaneo, anch'esso oscurato, Karl Polanyi, interessato particolarmente al versante economico, a una società che non sia, da questo punto di vista, né marxista né liberista, di non poter essere catalogato né di destra né di sinistra. Colpa che neanche i suoi cent'anni hanno potuto lavare se è vero che in questi mesi di celebrazioni tutto si è detto di lui tranne che fermarsi sulla parte più eterodossa e attuale del suo pensiero: il relativismo culturale. Il relativismo senza aggettivi, filosofico, ha una lunga tradizione che va da Montaigne a Voltaire a Nietzsche all'empirio-criticismo di Mach e Avenarius per arrivare fino alle ultime conclusioni della fisica moderna. Il primo a trasferire questa concezione in campo sociale, politico ed etico è stato Oswald Spengler affermando che tutti i principi morali e religiosi e tutti i valori hanno un significato solo nell'ambito e per la durata della civiltà che li ha elaborati e praticati. L'apporto originale di Lévi-Strauss sta nell'aver considerato ogni cultura come un sistema, con le sue compensazioni interne e i suoi contrappesi, un insieme di elementi logicamente coerenti strettamente collegati fra loro (come in una lingua), per cui una qualsiasi modificazione di uno di essi comporta una modificazione di tutti gli altri. Ne consegue che non si può cancellare o estrapolare dalle culture “altre” gli aspetti che non ci piacciono - che è l'arrogante pretesa che domina oggi in Occidente - senza modificare profondamente tutto il sistema e quasi sempre farne crollare l'impalcatura. E questo è esattamente il motivo per cui ogni intervento occidentale nelle società del cosiddetto Terzo Mondo e in quelle ancor più arcaiche e primitive le ha disgregate provocando sconquassi inenarrabili, creato ibridi

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MASSIMO

di Massimo Fini


MassimoFini

incoerenti e mostruosi e alla fine ha, di fatto, distrutto quelle civiltà. Come avverrebbe per l'Islam se, sotto la pressione ideologica e armata dell'Occidente, il ruolo della donna musulmana fosse omologato a quello che ha da noi. Ma Lévi-Strauss rifiuta anche quella particolare forma dello storicismo che è l'evoluzionismo secondo il quale le società partendo dal semplice (o dall'apparentemente semplice) e andando verso il più complesso, tenderebbero a un unico fine e a un unico modello al cui culmine c'è, naturalmente, il modello di sviluppo occidentale quale è oggi. È assurdo, dice Lévi-Strauss, fare di una società «uno stadio dello sviluppo di un'altra società». Si tratta semplicemente di società diverse, che partono da presupposti diversi, ognuna delle quali sviluppa soltanto alcune delle potenzialità, e non altre, presenti nella natura umana. Quelle tradizionali sono tendenzialmente statiche e privilegiano l'equilibrio e l'armonia a scapito dell'efficienza economica e tecnologica. Invece le società “calde”, come le chiama Lévi-Strauss, a cui la nostra appartiene, sono dinamiche e scelgono Per Lévi-Strauss, e l'efficienza e lo sviluppo economico a danno dell'equilibrio dato che «producono entropia, disordiper noi, non ne, conflitti sociali e lotte politiche, tutte cose conesistono “culture tro le quali i “primitivi” si premuniscono e forse in modo più cosciente e sistematico di quanto non superiori”. supponiamo». Esistono solo Ed è qui che il discorso di Lévi-Strauss si fa attualisculture diverse, simo e diventa per noi particolarmente interessante. Per due motivi, sostanzialmente. Perché, a due ognuna col pro- secoli e mezzo dalla Rivoluzione industriale, dobbiamo constatare quale disagio acutissimo abbia prio senso. Per nelle nostre vite, in termini di stress, di questo difendia- provocato angoscia, di tenuta nervosa, di depressione, di mo con forza anomia, il forsennato dinamismo, l'assurda velocil’autodetermina- tà, del nostro modello di sviluppo, rompendo oltretutto i rapporti fra gli uomini e gli stessi nuclei costizione dei popoli. tutivi dell'essere umano, privandolo dei suoi istinti, della sua vitalità, della sua essenza. E questa è la ragione principale del nostro antimodernismo e della nostra battaglia. Ma c'è una ragione, per così dire “esterna”, che è quasi altrettanto importante. Per Lévi-Strauss, e per noi, non esistono “culture superiori”. Esistono solo culture diverse, ognuna col suo proprio senso. Per questo difendiamo con forza il principio dell'autodeterminazione dei popoli contro la pretesa dell'Occidente della “reductio ad unum”, cioè a se stesso, dell'intero esistente, col pretesto di una superiorità culturale che non è che una variante del razzismo classico, di nazistica memoria, peggiore perché più subdolo, più ipocrita e più devastante perché non si accontenta di conquistare territori e popoli, vuole prendere le loro anime (uno degli slogan con cui l'Occidente tenta di legittimare la sua presenza armata in Afghanistan è che dobbiamo «conquistare i cuori e le menti» degli afgani). Ma il rispetto delle altre culture non ha, per noi, solo radici di principio. L'omologazione del mondo ad un unico modello sarebbe mortale, nel senso letterale del termine. Perché come dice la saggezza popolare che abbiamo perduto «il sale della vita sta nella diversità».

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La questione

Travaglio

immorale

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di Marco Travaglio

proposito della nuova Tangentopoli che sta esplodendo un po’ dappertutto, da Roma alle amministrazioni locali, si fatica a trovare le parole e gli argomenti per descrivere ciò che accade. Perché tutto il dibattito è talmente falsato, asimmetrico e demenziale da distorcere la logica, il buonsenso, perfino il vocabolario della lingua italiana. Basti pensare che, per uscirne, il governo pensa di abolire le intercettazioni proprio per quei reati che stanno emergendo grazie alle intercettazioni: funzionano troppo bene. Due o tre fatti, per cominciare. A Palazzo Chigi siede un signore imputato in quattro processi (corruzione Mills, reati finanziari sui diritti Mediaset, corruzione Saccà, tentata corruzione di senatori dell’Unione) bloccati dal lodo Alfano e miracolato in un’altra dozzina di dibattimenti fra prescrizioni, auto-depenalizzazioni e insufficienze di prove, circondato da pregiudicati, imputati e inquisiti da ogni lato. Ma della sua questione morale, anzi penale, nessuno parla più: con quella bocca, e con quel conto in banca, può dire e fare ciò che vuole. Il suo alleato Umberto Bossi ha varie condanne definitive, di cui una per una stecca dalla famiglia Ferruzzi (la maxitangente Enimont), ma nessuno se ne ricorda più. I tre partiti di opposizione, invece, sono guidati da persone incensurate e mai sfiorate da alcun sospetto di tipo giudiziario: Veltroni, Di Pietro, Casini. Eppure la “nuova questione morale”, che poi è essenzialmente penale, è esplosa non appena son finite nei guai alcune giunte comunali e regionali del centrosinistra, per fatti gravi in assoluto, ma mai tanto quanto quelli di cui sono accusati i leader del centrodestra. Senza contare che, per giorni e giorni, stampa e tv hanno enfatizzato le tele-

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Travaglio

fonate intercettate fra il figlio di Di Pietro, Cristiano, consigliere provinciale a Campobasso, e l’ex provveditore alle opere pubbliche di Napoli Mario Mautone (poi trasferito da Di Pietro padre quand’era ministro delle Infrastrutture, al primo sentore di chiacchiere sul suo conto): conversazioni di nessuna rilevanza penale ma di esclusivo rilievo etico-deontologico, a base di classiche, italianissime raccomandazioni. L’asimmetria mediatica dipende dal conflitto d’interessi: si parla solo delle malefatte dell’opposizione, mai di quelle della maggioranza, come vuole il Padrone Unico. Ma anche dal diverso atteggiamento degli elettorati: mitridatizzato al peggio quello del centrodestra, ancora esigente, intransigente e incline a scandalizzarsi quella del centrosinistra.Anche per questo Veltroni – fatta eccezione per un commento fuori misura sulla scarcerazione del sindaco di Pescara - ha reagito ben diversamente Firenze, Pescara, da Berlusconi quando suoi uomini sono finiti sott’inchiesta o addirittura agli arresti: non ha gridaNapoli e Potenza: to al complotto, ha manifestato fiducia nella magistratura e s’è interrogato sulla questione tre di questi che, trascurata per troppo tempo, ha quattro scandali morale generato poi le questioni penali emerse nelle ultierano evitabilissi- me settimane. Non così, però, altri dirigenti del a partire da Luciano Violante, che ormai si mi, se il Pd fosse Pd, propone ogni giorno di più come consulente dotato di un ombra del ministro Alfano per le peggiori controriforme della giustizia. minimo codice Il terremoto giudiziario che sta scuotendo il Pd etico e di una ha, al momento, quattro epicentri: Firenze, decente selezione Pescara, Napoli e Potenza. Tre dei quattro scandali erano evitabilissimi, se il Pd fosse dotato di un delle classi minimo codice etico e di una decente selezione dirigenti. delle classi dirigenti, nonché di strutture di controllo funzionanti. In Abruzzo vengono arrestati prima il governatore Ottaviano Del Turco, poi il sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso. Per sconsigliare di imbarcare il primo, bastava rileggere attentamente certi fax inviati a suo tempo dalla Tunisia da uno che lo conosceva bene, Bettino Craxi, a proposito delle modalità – diciamo così – allegre con cui veniva finanziata la corrente socialista della Cgil di cui Del Turco era il dominus. E che D’Alfonso andasse in giro con un’auto di lusso e un autista messi gentilmente a disposizione da un imprenditore privato, Carlo Toto (il patron dell’AirOne), negli ambienti politici abruzzesi era un segreto di Pulcinella: possibile che nessuno gliene abbia chiesto conto, prima che arrivassero i giudici e i carabinieri? A Firenze c’è un sindaco perbene (almeno fino a prova contraria): Leonardo Domenici. Indagando su affari immobiliari attorno alle aree della Sai-Fondiaria, cioè di Salvatore Ligresti, i magistrati intercettano varie telefonate in cui si scopre che il palazzinaro siculo-milanese e altri suoi simili hanno rapporti eccessivamente affettuosi con alcuni membri della giunta comunale. Si scopre anche che Domenici ha incontrato riservatamente Ligresti in un hotel di Roma, insieme a Diego della Valle, per discutere della

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Travaglio

possibile destinazione dei terreni per la costruzione del nuovo stadio della Fiorentina. Nulla di illecito, almeno per ora: ma Ligresti non è un carneade qualunque, è un bi-condannato per corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Uno così non lo si incontra e, se proprio vi si è costretti, lo si riceve in Comune, con la fascia tricolore indosso, dinanzi a testimoni, dopodiché si dirama un comunicato per informare la cittadinanza di quel che si è detto. Chi preferisce la clandestinità si espone a inevitabili sospetti, e anziché incatenarsi davanti ai giornali che scrivono male di lui, dovrebbe battere la mano sul proprio petto e la testa contro il muro di casa. A Napoli c’è un altro sindaco perbene, Rosa Russo Jervolino: dalle intercettazioni, emerge che gli assessori la consideravano un’inutile idiota, convinti – a torto o a ragione, si vedrà – che non s’accorgesse mai di ciò che combinavano sotto il suo Rosa Russo naso. Politici nazionali e locali facevano a gara per entrare nelle grazie dell’asso pigliatutto degli Jervolino: dalle appalti “global service” per la gestione dei patriintercettazioni moni comunali nelle grandi città: Alfredo Romeo, emerge che attivissimo fra Roma e la Puglia, Venezia e Milano, e prossimo a papparsi anche l’argentegli assessori ria di Napoli. la consideravano Si dirà: Romeo, almeno lui, era un insospettabile. un’ inutile idiota, Nemmeno per sogno: Romeo era stato processae condannato negli anni 90 (Tangentopoli-1) convinti che non to a 4 anni in primo grado e a 2 anni in appello, s’accorgesse mai salvo poi farla franca in Cassazione grazie alla solita prescrizione. Reato: corruzione. Già 15 anni di ciò che fa pagava partiti di destra e di sinistra per aggiucombinavano dicarsi l’appalto per la gestione del patrimonio sotto il suo naso. immobiliare del comune di Napoli. Lo stesso per cui è accusato di aver pagato tangenti, in denaro o in natura (favori e “altre utilità”), a destra e a sinistra negli ultimi mesi. Qualche ingenuo dirà: e nonostante quel pedigree c’era chi continuava a frequentarlo? Oh bella: ma continuavano a frequentarlo proprio per quel pedigree. Dopodiché, quando l’hanno arrestato per lo stesso reato sullo stesso appalto nella stessa città (cambiavano solo i destinatari di mazzette e favori), tutti a meravigliarsi e a interrogarsi sulla “nuova Tangentopoli”, anzi “nuova questione morale”. Nuova?

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CHIAVE DI LETTURA

Dove è l’alternativa?

Tra Vladimir Luxuria e Alba Parietti, per non parlare del girotondo attorno ai vecchi “arnesi del mestiere” l’unica cosa da rispettare è la buona fede dei militanti. Ma se succede che...

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di Valerio Lo Monaco

ertamente non nei partiti politici che conosciamo. Se esiste - ed esiste - un pensiero che veramente si pone al di fuori della logica dominante attuale, ebbene è inutile andare a cercarlo all'interno delle formazioni politiche, o para-politiche, tradizionali. Di ieri e di oggi. Per tradizionali intendiamo quelle con uomini, e soprattutto leader, provenienti da esperienze che in un modo o in un altro hanno avuto, o hanno tuttora, a che fare con categorie di riferimento (da considerare) ormai desuete. E inattuali. E inefficaci. Beninteso, il discorso che vogliamo affrontare è certamente più ampio di quello italiano, ed è persino più ampio di quello che sta accadendo sulle due sponde – europea e statunitense – dell’Atlantico.È,insomma, generale. Per quanto attiene al caso italiano basta un periodo o due. La cosiddetta sinistra parlamentare, vale a dire il Pd, è invischiata nelle più becere, e classiche, beghe di carattere sia interno che esterno: inchieste insabbiate (i furbetti del quartierino), questioni morali varie (Napoli, Pescara, Firenze, Roma...) atteggiamenti ondivaghi verso il governo in carica (disponibilità a cambiare radicalmente la Costituzione), lotte intestine finalizzate a mantenere o a riacchiappare la leadership di un partito che è preso in mezzo tra correnti e personalismi (Veltroni e D’Alema, sorvolando sul rapporto con gli ex della Margherita) e nessuna intenzione di gestirsi attraverso forme veramente democratiche (democrazia interna e preferenze dei candidati). Per

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In piazza Ma fuori dalle storiche sedi dei partiti. La politica oggi è altrove.

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non parlare, e chiudere così il cerchio, delle ultime dichiarazioni di Alba Parietti, con la sua annunciata intenzione di immolarsi a beneficio del Paese, candidandosi alle primarie prossime venture... Sul Centrodestra è fin troppo spendere più di una riga. E non pervenute, ormai, sono le formazioni che si collocano agli estremi del quadro politico nazionale. A livello parlamentare, complice anche la deriva auto-conservatoria di chi si è garantito un sostanziale duopolio per mezzo dei vergognosi ritocchi alla legge elettorale con cui si sono introdotte le liste bloccate e gli sbarramenti di vario tipo. E a livello extraparlamentare: sul quale però qualcosa da dire c'è. Posta l'evidente connivenza e funzione strutturale di Pdl,Pd e Udc al sistema, è infatti il caso, almeno come esercizio di analisi, di andare a vedere cosa accade al di fuori del Parlamento nell'ambito dei partiti politici che (un tempo) potevano almeno fregiarsi del tentativo di portare avanti una visione un po' diversa da quella dominante. Il che apre il sipario su un palco desolato. E desolante. I signori a sinistra, pregni di domande esistenziali di difficile risposta, girano intorno al problema commettendo (ancora una volta) un errore di fondo definitivo.Tra sindrome di Voltaire, convinzione di incarnare il bene rispetto a tutti gli altri che, di conseguenza, sono invece il male, tentano di trovare soluzioni alla propria crisi di consenso utilizzando i medesimi arnesi di sempre: la falce e il martello. In un mondo profondamente mutato, e a velocità supersonica, negli ultimi anni, rispetto a quello nel quale l'idea comunista era nata, i dibattiti sui quotidiani di riferimento sono pregni di articolesse che piangono sulla propria miseria e lasciano cinque righe appena, alla fine di ogni pezzo, per abbozzare non più di una proposta o due. Entrambe, peraltro, nove volte su dieci ruotanti attorno alla lotta del proletariato. In un mondo nel quale il sistema di sviluppo adottato dalla rivoluzione industriale è ormai in fase terminale, si cerca di trovare la soluzione attraverso strumenti inadeguati, logori e inattuali. Quando non si tenta un colpo d'ala facendo assurgere a valore distintivo la natura transgender di Vladimir Luxuria, che se da un lato non deve essere limitante, di sicuro non può essere assunta come espressione nobilitante per cavalcare consensi – sull’onda della vittoria in un reality show - e trasformarsi poi nel collante per tentativi di rivincita più generale. A nostro avviso, insomma, la Sinistra (ormai) extraparlamentare sta commettendo due errori. Da un lato il non riuscire a fare una analisi seria che dovrebbe condurla a

