o
ZO UZ BR A
t via te e in za ov tro iz pr os er e ln lv l Da po ere 2 ie gg ta/ er ru ies ac st ch M r di In pe
ISSN 2035-0724
Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 2 - numero 9 - Giugno 2009
Mensile Anno 2, Numero 9
€5
Direttore politico
Massimo Fini Direttore responsabile
Valerio Lo Monaco
Fiat: COMPRARE TUTTO SENZA UN SOLDO Fini: BERLUSCONI CORRUTTORE. E ORA? Metapolitica: LOTTA DURA (ATTRAVERSO LA CULTURA) Utilitarismo: LA RADICE DELLA FOLLIA OCCIDENTALE Il film: TRECENTO, PER L’ONORE E PER LA PATRIA
Anno 2, numero 9, Giugno 2009 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com) Art director: Alessio Di Mauro Hanno collaborato a questo numero: Alessio Mannino, Lucrezia Carlini, Giuseppe Pennisi, Francesco Bertolini, Eduardo Zarelli, Simone Olla, Giuseppe Carlotti, Matteo Orsucci Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Progetto Grafico: Antal Nagy Mauro Tancredi La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000 Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008 Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com
Mills! (Altro che Noemi...) di Massimo Fini
La nostra strada. E perché. di Valerio Lo Monaco
Ragionevolezza: la madre di tutti gli inganni di Federico Zamboni
Abruzzo: la verità sotto le macerie di Lucrezia Carlini
La crisi e la critica della ragione economica di Eduardo Zarelli
Fiat Lux sulla Fiat di Giuseppe Carlotti
La grande illusione di Giuseppe Pennisi
Referendum. Una strategia liberticida di Alessio Mannino
La bottiglia e la brocca di Ougadougou di Francesco Bertolini
E impariamo a contare le stelle di Simone Olla
Borderline: Eccomi, morte che dai l’oblio di Matteo Orsucci
Usciti ieri: Persuasione quasi occulta di Valerio Lo Monaco
Musica: A Dio quel che è di Dio Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti. Chiuso in redazione il 27/05/2009
di Federico Zamboni
Il film: Và e dì agli spartani.. di Ferdinando Menconi
1 4 7 10 14 26 34 37 41 43 47 52 55 58
FINI
Mills! (altro che Noemi...)
ll'epoca in cui fu varato il "lodo Alfano", con l'avallo e la firma di quel Re Travicello che risponde al nome di Giorgio Napolitano, noto nella quarantennale vita politica che ha preceduto la sua ascesa al Quirinale, solo per un'inquietante somiglianza con Umberto di Savoia, scrissi sul Gazzettino che quella legge infame, che viola in modo sfacciato il cardine stesso di una liberaldemocrazia, cioè l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, sarebbe servita a Berlusconi fino a un certo punto. Se infatti il Tribunale di Milano avesse condannato l'avvocato inglese David Mills per essersi fatto corrompere con 600 mila dollari da Berlusconi per rendere falsa testimonianza in alcuni processi in cui il Cavaliere era imputato, la posizione del premier sarebbe stata, ovviamente, quella del corruttore, anche se per il momento non perseguibile penalmente. È quanto puntualmente avvenuto. Mills è stato dichiarato corrotto e, implicitamente, Berlusconi corruttore. Il presidente del Consiglio si è difeso al suo solito modo. Ha gridato che la sentenza è «una vergogna, uno scandalo, contraria alla realtà, emessa per giunta da parte di un giudice ricusato » (dimenticando che la Cassazione ha rigettato la sua istanza di ricusazione). Si è detto disposto a giurare la propria innocenza «sulla testa dei miei figli». Ha parlato di «giustizia a orologeria» perché le motivazioni sono state depositate prima delle elezioni europee. Ancora: ha affermato che i magistrati di Milano sono «l'altra faccia di un Paese che ha nei miei confronti solo odio politico e invidia» e ha minacciato un intervento in Parlamento dove «dirò finalmente quello che ho da dire su certi magistrati». Un bagaglio di affermazioni gravissime, nel loro complesso e
1 - WWW.ILRIBELLE.COM
MASSIMO
A
di Massimo Fini
MASSIMO FINI
prese una per una, quanto illogiche e sconclusionate, cui però il cittadino italiano non fa quasi più caso tanto vi è abituato. Se toccasse all'imputato giudicare i propri giudici, e non viceversa, nessuno sarebbe mai colpevole. Lo stesso se bastasse giurare la propria innocenza sulla testa dei figli. Solo gli sterili e gli infecondi avrebbero qualche possibilità di finire in gattabuia. Se i giudici dovessero tener conto delle infinite scadenze elettorali italiane non potrebbero mai emettere una sentenza e in ogni caso i magistrati di Milano hanno depositato le motivazioni entro i 60 giorni previsti dalla legge. Se ci avessero messo più tempo - non per il processo Mills naturalmente, per qualche altro procedimento - sarebbero stati accusati di essere dei "giudici lumaca" e l'ineffabile ministro di Grazia e Giustizia Angiolino Alfano avrebbe mandato i suoi ispettori. In quanto alla minaccia di andare in Parlamento "per dire finalmente quello che ho da dire su certi magistrati" significherebbe trasformare un processo penale in un processo politico per autoassolversi (con una sovrapposizione del potere esecutivo e legislativo su quello giudiziario) come fece Mussolini all'epoca del delitto Matteotti e come tentò di fare Bettino Craxi quando fu preso con le mani sul tagliere dai magistrati di Mani Pulite. Ma Berlusconi ha fatto anche qualcos'altro, di un poco più astuto, astuzie da magliari naturalmente: ha accostato il "caso Mills" al "caso Noemi". E la sinistra e i suoi giornali ci sono cascati immediatamente. Per giorni e giorni hanno insistito sul "caso Noemi" tralasciando la sentenza Mills. È come se uno si occupasse di un adulterio quando c'è di mezzo un omicidio. Una cosa sono infatti i comportamenti privati del premier che, se non si concretano in reati, dovrebbero essere fatti suoi, come quelli di ogni altro cittadino, altra è la sentenza di un Tribunale che, sia pur in primo grado, ha accettato che il presidente del Consiglio ha corrotto un testimone perché dichiarasse il falso. Questo lo capisce anche un bambino, purché non sia di sinistra. La sentenza Mills è devastante non solo in sé, perché ha accertato che Berlusconi ha commesso un reato gravissimo, ma perché, attraverso le testimonianze mendaci dell'avvocato inglese il Cavaliere è uscito assolto da una serie impressionante di reati: corruzione della Guardia di Finanza, violazione della legge sulle concentrazioni editoriali (caso Telepiù), finanziamenti illeciti per 10 miliardi all'allora segretario del Psi Bettino Craxi, occultamento di società offshore della Fininvest con prelievo in contanti di 100 miliardi, in barba al Fisco italiano, così occhiuto con i comuni mortali. Per molto, molto meno, per non aver pagato i contributi della colf o per aver lucrato sulle note spese, negli Stati Uniti e in
2 LA VOCE DEL RIBELLE
Gran Bretagna uomini politici, che non avevano le responsabilità di Berlusconi, hanno visto stroncata la loro carriera e ministri sono stati costretti a dimettersi da un giorno all'altro. Da noi invece Berlusconi resta al suo posto. E la sinistra preferisce occuparsi di Noemi. Si dice che lo faccia perché è convinta che il "caso Noemi" tolga più consensi al Cavaliere del caso Mills. Il dalemiano Nicola La Torre, capogruppo del Pd al Senato, a proposito della sentenza Mills ha detto: «C'è il rischio che quello che Berlusconi ha perso con la storia di Noemi lo riguadagni ora con questa vicenda». A parte che non si capisce assolutamente, almeno secondo la logica di un Paese appena normale, perché un Presidente del Consiglio accusato di corruzione da un Tribunale dello Stato di cui egli è uno dei massimi rappresentanti dovrebbe guadagnare consensi invece di perderli, questo non è un bel modo di ragionare. Non si tratta qui di giocare al "cui prodest" ma di affermare principi fondamentali e irrinunciabili. Ma questo alla sinistra non pare interessare. E probabilmente non interessa nemmeno al popolo italiano che si sta sempre più confermando un popolo di bacchettoni, di guardoni, di gossippari e, soprattutto, di sudditi ignoranti che non sanno più distinguere cosa è importante e cosa non lo è o lo è molto di meno.
Non ce ne frega niente di...: il caso Noemi *** visita del Papa a L’Aquila ***** l’influenza suina *** lo sciopero della fame dei Radicali **** Pannella *****1/2 Bonino ***** la Ferrari che lascia la F1 ***
Massimo Fini
3 WWW.ILRIBELLE.COM
La nostra Lo Monaco
strada. E perché Non basta avere ragione e sentirsi ribollire il sangue, per cambiare il mondo. Bisogna avere la capacità e la pazienza di diffondere le proprie idee, fino a che non attecchiranno
I
di Valerio Lo Monaco
lleciti, corruzioni, appropriazioni indebite, condotte tutt'altro che corrette e lineari ci sono sempre state. Fanno parte della natura dell'uomo. Di alcuni uomini. E istinto prettamente umano vuole che tali cose siano estirpate dalla collettività. Con le buone o con le cattive. Da diverse email, commenti, lettere e telefonate ricevute in redazione capiamo una cosa, anzi due. Prima: chi non ha il cervello fuso ha capito bene, e da parecchio, che razza di persona sia Berlusconi e la "coorte" di governo e di finto-intellettuali che gli ruota attorno (o in ginocchio sotto la scrivania?). Questi non avevano certo bisogno di aspettare l'ennesima storia che lo riguarda per rendersene conto. Solo che di giorno in giorno la cosa diventa sempre più insopportabile. E una certa sollevazione popolare, di almeno parte del popolo, comincia a farsi sentire più vigorosamente. Almeno a parole. Seconda: c'è bisogno di fare una messa a punto strategica per capire il motivo per il quale la battaglia che abbiamo scelto, almeno sulle pagine della rivista, è culturale, metapolitica, sebbene di necessaria attualità. Partiamo subito dalla seconda perché la prima cosa è di una ovvietà assoluta e si risolve in poche parole: in un Paese normale, composto da gente riflessiva, colta, una persona del genere non sarebbe arrivata al Governo - o vi sarebbe rimasta pochissimo, con metodi democratici o meno - e soprattutto non avrebbe le percentuali di consenso pseudo-democratico che invece attualmente detiene. Invece la situazione che abbiamo sotto gli occhi è esattamente quella alla quale siamo arrivati mediante elezioni.
4 - WWW.ILRIBELLE.COM
5 WWW.ILRIBELLE.COM
Lo Monaco
Si deve cambiare. Si deve trovare il modo di cambiare. Ma perché allora, invece di organizzare un commando terroristico è necessario fare azione culturale? Semplice: in un Paese come il nostro, l'80 per cento degli aventi diritto, alla scorsa tornata di elezioni Politiche, è andata a votare. E ha scelto a larga maggioranza proprio Berlusconi e il suo governo. Oppure ha scelto la sua finta opposizione, ovvero la coalizione di Veltroni. Dunque di cosa stiamo parlando? Soprattutto: a chi stiamo parlando? Ecco, ogni volta in cui si è tentati di pensare che la strada dell'informazione e dell'educazione, dunque della cultura, non sia quella da percorrere, bisognerebbe ricordarsi delle percentuali di voto delle ultime elezioni. Dunque bisognerebbe avere chiara in mente la faccia di chi ha votato per Berlusconi così come quella di chi ha votato per Veltroni. In altre parole, quali sono le motivazioni, e i perché di quelle motivazioni, di tutte le persone che nel nostro Paese hanno scelto di partecipare a questa finta democrazia e di legittimare con il voto Berlusconi stesso e tutto ciò che egli rappresenta, oppure il suo finto opposto, e tutto ciò che questo rappresenta. In un Paese di altro tipo, dal 1994 a oggi sarebbero cambiate le cose. E di molto. Perché un percorso culturale innanzi tutto aiuta a sistemare il proprio cosmo di valori e priorità. Per esempio capendo che politica la deve fare chi è in grado di maneggiare il Politico. Non un tecnico. Non un cognato di qualcuno. Non un industriale. Non una velina. In altre parole, aiuta a capire (per chi ancora non lo avesse capito) i motivi per i quali la classe politica del nostro Paese deve essere sostituita in toto. E perché deve essere rovesciato il sistema in sé, non solo le persone che ora ne fanno parte. Se non si capisce intimamente questo le “chiacchiere stanno a zero”. E per capire bisogna conoscere. E poi riflettere. Quindi decidere e infine agire. Allora cerchiamo di capirci bene: si cerca di incidere sulle menti delle persone oppure si organizza un colpo di stato di tipo cruento. Non ci sono alternative. Secondo le regole attuali - create e auto legittimate dalla classe dirigente marcia che gli italiani stessi hanno pur votato - seguire la trafila classica di accesso alla politica necessita del percorso tradizionale. Organizzazione dal basso, diffusione, proselitismo, individuazione delle élite per guidarlo e per rappresentarlo, informazione della sua esistenza e raccolta dei voti. Tutti passaggi difficilissimi perché il potere si è chiuso a riccio e non consente l'ingresso di potenziali nuovi attori. Non gli permette ciò che gli spetta. Non gli permette la facilità di associazione, la facilità di stampa, la presenza sui media, non gli offre pari opportunità di diffusione e di accesso. Anzi, ostacola metodicamente, sotto tutti gli aspetti, qualsiasi novità esterna. Tutto questo impone però una premessa: ovvero la nascita e la crescita di una nuova coscienza politica. La quale deriva - deve derivare - da una matrice culturale. Almeno per chi abbia a mente l'importanza in primo luogo del Politico piuttosto che della politica. Esiste poi un'altra variabile, attualmente molto meno improbabile di quanto si creda: ovvero che malgrado l'ottusità di chi si ostina a votare per una
Lo Monaco
parte o per l'altra e a legittimare questa finta democrazia e tutti i suoi derivati (politici, informativi, industriali...) nella speranza che vi siano cambiamenti di fondo, proprio in virtù della fine inevitabile di questo sistema in sé (dell'elemento economico che ne è alla base) vi sia un crollo generale (un completo default statale?). Uno sconvolgimento tanto importante dello status quo in grado di innescare qualcosa di rivoluzionario e veramente difficile, al momento, da ipotizzare nei dettagli. Per il resto, ribadiamo, delle due l'una: seguire la strada tradizionale di accesso alla politica oppure (sperare in) qualche colpo autoritario. Per andare dove, poi, resterebbe comunque da vedere. Ci si può indignare quanto si vuole, poi si scorrono le percentuali di affluenza alle urne e ci si rende conto di quali siano - numericamente e qualitativamente - le forze del proprio auspicabile esercito.
Né illusioni né scorciatoie Ebbene, qui si opera per la parte culturale, metapolitica. Innanzitutto informare. Promuovere conoscenza. Cultura. Innescare ragionamenti e prese di coscienza in grado di rovesciare l'agenda setting dei media tradizionali. Diffondere idee ribelli nell'opinione pubblica in primo luogo per permettere la reale comprensione dell'esistente, e dunque per stimolare una nuova coscienza critica, non conforme. Nuove necessità. E quindi la ricerca e la nascita di nuovi attori in grado di farle proprie e portarle avanti per rovesciare l'esistente. Bisogna insomma incidere sulle menti. E questo è percorso di informazione e cultura. E metapolitica. E quindi di sintesi e proposte per trovare chi sarà in grado di incarnarle dal punto di vista politico. Beninteso, in certi casi difficilmente si riuscirà a cavare un ragno dal buco. Contiamo di rivolgerci a chi abbia almeno la capacità di riflettere. E ancora di più tentiamo di rimuovere la cortina fumogena che offusca chi invece non riesce a farlo. O, peggio, non sente la necessità di farlo e continua a farsi distrarre dal teatrino. Fare altrimenti sarebbe come continuare imperterriti a innaffiare l'asfalto. Si può farlo per tutta la vita, ma difficilmente si riuscirà a far crescere un filo d'erba. Ecco, se non rimuoviamo l'asfalto con un martello pneumatico - le cui punte sono informazione e conoscenza - è inutile continuare solo a innaffiare. Possiamo raccontarci quello che vogliamo, possiamo continuare a indignarci, a sperare che per chissà quale grazia ricevuta a un certo punto una massa critica si convinca d'improvviso della situazione e si auto-organizzi con la stessa spontaneità. E si può continuare ad aspettare. Oppure si può fare qualcosa. Per esempio continuare a scavare, a seminare, a innaffiare. A diffondere. Magari un giorno i tempi saranno più maturi - e il terreno meglio preparato - per vedere crescere i frutti del cambiamento cui tutti (almeno qui) aspiriamo. Ribellarsi allo stato attuale delle cose si può - e si deve - per via culturale o per via autoritaria. Per entrambe serve un terreno di coltura. Qui percorriamo la strada culturale. Per ora. Valerio Lo Monaco
6 LA VOCE DEL RIBELLE
Ragionevolezza In Europa i sequestri dei manager. A Torino gli spintoni al segretario della Fiom Cgil. Dopo decenni di acquiescenza i lavoratori tornano a rialzare la testa. Finalmente
S
di Federico Zamboni
olo piccoli segnali, per ora. Ma nel grigiore complessivo brillano con forza: in diverse nazioni europee i lavoratori di aziende in procinto di essere ristrutturate, e quindi di ridurre gli organici, reagiscono all’incombere dei licenziamenti passando al contrattacco. Invece di prendere atto delle cattive notizie, considerandole ineluttabili, e di limitarsi a restare in attesa dei sussidi pubblici, affrontano di petto i manager, o gli stessi proprietari, e pur di riuscire a incontrarli faccia a faccia arrivano a sequestrarli. Quello che vogliono è evidente: costringere i loro “capi” a starli a sentire. A guardarli negli occhi. A rendersi conto che dietro i numeri dei loro asettici report sulla “forza lavoro” ci sono persone in carne e ossa, persone che hanno ciascuna una propria vita da portare avanti e una dignità da mantenere e che, perciò, non possono essere trattate alla stregua di una qualsiasi altra voce di costo, da tagliare disinvoltamente in nome di Sua Maestà l’Utile di Bilancio. Questi lavoratori, di cui in Italia si è parlato solo di sfuggita e guardandosi bene dal ragionare a fondo sulle implicazioni del loro comportamento, possono anche non rendersene conto, ma quello che hanno fatto va molto al di là della propria specifica rivendicazione e assume il valore di un esempio, di un grande esempio che andrebbe seguito su vasta, su vastissima scala. Questi lavoratori – che in qualche modo ci riportano ai tempi delle prime lotte sindacali, ricordandoci che non ci può essere vittoria senza lotta
7 - WWW.ILRIBELLE.COM
Zamboni
la madre di tutti gli inganni
Zamboni
e che nessun miglioramento salariale e normativo è mai piovuto dal Cielo, ovverosia dalla generosità spontanea degli imprenditori – si scuotono di dosso i condizionamenti degli ultimi decenni e, finalmente, rimettono in discussione il decisionismo unilaterale che si è affermato dagli Anni Ottanta in poi. Ronald Reagan, Mister Deregulation, che licenzia in blocco alcune migliaia di controllori di volo statunitensi, dopo averli minacciati di farlo se non avessero posto termine allo sciopero. Margaret Thatcher, la Lady di Ferro (ma anche il ferro può arrugginire, alla lunga), che stronca i minatori inglesi dopo mesi e mesi di braccio di ferro, complice l’ascendente acquisito sull’opinione pubblica per mezzo della guerra delle Falkland. Patriottismo malinteso. Arroganza del potere scambiata per fermezza morale. I minatori che cedono di schianto. La Thatcher che trionfa. Il thatcherismo, il reaganismo, che si impongono come modelli universali di gestione sociale ed economica: che accidenti vogliono questi lavoratori, questi pezzenti, questi filocomunisti nemici del Mercato e della Libera Impresa? Gli abbiamo dato retta fin troppo a lungo. Adesso basta. Adesso si fa, si torna a fare, a modo nostro. Perché è il denaro che stabilisce la proprietà. È la proprietà che stabilisce le strategie aziendali. Strategie, esatto: come sul campo di battaglia. I generali comandano e le truppe eseguono. Nessuna discussione è lecita. Nessuna ribellione è possibile. Nessuna ribellione verrà tollerata.
