Il Ribelle (Luglio 2009)

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ISSN 2035-0724

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Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 2 - numero 10 - Luglio 2009

Mensile Anno 2, Numero 10 Direttore politico

Massimo Fini Direttore responsabile

Valerio Lo Monaco

Perù: SULLA PELLE DEGLI INDIOS Fini: LA DEMOCRAZIA SECONDO GHEDDAFI Paradigmi: IL BUONO DELLA CRISI Abruzzo: UN RIEPILOGO SCORRETTO Dollaro Usa: UNA SUPERSTAR PIENA DI RUGHE

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Anno 2, numero 10, Luglio 2009 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com) Art director: Alessio Di Mauro Hanno collaborato a questo numero: Alessio Mannino, Lucrezia Carlini, Davide Stasi, Stefano Monterubbianesi,Alessia Lai, Francesca Roveda, Marco Lambertini Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Progetto Grafico: Antal Nagy Mauro Tancredi La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000 Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008 Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com

La democrazia secondo Gheddafi di Massimo Fini

Il buono della crisi di Valerio Lo Monaco

India, rimani te stessa di Federico Zamboni

Come pesci che si sfiorano in un acquario di Federico Zamboni

Abruzzo: a che punto siamo? di Lucrezia Carlini

In dollar we don’t trust di Marco Lambertini

Il “miracolo” di Alan Garcia di Alessia Lai

Il buon europeo di Alessio Mannino

La giustizia dell’orticello di Stefano Monterubbianesi

Usciti ieri: A modo mio. O piuttosto muoio di Federico Zamboni

1969-2009: cosa resta di Woodstock di Davide Stasi

Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti. Chiuso in redazione il 26/06/2009

Musica: dentro al “Cuneo” non si muore di Francesca Roveda

La foto di copertina di questo numero è di Datta Kaur.

Il film: Non ronde ma Bande Nere di Ferdinando Menconi

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di Massimo Fini

l pulpito, lo ammetto, non è dei migliori, ma Muhammar Gheddafi, nel suo turbinoso viaggio romano, due cose ineccepibili le ha dette: 1) I partiti non sono la democrazia ma la sua degenerazione; 2) L'alternanza non significa altro che a un'oligarchia di potere se ne sostituisce un'altra. La prima affermazione potrebbe essere condivisa da Stuart Mill e Locke, i padri nobili della liberaldemocrazia, che nelle loro opere non fanno mai cenno ai partiti. E Max Weber, nel 1920, nota come, fino ad allora in nessuna Costituzione democratica fossero inseriti i partiti. E persino la nostra Costituzione, che pure nasce da un substrato partitocratico (il Cln) dedica ai partiti un solo articolo (il 49) non fra i primi e, soprattutto, non compreso fra quei "Principi fondamentali", inalienabili, che stanno alla base della Carta. La diffidenza, anzi l'ostilità, dei pensatori liberali nei confronti dei partiti è facilmente comprensibile. Il pensiero liberale voleva valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell'individuo, del singolo, mettendo tutti i cittadini alla pari almeno sulla linea di partenza (poi vinca il migliore, ma anche qui con alcune limitazioni in campo economico dove Adam Smith e David Ricardo bollano l'oligopolio, o peggio il monopolio, come illiberali e illiberisti in quanto rendite di posizione che falsano o addirittura impediscono la gara). Ora, il partito, la lobby o qualsiasi altro tipo di consorteria, lede in radice questo principio dell'uguaglianza sul nastro di partenza. La scuola elitista italiana dei primi del '900, Vilfredo Pareto, Roberto Michels, Gaetano Mosca, ha detto cose definitive in proposito. Scrive Mosca in La classe politica "cento che agiscano sempre d'intesa e di concerto gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo tra di

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MASSIMO

I

FINI

La democrazia secondo Gheddafi


MASSIMO FINI

loro". E qui ci si lega alla seconda affermazione di Gheddafi. La democrazia rappresentativa non è la democrazia. È un sistema di "poliarchie" come si esprime pudicamente Giovanni Sartori o, per dirla col nostro linguaggio un po' più crudo, di minoranze organizzate, di oligarchie, di lobbies, di mafie, di aristocrazie mascherate che pretendono l'obbedienza in cambio di vantaggi e che schiacciano l'individuo, il singolo, l'uomo libero, che ha ancora coscienza della propria dignità e non accetta di sottomettersi a questi umilianti infeudamenti, cioè proprio il soggetto che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata. Nota Pareto: "Abbiamo ora, sotto diversa forma, una nuova feudalità che, in parte, riproduce la sostanza dell'antica. Ai tempi di questa i signori radunavano i vassalli per fare la guerra e, se conseguivano vittoria, li ricompensavano col bottino. Oggi i politicanti operano nello stesso modo e radunano le loro truppe per le elezioni, per compiere atti di violenza e per conseguire per tale modo utili che la parte vittoriosa si gode". Ma fra le aristocrazie storiche e quelle attuali, mascherate sotto la forma democratica, ci sono almeno due differenze sostanziali. I nobili avevano alcuni rilevanti privilegi, non lavoravano, non pagavano le tasse, avevano un diritto diverso dal resto della popolazione (esattamente come i nostri parlamentari, i quali non lavorano, non pagano le tasse su una quota altissima, 100 mila euro, dei loro già rilevanti emolumenti, si sono costruiti di fatto un diritto proprio - vedi le varie immunità e impunità fino al culmine del "lodo Alfano" una sottrazione al diritto penale di cui nemmeno il re feudale godeva) a petto dei quali avevano però anche degli obblighi: a loro spettava la difesa del territorio, e quindi il mestiere delle armi, inoltre dovevano amministrare la giustizia nei loro feudi. I politici democratici hanno i privilegi delle aristocrazie senza averne gli obblighi. La seconda differenza, ancora più incisiva, è la seguente. Gli appartenenti alle aristocrazie storiche si distinguono perché posseggono delle qualità specifiche, vere o anche presunte ma comunque credute tali dalla comunità, dalle quali traggano la loro leadership e la legittimità a governare. Nel feudalesimo occidentale e orientale i nobili sono coloro che sanno portare le armi, in certe epoche dell'antico Egitto la professione di scriba conduceva alle cariche pubbliche e al potere, in Cina la conoscenza dei numerosissimi e difficili caratteri della scrittura era la base della casta dei mandarini, nella Roma repubblicana il comando, attraverso la trafila delle magistrature (questore, edile, pretore, console) andava ai giurisperiti che, in genere, erano anche uomini d'arme, in altre realtà la casta sacerdotale era creduta in possesso di doti particolari per mediare con la divinità oppure l'autorità era conferita agli anziani in quanto ritenuti detentori della saggezza (com'è ancora presso i popoli cosiddetti tradizionali). E così via. Chi appartiene alle oligarchie democratiche non ha qualità specifiche. La classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento di distinzione unicamente, e tautologicamente, quello