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superare ciò in cui si è creduto per una vita (il Comunismo); dall'altro, il non capire che a problematiche nuove non si può continuare a rispondere con soluzioni vecchie e inadeguate. Oppure con chiavi di lettura nuove ma astruse. Evitare questi errori è naturalmente molto più facile a dirsi che a farsi; soprattutto per chi, nel corso di tutta la propria esistenza, ha creduto e combattuto fermamente per una idea che oggi deve essere messa da parte. Discorso difficile anche perché quando una vita passata nella convinzione, sbagliata, di una presunta superiorità morale e culturale arriva al capolinea attuale, nel quale si manifesta, senza se e senza ma, con risultati fallimentari, è difficile confessare e confessarsi intimamente di avere compiuto per decenni un errore di analisi e prospettiva. Ciò non toglie però che si debba necessariamente fare. Si poteva (e si doveva) insomma capire già allora – mentre non ci sono più scuse oggi – che il sistema centrato sullo sviluppo infinito era destinato a non funzionare, e che dunque una lotta spesa per modificare il sistema di distribuzione dei redditi prodotti da questo sviluppo fosse, in realtà, non già la soluzione al problema, ma parte del problema stesso. Si sono, semplicemente, sbagliati. E stanno, altrettanto semplicemente, continuando a sbagliare. Solo che ora non si può più evitare di fare i conti. Altro problema infatti, e questo per tutti, è che pure arrivan-

La mancanza di una (auto)analisi seria, in grado di rimuovere le vecchie ideologie del passato, sta conducendo la Sinistra ancora più a fondo nel baratro della impopolarità tra la gente. do a concepire l'idea di dover definitivamente fare tabula rasa delle vecchie divisioni e categorie del passato ormai inadeguate, e dunque trovare nuove analisi e teorie per affrontare questo momento storico di crollo sistemico; pur arrivando a capire che la posta in gioco adesso non è nelle differenze distributive di quanto prodotto, non è tra destra e sinistra, tra comunismo e liberalismo, ma altrove, ovvero nel superamento di questo sistema che è folle in sé (e sono sempre di più quelli che lo hanno capito), c'è un ulteriore aspetto che in ogni caso non si può eludere: benissimo chiudere i conti con il passato, ma questi conti,

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qualcuno, deve pur pagarli. Ed è esattamente quello che stiamo facendo, che continueremo a fare, e che si troveranno a fare le generazioni future. Con buona pace di quanti - sia i liberali sia i comunisti - si sono affrontati per anni non riuscendo a cogliere l'errore di fondo del proprio ragionamento e dunque a concepire - come altri invece hanno fatto, purtroppo non ascoltati - una via differente. Ma molto più interessante è infine andare a vedere chi in questi partiti ed espressioni politiche ha creduto – o ancora crede. Perché è proprio lì che malgrado tutto, una volta depurato culturalmente il panorama dalle divisioni storiche, dai vecchi arnesi del passato, dalle categorie vecchie di secoli, inadeguate ad affrontare la modernità, si annida però la possibilità del nuovo e del diverso. E molto probabilmente del giusto. Certamente della speranza. Esistono infatti motivi per i quali sperare? Sì, per fortuna. Da un lato il fatto, incontrovertibile, che anche senza fare nulla si arriverà (prima di quanto si crede) a un capolinea impossibile da non vedere, dopodiché le ultime resistenze mentali, nel credere che comunque in un modo o in un altro questo sistema si possa salvare, cadranno da sole. Da un altro lato il fatto che tutte le persone che avvertono il disagio attuale, tutti i militanti, di una parte, dell'altra o di un'altra ancora, a un certo punto trasformeranno in pratica quella sensazione di separatezza dalla politica attuale che già avvertono oggi. Per queste persone, per questa società civile, si deve un rispetto assoluto e si deve accordare una dignità superiore a quella di chi invece, da un lato o da un altro, vota, si riconosce e agisce (di fatto) in comune accordo con le forze parlamentari che (in tutti i paesi) sono espressione interna del sistema. A un certo punto, le persone che ancora credono nelle forze politiche tradizionali saranno stanche di essere traghettate senza rendersene conto in luoghi distantissimi dal proprio sentire comune. Si renderanno conto che è ora di farla finita di affidare le proprie rivendicazioni a luoghi e partiti che non rappresentano più ciò che sentono. Che i Barenghi approdati a corte, i Sansonetti che elogiano i Luxuria vincenti all'Isola del Famosi, i Manifesto che imperterriti continuano ad agitare falce e martello, i Bertinotti che si disintegrano sedendo alla Camera dei Deputati, i Veltroni e le "questioni morali", i Fini che si spostano in continuazione, le Santanché con i vari make-up, le Fondazioni prezzolate e i loro intellettuali in cerca di un tozzo di pane, le Destre della Libertà (sic!), gli Storace alla rincorsa di Berlusconi e più in generale tutte le forze che un tempo, sebbene in qualche modo, potevano rispecchiare la possibilità ventilata di un cambiamento, sono invece irrecuperabilmente tutte parti di una visione sbagliata e inadeguata.Visione,espressione e azione lontane anni luce - con i fatti - da quel sentire comune che invece è presente in larga parte nella società civile.

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A questa si deve aggiungere la grande massa dei non votanti. La grande maggioranza delle persone che per esperienza personale o analisi culturale si è già affrancata stabilmente dai richiami per le allodole. Parliamo di chi ha capito che legittimare lo status quo mediante le false ricorrenze elettorali è non solo inutile, ma anche funzionale al mantenimento del sistema stesso. Parliamo di una quantità di persone che ha, pur nelle legittime differenze, molti più punti di vicinanza rispetto alla lontananza di altri. Punti che da soli sarebbero in grado di rovesciare del tutto il tavolo attuale. Queste persone sono espressione di quel sentire comune che è realmente contro le multinazionali, le banche centrali, le speculazioni finanziarie, le lottizzazioni di appalti pubblici, le guerre d'invasione mascherate dalla balla dei diritti umani, le strategie politiche e i genocidi per le risorse energetiche, la distruzione della Terra mediante lo sfruttamento incondizionato per scopi economici, l'accumulo di rifiuti e il nucleare inquinante per perpetrare il sistema fallimentare dei nostri consumi ipertrofici, il lavoro continuo a discapito della propria unica vita. Persone che sono per la collaborazione rispetto alla competizione, perché hanno capito che quest'ultima lascia più perdenti sul campo di quanti ne rende vincenti. Persone che la mano invisibile del mercato - tanto decantata da Adam Smith e portata avanti dall'Occidente intero e, ormai, anche da buona parte dell'Oriente - la sentono unicamente quando gli si stringe attorno alla gola per soffocarli nella perdita dei posti di lavoro, nei contratti lavorativi stracciati, nella perdita dell'assistenza sanitaria, del diritto allo studio, alla casa. Nella distruzione sistematica e inevitabile dell'intera propria vita. Persone le quali hanno capito che la differenza reale non è tra destra e sinistra, ma tra Nord e Sud del mondo. Tra i pochi che siedono nella stanza dei bottoni, con i loro maggiordomi dentro ai governi, e i tantissimi che arrancano, sfruttati e tritati, nella miseria della vita quotidiana. Intercettare e far agire questo senso comune è affare culturale e politico. Di comunicazione e istruzione, di organizzazione e azione. Ognuno faccia la sua parte. Su queste pagine tentiamo di fare la parte divulgativa, istruttiva, culturale e metapolitica. Dalla diffusione di idee non conformi tentiamo di saldare il collante di sensibilità diffuse – già evidentemente esistenti – che vanno poi necessariamente raccolte e trasformate in azione (anche) politica, oltre che di comportamento e scelte di vita. Per queste ultime le possibilità sono già evidenti e attuabili subito. Ora, di giorno in giorno. Per cosa si sceglie, per cosa (non) si vota. Per come, più semplicemente, ci si comporta ogni giorno nella propria sfera personale e sociale, pubblica e privata.

Valerio Lo Monaco

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REPORTAGE

Congo senza

futuro

Un Paese insanguinato dalle lotte intestine, sotto gli occhi di un Occidente che lascia fare. Consapevole che il caos agevola lo sfruttamento

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di T. Della Longa e G. Musumeci

on c’è niente da fare: l’Africa è un continente scomodo, di cui non si deve parlare, e dove può succedere qualsiasi cosa. Quel continente lontano di cui non è interessante parlare, perché abbassa l’audience. E soprattutto, quel continente che se le notizie venissero fuori, imporrebbe al mondo intero una presa di coscienza vera e dolorosa. Perché riguarda situazioni drammatiche che perdurano da decenni. Il Congo è l’emblema di questo assioma.Terra ricca e fertile, potenzialmente un paradiso, è in realtà una nazione in guerra permanente. Violenze, massacri, stupri, rapimenti sono all’ordine del giorno. Eppure i mass media e le Istituzioni internazionali non se ne accorgono, si lavano la coscienza con gli aiuti a pioggia e alimentano un carrozzone inutile per il popolo congolese. Incredibilmente, anzi, ha fatto notizia l’attacco dei ribelli del generale Laurent Nkunda di fine ottobre: forse perché gli scontri sono arrivati fino alle porte di Goma, capoluogo della ricca regione orientale del Kivu. O, più probabilmente, perché i nuovi scontri (già, perché la guerra era già in corso da almeno un anno e mezzo) sono scoppiati dopo la firma di una concessione mineraria alla Cina. D’altra parte in Congo non c’è solo il mai sopito odio etnico tra hutu e tutsi. O una guerra irredentista per la difesa delle minoranze. O ancora, un nazionalismo inventato da una delle tante fazioni armate. Nel cuore di tenebra dell’Africa nera, i motivi del contendere sono tutti questi. Ma anche un motivo economico, ovvero la rinnovata

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Scene di vita quotifdiana: civili e militari si aggirano su un fondale di povertĂ e distruzione

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guerra asimmetrica post-coloniale. Il Congo è ricco di materie prime: oro, argento, rame, ma soprattutto uranio e coltan. Questa fanghiglia radioattiva che fino a pochi anni fa non veniva neanche considerata, oggi è fondamentale per l’industria dell’hi-tech e per quella aerospa-

Quella in Congo è tra le missioni più costose delle Nazioni Unite. Ma i Caschi Blu restano defilati. Se avviene un massacro a 300 metri dalla base delle truppe Onu, nessuno interviene. ziale. La famigerata playstation 2 è stata costruita con il coltan. Come tutti i nuovi micro-telefonini. E come anche i motori dei missili o i visori notturni che si usano in guerra. Bene, il coltan è conteso da tutto il mondo. Le grandi corporation anglo-americane sconfinano quotidianamente in Kivu dal Rwanda per depredare il sottosuolo congolese. Per tutta risposta il governo di Kinshasa, appoggiato dall’Angola, ha venduto la sua ricchezza a Pechino. Il risultato? La guerra. O meglio, scontri “a bassa intensità” di cui il mondo ogni tanto si ricorda gridando al disastro umanitario. Ma che in realtà si risolvono ogni volta in battaglie per controllare una strada o un confine. Senza distruggere le case o le poche infrastrutture, come i ripetitori per i cellulari: chiunque sia ad attaccare sa bene di non poter distruggere tutto, visto che quello che c’è serve a tutti. E allora ecco che la guerra da quelle parti si combatte nelle poche strade disponibili, con i sempre verdi kalashnikov, qualche lanciarazzi Rpg e qualche pezzo di artiglieria leggera. Niente cannoni, niente aerei, niente elicotteri. Le truppe non hanno logistica, si muovono a piedi, depredano il territorio. Questa è la guerra nell’Africa nera.

Ma veniamo alle fazioni in campo Arrivando dall’Europa, lo schema è semplice: ci sono i governativi (Fardc) e i ribelli di Nkunda del Cndp (Congresso nazionale del popolo). E poi le famose milizie esoteriche Mai mai (in swahili “acqua acqua”) che sono schierate con il governo del presidente Kabila. Eppure la situazione è nettamente più complicata. Per prima cosa, nel nord del Kivu, quasi al confine con l’Uganda, ci sono i Fdlr, ovvero gli hutu ruandesi scappati dal proprio Paese nel 1994, essendo colpevoli di geno-

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cidio. In pratica, una fazione armata che non ha nulla da perdere e che alla fin fine fa anche comodo ai governativi perché è sempre pronta a schierarsi contro i tutsi che da Kigali cercano di impadronirsi del territorio congolese. Per capirci, uno dei motivi scatenanti della rivolta guidata da Nkunda è proprio l’esistenza stessa dei Fdlr. E c’è addirittura chi dice che in realtà questi mercenari siano foraggiati dallo stesso Rwanda in quanto funzionali allo scoppio della rivolta contro il Governo centrale del Congo. Fantapolitica? Forse. Ma da questa terra ci si può aspettare di tutto. E poi i Mai mai, visti in Europa come sanguinari che praticano la magia nera e opprimono il popolo. Peccato che in realtà all’interno di questa fazione si possono trovare almeno 12 tribù diverse e, in alcuni casi, anche l’una contro l’altra. Solo ultimamente, con un’iniziativa pagata dal Governo francese e capeggiata dal colonnello Didier Bitaki, i Mai mai stanno cercando di creare un partito armato, con annessi sponsor in giro per il mondo. Ma al momento non sono null’altro che milizie territoriali male equipaggiate (si parla di qualche fucile, ma soprattutto machete, lance e fionde) che però son viste ottimamente dalla gente comune. Perché? Per prima cosa perché difendono i propri villaggi, magari a gruppi di venti, di cui solo realmente cinque armati, dall’assalto dei ribelli. E quindi combattono per i propri familiari e amici. E poi perché si portano dietro un culto esoterico ancora ben radicato in Congo. Secondo la tradi-

Il commercio minerario non si ferma neanche nell’infuriare degli scontri. Milizie private scortano i minerali: cambia solo la sfera d’influenza, ora angloamericana, ora cinese. zione, i guerrieri Mai mai avrebbero un potere particolare, ovvero una sorta di immortalità. A patto di seguire alcuni precetti prima della battaglia e soprattutto cospargersi di acqua (da qui il nome) prima di scontrarsi con il nemico. E a quel punto le pallottole dell’avversario si scioglierebbero al contatto con l’acqua. Un mistero cui però tutti quanti credono. Un mistero che li tramuta nella fazione più temibile e soprattutto nell’unica capace di tenere testa in Kivu agli uomini di Nkunda. I Mai mai, in battaglia, vestono una sorta di corona d’al-

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loro. E un soldato (disarmato) ha l’incarico di continuare a cospargere d’acqua i propri compagni durante il combattimento. Come si spiegano allora i morti in battaglia? Semplice, uomini che non hanno seguito i precetti. Poi ci sono i governativi. Forse la fazione peggiore insieme ai Fdlr. Un militare regolare percepisce 20 dollari al mese. Il più delle volte la sua famiglia e la sua casa sono a migliaia di chilometri di distanza. Dove potrebbe essere la motivazione per combattere? E infatti, le Fardc si distinguono per la fuga davanti ai ribelli. E soprattutto per i saccheggi e le violenze contro la popolazione. Anche i giornalisti li devono subire: sigarette e soldi sono il lasciapassare abituale ai check point. Infine, le truppe del Cndp di Nkunda. Ufficialmente qualche migliaio di uomini animati da un ideale pseudo-rivoluzionario. In realtà, un esercito addestrato nelle basi americane in Rwanda, composto da una minoranza congolese e da una maggioranza ruandese. Il fatto, che è sempre stato smentito dal generale ribelle, è abbastanza semplice da scoprire. A Rutshuru, quartier generale del Cndp, i ribelli parlano kyniarwanda e non swahili. E la gente ne ha paura, li vede come una forza esterna che combatte per una nazione nemica. Una forza di conquista che, come nel caso di Kiwanja, non si fa troppi scrupoli ad ammazzare con machete e coltelli 208 civili in odore di appartenenza ai Mai mai. In mezzo a questo scenario assurdo, rimane l’inutile missione della Monuc (la versione congolese dell’Onu) e l’estrazione di

Destabilizzare significa controllare. E dove non c’è un’autorità riconosciuta tutti possono fare quello che vogliono, come portare via i minerali preziosi. Anche se per i civili il prezzo è altissimo. materie prime dalle miniere. Il commercio minerario non ha avuto una battuta di arresto neanche in quei giorni di ottobre quando gli scontri infuriavano. Milizie private scortano i minerali: l’unica cosa che cambia è la sfera d’influenza, una volta angloamericana, un’altra volta cinese. Con i francesi che cercano disperatamente di rimanere nella zona per mantenere uno spicchio della torta, magari con il tramite delle industrie a capitale libanese. Si diceva dei Caschi blu: oltre un miliardo di dollari l’anno viene speso per una delle missioni più costose delle Nazioni Unite. Eppure i campi sfollati sono abbandonati alle razzie notturne di qualunque fazione armata. Le strade sono pericolose.

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Se un civile, del posto o occidentale, chiede aiuto, riceve solo risposte negative. Se avviene un massacro a 300 metri dalla base Onu, nessuno interviene. Una vera e propria onta per l’intera comunità internazionale che invece alimenta un inutile carrozzone. Non comprendendo che in posti come questo servirebbero contingenti militari seri e preparati. Con regole di ingaggio più aggressive. E non eserciti nazionali di basso profilo.