Io sono il sindacato Dio tuo Qui in Italia non è ancora successo. Eppure, sequestri a parte, un piccolo segnale di risveglio ce l’abbiamo avuto anche noi. Sabato 16 aprile, a Torino, il segretario della Fiom-Cgil, Gianni Rinaldini, è stato duramente contestato da alcuni esponenti dei Cobas. Invece di limitarsi a fischiarlo, però, hanno fatto qualcosa di più. Sono saliti sul palco e l’hanno spintonato. Attenzione: non picchiato; spintonato. Nulla di realmente violento, a meno di utilizzare come metro di giudizio quello delle educande, ma è bastato a scatenare reazioni di grande allarme. E anche ignorando Calderoli, che come al solito si è lasciato prendere la mano affrettandosi ad assimilare i dissidenti ai “brigatisti”, l’orientamento generale è stato quello della riprovazione assoluta: non è bello, non è giusto, non si fa. Secondo Sergio D’Antoni, ex leader della Cisl e oggi deputato Pd, azioni siffatte non hanno «nessun senso. Solo far parlare di sé». Secondo Pietro Ichino, professore di Diritto del Lavoro alla Statale di Milano e senatore, anch’egli nelle file del Pd, quelle di Torino vanno liquidate come «minuscole minoranze nel movimento sindacale. Il problema è che sono abituate da anni a esercitare un potere di veto sulla maggioranza. Lo sviluppo di pratiche e metodi di democrazia sindacale aiuterà ad isolarli e ad impedire che questi episodi si ripetano». Sono solo due esempi tra i tanti, ma la dicono lunga sull’approccio. Sulla sua deliberata, e simulata, e interessata miopia, che ha come obiettivo non già la difesa dei lavoratori ma la loro neutralizzazione. La logica, ancora una volta, resta quella del “lasciate fare a noi e non preoccupatevi di nient’altro”. Assioma: date le condizioni obiettive, il sindacato
8 LA VOCE DEL RIBELLE
Federico Zamboni
9 WWW.ILRIBELLE.COM
Zamboni
otterrà comunque il massimo che si poteva ottenere. Corollario: se il risultato è modesto bisogna accontentarsi, essendo palese che non si poteva fare di più. È assecondando questa impostazione, che siamo arrivati dove siamo arrivati. È avallando questo teorema sballato, che è molto più funzionale alla salvaguardia del sindacato come istituzione che non alla tutela dei suoi associati, che le condizioni salariali e normative sono fatalmente peggiorate. In tutti questi anni, le grandi Politici e sindacati organizzazioni sindacali non hanno fatto continuano come al altro che chiedere ai lavoratori di essere “ragionevoli”. Una volta c’era da contenesolito. La predica è re l’inflazione. Un’altra volta c’era da accrescere la produttività. Un’altra volta sommessa per un ancora c’era da andare in soccorso dei verso e perentoria conti traballanti dell’Inps. E sempre, invaper l’altro: sono riabilmente, l’onere del cambiamento (in peggio) è ricaduto sui lavoratori. Sui quali, tempi difficili e si nel frattempo, si abbattevano gli altri colpi deve avere pazienza. inferti sia dal “libero mercato” che dalle strategie valutarie della Bce, dall’escalaSi deve stare calmi tion dei prezzi determinata dall’abbandoe tirare avanti alla no della lira in favore dell’euro alla crescita esponenziale dei prezzi nel settore meno peggio, nella immobiliare, con le parallele ripercussioni speranza che passi. sui mutui. Tuttora, come se niente fosse, la politica e il sindacato pretendono di continuare nella stessa direzione. Anzi, facendo leva sulla crisi internazionale, si aspettano che rispetto al passato vi sia ancora più comprensione, ancora più disponibilità al sacrificio. La litania è bell’e pronta. E può sembrare persino convincente, se non si ha la lucidità di metterla in discussione rifiutandone le premesse. La predica è sommessa per un verso e perentoria per l’altro. Tempi difficili: bisogna avere pazienza. Momenti durissimi: bisogna stare calmi e tirare avanti alla meno peggio, sperando che passi. Ma intanto la produzione crolla. Intanto la disoccupazione aumenta. Intanto, com’è giusto, almeno qualcuno inizia a chiamarsi fuori dalla pantomima di questo sindacato che afferma i diritti solo a chiacchiere e che poi non li sa o non li vuole far valere in sede contrattuale. Questo sindacato che dovrebbe essere sempre pronto a dare battaglia e che alla fine non la dà mai. Questo sindacato che si illude, ancor più dei partiti, di essere “l’unico e il solo”, oggetto obbligatorio di adesione generalizzata. E permanente. E fideistica. L’importante non è quello che si raccoglie: l’importante è aver fatto la propria parte. Piccoli, disciplinati inservienti del Grande Meccanismo Economico. Umili, efficienti portatori d’acqua al mulino della Globalizzazione. Lieti di sopravvivere, sia pure con crescenti difficoltà nel presente e più nessuna certezza sul futuro.
INCHIESTA
Lasotto verità le macerie Denunce inascoltate, segnalazioni cadute nel vuoto, omissioni e negligenze di ogni tipo. Il terremoto è una fatalità, l’incuria e l’inerzia no. E non è nemmeno sicuro che ora, dopo la tragedia, si sia voltata pagina
C
di Lucrezia Carlini
armela è Cassandra. Lo accenno appena e lei annuisce con forza. Questa verità lampante e assurda passa fra noi e mette un sigillo al suo racconto. Carmela, studentessa universitaria, sapeva quello che sarebbe successo a L‘Aquila. Aveva visto il pericolo nella Casa dello Studente. Segnalato le crepe nei muri delle stanze, la colonna della mensa ingiallita per le infiltrazioni. Aveva denunciato. Si era battuta perché venissero fatte le verifiche. Aveva dormito in automobile, per paura che l’edificio le crollasse addosso. Aveva convissuto per mesi con il senso della tragedia imminente: aveva tremato per la fine di quell’edificio e di quella vita spensierata da studenti. Aveva implorato i compagni di andarsene. Nessuno le ha creduto. Perché la sua, nella Povera Patria, è un’incredibile storia come tante.
Tranquilli, è tutto a posto Prima del terremoto, in una città con circa 15.000 studenti fuorisede, i posti letto pubblici, divisi fra due residenze universitarie e le cosiddette “residenze diffuse”, cioè appartamenti presi in affitto, erano 261. Il Bilancio di previsione dell’Azienda per il diritto allo Studio dell’Aquila per l’esercizio finanziario 2009, che ammontava a circa 12 milioni di euro, aveva un avanzo presunto 2008 pari a 1.772.190,61 euro, e un avanzo 2007 da applicare al bilancio dell’anno successivo di circa il 50% dell’avanzo presunto, pari a 900.000 euro. Di questi, 80.000 erano riservati a “Spese per manutenzione e integrazione straordinaria” degli immobili.Troppo pochi. Il documento è ancora consultabile sul sito della Regione Abruzzo,
10 - WWW.ILRIBELLE.COM
che assegnava la maggior parte dei soldi. Porta il timbro del Servizio regionale del Bilancio e la data del 17 novembre 2008. Il 17 novembre 2008 a L’Aquila la terra aveva già iniziato a tremare, la struttura della Casa dello Studente di via XX Settembre a deteriorarsi e Carmela ad avere paura. «È andata avanti per sei mesi. Io non riuscivo a dormire. Andavo all’università con gli occhi pesti per la veglia notturna. Lo dicevo a tutti che bisognava scappare, e gli altri mi prendevano per pazza. Intanto alla Casa dello Studente spuntavano le crepe nei muri. Io guardavo la struttura, mi sembrava insicura. Mandavano il custode a controllare, davano una mano di vernice e ci dicevano. Non vi preoccupate, qua non crolla niente, è tutto antisismico». Lo era? La domanda oggi sembra retorica. Quello che si sa è che la costruzione risale al 1965, quando in Italia non esisteva una normativa antisismica. E dopo? L’edificio di via XX Settembre nasce come deposito di medicinali e poi, con una sequenza di passaggi di proprietà e di variazioni di destinazione d’uso, diventa di proprietà della Regione, che lo adibisce a dormitorio per gli studenti e lo affida in gestione all’Adsu. La variazione di destinazione d’uso è un escamotage per aggirare i vincoli della normativa antisismica: la legge prevede per l’edilizia pubblica un coefficiente di tenuta sismica più alto del 40% rispetto a quella privata. Il che comporta lavori di adeguamento, e di conseguenza costi più alti di una semplice variazione di destinazione d’uso, per esempio da magazzino, o albergo, a utenza pubblica. Non solo: negli ultimi 10 anni la Casa dello studente viene ristrutturata tre volte. Resta chiusa dal 1998 al 2001. Nel 2003 sono previsti lavori di restauro e risanamento conservativo del piano terra, che si traducono nell’ampliamento delle sale studio, degli uffici dell’Adsu e del bar. Con il bilancio 2005 finiscono i soldi, e anche l’intervento di quell’anno non è strutturale. Un anno dopo viene portato a termine il censimento sismico degli edifici pubblici commissionato dalla Regione. Lo studio, affidato ai tecnici della Collabora Engineering (oggi Abruzzo Engineeering), una partecipata della Regione, dura tre anni e costa 5 milioni di euro. Individua 135 edifici a rischio sismico, “con pesanti criticità strutturali”. Fra questi, la sala mensa della Casa dello Studente. La somma necessaria per l’adeguamento? 1.470.000 euro. Tutto nero su bianco, comprensibile a un bambino. E rinchiuso in un cassetto, come fosse stato un esercizio speculativo. Non c’è da stupirsene, visto l’esempio nazionale: le nuove norme antisismiche, regole chiare sui criteri di costruzione dei nuovi edifici e sulla messa in sicurezza di quelli esistenti, approvate in parlamento nel 2005, entrano nella fase transitoria e, a colpi di proroghe, non ne escono più. Erano state ispirate dal
11 - WWW.ILRIBELLE.COM
crollo della scuola di San Giuliano e dalla promessa di Berlusconi presidente del Consiglio al Paese, di fronte a piccole 27 bare bianche “Mai più”. Così, i ragazzi della Casa dello Studente vengono tranquillizzati dai loro irresponsabili responsabili (che oggi dicono di non sapere, di non aver avuto sospetti, di avere a loro volta creduto alle rassicurazioni di qualcun altro). Nei mesi di sciame sismico si aprono crepe nelle loro stanze. Tutti ricordano con precisione la colonna portante della mensa farsi gialla di infiltrazioni. Michelone, che verrà ritrovato morto sulle scale, mentre tentava la fuga, si lamenta per mesi dell’acqua che esce dal suo bagno, al quarto piano sull’asse di quella colonna. Per altri ragazzi a decidere sono pochi centimetri. Il 6 aprile la terra trema tanto, le scosse sempre più frequenti. Nella Casa dello Studente dormono in pochi – molti sono a casa, Carmela è a Celano, insonne per l’angoscia. Si stringono per farsi coraggio, dormono in quattro in una stanza. Qualcuno si salva perché è nella metà giusta di quella stanza, quando il palazzo si sgretola. Non ci sono vie di fuga né scale antincendio, e altri gruppi di studenti terrorizzati fuggono dagli squarci aperti dalla scossa nei muri. Restano sotto in otto. Quando chiamo la mamma di Davide, qualche giorno dopo il funerale del figlio, la trovo senza più lacrime. Una sopravvissuta gli ha raccontato di aver sentito suo figlio, sotto le macerie, rincuorare un amico che piangeva. La Procura apre un’inchiesta e fa capire che per i morti della Casa dello Studente, luogo simbolo del fallimento delle istituzioni, sarà fatta giustizia, e la giustizia sarà rapida ed esemplare. Uno dei ragazzi sopravvissuti riesce a procurarsi una mappa del quarto piano crollato. La Voce del Ribelle la visiona prima che venga acquisita dai magistrati: per ogni stanza l’indicazione precisa delle crepe, a corredo di decine di testimonianze.
Tutti colpevoli, nessun colpevole Intanto, a Pasqua qualche centinaio di camion porta via quintali di macerie di alcuni degli edifici crollati, fra cui il suddetto simbolo, fino alla Piazza d’armi, zona già all’indomani della scossa sotto il controllo della Protezione Civile, e le tritura, finché alcuni cittadini e giornalisti di passaggio non danno l’allarme. Non si riesce a risalire a chi abbia dato l’ordine di distruggere tondini, pilastri e staffe. Il capo della Procura dispone il sequestro delle aree dei crolli, perché c’è un consistente rischio di furti di quelle macerie, che poi sarebbero le prove di eventuali responsabilità.
12 LA VOCE DEL RIBELLE
Secondo fonti interne alla Procura, mentre scriviamo i magistrati starebbero già chiudendo la fase delle indagini preliminari. Ma accertare le responsabilità potrebbe essere molto difficile, perché la responsabilità potrebbe essere di tutti e nessuno. Il costruttore? Non era tenuto a seguire criteri antisismici non ancora in vigore. Il proprietario? Se si registra qualche anomalia può rivalersi sul costruttore. Il progettista? Il progetto può essere a regola d’arte, l’esecuzione un colabrodo. Bisogna utilizzare la giusta quantità di malta e cemento, inerti puliti, l’armatura adatta ai carichi sismici. Il direttore dei lavori? Potrebbe non avere colpe, se ha applicato le regole costruttive previste dalla legge al momento dei lavori. Il gestore? L’Adsu scarica la responsabilità sulla Regione. Che la rimpalla. Intanto, per voltare pagina rispetto a questa antica trafila di colpevoli senza responsabilità, la Protezione Civile prende in mano ogni cosa. Esautora enti locali imputati di applicare, magari male, le regole della consultazione democratica. Chiude gli sfollati in tendopoli militarizzate, dove si entra con un badge o un braccialetto, dove – le testimonianze sono numerose – basta riunirsi in tre per subire un interrogatorio del servizio d’ordine. Centralizza ogni decisione, tenendo fuori Polizia, Carabinieri, Vigili del Fuoco, Guardia di Finanza. Cittadini. Ha dalla sua lo stato di emergenza e la nuova divinità politica, il Verbo del Fare. Nessuno sa esattamente cosa. Nessuno riesce a sapere a chi siano andati gli appalti per la gestione dell’emergenza, perché non ci sono state gare ma affidamenti fiduciari. Nessuno sa chi costruirà le casette di cemento, né perché si sia scelta una soluzione abitativa definitiva, se all’Aquila c’è una speranza di Ri-costruzione di ciò che era. Nessuno sa se i soldi ci sono, o se non resti che sperare nel superenalotto. Nessuno dice con esattezza quanto durerà, e se mai tornerà come prima. Alla Voce del Ribelle una fonte ha rivelato che, in occasione di un paio di avvicendamenti ai vertici di prestigiosi quotidiani nazionali, sarebbe sceso dall’alto l’input di non disturbare il manovratore con inchieste sul suo operato. Fino al 6 aprile, chi avesse avuto occhi, come Carmela, avrebbe almeno potuto vedere. Prima si restava inascoltati. Oggi si resterà muti?