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di fare politica. La loro legittimazione è tutta interna al meccanismo politico che le ha prodotte. Sono i professionisti della politica che vivono di politica e sulla politica secondo la lucida e spietata analisi di Max Weber. Poiché non è necessario avere alcuna qualità prepolitica (che anzi può essere d'ingombro), la selezione della nomenklatura è autoreferenziale, puramente burocratica, avviene all'interno degli apparati di partito, attraverso lotte oscure, feroci, degradanti e con un ricorso sistematico alla corruzione per procacciarsi il consenso. Oppure avviene per cooptazione sulla base della fedeltà canina dell'adepto o per un qualche capriccio del capobastone. Se quindi, per caso, l'uomo entrato in politica aveva qualche qualità la perde facendo politica in questo pantano democratico. L'oligarca democratico è perciò, necessariamente, un uomo senza qualità. La sua unica qualità è non averne alcuna. Che noi cittadini, uomini formalmente liberi, si paghi della gente perché ci comandi e ci asservisca - perché questa, e non altro, è la democrazia rappresentativa - è già espressione di un masochismo abbastanza impressionante che, come notava Jacques Necker nel 1792, "dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione". Ma che ci si sottometta ai Frattini agli Scajola ai Cicchitto alla Carfagna o domani, nell' "alternanza" denunciata dal colonnello Gheddafi, ai Franceschini, ai Veltroni o a altre amebe di sinistra, è cosa talmente grottesca e avvilente che in altri mondi, più virili, provocherebbe rivoluzioni e bagni di sangue. Ma poiché non siamo più uomini ma delle femmine felici di prenderlo in ogni orifizio, anche nelle orecchie, tutto rimarrà così com'è. Almeno per qualche tempo ancora. Perché prima o poi, come è sempre avvenuto nella Storia, verrà anche per le democrazie l'ora della resa dei conti. Massimo Fini

Non ce ne frega niente di...: Patrizia D’Addario ***** la cocaina a Palazzo Grazioli *** Lapo Elkann che vuole diventare ebreo ***** il nuovo portale del Made in Italy *** la Confederations Cup *** Obama che uccide la mosca ***** l’addio di Kakà al Milan ***

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Il buono Lo Monaco

della crisi

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di Valerio Lo Monaco

andati al diavolo imbonitori, testimonials, carcerieri, banche, venditori e parcheggi sotterranei nei centri shopping del fine settimana, ci prenderemo innanzitutto indietro due cose che ci sono state tolte: tempo e silenzio. Per scelta o per necessità,il crollo del nostro sistema di sviluppo ci toglierà beni materiali e ci farà tornare nelle mani la possibilità di riappropriarci di quelli spirituali. Tutto risiede nella differenza tra prezzo e valore. Ci hanno fatto vivere in un mondo in cui tutto ha un prezzo. E abbiamo dimenticato le cose che hanno valore e nessun prezzo.Tolta la materia, e la necessità di dover lavorare a più non posso per crearla, scambiarla, venderla comprarla e accumularla, avremo il vuoto. E la possibilità, finalmente, di riempirlo con ciò che vogliamo. Non con ciò che ci hanno fatto credere che dovevamo.

E ora che faccio? Semplice.Tutto quello che non si è potuto fare sino a ora perché troppo presi a lavorare sempre più per poter acquistare merce. Alla grande maggioranza delle persone nel nostro Paese non manca da mangiare né da vestire né un tetto sopra la testa. Con questa crisi mancherà denaro soprattutto per comperare il resto. Che serve poco o non serve affatto. Se sapremo passare dall'essere poveri pieni di elettrodomestici in ricchi capaci di vivere con poco, non subiremo la crisi, ma ne coglieremo le possibilità. Svincolati dal denaro e dall'accumulo, dal dover vivere nei luoghi e con le modalità tipiche di una società che a questo è stata votata, ritroveremo cose

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che per quasi tutti sono solo un lontano e rimpianto ricordo. Quando è stata l'ultima volta che abbiamo fatto qualcosa per il puro piacere di farla? Quando l'ultima volta che abbiamo potuto fare qualcosa senza motivazione economica? Non sarà difficile constatare che il tempo libero dal lavoro, poco, sino a ora è stato possibile viverlo unicamente per riposarsi, e sempre per troppo poco, per presentarsi il giorno successivo nuovamente al lavoro. In una spirale ipnotica e sterile. Il lavoratore medio che alla fine di una lunga giornata di lavoro non ha altre energie se non quelle di sprofondare intorpidito su un divano e attendere l'ora di andare a dormire è fenomeno diffuso. Così come quello di chi imponendosi - letteralmente - di vivere un po' di tempo per sé è costretto a fare del movimento nelle prime ore del mattino oppure nelle ultime della sera, o ancora a relegare relazioni umane e piccoli piaceri passeggeri negli interstizi lasciati liberi dal lavoro e dal caos soffocante delle nostre città e delle competizioni serrate che questo sistema impone. L'equazione è di una semplicità disarmante: troppo tempo a lavorare e troppo poco per vivere. Bene, anzi male. È tempo di lavorare solo per quanto ci serve e dunque avere del tempo libero per fare altro. La chiave di volta è nel fare a meno di tante cose (superflue). E di scoprire che la vita, con meno "roba", è più degna di essere vissuta. Dunque potersi permettere di lavorare meno o, allo stesso modo, non soffrire oltremodo del meno lavoro che c'è in giro. Se ci sapremo e potremo sottrarre al resto, se riusciremo a passare attraverso questo cambio di paradigma dovuto alla crisi, non dovremo più correre da una parte all'altra, né competere in duelli all'ultimo sangue per ogni cosa e riavremo indietro, in sostanza, la nostra vita. Stabilito un nuovo cosmo di valori, e tagliato (giocoforza o, meglio, come scelta) l'inutile, ritroveremo l'essenziale. E l'essenza di due cose fondamentali che abbiamo e delle quali è giusto disporre come meglio crediamo: di noi stessi e del tempo che abbiamo a disposizione in questa vita. Il pericolo maggiore, dietro l'angolo, come accennato poco fa, può essere il vuoto. Il vuoto pneumatico inoculato a forza (e ad arte) nel corso di almeno trenta anni, è stato il punto cardine, metodico, attraverso il quale i media di massa (in primo luogo la televisione) e chi ne ha fino a ora comandato i fili, ha determinato la più importante mutazione antropologica dell'Occidente. La falsa rappresentazione del migliore dei mondi possibili, l'imposizione sottile dei vacui modelli di riferimento che tutti conosciamo, ha consentito nella sostanza di modificare, giorno dopo giorno, la percezione della realtà e lo spostamento di valori che altrimenti, per secoli, erano rimasti immutati. E che avevano al centro la vita. L'uomo. Questa rappresentazione della realtà, con punte di parossismo dal dopoguerra in poi, è stata invece il terreno più fertile per coltivare consumatori seriali, e non persone. Ci ha tolto (quasi) tutto, e ci ha lasciato nel consumo l'unico elemento con il quale tentare di riempire il vuoto esistenziale che ne è scaturito e che si autoalimentava nell'alienazione stessa del suo espletamento. Operazione tecnicamente perfetta, non c'è che dire. Persone senza alcuna altra aspirazione che consumare compulsivamente, senza alcun altro tempo ed energia, oltre a quelle da dedicare all'indispensabile lavoro per potersi per-