Nel Kivu si continua a morire per procura. Le grandi potenze mondiali armano i signori della guerra e soffiano sul fuoco di un conflitto che non deve fare notizia e che però deve durare il più possibile. Infine c’è un esercito che è diverso, diverso da tutti gli altri. È composto da uomini senza divisa, senza mimetiche e che non imbracciano i kalashnikov: sono gli sfollati. Una massa critica di uomini, donne e bambini, spesso usata senza scrupoli, per creare terrore e panico. E anche per togliere viveri e acqua a un territorio intero. Nelle strade del Kivu, durante il giorno, è normale vedere centinaia di persone, sempre in movimento, lungo le polverose strade. Solo il 2 per cento degli ultimi sfollati, lo sono per la prima volta. Qui lo scappare dalla guerra è un fatto endemico. E ormai quasi un’abitudine. Al primo sparo, tutti nei campi dell’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) dove si può trovare acqua e cibo. Con la comunità internazionale che fronteggia ormai bene l’emergenza, ma non pensa mai veramente al “dopo.” A chiarire la situazione le parole del responsabile regionale del Coopi, Eugenio Balsini, che da quattro anni lavora in Kivu: “Sull’alimentazione bisogna cambiare la strategia, passare dagli aiuti umanitari a un’autosufficienza che arrivi almeno al 50 per cento dei prodotti alimentari. Già, perché qui in Congo la terra è rigogliosa, si contano quasi tre raccolti all’anno, il clima è ottimale. Non c’è nulla che possa fermare coltivazioni che farebbero invidia all’Europa stessa. Eppure in queste città è più semplice vedere i sacchi di farina dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, invece di mercati pieni di frutta e verdure”. Per la cronaca, grazie alla battaglia di Balsini, il Pam (programma alimentare mondiale) ha appena cambiato strategia. Sperando che questa volta ci si preoccupi di portare sementi e di insegnare l’uso dell’aratro. Gli scenari futuri sono ancora a dir poco tetri. L’avanzata di Nkunda sembra inarrestabile e il Governo congolese sempre più sull’orlo di “saltare”. Sono ormai settimane, infatti, che il pre-

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sidente Kabila non va più a casa e dorme in Parlamento. Un segnale di preoccupazione molto forte.Addirittura, c’è chi dice che la Cia sarebbe già pronta a farlo fuori, per garantirsi così un governo amico nel cuore dell’Africa. D’altra parte dopo Uganda, Rwanda e Burundi, entrare a Kinshasa sarebbe una mossa fondamentale per la politica e l’economica di Washington e Londra. E soprattutto significherebbe escludere Pechino dall’estrazione mineraria. L’avvento della presidenza Obama non ha poi dato altre speranze ai congolesi. Sembrerebbe che il nuovo inquilino della Casa Bianca stia riprendendo il programma Clinton che prevedeva lo smembramento del Congo in tante piccole regioni. Un ottimo modo per depredare le ricchezze del sottosuolo. Le ultime notizie, da fonti dei servizi francesi, raccontano di piccole imbarcazioni che di notte portano truppe ruandesi al di là del confine. D’altra parte Nkunda è stato molto chiaro: se il Governo di Kabila non accetta i negoziati, sono pronti a marciare su Goma, sulla capitale del Kivu del Sud, Bukavu, e poi, ancora, su Kinshasa. Al momento, quindi, ci si potrebbe aspettare un attacco a tenaglia ai cuori di nord e sud Kivu, rispettivamente Goma e Bukavu. A quel punto Nkunda potrebbe dichiarare una sorta di indipendenza dal governo centrale. E sperare di intrecciare buone amicizie con i sempre più numerosi nemici di Kabila. Ambendo a questo punto al posto più alto, quello di presidente. Fonti ben informate parlerebbero di un Kabila che rischia di saltare in aria. Oppure, che scappa in Angola con un lasciapassare per il Portogallo. Per l’ennesima volta in Kivu così si muore per procura. Le grandi potenze mondiali armano i signori della guerra e soffiano sul fuoco di una guerra che non deve fare notizia e che però deve durare il più possibile. Destabilizzare significa controllare. E dove non c’è un’autorità riconosciuta, tutti possono fare quello che vogliono, come portare via i minerali preziosi. Anche se il prezzo da pagare è alto. Tanto chi ci rimette sono sempre i soliti: i civili indifesi che pagano un dazio sempre più caro. Donne stuprate, bambini rapiti che diventano baby-soldati, un popolo e una nazione intera che così un futuro non lo può nemmeno immaginare.

Tommaso Della Longa e Giampaolo Musumeci

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REPORTAGE

Inviati

no embedded

Sulle strade del Congo facendo affidamento solo su se stessi. Tra gente che odia i bianchi e truppe Onu che non vogliono fastidi

“M

di T. Della Longa e G. Musumeci

uzungu! Muzungu!”. È sempre così. Appena la nostra jeep entra in un villaggio o in un campo sfollati il grido è sempre lo stesso: “Bianco! Bianco!”. Frotte di bambini che chiedono acqua, caramelle o matite. Donne che si avvicinano per avere qualche franco congolese o qualcosa da mangiare. Oppure militari governativi, che esigono dollari e sigarette, al posto dei passaporti. Benvenuti nella Repubblica Democratica del Congo. Una nazione grande come tutta l’Europa occidentale, disegnata a tavolino dai colonizzatori che venivano dal Belgio. Un paese ricco di minerali preziosi, rigoglioso, pieno di parchi naturali e meraviglie paesaggistiche: un vero paradiso. Eppure i ricordi che ti porti dietro da un reportage come questo, sono altri: bambini e donne in fuga dal fronte, interi villaggi terrorizzati. Miseria e disperazione. E anche tanta polvere, di quella che ti fa sperare in un bell’acquazzone tropicale. Strade inesistenti con vere e proprie voragini. E poi un buio di quelli che neanche immagini: interi villaggi e città che dopo le sei di ogni pomeriggio diventano realmente invisibili. Non c’è un lampione, non c’è un’insegna, non c’è nulla. Anche camminare diventa una cosa difficile e non si capisce come i locali riescano a muoversi: è una vera impresa. E poi armi, tante armi, ovunque. Kalashnikov e lanciarazzi. E mani

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ferme che li impugnano. E occhi pronti a mirare. Che nel buio della notte sembrano fari. Le sei del pomeriggio. Un orario cardine: dopo il tramonto tutto si ferma. Si chiudono i check point. Le strade non sono più percorribili. E se l’articolo è stato già mandato e la diretta radio è spostata alle dieci di sera, non resta altro che rilassarsi in qualche “posto da muzungu”: “Le soleil”, il “Doga”, il “Cocojambo”, sono i locali “in” di Goma, piccole parentesi a base di cucina occidentale e musica pop, dove i bianchi si possono rilassare con una birra ghiacciata. E dove più di qualcuno si intrattiene con le prostitute del posto. Come quell’anglosassone che la sera, cappello e maglietta griffata Onu, faceva le ore piccole, sempre “accompagnato”. L’altra faccia di una missione umanitaria. E poi, dopo la birra e il solito pollo alla griglia, scatta il coprifuoco delle 23: nient’altro che un modo per dare la possibilità ai governativi di esigere un dazio più alto a chi non lo rispetta. Se ti fermano dopo le undici, devi pagare. Sigarette di solito, e magari qualche banconota. Se invece ci si trova fuori Goma, come capitato a noi quando ci siamo recati nel quartier generale dei ribelli a Rutshuru, ed è troppo tardi per rientrare alla base, c’è poco da fare: si chiede ospitalità a una missione cattolica, perché l’oscurità in Congo nasconde mille insidie e ci si rifugia nell’unico locale aperto. E il menu è obbligato. Spiedini di capra e birra ugandese Eagle ci hanno accompagnato per due

Sassi contro l’Onu, insulti a chi non ha la pelle nera. Con i giornalisti che diventano un obiettivo. A noi ci salva la buona tenuta dei vetri Toyota e la prontezza nel bloccare le portiere. sere. Ma occasioni del genere non ti fanno scoprire solo le chicche della gastronomia africana. A volte trovi la “verità” sulle truppe di Nkunda: quella sera, tra una birra e l’altra, ci avviciniamo ad alcuni soldati ribelli che chiacchierano davanti al locale. E non sentiamo parlare Swahili, sentiamo parlare kyniaruanda. La prova che il vicino paese africano fornisce armi e uomini al movimento di Laurent Nkunda. Tutto questo mentre lo stereo suonava un bel reggae di Bob Marley, ballato dai ribelli con Ak-47 e lanciarazzi Rpg in mano. Le armi, quelle sono sempre presenti, sono una presenza ricorrente, ovunque ci muoviamo. Le armi significano

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morte. Ma anche potere. Provate a mettere il naso in un campo sfollati dopo il tramonto: nessun controllo, nessuna protezione. Solo le razzie dei governativi e di tutte le fazioni armate: donne violentate, cibo e acqua rubati, bambini rapiti.Tutto questo nel Congo della grande missione Onu, la Monuc. Una vera vergogna. Ma d’altra parte, anche noi lo abbiamo provato sulla nostra pelle. Era domenica, uscivamo dal campo di Kibati dopo aver

Prossimi alla meta, ecco l’incontro con i peggiori: i Fdlr, i fuoriusciti ruandesi responsabili del genocidio del ‘94. assistito a un matrimonio: uno squarcio di normalità, in mezzo alla disperazione. Il campo è a nord di Goma, a tre passi dalla linea del fronte. Per rientrare in città c’è un check-point dove normalmente un governativo stanco chiedeva, al massimo, qualche sigaretta. Per capirci, una volta un soldato si è avvicinato alla macchina e ha detto al nostro autista: “Ci sono nemici qui dentro?”. “No”, è stata la risposta. “Ok, passate pure”. E invece, quella domenica, già prima del controllo i governativi erano a decine. C’era chi scorrazzava in moto con i kalashnikov puntati al cielo, come se stessero festeggiando qualcosa. Che cosa? Un incidente, dai tratti surreali, tra Onu ed esercito “regolare”: il convoglio delle Nazioni Unite viene fermato dai soldati governativi (Fardc). I Caschi blu vedono bene di farsi ispezionare dalla Fardc, senza colpo ferire e senza opporre veti. Un po’ come se gli italiani dell’Unifil in Libano si facessero ispezionare da Hezbollah o da Israele. Il comandante sul posto, un uruguagio, non parla, non spiega la situazione e come “gesto di fiducia”, come spiegato 24 ore dopo dall’addetto stampa della Monuc, apre i blindati. Dentro ci sono 23 persone, civili mischiati a militari: 10 miliziani filogovernativi Mai mai che si sono arresi, 10 poliziotti congolesi in ritorno da una missione governativa nel territorio ribelle e tre civili che si erano appellati all’Onu per scappare dagli uomini di Nkunda. In quell’istante la Fardc, insieme a decine di persone che cominciavano a scendere in strada, ha iniziato a inveire contro la Monuc, accusandoli di trasportare gli uomini di Nkunda dentro Goma. A quel punto il comandante uruguagio ha visto bene di consegnare i 23, senza spiegare chi fossero realmente, rischiando un linciaggio di piazza, evitato solo

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dalla Fardc che ha deciso di portarli via, dopo averli malmenati e ingiuriati. I Caschi blu, ovviamente, immobili. Anche e soprattutto quando si è scatenato la violenza di piazza: sassi contro l’Onu, insulti a chi non ha la pelle nera. Con i giornalisti che diventano un obiettivo, con una buona mezz’ora di paura dettata dalla gente che cerca di aprire le macchine per prendersela con i bianchi al grido “only black”. I blindati dell’Onu non fanno nulla. A noi ci salva la buona tenuta dei vetri Toyota e la prontezza di riflessi nell’abbassare le sicure delle portiere.

Ma non è finita qui Il rischio in un’area di crisi è sempre presente, pronto a materializzarsi improvvisamente. Sempre in viaggio, sempre in jeep. Ricominciano gli scontri al nord. Gli uomini di Nkunda stanno avanzando velocemente verso il confine con l’Uganda. A Nyamilima, la missione cattolica di padre Paolo Di Nardo, con cui eravamo in contatto, viene depredata dai Mai mai in fuga verso la foresta. Decidiamo di andare a vedere cosa sta succedendo. Lasciamo i governativi a Goma. Tagliamo in due la zona dei ribelli, Rutshuru, Kiwanja e gli altri villaggi. Il viaggio è lungo, il caldo e la polvere si fanno sentire. A dieci chilometri dalla meta, l’incontro con i peggiori, i Fdlr, i fuoriusciti ruandesi responsabili del genocidio del ‘94. Le ultime persone al mondo che vorresti incontrare in Congo. Sono in tre, solo due gli armati. Puntano gli Ak47 contro la corsa della nostra jeep. E inizia il teatro, che fortunatamente possiamo ancora raccontare. Sputi, qualche insulto. La paura incarnata da un uomo ubriaco, con i denti gialli, che non si regge in piedi e che ci crede uomini di Nkunda, solo perché abbiamo due casse d’acqua dietro. Un guerrigliero che tiene il suo fucile mitragliatore puntato verso le nostre teste. Con l’onnipresente machete a portata di mano tra i due caricatori del kalashnikov. Una mezz’ora molto lunga che non finisce in tragedia grazie al sangue freddo dell’interprete e dell’autista. Alla fine veniamo rapinati solo di un centinaio di dollari. Pochi minuti dopo, sulla strada, incontriamo una colonna di carri armati Onu. Ci sbracciamo. Non si fermano. Solo il terzo, lo fa. Perché ci eravamo buttati in mezzo alla strada a mani levate verso il cielo. Non ci viene offerta protezione e ci viene negato il riparo per la notte nella loro base. Eppure il miliardo di dollari che la Monuc percepisce ogni anno dalla Comunità internazionale è frutto anche dei nostri soldi. Ma che ci stanno a fare in Congo? Ci dirigiamo verso la chiesa di Rutshuru: lì troveremo un letto e una bottiglia di birra ugandese. Un’altra giornata nell’inferno del Congo si concluderà con l’amaro in bocca. E non sarà solo per la birra “Eagle”.

di Tommaso Della Longa e Giampaolo Musumeci

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INCHIESTA

Milioni di

L

morti

miliardi di

utili

AIDS Doveva essere la Peste di fine millennio, poi le previsioni sono state smentite dai fatti. Ma resta in piedi il giro d’affari. Immenso di Federico Zamboni

a paura dell’Aids si diffuse nella prima metà degli anni Ottanta, in un crescendo di notizie sempre più inquietanti. A suscitare l’allarme non era solo il numero delle vittime: nei Paesi occidentali il cancro, il fumo e l’abuso di alcol ne hanno mietute – e continuano a mieterne – incomparabilmente di più1. La chiave di volta era un’altra: l’Aids non aveva una causa specifica. Come diceva il suo stesso nome, acronimo di Acquired Immune Deficiency Syndrome (Sindrome di Immunodeficienza Acquisita), l’unica cosa che si sapeva era che a un certo punto, per ragioni inesplicabili, le difese immunitarie di un ragguardevole numero di persone crollavano. Inizialmente, come si ricorderà, il fenomeno sembrò riguardare due categorie specifiche: i tossicodipendenti e gli omosessuali. Nel loro modo di vivere, si ipotizzò, doveva esserci qualcosa che determinava l’insorgere della malattia. Le droghe, specialmente se consumate assiduamente e in forte quantità, potevano avere tra i propri effetti collaterali l’indebolimento, fino alla debacle, del sistema immunitario. Analogamente, si disse, gli omosessuali che cambiano un gran numero di partner finiscono con lo stressare il proprio organismo: a ogni contatto diretto con lo sperma altrui si verifica una sorta di “shock” immunitario, che a lungo andare mina, fino a comprometterle, le capacità di reazione. Inoltre, venne notato, in molti casi i gay statunitensi avevano uno stile di vita in cui l’alta promiscuità sessuale si accompagnava all’uso di stupefacenti. Fino a questo punto, però, l’immagine pubblica dell’Aids rimaneva fedele alla sua definizione originaria. L’Aids restava una “sindrome”, vale a dire il risultato di un insieme di fattori. I quali, va da sé, resta-

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vano tutti da definire, potendo ricomprendere qualsiasi elemento che provocasse una forte diminuzione delle difese immunitarie. Ribadiamolo: qualsiasi elemento. Non necessariamente un virus. Il nocciolo della questione è qui. E tutto quello che è venuto in seguito, dall’approccio medico allo sfruttamento commerciale, poggia su questo aspetto. La svolta arriva nel 1984, quando il ricercatore statunitense Robert Gallo2 annuncia sulle colonne di Science di aver individuato la causa dell’Aids. Il virus Hiv, appunto. Quell’ “Human Immunodeficency Virus” che determina di per se stesso, indipendentemente da ogni altro elemento, lo svilupparsi della malattia. Sulla base di questo presupposto si delineano le tre grandi direttrici su cui si procederà da lì in avanti. Nell’ordine, come vedremo meglio tra poco, la prevenzione, i test di rilevazione del virus e i metodi di cura. Nonché, a ricomprendere tutti e tre gli aspetti in quella che sarebbe la soluzione definitiva, la ricerca di un possibile vaccino. A proposito: già nel 1985 lo stesso Robert Gallo si (sbi)lancia in una previsione che gronda di ottimismo e che ha il sapore di una certezza. «Se il ritmo delle ricerche proseguirà con lo stesso slancio che hanno avuto finora, entro cinque anni si dovrebbe arrivare alla produzione del vaccino.» 1985 più 5. Uguale 1990. Diciotto anni fa.