Lucrezia Carlini inviata in Abruzzo
13 WWW.ILRIBELLE.COM
ANALISI
La crisi
e la critica della ragione economica
È vero: siamo vittime del crollo dei subprime e dei derivati di Borsa. Ma i vizi del sistema vanno ben oltre la speculazione finanziaria. E rinviano alla radice del male: l’utilitarismo
Q
di Eduardo Zarelli
uesta instabile primavera porta con sé la perturbabilità del clima e la cangiante opinione dei più sull'andamento della crisi economicofinanziaria internazionale. Tramite i media ci si sforza di comunicare che il peggio sarebbe passato. Non siamo in grado di prevedere il futuro e non ci presteremo al gioco superficiale di confutare o corroborare questa tesi con un pregiudizio ideologico. Quello che è certo è l'acquiescenza generale a proseguire sulla strada interrotta. Da sinistra a destra non emerge il dubbio sulle cause, e quindi sul modello stesso del primato economicista della modernità. Il sistema politico, economico e culturale si sta sbracciando per offrirci un'immagine benevola di sé. Per convincerci che, in fondo, l'unica possibilità che abbiamo non è immaginare un futuro diverso, ma seguitare ad affidarci alla sua forza intrinseca e a fare il tifo per la risalita del Pil e delle Borse, collaborando di buon grado a uscire dalle secche in cui questo modello di sviluppo si è incagliato. Insomma, pare che convenga proprio a tutti fare finta di nulla, fare finta che nulla sia successo e continuare daccapo come prima. In controtendenza, lo spirito critico e non conformista deve invece protendere ad oltrepassare ciò che è dato. Costituire “nuove sintesi” di pensiero capaci di interpretare un vero cambio di paradigma. È
14 - WWW.ILRIBELLE.COM
Il modello occidentale invade il pianeta: produci-consuma-crepa “in tutte le lingue del mondo”
15 - WWW.ILRIBELLE.COM
palese, a ogni coscienza intellettualmente onesta, che le categorie date non reggono la transizione tardo-moderna e l’annesso deserto nichilistico: questa è la sostanza concettuale su cui confrontarsi per formulare ipotesi teoriche coerenti e rigorose, necessarie per risultare credibili nella critica all’egemone modello liberistico. In tal senso, vorremmo porre una riflessione specifica sull’approccio antiutilitarista nel rapporto tra economia e ambiente. Questo, al fine di individuare quello che a noi appare contraddizione centrale del determinismo della modernità: la divaricazione tra cultura e natura.Tale antinomia permane, e anzi si espande con connotati drammatici e incalzanti, ponendosi come discrimine forte, in questo caso sostanzialmente ideologico, per chi intende scegliere la critica all’esistente quale posizione culturale, sociale ed esistenziale. L’antiutilitarismo – si pensi a Serge Latouche - inda-
L’idea di una crescita senza fine e di un progressivo arricchimento di tutti i popoli, è stata ufficializzata nel 1949 da Henry Truman, all’atto del suo insediamento alla Casa Bianca gando sulla genealogia dell’economicismo non può che intrecciarsi con quella parte minoritaria e misconosciuta del pensiero ecologista. Il reinserimento dell’economia nel sociale, la risacralizzazione del vivente e il conseguente re-incanto del mondo sono punti di riferimento condivisi, che d’altra parte assumono un sano realismo antiutopistico nel negare sia la razionalizzazione dell’ambiente ridotto a risorsa economica che l’idilliaco rispetto dell’incontaminato. Solo un equilibrio è possibile, tra cultura e natura: lo sbilanciamento per una delle parti in causa rafforza la vettoriale dialettica progresso/reazione a scapito della ciclicità, del senso del limite dell’armonico, che si incarna nel valore della giustizia condiviso nel bene comune. La critica dell’esistente non può identificarsi con la negazione della realtà, patologia genetica e germinalmente totalitaria degli ideologismi positivi, sia idealistici che materialistici.
16 LA VOCE DEL RIBELLE
D’altronde, la base del nostro agire quotidiano nelle società liberalcapitaliste, si fonda su una delle “favole” meglio riuscite dello storicismo. La condizione di scarsità materiale determina il sacrificio necessario del rapporto di scambio per sostituire la redistribuzione sociale. In realtà la reciprocità comunitaria precede e poi riappare con drammatica soluzione di continuità a disconoscere le categorie di Stato e mercato, che si impongono definitivamente solo con la piena modernità. Nella produzione e nella soddisfazione dei nostri bisogni, “ovviamente” materiali, si inventa la felicità edonistica, la quale può rendersi collettiva solo nella concorrenza tra i soggetti che tentano di massimizzare i loro interessi. Ecco allora l’utopia di una “armonia naturale”, che in realtà della natura fa vedere quello che le conviene, vera “mano invisibile” che concilia provvidenzialmente la conflittualità degli interessi. Questo è il più potente determinismo storico costituente la civilizzazione occidentale. La diffusione del mercato porta con sé la “mano invisibile” che elimina conflitti e antagonismi di classe tra Occidente e Terzo mondo, e via discorrendo; ma, ammesso e non concesso che le cose stiano così, con la crisi verticale di rappresentanza delle ideologie critiche fondate su una base economicista dell’esistente, può questa carismatica “mano invisibile” eliminare anche i conflitti d’interessi tra gli uomini e la natura? Evidentemente no. I mutamenti climatici, piuttosto che la degenerazione immunitaria e lo sfaldamento dell’autonomia organizzativa dei sistemi naturali indicano che la mercificazione dell’esistente può piegare tutto, tranne la compiutezza del vivente, l’omeostasi fisio-biologica, il climax biotico. La falsificazione economicista deve quindi essere smascherata e combattuta nelle sue conseguenze pratiche sull’ambiente naturale a partire dai suoi stessi principi fondativi, simbolico-culturali ancor prima che concreti e razionali.
Una crescita senza fine L’idea di una crescita senza fine e di un progressivo arricchimento delle condizioni di tutti i popoli della Terra, è stata introdotta ufficialmente nel mondo dal discorso d’insediamento del presidente statunitense Truman, il 20 gennaio 1949. Fu lui, al comando della più imponente potenza economica mai apparsa sul nostro Pianeta, a parlare per la prima volta di svilup-
17 LA VOCE DEL RIBELLE
po come gioco globale a “somma positiva” e in quel preciso istante tre miliardi di abitanti della Terra diventarono di colpo “sottosviluppati”. Cinquantatrè anni dopo, la civiltà occidentale è ancora fondata su quell’assunzione, ma le condizioni oggettive in cui si trova il nostro Pianeta ne hanno già da tempo segnalato il fallimento. La fede nel progresso e nella tecnologia supporta il culto dello “sviluppo” e gli economisti sono i grandi sacerdoti di questa nuova religione positiva e razionale che accompagna l’espansione senza precedenti dell’Occidente. Il potere di autorigenerazione della natura è stato rimosso, distrutto a beneficio di quello del capitale e della tecnica. La natura è stata ridotta a un serbatoio di materia inerte, ad una pattumiera. La globalizzazione sta completando l’opera di distruzione dell’oikos planetario; infatti la concorrenza spinge i Paesi industrializzati a manipolare la natura in modo incontrollato e i Paesi in “via di sviluppo”, stretti nella morsa debitoria, a esaurire le risorse non rinnovabili. Con lo smantellamento delle regolamentazioni delle sovranità politiche, non c’è più un limite all’abbassamento dei costi in un gioco al massacro tra i popoli e a detrimento della natura che li sostiene. Nell’agricoltura, l’uso intensivo di concimi chimici e di pesti-
Ciò che viene comunemente inteso dalle economie occidentali come “sviluppo” è una ingannevole allucinazione, un drammatico fallimento. Lo si vede bene nell’insostenibilità sociale ed ambientale. cidi, l’irrigazione sistematica, il ricorso agli organismi geneticamente modificati hanno per conseguenza l’impoverimento dei suoli, il prosciugamento e l’avvelenamento delle falde freatiche, la desertificazione, la diffusione di parassiti indesiderabili, il rischio di devastazioni microbiche. Tutti i Paesi sono coinvolti in questa spirale suicida, ma nel Terzo Mondo, essendo in gioco la sopravvivenza biologica immediata, la riproduzione degli ecosistemi è completamente sacrificata. Si pensi che, per esportare il legname, la foresta tropicale sta sparendo (Camerun, Indonesia, Papuasia-Nuova Guinea) con l’annessa conseguenza di un’erosione accelerata dei suoli e di un aggravamento delle inondazioni (come quelle del Mekong e affini). In pratica, ciò che viene comunemente inteso dalle economie occidentali come “sviluppo” è una ingannevole allucinazione, un drammatico fallimento. Due motivi di questo fallimento sono facili da intendere e riassuntivi della contraddi-
18 LA VOCE DEL RIBELLE
zione del termine: l’insostenibilità sociale e quella ambientale. L’emergenza sociale è rappresentata dal cumulo di violenza compressa che sta montando nel mondo, spesso riconducibile alla reazione degli indigenti prodotti dall’occidentalizzazione del mondo, che, con un processo ineludibile, prima li cattura e poi li esclude; quella ambientale è determinata dalla limitatezza delle risorse della Terra oggi egemonizzate da un 20% scarso dell’umanità. Se, per una sorta di miracolo, si riuscisse ad annullare la prima emergenza, cioè il libero mercato planetario riuscisse a distribuire a tutti gli abitanti della Terra l’accesso ai consumi, immediatamente la seconda emergenza si farebbe terminale e apocalittica. Si pensi ad esempio all’effetto serra: a meno che gli scienziati non vogliano smentirsi in nome delle “magnifiche sorti e progressive”, noi tutti viviamo grazie a una biosfera che è in grado di assorbire senza danni 2,3 tonnellate annue pro capite di emissioni di diossido di carbonio, ma ogni cittadino americano ne produce 20 all’anno, ogni tedesco 12 e ogni italiano 10. A noi non risulta che nei programmi dell’OCSE sia prevista la riduzione del 900% dei consumi dei cittadini americani, oggi necessitati a ciò dalla crisi (né per i tedeschi del 500% e del 400% per gli italiani); risulta quindi evidente che la somma del gioco globale della globalizzazione, chiamato eufemisticamente “sviluppo”, è a somma zero, anzi, continuerà limitatamente nel tempo fino a che verranno mantenuti esclusi, in forme eminentemente violente, i quattro quinti dell’umanità dal modello occidentale che viene loro imposto. I rapporti tra l’economia e l’ecologia si intrecciano nel paradosso. Entrambe nascono dall’oikos (la casa, l’ambito comunitario, la nicchia), ma ne declinano interpretazioni opposte. Aristotelicamente, l’economico si limita ad essere supporto dell’esistenza del comunitario, l’economico moderno ne ribalta il concetto e si rende autonomo, autoreferenziale, nell’accumulo di sé (crematistica). In tal senso, gli ecologisti coerenti risultano critici dell’economia come teoria e nemici nella sua pratica. L’economia della modernità si poggia concettualmente sull’utilitarismo e sul mercantilismo. Sempre in nome del paradossale rapporto tra economia e natura, i Fisiocratici incentrano la teoria dello sviluppo economico sulla fertilità naturale, mutuandone il libero dispiegarsi. Malauguratamente, confondendo la fertilità naturale con la produttività dell’attività umana, i Fisiocratici, invece di mantenere l’economia iscritta nella biosfera e di accettarne e studiarne i limiti, formuleranno la definitiva autonomia della sfera economica mistificandola come “organismo naturale”. Lo stesso liberismo degli economisti classici espone una natura limitata e avara ma per disporre simbolicamente del vero grimaldello edonistico economicista: la scarsità. La natura ostile è spogliata di valore intrinseco. Strumento d’emancipazione
19 LA VOCE DEL RIBELLE
umana, la scarsità naturale non verte sui limiti delle materie prime e delle fonti energetiche, quanto sulla necessità della loro trasformazione con un lavoro che si fa morale e una tecnica strumentale che si rende fine etico. In tal modo la natura è fuori dall’economia. Adottando il modello della meccanica classica newtoniana, l’economia esclude l’irreversibilità del tempo. I modelli economici si svolgono in un tempo meccanico e reversibile; essi ignorano l’entropia, vale a dire la non reversibilità delle trasformazioni dell’energia e della materia. Essendo sparito ogni riferimento a qualunque substrato biofisico, la produzione economica non si con-
L’economia “ecologica” è lontana dal rimettere in discussione la logica utilitaristica, che è la vera fonte della negazione della natura. Il sacro rispetto della vita si riduce a manutenzione. fronta con alcun limite ecologico. La conseguenza è uno sperpero incosciente delle risorse rare disponibili e una sottoutilizzazione del flusso energetico solare, in tutte le sue ricadute organolettiche. I rifiuti e l’inquinamento, pure prodotti dall’attività economica, non rientrano nelle funzioni della produzione, così nulla si oppone più alla realizzazione, da parte della tecno-scienza e dell’economia, del programma di dominio e di sfruttamento totale dell’universo. Su questo piano inclinato, le varianti redistributive, collettivistiche e autoritarie, mutano la forma, ma non la sostanza nichilistica della modernità. Non da meno, le proposte “deboli”, che animano la parte maggioritaria dell’ambientalismo progressista, si concentrano nell’ossimoro dello “sviluppo sostenibile”, che ha obbligato gli economisti, sulla spinta dell’evidenza, ad un aggiornamento della loro disciplina e ad includere l’impatto sull’ambiente naturale dei loro modelli. In tal modo, l’economia “ecologica” è lungi dal rimettere in discussione la logica utilitaristica, che è la vera fonte della negazione della natura. La ciclicità del vivente, il debito nei confronti della natura e la misteriosa solidarietà della specie, sono ridotti a dispositivi tecnici, che trasformano l’ambiente naturale in un meccanismo materialistico energetico finalizzato dalla ragione strumentale della modernità. La stessa logica giunge alla tassazione dell’inquinamento per reindirizzare virtuosamente l’allo-
20 LA VOCE DEL RIBELLE
cazione delle risorse. Su tale strada, i potentati economici hanno determinato il delirio dell’ultimo trattato internazionale sulle emissioni gassose, che consente di ridistribuire l’inquinamento acquistando quote territoriali di discarica indipendentemente dalle proprie produzioni (cioè il diritto ad inquinare). Rimane però il problema nelle cause, e non negli effetti, in un universo fisico comunque limitato. La credenza dell’inesauribilità delle risorse naturali, su cui poggia il modello industriale di sviluppo sostenuto dagli economisti, è crollato, mentre i sotto-prodotti deleteri della produzione minacciano la sopravvivenza stessa della nostra specie. Qualunque sia il grado di arbitrarietà apocalittica sulle attuali compatibilità ecologiche con la civilizzazione industriale, nessun interlocutore intellettualmente onesto può misconoscere che la devastazione della natura corrode definitivamente i benefici dello sviluppo. Questo si iscrive nell’idea che il capitale artificiale può sostituirsi a quello naturale, semplicemente conviene dargli un prezzo per assicurare la ricostituzione del suo equivalente. Già a Manhattan, nei caffè rumorosi si possono comprare tre minuti di silenzio acquistando una cassetta vergine. Analogamente, negli incroci di Città del Messico, si compra l’ossigeno delle maschere antigas. Una scansia del supermercato degli orrori dove cerchiamo con raccapricciante scontatezza l’acqua in bottiglia piuttosto che gli uteri in affitto o gli organi per sempre più eterogenerici trapianti; tuttavia la materia prima di tutte queste manipolazioni rimane ancora un insopportabile dono della natura, dotato di proprietà naturali non inventabili dalla tecnoscienza. La scomparsa di specie vegetali e animali selvagge non ferma la biopirateria, gli OGM, i comportamenti predatori. Questo è il paradosso col quale si scontrano i trust agro-alimentari e farmaceutici nella loro prometeica impresa di integrale colonizzazione e artificializzazione del vivente. Distruggono la biodiversità propagandandone sul mercato solo i geni utili, ma hanno bisogno di accedere al patrimonio originario in esaurimento. La “sostenibilità” quindi è la mistificazione ultima del modello utilitaristico. Nulla ha a che fare con la natura in sé, ma corrisponde ad un calcolo economico implacabile. Acquistare quote di inquinamento nel Terzo Mondo stimolerà il suo sviluppo. Meglio morire di cancro che morire di fame. In realtà entrambi i fattori sono destinati a svilupparsi, questi sì senza limiti, per i motivi sopra esposti, a dimostrazione che razionalizzando l’ecologia si cede il dominio all’economico alimentando la contraddizione tra sviluppo e natura.
21 LA VOCE DEL RIBELLE
Pretendendo che l’umanità sia composta da atomi individuali mossi dai loro soli interessi egoistici, che si attribuiscono ogni diritto sulla natura e sulle altre specie viventi, la scienza economica sostiene e incoraggia storicamente la più straordinaria impresa di distruzione del Pianeta. Mettendo in opera questo programma e lanciandosi in un’accumulazione illimitata, stimolata da una competizione evolutiva senza freni, l’economia liberistica, oramai globalizzata, distrugge ogni cura dell’oikos, della comunità e delle sue forme di sussistenza, sradica ogni forma naturale o culturale che sfugge alla mercificazione. Ci sono sempre più economisti ecologisti, ma è palese che, la scienza economica è reticente sulla natura, misconoscendo il fatto che il mercato si sviluppa in una biosfera. L’integrazione nel calcolo economico degli elementi dell’ambiente naturale, contabilizzandoli artificialmente, non modifica la natura dello sviluppo né la logica razionalista della modernità. È attraverso la fuga in avanti nella tecnica che si pensa di risolvere i problemi posti dalla megamacchina tecnomorfa.