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mettere il consumo, sono state (e sono tuttora, nella maggior parte dei casi) gli attori perfetti per perpetrare questo stato delle cose. Sine die. Lavora consuma crepa per tutta la vita. Ed è (stato) tutto. Fortuna che, non ci stancheremo di dirlo, il sistema da sé non ha retto. E ora si può - si deve - necessariamente cambiare. Beninteso, si può essere d'accordo con la portata benefica di questa crisi solo nel momento in cui si abbia la voglia di riappropriarsi dei valori altri della vita. Per esempio di se stessi. Chi si trovava (o credeva) perfettamente a proprio agio nella macchina precedente e ambisce a ritornarvi il prima possibile non può che disperare della situazione attuale. Per gli altri, per chi già allora si ribellava al meccanismo, è ora giunto finalmente un momento topico. Un momento nel quale mai come ora si può tentare di dare la svolta alla propria esistenza. E aiutare gli altri a questo risveglio, se si ha qualche velleità di servizio, di comunità e prossimità. Se si ha insomma a cuore almeno le sorti di chi si ha vicino oltre alle proprie. Ma sia chiaro, ribadiamo, il punto più critico è nel passaggio. Nel vuoto di chi, privo (o privato) di risorse culturali e lucidità, non avendo più accesso all'unica gratificazione del mondo ante-crisi, ovvero il consumo, si troverà disorientato, con un orrido da riempire e poca attitudine a ri-trovare i temi e i valori attraverso i quali farlo. In questo senso ci sarà una riscossa degli intellettuali, così come dei testimoni che malgrado i tempi difficili sono riusciti a rimanere lucidi nella selva di neon, insegne luminose, spot, scaffali pieni e allibratori in ogni angolo di strada.

Essere e fare Innanzitutto, già passare dal concetto di avere a quello di essere è cosa che riesce a riempire una vita di linfa del tutto nuova. Per non parlare dell'altro concetto (che Erich Fromm non cita nel suo Avere o essere) che è invece di importanza fondamentale: fare. Si badi bene che oltre all'assunto in sé, noi oggi viviamo nel mondo dell'avere avendo quasi del tutto dimenticato l'importanza di essere. Il rovesciamento culturale fondamentale si è situato poi nel convincere le masse che era possibile riuscire a essere solo attraverso l'avere. Gli esempi non sono mancati: ho denaro e potere, dunque divento Presidente del Consiglio; ho un corpo perfetto, divento Ministro; ho gli agganci giusti, divento opinionista del maggiore quotidiano nazionale. Ma di chi stiamo parlando? Tolto ciò che hanno, questi personaggi, chi sono? Meglio, che cosa sono? Certo sarà difficile vivere per chi con la crisi sarà stato condannato a una vita differente che non ha in realtà mai voluto. Così come sarà difficile farlo per chi avrà serie difficoltà anche solo a sopravvivere. Per chi invece nel corso degli anni passati avrà sentito scorrere via i giorni senza un motivo valido per ricordarli, per chi avrà avuto abbastanza a noia la frenesia, la competizione, e più in generale per chi sente il proprio cuore voler trovare un ritmo molto differente da quello che gli era invece imposto di sostenere sino a ora, il momento è propizio. È di una rinascita che si parla. Di un'altra chance. Cosa che molti, e sotto i tanti aspetti della vita, non hanno mai potuto neanche sognare. E che invece oggi, grazie alla indispensabilità, è concessa potenzialmente a tutti.

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Non è un caso che il settore dell'editoria relativa ai libri e alla cultura non sia uno di quelli maggiormente in crisi. I lettori continuano a leggere. Per pochi che siano, nel nostro Paese, gli uomini e le donne di cultura continuano a vivere nel solco del senso. Perché questo è il punto, ancora una volta. Cultura - cultura vera - è senso. Direzione e significato. E dunque contenuto per riempire di direzione e significato quello spazio di vita, ben oltre le tre dimensioni e forse anche oltre la dimensione del tempo terreno. Tempo fa siamo stati contattati, in redazione, da una ennesima agenzia che stava operando un sondaggio, come è capitato certamente a tutti. Una delle domande era relativa al consumo di libri - consumo, ancora una volta: quasi che i libri diventassero scarti dopo essere stati consumati. Ebbene, la domanda, relativa a quanti libri avessimo letto nel corso dell'ultimo anno, prevedeva tre risposte: da uno a cinque, fino a dieci, più di dieci. Naturalmente fuori media tra l'incredulità e la presunzione ironica che abbiamo sentito dall'altra parte del telefono - abbiamo comunicato approssimativamente il nostro dato (tra quelli che studiamo, quelli che leggiamo, quelli che recensiamo, sfogliamo o consultiamo, per non parlare di quelli che rileggiamo come messali o haiku del mattino, abbiamo preferito comunicare un dato mensile intorno alle cinquanta unità e lasciare fare il conto alla cortese signorina). Ma il punto è un altro, ed è relativo alla domanda. Un sondaggio del genere, e tutti quelli simili, partono dal presupposto che la maggior parte delle persone, almeno in Italia, leggano fino a cinque libri all'anno o al massimo non più di dieci. Il che, numericamente, non è un errore. Perché è il dato di fatto. Provate a fare un sondaggio tra le persone che conoscete e poi tirate le somme. Chi non ha avuto modo di migliorarsi con la cultura, di capire veramente cosa è successo e cosa succede, e dunque di poter avere gli strumenti per decidere, cosa aspetta? Rinunciando a pagare rate per cose che non servono e conseguentemente lavorando meno (o viceversa) la crisi porta con sé tempo e silenzio per cultura e riflessione. Un investimento al sicuro da speculazioni e truffe, tra le altre cose... Il punto è insomma rovesciare i cardini della rappresentazione della realtà che ci hanno imposto per anni. Cosa apparentemente difficile - per molti certamente lo è - ma in realtà di una semplicità assoluta, almeno dal punto di vista concettuale, se si riflette per un po' dopo aver (ri)stabilito il proprio cosmo di valori. Si tratta, con tutta evidenza, di un esercizio culturale. Anzi, molto più precisamente, della traslazione in pratica di concetti culturali. Perché uno degli errori più comuni è quello di credere che un cambiamento culturale non sia azione pratica. Quando invece, e al contrario, un cambiamento culturale seguito da azione-reazione nelle cose di tutti i giorni, non può che suggerire e far realizzare delle azioni pratiche del tutto differenti. Dal che, come dovrebbe essere, dal pensiero all'azione il passo è breve. Ciò che si suggerisce, ciò che ci auspichiamo e più in generale ciò di cui abbiamo un disperato bisogno, è una controrivoluzione culturale in grado di dare scacco matto al sistema. Incidendo sulle menti con un processo opposto a quello al quale le nostre società sono state sottoposte. Il punto è sottrarsi e cambiare direzione e valori. Per ribellarsi e andare sulla strada che si sente propria. Valerio Lo Monaco