Aids, che ci sia ciascun lo dice… Posizionata la pietra angolare, con l’identificazione dell’Hiv come causa diretta ed esclusiva dell’Aids, l’edificio è cresciuto rapidamente. E, come accade molto più spesso di quanto non si voglia ammettere, la stragrande maggioranza degli operatori si è ben guardata dal chiedersi se quella premessa fosse davvero così solida come veniva affermato. Tranne rarissime eccezioni, puntualmente ignorate o tacciate di incompetenza nonostante vi fossero, tra loro, addirittura dei Premi Nobel quali il microbiologo Peter Duesberg e il chimico Kary B. Mullis, chi si è occupato di Aids negli ultimi vent’anni lo ha fatto allineandosi di buon grado alla versione dominante. La teoria è diventata un teorema. Il teorema è diventato un assioma. Poiché l’Hiv era indiscutibilmente all’origine dell’Aids, le contromisure sono state analoghe a quelle che si sarebbero prese nei confronti di ogni altro virus dagli effetti mortali e dall’alto potenziale epidemico. La prevenzione si è focalizzata sui comportamenti da evitare per non incorrere nel contagio. La cura, in attesa del provvidenziale ma tuttora irraggiungibile vaccino3, si è rivolta a quei farmaci che potessero rallentare quanto più possibile lo svilupparsi della malattia. Inoltre, a metà strada tra prevenzione e cura, si è

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messo a punto un test che permettesse di accertare l’infezione da Hiv prima che si manifestassero i sintomi dell’Aids. Cominciamo dalla prevenzione. Dopo oltre due decenni di martellamento mediatico è senza dubbio l’aspetto più noto dell’intera vicenda. Il presupposto è che l’Aids si trasmetta attraverso il sangue e altri fluidi corporei, in particolare quelli seminali per l’uomo e quelli vaginali

Per oltre vent’anni l’Azt, scoperto nel 1964 e subito accantonato per la sua tossicità, rimase inutilizzato. Fino a quando la “scoperta” dell’Hiv permise alla Burroughs Wellcome di riciclarlo. per la donna. La parola d’ordine, perciò, è tanto semplice quanto perentoria: evitare qualsiasi contatto con quelle sostanze, specie se si ha a che fare con soggetti già infettati o comunque a rischio. Come? Dipende. In ambito sessuale le alternative sono due: la prima, che ogni tanto torna a essere caldeggiata ma che è talmente irrealistica da diventare risibile, è un’assoluta castità; la seconda è l’uso sistematico del profilattico, tanto meglio se all’interno di una relazione monogamica stabile e di lunga durata. Se il problema è la droga, invece, il pericolo principale – esclusi gli effetti immunodepressivi degli stupefacenti in quanto tali – consiste nel condividere con altri consumatori la stessa siringa e, quindi, lo stesso ago. La soluzione, ovvia, è che ognuno utilizzi siringhe “usa e getta”. Il che ci porta al principio di carattere generale che si è esteso a qualunque altro ambito, dagli ospedali ai dentisti, dai barbieri ai laboratori in cui si fanno i tatuaggi o si mettono i piercing: gli strumenti che possono sporcarsi di sangue devono essere rigorosamente monouso. Li compri, li usi, li butti.Affinché qualcun altro, intanto, li produca, li venda, ci guadagni. Nel suo piccolo (ma nemmeno poi tanto, se si moltiplicano gli importi unitari per un numero enorme di pezzi) il business dell’Aids passa anche di qui. Ma il grosso, naturalmente, transita altrove. Innanzitutto nei farmaci. Innanzitutto nel famigerato Azt. Scoperto nel 1964 da Jerome Horwitz, che sperava di poterlo impiegare nelle terapie antitumorali, palesò fin dall’inizio difetti tanto gravi da indurre lo stesso Horwitz a disinteressar-

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sene, al punto che non lo brevettò neppure. Per oltre vent’anni l’Azt rimase inutilizzato. Poi, in coincidenza con l’emergere dell’Aids e dell’ipotesi virale di Gallo e Montagnier, la Burroughs Wellcome4 lo fece uscire dall’ombra e ne avviò la sperimentazione clinica. Le aspettative erano altissime. Il clima di allarme che andava dilagando, nel consueto rimbalzo tra tecnici, pubbliche istituzioni e mass-media, rendeva più che mai urgente il reperimento di una qualsivoglia terapia. Risultato: nonostante i pesantissimi effetti collaterali (collaterali?) l’Azt superò agevolmente le verifiche e venne validato. A mali estremi, estremi rimedi. Ora i medici potevano prescriverlo. I malati dovevano assumerlo. Alla Burroughs Wellcome non restava altro da fare che avviarne la produzione su vasta scala e prepararsi a incassare il fiume di denaro che sarebbe scaturito dalla sua commercializzazione. Dal punto di vista imprenditoriale, o speculativo, era il massimo che si potesse ottenere: il monopolio

Siete sieropositivi all’Hiv, ma non avete alcun sintomo? Secondo gli esperti dovete curarvi comunque, come se aveste già l’Aids. Farmaci su farmaci, incluso il famigerato Azt. assoluto su un mercato vastissimo, per di più in continua crescita. Ed eccoci all’ultimo tassello: il test di rilevazione dell’Aids. O meglio, e la differenza è determinante, il test di rilevazione degli anticorpi all’Hiv. Il test è ormai accessibile a tutti, anche privatamente. In Rete viene proposto a prezzi variabili che partono da un minimo di 12 sterline, e il consiglio è di utilizzarlo ogni qual volta vi sia una possibilità di contagio. Ovvero, per parlare dell’eventualità più comune, ogni volta che si sia avuto un rapporto sessuale “non protetto” con un partner sconosciuto e del quale non si è perfettamente sicuri (come se poi, in un’epoca di altissima promiscuità come la nostra, si potesse essere totalmente certi della condotta di chicchessia). Inoltre, visto che i tempi di reazione sono soggettivi, il consiglio aggiuntivo è di ripetere il test a più riprese, a distanza di alcune settimane. Ma il problema principale non è neanche il costo: è la sua effettiva utilità. E le conseguenze che innesca. La tesi corrente, come abbiamo visto, è che l’Aids sia determi-

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nato dal virus Hiv e che, pertanto, il passaggio dall’infezione iniziale alla malattia conclamata sia solo questione di tempo. Benché per tanti altri virus questo periodo di incubazione sia solitamente breve, nel caso dell’Hiv/Aids è non soltanto molto più lungo di quanto avviene, ad esempio, per il colera (1-5 giorni) o per l’Ebola (3-9 giorni), ma è addirittura indeterminato. In altre parole, e la casistica è estremamente ampia, si può risultare positivi al test per l’Hiv e non avere nessun calo, e men che meno nessun crollo, delle difese immunitarie.Tecnicamente si è stati colpiti dal virus, come sta a indicare la presenza di anticorpi; concretamente l’organismo continua a funzionare come sempre, senza alcun danno né evidente né occulto. Si è malati di nome, si è sani di fatto. E quindi? Secondo gli “esperti” bisognerebbe curarsi comunque. In via preventiva. Iniziare subito ad assumere farmaci “antiretrovirali” e sottoporsi a un monitoraggio costante. Proprio come si farebbe se, invece, ci si trovasse già in una fase ben più avanzata. Malati di nome, malati di fatto.

AIDS, c’è chi dice no I dubbi sull’attendibilità della versione ufficiale, quella che il succitato Premio Nobel Peter Duesberg definisce esplicitamente «un dogma»5, sono cominciati già alla fine degli anni Ottanta. Mentre la generalità degli operatori si allineava pedissequamente all’impostazione prevalente, vuoi per mero conformismo, vuoi perché direttamente partecipi dei profitti che ne stavano derivando, alcuni studiosi si fermarono a riconsiderare l’intera questione. Fino a metterne in discussione le premesse.

La versione ufficiale domina il sistema sanitario e, quindi, l’azione dei governi. Il pregio, si fa per dire, è che quella versione soddisfa un’infinità di interessi. Che sono tanto economici quanto politici. Robert Gallo il sedicente scopritore del virus HIV

Non era affatto facile. Oltre a una competenza specifica in materia di virus e di processi biochimici, ci volevano la lucidità, l’onestà intellettuale e la forza morale necessarie ad affrancarsi da quello che ormai era diventato un pensiero unico. Al di là dell’aspetto squisitamente scientifico – e anche nella scienza, checché se ne dica, andare contro certe “verità” significa esporsi alla demonizzazione e all’ostracismo – c’era da fare i conti con altri due ostacoli. Enormi. Primo, l’opinione pubblica era terrorizzata e desiderava oltremodo che l’Aids venisse ricondotto entro i limiti di un’epidemia, per quanto grave, della quale si erano finalmente scoperte sia le cause che le

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terapie. Secondo, i vari Gallo e Montagnier erano circonfusi da una sorta di aureola che li rendeva inattaccabili, proprio perché venivano presentati, e percepiti, come i paladini della lotta contro il Male. Se loro erano i novelli San Giorgio, e l’Aids era il drago, quanto spazio c’era per chi veniva a criticarli, accusandoli di aver sbagliato tutto? Affermando che le loro tesi erano un cumulo di bugie, o se non altro di abbagli. Sottolineando che le catastrofiche ipotesi iniziali su una diffusione esponenziale del morbo erano state smentite dalla realtà. Sostenendo che non è affatto vero che l’Aids sia causato dal virus Hiv – che

Attribuendo l’Aids a un virus, e solo ad esso, l’Occidente si assicura un’assoluzione preventiva per ogni immunodepressione. tutt’al più ne costituirebbe un effetto secondario, proliferando a sua volta in un organismo indebolito dal venir meno delle normali difese immunitarie – e che la massima parte delle morti attribuite all’Aids, specialmente in Africa, sono invece dovute a malattie ben note quali la dissenteria e la tubercolosi, e andrebbero perciò ricondotte ad altre cause tra cui la denutrizione e le condizioni igieniche sempre più precarie. Accusando l’Azt, infine, di essere sempre restato ciò che era all’inizio, vale a dire una sostanza altamente tossica i cui effetti negativi sono di gran lunga superiori a quelli positivi, quand’anche ve ne siano. La battaglia è stata impari fin dal primo momento e lo è rimasta. La versione ufficiale continua tuttora a dominare il sistema sanitario e, di conseguenza, il modo in cui i governi approcciano il fenomeno. Vere o false che siano, le spiegazioni che sono state date all’Aids hanno il pregio, si fa per dire, di soddisfare simultaneamente un’infinità di interessi. Che vanno dalla politica, ivi inclusa la geopolitica, all’economia. La priorità della politica è che la situazione sia, o appaia, sotto controllo. Quella dell’economia è che la gestione del fenomeno movimenti immense somme di denaro, sotto forma sia di investimenti pubblici per la prevenzione e la cura a spese dello Stato dei malati (veri e presunti) sia di costi a carico dei privati che si sottopongono alle terapie, onerose non solo per il prezzo delle singole confezioni di farmaci ma perché, non avendo come scopo la guarigione definitiva ma solo il contenimento della malattia, si protraggono all’infinito. Ma c’è dell’altro. Ed è forse l’aspetto più importante, anche se di solito non se ne fa cenno alcuno. Accanto alle funzioni che abbiamo visto, infatti, il “dogma dell’Hiv” ne svolge un’altra assai meno evidente, ma della massima importanza.

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Attribuendo l’Aids a un virus, e soltanto ad esso, l’Occidente si assicura un’assoluzione preventiva, e illimitata, per qualsiasi altra forma di immunodepressione. La causa è un virus? Allora si tratta di una fatalità. Che non dipende da noi. La radioattività? Non c’entra. L’inquinamento chimico? Non c’entra.Ammettere che fattori di questo tipo possano danneggiare il sistema immunitario, fino a renderlo inservibile, significherebbe aprire almeno uno spiraglio a una revisione critica del nostro stile di vita. La faccia scura della luna, come si dice. Ci fanno vedere quella illuminata, quella del benessere consumista, e moltissimi di noi si lasciano abbagliare. Senza preoccuparsi di cosa c’è davvero dall’altra parte. Federico Zamboni

Note: (1) Per limitarsi all’Italia, le cifre ufficiali fissano le vittime di tumore in circa 150 mila persone. Le vittime dell’Aids, invece, sono intorno alle 200. Secondo il Ministero della Sanità dipende dal diffondersi delle terapie antiretrovirali, ma resta il fatto che negli ultimi anni sono calati drasticamente anche i casi di nuovi sieropositivi (per una ricognizione aggiornata al 2007, www.ministerosalute.it/resources/static/primopiano/503/DATI_AIDS_ISS.pdf). (2)L’annuncio di Gallo scatenò una vera e propria battaglia, anche legale, con Luc Montagnier e con l’Istituto Pasteur in cui questi operava. Montagnier, infatti, aveva isolato il virus Hiv già un anno prima di Gallo e ne rivendicò la paternità, vincendo la causa contro il collega americano. (3)L’ultimo annuncio di un’ormai prossima messa a punto di un vaccino è arrivato dallo stesso Luc Montagnier all’inizio dell’ottobre scorso. Durante la cerimonia di consegna del Nobel 2008, che gli è stato attribuito per la medicina a fronte dei suoi studi sull’Aids, Montagnier ha detto che sta lavorando a un vaccino "terapeutico" che dovrebbe essere ufficializzato "entro tre o quattro anni se i finanziamenti saranno costanti". (4)La Burroughs Wellcome, in realtà, è un marchio che rinvia a due attività distinte. Da un lato la grandissima industria farmaceutica che tutti conoscono; dall’altro una fondazione di ricerca scientifica. Come si legge nel sito di quest’ultima (bwfund.org), “The Burroughs Wellcome Fund is an independent private foundation dedicated to advancing the biomedical sciences by supporting research and other scientific and educational activities”. (5)Le posizioni di Peter Duesberg sono esposte, in maniera esauriente e comprensibilissima, nel volume Aids, il virus inventato (Baldini, Castoldi, Dalai, pagg. 527, € 9,90), al quale rinviamo espressamente per una dettagliata conoscenza delle tesi alternative a quelle ufficiali.

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METAPARLAMENTO

Lega Nord un bluff Era partita con l’idea, sana, di una lotta che fosse allo stesso tempo politica e morale. Oggi è un sistema di potere. Che si nasconde dietro al mito di un Federalismo impossibile di Alessio Mannino*

U

n bluff: questo si è rivelata essere la Lega Nord. Un movimento sano, popolare, con l’indiscutibile merito di aver dato nuova linfa all’esangue politica italiana nel momento in cui essa crollava sotto le macerie della Prima Repubblica, che dopo vent’anni dalla sua ascesa ha compiuto la parabola dell’imborghesimento dissolvendosi nel corrotto sistema romano.Verde speranza alle origini, verde vomito oggi. Il vomito che viene a tutti quelli che in buona fede vi hanno aderito, l’hanno votata o semplicemente hanno simpatizzato con alcune sue battaglie e adesso la vedono ridotta a ben remunerata guardia bianca del potere. La Lega è morta. Officiamone il requiem.

Bossi fantasma Del resto, non ha fatto che assumere il volto spettrale del padrepadrone Umberto Bossi. Con quella sua voce rauca e i suoi modi popolani da schietto parvenu, il Senatùr è stato la riscossa di tutta la gente del Nord che ha mandato avanti per decenni la baracca dello Stato italiano svenandosi con turni di lavoro massacranti e un prelievo fiscale vampiresco – un magistrale caso di connivenza fra vittime e carnefici, a dire il vero. Ma il suo egocentrismo dittatoriale, il centralismo piramidale che ha imposto al partito, le periodiche purghe con cui lo ha via via ripulito delle teste pensanti, la fiducia illimitata nel proprio fiuto di giocatore d’azzardo lo hanno rovinato. E la malattia che l’ha colpito anni fa ha completato l’opera. Oggi è la pallida ombra del Bossi che fu. È il fantasma di se stesso: un maci-

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lento politicante rimasto prigioniero del proprio mito e degli idoli che s’è fabbricato. Primo fra tutti, il federalismo.

Federalismo impossibile È l’araba fenice. Questo mitologico meccanismo di governo da cui i leghisti aspettano la salvezza da quando i suoi primi profeti lo annunciavano, inascoltati, fin dai primi anni Ottanta (ricordiamo Franco Rocchetta, fondatore della Liga Veneta, onestissimo uomo di cultura più che animale politico come l’Umberto). Il Carroccio bossiano ce l’ha servito in tutte le salse: la confederazione di tre Stati teorizzata da Gianfranco Miglio, la secessione pura e semplice, la Padania, la devolution. Ora, più prosaicamente, è in navigazione come progetto di riforma impastoiato nel mercato delle vacche parlamentari. Il che fornirà l’ennesimo alibi per confezionarla un’altra volta ancora come futura promessa elettorale. Diciamolo chiaro: il federalismo, ai caporioni della Lega, serve solo a lucrare voti e tirare a campare. È la terza volta che sono al governo con Berlusconi, e durante l’ultima hanno avuto un’intera legislatura per portare a casa non dico tutto il pacchetto, ma quanto meno la scatola. E invece non hanno fatto

Il Carroccio è diventato un partito come gli altri. Nei tanti centri del Nord che amministra, è ammanicato come tutti con le lobby economiche che dettano legge ai Comuni. niente di niente. Da risposta al bisogno reale di autonomia per quelle piccole patrie e per quelle amministrazioni locali che sono il cuore pulsante dell’Italia - che unita per davvero non lo è stata mai – questo benedetto federalismo è stato annacquato e tradito, immiserito a slogan vuoto grazie al quale il partito padano giustifica la propria ragion d’essere. Cosa succederebbe, infatti, se venisse attuato sul serio? A cosa si attaccherebbero, i Calderoli e i Maroni, per strappare la poltrona di ministri? A nulla. La Lega è già defunta poiché è condannata a promettere all’infinito un impegno che non può mantenere. Pena l’autodistruzione.