Tutto è concatenato. I bambini che sono costretti a vivere rovistando nelle bidonville di Città del Messico sono la conseguenza diretta di ogni aumento di stipendio di un salariato del “mitico” nord-est. Di fronte alla profonda corruzione sensistica del progetto acefalo, temporalmente vettoriale, dello “sviluppo” industriale è necessario estrarre la politica dalla rappresentanza formale eterodiretta dagli interessi del macchinismo sociale e reintegrare la persona in un contesto comunitario per mezzo della partecipazione democratica: ridurre la scala, metabolizzare il globale nel locale, recuperare l’orizzonte antropologico estraendolo dal dissesto nichilistico della civilizzazione planetaria. Ecologismo non significa rendere ambientalmente migliore, meno inquinante la megamacchina. Significa esclusivamente avvicinare l’uomo alla Natura. Partendo dalla cultura ecologista, emancipata dal riduzionismo scientifico, si deve formulare la critica dell’esistente su alcuni concetti cardine. Non si risolvono i problemi legati al vivente riformando gli effetti dannosi, ma rimuovendo le cause della patologia. La natura è ciclica e limitata nel suo eterno rinnovarsi. Pensare secondo la forma ciclica del tempo comporta in primo luogo, che l’idea di causa venga sostituita da quella di condizione concomitante: in base a tale sostituzione risulta che ogni evento ha più cause e che ciascuna di esse è a sua volta
22 LA VOCE DEL RIBELLE
effetto di altre cause. In secondo luogo all’idea di successione subentra l’idea di simultaneità, per cui eventi diversi possono verificarsi ed essere colti nel medesimo momento, in una percezione sincronica invece che diacronica. Infine, la logica lineare che sostiene i processi di industrializzazione e di deduzione viene sostituita con quella dell’analogia. In definitiva, la forma ciclica del tempo comporta una visione panoramica in quantità e simbolica in profondità, non prospettica ed analitica del mondo e della vita, per cui ciò che conta è una visione d’insieme, dove i singoli elementi sono in relazione tra essi, celebrando una percezione empatica del reale. La scienza può essere di avanzamento nella conoscenza e nell’evoluzione sociale solo fuori dal riduzionismo razionalistico, solo se simbionte al vivente, ricomponendo la frattura dualistica in un quadro olistico, dove la totalità è superiore alla semplice somma degli elementi. La complessità relazionale non è programmabile per astrazione, i fenomeni sono indeterminabili meccanicisticamente nella loro complessità, solo l’intuizione poetica (intelligenza) può cogliere sintesi di superiore profondità e consapevolezza rispetto al presunto efficientismo del pragmatismo empirico.
La dimensione del locale Sostenere che il progresso non esiste, non significa che una somma di avvenimenti succedutisi in anni diversi non origini qualcosa, che si può chiamare “storia”. Significa sostenere che questi avvenimenti hanno fatto profondamente regredire l’umanità e, se qualcuno pensa che da un punto di vista sociale questo non sia vero, la risposta è che i miglioramenti sociali sono stati a “somma zero”. I bambini che vivono rovistando nelle bidonville di Città del Messico sono la diretta conseguenza di ogni aumento di stipendio di un salariato del “mitico” nord-est. Prima dello sviluppo, mangiavano tortillas nelle loro capanne e giocavano sporcandosi di terra. Noi occidentali viviamo più a lungo: questo è vero… Ma in che modo, e in che percentuale? Siamo fuori dall’indigenza - ma il concetto di indigenza è molto sfuggente - e questo è, a nostro avviso, tutto ciò che di apparentemente buono il “progresso” ha realizzato. Il progresso tecnologico è tale solo a posteriori: tutto ciò che garantisce è un’accelerazione delle nostre vite, e la creazione di nuovi bisogni. È vero che oggi è difficile fare a meno del cellulare: ma quindici anni fa ne facevamo a meno e non sembra che la qualità della nostra vita sia migliorata grazie al cellulare, anzi si comunica molto di più per capirsi sempre di meno. In compenso, il patrimonio di conoscenze tradizionali, di sensibilità, di varietà culturale e biologica, e molto altro, si è drammaticamente compromesso. La nostra possibilità di sopravvivenza si è infinitamente ridotta: dipendiamo dalla tecnologia per il soddisfacimento di
23 LA VOCE DEL RIBELLE
qualunque bisogno primario e, se è vero che oggi il povero occidentale appare meno povero, è anche vero che lo straccione Tom Saywer faceva il bagno nel fiume. Oggi, non c’è solo il bimbo di Città del Messico: ci sono i bambini di Roma, che non hanno mai visto una gallina o una mucca in vita loro e che, se fanno il bagno nel Tevere, vengono ricoverati con prognosi riservata. La modernità occidentale porta a compimento la divisione tra cultura e natura. Invece, in tutte le culture sapienziali, ogni corpo individuale, compreso quello umano, è sempre parte integrante del corpo cosmico, determinazione intrinseca di quell’ordine universale che è la Natura. Nella tradizione Taoista «L’uomo si conforma alla Terra, la Terra si conforma al Cielo, il Cielo si conforma al Tao, il Tao si conforma alla spontaneità». La spontaneità è sinonimo di naturalezza, categoria eversiva nel mondo artificiale del contrattualismo sociale e del dominio tecno-scientifico. Bisogna quindi uscire dal conformismo delle regole fatte convenzioni morali, sociali, culturali e politiche: l’uomo per con-
Il principio di sussidiarietà deve partire dall’entità fondamentale della comunità naturale (la famiglia), delegando alle entità superiori solo ciò che non può assolvere nella propria sfera autonoma e libera. formarsi al Tao, deve pertanto «volgersi alla radice», «volgersi all’origine», «uniformarsi al fondamento», ossia riconquistare quelle condizioni di spontaneità che vigevano prima dell’introduzione della regola sociale. Una visione politica, basata su queste leggi, sul modo in cui opera il mondo del vivente, è indisposta ad un potere monolitico (tecnocratico) che eterodirige gli elementi fondanti l’organismo stesso, sarà piuttosto propenso alla decentralizzazione, all’interdipendenza e alla diversità. Un potere diffuso, partecipativo, in qualche modo “accidentale”, la cui sede decisionale è nella vitalità della comunità di base, possibile solo in un contesto antropologicamente limitato. Uno scenario realisticamente postmoderno, quindi non fuori dalla storia, ma possibile nella decisione culturale di un destino diverso dal determinismo unilineare della modernità. «Potremmo avere navi e carrozze, ma non ve ne sarà bisogno, potremmo bardarci di armi e corazze, ma non si dovrà combattere. Gli uomini torneranno ad imparare a fare nodi con una corda per sollecitare la memoria, piuttosto che servirsi della scrittura. Tutti avranno abbastanza da mangiare, vestiti decenti; sapranno godersi la vita casalinga, giacché ogni villaggio è uno Stato a sé, e con contentezza troveranno ogni risposta nelle
24 LA VOCE DEL RIBELLE
tradizioni locali. Gli Stati confinanti si guarderanno a vista, udranno gli uni degli altri il canto dei galli e l’abbaiare dei cani, ma i vicini, per tutta la vita, non si faranno mai visita». Quanto Lao Tse dice contrasta sia con lo “sviluppo economico” che con la civilizzazione politica (Stato), ma sostanzia quella reciprocità di sobria sussistenza, che include l’economico nel sociale legittimandolo culturalmente. A tutt’oggi, nella Cina profonda, i contadini vivono con l'acquacoltura. Stagni, laghi e bacini per cinque milioni di ettari servono all’allevamento della carpa; i contadini fertilizzano le vasche col letame, nutrendo così il plancton in una catena alimentare perfetta. In questo modo la Cina copre da sola i due terzi dei prodotti della acquacoltura mondiale e si sfama, senza squilibrare il territorio. Nel Tao (la Via spirituale) si tende insomma a un modello di economia ecologica in cui piccolo è bello e l’uomo è ricco se gli basta ciò che ha. Se vuole invece di più, è povero. La virtù taoista conduce alla felicità; non viceversa, come per istinto utilitario crede l’Occidente. Se è l’utile il fine che guida l’uomo occidentale, l’atto supremo dell’economia di Lao Tse è la naturalezza, quanto è in sorgere e rimanda all’origine. La felicità è armonia che precede l’utile. I Cinesi non moriranno di fame fino a che non arriveranno i supermercati incombenti con la grande distribuzione della WTO. A quel punto, abbandoneranno il loro stile di vita e cominceranno a morire di cancro. In senso generale, se in ogni luogo c’è un centro del mondo possibile, è necessario che gli uomini tornino abitanti del loro territorio, riprendano cioè in mano la questione ecologica ed etologica della loro sopravvivenza, dal momento che è oramai minacciata nella sua stessa sostanza dai meccanismi razionalistici. In questo orizzonte l’esigenza identitaria va politicamente reinterpretata come energia costruttiva per la crescita della coscienza del luogo e per l’affermazione di modelli di sviluppo autocentranti, fondati sulle peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali (territoriali, cioè ambientali e quindi produttive) e su reti di scambio complementari e solidali piuttosto che gerarchiche fra entità locali. Il principio di sussidiarietà deve partire dall’entità fondamentale della comunità naturale (la famiglia), delegando alle entità superiori solo ciò che non è assolvibile dal livello fondamentale, autonomo e libero e quindi coeso e comunitariamente partecipe dell’organismo complessivo. L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa, dunque, responsabile, consapevole cosmogonicamente del valore del mondo che lo circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il senso e dargli quindi una “forma”, uno stile, che sacralmente plasma il divenire in un eterno presente.
Eduardo Zarelli
25 LA VOCE DEL RIBELLE
ANALISI
Fiat lux sulla Fiat Come dominare il mercato mondiale dell’automobile, comprando a tutto spiano senza avere un centesimo
«S
di Giuseppe Carlotti
ono felice quando tre persone che non stanno troppo bene si danno una mano reciprocamente. Ma tre malati in un letto non fanno una persona sana» 1. Parola di Ferdinand Piëch, Presidente del Consiglio d’Amministrazione del gruppo Volkswagen. Il riferimento sarcastico è al presunto accordo Fiat–Chrysler–Opel. Un accordo che è stato celebrato – ancor prima di essere ufficiale – come il segno della rinascita industriale italiana. Eppure, ancora il 6 maggio 2009, Fiat annunciava l’ennesimo ricorso alla cassa integrazione per 2.500 adetti2. Il giornalista Antonio Lubrano avrebbe chiosato con il suo vecchio adagio: “La domanda sorge spontanea”. Nello specifico: come può un gruppo industriale (Ifi – Ifil - Fiat), che nel 2002 aveva 40 miliardi di debiti3, trovare la necessaria credibilità internazionale per fondersi con il gruppo automobilistico Chrysler (indebitato a sua volta per 43 miliardi di dollari) e addirittura ricapitalizzare Opel staccando un assegnino da qualche centinaio di miloni di Euro? Oggi Fiat ha 18 miliardi di Euro di debito complessivo4. C’è stato un piano di ristrutturazione che è andato bene, ma nemmeno Marchionne può fare miracoli. Creare un nuovo polo mondiale dell’automobile costa parecchio denaro (che la Fiat non ha), eppure è una scelta obbligata per un marchio come quello torinese, piccolo in termini di volumi complessivi, poco radicato nel mondo (vende solo in Europa e in America Latina) e tremendamente indebitato. Ecco allora saltar fuori la strategia di Marchionne: usufruire degli incentivi salva occupazione promessi da Obama e dalla Merkel
26 - WWW.ILRIBELLE.COM
per costruire un polo automobilistico dei “Rottamati”, ovvero di tutti quei marchi (Chrysler/Jeep, Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Opel, forse persino Suzuki e Saab) sconfitti dal mercato i quali, uniti, potrebbero teoricamente risorgere, trovando il modo per produrre più automobili e distribuirle su più mercati riducendo drasticamente i costi di produzione grazie alla possibilità di ordinare ai fornitori di materie prime (es. acciaio, chip elettronici, pneumatici…) quantitativi talmente esorbitanti da meritare un grandissimo sconto. Uno sconto, è il caso di dirlo, “famiglia”. Marchionne sogna cioè di produrre automobili con nomi e con linee esterne differenti tra di loro, eppure dotate degli stessi motori, delle stesse tecnologie di sicurezza, probabilmente anche degli stessi pulsanti sul cruscotto, o degli stessi colori. Enigma risolto? Neanche per sogno. Barack Obama, ad esempio, si ostina a definire il Gruppo Fiat come «all’avanguardia nella tecnologia». Addirittura, il Presidente Abbronzato, per dirla con Silvio nostro, si è spinto fino a dichiarare che la «Fiat ha dimostrato di saper costruire l’auto del futuro»5. Ma come sarà fatta questa fantomatica auto pulita del futuro “made in Fiat” addirittura in grado di cambiare per sempre il concetto di mobilità negli Stati Uniti? Probabilmente l’automobile in questione non andrà a idrogeno, visto che l’avanguardia in questo settore spetta alle tedesche BMW e Mercedes, con le giapponesi all’inseguimento. Quasi certamente non sarà neanche un’auto ibrida, dato che già da anni Toyota e Honda commercializzano (anche in Italia) auto con propulsione mista elettrica/benzina, mentre Fiat non ha nemmeno un modello a listino. Forse Biocarburanti? No, le svedesi sono molti anni avanti nella produzione di motori compatibili. Elettrico totale? Nissan a partire dal 2011 produrrà un’auto solo elettrica ricaricabile dalla presa di corrente di casa, capace di percorrere 250 chilometri consumando come un’abat-jour. Aria Compressa? Il progetto Eolo è stato abbandonato da tutti i grandi marchi dell’auto ed ora va avanti con pochi finanziamenti. Ma, allora, in che cosa consiste questa avanguardia di Fiat celebrata persino da Obama? Il dubbio che sorge a questo punto della nostra analisi è terribile. Forse, paragonato ai mostri a benzina da ottomila centimetri cubici che infestano ed inquinano le autostrade americane, qualsiasi altro motore è da considerarsi letteralmente all’avanguardia. Il parco auto americano, infatti, è popolato da tonnellate di lamiere e milioni di fuoristrada equipaggiati con propulsori poco differenti da quelli di un trattore dell’immediato
27 - WWW.ILRIBELLE.COM
dopoguerra: colossi mastodontici che percorrono due chilometri con un litro di benzina, praticamente lo stesso risultato di una Ferrari di Formula Uno. Ed ecco allora che un modesto motore milletrè, diciamo quello di una nostra utilitaria senza troppe pretese, può facilmente diventare per i bovari del Texas il simbolo di un’autentica rivoluzione del settore. È come portare Aspirina agli influenzati. E se il problema è abbassare la febbre, anche l’Aspirina può andar bene. Certo, gli antibiotici sono un’altra cosa, ma chi ha quelle tecnologie se le tiene. La Honda Insight, ad esempio, è un modello di automobile media dalla linea avveniristica, dotata di cinque comodi posti e un gran baule. Nulla di strano, tranne il fatto che tale automobile può vantare uno dei più sofisticati motori ibridi attualmente disponibili al mondo. Equipaggiata con un propulsore tradizionale a benzina di 1.300 centimetri cubici di cilindrata abbinato ad un modernissimo motore elettrico, la Honda Insight emette 99 grammi di CO2 nell’aria, percorre 25 chilometri con un litro di benzina e costa in Italia – grazie agli incentivi – 14.900 Euro. Poco più di una Fiat Bravo a benzina, che di CO2 ne immette 134
Se lo si paragona ai mostri a benzina da ottomila centimetri cubici che infestano e inquinano le autostrade Usa, qualunque altro motore è da ritenersi letteralmente all’avanguardia. grammi e che di chilometri, con un litro, ne fa parecchi di meno. D’altro canto la tecnologia posta alla base delle due vetture è differente. La prima, questa volta sì, d’avanguardia. La seconda molto meno, e non c’è proprio niente da meravigliarsi: siamo in Italia!
Ecologia, che bella scusa In Italia, allo stato attuale, è sufficiente equipaggiare una Fiat Balilla del 1932 con un impianto a GPL per trasformarla magicamente in una vettura moderna e quindi in grado di circolare anche con i blocchi del traffico. Non a caso nessun cittadino è mai stato informato del fatto che un’auto a GPL riduce le emissioni di CO2 nell’aria solo di un 10% rispetto alla corrispondente versione a benzina, quindi se l’auto era inquinante prima, resterà ugualmente inquinante anche
28 LA VOCE DEL RIBELLE
dopo la trasformazione a gas liquido. Eppure, per la legge, l’auto diventa “ecologica”. L’importante sono gli incentivi, il risparmio, la percorrenza: più semplicemente “politica”. Di fatto, non esiste, in Italia, alcuna strategia ambientale. Esistono solo decreti e leggi d’emergenza che servono a svuotare i parcheggi delle fabbriche di automobili dagli esemplari invenduti che stazionano lì da troppi mesi. Un metodo tampone, assolutamente palliativo, per spostare un po’ più in là l’inesorabile chiusura di un paio di fabbriche di automobili sul nostro territorio, sostituendo i licenziamenti con qualche mese di salutare cassa integrazione. Eppure Barack Obama trova che le nostre industrie automobilistiche siano all’avanguardia, sebbene non si capisca bene in quale campo. A chiarire l’enigma non ci aiuta nemmeno il tema della sicurezza, dove al contrario sarebbe utile soffermarci per qualche istante sul fatto che la Fiat produca e commercializzi in Europa una delle automobili più pericolose che siano mai state sottoposte a crash test da quando esiste l’ente indipendente EURO-NCAP. In proposito, è molto interessante leggere proprio il giudizio che viene emesso sulla Fiat Seicento a margine della prova di sicurezza. “La Seicento si è comportata malamente sia nel test da impatto frontale che laterale. Nell’impatto laterale, il contraccolpo all’addome degli occupanti è stato talmente forte da mettere in serio pericolo la stessa vita.6” Per “contraccolpo”, qui si parla di un urto simulato contro una barriera mobile lanciata a 50 chilometri all’ora. Non stiamo certo parlando di uno scontro su una statale o in autostrada, a velocità superiori ai 100 km/h.… Anche perché non potremmo nemmeno immaginarne i devastanti effetti. Sta di fatto che la Fiat Seicento continua ad essere prodotta, e venduta per lo più ai neopatentati, dato il suo basso prezzo di acquisto. Alla luce di questo piccolo viaggio attorno alla galassia “dell’avanguardia tecnologica Fiat”, ci si rende conto di come la fusione con qualche altra casa automobilistica sia necessaria per garantire la sopravvivenza stessa del marchio. Per garantire la sopravvivenza di Fiat, evitando che venga letteralmente mangiata da qualche grande gruppo industriale, occorre infatti aumentare la produzione e la distribuzione di vetture in tutto il mondo, andando a collocare automobili anche in nazioni
29 WWW.ILRIBELLE.COM
dove prima i marchi Fiat, Lancia ed Alfa Romeo non venivano distribuiti semplicemente perché là non c’erano concessionarie del gruppo automobilistico italiano.