ANALISI

India,

rimani te stessa

Sarà davvero il Paese-guida del futuro? Potenzialmente ne ha tutti i mezzi, ma intanto viene sfruttata in mille modi dalle grandi imprese sia interne che estere. E la miseria rimane un problema irrisolto

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di Federico Zamboni

proprio vero che la crisi è mondiale? Per molti aspetti sì. E non potrebbe essere altrimenti. La globalizzazione, così assiduamente perseguita dai vari Wto, Fmi e Banca Mondiale, ha creato tante e tali interconnessioni tra i diversi Stati e le relative economie da determinare una miriade di reazioni a catena. Eppure, nonostante gli innumerevoli intrecci fra i diversi mercati internazionali, non tutti stanno subendo allo stesso modo le ripercussioni della recessione in corso. Non tutti sono gravati dalle stesse conseguenze negative sul presente, né dalle stesse preoccupazioni per il futuro. Sorprendentemente – ma come vedremo si tratta di una sorpresa ingiustificata, non appena si vada al di là delle apparenze e ci si liberi dei luoghi comuni – ci sono nazioni che, pur partendo da una condizione di minore ricchezza, stanno sopportando difficoltà inferiori a quelle che angustiano i Paesi più sviluppati, caratterizzati da livelli assai più alti sia di Pil che di reddito pro capite, sia di risorse finanziarie che di consumo. “Nella crisi – sottolinea Federico Rampini nel suo recentissimo Le dieci cose che non saranno più le stesse1 – l’India scopre di avere una risorsa insospettabile: i suoi poveri. Non quella fascia di miseria estrema dove ancora soffrono 200 milioni di persone, ma quel mezzo miliardo di indiani che sta subito sopra, cioè l’im-

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Il Tempio d’Oro di Amritsar, la gran povertà nelle strade. Il contrasto è forte, la contraddizione apparente.

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menso popolo delle campagne che negli ultimi anni ha avuto accesso a un modestissimo benessere. È quel mercato vasto e frugale che aiuta l’India, isolandola dai contraccolpi più brutali della crisi internazionale. La loro domanda di consumi, i più semplici ed elementari, ha trainato la seconda nazione più popolosa del mondo verso una crescita economica tutt’altro che disprezzabile anche nell’«orribile» 2009.” Ecco perché non c’è da sorprendersi. Un’economia che cresce a poco a poco si tiene al riparo dai vizi di chi si espande troppo in fretta. Innanzitutto, evita di portare a una rapida saturazione il mercato interno, il che la mette in grado di fronteggiare qualsiasi brusco decremento delle esportazioni. Più un sistema economico è autosufficiente, almeno nei suoi aspetti fondamentali, e meno risente di quello che accade altrove. In una situazione sana si esportano le eccedenze, non

Nel tracollo generale l’India ha resistito meglio di altri perché aveva un mercato interno sul quale contare. Piccoli consumi che hanno salvato la baracca. ciò che serve al fabbisogno interno. In una situazione sana il reddito nazionale è ripartito in maniera tale da ridurre quanto più possibile la miseria, nell’intento di arrivare a eliminarla completamente: la libera impresa è permessa, e persino tutelata, nel presupposto che essa contribuisca al miglioramento generale. L’arricchimento individuale è consentito, ma solo se non si risolve nell’impoverimento altrui. Le leggi prevedono gli abusi e li tengono a bada con la minaccia, o con l’irrogazione, di sanzioni così forti da fungere da deterrente. Il prelievo fiscale assicura allo Stato le risorse per intervenire dove serve, ivi inclusa la disoccupazione e, nei Paesi a forte vocazione agricola, le eventuali carestie. Come nota Rampini, nel tracollo generale l’India ha resistito meglio di altri perché aveva un mercato interno sul quale contare. Il ciclo economico, che comincia con la produzione e si conclu-

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de con la vendita, non si è inceppato perché gran parte della popolazione non ha ancora riempito le proprie case, e le proprie vite, sia del necessario che del superfluo. In Occidente si può bloccare il mercato dell’automobile (ce l’ho già e funziona, perché dovrei precipitarmi a comprarmene un’altra?) o dell’abbigliamento (ho gli armadi strapieni, e delle giravolte della moda non me ne frega un granché). In India, o in situazioni analoghe, per moltissima gente l’acquisto di un’automobile segna la differenza tra averla e non averla. L’acquisto di capi d’abbigliamento non è un capriccio: è una necessità che attendeva di essere soddisfatta. Inoltre, proprio perché non si è ancora imboccata la strada della finanziarizzazione (con la sua folle aspettativa di accrescere vorticosamente i capitali investiti, con percentuali di incremento almeno a due cifre), in un contesto come quello indiano non c’è bisogno di sostenere i consumi enfatizzando quelli voluttuari e rendendoli accessibili a chi non se li potrebbe permettere attraverso il ricorso indiscriminato alle carte di credito o ai mutui. Come dimostra l’esperienza di Muhammed Yunus, che nel 1983 ha fondato la Grameen Bank e che nel 2006, grazie alle sue attività ultratrentennali nel campo del microcredito, ha ricevuto il premio Nobel per la Pace (per la Pace, mica per l’Economia...), si può produrre ricchezza anche senza perseguire il massimo profitto. E i clienti più poveri non sono necessariamente i meno affidabili. Chi non ha quasi nulla, infatti, pondera attentamente le proprie richieste di finanziamento e restituisce le somme dovute alla loro scadenza, assai più di chi ha già un reddito consistente ma, obnubilato dalla smania di godere di un tenore di vita ancora più alto, finisce col fare dell’indebitamento non già l’eccezione ma la regola. Desideri una cosa e non hai i soldi per comprarla? Nessun problema. Puoi pagare a rate. E, magari non devi neppure affrettarti. Ti va bene se il primo versamento lo fai a settembre? O preferisci a gennaio? Oplà. Una somma via l’altra in un moltiplicarsi di debiti che si accumulano a dismisura, ma scivolando nel limbo rassicurante delle spettanze che andranno liquidate in futuro. Oplà. Dapprima solo le operazioni “ordinarie”, parame-

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trate su ciò che si guadagna e sulle garanzie che si è in grado di offrire. Poi, vedi gli irresistibili subprime, tutto quello che capita. Finite le garanzie che permettono di ottenere tassi ragionevoli, si passa disinvoltamente ad accettare condizioni più onerose. Tassi maggiorati? Pazienza. Rate difficili da coprire? Ci penseremo in seguito. Le due forme di cupidigia – quella delle banche che non vedono l’ora di iscrivere nei propri conti un credito che si annuncia tanto remunerativo, e quella dei clienti che non vedono l’ora di mettere le mani sui quattrini del prestito e, di conseguenza, sull’ennesimo “oggetto del desiderio” – si incontrano e si piacciono. Si mettono insieme, per così dire. E si incamminano tutte contente, mano nella mano, verso il precipizio del mancato rimborso.