Partitocrazia padana Di questo passo il Carroccio è diventato un partito

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come gli altri. Giusto per stare ai fatti recenti: a Roma vota regalìe a industriali assistiti (Alitalia), copre i buchi di bilancio degli amici di padron Silvio (Roma e Catania), è contraria all’abolizione delle Province (demagogica o no, un’idea che avrebbe incontrato il favore degli arrabbiati della prima ora, affezionati alle “nazioni” lombarda, veneta, piemontese, non ai residuati del decentramento sabaudo), non batte ciglio quando Tremonti è costretto a far marcia indietro sui tagli alle scuole cattoliche (ve lo ricordate il Bossi d’antan, l’antipapista nemico dei “vescovoni”?), si appiattisce sulla politica estera del centrodestra, servile sia con gli Usa invasori di Afghanistan e Irak sia con la Russia genocida in Cecenia (e ora pensate al Senatùr che fa visita a Milosevic quando Belgrado era sotto le bombe Nato). Nei tanti centri del Nord che amministra, il Carroccio non è meglio. Ammanicato come tutti con le lobby economiche che in ogni città dettano legge ai consigli comunali, è arrivato persino, nella Vicenza in cui vivo, a votare a favore del Dal Molin Usa perché gli Americani portano “schei”, soldi (ma quando mai: l’appalto se lo sono pappato le cooperative cassaforte del Pd). Altro che “padroni a casa nostra”. E a proposito di soldi, potrei ricordare la vicenda di Credieuronord, la banca “padana” che ha razziato i risparmi di tanti militanti per poi naufragare fra accuse di truffa contro esponenti di primo piano del partito (e poi salvata dal furbetto del quartierino Giampiero Fiorani, amico dell’ex presidente di Bankitalia, don Antonio Fazio, che i leghisti, contraddicendo i loro stessi connotati antropologici, hanno sempre difeso: leghisti per l’“italianità”, proprio così). La partitocrazia, bersaglio preferito delle camicie verdi antemarcia, ha risucchiato la Lega. Facendole perdere l’anima.

Le due anime Un’anima che fin dai primordi è stata ambivalente. C’era quella, letteralmente buonanima, che si ribellava non solo alle oligarchie dei partiti e della grande industria, ma anche alla globalizzazione trionfante e agli sfrenati eccessi della modernità. Era la riscoperta del “piccolo è bello”, dei dialetti, delle tradizioni locali, delle comunità. Ma accanto a ciò c’era l’anima nera, incarnata dal grosso dell’elettorato leghista: padroncini, commercianti e impiegati psicologicamente devastati dall’idolatria del superlavoro e del conto in banca. Intolleranti, gretti, razzisti (ce l’avevano coi “terroni”, poi con gli “extracomunitari”, oggi coi “terroristi” musulma-

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ni), tutto per loro era un problema che al dunque si riduceva alle troppe tasse. Troppe e ingiuste, siamo d’accordo. Ma se le si evade sistematicamente, come fa buona parte del ceto produttivo settentrionale, poi non si può pretendere che lo Stato sia migliore di quello che è. Si lamentano se vengono in ditta le Fiamme Gialle, il fisco oppressore eccetera. Ma è la legge. Sbagliata, certo, ma pur sempre legge. La stessa che è reclamata con la bava alla bocca contro i poveracci, i rom, gli immigrati e i ladri di polli da questi farisei che la infrangono per ragioni di portafoglio. Imparino, piuttosto, che la vita non è solo sgobbare e macinar soldi.

Bassa Lega E tanto meno è fare politica la masturbatoria memorialistica di un passato morto e sepolto. Si rendono conto, gli organizzatori

Una contraffazione dopo l’altra: la Padania, inesistente parto della fantasia di Bossi; lo spirito di libertà che i leghisti si attribuiscono ma che, come per Forza Italia, si riduce a fare quello che gli pare. di feste e sagre in onore della Serenissima Repubblica veneziana, dei Celti (l’ampolla sul Po e trovate simili) e di altri nostalgismi da fissati, che questo loro amore per le radici storiche viene sputtanato in quattro e quattr’otto dagli interessi scopertamente bassi e poltronari dei capi e capetti spediti ad amministrare o a far presenza nella Roma un tempo ladrona? La Lega è di bassa lega, e chi la ammanta di nobili ideali culturali e tradizionali è uno sciocco o un cieco. O, nella peggiore delle ipotesi, si mette al servizio di una mascherata disgustosa. Disgustosa, sì: perché il modello di buon governo di una Venezia dei Dogi, ad esempio, non va smerciato per portar consensi a un partito romanizzato e venduto. Questa è una contraffazione bella e buona. Come lo è la Padania, inesistente parto della fantasia bossiana. Come lo è il supposto spirito di libertà che i leghisti si attribuiscono, quando invece per loro libertà è, come i valorosi alleati di Forza Italia, fare quello che gli pare. Soprattutto non avere la scocciatura del “negher” come vicino di casa, ma poi essere ben contento se se lo ritrova come dipendente nella propria puzzolente fabbrichetta. O volere il divieto di culto per i fedeli islamici, per un mal interpretato concetto di reciprocità nei confronti dei paesi musulmani: se da loro niente chiese, da noi niente moschee. Ma quanti di loro le frequentano, le chiese? E se in alcuni Stati

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a maggioranza musulmana (non tutti, tra l’altro) vige questa restrizione, per quale ragione noi, che ci definiamo “democratici” e in nome della democrazia li invadiamo pure, dovremmo imitarli? Il Carroccio sopravvive a se stesso. Non fatevi ingannare dalle percentuali alle urne. Quando a Pontida o a Venezia i militanti leghisti, con corna celtiche e passione nordica, inneggiano ai relitti di una Lega che non c’è più, a noi pare di essere spettatori di un documentario sulle balene. Che quando è ora di morire, vanno a riva, al capolinea. E il capolinea di Bossi e dei suoi colonnelli è più vicino di quanto essi stessi credono.

(*)Alessio Mannino - giornalista Note: - «È da un anno che il potere teocratico dei vescovoni, gli zuccotti rossi, ci martella sistematicamente: pensassero alle anime, piuttosto che agli affari o alla politica». Umberto Bossi, Ansa, 5 settembre 1997 - «La nuova base è un'opportunità». Manuela Dal Lago (vicepresidente dei deputati della Lega Nord, capogruppo in consiglio comunale a Vicenza ed ex presidente della Provincia di Vicenza), Corriere della Sera, 15 luglio 2006 - "Credieuronord verso la liquidazione. Addio al sogno finanziario della Lega", Corriere della Sera, 8 novembre 2006 - «Berlusconi ha intenzione di togliere le province ma io gli ho detto di no, in primo luogo perchè è una questione di identità». Umberto Bossi, Ansa, 7 dicembre 2008 - "Bossi incontra Milosevic. Chiamerà Kofi Annan", Repubblica, 24 aprile 1999

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ANALISI

Digitale

a chi giova?

Pochi vantaggi (e qualche noia) per gli utenti. Un affare enorme per chi vende i decoder e per le tivù commerciali. Mediaset in testa

S

di Giuseppe Carlotti*

i può essere veramente convinti che il cosiddetto Digitale Terrestre sia una "evoluzione" dell'attuale sistema televisivo? La risposta è assolutamente no: il Digitale Terrestre è un sistema obsoleto, installato "forzatamente" nel nostro paese per creare un nuovo mercato finalizzato alla televisione a pagamento. Manco a dirlo, dietro tutto questo c'è Mediaset, che con il digitale terrestre vuole creare un'alternativa allo strapotere dell'offerta SKY nel settore delle pay-tv. Conflitto d'interesse? Come chiamare altrimenti il contributo di 150 Euro per decoder che il Governo Berlusconi, nel 2004, ha concesso a ciascun cittadino italiano? Nell'era della fibra ottica, delle reti Wi-Fi, dei sistemi mobili UMTS ed EDGE, della televisione "On Demand" su banda larga di Apple, il governo decise improvvisamente di finanziare una tecnologia vecchia e, come vedremo, ancora oggi di difficile messa a punto perché poco (o per nulla) adatta alla configurazione geografica italiana. Nel frattempo, in base al rapporto Eurostat del 2 dicembre 2008, il nostro risulta l'unico paese europeo nel quale la percentuale di famiglie dotate di linea veloce internet-ADSL diminuisce invece di aumentare. Colpa della crisi o più semplicemente delle tariffe di connessione che, manco a dirlo, sono le più care al mondo? Un'espansione rapida delle connessioni internet a banda larga garantirebbe non solo un complessivo progresso infrastrutturale del paese, ma permetterebbe anche di portare nelle case degli italiani la televisione on demand ad alta risoluzione: la vera tecnologia del futuro. Una tecnologia che consente di scegliere il programma preferito all'interno di un archivio e di vederlo come si

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vuole, quando si vuole, al massimo della risoluzione possibile. Eppure il governo, negli anni, ha preferito investire (tanti) capitali sul digitale terrestre. Come dire: gettare soldi dalla finestra invece di contribuire alla crescita effettiva del paese. Come dire: dare il via all'ennesima operazione tesa ad arricchire qualcuno a danno della collettività. Un classico italiano, indubbiamente.

Cerchiamo di capirci qualcosa Con la televisione analogica, il tipo di televisione più diffusa nel mondo, le famiglie italiane per 54 anni hanno ricevuto e continueranno a ricevere fino al 2012 un segnale trasmesso in aria da un trasmettitore che raggiunge un’antenna (solitamente posizionata sul tetto) tramite un'onda elettromagnetica. Quest'onda elettromagnetica permette di trasportare più o meno fedelmente il segnale video in modo da poterlo ricevere sullo schermo televisivo. Con il sistema della televisione terrestre digitale, invece, si trasmette sempre un'onda elettromagnetica che però questa volta trasporta un flusso di bit, un flusso di dati binari simili a quelli di un computer, che rappresenta istante per istante il segnale video originale. Nel

Nel digitale terrestre le frequenze sono potenzialmente infinite. Si crea così un nuovo mercato, che è ancora tutto da conquistare. flusso dei dati trasmessi, oltre alle immagini in movimento e ai suoni, nel caso del digitale terrestre possono essere incorporati dati che rappresentano lettere, programmi software o immagini fisse: una sorta di "televideo" che, in più, dovrebbe essere interattivo, cioè in grado di consentire al telespettatore di "intervenire in diretta" - attraverso il proprio telecomando - all'interno delle trasmissioni alle quali sta assistendo. Il principale vantaggio del digitale terrestre consiste proprio in questo: poter utilizzare tutta la capacità di trasmissione offerta dall'onda elettromagnetica. Con la televisione tradizionale, infatti, ogni frequenza trasporta un solo canale, mentre con le tecniche digitali normalmente si trasportano 4 o 5 canali con qualità convenzionale (simile a quella analogica attuale).

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In sostanza, la ragione del passaggio dal “vecchio sistema” al “nuovo” è tutta concentrata nella possibilità di ampliare il numero dei canali televisivi disponibili: mentre le "vecchie frequenze" erano limitate, sul digitale terrestre sono potenzialmente infinite. In termini di concorrenza si crea di fatto un nuovo mercato da conquistare completamente. In termini di antitrust, invece, una nuova base su cui ricalcolare le posizioni dominanti attuali. Che, magicamente, si ridimensionano di molto: se hai 3 canali su 20 è un conto, ma se hai 3 reti su 1 milione di canali possibili è tutto un altro conto. L’ulteriore vantaggio del segnale digitale, almeno in teoria, dovrebbe essere quello di una ricezione perfetta, senza alcun tipo di distorsione. Il tutto sempre a patto di trovarsi in una “zona coperta dal servizio” e di “aver installato a regola d’arte il proprio impianto di ricezione”. Analizziamo queste due voci.

Cosa significa l’espressione “Zona coperta dal servizio”? Attualmente la copertura del digitale terrestre non è assolutamente completa e in Italia molte zone sono soggette a temporanei black out di segnale. Infatti, mentre con la televisione tradizionale alcuni canali potrebbero essere ricevuti magari non perfettamente ma, seppure disturbati, sempre in maniera accettabile, con il segnale digitale il canale è perfettamente visibile oppure non è visibile affatto: non ci sono vie di mezzo. Questo significa che in molte famiglie italiane che si sono munite di decoder digitale terrestre o di televisione con digitale terrestre incorporato, e che magari abitano in zone di montagna, tutto quello che si riesce a visualizzare su una televisione equipaggiata di decoder digitale terrestre è uno schermo nero. Le disposizioni ministeriali, in proposito, prevedono solamente una stazione di trasmissione per provincia: è proprio questo a creare enormi problemi nelle zone montuose. I ripetitori installati in Italia, di fatto, sono solo una piccola frazione della copertura necessaria. Queste problematiche, secondo la legge, dovrebbero sparire entro il 31 dicembre 2012, data in cui tutti i televisori in Italia dovranno essere muniti di digitale terrestre, mentre il segnale analogico tradizionale verrà “spento”. E nel frattempo? Nel frattempo si è iniziato a spegnere il segnale tradizionale in Sardegna, una regione cosiddetta “test”, passando tutti i canali televisivi sul sistema digitale terrestre. I risultati, ça va sans dire, sono stati disastrosi. Di fatto, la sperimentazione è

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stata frammentata in aree territoriali: si è cominciato con Cagliari per poi allargarsi all’hinterland e solo con quest’ottobre tutto il territorio isolano ha dovuto staccare l’analogico. Tralasciando le immancabili polemiche politiche tra Soru e Berlusconi e limitandoci al fatto tecnico, le emittenti pubbliche e private si sono “prontamente” fatte trovare impreparate: per alcuni giorni sono infatti scomparse dagli schermi delle televisioni sarde prima tutte le reti Mediaset e poi tutte quelle Rai. Ma ciò che è peggio è che il segnale ancora oggi salta sistematicamente e le varie emittenti, cercando di ovviare al problema di ricezione dato dalla configurazione orografica della regione, cambiano continuamente frequenze in digitale, obbligando i telespettatori a risintonizzare continuamente il proprio decoder. Un’operazione piuttosto complicata, non certo alla portata delle persone più anziane, che

Con gli incentivi statali il decoder veniva venduto a 200 euro. E 150 ce li metteva l’erario. Ora che gli incentivi non ci sono più, il prezzo è sceso a 50 euro. Come lo si deve definire questo scarto del 400%? sono state obbligate a chiamare più volte un tecnico antennista, con gli aggravi di spesa che ne conseguono. D’altro canto l’Italia è un territorio geograficamente complicato: questo ce lo hanno insegnato fin dai tempi della scuola. E allora perché non abbandonare la tecnologia del digitale terrestre per utilizzare invece quella del digitale satellitare, la quale garantisce una ricezione perfetta in ogni angolo della penisola e che già da anni funziona perfettamente tanto che sono già milioni i decoder installati nelle case degli italiani? Semplice: perché quei decoder sono tutti marcati SKY, la società che fa capo a Rupert Murdoch, ovvero l’uomo che potremmo anche chiamare Rockerduck, l’acerrimo nemico in affari di Paperon de’ Paperoni-Berlusconi. Ecco allora, a partire dal 2004, fioccare gli incentivi dei governi di centrodestra per l’acquisto del decoder digitale terrestre: se prima non esistevano ragioni tecnico-pratiche per scegliere il digitale terrestre rispetto al digitale satellitare, il buon Silvio ha deciso di “regalarcene” qualcuna in più. Il decoder digitale terrestre, questo sconosciuto. Una “scatola” che, in tempo di incentivi governativi, costava 200 Euro dei quali 150 coperti dallo Stato e 50 a carico dell’acquirente. Oggi che gli incentivi pubblici sono terminati, la stessa “scatola” costa attorno ai 50 Euro. Come potremmo chiamare

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questa differenza di prezzo se non “un ricarico del 400% pagato da noi e dallo Stato”? E subito dopo aver installato decine di migliaia (O centinaia di migliaia? O milioni? È aperta la guerra delle cifre) di decoder digitali terrestri anche in casa di persone anziane che non hanno idea di come utiliz-

“Per estendere la disponibilità di canali si può sempre acquistare qualche pacchetto a pagamento messo a disposizione di Berlusconi...” zarli, ecco puntualmente fioccare le tessere digitali della “pay-per-view made in Arcore”, ovvero i canali a pagamento del circuito “Mediaset Premium”. Un circuito che, nelle intenzioni, dovrebbe rappresentare la vera alternativa a SKY ma che, ad oggi (9 dicembre 2008) conta nel proprio pacchetto base 4 canali in tutto (Disney Channel, Joy, Mia e Steel), offerti alla cifra di 12 Euro al mese. Come per SKY, il calcio si paga a parte e così pure le “prime visioni cinematografiche”. Conveniente? Non proprio. Tralasciando le promozioni in corso, la piattaforma di Murdoch offre attualmente il pacchetto base “Intrattenimento”, che consta di ben 17 canali, includendo a titolo gratuito nell’offerta il pacchetto “News” (altri 14 canali), ed un terzo pacchetto a scelta tra “Bambini”, “Documentari” e “Musica” a 15 Euro al mese tutto compreso. Anche il Gruppo La Sette, per la serie “se non puoi batterli, associati a loro”, ha deciso di scendere in campo sul digitale terrestre con un’offerta di canali più o meno a pagamento facenti parte del progetto “La Sette Carta Più”: la pay-perview progressista. Purtroppo, la crisi economica che affligge il Gruppo La Sette ha suggerito (anche se non ufficialmente) di lasciare che questo ambizioso progetto “veleggi” alla deriva.