L’unione fa il pasticcio Le automobili sono un business morto. Solo due o tre grandi costruttori sopravviveranno in questo mercato che è troppo saturo di marche e prodotti rispetto alle reali necessità del consumatore. Per questo tutti i piccoli cercano di unirsi e fare così “massa critica”, nel tentativo di sopravvivere all’ondata
Per garantire la sopravvivenza di Fiat, occorre aumentare sia la produzione che la distribuzione di vetture in tutto il mondo, arrivando in Paesi come gli Stati Uniti dove finora non esisteva una rete di concessionarie del gruppo. di fallimenti. Un’operazione che equivale a vivere in una casa senza riscaldamento ed andare a dormire tutti nello stesso letto per tentare di riscaldarsi. Ecco allora che l’alleanza con Chrysler, che di concessionari negli Stati Uniti ne ha qualche centinaio, può venire utile. Ma il vero punto interessante di questa fusione è che essa avviene con un’industria americana finanziariamente in crisi. Questo garantisce l’accesso ai fondi governativi USA: in pratica soldi liquidi dei quali Fiat ha tanto, ma proprio tanto bisogno per organizzare questa nuova rete di distribuzione e di commercio dei propri modelli all’estero. Dollaroni freschi freschi, che per legge dovranno restare in America, certo, ma che di fatto serviranno anche a rilanciare i canali di distribuzione Chrylser nella Terra delle Opportunità, quindi la rete dei concessionari, quindi anche la distribuzione della Fiat Cinquecento e degli altri modelli di casa Agnelli, pardon, Montezemolo, pardon, Elkann. In cambio di Chrysler, la Fiat dal canto suo - si è impegnata a fornire alla Chrysler “miliardi” di queste famose “tecnologie d’avanguardia”, che non si sa bene quali siano. Capitolo Opel. Questa in realtà è una vecchia storia, a tratti anche divertente. Fiat infatti, alcuni anni fa, stipulò un accordo con General Motors (allora come oggi proprietaria del marchio Opel) in base al quale la casa automobilistica statunitense si impegnava a collaborare con Fiat nello sviluppo di nuove piattaforme per automobili (non a caso la Fiat
30 LA VOCE DEL RIBELLE
Grande Punto e la Opel Corsa ancora oggi hanno praticamente la stessa tecnologia) in cambio della possibilità di acquistare un rilavante pacchetto di azioni (praticamente General Motor si era impegnata ad acquisire il pacchetto di maggioranza di Fiat) entro qualche anno. Di fatto, dopo aver dato una seconda occhiata alla posizione debitoria di Fiat, e dopo aver compreso che per raddrizzarla ci sarebbero voluti qualche anno e qualche decina di migliaia di emicranie, General Motors preferì interrompere l’accordo e pagare una penale di un miliardo e mezzo di dollari a Fiat piuttosto che caricarsi sulle spalle l’industria automobilistica torinese7. Oggi è la Fiat a farsi avanti per comprare Opel dalla General Motors: quella stessa casa automobilistica con la quale per anni ha collaborato, e che produce ancora oggi modelli basati su propulsori sviluppati in collaborazione con Fiat. Casualmente, appena Fiat si è avvicinata ad Opel, General Motors, che di Opel è la proprietaria, si è rifatta sotto dichiarando di voler acquistare il 30% del pacchetto azionario di Fiat Auto8. Con quali soldi potrebbero mai avvenire tutte queste operazioni? Ricapitoliamo: Fiat è indebitata per 18 miliardi di Euro. General Motors perde attualmente 113 milioni di dollari al giorno. Opel ha un buco finanziario sostanzialmente incolmabile. La strategia, non potendosi basare su soldi veri dato che di soldi veri non ce ne sono da nessuna parte, è solamente virtuale.
In pratica non gira nemmeno un soldo autentico: tutto si concretizza attraverso scambi azionari. Ma poiché questo tipo di operazioni tendono a galvanizzare le Borse, le azioni della Fiat potrebbero anche diventare un affare. Per un po’. Fiat rileva Opel usufruendo anche degli aiuti economici del governo tedesco che si premura di salvaguardare l’occupazione negli stabilimenti in Germania. General Motors, che è la proprietaria di Opel, cede il marchio tedesco alla Fiat e non chiede nemmeno un soldo in cambio (anche perché Fiat di soldi non ne ha), ma si fa pagare in azioni. In pratica non gira nemmeno un soldo autentico: tutto si
31 WWW.ILRIBELLE.COM
concretizza attraverso scambi azionari. Ma poiché queste operazioni di fusione ed accorpamento galvanizzano i mercati borsistici, le quotazioni delle azioni Fiat potrebbero ringalluzzirsi velocemente, diventando persino un affare per chi dovesse comprarle e rivenderle a tempo debito.
Virtuale: tanto per cambiare Mercati virtuali, finanza virtuale. Ancora una volta. Ed ancora una volta, sullo sfondo, ci sono i lavoratori veri e le fabbriche che chiudono. Chiudono perché se nel mondo si producono troppe automobili rispetto a quelle di cui il mercato ha bisogno, non c’è fusione che possa cambiare questo dato di fatto. Un processo inesorabile che porterà alla perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e che i
Naturalmente resta intatto l’assunto di fondo, all’interno di una economia così debole, e con scarse possibilità di uscita da questo vicolo cieco, chi è, e dove, che dovrebbe acquistare questo mare imponente di produzione di automobili? governi nazionali provano ad arginare con aiuti economici che in realtà, lungi dall’essere investiti in ricerca e sviluppo o nella ristrutturazione degli impianti, servono a garantire qualche altro mese di cassa integrazione agli operai, oltre che a pagare il cherosene per tenere in aria decine di jet privati che fanno la spola tra Berlino, Washington e Torino. Il tutto nell’attesa che questo giro di valzer tra marchi automobilistici, abbinato ad un provvidenziale riassortimento “esotico” delle vetrine dei concessionari (immaginate di poter acquistare una Jeep in un concessionario Fiat di Carate Brianza, o un’Alfa Romeo in un salone del Tennessee) faccia riacquistare fiducia ai mercati. Detto banalmente, si attende che i risparmiatori ricomincino ad acquistare prodotti (e soprattutto azioni), rimpiazzando con soldi veri i soldi virtuali con i quali attualmente si svolgono queste operazioni di fusione ed accorpamento.
32 LA VOCE DEL RIBELLE
Ancora una volta, il capitalismo prova ad infilare le mani nel portafoglio del popolo. Non a caso General Motors, sulla quale pesano 30 miliardi di dollari di rosso, ha annunciato ai propri creditori che tutti i debiti saranno convertiti…. in azioni! I creditori, dal canto loro, hanno risposto picche: tutti sanno che, oggi come oggi, le azioni General Motors sono carta straccia. Ma anche a questo, ovviamente c’è una soluzione: far fallire General Motors e creare una nuova società identica alla prima. Con lo stesso nome (General Motors), con gli stessi stabilimenti, gli stessi operai e gli stessi (obsoleti) prodotti. Così, a fallire veramente saranno solo i creditori della “vecchia” General Motors, colpevoli di non aver creduto fino in fondo nel fatto che, in mancanza dei soldi veri, possando andare bene anche le azioni, cioè i soldi finti. Guarda caso, prima che Fiat entri nel capitale di Chrysler, anche quest’ultima è stata fatta fallire. Un’operazione utile a scrollarsi di dosso qualche debito (vero) di troppo, prima del grande matrimonio (virtuale). Il tutto con la benedizione di Obama, perché è vero che “Sì, possiamo cambiare”, ma se alla fine del processo di cambiamento si dovesse scoprire che proprio nulla è cambiato, forse – per qualcuno - sarebbe ancora meglio.
Giuseppe Carlotti
Note: 1 Il Sole 24 Ore inserto motori, 12 maggio 2009 2 ADNKronos, 6 maggio 2009 3 Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2003 4 Luigi Furini, HYPERLINK "http://luigifurini.blogspot.com/2009/05/fiat-deve-venderequalcosa.html" http://luigifurini.blogspot.com/2009/05/fiatdeve-vendere-qualcosa.html 5 La Repubblica, 30 aprile 2009 6 http://www.euroncap.com/tests/fiat_seicento_2000/73.as px 7 Notizia diramata da Confcommercio nel 14 febbraio 2005 attraverso il suo portale internet 8 Corriere della Sera, 8 maggio 2009
33 WWW.ILRIBELLE.COM
ANALISI
La grande
illusione
“I
La teoria è arcinota: più pubblicità ti fai, più clienti trovi. Ma i dati reali dimostrano che le cose non stanno così. I consumatori sono sempre meno disponibili a seguire i “consigli per gli acquisti”. E perché mai, allora, ci si ostina a investire come se andasse benone? Semplice: c’è un enorme intreccio di interessi di Giuseppe Pennisi
t pays to advertise” dice un proverbio americano tradotto, più o meno, in italiano con il detto “la pubblicità è l’anima del commercio”. Negli ultimi 15-20 anni, in parallelo con la bolla dell’investimento immobiliare, è esplosa un’altra bolla – quella della pubblicità - di cui si stanno accorgendo, amaramente, non solamente gli editori di giornali e periodici (l’editoria è in grave crisi in tutti i Paesi industriali ad economia di mercato a causa del vero e proprio tracollo delle inserzioni) ma anche tutto il vasto mondo collegato negli Usa a Madison Avenue e a Milano a Via della Spiga e dintorni. Un grafico mostra come stia andando a picco una delle ultime (e forse più insidiose) forme di pubblicità: l’invio a domicilio di offerte promozionali collegate a carte di credito. I dati sono di fonte americana; l’elaborazione è stata fatta a maggio 2009. È interessante
34 - WWW.ILRIBELLE.COM
La proliferazione delle forme di pubblicità ha portato a metodi più aggressivi, ma anche più fastidiosi. L’advertising ha perso di credibilità. Secondo una recente indagine, nei Paesi Ocse l’80 per cento dei consumatori “non hanno fiducia” nella pubblicità e si rivolgono alle inserzioni solo se cercano qualcosa di molto specifico.
confrontarlo con altri due grafici: quello relativo all’andamento delle spese delle famiglie per consumi privati e quello relativo alle vendite al dettaglio. Il tracollo della pubblicità è molto più forte di quello delle spese delle famiglie per consumi privati ed anche del forte calo delle vendite al dettaglio. Riflette, infatti, la fine di un’illusione: quella secondo cui (vi ricordate La Società Opulenta di John Kenneth Galbraith nella seconda metà degli Anni Cinquanta?) “i persuasori occulti” potesse plasmare le scelte di individui, famiglie ed imprese, creando nuovi “bisogni” e forgiando la domanda in funzione delle esigenze dei produttori. La proliferazione delle forme di pubblicità (dagli innocenti cartelloni e dai “Caroselli” di un tempo alla vera e propria tempesta in televisione, sul cellulare, sui siti web, al proprio telefono di casa nei momenti in cui si è concentrati su altro) ha fatto sì che, da un lato, i modi sempre più aggressivi siano diventati sempre più fastidiosi e, dall’altro, che l’advertising abbia perso di credibilità. Secondo un’indagine recente, nei Paesi Ocse oggi l’80% dei consumatori “non hanno fiducia” nella pubblicità e si rivolgono alle inserzioni unicamente quando cercano qualcosa di
35 WWW.ILRIBELLE.COM
molto specifico. Se non vengono lette, guardate od ascoltate - anzi, alla minaccia della pubblicità si volta pagina, si cambia canale, ci si sintonizza altrove -, allora perché dedicare risorse al settore e alla variegata schiera di “comunicatori” da esso alimentati? Il risveglio per alcuni è stato brusco; per chi scrive il quadro era già chiaro all’inizio del decennio quando, richiesto di condurre uno studio della transizione da televisione analogica a digitale terrestre, una semplice occhiata alla curva di spesa pubblicitaria (un andamento molto più forte di quelli del pil e dei consumi) indicava che la bolla era lì lì per esplodere e che, quindi, per il finanziamento di una televisione a 400 canali si sarebbe dovuto pensare ad altre fonti di entrata. È un tema per sociologi più che per economisti. La teoria economica dell’informazione, però, è chiara: la credibilità del “bene informazione” si conquista e si mantiene con fatica; i ragazzi “brillanti” di Madison Avenue e simili non lo hanno capito. Come non hanno metabolizzato la vecchia legge di Grisham secondo cui la moneta cattiva caccia quella buona.
Giuseppe Pennisi
36 LA VOCE DEL RIBELLE
METAPARLAMENTO
Referendum,
I
una strategia liberticida
I riformisti di destra e sinistra inneggiano a una legge elettorale peggiore di quella che sancì la dittatura fascista. Due soli partiti, un solo totalitarismo “democratico” di Alessio Mannino
l tormentone delle ultime settimane si è concentrato sul denaro pubblico che si sarebbe potuto risparmiare accorpando il referendum sulla legge elettorale alle elezioni europee e amministrative (election day): 400, 200 o 100 milioni, a seconda delle fonti. Soldi utilizzabili subito per gli aiuti ai terremotati abruzzesi. Invece, colpevole una Lega che dalle conseguenze della riforma referendaria ne uscirebbe spodestata del suo ruolo di ago della bilancia al Nord, le urne per cambiare la legge elettorale dovrebbero aprirsi il 21 giugno. Questa la versione dei fatti nota a tutti. Perché poi c’è la parte misconosciuta. E cioè i quesiti stessi, che nessuno dei grandi media si è preso la briga di spiegare. Soprattutto nella loro devastante portata liberticida.
Bipartitismo Non staremo qui a tediarvi coi dettagli. Badiamo al sodo: la proposta del comitato guidato da Mariotto Segni e Giovanni Guzzetta si divide sostanzialmente in due punti. Il primo riguarda l’abolizione dei collegamenti tra liste e l’assegnazione di un premio di maggioranza alla lista «che abbia ottenuto il maggior numero di seggi» (quesito 1 e 2), con uno sbarramento del 4% alla Camera e dell’8% al Senato. In parole povere, i partiti non potranno più allearsi e saranno costretti a fondersi in due sole maxi-formazioni (bipartitismo), dovendo in ogni caso superare una soglia minima di preferenze. Chi fra i due colossi prende più voti conquista di diritto il 51%. Il secondo punto (terzo quesito) prevede l’eliminazione della possibilità di candidature multiple in più circoscrizioni e mira a togliere di mezzo il malcostume di far presentare ovunque candidati forti (come l’onnipresente acchiappa-voti Berlusconi, per esempio)
37 - WWW.ILRIBELLE.COM
per poi far subentrare in parlamento i secondi, terzi, quarti in lista etc. E si tratta del solo aspetto “positivo”, sempre volendo ragionare all’interno della democrazia cosiddetta “rappresentativa”. L’obbiettivo ultimo del comitato trasversale a sostegno del referendum – Fini e Alemanno per An-PdL, Di Pietro e la sua IdV, Parisi e il “defunto” Veltroni per il Pd, ma anche il neosegretario Franceschini e lo stesso premier hanno detto che voteranno sì – è finire il lavoro iniziato nei primi anni ’90 con l’introduzione del sistema maggioritario: semplificare il panorama politico italiano fino a ridurlo a due sole forze, fagocitanti e onnipotenti.
Chi ci guadagna L’Italia dei Valori si era schierata a favore per dare addosso alla attuale ultra-partitocratica legge chiamata “Porcellum”, che nega persino la possibilità di scegliere il singolo candidato. Poi, il voltafaccia1: l’ex
A prima vista il Pd non dovrebbe avere alcun motivo di sponsorizzare un sistema elettorale che pare fatto apposta per dare ancora più forza al PdL. Ma lo scopo è preciso: spazzare via tutti gli altri e duellare da soli pm “scopre” che con il premio di maggioranza l’arcinemico Berlusconi, dato il suo strapotere elettorale, è destinato ad avere il controllo del parlamento teoricamente ad aeternum. E così il suo sì è diventato un no in nome della battaglia contro la “dittatura” berlusconiana. Additando come ignavo, quasi come complice, il Pd di Franceschini. In realtà, se vincessero i sì, il Pd sarebbe trasfigurato ad opposizione unica piegando a più miti consigli il “duro e puro” Di Pietro. E chissà che un domani, scomparso il Berlusca dalle scene, il PdL non si sfaldi e la sfida si riapra. Perché questi due nemici-fratelli, Pd e PdL, hanno già compiuto la parabola “americana” vagheggiata dai referendari. E ingabbiando con le sbarre di una legge così rigida la competizione elettorale, ne risulterebbero entrambi i beneficiari. Tuttavia, come si è visto col siluramento dell’election day da parte leghista, un taglio così netto trova la strenua resistenza di chi, al
38 LA VOCE DEL RIBELLE
contrario, ci rimette. Come la Lega. Il Carroccio intende restare ben incollato alle poltrone di governo senza farsi inglobare nel nuovo partitone a immagine e somiglianza di Silvio. Ora, se l’esecutivo in carica dovesse essere fatto cadere dal PdL per andare a elezioni anticipate con una legge che vieta alleanze obbligate, sarebbe messa fuori gioco e la sua forza di ricatto nelle regioni settentrionali svanirebbe. (E non sarebbe affatto un male, se i leghisti ridimensionati a movimento di disturbo tornassero alle ragioni di protesta delle origini, tuttora validissime).