Un altro mondo, molto diverso In India, per fortuna, le cose vanno diversamente. E anche se è il caso di aggiungere subito un prudente quanto doveroso “per ora”, resta il fatto che laggiù la mala pianta del neoliberismo si è diffusa in maniera meno generalizzata di quanto non sia accaduto altrove, Stati Uniti ed Europa in primis. Benché il cambiamento sia ormai cominciato – e l’intero assetto sociale stia vacillando sotto la pressione congiunta dei già citati Wto e Fmi, con la loro pretesa neutralità di organismi sovrannazionali, e di una quantità di corporation, a cominciare dalla famigerata Monsanto2 – la trasformazione è ben lontana dall’essersi conclusa. A frenare il processo di modificazione, o tout court di snaturamento, ci sono le stesse caratteristiche intrinseche del Paese: da un lato la sua vastità, che non si esaurisce nell’estensione geografica ma si riflette in una popolazione tanto numerosa quanto diversificata nelle proprie convinzioni e nelle proprie usanze; dall’altro le sue matrici culturali, declinate in mille e mille varianti ma iscritte in una visione del mondo a suo modo unitaria e abissalmente lontana da quella occidentale. Così lontana, per fortuna, da situarsi agli antipodi dello scientismo e dell’utilitarismo. “La società indiana – scrive Vandana Shiva3 - ha imparato la lezione della diversità dalla natura stessa, dato che la civiltà indiana si basa su un’identità culturale plasmata dalla diversità naturale.” Poi, dopo aver ricordato che “secondo Rabindranath Tagore, poeta indiano dell’inizio del XX secolo, la peculiarità culturale dell’India deriva dall’idea secondo cui la vita nella foresta è la forma più alta di evoluzione culturale”, cede la parola a un’ampia

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e suggestiva citazione dello stesso Tagore, che è così bella e convincente da meritare di essere riportata anche qui: “La civiltà occidentale contemporanea è fatta di mattoni e di legno. Affonda le sue radici nella città. La civiltà indiana, invece, si distingue per aver scelto la foresta, e non la città, come fonte di rigenerazione materiale e intellettuale. Le migliori idee indiane sono nate là dove l’uomo è in comunione con gli alberi e i fiumi e i laghi, lontano dalle grandi folle. La pace della foresta ha favorito lo sviluppo intellettuale dell’uomo. La cultura della foresta ha alimentato la cultura della società indiana. La cultura nata dalla foresta è stata influenzata dai diversi processi di rinnovamento della vita che nella foresta sono incessantemente in atto, diversi da specie a specie, da stagione a stagione, all’occhio, all’orecchio e all’olfatto [...] Il pluralismo, perciò, è diventato il principio della civiltà indiana. I pensatori indiani, liberi da gabbie di mattoni, legname e ferro, erano circondati dalla foresta e collegati al suo processo vitale. La foresta viva era per loro fonte di cibo. L’intima relazione tra vita umana e natura vivente divenne fonte di conoscenza. La natura non era morta e inerte in questo sistema cognitivo. Dall’esperienza di vita nella foresta appariva evidente che questa era fonte di luce e di aria, di cibo e di acqua”.

Il veleno è moderno, l’antidoto è antico L’India del nuovo millennio è più che mai in bilico tra passato e futuro. Ma non, come sarebbe naturale, tra il proprio passato e il proprio futuro, secondo una linea di sviluppo coerente che sia in grado di innestare qualsiasi trasforma-

La spiritualità ha radici antichissime, ma inizia a essere minacciata dalle spinte convulse della modernizzazione. Non cambia soltanto l’economia. Cambiano i modi in cui si vive e si interagisce. zione successiva sulle solide basi delle precedenti acquisizioni culturali, sociali ed economiche. L’India, purtroppo, è in bilico tra il suo passato e il nostro futuro. Tra la sua tradizione millenaria – che poggia sulla trama, allo stesso tempo aerea e robustissima, di una sapienza non intellettualistica, capace di diffondere i semi di un’intensa spiritualità anche fra gli strati più poveri della popolazione – e le spinte convulse della modernizzazione, sul doppio binario dell’aggiornamento economico in senso liberista e dello stravolgimento

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culturale in chiave consumista e competitiva. L’India, che si è affrancata dalla dominazione inglese soltanto nel 1947, riducendo il legame politico con gli ex occupanti britannici alla compresenza nel Commonwealth, non è approdata subito all’impostazione attuale, che sia pure tra forti resistenze interne avalla le linee guida della globalizzazione e sta concedendo una crescente libertà di manovra alle grandi imprese straniere. Nei primi decenni della sua vita di nazione libera e autonoma, la neonata repubblica federale si è sforzata di trovare una propria via alla modernizzazione e

L’aspetto più preoccupante della realtà indiana odierna è questo: è l’alleanza perversa che si è formata, complice l’Fmi, tra il capitalismo d’importazione e quello autoctono. allo sviluppo. Le intenzioni sembravano ottime: affermando di muoversi nel segno di una giustizia sociale che permettesse a tutti di migliorare le loro condizioni di vita, e che sollevasse i molti milioni di indigenti dalla miseria, i governi centrali cercarono di contemperare la libertà d’impresa con la programmazione statale. I problemi sono sorti con l’andare del tempo, quando lo Stato federale si è trovato ad accumulare un forte debito pubblico e non ha trovato di meglio che rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale. Che, more solito, ha subordinato l’erogazione del credito all’introduzione di una serie di “correttivi” in senso mercatista. Manco a dirlo, il condizionamento esterno ha spianato la strada anche agli speculatori interni. Potendo finalmente “giustificare” la propria condotta aggressiva e la propria sete di profitto con la scusa dell’adeguamento a una mutazione generale del tessuto economico, attuata sulla scorta di principi che essi erano ben lieti di sottoscrivere ma di cui non potevano essere ritenuti direttamente responsabili, non essendo stati loro a promuoverli, le oligarchie economiche indiane si sono affrettate a seguire la corrente delle privatizzazioni. E, parallelamente, a trarre ogni possibile vantaggio dall’ulteriore indebolimento dei piccoli e piccolis-