Perché occorre “installare a regola d’arte l’apparato di ricezione”? Passare dalla televisione tradizionale a quella digitale terrestre è un’operazione economicamente importante: anzitutto il costo del decoder (dai 50 Euro in su) o di una televisione munita di sintonizzatore digitale incorporato (dai 300 Euro in su) eppoi la procedura di orientamento dell’antenna posta sul tetto, che va fatta da un tecnico specializzato. Già, perché il digitale terrestre “esige” un’antenna perfetta. Le antenne che attualmente sono installate in Italia risalgono in massima parte alla fine degli anni 70 / inizio degli anni 80 e, tra di esse, solo quelle rimaste in perfetto stato sono di fatto in grado di

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ricevere al meglio il segnale di tutti i canali disponibili sul digitale terrestre. In alcuni casi è necessario modificare l'orientamento dell’antenna stessa a cura di un tecnico specializzato (circa 100 Euro), ma in molti altri casi occorre addirittura sostituire tutto l’apparato (dai 300 Euro in su). Una regola di massima è che se i canali analogici si ricevono perfettamente, non dovrebbero esservi problemi di ricezione per quelli digitali. A questo proposito domandatevi: “nel palazzo dove abito si ricevono tutti ma proprio tutti i canali tradizionali in maniera perfetta?” Se la risposta dovesse essere “no”, con il digitale terrestre avrete probabilmente bisogno di orientare l’antenna posta sul tetto, o forse addirittura di cambiarla. Se poi doveste abitare in “zone particolari” o “non coperte dal servizio” ad esempio località montane o simili, anche dopo aver preso tutti questi costosi accorgimenti, potreste non riuscire comunque a visualizzare un tubo (catodico, ovviamente). A quel punto non vi resterebbe che dotarvi di una parabola satellitare ed abbandonare completamente l’idea del digitale terrestre. Almeno fino al 31 dicembre 2012. Poi, chissà.

La questione dell’interattività Un'altra “freccia” all’arco del digitale terrestre dovrebbe essere l’interattività, ovvero la possibilità di interagire con il canale televisivo permettendo ad esempio di intervenire in diretta durante un talkshow, di inviare una domanda in tempo reale durante un telegiornale o di partecipare in diretta ad un quiz a premi. Al di là delle campagne pubblicitarie, nel cosiddetto “mondo reale” niente di tutto questo si è mai verificato. L’antenna, infatti, è un mezzo di ricezione del segnale e non di trasmissione; pertanto, per realizzare la “vera” interattività, occorrerebbe collegare il decoder del digitale terrestre al cavo del telefono oppure ad una linea ADSL di un computer. Inutile dire che questa operazione, estremamente complessa in termini di realizzazione e di utilizzo da parte del singolo telespettatore, è anche sostanzialmente inutile, dato che nessuna emittente è tecnologicamente pronta per implementare i servizi interattivi né lo sarà in tempi brevi. Per tutti questi motivi, da qualche mese non si parla più di “interattività” ma di “contenuti speciali” disponibili su alcuni canali del digitale terrestre. Peccato che tali contenuti speciali non siano altro che una variante (peraltro lentissima, praticamente inutilizzabile) del “Televideo” che da anni è disponibile su tutti i televisori tradizionali, e senza scomodare alcun tipo di tecnologia del futuro.

Tirando le somme Il problema del Digitale Terrestre, dopotutto, non è solo quello politico. Il problema del Digitale Terreste è lo stesso Digitale Terrestre: una piattaforma tecnologica nata vecchia e, per giunta, difficile da utilizzare. Anche guardando al resto d’Europa, infatti, il sistema “DT” non

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sembra aver sfondato: in base all'indagine Eurobarometro "E-communications household", condotta da Tns Opinion & Social Network, consorzio creato da Taylor Nelson Sofres e Gallup, per conto della Commissione Ue, in Italia solo 8 famiglie su 100 utilizzano il decoder digitale terrestre. La media dei 27 Paesi Ue si colloca poco al di sopra, attorno al 12%. Il picco si ha in Svezia, 36%, seguita dalla Gran Bretagna con il 31%. L’efficientissima Germania, in questa speciale graduatoria, riesce a fare persino peggio peggio dell'Italia con il 4% di diffusione e senza il “capro espiatorio generale” Berlusconi in giro a piede libero. Passare dal sistema analogico tradizionale al digitale terrestre comporta una spesa variabile tra i 50 ed i 500 Euro a famiglia, a seconda dello stato del proprio apparato ricevente. Al termine di tutte le installazioni necessarie, sarà finalmente possibile sedersi in poltrona e guardare esattamente gli stessi canali che era possibile guardare con la vecchia televisione analogica, meno qualcuno, più qualcun altro. Infatti sarà (grossomodo) possibile vedere: 1) le tre reti Rai alla quale se ne aggiunge una quarta, Rai Quattro, disponibile solo sul Digitale Terrestre e diretta da Carlo Freccero, il quale si dice tenti di fare miracoli con un budget ridicolo (i risultati consistono nella programmazione dell’intera serie di film dell’Ispettore Callaghan e poco di più recente). 2) Le tre reti Mediaset, più il canale gratuito Iris (teoricamente un contenitore di programmi ad elevato contenuto culturale ed in realtà un cimitero degli elefanti televisivi sostanzialmente inguardabile), più Mediashopping (un discreto canale di televendite). 3) Le reti del gruppo La Sette ovvero La Sette ed MTV (più QOOB, una rete sussidiaria di MTV realizzata con pochi spicci). 4) Una serie di emittenti locali (circa una ventina di canali) dal dubbio valore pratico (ad esempio, che scrive vive a Roma e

Il digitale terrestre forse non sarà una truffa, ma di certo non rappresenta quella “grande finestra aperta sul futuro” che in molti hanno tentato di farci credere. francamente –a parte l’interessante procedura di fabbricazione dell’autentico pecorino sardo e qualche altro documentario sugli usi e costumi locali- non trova quasi nulla di interessante da vedere nella programmazione dell’emittente Sardegna Uno, concentrata quasi esclusivamente sulla cronaca locale). In compenso, passando dalla tv tradizionale al digitale terrestre si perdono una miriade di piccole emittenti locali –nella capitale almeno una ventina di canali: un autentico ed importante tessuto

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connettivo mediatico intra-cittadino- le quali non dispongono della tecnologia o dei capitali necessari per convertire il proprio segnale da analogico a digitale o che, a suo tempo, scelsero di investire nel digitale satellitare e non nel digitale terrestre. Per estendere la disponibilità di canali si può sempre acquistare qualche pacchetto a pagamento messo a disposizione da Berlusconi, con esiti che attualmente appaiono abbastanza frustranti. Quanto ai pacchetti pay per view del Gruppo La Sette - come detto - è meglio stendere un velo pietoso. Tirando le somme, il digitale terrestre forse non sarà una truffa, ma di certo non rappresenta affatto quella “grande finestra aperta sul futuro” che molti ci hanno fatto credere. I costi (sia a carico del privato che dello stato, che poi sono la stessa cosa) sono stati, sono e resteranno ingenti, mentre la qualità del servizio è - nel migliore dei casi - appena paragonabile a quello “tradizionale analogico” dei vecchi televisori. Probabilmente la soluzione ottimale per chi ha sete di televisione e di canali è passare al digitale satellitare di Murdoch/SKY. Ma, anche qui, le note non sono particolarmente liete perché accedere ad un pacchetto di canali appena accettabile (che comprenda almeno il cinema oppure almeno il calcio) comporta una spesa media annuale che parte da 450 Euro circa, al quale ovviamente deve essere aggiunto il costo del canone Rai.

Televisione sempre più per ricchi, dunque E gli altri? Che si rassegnino ai continui black-out di segnale del digitale terrestre… Oppure imparino ad utilizzare molto bene la propria connessione ad internet! Sì, perché - a patto di saperla utilizzare molto bene per aggirare le molteplici insidie di questo mondo virtuale - la connessione ad internet può rivelarsi come un autentico spiraglio di democrazia non solo nel mondo dell’informazione, ma anche in quello dell’intrattenimento.

*Giuseppe Carlotti - scrittore

Approfondimenti - Libro Bianco sul Digitale Terreste a cura dell’AGCOM - Turi/Borroni “La tv digitale terrestre – Manuale per il professionista delle televisioni” – Ed. Franco Angeli - Rivista “Altroconsumo” (vari numeri dal dicembre 2005) - ADUC - Ass.ne per i Diritti degli Utenti e dei Consumatori - Il Sole 24 Ore – 14 agosto 2008 - Giornalettismo – 17 novembre 2008 - www.sardegnahertz.it

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ANALISI

Generazione S.

come solitudine

Lasciati soli con Internet, cellulare e videogiochi i bambini di oggi si sprofondano nell’hi-tech e si allontanano sempre di più dalla realtà. I genitori stanno a guardare, i pubblicitari no di Laura D’Alessandro*

C’

era una volta un bambino che giocava con gli amici in cortile. C’erano una volta i ragazzi del muretto. C’erano una volta i giochi in strada, il nascondino, l’altalena, le corse in bicicletta. C’erano una volta e non ci sono (quasi) più. Oggi c’è l’amico virtuale che lascia messaggi sul muro virtuale. Oggi non si parla: si chatta o si messaggia, o al più si scrive un blog. Oggi il gioco non è quello che si inventa e si condivide con gli altri: è quello che si fa da soli davanti a uno schermo e l’obiettivo è ammazzare più gente possibile. La chiamano generazione digitale, iperconnessa, interattiva, hi-tech, multitasking, ma a ben guardare quella attuale è un insieme di bambini e adolescenti sempre più disorientati e alienati, che vivono per la maggior parte del tempo in casa, che socializzano (se così si può dire) più davanti al computer che nella vita reale, che sempre di più sono in preda all’ansia,alla depressione,a disturbi dell’alimentazione. Gli adulti si illudono di proteggerli dal mondo esterno che fa sempre più paura,ma li lasciano soli davanti a uno schermo con le loro debolezze e incertezze e delegano progressivamente il loro ruolo di educatori. D’altro canto, i bambini giudicano i genitori incapaci di dare loro risposte e non al passo coi tempi, con le possibilità offerte dalle nuove tecnologie. I più piccoli hanno sempre minori occasioni di relazione e confronto e la loro diventa una “socializzazione solitaria”. Un ossimoro per dire semplicemente che si cresce da soli, che le relazioni con l’altro sono simulate anziché vissute, che l’autoreferenzialità la fa da padrone. Davanti al monitor – della tv, del computer, della playstation – tutto diventa virtuale: non stupisce affatto che la maggioranza dei bambi-

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ni dica di non essere spaventata da immagini di mostri, guerra, sangue o disturbata da scene di violenza, volgarità e persino sesso. Rimane in loro il tabù della morte, così come paure diffuse come quelle di essere rapiti o violentati, che guarda caso sono le stesse paure maggiormente generate dai media attraverso i loro morbosi notiziari. Il rifugio per i cosiddetti tecnoager non può che essere la realtà parallela di Internet, il luogo-non luogo del contatto a distanza e delle amicizie virtuali. Uno spazio a prova di adulto, dove però si nascondono non poche minacce, anche da parte degli stessi coetanei. Segno dei tempi moderni è infatti il fenomeno del “cyberbullismo”, che avviene attraverso il cellulare, la posta elettronica o la chat. I motivi sono gli stessi del bullismo tradizionale: desiderio di popolarità nel gruppo, divertimento, noia, vendetta da parte di chi ha subito prepotenze da altri. Ma vuoi mettere usare la tecnologia? Molto più raffinato. Le ricerche e i sondaggi sul rapporto bambini-nuovi media sono tanti e vari, spesso realizzati più per ragioni di marketing che per reale intento sociologico. Ma qualche dato, in effetti, può essere utile per inquadrare il fenomeno. Tanto per cominciare, sette bambini su dieci tra gli under 14 usano il computer – soprattutto per giocare – e altrettanto precocemente imparano ad usare Internet, tra

I bambini e i giovani d’oggi sono multimediali. Ne sanno molto più degli adulti. Ed è proprio qui che nasce il moderno gap generazionale. gli 8 e gli 11 anni. I loro passatempi preferiti sono i videogiochi e la playstation.Tra i ragazzi dai 14 ai 19 anni navigare nel web è ormai una pratica diffusissima, sebbene la quantità maggiore di tempo (due-tre ore al giorno) venga ancora trascorsa davanti la tv. Otto su dieci si connettono abitualmente a Internet e lo fanno soprattutto per consultare motori di ricerca, forum, blog, per vedere video su You Tube, scaricare musica e film e per fare social networking, in altre parole per usare Facebook e simili. L’altro oggetto del desiderio, entrato ormai a far parte della dotazione tecnologica dei bambini italiani, è il telefono cellulare. Sei su dieci hanno un telefonino personale - tra gli adolescenti nove su dieci - e lo usano prevalentemente nel modo tradizionale, ovvero per fare e ricevere chiamate. Sono in aumento coloro che lo utilizzano anche per scattare fotografie e per girare filmati, ma la

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vera passione – una mania tutta italiana, che riguarda anche gli adulti – restano gli sms, i messaggini che tanto hanno contribuito a impoverire il lessico della nuova generazione grazie al fiorire di sigle, abbreviazioni, anglicismi, segni grafici. Non si pensi, tuttavia, che computer e telefonini abbiamo fatto dimenticare la televisione, tutt’altro. Il piccolo schermo è ancora onnipresente nel tempo libero dei piccoli, i quali riescono a fruirne anche mentre sono impegnati in altre due o tre attività contemporaneamente: gioco, disegno, navigazione su Internet, messaggi al cellulare, lettura, studio. Insomma, se ancora non fosse chiaro, i bambini e i giovani di oggi sono multimediali. Soprattutto ne sanno molto più degli adulti ed è proprio qui che nasce il moderno gap generazionale, il cosiddetto digital divide tra genitori e figli.Vale a dire che l’alfabetizzazione informatica e l’utilizzo dei nuovi strumenti di comunicazione assurge a valore che allontana i piccoli dai grandi, che crea divisione anziché condivisione e mette in discussione una volta ancora il ruolo educativo degli adulti. E cosa fanno loro, i grandi, per colmare la distanza? Si informano? Dialogano? Educano? No, pensano di ricorrere ad altra tecnologia. Lo scorso novembre è stata annunciata la creazione di un software che permette ai genitori di controllare praticamente in tempo reale – anche a distanza – tutte le conversazioni dei figli in chat. Il cosiddetto “virtual parent”, messo a punto dal CNR e dall’Università Tor Vergata di Roma, non è un filtro preventivo, bensì un vero e proprio strumento di spionaggio e intercettazione utilizzabile dagli adulti per verificare che i figli non facciano brutti incontri in rete o non diano il numero di carta di credito di papà mentre usano il messenger. L’iniziativa è stata “sponsorizzata” dal Moige (Movimento Italiano Genitori) e anche dalla Commissione parlamentare per l’infanzia presieduta da Alessandra Mussolini. Peccato che vi siano non pochi problemi di privacy, anche se gli “spiati” sono utenti minorenni, e che il sistema venga venduto al costo di 20 euro da un’azienda software di Roma. Una domanda sorge spontanea: perché? È proprio necessario affidarsi a uno strumento informatico (per giunta a pagamento) e improvvisarsi James Bond della Rete per evitare che i propri figli cadano nelle possibili trappole dei nuovi media? Non sarebbe più efficace, oltre che più intelligente, dialogare coi ragazzi, responsabilizzarli ed educarli a un corretto uso della tecnologia e del web? Non è meglio fare il genitore reale piuttosto che quello virtuale? Ma si sa, il tempo degli adulti per la condivisione e il dia-

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logo coi figli, e per la loro educazione in generale, di questi tempi è merce rara. E i bambini, dicono ancora le statistiche, sono sempre più spesso affidati ai nonni, soprattutto da piccoli. Dopo qualche anno, restano soli e diventano autonomi: ricevono la paghetta, possiedono le chiavi di casa e, se hanno l’età per uscire la sera, tornano dopo le 22. Ma soprattutto entrano a pieno titolo nel magico mondo del consumismo, come bersagli privilegiati della pubblicità, e più sono interconnessi e multimediali più sono raggiungibili e influenzabili.“Kid is king”, dicono gli esperti di marketing. Secondo un sondaggio sugli acquisti familiari, il 70 per cento dei genitori ammette di lasciarsi influenzare dai bambini, soprattutto al momento di comprare cibo (snack, patatine e dolci in primis), giocattoli e abbigliamento. Addirittura cambiano marca preferita per assecondare i figli, indipendentemente

Il 70 per cento dei genitori ammette di lasciarsi influenzare dai bambini, soprattutto al momento di comprare cibo, giocattoli e abbigliamento. dal prezzo. E forse il bandolo della matassa sta tutto qui. Consideriamo i bambini per quello che sono, e cioè bambini appunto, o baby-clienti da tirar su nel segno dell’iperconsumismo? Vogliamo tornare a occuparci di loro nel modo in cui meritano o vogliamo continuare a lasciarli soli nel Paese dei balocchi?