Acerbo bis Ma al di là degli interessi di bottega, diciamolo forte e chiaro: nel merito, hanno ragione Bossi e i suoi. Questa riforma è peggio della legge Acerbo con cui nel ’24 il fascismo avviato alla dittatura s’impossessò del parlamento. Perché persino i seguaci di Mussolini fissarono una percentuale minima (25%) senza la quale non si poteva accedere al premio di maggioranza dei due terzi. Gli attuali campioni della democrazia “avanzata”, neppure questo. Siamo già in un regime in cui i partiti fanno il bello e il cattivo tempo coprendo affari e ingrassamenti dei potentati economici e finanziari, ma ancora è tutelata una qualche blanda varietà d’idee. Con la vittoria del referendum, ogni diversità, soprattutto quella di chi si non riconosce nel sistema tout court, verrebbe azzerata in partenza. Non ci sarebbe la mini-
Tutto e tutti dovrebbero intrupparsi in due mega-partiti senza la tessera dei quali si perderebbe la cittadinanza politica. Due giganteschi comitati d’affari col dogma del mercato über alles. Due partiti. Un pensiero unico. ma possibilità di far entrare nelle aule parlamentari nemmeno un esponente di movimenti più o meno alternativi, tutto e tutti dovrebbero intrupparsi in due mega-partiti senza la tessera dei quali si perderebbe la cittadinanza politica. Due giganteschi comitati d’affari che avendo in comune il dogma del mercato über alles, opportunamente santificato dai riti cartacei (le “libere” elezioni), si rivele-
39 WWW.ILRIBELLE.COM
rebbero per quello che già sono: un partito unico con un pensiero unico. Si metterebbe il sigillo finale ad un’involuzione della politica italiana da grande lotta di ideali e visioni del mondo a connivente amministrazione dell’esistente, dividendosi in cordate a seconda degli azionisti di riferimento (banche signore del debito pubblico, industrie finanziatrici, imprenditori amici, proprietari di giornali e televisioni). La trasformazione delle idee in slogan intercambiabili sarebbe completa, e la libertà che ci resterebbe, a noi sudditi, si ridurrebbe a scegliere fra due etichette di uno stesso prodotto.
Fascio referendario E questa ce la chiamate “democrazia”, cari squadristi del fascio referendario? Segni e Guzzetta, i pasdaran di questa Acerbo bis aggiornata e peggiorata, naturalmente risponderebbero facendo professione di fede democratica. Una patente che dovrebbe esser loro tolta seduta stante, dato che se passa la loro sciagurata paranoia semplificatoria priveranno i milioni di italiani che non si riconoscono né nel Pd né nel PdL di quel poco di democrazia che resta loro. Chi non si conformerà vedrà di fatto cancellato il proprio diritto ad esprimere il voto. Trionferà un totalitarismo a due teste, e tutte le altre verranno decapitate. A meno, s’intende, di non farsene gregari. I “riformisti” esulteranno. I veri democratici, invece, non andranno a votare, affossando il quorum. E sarebbe ora che disertassero la farsa delle urne per sempre, fin quando non avremo l’unica democrazia degna di questo nome: diretta, su base locale, semmai proporzionale e libera dalle mafie partitiche.
Alessio Mannino
Note: 1«Se veramente il leader del Pd vuole fare una cosa utile per la democrazia di questo Paese - prosegue Di Pietro - si impegni con noi al fine di impedire che Berlusconi si appropri anche del risultato referendario del 21 giugno. Noi dell’Italia dei Valori, che pure abbiamo promosso quel referendum e raccolto le firme con lo scopo nobile di cambiare questa legge truffa, oggi abbiamo il coraggio di dire ai cittadini di votare no. Infatti - spiega - il referendum era stato concepito come il grimaldello necessario per modificare l’attuale legge. Ma la prospettiva oggi è diversa». A. Di Pietro, Il Giornale, 11 maggio 2009
40 LA VOCE DEL RIBELLE
ANALISI
La bottiglia
L
e la brocca di Ougadougou
Senza acqua non c’è vita. E le riserve d’acqua sono tutt’altro che illimitate. Ma in Occidente trionfa la logica del consumismo: cittadini che sprecano, imprenditori che si arricchiscono di Francesco Bertolini
a rottura delle acque prelude alla nascita di un bambino; il liquido amniotico fuoriesce insieme alla vita. Dovrebbe essere questa l’immagine per una campagna globale a difesa dell’acqua, da cui tutti noi veniamo e senza la quale non potrebbe esistere la vita, sia nella madre donna che nella madre terra. Eppure la si continua a maltrattare, inquinando i mari e i fiumi e imbrigliando i corsi naturali in orribili canali di cemento, che, come belve ingabbiate, non potranno far altro che restituire la violenza ricevuta alla prima occasione. Ormai da molti anni l’acqua viene definita l’oro blu, dopo decenni in cui l’unico oro, oltre a quello naturale, era nero, il petrolio. È ora di smetterla di assegnare titoli di valore alle risorse vitali del pianeta; senza petrolio si può vivere, senz’acqua no. Il business delle acque minerali è ormai enorme, in paesi come l’Italia si consumano circa 200 litri di acqua in bottiglia pro capite ogni anno, con conseguente consumo di petrolio per produrre la plastica e per trasportare le bottiglie da una parte all’altra del paese; non importa quindi se l’acqua che “purifica il tuo organismo”, perché oligominerale o a basso residuo fisso, contribuisce a sporcare tutto ciò che è fuori dal tuo organismo. Si continua a mantenere staccato il benessere individuale dal benessere del pianeta e dell’ambiente in cui viviamo. Licenze che costano pochi spiccioli generano fatturati enormi all’industria delle acque, che nulla fa e nulla potrebbe, vista l’essenza del suo business, per migliorare la situazione. Anzi, più si pregiudica la qualità complessiva dell’acqua, più valore assume l’acqua proveniente da fonti incontaminate, che si trasforma così in acqua di tendenza, chic, con confezioni che ne fanno uno status, l’ennesimo in una società che ha perso ogni riferimento alla realtà. Nei villaggi intorno a Ougadougou, così come in tutto il Burkina Faso
41 - WWW.ILRIBELLE.COM
e in molti altri paesi africani, andare a prendere l’acqua rappresenta un momento fondamentale della giornata. È difficoltoso e faticoso procurarsi l’acqua: i pozzi infatti sono profondi e, una volta pieni, i recipienti in rame o in plastica sono molto pesanti. L’acqua viene usata per l’igiene personale, per cucinare, per lavare le stoviglie, per innaffiare le piante, per dissetare persone e bestiame. Chissà cosa direbbero se, seduti in un ristorante vedessero bottigliette d’acqua come piccoli souvenir in cui è la bottiglia e non il contenuto a essere importante. Siamo così convinti che l’acqua sia una risorsa infinita, come si è sempre pensato nella storia dell’umanità, ma non è così. Non è molta l’acqua disponibile, in alcune parti del mondo non c’è proprio, eppure viene usata per i campi da golf e per i centri benesssere dei grandi alberghi, ribaltando quell’etica di cui tanto si parla nei piani di sviluppo e nella gestione della governance mondiale. Nelle ricche città occidentali il viaggio è ormai un bisogno da cui è impossibile sottrarsi: le città sono luoghi da sfruttare e abbandonare appena possibile, alla ricerca spesso di acque pulite. Le città italiane hanno perso quel rapporto di simbiosi con l'acqua, rapporto che in alcuni luoghi del mondo è addirittura paradossale, come in India, dove il Gange, il fiume sacro, puro, venerato, è tra i più inquinati al mondo, ma nei suoi confronti non si pensa di procedere a una depurazione perché si crede che sia la stessa sacralità del fiume a ripulirlo. Ma i corsi d’acqua italiani non sono il Gange, non hanno purtroppo quell'alone di magia e di sacralità che in parte può compensare e combattere, perlomeno in termini psicologici, i batteri che in essi nuotano. Ed è così che non godono più quel rispetto che meriterebbero. Spesso si fanno paragoni con i fiumi che attraversano le altre capitali europee, decantando con enfasi le loro bellezze ma soprattutto la cura con la quale sono tenuti i loro argini e le banchine. Sicuramente incide la cultura, il maggiore senso civico, gli impegni di spesa che le altre nazioni europee destinano ai loro corsi d’acqua, ma anche la morfologia del nostro paese dove in genere la distanza che si deve percorrere per arrivare a un mare bello e caldo come il Mediterraneo non è superiore ai cento chilometri. La struttura del nostro paese non giustifica tuttavia il totale degrado dei nostri corsi d'acqua: l'acqua ha permesso di costruire le città; il suo uso, dissennato, o attento e rispettoso, può privarle di un futuro, o rappresentare un punto di partenza per un loro nuovo rinascimento, di cui però, purtroppo, non se ne vede traccia.
Francesco Bertolini Docente Università Bocconi
42 LA VOCE DEL RIBELLE
ANALISI
E impariamo
a contare le stelle
Si ascolta la radio, si guarda la tv, si naviga nella Rete. Si crede di essere informati su tutto. Ci si illude di dominare lo spazio e il tempo, dimenticando quello che si è perso
S
di Simone Olla
e la grafosfera ha generato lo Stato educatore e la videosfera lo Stato seduttore, la websfera ha realizzato lo Stato sconfinato, ovvero la scomparsa dello Stato moderno: il confine politico e geografico dello StatoNazione si è trasformato in un labirinto reticolare senza inizio né fine: il centro è dappertutto e in nessun luogo. Abbiamo superato la modernità per entrare in una nuova epoca, quella delle reti, nella quale lo Stato simula la sua esistenza in tempo reale. La realtà è al suo culmine (Jean Baudrillard). La tecnica continua il perfezionamento oggettivo della realtà, la sua pulitura: siamo nell’eccesso di realtà, nel virtuale: siamo nella mancanza di realtà. La postmodernità è un’immensa rete che ha connesso il mondo interfacciando luoghi e persone fisicamente lontani, annullando spazio e tempo, dove l’orizzontale si manifesta in termini di possibilità politico-democratica garantendo l’accesso a informazioni che non provengano da giornali, radio o televisioni: il potere statale di emettere informazioni è sostituito da un (potenziale) potere individuale: l’uomo-massa finalmente libero (libero?) sperimenta la fusione tra medium caldi e medium freddi. Osserva Marshall McLuhan: «L’ibrido, ossia l’incontro tra due media, è un momento di verità e di rivelazione dal quale nasce una nuova forma.» Ecco internet: un ponte per tornare al luogo e quindi all'uomo, un’uscita dalle masse, una presa di coscienza "virtuale" della necessaria socialità dell'essere umano, una fase di transizione nella quale ripensarci dal confronto, pensarci artefici di senso e di mondi possibili. E invece questo ponte pare essersi chiuso su se stesso, in una ruota, una ruota panoramica dalla quale si vede tutto, comodamente seduti, ancora una volta spettatori: internet è un acceleratore di infinite informazioni che vicendevolmente si riducono all’uni-
43 - WWW.ILRIBELLE.COM
co – al medium stesso – dentro uno spazio-tempo annullato. Caos dell’istante. È l’immediatezza del virtuale – il tempo reale – che eccede la realtà. Non v’è immaginazione. Tutto è dato senza poter essere accettato, manca il tempo che sospende la risoluzione. Manca il ritardo: «Una vera comunicazione – sostiene Alain de Benoist – presuppone sempre un effetto di dif-
La cultura di massa è tensione verso l’unico, l’omogeneo, l’indifferenziato. Si avanza verso l’unico immaginario possibile: la tecnologia è auto amputazione dell’uomo. È perdita. ferimento, di ritardo nella trasmissione, di sfasamento temporale fra l’emittente e il diffusore, necessario alla riflessione su ciò che è oggetto di comunicazione». Per Baudrillard tempo reale e regola simbolica dello scambio sono incompatibili: «Ciò che regge la sfera della comunicazione (interfaccia, immediatezza, abolizione del tempo e della distanza) non ha alcun senso in quella dello scambio, dove la regola vuole che quanto è dato non sia mai restituito immediatamente.» Nell’epoca delle reti risulta doveroso aggiornare la distinzione di Marshall McLuhan fra media caldi o di alta definizione (radio o cinema) e media freddi o di bassa definizione (telefono o TV), sia perché l’Alta Definizione caratterizza di per sé l’epoca delle reti, sia perché Internet costituisce la sintesi definitiva di tutti mezzi di comunicazione di massa. L’uno è tutto. L’omogeneo passa attraverso la rete, e ad esso corrisponde la più bassa definizione del messaggio. L’uomo è un essere parlante condizionato dalla potenza del medium: uscire dal discorso significa per prima cosa uscire dal discorso di massa, degradante perché subìto e uniformante perché di massa. Pretendere di affermare qualcosa è impossibile, l’uomo è parlato: egli interiorizza stimoli attraverso i sensi e li sputa fuori in forma di comunicazione: maggiore è la potenza del medium che induce questi stimoli e maggiore sarà il condizionamento che l’uomo ne avrà. La potenza del medium risiede completamente nella legittimità sociale accordatagli dalle masse. Basta la potenza, la legittimità sociale. Basta il medium, il mes-
44 LA VOCE DEL RIBELLE
saggio gli viene dietro. I media sono la divinità senza volto della società occidentale (Alexandre Zinoviev). Il medium di massa ha creato la cultura di massa. La cultura di massa è tensione verso l’unico, l’omogeneo, l’indifferenziato. La riduzione dell’immaginario singolare bilancia l’avanzare dell’unico immaginario possibile: la tecnologia è auto amputazione dell’uomo, perdita: l’uomo recide – affidandosi – senza avvertire l’assenza. L’energia elettrica, per prima, ha oscurato l’assenza illuminando il buio naturale. E, dall’energia elettrica, è stata continua la mutilazione del corpo umano inteso come mezzo – medium. Perché mutilarsi, cedersi, privarsi? Per sentirsi parte di un tutto? Fosse anche l’unico-tutto possibile? Quale uomo opporre all’uomo frammentato della cultura di massa? Quest’ultimo, affidando il senso alla cultura di massa – quindi al medium –, si pone in una situazione di costante dipendenza: il senso, paradossalmente, risiede nel vano tentativo di bastarsi singolarmente. Il senso è la ricerca dell’unico bastevole senso.Tuttavia: com’è possibile cercare l’indipendenza dentro uno stato di perenne dipendenza?
Praticare il deserto per poi tornare all’uomo e al luogo nel contempo: via dall’atomizzazione di massa che uniforma per sottrazione dell’uomo. Via dalla massa umana. La necessaria socialità dell’uomo è soddisfatta dal farsi dire indotto: non si sfugge nemmeno dalla macchinazione sociale. L’unica possibilità dell’esserci è nell’atto, di volta in volta, liberati perfino dal discorso. Il passaggio al bosco jungeriano in questo senso è un’ipotesi di liberazione, abbandono, oblio: praticare il deserto per poi tornare all’uomo e al luogo nel contempo: via dall’atomizzazione di massa che uniforma per sottrazione dell’uomo, via dalla massa umana. Essere un numero del meccanismo o avere un destino è la decisione che sta davanti a tutti, ma che ciascuno deve prendere da solo (Ernst Jünger). Essere un numero del meccanismo o spegnere tutte le luci. Essere complice del meccanismo o toccare la finitezza del luogo e imparare a contare le stelle.
Simone Olla
45 WWW.ILRIBELLE.COM
BORDERLINE
Eccomi,
morte che dai l’oblio
Una vita intera a farsi beffe delle finzioni e dell’ipocrisia: gli innumerevoli veli con cui ricopriamo l’insensatezza del vivere
“C
di Matteo Orsucci
rematemi, e con le mie ceneri fateci quel che volete. Magari una bella crostata per colazione”. La frase non era delle più felici, i presenti al capezzale sempre quelli, e il malato d’onore ancora lui. Per l’atto finale. Quello a cui non avrebbe più replicato. Carmelo Bene era nato il 1° settembre 1937, a Campi Salentina, Puglia. Anzi, nelle Puglie, ché, come teneva a sottolineare lui stesso, coincidevano a un mondo. La Puglia era un equivoco lessicale, non poteva esistere: sarebbe stato come far coesistere nel medesimo spazio due città incommensurabili, Roma e Milano tanto per dire. Le Puglie, quindi. La terra d’Otranto, i gelsomini, l’ebbrezza di quegli aromi, il colore irripetibile di quel rosso – terra d’Otranto appunto – che rapiva la vista. Che barbarie accomunarlo col giallo della terra di Siena. Già, la vista… Sì, la vista era una fregatura. Gli occhi meglio cavarseli dalle orbite. Lasciò acceso per una vita l’amato Sony 34 pollici, puntualmente ignorato nelle sere conviviali. Lui, rapito piuttosto dalle “buzzicone” impresentabili di qualche rete locale; lui che passava notti intere scolando bottiglie di whisky nel forsennato tentativo di un’esegesi irrazionale di quei mostri televisivi. Ora che l’avevano affettato per bene, per l’ennesima volta, non ne voleva più sapere di quello schermo. Fece oscurare persino lo specchio di fronte al quale, vezzoso, posava come un Eliogabalo. Durante il ricovero allo European Hospital frequentava la notte con urla disperate, ammazzato nella voce che non era più la sua. Cristiano Huscher, il chirurgo che nel dicembre 2001 esegue l’intervento cui non ne seguiranno altri, era un professionista che Carmelo aveva trasposto quale inquilino delle rovine della sua
47 - WWW.ILRIBELLE.COM
abitazione preferita. Era lui l’ospite di una pagina non scritta di Edgar Allan Poe, magari proprio una pagina de Le rovine di casa Usher; macerie che intravedeva quali possibilità da cui non potersi esimere per farsi fuori una volta per tutte. Dava lezioni in francese all’infermiere di turno su Céline, su Bagattelle per un massacro e ovviamente sul Viaggio al termine della notte. La morfina non sortiva più effetto. Le grida svegliavano le camerate vicine, il primario si metteva le mani nei capelli e i chirurghi che lo incontravano prima di portarlo sotto i ferri, alla domanda di rito “Cosa desidera prima di addormentarsi?”, sentivano rispondersi da Bene, che ci ghignava sopra: “Non svegliarmi mai più”.