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simi proprietari terrieri, danneggiati sia dalla drastica riduzione dei sussidi statali all’agricoltura che dalla instabilità dei prezzi a seguito della crescente presenza di aziende straniere e di merci provenienti dall’estero. Come scrive Matilde Adduci4, “la ragione fondamentale per cui il grande capitale indiano aveva aderito al progetto di integrazione con il mercato internazionale era il riconoscimento che si trattava di una strategia di crescita che non ne avrebbe compromesso gli interessi costituiti, sebbene la contropartita fosse la rinuncia a esercitare il pieno controllo nazionale sul mercato interno”. L’aspetto più preoccupante dell’odierna realtà indiana è questo: è l’alleanza perversa tra il capitalismo d’importazione e quello autoctono. Quando la parola d’ordine è arricchirsi con qualsiasi mezzo, e a danno di chiunque, l’economia si è già trasformata in un crimine ai danni della collettività. Quando si guarda con disprezzo e con cinismo ai propri connazionali, preferendo venire a patti con gli investitori stranieri che, nel tuo Paese e nel tuo popolo, non vedono nient’altro che terra e beni e persone da sfruttare, si meriterebbe la sanzione per eccellenza: la perdita della cittadinanza. Via. Fuori da questa comunità, se non dimostri di averne a cuore ogni membro. Se il tuo lavoro non è, oltre che un atto economico, anche un atto d’amore.

Federico Zamboni

Note: 1 Le dieci cose che non saranno più le stesse, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2009, pagg. 297, € 9.90. 2 La Monsanto, nata nel 1901 a Saint Louis, Missouri, dove si trova tuttora la sede centrale, è una multinazionale specializzata in biotecnologie. Sul sito italiano si legge testualmente che “da oltre 30 anni Monsanto in Italia è a fianco degli agricoltori per aiutarli ad ottenere dalla loro terra sempre di più e sempre meglio”. Se non che, allo scopo di ottenere questo “meglio”, i tecnici della società non esitano a utilizzare qualsiasi sostanza chimica nonché, in tempi più recenti, gli stessi Ogm. 3 India spezzata, Il Saggiatore, 2008, pagg. 174, € 13,00 (l’originale, apparso invece nel 2005, ha un titolo più lungo e ben più esplicito: India divided. Diversity and democracy under attack). 4 L’India contemporanea, Carocci, 2009, pagg. 138, € 15,50.

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ANALISI

Come pesci che si sfiorano in un acquario

G

di Federico Zamboni

uardi come guidano e la prima cosa che pensi è che sono pazzi. La strada è piena zeppa sia di mezzi di trasporto che di viandanti, e persino di animali: veicoli a motore di ogni genere – automobili e camion e corriere e motociclette, di qualsiasi dimensione e di qualunque aspetto, di fabbricazione recente o così vecchi e malandati che si reggono a stento, importati dall’Occidente o prodotti in loco – frammisti a risciò a pedali che arrancano faticosamente, a carretti spinti a mano che procedono a passo d’uomo, e ad animali che avanzano con paciosa e distaccata lentezza, per lo più condotti da qualcuno ma talvolta addirittura da soli, liberi di andarsene chissà dove e chissà perché. La fiumana si spande ovunque, senza una netta distinzione tra la carreggiata e le banchine laterali, sui percorsi extraurbani, o tra lo spazio riservato alle macchine e quello destinato ai pedoni, nelle città o nei villaggi. La stessa divisione tra i due sensi di marcia è poco più di un’indicazione di massima: occupare la corsia opposta è del tutto normale, salvo suonare a distesa il clacson o utilizzare gli abbaglianti come una sorta di urla luminose di avvertimento. La fiumana è coloratissima e chiassosa, e appare di gran lunga più caotica del traffico, sia pure congestionato e nevrotico, al quale siamo abituati. È qui il punto. Siccome questa situazione non la capiamo, essa ci sorprende, ci disorienta, ci risulta incomprensibile e, in qualche modo, minacciosa. Avvezzi a tenere tutto sotto controllo, da bravi occidentali raziocinanti ed evoluti, questo tipo di disordine lo rifiutiamo: constatando che non si attengono alle nostre stesse regole, l’unica conclusione di cui siamo capaci è che agiscano a caso e che si affidino alla buona sorte. Come selvaggi. Come “pazzi”, appunto. È un errore gravissimo. E illuminante. Al contrario di quello che sem-

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bra il traffico dell’India non è affatto privo di logica. Non è affatto vero che ognuno fa quello che gli passa per la testa e spera che gli altri glielo permettano. Se ognuno si prende determinate libertà, come ad esempio invadere la corsia opposta o passare a pochissimi centimetri da un’altra vettura o da un gruppo di pedoni, è proprio perché sa di poter contare sulla comprensione altrui e, quindi, sulla relativa collaborazione. Non è una speranza. È una certezza. Implicita quanto si vuole, ma proprio per questo ancora più affidabile di qualsiasi prescrizione normativa: per farsi da parte, e consentire agli altri di passare, non c’è bisogno di controllare i segnali stradali e verificare preventivamente chi ha la precedenza e chi no. Il principio non è fissato dalla legge. Il principio – che è cosa assai più ampia di qualsiasi specifica regola – è iscritto nella propria cultura. Che è anche quella degli altri e che, perciò, non richiede nessuna disciplina esterna: adesso mi sposto io, tra un attimo ti sposterai tu. Tutto quello che si chiede, in questo gioco incessante di riposizionamenti reciproci, è di far capire bene le proprie intenzioni: se viaggi dove non dovresti, pazienza; però, mi raccomando, fatti vedere e sentire, affinché mi possa regolare di conseguenza. Così, sul retro dei camion, capita spesso di vedere scritte a caratteri cubitali frasi come “Blow Horn” (suonare il clacson) e “Use Dipper At Night” (usare i fari di sera). L’invito, bisogna dire, non solo viene accolto di buon grado ma interpretato in maniera quanto mai estensiva. Più il traffico è intenso e più tutti pestano sul clacson con incrollabile determinazione, se non proprio con genuino entusiasmo. Il risultato, per orecchie non abituate, e per sistemi nervosi reattivi, è terrificante: una cacofonia di tonalità fatalmente stridule, che in città può proseguire imperterrita fino a tarda o tardissima sera. E che, alla lunga, ti fa quasi rimpiangere gli ingorghi nostrani. Gli indiani, invece, non battono ciglio. Si tallonano, si sfiorano e si strombazzano vicendevolmente come se fosse la cosa più normale del mondo. Lo fanno con uno strano miscuglio di impegno assoluto e di assoluto distacco. Come se, anche mentre guidano, non fossero nulla di diverso da persone che si affollano in un mercato: visto che siamo così tanti non si può non sgomitare, ma non è mica per fare del male. È solo perché non si può né cedere sempre il passo, sennò non si arriva mai, né avanzare come dei rulli compressori, a scapito di chiunque altro. E allora, visto che lo facciamo a piedi, perché non possiamo farlo anche in auto? Siamo pesci nella stessa acqua. Siamo uomini sprofondati nello stesso pezzetto di mondo. E fare parte dello stesso flusso, sentirsi parte dello stesso flusso, porta a vedere le cose in un altro modo. Non è sempre e comunque una sfida a chi ha la meglio. È una specie di danza in questo strano posto (questo enigmatico “spazio-tempo”) in cui ci è capitato di vivere.