(*)Laura D’Alessandro - giornalista Note: - 9° rapporto nazionale sulla condizione dell'infanzia e dell'adolescenza Eurispes-Telefono Azzurro (campione di 5.803 bambini e adolescenti 7-19 anni) Ivi. - Le fonti dei dati qui riportati sono il già citato rapporto Eurispes-Telefono Azzurro e un’indagine realizzata da Nielsen nel mese di aprile 2008 per conto dell’Osservatorio Permanente Contenuti Digitali (www.osservatoriocontenutidigitali.it), su un campione di 8.500 individui >14 anni - Fonte: Doxa Junior, novembre 2008 - AdnKronos del 19 novembre 2008 (http://deputati.camera.it/gabriella.carlucci/rassegna/2008/adn191108.pdf) - Fonte: indagine multiscopo ISTAT “La vita quotidiana di bambini e ragazzi”, condotta su 20.000 famiglie nel mese di febbraio 2008 - Sondaggio realizzato da TNS Infratest nel febbraio 2008 per conto di Trade Business, attraverso 206 interviste telefoniche CATI a genitori 25-64 anni con bambini 2-14 anni

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MUSICA

Motörhead i duri e puri del rock C’è l’impegno politico degli U2: grandi discorsi e raccolte di fondi. E c’è quello di Lemmy & Co: uscire dall’omologazione liberando gli istinti di Alessio Mannino*

B

rutti, sporchi e cattivi. Se al mondo c’è un gruppo musicale che non è mai sceso a compromessi con niente e con nessuno, quello sono i Motörhead. Con quell’umlaut sulla seconda “o” e il nome che richiama le moto – in realtà significa “tossico di speed”, è slang americano – la band britannica è stata sempre associata all’oscuro underground dei metallari duri e puri, balordi e ubriaconi. Un popolo di fanatici di cui il carismatico cantante-bassista, Lemmy, non avrebbe alcun problema a rivendicare per sé come il miglior esercito al servizio della sua ribellione senza causa: il rock’n’roll. I Motörhead, infatti, sono gli estremisti del rock’n’roll. Se avete orecchie delicate, siete vecchi dentro o non capite il perfido umorismo inglese, la loro non è roba che fa per voi. I loro riff vengono dal blues, semplici e ossessivi, con continue citazioni dai maestri degli Anni Cinquanta, Chuck Berry e Little Richard su tutti. Il sound è distorto, potente, grezzo, reso unico dal basso suonato a tappeto, come una chitarra ritmica, e dalla voce, rauca e profonda, che sa di whisky e notti brave. Hanno la velocità e il gusto del nonsense del punk, anzi hanno certamente più cose in comune coi Sex Pistols che non coi Black Sabbath. Ma li uniscono ad un aspetto esteriore tipico del metal (capelli lunghi, chiodo in pelle, iconografia a metà fra il militare e il western). Quando vedete i loro dischi in mezzo a quelli di gruppi metal, potete essere certi che è una forzatura. Loro non sono etichettabili, perché in uno qualsiasi dei loro venti album c’è un miscuglio di rock duro irriducibile e originalissimo. Il tutto, però, col marchio di fabbrica di un’attitudine sanguigna, viscerale e stradaiola. Per questo sono trasversali e amati dai rockettari di ogni tendenza. I Motörhead, in realtà, sono Lemmy, e Lemmy è i Motörhead. Nato in

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Galles nel 1945 col nome di Ian Fraser Kilmister, venne folgorato sin da ragazzino dal rock’n’roll d’oltre oceano. Divenne presto un hippy, bazzicando vari gruppi e facendo anche per un po’ da roadie a Jimi Hendrix. Erano gli anni ’60 e ’70, e lui per guadagnarsi da vivere girava il paese suonando la chitarra («non c’era l’Aids, la gente non moriva così spesso per abuso di droghe ed era veramente un periodo di libertà e di cambiamento. Gli unici momenti in cui ho visto una vera ribellione sono stati gli anni Cinquanta, Sessanta e l’inizio dei Settanta. Il resto potete tenervelo. I ragazzi di oggi assomigliano molto di più a quei genitori a cui, una volta, cercavamo di opporci!... Noi abbiamo cresciuto una generazione di agenti immobiliari, una stirpe di maledetti contabili»1, scrive lui stesso nella sua autobiografia). Entrato per caso nei ranghi di un complesso di rock psichedelico allora abbastanza famoso, gli Hawkwind, imbracciò il basso e cominciò a scrivere canzoni. Fra cui quella che darà il nome al suo gruppo, i Motörhead, fondato nel 1975 dopo essere stato cacciato dagli Hawkwind. Nel giro di qualche anno l’ascesa fu inarrestabile: con la celebre Ace of spades (1980) e l’album live No sleep ‘til Hammersmith (1981), Lemmy e i suoi due compagni,“Fast” Eddie Clarke e Phil “Animal” Taylor, arrivano in cima alla classifica inglese. Fu l’unico momento di gloria commerciale di una band che di commerciale non ha mai avuto nulla. Ma che è diventata un gruppo di culto per tutti coloro che - giustamente - disprezzano le mode.

Fedeli a se stessi «Rocknroll: è divertimento, è ribellione per il puro gusto di farla…. Non è fatto per vendere, è fatto per divertirsi»2. I Motörhead hanno subìto vari cambi di formazione, tornando oggi a essere un power trio col bravissimo svedese Mikkey Dee alla batteria e l’eccentrico Phil Campbell alla chitarra. Hanno, a modo loro, sperimentato, arrivando a usare i violini in 1916 (1991, un pezzo dal testo commovente sulla battaglia della Somme), o i bonghi (la furiosa Assassin, 1998). Aprendosi alle ballate (I ain’t no nice guy, 1992), alcune delle quali con temi inaspettati come la pedofilia (Don’t let daddy kiss me, 1993) o la religione (God was never on your side, 2006). Citando John Lee Hooker nel classicissimo blues acustico di Whorehouse blues (2004) oppure virando verso il punk/hardcore più essenziale, abolendo l’abituale assolo di chitarra in mezzo, con Sacrifice (1995) e Rock out, quest’ultima capolavoro di appena due minuti in puro vecchio stile, contenuto nell’ultimo album Motörizer (2008). E in ogni caso usando profondità, ironia e una smodata spontaneità da ragazzacci mai cresciuti. Ma dopo ben trentatre anni passati senza sosta on the road, macinando concerti su concerti sempre a volumi altissimi – tanto da meritarsi la fama di “band più rumorosa del pianeta” – sfornando dischi che non li hanno certo riempiti di soldi (se ne sbattono allegramente: «sarò famoso, ma non sarò mai ricco. Se avessi un

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milione di dollari al giorno li spenderei tutti in cazzate»3, nello spirito i Motörhead non sono cambiati di una virgola, restando sempre a galla senza tradire se stessi (come? «perché sono brutto. Non mi invitano ai party»4. E senza rinnegare una fede radicale nella ribellione.

Rock’n’roll über alles Ribellarsi, in musica, può seguire due vie. Una è quella tradizionale, dei testi politicamente impegnati e delle iniziative umanitarie. Alla Guccini, o alla Bono degli U2. Senza addentrarsi nel giudizio su quanto siano o non siano ipocriti i musicisti che fanno le prediche dal palco («“Oh, avevo qualcosa da comunicare”. Ma vaffanculo, volevi solo scoparti quella biondona in quarta fila!»5, possiamo solo dire che i “cattivi” Motörhead, dell’“impegno” con ritorno di cassa, se ne fregano. Loro seguono la seconda strada, la più sincera: danno al rock’n’roll un valore assoluto, fine a se stesso, perché solo estraniandosi dai canoni di una società inevitabilmente ingiusta e corrotta, solo sguazzando nel puro piacere degli istinti, soprattutto i più bassi, si può riassaporare qualcosa che assomigli alla libertà. Almeno nel privato. Ma non per questo Lemmy omette di scagliarsi contro la politica e la degenerazione della guerra: «Tony Blair è un pezzo di merda. E poi non ci si può fidare di uno che sorride così tanto»6. «La guerra è la suprema espressione dell’animo umano. Solo che adesso uccidiamo più persone da più lontano. Poi scendiamo a terra e gli diciamo: vi abbiamo liberati!»7. La musica, che in sostanza è un’arte applicata al tempo, immateriale e di puro godimento, può essere una via d’uscita per riappropriarsi della vita, ridotta altrimenti a routine d’automi. La passione musicale, totalizzante, eretta a stile di vita, così come la intende un giovane sessantatreenne Lemmy, diventa così sabotaggio individuale del conformismo di massa. Privo di conseguenze collettive, d’accordo. Ma la vita, fortunatamente, non è solo politica. È anche divertirsi. È anche rock’n’roll. «Le vere rockstar rimangono eterni ribelli e perdenti. Sempre affamati»8. Born to lose, live to win, dicono i Motörhead.

(*)Alessio Mannino - giornalista Note: 1) La sottile linea bianca, Lemmy Kilmister (con Janiss Garza), Baldini Castoldi Dalai, 2004. 2) Parola di Lemmy, Bernard Shaw,Tsunami Edizioni, 2008. 3) Ibidem. 4) Rolling Stone, agosto 2008. 5) Parola di Lemmy, Bernard Shaw,Tsunami Edizioni, 2008. 6) Ibidem. 7) Rolling Stone, agosto 2008. 8) Ibidem.

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USCITI IERI

Jack Kerouac On the

Road

Muoversi, viaggiare, attraversare la vita alla massima velocità. Correre verso l’ignoto. In cerca, senza saperlo, di una patria perduta. di Federico Zamboni

“Avevo spesso sognato di andare nel West per vedere il continente, sempre facendo piani vaghi e senza mai partire. (…) Facemmo una cena d’addio a base di salsicce e fagioli da Riker nella Settima Avenue, e poi Dean salì sull’autobus sul quale stava scritto Chicago e sparì rombando nella notte. Così se ne andò il nostro eroe. Io mi ripromisi di avviarmi nella stessa direzione quando la primavera fosse sbocciata sul serio e avesse dischiuso la terra. E fu così, veramente, che ebbe inizio tutta la mia esperienza della strada, e le cose che stavano per capitare sono troppo fantastiche per non raccontarle.”

O

ggi ci vai in aereo, da New York a San Francisco. Ci vai in dieci ore e con 300 dollari, o anche meno. Chiudi gli occhi sulla Costa Est (cosa li tieni aperti a fare dopo il decollo? per vedere un filmetto idiota che deve andare bene a tutti?!) e li riapri in California. Dalla parte opposta del Paese. Dalla parte opposta del Continente. Magari ti sembra un affare. E magari lo è davvero se l’unico scopo del viaggio è andare fin laggiù per una ragione specifica che prima arrivi e meglio è, e tutto quello che c’è in mezzo, tutto quello che potrebbe esserci in mezzo, è solo una trafila noiosa da superare il più

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rapidamente possibile e senza una minima traccia di vero interesse per nulla e per nessuno. Che te ne importa di tutto quello che non vedi mentre stai seduto sulla tua poltrona (economica sì, ma pur sempre imbottita), di tutto quello che sfila sotto la pancia pressurizzata del Boeing e che resta perfettamente invisibile là sotto, di tutta quella terra coperta di case e di strade e piena di gente che potrebbe parlarti di sé e della sua vita, e tu altrettanto, se solo le dessi la possibilità di farlo? Chiaro: tu stai andando a San Francisco e non c’è spazio per qualsiasi altra cosa. Niente perdite di tempo. Niente divagazioni inutili. Sei un tipo pragmatico, tu. Costi e benefici. Obiettivi e strategie. Ciò che conta è arrivare. Il viaggio è solo uno strumento. Il viaggio è solo un mezzo, non un fine.

On the road. Le cause Jack Kerouac ha 25 anni, quando parte per la prima volta in direzione ovest con l’intenzione di attraversare gli Stati Uniti da un capo all’altro. La guerra è finita da un paio d’anni. Lui non l’ha fatta: si è arruolato ma si è congedato alla svelta, senza mai far parte delle truppe che andavano ad ammazzare e a farsi ammazzare in giro per il mondo, poi si è limitato a una breve permanenza nella marina mercantile, che è bastata a fargli sperimentare il pericolo di un attacco tedesco al largo delle coste irlandesi, ma che gli ha permesso di cavarsela senza danni. Jack, classe 1922, è stato una promessa del football, fino a quando un incidente al ginocchio non l’ha messo fuori squadra e ne ha prosciugato rapidamente l’entusiasmo per il gioco. Jack coltiva il sogno di diventare uno scrittore importante, ma per il momento è ancora in cerca di un proprio stile. Come si dice in gergo, di una propria “voce”: quella particolare intonazione che è ritmo e linguaggio, e che al di là del dato formale rinvia a una particolare sensibilità, a un punto di vista che potrà essere ampio quanto si vuole e produrre le più diverse incarnazioni letterarie ma che resta preciso e riconoscibile. Adesso, nel 1947, Jack è inquieto. Dal 1944 in poi sono accadute molte cose. E allo stesso tempo non è accaduto nulla di risolutivo: ammesso che sia davvero una semina, destinata a dare frutto in futuro, è impossibile dire di che semi si tratti, e quanto si dovrà attendere prima di un eventuale raccolto. Jack non ha completato il suo romanzo d’esordio, il lungo e ancora acerbo The Town and the City. Si è sposato in fretta con Edie Parker e, altrettanto in fretta, ha capito che non era il caso di continuare. A New York ha conosciuto gente brillante e disordinata, che come lui si aggira per la metropoli – e per la propria vita giovane e ingovernabile – in cerca di qual-

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cosa che non saprebbe precisare ma al quale non è possibile, non è pensabile, rinunciare. Ha conosciuto Allen Ginsberg, William Burroughs, tutto un sottobosco di individui che vivono al confine, instabile, tra boheme e malavita, tra anarchia intellettuale e delinquenza spicciola. La droga si trova ovunque. La benzedrina, di cui Jack abuserà a tal punto da ritrovarsi, già a 23 anni, con una tromboflebite alle gambe, è praticamente legale. Dammene dell’altra, allora. Dammene una bella scorta che mi faccia stare tranquillo. Why not, my friend? Kerouac ha voglia di andare, di sentirsi in movimento, di sfuggire ai vincoli di una vita che gli va stretta. Slanciarsi sulla strada per sostituire la noia di quello che conosce già con le sorprese di quello che ignora. Mettersi in viaggio è una necessità, come quella di un prigioniero che fa di tutto per fuggire anche se non ha la minima idea di quello che farà dopo essere evaso. Mettersi in viaggio verso ovest – verso il lontano ovest americano, verso il Far West che evoca i sogni e le avventure e l’infinita incontenibile libertà dei pionieri – è un ideale in cui la spinta dell’individuo si ricongiunge, si amalgama, alla storia collettiva. Chi ha più diritto di definirsi un americano autentico? Chi se ne sta rinchiuso nel suo ambiente di nascita, come chi restò nella Vecchia Europa, o chi non esita a partire verso l’ignoto, convinto che l’unica maniera di trovare il proprio destino sia di andarselo a cercare e di costringerlo così a venirti incontro, in qualche punto imprecisato della pista?

On the road. Le conseguenze Divenne un mito il libro, On the Road. Divenne un mito il suo autore, Jack Kerouac. E sulla scia dell’uno e dell’altro venne mitizzato l’intero gruppo di persone che condividevano quel modo di vivere vagabondo e fremente. Erano solo un pugno di individui, contraddittori e insofferenti di qualsiasi limitazione; si ritrovarono a essere presentati come un fenomeno collettivo, addirittura generazionale: la Beat Generation, appunto. La definizione è di Kerouac, l’esagerazione è dei media. Rivendicando esplicitamente la propria diversità, la propria alterità, rispetto alla cultura dominante, vennero attaccati a loro volta. La ricerca di essenzialità fu liquidata come immaturità esistenziale e come fragilità artistica. Ancora prima che On the Road uscisse la reazione dell’establishment era già scritta. Accorata come un messaggio alla nazione. Ipocrita come un discorso elettorale. Gioventù bruciata, quei ragazzi scapestrati e improduttivi. Scrittori mediocri, che confondono il disordine di una prosa torrenziale con la conquista di un linguaggio più libero e significativo. Che si illudono di aver tracciato delle nuove rotte solo perché navigano a caso, ed evitano accuratamente di attraccare nei porti. All’epoca il rifiuto si rivestì di questo. Dell’ottuso “buon senso”, impastato di alacrità capitalista e di abnegazione protestante, di chi predicava il boom economico e non vedeva l’ora di godersi il nuovo benessere del dopoguerra, che si lasciava indietro in un sol colpo le ombre del conflitto e quelle della Depressione. Oggi, se possibile, il terreno è ancora meno favorevole. L’egoismo è lo stesso, ma si è saldato al disincanto collettivo di tutte le speranze che sono appassite (che sono state fatte appassire) dagli anni Sessanta in avanti.