L’aborto di se stesso Non poteva sopportare di finire in quel modo. Il suo amico e sodale di una vita, Giancarlo Dotto, ha ricordato che negli ultimi giorni «Carmelo perdeva pezzi di intestino, si lamentava, stava cadendo mano a mano verso la fine». Non aveva mai potuto sopportare di essere un umano, che Carmelo declinava né più né meno sotto la formula di tubo digerente: «mangiare, digerire, cagare; no, non posso pensarci, non voglio
A trent’anni i medici furono già chiari: farla finita o la morte certa. Carmelo era stuzzicato dal rischio, dalla surreale possibilità di morire ancor prima di invecchiare. rendermi conto di essere un produttore di sterco e basta», ha dichiarato proprio a Dotto nella stesura della sua biografia-intervista Vita di Carmelo Bene edita da Bompiani (e quindi opera di Elisabetta Sgarbi). Figurarsi: Carmelo Bene che nella vita fece dell’eccellenza la categoria declassata a stile, non potendo accedere al nulla, giunse al compromesso storico dell’altro da sé. Ispirato da Bentham, utilizzò le masse inconsapevoli per riempire teatri e concedersi ogni eccesso. A trent’anni i medici furono già chiari: farla finita o la morte certa. Carmelo era stuzzicato dal rischio, dalla surreale possibilità di morire ancor prima di invecchiare. Lui che non era mai nato, bensì abortito. «La gravidanza uterina è un massacro, un travaglio, non tanto per la madre quanto piuttosto per il figlio. Le
48 LA VOCE DEL RIBELLE
contrazioni, le spinte, nulla di più barbaro», disse della nascita. Il suo aborto. Aborto di se stesso. Fino poi alla riscrittura dei classici negli scantinati romani anni Sessanta, solcando la scena dei Settanta fino a cementare la figura quasi divina di Carmelo Bene – teso tra la provocazione e l’eccesso incompreso – degli Ottanta. Ogni sera a trascinarsi su quelle scene. Ogni sera a scegliere l’alter ego meglio calzante. Dal pastore Aligi di Gabriele D’Annunzio perduto nelle uterine acque del misconoscimento, fino al playback incubo di Mastro Geppetto, proiettato nel burattino che non voleva marcire da legno a carne, e che fa cadere il naso, infine, l’estremo segno dell’obbedienza. Il delirio della paternità. Collodi a testa in giù. La Fata Turchina, Lydia Mancinelli, alla stregua di una delle tante Alici allo specchio di Lewis Carroll. E ancora Manfred, l’opera byroniana, il capolavoro della voce e dell’anima. E tutti ancora in cerca di quella voce, che pregano di ascoltarla ancora una volta, magari proprio l’ultima, e non si sa come poter fare. La dannazione, proprio come quella di Manfred: chi non riesce a non fare a meno della dannazione dell’anima, che proprio dell’anima non gliene frega nulla. Meglio anzi non avercela, che avercela santa. Massimo interprete di William Shakespeare, rilettore dell’Amleto di Jules Laforgue nel punto esatto: «Le confessioni sono come i traslochi, devono essere fatte di notte perché altrimenti ti ammazzano». Ricercato dal pubblico bene, tirato per la giacca, idolo dei giovanissimi che lui detestava, intuendoli affascinati dalla rivoluzione smutandata in partenza. Ricercato persino dai creditori della Bnl, ricercato al finestrino della propria auto dal presidente Pertini: «Adesso tocca a te il Nobel», disse l’allora inquilino del Quirinale che come risposta ricevette una grassa risata. «Hanno creato ad arte il Ministero del Turismo e dello Spettacolo, che poi altro non è che il Ministero dello Spettacolo del Governo, e tra di loro si impalmano, si consegnano onorificenze: se anche io sono così mi faccio schifo». Dalla Scala all’Argentina, dai teatri di prosa a quelli lirici. Fino in Russia, a sperimentare. E quando si arrampicò sulla Torre degli Asinelli a Bologna: tre ore di traffico bloccato, la gente che si perdeva nelle strade vicino alla piazza e la voce di Carmelo amplificata di migliaia di watt. Dante in pubblico. Lui, privato del privato. Un teatro a cielo aperto.
49 WWW.ILRIBELLE.COM
Italiani, gente scema Era il 1980, la strage alla stazione, la paura e il terrorismo. «Dedico questa serata da ferito a morte, non ai morti, ma ai feriti di questa orrenda strage». Un boato. Giovani e meno giovani col sacco a pelo, che lo acclamavano come oggi accade a Vasco Rossi. Che lo caldeggiavano, stupiti e non impauriti da quel mostro di bontà che era Carmelo. I più attenti se ne distaccavano solamente nei momenti più alti del pensiero: laddove insomma, riprendendo la lezione di Thomas Hobbes, andava recitando la frottola della democrazia: «È disumana: corteggia le masse per averne il voto e l’approvazione, ma non risolve la vita, chi sceglie la democrazia sceglie il deserto». E ancora: «Gli italiani votano votano, non si capisce per chi votano. Non risolveranno mai niente con la democrazia». Finissimo conoscitore dei classici: cantava Rossini e si estasiava di fronte alla Beata Ludovica Albertoni del Bernini. La mistica dei poveracci, degli ignoranti, dei dimenticati da Dio che in Dio si perdono, nell’orgasmo si chiude occhi e bocca per non essere più se stesso. Da qui la distinzione fondamentale, cruciale in tutto il suo teatro, tra eros e porno: «Il porno è l’al di là del desiderio. Una volta sacrificato Eros, l’al di là della voglia, la voglia della voglia: questo è il porno. È una svogliatezza».
Farmaci, farmaci e farmaci Poi il buio. Non quello scenico, bensì il buio di essere altrove. L’istituto Mater Dei. Labirintiti, farmaci, farmaci e ancora farmaci. Il silenzio. Fino al 1994: un Costanzo Show da antologia. Carmelo spiega il Die Welt di Arthur Schopenhauer alla «massa di viventi comatosi» presenti in sala. Fa l’apologia dell’odio, «unico sentimento vagamente umanoide». Ragazzine gli chiedono di “sparire”. In sala persino Franco Citti che chiede una via di fuga, una speranza assieme a lui: «Tu sei accattone, Franco; loro, no, sono degli assassini, hanno ammazzato Pasolini ma sono dei dilettanti, sono accattoni a loro modo, ma non lo sanno». Il cancro sarebbe tornato di lì a breve. Ne aveva passate molte negli anni addietro. Non si era negato nulla. Mai. Ogni piacere del gusto, del palato, dell’olfatto. Tracannava ogni possibile nettare alcolico, comprese tutte le schifezze analcoliche che nella degenza ultima dovette accettare. Pane duro e caffè nero. Prigioniero di se stesso. E intanto il corpo gli marciva sotto gli occhi. E lui ci godeva, incuriosito da tanta decadenza. L’inorganico era vicino. Acconsentì all’ultima operazione a malincuore. Lo squartarono come nel bel mezzo di un’autopsia. Il tumore era maligno. Giunsero fino al diaframma, recidendogli un
50 LA VOCE DEL RIBELLE
pezzo del suo caro strumento. Al risveglio Carmelo si lamentava come un leone ferito: «La voce, la voce, non è più la mia voce, non ha più le armoniche». Poi il delirio prima del coma: «Piegatemi quella coperta sulle gambe, le gambe, non me le sento più». E non c’era da chiedere perché. Inutile con lui. Era morto, lo sapeva anche lui e ne godeva. Invocava la morfina, l’eutanasia, la fuga dall’abbruttimento di una vecchiaia
L’appello definitivo lo aveva lanciato nel 1998, con l’ultimo suo Pinocchio: quel burattino aveva chiaro negli occhi un destino segnato. Stava chiedendo, mentre il cancro lo scavava, un funerale da vivo. senza scampo. Dettò le ultime volontà, tra cui la realizzazione della fondazione, l’“Immemoriale”, che avrebbe dovuto essere gestita da Luisa, la sua ancella prediletta che negli ultimi anni gli stette a fianco, accudendo quel mostro fatto di bontà. Lasciò quel corpo, ne ottenne lo sfratto, infine, e tutti attorno che si stringevano tra loro. Fuori dalla sua casa sull’Aventino gli angeli dell’Hommelette for Hamlet, i gatti che sornioni si aggiravano in giardino distratti. Fotografia non sviluppata. Se ne andò in un pomeriggio più gozzaniano degli altri. Brusii di mici e via vai di gente, i pochi fidati amici di cui sopportava la presenza. L’appello definitivo lo aveva lanciato nel 1998, con l’ultimo suo Pinocchio: quel burattino aveva chiaro negli occhi un destino segnato. Fu un Pinocchio funebre quello. Stava chiedendo, mentre il cancro lo scavava, di avere un funerale da vivo. Nessuno capì. Ricordarlo oggi, continuare a passo di carica a inserire un gettone per leggere, ascoltare quella voce di un uomo il più delle volte nemmeno svisto in scena è un torto che Carmelo Bene non merita. Quella volta, sei anni fa, riuscì nell’impresa: uscire dal mondo, uscire di testa, dal corpo, dai traffici cardiologici delle coronarie che non tenevano. Volerlo riportare nell’al di qua, volerlo ricordare innalzandolo al sommo grado di genio, chiedere chissà cosa a un Paese che lo ignorò quando invece avrebbe dovuto non perdersi l’ultimo spettacolo, significa strapparlo al gelo dell’oblio, al rigor mortis consolatorio. Chi davvero lo vuol ricordare se lo scordi per sempre. Perché il problema è soltanto nostro. Di noi che siamo rimasti.
Matteo Orsucci
51 WWW.ILRIBELLE.COM
USCITI IERI
Persuasione (quasi) occulta
Oltre cinquanta anni fa Vance Packard spiegava i mille segreti della pubblicità. In un autentico manuale di autodifesa
L
di Valerio Lo Monaco
a chiave di volta per comprendere la validità assoluta di Persuasori Occulti di Vance Packard è nella messa a fuoco della data relativa alla sua pubblicazione, ovvero il 1957. Beninteso, già l'argomento in sé, almeno per chi è abituale frequentatore di queste pagine, è indicativo dell'importanza intrinseca del testo, ma certamente è dalla correlazione di questi due aspetti (tema e data di pubblicazione) che si può centrare il punto. Fin da allora - senza alcun giro di parole - c'era già chi aveva capito anche dal punto di vista scientifico quale era l'ultima deriva che il mondo Occidentale stava prendendo. Andiamo con ordine. Il concetto principale attorno al quale ruota tutto il saggio è quello della persuasione. Persuasione all'acquisto. Sia chiaro, il termine “acquisto” è usato per abbracciare una serie numerosa di campi. Principalmente quello del commercio e della merce, ma non solo. Illuminanti sono le pagine relative alla vendita, alla persuasione, di qualsiasi cosa. Di qualsiasi aspetto della vita della popolazione americana (ma il testo, naturalmente, ha validità universale). In un memorabile capitolo del libro si sviscerano i dati e soprattutto gli studi e i metodi che già allora si sviluppavano per “vendere” anche i candidati alla presidenza degli Stati Uniti. La vendita, soprattutto le tecniche psicologiche attraverso le quali persuadere le persone ad acquistare, sono infatti state applicate sin da allora per incidere nelle menti delle persone al fine da raggiungere: aumento degli acquisti. Il candidato alla presidenza degli Stati Uniti diventa dunque merce da vendere alla stessa stregua di un prodotto da supermercato. Così come altri aspetti, divenuti monetizzabili, dell'intera vita delle persone.
52 - WWW.ILRIBELLE.COM
Una delle ultime traduzioni ed edizioni disponibili nel nostro paese è corredata da una integrazione scritta negli anni Ottanta dall'autore. Parte nella quale già allora - ed è facile aggiornarla personalmente ai giorni nostri - si tiravano le somme in merito a come i metodi di persuasione si fossero evoluti nel corso di oltre un ventennio. Con risultati illuminanti e sotto certi aspetti preveggenti su quanto sarebbe accaduto da allora in avanti. Oltre allo studio della demografia, alla "ricerca motivazionale" è stato applicato quello dello psicografia. Allo studio dell'età, del reddito, dell'istruzione, dell'occupazione, dell'ambiente di provenienza e delle dimensioni della famiglia, si sono aggiunti quelli sugli interessi, sulle aspirazioni sociali, sul concetto di sé, lo stile di vita, i timori, le credenze. Il tutto allo scopo di trovare le strategie migliori per vendere, vendere, vendere. A una donna non si vende un sapone o una crema di bellezza: si vende la promessa di gioventù. E così per il resto: non si vendono arance, ma vitalità; non automobili, ma prestigio. Si è iniziato a vendere anche la promessa di sollievo psicologico dai problemi quotidiani. La pubblicità ritiene che per sfruttare le ansie offrendo il modo di alleviarle, il primo passo da compiere è creare o aumentare l'ansia stessa. Cercare di capire i bisogni nascosti delle persone, o meglio, creare bisogni che non esistono, è il primo passo per cercare poi di vendere il prodotto in grado - temporaneamente - di soddisfare tali bisogni. Il punto focale risiede nella presa di coscienza, da parte delle industrie di ogni ordine e rango, della saturazione dei vari mercati. E dunque nella assoluta imprescindibilità, pena la propria stessa esistenza, di indurre i consumatori (di tutto: di merci, di persone, di idee) all'acquisto di prodotti in maniera assolutamente avulsa dalle reali necessità. Di qui la nascita di agenzie psico-pubblicitarie per entrare nelle dimensioni più private della popolazione e capire le molle psicologiche che l'avrebbero indotta all'acquisto. I tre livelli presi in esame dai "social engineers" sono la natura umana: sulla quale ben poco si può fare per manipolare le persone; il livello culturale: dove si formano e si modificano le idee del pubblico; e il livello in cui si prendono decisioni senza alcun intervento di carattere razionale: a questo livello, con opportuni e relativamente semplici accorgimenti - il libro dimostra che è stato (ed è sempre di più) facile manipolare gli uomini. E renderli schiavi di questo sistema di sviluppo che proprio negli anni della prima stesura del libro prendeva la velocità ossessiva di cui abbiamo sviluppi estremi nei giorni nostri. L'intervento di ingegneria sociologica, era già allora uno dei temi più dibattuti. E il libro di Packard illustra le varie agenzie che poco dopo la fine della seconda guerra mondiale si sono messe in moto per raggiungere lo scopo. I registri attraverso i
53 WWW.ILRIBELLE.COM
quali si tenta di vendere sono i più disparati. Dai superiori a quelli inferiori e nascosti. Privati. Eppure sezionati metodicamente al fine di inoculare il germe in grado di generare l'acquisto e la scelta. A tutto vantaggio delle industrie. E ad insaputa di quelli che una volta erano persone e che da un certo punto in poi sono diventati unicamente consumatori. La validità del libro è nella sua natura sistematica e scientifica, piena di dati e interviste, studi e risultati. Si va dall'attacco all'inconscio da parte delle tecniche di vendita allo studio dei capricci dei consumatori. Dall'agente pubblicitario che diventa uno psichiatra agli ami calati per vedere chi abbocca. Dal narcisismo di massa alla "vendita dell'indulgenza" sotto forma di prodotti. Si parla di pubblicità e sesso e dei simboli del prestigio. Della psicoseduzione dei bambini sino al reclutamento di nuovi consumatori. La parte prettamente politica del libro, poi, riguarda la persuasione dei cittadini dal punto di vista di pubblicità e azione civile, con i primi studi scientifici applicati con una vera e propria regia del consenso, e dunque della coltivazione dell'ottimismo ai fini propagandistici. In una parola: l'anima in scatola. Mediante sistemi di vera e propria manipolazione operati con una strategia complessiva di persuasione. Illuminanti - soprattutto alla luce di oggi - le parole del professor Philip J. Allen, dell'università della Virginia, che allora rispondeva così a chi gli chiedeva una strategia per "persuadere gli americani ad aumentare di un terzo il proprio tenore di vita": «Occorrerà un poderoso finanziamento per l'impiego intensivo dei mezzi di diffusione di massa, in modo che gli obiettivi desiderati siano costantemente sottoposti all'attenzione dell'uomo comune. Si potrebbe elaborare tutta una serie di nuovi valori che, diffusi tra il pubblico, verrebbero da esso adottati come ideali personali e collettivi. Ma soprattutto occorrerebbe concertare lo sforzo delle massime istituzioni sociali - specie quelle a carattere educativo, ricreativo e religioso - e ottenere l'attiva collaborazione di coloro che controllano i mezzi di diffusione di massa da un lato e dall'altro dei grandi fabbricanti di beni di consumo e servizi, i quali comprano tempo e spazio per la pubblicità dei loro prodotti... Ricorrendo a vari accorgimenti di provata efficacia, si potrebbero escogitare alcuni slogan semplici e penetranti, bene orchestrati e coordinati con le altre iniziative predisposte per realizzare il piano d'insieme. Tuttavia la condizione preliminare è un largo finanziamento e un vero esecutivo di specialisti». Preparando il "piano d'insieme" per fare di noi dei consumatori modello, questo professore (così come tutti gli altri, nel grande gioco della persuasione) accettava, senza sollevare la minima riserva, la premessa fondamentale per cui l'obiettivo giustifica qualsiasi manipolazione si renda necessaria per raggiungerlo. Allora come ora, esiste un solo ma ottimo sistema di difesa contro i persuasori: non lasciarsi persuadere. Il libro è utile anche dal punto di vista pratico, tra le altre cose, per svelare i meccanismi messi a punto per indurci all'acquisto. La prossima volta che ci si troverà davanti a un prodotto, conosciuta la chiave di volta, basterà chiedersi cosa davvero si sta comprando. E perché. Oggi, considerata la natura stessa delle nostre società, resistere ai metodi di persuasione, è probabilmente uno degli atti più pratici e immediati di ribellione.