Federico Zamboni

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ANALISI

Abruzzo a che punto siamo? Perizie fatte “chissà come”, città fantasma, nuove scosse e tendopoli militarizzate. Si attende ancora - con fatalismo - che qualche promessa fatta a favore di telecamera (e sotto elezioni) venga mantenuta.

R

di Lucrezia Carlini

oma, 16 giugno. Il tassista smadonna. A Roma fa un caldo malato,appiccicoso.Il centro è bloccato da una manifestazione. “So’ quelli da’ Abbruzzo. Nun ce se crede. Janno dato tutto. Berlusconi sta sempre là sta, e questi protesteno pure. Ma cche sse protesteno, me li dessero a mme tutti quei sordi….”. I tassisti romani non sono tassisti qualunque. Sono la pancia bassa del paese: l’epicentro dei suoi mugugni. A Montecitorio un migliaio di abruzzesi incazzati ha organizzato un sit in per fare pressione sulla Camera, riunita per approvare il decreto sul sisma del 6 aprile, già passato in Senato. Gli sfollati sono partiti con i pullman da l’Aquila o dagli alberghi sulla costa, hanno montato due tende di fronte al Parlamento, poi hanno deciso di sciamare lungo il Corso. La gente li guarda con fastidio. Cosa vogliono ancora? La sintesi giornalistica è sbrigativa. 1- Il rimborso pieno e integrale per tutte le abitazioni, comprese le case dei proprietari non residenti e le altre case per la vera e completa ricostruzione dei comuni colpiti. 2- Una norma specifica, con le necessarie risorse finanziarie, per ricostruire l'immenso patrimonio edilizio dei beni culturali pubblici e privati dei centri storici danneggiati. 3 - Il riconoscimento della Zona Franca Urbana, con risorse aggiuntive per risarcire gli imprenditori che hanno le aziende distrutte o danneggiate. 4 - L’erogazione urgente di risorse agli Enti Locali e alle aziende pubbliche per i mancati introiti. 5 -Garanzie per gli espropri nelle aree dove edificare abitazioni transitorie o definitive. Tutti i giornalisti italiani hanno studiato fino alla B di Budella. La maggioranza si è spinta fino alla C di Cuore. L’aggiornamento fino alla L di Lacrime è venuto da sé. Ma pochi si sono spinti fino alla T di Testa. È que-

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“...a Piazza d’Armi sono rimasti i poveri, gli immigrati e un gruppo di tossici - tutti i tossici della città in un’unica tendopoli.”

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sta, signori e signore, la vera ragione per cui sappiamo sempre tutto del dolore e poco di ciò che viene dopo. Rossella G. è una quarantenne bella tosta.Viveva con il marito e il figlio di otto anni in centro storico. La loro casa è in piedi, esternamente. Ma è classificata E, da abbattere.A Pechino, qualche anno fa, un ideogramma di morte, tracciato a vernice, contrassegnava gli hutong da distruggere per lasciar posto a centri commerciali e complessi residenziali. La ricostruzione secondo il regime. A L’Aquila non ci sono simboli; ci sono facciate integre di vite collassate all’interno. Rossella assicura: “Non ci fermeremo davanti a niente.Bloccheremo l’autostrada.Questo è solo l’inizio.”Ma lo vede anche lei, il fastidio dei passanti. Solo pochi mesi fa, a parlare di Abruzzo si aprivano cuori e portafogli. Oggi Rossella passa le notti da sfollata a studiare il decreto. Poi scrive le sue considerazioni ai quotidiani.“Dovresti farla tu, la giornalista” le dico. Questi mille abruzzesi sono la metafora della Povera Patria: terremotati e incazzati - “Pastori sì, ma mica pecore”, chiosa una di loro - ma pochi. Sono la goccia attiva in un mare di settantamila monadi sedate. Si sono organizzati in comitati, ormai una quindicina, tutti mossi da un imperativo che è un bisogno: riprendersi il centro storico. Sono studenti, giovani tecnici, professionisti. Società civile. Ceto medio e medio alto. Molti, proprietari di case in centro storico. Dire centro storico, a L’Aquila, significa non potere sfuggire alle definizioni retoriche: cuore pulsante, anima della città. Lo era davvero, come mai ho visto altrove. E non è una faccenda semplice, perché il cuore di questa città è un colabrodo e lo resterà, prevede il quanto-a-emergenze-onnisciente Bertolaso, almeno cinque anni. Quella che segue è la fotografia imperfetta di ciò che l’Aquila è diventata, il tentativo di spiegare il perché e perfino un’ipotesi sul suo futuro.

Il centro storico Inaccessibile ai suoi abitanti, per non parlare dei giornalisti, da mercoledì 8 aprile. Si entra in via eccezionale, accompagnati e con il caschetto obbligatorio. Se forniti di telecamere, solo dopo lunga trafila burocratica presso l’Autorità suprema, altresì detta Protezione Civile. I puntellamenti degli edifici privati procedono con lentezza. Ogni scossa, e nell’aquilano ce ne sono di continuo, danneggia ulteriormente le case non ancora in sicurezza. La devastazione è vastissima. Il preventivo per ricostruire? Forse 3 miliardi, molto probabilmente di più. Il genere di danno non quantificabile. Il sindaco Massimo Cialente, figura tragica di questa storia, si danna per riaprire quel che può. Il 21 giugno via Federico II, dalla Villa Comunale al Duomo. La settimana dopo fino ai Quattro Cantoni. È una riapertura simbolica, uno spiraglio per i residenti e per la città tutta. Resistete, venite su a respirare un po’ di speranza, non lasciate la città, aspettate ad andarvene, presto potrete passeggiare di nuovo sotto i portici e dopo, forse, rientrare nelle chie-