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Oggi si può fare di tutto, ma non ci si ristora con niente. L’emozione è superficiale. È adrenalinica. Si vive la vita che si è trovata e non la si mette più in discussione, come avveniva nel remoto-demonizzato-perduto Ventesimo Secolo in cui si vagheggiavano le rivoluzioni e le ideologie erano nel pieno delle loro forze. Oggi si vive la vita di tutti e non si aspira a cambiarla. Si spera solo di viverla a una maggiore velocità, con qualche vantaggio supplementare, con un sovrappiù di comfort. Soldi e successo, se possibile. O almeno un exploit ogni tanto. Una cosetta di lusso. Un rave. Una vacanza invernale ai Tropici: Maldive last minute, guarda le offerte on line, paga comodamente con la carta di credito.Kerouac, e i suoi compagni di strada, sono di un’altra pasta. Non aspirano a farsi largo per diventare dei vip. Semplicemente, definitivamente, non gli interessa. L’unica residua legittimità che Jack riconosce al sistema è quella di concedergli la patente di grande scrittore. Pensa, o si illude, che la letteratura possieda una tale forza intrinseca da affermare le proprie ragioni in qualsiasi contesto. La gente leggerà. La gente capirà. I grandi scrittori annunciano verità sconosciute. Profeti di una palingenesi. Araldi di un avvento. La suggestione è potente. Se il sogno di qualsiasi ragazzino è scappare di

Libertà, libertà, libertà. Incontri e separazioni, disagi forti ed euforie improvvise, generosità da illuminati e impuntature da adolescenti. casa e girare il mondo, il messaggio di Kerouac è che non c’è nessuna ragione per cui quel sogno debba svanire. Butta quattro cose in uno zaino e mettiti in viaggio. Autostop, treni merci, qualsiasi mezzo che ti dia modo di andare. Capisci, vero? On the road, sulla strada. Il flusso che prevale su tutto il resto, che cancella il prima e il dopo, che spazza via ogni obbligo, e quindi ogni ansia, di dare agli avvenimenti un significato prestabilito, di assicurare un collegamento logico tra le premesse, inutili e persino castranti, e le conseguenze, tanto più interessanti quanto più imprevedibili. Autostop, lavoretti, incontri bizzarri. Amori che si accendono in un attimo e che si spengono in una sera. O che comunque si perdono, non appena i reciproci desideri smettono di vibrare all’unisono. Libertà, libertà, libertà. Incontri e separazioni, disagi di ogni tipo, euforie improvvise per una parola, per uno sguardo, per un pasto insperato o uno scenario sorprendente, generosità da illuminati e impuntature da adolescenti. Messi nei libri, raccontati nei libri, anche i momenti peggiori perdono gran parte del loro peso e assumono un che di accattivante. La capacità stessa di rievocarli li ammansisce. Il potere dell’autore di (ri)crearli a tavolino li priva di un’effettiva pericolosità. Sono bestie ormai addomesticate, che in nessun caso potrebbero aggredire il loro domatore. E Kerouac appare-rifulge-svetta come l’inesausto sperimentatore, l’insuperabile eroe di ogni umana emozione, capace di inabissarsi infinite volte, e infinite volte riemergere. La sua curiosità sembra inesauribile. La sua meraviglia (di un bambino? di un santo?) addolcisce ogni evento e

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lo colloca, trasfigurandolo, in una narrazione leggendaria. La lunga attesa di un passaggio che non arriva diventa il prologo di un passaggio che arriverà. Gli errori e i malintesi e gli stessi litigi sono sfaccettature opache di un diamante che un attimo dopo, con una minuscola provvidenziale risolutiva rotazione del polso, o del mondo, tornano a brillare in nuovi accordi di comprensione e amicizia e benevolenza. La sofferenza, il disorientamento, l’angoscia: temporali passeggeri che quando ne parli (ne scrivi, ne leggi) sono già alle tue spalle. Certo. Scrivere rende eterno solo il bene. Il male, invece, lo chiude a doppia mandata tra le righe delle sue pagine.

On the road. L’epilogo/L’epitaffio.

On the road on the job Kerouac scrisse il libro in tre settimane su un rotolo da telescrivente. Dice la leggenda...

On the Road uscì più di cinque anni dopo che la sua prima versione era stata completata. Un’attesa esorbitante, per ottenere il “passaggio” decisivo verso la sua meta più ambita: imporsi come scrittore e riscattare, in tal modo, tutto ciò che non era stato capace di realizzare (di armonizzare) dentro e fuori di sé. Jack divenne uno scrittore acclamato, ed era quello che aveva sempre sognato. Ma a poco a poco scoprì che nemmeno un’affermazione così eclatante bastava a portargli la pace interiore di cui aveva bisogno. Il “sogno americano” si era realizzato, ma lui non era ancora felice. Il “sogno americano”, incentrato sull’idea distorta che il successo e il denaro siano i massimi obiettivi di ogni esistenza, non bastava a riempire il suo cuore di europeo trapiantato Oltreoceano, scagliato dalle pessime ragioni dell’emigrazione in un mondo che non era il suo e al quale non avrebbe mai potuto appartenere fino in fondo. La sua febbrile voglia di andare era, al di là di tutte le apparenze, la voglia di tornare a casa, di approdare a un luogo che nella realtà non esisteva ma di cui Jack avvertiva comunque la mancanza. Un luogo che non era certo la natia Lowell nel Massachusets, troppo difettosa e ristretta per essere idealizzata, quand’anche rigenerata e ripulita da ogni scoria e da ogni piccineria (nonché da ogni brutto ricordo); un luogo che sostituisse la patria che era stata dei suoi avi e che, dolorosamente, insanabilmente, era incisa nel suo inconscio. La patria perduta – perduta ancor prima di nascere – dove nessuno ti disprezza perché in famiglia parli francese (“maledetto di un canuck!”) e dove la profondità dell’esistenza è un dato di fatto, amalgamato in ogni singolo dettaglio della vita individuale e collettiva. Un dato di fatto: non una chimera da inseguire, invano, da un capo all’altro di un Paese smisurato, troppo grande e giovane e frammentato per dare a chi ci abita la stabilità necessaria a sentirsi parte, prima ancora che di uno stesso futuro e di uno stesso destino, di uno stesso passato. Di una stessa Storia.

Federico Zamboni

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CINEMA

Western

Samurai

Meglio l’Estremo Oriente dell’Occidente? Meglio i guerrieri giapponesi dei nostri? Meglio non farsi incantare. Neanche al cinema

di Ferdinando Menconi

L

a prima impressione è quella del solito stupro hollywoodiano della storia, destinato a concludersi nella banalmente abituale cinematografica superiorità dell’oriente sulla civiltà occidentale, e non si è troppo lontano da ciò: la storia viene violentata “ammischiando” guerre e cronologie, nonché dando agli statunitensi ruoli che non ebbero; l’oriente (almeno quello immaginato) si rivelerà superiore all’occidente. Andando, però, oltre la patina hollywoodiana si scopre che questa interpretazione non si estende all’Occidente, quello con la O maiuscola, quello che eravamo e non siamo più, e se lo si legge in questa maniera, come un’allegoria ben curata del mondo attuale il film ha molto da offrire alla riflessione. Allegoria della contemporaneità che fa centro fin dalle prime scene, l’eroe del film è estremamente attuale. D’accordo: gli Stati Uniti hanno appena cento anni e lui, Nathan Algren, è capitano del mitico 7° cavalleggeri, quello che Custer ha portato al macello di Little Big Horn, ma è descritto come potrebbe essere descritto, in altri film, un reduce del Vietnam, sbandato e alcolizzato, perseguitato da incubi di una guerra dove ha visto di tutto, morti inutili e massacri di civili, dove ha perso l’onore e il senso della vita; in quanti film sul Vietnam ci siamo trovati di fronte a personaggi cosi? Altro elemento di modernità è il mestiere di Algren: “testimonial pubblicitario” per la Winchester, come se un reduce dell’Iraq, pubblicizzasse l’M16; che ci volete fare, l’America anche nell’ottocentosettantasei era già un pezzo avanti! Va, però, notato che fra i “jingles” pubblicitari nel baraccone da fiera - centro commerciale

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ante litteram - oltre a Garryowen, famoso inno del 7°, c’è anche The bonnie blue flag, inno della Confederazione, ad una decina d’anni dalla sua fine gli USA erano già riusciti a metabolizzare la guerra civile, anche se va precisato che più che una guerra civile fu una guerra di secessione. Una vita allo sbando, e cosa può andare a fare uno yankee che ha visto solo guerra? Ma il consigliere militare, che altro? Solo che non lo farà per la CIA in Nicaragua, bensì nel Giappone della “Rivoluzione Meiji”, dove troverà una nuova guerra civile - quasi di secessione ad un certo punto nella storia reale, ma non nel film - e dei “selvaggi arretrati” da combattere, oltre all’uomo che, costringendolo ad un massacro di nativi americani, gli aveva tolto il suo onore di ufficiale di cavalleria e regalato gli incubi tipici del reduce dal Vietnam. Certo nell’ottocento statunitense della cavalleria resta ben poco degli antichi ideali, anche se magari questi ideali sono sempre stati rispettati nella letteratura più che nella realtà, vivi più nel ricordo che nel momento in cui erano… un po’ come il mito samurai. Algren, figlio di una nazione giovane di cento anni proiettata verso il futuro, intraprenderà il suo viaggio ad

Le arti marziali occidentali valgono tranquillamente quelle orientali. Marte non è una divinità scintoista. Il “Baratero” dei gitani non è meno temibile ed efficace del Bushido. oriente verso una nazione antica che vuole proiettarsi nel presente, una nazione che non capisce, precipitata in una guerra civile dove entrambe le fazioni combattono per l’Imperatore. Magari una più per le proprie tasche che non per la nazione e, come spesso capita, è questa quella ad essere nella “legalità”. Una fazione pronta a vendere il proprio paese alla straniero, gli yankee, per un pugno di dollari… in realtà in Giappone all’epoca c’erano Francesi, Inglesi e Olandesi, ma se gli statunitensi ci tengono a fare la figura delle carogne anche quando potrebbero evitarselo, lasciamoglielo fare, sono credibilissimi nella parte. Questa fazione, però, può far uscire il Giappone dal medioevo e farlo entrare nel presente, mentre l’altra rimane arroccata nelle antiche regole dell’onore, fino a

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rifiutare anche le armi da fuoco, dettaglio assolutamente falso, però gli statunitensi sono abituati a rivoltare la storia come loro più aggrada, e non solo al cinema. Nel film però almeno un senso simbolico lo giustifica e allora godiamocelo questo film, con la consapevolezza che non è una lezione di storia, ma che lezione può essere per altri versi.

Combattere con onore Il pregiudizio yankee verso il Giappone fatto da gente che ridicolmente combatte ancora in armatura non è, giustamente, condiviso dagli autori del film che attribuiscono ai Nippo una civiltà molto avanzata quando gli irlandesi giravano ancora in perizoma… altro bel falso storico, che apre ad un altro pregiudizio, quella della superiorità del sol-levante in tema di onore, spiritualità e di arti marziali. Un intollerabile pregiudizio, ma almeno in tema di onore gli autori sapranno riscattarsi. In tema di capacità di combattimento, molto meno, e saranno anche contradditori.

Più che alla superiorità morale della cultura Samurai, il film rende omaggio ai guerrieri che quella tradizione l’hanno saputa conservare. Nel primo scontro il nostro consigliere militare, mandato alla disfatta con un esercito di coscritti, male armati con residuati ad avancarica della guerra di secessione e peggio addestrati, fa strage di nemici con la sua sciabola di ordinanza; e non c’è da meravigliarsi, il braccio di un veterano ben addestrato vale tranquillamente quello che tiene una katana. Le arti marziali occidentali valgono tranquillamente quelle orientali, Marte non è una divinità scintoista, e quando i portoghesi, non certo famosi fra i popoli guerrieri, arrivarono in Giappone, fecero un bel numero di vittime fra i samurai: e non solo gli ufficiali armati di spada, ma anche i marinai da bettola coi loro coltellacci. Il coltello non lo si usa a casaccio, va saputo usare, magari il Dojo migliore dove impararlo a Roma si chiamava Regina Coeli, una volgare prigione dove non si praticava l’arte del giardinaggio per completare la formazione del guerriero, ma dove la formazione era comunque eccellente. Il Baratero è una via al combattimento di non minor efficace efficienza del Bushido. È che mentre in Giappone

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per secoli si è affinata al massimo la tecnica sulla stessa arma, da noi c’è stata una continua evoluzione delle armi, che non avrà dato il tempo per affinarne al massimo la tecnica d’uso, ma che ha dato un’elasticità di reazione contro nuove armi che al Samurai è invece mancata, facendolo cogliere di sorpresa da tecniche da vicolo dietro la taverna del porto. Naturalmente gli autori seguono il pregiudizio, condiviso dalla massa, della superiorità nipponica, e il nostro eroe diventa all’improvviso un diversamente abile nell’uso della spada, anche se ci metterà solo una stagione per rivelarsi all’altezza dei migliori. La sua permanenza nel campo dei ribelli, in nome dell’imperatore e della tradizione, ha comunque importanza per fargli ritrovare qualcosa che ha perso. Gli autori qui non sostengono tanto la superiorità morale della cultura Samurai rispetto all’uomo bianco, quanto il fatto che i

Il capitano Algren riuscirà a ritrovare se stesso. Vedendo come i giapponesi sanno seguire la loro tradizione, egli ritroverà la via per la propria. samurai questa cultura hanno saputo conservarla, che presso di loro resta spazio per tradizioni ed onore, non solo per ipocrisie di comodo. Algren è sorpreso per il rispetto che lui, nemico, riceve e quando manifesta il suo stupore per essere stato alloggiato presso la donna cui aveva ucciso il marito in leale combattimento ed esservi stato trattato con cortesia (anche qualcosa di più, prima della fine del film), si sente rispondere secco: “I guerrieri da voi non ucccidono?”. Il capitano del 7°, il veterano di Custer, di cui i samurai hanno fatto mito per l’essere caduto con pochi peggio armati contro molti, ma di cui non colgono l’arrogante incompetenza criminale, vivendo fra i guerrieri del sole che sorge esce dall’alcol e comincia a seguire la loro via ma, e qui sta la differenza con tanti film sui samurai e sull’oriente estremo, non si realizza in quella cultura riconoscendone la superiorità. Riuscirà invece a ritrovare se stesso, ritroverà l’Occidente, non seguirà le tradizioni altrui: ma vedendo come altri sanno seguire la loro tradizione ritroverà la via per la propria, una sua Tradizione che nell’ultima battaglia rivendicherà orgogliosamente come secolarmente più antica, ricordando la battaglia in cui l’Occidente nasce ed affonda le sue radici, con buona pace di chi le vorrebbe collocare in Palestina.

Apologia del samurai. Eppure... Il film è certo sbilanciato nel vedere nel Samurai il bene quasi

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assoluto. Quando - grazie anche a nuove e inaccettabili leggi che vietano al Samurai il porto della spada (magari poi il regista è invece contrario al porto d’armi in USA, e noi in Europa è da tempo che è finito il simbolo di libertà che era il porto della spada… e non solo il simbolo) - dei coscritti, di certo di umili origini, umiliano pubblicamente un samurai, il film li condanna moralmente … ma quante volte in passato era stato l’inverso, quante volte il samurai grazie al lungo addestramento alla spada aveva umiliato il plebeo costretto al lavoro e incapace alla difesa. Ora che però è arrivato anche in Giappone il dirompente potere democratico della polvere da sparo, pochi

Il viaggio di Algren è concluso. Non lo è invece il viaggio del Giappone verso la modernità: saprà salvare la sua anima, o finirà nelle mani dei mercanti stranieri? mesi di addestramento e qualsiasi lavoratore è in grado di fermare la sciabola del nobile. Senza polvere da sparo nessuna rivoluzione sarebbe stata possibile. Anche la tesi che sia arma da vili di fondamento ne ha poco. Ci vuole più coraggio a caricare una fanteria di contadini armati di picche o a saltar fuori da una trincea del Carso o di Fiandra baionetta in canna sotto il fuoco delle mitragliatrici? Il coraggio, però, non mancherà certo ai Samurai nell’ultima disperata battaglia, chiave di tutto il film e ottimamente girata. Cavalli e spade contro Howitzer e Gatling (obici e mitragliatrici). Uno scempio, un massacro annunciato. Ma non alla maniera di Custer, come il capo Samurai Katsumoto propone con un sorriso, ma come alle Termopili, come replica con orgoglio Algren, riappropriandosi delle sue radici guerriere, quelle di um Occidente che le possedeva già secoli prima che il Giappone le scoprisse.

Poi comincerà un’altra guerra Il viaggio di Algren è concluso. Ha ritrovato se stesso, al di là delle guerre civili, al di là dei massacri di innocenti, ha ritrovato la propria tradizione. Il suo viaggio a oriente lo ha portato ad ovest, ma ovest è la rotta che dalla California porta al Giappone: basta saper andare oltre, oltre soprattutto il fascino esotico e superficiale delle tradizioni altrui; basta saper trovare il coraggio di riscoprire le proprie. Non finisce però il viaggio del Giappone verso la modernità: saprà salvare la sua anima, o finirà in strangolatrici mani finanziarie straniere per il tornaconto di un’oligarchia di mercanti… che naturalmente nel film sono, giustamente, rappre-

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sentati in modo spregevole e così percepiti e odiati dal pubblico… ma perché allora il pubblico quando esce dai cinema li applaude e li vota? Per fortuna nel film c’è un Imperatore e ci sono soldati, non elettori-spettatori del cinemino della politica. Soldati che di fronte al sacrificio, in una spettacolare carica eroica degli odiati samurai ne scoprono gli antichi valori, che però sono anche i loro valori, l’anima del Giappone stesso, e sanno raccoglierli e farli loro, così come l’Imperatore che umilierà il mercante. Se andare avanti verso il progresso, la modernità è inevitabile, la tradizione è irrinunciabile, come in fondo viene riassunto nell’incisione sulla spada che il capo dei samurai, Katsumoto, dona ad Algren: “Appartengo all’uomo in cui la vecchia via si è congiunta alla nuova”. Questa è la lezione individuale e collettiva che si può trarre dal film, perché sotto una patina Orientale c’è una forte sostanza Occidentale, che emerge anche nel modo in cui Algren aiuta a morire Katsumoto di spada col rito del Seppuku, Algren lo fa in maniera che pare più romana che nipponica. A livello individuale c’è l’invito a una difficile ed anche dolorosa ricerca di se stessi, che non può esser la sola realizzazione personale, ma che deve svilupparsi attraverso un ritrovamento del proprio io collettivo che si snoda, a sua volta, attraverso le generazioni passate e future, in una parola la Tradizione. Quella vera, quella antica, quella propria: non gli esotismi di tradizioni altrui o i tradizionalismi che vengono spacciati per radici. A livello collettivo, per l’Europa come è stato per Algren, c’è da riuscire a superare gli scempi di guerre civili e di massacri di innocenti, superarli non dimenticarli, smettendo però di andare orgogliosi della vergogna e ritrovare l’antico spirito, che non è né mercantile, né finanziario.

Ferdinando Menconi

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di Alessio Di Mauro


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