Valerio Lo Monaco
54 LA VOCE DEL RIBELLE
MUSICA
A Dio quel che è di Dio Prima faccia: l’iconoclasta dei CCCP e dei CSI. Seconda faccia: il cattolico fervente e “preconciliare” degli ultimi anni. Eppure, un filo conduttore c’è
U
di Federico Zamboni
n tempo era comunista, Giovanni Lindo Ferretti. Per dirla con le sue stesse parole: «Dato il luogo e il tempo sono stato un giovane estremista sciocco stupido e di buon cuore. Non mi rinnego né mi consolo, per quello che oggi sono non posso che accettare quello che sono stato»1. Il luogo è ovviamente l’Italia, più precisamente l’Emilia montagnosa dell’Appennino (che se prosegui è Toscana; che se non stai attento non sai più da quale parte del confine ti trovi). Il tempo la giovinezza di una persona venuta al mondo nel 1953: echi altisonanti del Sessantotto, urla caotiche del Settantasette, frastuono ambivalente degli Ottanta. Gli eccessi dell’ideologia che sognano la lotta armata e invece spianano la strada al ritorno di fiamma del liberismo. Fine delle Br e ascesa di Mediaset. È solo tivù. È solo intrattenimento. Che male vuoi che faccia? Essendo comunista, quand’anche nella versione assai particolare, e per nulla austera, del Pci alla bolognese2, legge il mondo in chiave marxista. Essendo un giovane “sciocco stupido e di buon cuore” si aggira per l’ultrasinistra. Ma essendo anche tante altre cose, e innanzitutto un individuo intelligente che non ama accodarsi agli altri e che non smette di pensare, rimescola continuamente le convinzioni e le esperienze. Le cose che ha in testa e le cose che incontra. Le risposte che ha sotto mano e le domande che ha sotto il naso. Regola generale: se sono tutti d’accordo c’è qualcosa che non va. Corollario: i luoghi comuni vanno evitati come la peste, specialmente nell’arte. L’arte – o comunque la si voglia chiamare, distinguendo la comunicazione autentica dal mero intrattenimento – che deve cercare sempre qualcosa di più di un pubblico pagante. Che deve essere passione senza calcolo. Che deve mitragliare affermazioni senza consenso preventivo. Il rock’n’roll delle origini. I grandi rocker
55 - WWW.ILRIBELLE.COM
prima di diventare fottute rockstar. Il punk genuino dei Pistols e dei Clash. Il punk, appunto. Nel 1981 Ferretti fa un viaggio a Berlino e conosce Massimo Zamboni, 24enne di Reggio Emilia. Ferretti scrive testi. Zamboni suona la chitarra (elettrica). Ferretti potrebbe anche fungere da cantante, se non si va troppo per il sottile e non si pretende un novello Peter Gabriel. Per un momento si chiamano Mitropunk. Poco dopo hanno già trovato la denominazione con cui si imporranno: CCCP – Fedeli alla linea. CCCP: disinvolta trascrizione delle iniziali, in cirillico, di quella “Sojuz Sovetskich Socialisti?eskich Respublik” che qui da noi chiamiamo URSS. Fedeli alla linea: richiamo orgoglioso ma da non prendere troppo sul serio. Come si legge nel logo: “punk filosovietico / musica melodica emiliana”. Punk anomalo e per nulla ingenuo: in netto ritardo sugli apripista inglesi, ma più che mai tempestivo nell’Italia del 1985, che è già nelle mani di Craxi e che corre veloce, arrogante e inconsapevole, verso il testacoda di Tangentopoli.
Vecchi semi, un nuovo raccolto Lo stesso uomo, la stessa intelligenza, per moltissimi aspetti la stessa personalità. Ma a un certo punto Giovanni Lindo Ferretti ha cambiato direzione. Da comunista che era è diventato cattolico. Anzi, cattolico di orientamento preconciliare. Uno che si riconosce nell’ortodossia rigorosa, quasi dogmatica, di Joseph Ratzinger, scoperto come guida spirituale attraverso i suoi libri, ancora prima che diventasse Papa col nome di Benedetto XVI. Uno che vorrebbe il ripristino della messa in latino. Uno che si spinge ancora più in là, invocando il recupero di quella dimensione mistica che, nella Chiesa democratizzata degli ultimi decenni, è stata rimossa pressoché completamente, cedendo il campo a una comprensione tutta psicologica e a una solidarietà da assistenti sociali, piuttosto che da pastori di anime: «La liturgia deve avere un fascino misterico. Non tutto può essere compreso. Dovremmo recitare il Pater Noster così come ci è stato insegnato, in aramaico, lingua parlata da Gesù, Signore nostro. Parola sacra, preghiera rivelata, perde fascino che è legame se tradotta. La traduzione serve a capire, fin dove si può, il senso e come tale è indispensabile ma monca di suono il respiro, il soffio e perde potenza»3. Potenza. Vedete? È una percezione, non un ragionamento. È la quadratura del cerchio tra il prima e il dopo. Tra la gioventù, e ancora più indietro l’infanzia, e la maturità. Sono le origini contadine che riemergono, le esperienze vissute a suo tempo e acquisite per sempre. Come accade spesso, a sinistra, c’era stato un equivoco sull’idea di popolo. Su quale sia la sua anima. La sua identità. I suoi interessi da difendere.
56 LA VOCE DEL RIBELLE
Falce e martello nella stessa bandiera? Una coesistenza coatta. Una fratellanza apparente costruita sull’idea che la chiave di volta di tutto sia solo lo sfruttamento padronale. Un falso, quand’anche in buona fede. L’ingiustizia non affratella, se non nella sofferenza della miseria e nella furia della rivolta. Il proletariato operaio è un sottoprodotto dell’industrialismo e, quindi, della superbia tecnologica. Quello contadino è figlio della terra, assai prima che del latifondo, e ne apprende comunque i ritmi e gli insegnamenti. Giovanni Lindo Ferretti era a sinistra per un’ostilità istintiva verso la società moderna, più che per il rifiuto delle diseguaglianze economiche. Era nato all’interno di un mondo – quello di Cerreto Alpi, il suo paesino di montagna – in cui la vita era dura e talvolta proibitiva, ma tutt’altro che priva di dignità e bellezza. L’amore per la sua gente lo ha spinto a schierarsi dalla parte di chi sosteneva di voler difendere i poveri. Poi, col tempo, ha capito che la cosa più importante da difendere non era il reddito ma il patrimonio. Il patrimonio culturale. Antropologico. Da un lato il senso della Natura; dall’altro, secondo lui, la Chiesa, con le sue radici giudaico-cristiane. «È più facile pensare sia un problema politico economico scientifico. Autoassolversi e pontificare sulle colpe degli altri, le inadeguatezze sociali che pure esistono ed esisteranno sempre sulla terra. Non c’è soluzione alcuna nelle strutture, anzi più si pensano risolutrici, totali, più ingabbiano comprimono alienano l’umanità. È necessario accettare la propria complessità,le proprie colpe, la propria contraddizione vivente. Amare la propria storia e farsene carico.» Esseri umani che arrivano fin dove possono, coi muscoli e con la mente, col cuore e col raziocinio, con la loro forza e con le loro debolezze, e per il resto si inchinano a Dio. Come speranza, se non come certezza.
Federico Zamboni
Note: 1 Reduce, Mondadori 2006. Le citazioni successive si intendono tratte da questo stesso volume, a meno che non sia specificato diversamente. 2 «Sono figlio del Pci emiliano, non so di altri Pci, di altri non ne so più. Ma quel Pci ha garantito un livello di vita incredibile, in questo Paese. Non sono legato all'ideologia, osservo semplicemente che quando ci governavano i nostri sindaci analfabeti e stalinisti stavamo bene. Hanno salvato la cultura, la civiltà, il benessere. Ora che ci governano dei politici liberali e laureati, le cose non vanno più cosi.» Intervista di Flavio Brighenti, Musica di Repubblica, luglio 2004. 3 Intervista al quotidiano E-Polis, 15 settembre 2007 (riproposta integralmente in paparatzinger-blograffaella.blogspot.com).
57 WWW.ILRIBELLE.COM
CINEMA
Va’ e dì
agli spartani... Tanti anni fa. Quando la vita individuale e collettiva non si basava soltanto sul denaro. Quando l’onore e la Patria erano ancora ottime ragioni per combattere contro chiunque, anche se il prezzo da pagare era una morte certa
N
di Ferdinando Menconi
ell’anno 296 dalla prima Olimpiade e 273 di Roma, nel mese che si sarebbe chiamato agosto, l’Europa metteva radici e nasceva il concetto di Occidente, che, però, a Termopili era ben diverso da quello che oggi è diventato. La datazione romana o greca è d’obbligo, perché l’Europa trova il mito fondante delle sue radici 480 anni prima di Cristo e della sua religione nata in oriente, quello stesso oriente cui si opposero i 300 spartani e le poche migliaia di alleati greci. Un mito fondante antico, allegoria anche esistenziale che ha ispirato poeti1 e romanzieri2, antico ma ancora estremamente vitale, visto che riesce a ispirare anche i fumettari, perché è proprio dalla omonima “Graphic Novel” di successo di Miller che viene tratto 300. Un grande successo, non solo di pubblico, a riprova che se viene usato un linguaggio adeguato ai tempi gli spartani sanno ancora trascinare le genti. Certo è fumetto, non lezione di storia, e non pretende di esserlo, ma riesce comunque pienamente nel far rivivere lo spirito di Sparta, nonostante i guerrieri, anziché indossare le determinanti corazze oplitiche, combattano a torso nudo. Più icone gay che guerrieri, ma, in fondo, il Battaglione Sacro di Epaminonda il Tebano che riuscì a porre fine all’egemonia spartana era forte-
58 - WWW.ILRIBELLE.COM
Il film di Zack Snyder è del 2006. Ma è ispirato alla “graphic novel” che Frank Miller disegnò nel 1998
59 - WWW.ILRIBELLE.COM
mente marcato dall’omosessualità. La nota più stonata è l’atteggiamento di Leonida verso gli Efori, verso la religione, che viene reso al limite del disprezzo, mentre ben altra era la mentalità Spartana e Greca, al punto che la vittoria sui persiani la si vuole ottenuta proprio perché vennero rispettati gli Oracoli, con la morte di un Re lacedemone e con l’affidarsi di Atene al “muro di legno” che la difendeva: la flotta di Salamina. Altra stonatura è il colore del Re dei Re, che, per usare parole da Presidente dei Presidenti, è un po’ troppo abbronzato, mentre le stirpi iraniche erano indoeuropee al pari di quelle elleniche. Non così, però, lo sterminato esercito al seguito di Serse, che era una composita, inefficiente, orda multietnica e multiculturale, tenuta insieme da un unico collante: l’asservimento al rappresentante di Dio in terra. Il Re dei Re, l’Unto del mondo antico, che aveva tradito la sua cultura indoeuropea fino al
I “Ninja di Serse” vengono sbaragliati dai greci, le arti marziali dell’Occidente, dell’Europa, in questo film sono all’altezza di quelle provenienti dall’Oriente, e ciò non ha nulla di antistorico. completo capovolgimento dei valori. Lo zoroastrismo, religione ufficiale dell’impero, infatti, trasforma i Deiva, gli Dei, in demoni, e gli Asura, i demoni, in dei, anzi meglio dire angeli perché la tradizione viene stravolta al punto di giungere al monoteismo, assolutamente inammissibile per l’antica mentalità Indoeuropea. Non è per un caso che Zeus col suo fulmine benedisse quello stretto passo e la resistenza degli elleni. Anche gli Immortali, i diecimila della Guardia di élite di Serse, hanno un’accuratezza storica pressoché nulla, sembrano più venuti dall’estremo oriente che dagli altopiani iranici. Eppure, nelle simbologie del fumetto divenuto film, ci può stare. I “Ninja di Serse” vengono sbaragliati dai greci, le arti marziali dell’Occidente, dell’Europa, in questo film sono all’altezza di quelle provenienti dall’Oriente e questo non ha nulla di antistorico.
60 LA VOCE DEL RIBELLE
I valori che scivolano attraverso il film nelle menti degli spettatori sono quanto di più inammissibile per il pensiero unico dominante attuale, come quando la voce narrante dice che in Sparta non c’è posto per la debolezza. Solo i duri e forti possono definirsi spartani, e non c’è biasimo nel tono. Immaginatevi se questa frase fosse pronunciata in uno dei mille talk show buonisti: quale reazione del conduttore! E quanto biasimo e polemiche nei media nei giorni successivi! Anche perché la resistenza dei 300 (e della Grecia tutta) ad essere globalizzata nel crogiuolo multietnico dell’Impero Persiano, che pur prometteva loro ancor più potere e ricchezza, è per la mentalità contemporanea assolutamente inconcepibile. Per fortuna dell’Occidente, di quell’Occidente oggi tradito, per i Greci di allora l’inconcepibile era
La donna spartana è diversa, il suo addio per l’uomo che parte in guerra, sia figlio o marito, è sempre lo stesso: torna, ma “Con lo scudo o sopra lo scudo”. altro: era la sottomissione, era il perdere la propria identità etnica e culturale, e con essa la libertà. Non solo: erano anche consci che questa non viene regalata, che esige il più elevato dei tributi, il tributo del sangue. Fuori dalle convenzioni, ma non dalla verosimiglianza storica, è il come viene riportata la figura della donna in Sparta, non solo per il suo erotismo, “mostratrici di cosce” venivano sprezzantemente chiamate dalle ateniesi, ma anche per il prestigio sociale di cui godeva, fatto che l’ateniese non poteva perdonarle. La moglie di Leonida in assemblea perora la guerra, in nome di onore, dovere, gloria, contro ogni convenzione cinematografica e sociale, che non solo vede quei in quei tre concetti dei profondi disvalori, ma che vuole la donna come primo nemico di quei “disvalori”. Ma la donna spartana è diversa, il suo addio per l’uomo che parte in guerra, sia figlio o marito, è sempre lo stesso: torna, ma “Con lo scudo o sopra lo scudo”3, senza di esso non provare neppure a ripresentarti. Essa è ben diversa dalle figure
61 LA VOCE DEL RIBELLE
castranti cui siamo ormai abituati, che incitano alla viltà, al ritorno a qualsiasi costo. Solo il ritorno è divenuto importante, poco importa se in una polis ridotta in schiavitù. In schiavitù, ma magari più ricca e con grado di civiltà anche superiore, e forse, perfino, con un peso politico maggiore, come viene promesso a Sparta. Ma che senso avrebbe avuto per uno Spartano, per un Greco di allora, trovarsi soggetto ad un Impero straniero, inquadrato in un esercito in cui, come viene detto nel film, ci sono molti schiavi e pochi guerrieri. Oggi viviamo il contrario, tutto viene misurato in ricchezza e progresso tecnologico. La libertà, il poter vivere in casa propria seguendo le proprie leggi, non è un valore riconosciuto, la democrazia degli schiavi del mercato deve essere esportata ovunque e accettata in patria, subendo una globalizzazione e un meticciato culturale che toglie al mondo la ricchezza della diversità del pensiero. In questo il mito di Termopili offre un altro esempio allegorico, quello di Efialte, il traditore che spiana la via al persiano. Nel film ha almeno la giustificazione della deformità, nella storia neppure quella. Efialte vende la sua gente,
Diversamente dal solito, la ricerca e la difesa della libertà non sono demandate a un solo individuo: a combattere è tutta una società in marcia, schierata a falange, con lo scudo che difende sia chi lo porta, sia chi sta alla sua sinistra. la sua terra, un’intera cultura per il benessere personale, è praticamente impossibile nella storia trovare un essere peggiore, un traditore più infame, nonostante la madre degli Efialte sia molto prolifica. È la madre dei Dienece che invece sembra essere divenuta sterile, Dienece che alla minaccia persiana «siamo così numerosi che le nostre frecce oscureranno il sole», risponde con un «meglio, combatteremo all’ombra». Non risponde con la retorica eroica di Leonida («Consegnateci le armi» – «venite a prenderle»), risponde con una risata, conscio della morte. Risponde con una risata, la “risata che vi seppellirà”, quella degli slogan degli anni settanta, che, però, non seppellì nessuno, tranne se stessa. La risata greca (e la cupa Sparta, come a torto ci viene
62 LA VOCE DEL RIBELLE
sempre descritta a scuola, era una delle Polis in cui riso e musica erano tenute in maggior conto) riuscirà a prendere la sua vendetta sul persiano, una vendetta che durerà il tempo di un uomo solo, Alessandro, ma che invece di un appiattimento globalizzante saprà creare culture originali. La più interessante delle quali si ha, forse, in uno degli angoli più reconditi dell’Asia, la Bactriana, dove avremo la troppo breve stagione dei regni Indo-Ellenistici, quando l’incontro fra Grecia e India seppe dare opere d’arte di singolare erotismo cui l’invasione Islamica impose un triste velo. In questo film, diversamente dal solito, la ricerca, la difesa, della libertà non sono demandate ad un solo individuo: è tutta una società in marcia, schierata a falange, con lo scudo che difende anche il guerriero di sinistra, a combattere. C’è sì un eroe principale, ma non è solo, non è un caso isolato che esce miracolosamente da una società malata, questi è figlio della sua cultura come tutta la società che lo sostiene. Quello che, invece, non cambia mai è il pubblico, che in sala sostiene Re Leonida e Dienece, che spinge con la Falange, ma che non appena esce torna a vendersi nel quotidiano al Serse di turno, senza neppure godere dei vantaggi che sarebbero stati di un Efialte.
Ferdinando Menconi
Note: 1 Degna di particolare nota la splendida poesia “Termopili” di Kostantinos Kavafis 2 Da ultimi V.M. Manfredi, Lo scudo di Talos, e S. Pressfield Le porte di fuoco 3 “Con lo scudo” significa tornare vincitore; “(trasportato) sopra lo scudo” significava essere morti; “senza” voleva dire averlo abbandonato sul campo per fuggire meglio
Ci occuperemo invece di...: cosa ci porta di buono la crisi ***** come e dove scegliere i propri “canali” informativi **** Abruzzo già dimenticato ***** “cultura ribelle” **** la nuova valuta di riserva mondiale: il prossimo inganno **** la Cina che aumenta del 75% le proprie riserve auree ***
di Alessio Di Mauro