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se. E dopo ancora, se i soldi per la ricostruzione arriveranno, nelle vostre case. Ma che i soldi arrivino davvero non v’è certezza, dato che la copertura finanziaria, da decreto, prevede il ricorso a un aleatorio superenalotto ma non la tassa di scopo richiesta da Cialente. Non solo: il nodo dei rimborsi ai non residenti è cruciale. L’Aquila è – era – centro universitario. Sui circa 17mila fuorisede, dopo il sostanziale fallimento dei progetti di industrializzazione dell’area, si fondava la sua vita e la sua economia. I posti letto pubblici a disposizione degli studenti erano – udite udite – 261. Gli altri vivevano in affitto, prevalentemente in centro. Significa che una parte consistente dei proprietari delle case del centro storico non risiedevano nelle case di loro proprietà, ma le affittavano ai ragazzi. Prima delle elezioni Berlusconi aveva promesso tante cose a favore di telecamere: e ai 49 sindaci del cratere, in camera caritatis, il 100% dei rimborsi anche ai non residenti. I sindaci ci hanno creduto e hanno aspettato fiduciosi che il decreto venisse cambiato con un emendamento che includesse i non residenti. Invece no: “il decreto non si cambia di una virgola, le modifiche necessarie saranno introdotte con successive ordinanze” ha chiarito la voce dei padroni. Non è un paese per ingenui… Negli altri paesi colpiti, le conseguenze di una mancata applicazione di questa richiesta sarebbero ugualmente drammatiche. Rocca di Mezzo è fra i comuni coinvolti: vive sulle seconde case dei romani. O i romani si decidono in blocco a trasferire lì la residenza, o il contributo per la ricostruzione delle loro case di vacanza sarà di serie B. Le case saranno abbattute o comprate a due lire da qualche fortunato e cinico speculatore, oppure semplicemente Rocca di Mezzo morirà.

Le case dichiarate inagibili Giuseppe è fuori di sé.Viveva fra L’Aquila e Pettino, zona altamente sismica dove non si sarebbe dovuta posare nemmeno una pietra, e infatti 30 anni fa ci hanno costruito il nuovo ospedale San Salvatore. Pare che la sua casa sia stata tirata su bene, e quindi ha retto alla scossa fatale. Mi mostra le foto e una copia della perizia tecnica.“So’ venuti in tre, c’era un ingegnere dei vigili del fuoco, ha guardato, ha fatto toc toc con un martelletto e ha scritto E. Da abbattere”. Giuseppe è rimasto interdetto. Ha chiesto a un amico architetto che ha visionato l’edificio e ha decretato: per me è un B, agibile previo intervento. Giuseppe è andato a chiedere un nuovo sopralluogo: che c’è stato, ha stabilito che si era un po’ esagerato in pessimismo ma ha chiosato: però sarà difficile che cambino la categoria perché vale la prima perizia. Giuseppe cita tanti altri casi come il suo: tecnici ragazzini che, per timore di sbagliare, decidono l’abbattimento di interi condomini, senza un’adeguata perizia. “Non è bastato il terremoto, qua ce stanno a portà via tutto loro”. Mi parla dei suoi genitori, sfollati in

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tendopoli.Vecchietti attivi fino al 6 aprile, e ora incapaci di muovere un passo che non sia eterodiretto.“Sono in pena per mio padre. È invecchiato di vent’anni in un mese. E non so quando potrò portarlo via da quel maledetto campo.Ho paura che sia già troppo tardi”. Sono in tanti a confidarmi sgomenti lo smarrimento dei loro vecchi. È il risultato della prima scelta di questo governo, quella che ha cristallizzato l’emergenza rendendola quotidiana. Per mesi.

Le tendopoli 130, 80 solo a L’Aquila. Costano, ci costano, 3 milioni di euro al giorno. La più grande, in piazza d’Armi, può ospitare circa 1500 persone. Era quella sempre in diretta nei Giorni del Dolore. Oggi si sta spopolando: chi ha potuto se ne è andato, ha trovato la soluzione fai da te, si è comprato un camper o una casetta di legno, che mai gli verranno rimborsate, e tira avanti. Magari ha parcheggiato nel giardino di casa, magari la casa è in categoria A o B, ci potrebbe anche rientrare, potrebbe riattivare il gas, ricominciare una vita più o meno normale. Ma le scosse continuano, le perizie “chissà come le hanno fatte”, e a vincere la paura non bastano le ordinanze di rientro. Così, a Piazza d’Armi sono rimasti i poveri, gli immigrati e un gruppo di tossici – tutti i tossici della città concentrati in un’unica tendopoli. I colleghi mi ripetono: “A Piazza d’Armi la situazione è esplosiva” ma a esplodere presto, penso, saranno soprattutto l’equivalente delle liti condominiali, da convivenza coatta. Nessuna diretta ve le racconterà,perché sono l’incursione del prosaico nella tragedia. Piazza d’Armi è un buon esempio di quella che i comitati di sfollati definiscono “militarizzazione” delle tendopoli. Controlli ferrei in entrata e in uscita, limiti alla libertà di assemblea, limiti alla libertà di movimento fra un campo e l’altro.“Non c’è nessuna informazione su quello che succede” mi spiega uno degli studenti del Comitato 3e 32. “Cerchiamo di indire delle assemblee, di far circolare le notizie e la voglia di reagire, ma è sempre complicatissimo ottenere i permessi per entrare nei campi, che è l’unico modo per raggiungere chi ci vive”. I comitati fanno delle prove tecniche di democrazia partecipativa. Ma a L’Aquila vige un’altra prassi politica: lo stato di emergenza. Se imponi un disciplina paramilitare a dei civili ne fai dei burattini. Che infatti, in maggioranza, aspettano con fatalismo che Berlusconi faccia il miracolo e li porti in una casa purchessia.

Le casette Avrebbe potuto scegliere una soluzione transitoria e rapida.

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Prefabbricati, facili da montare e smontare. Poche settimane in tenda, giusto il necessario per organizzarsi, e poi, mentre si lavorava alla messa in sicurezza delle abitazioni, case provvisorie. Sarebbe stato meno alienante per gli sfollati, meno traumatico per gli anziani, meno costoso per noi tutti. Ma il governo Berlusconi crede nelle new town. Ha promesso case antisismiche, definitive, entro la fine di agosto. Per almeno 13.000 persone. E case antisismiche saranno. Entro agosto no. Settembre. Forse ottobre. Più probabilmente novembre. Mangerete arrosticini e panettone in una casa antisismica nuova di zecca, sempre che superiate il gelido autunno abruzzese, stringendovi tutti attorno alla stufetta che i prodi volontari dell’Autorità Suprema, altresì detta Protezione Civile,hanno messo a disposizione in ogni tenda. Per costruire le case sono state individuate venti aree. Per lo più private, quindi da espropriare. Molti terreni agricoli. Quale tecnica comunicativa si consiglia per informare un terremotato che il suo terreno agricolo verrà espropriato per costruire le casette, ma gli verrà indennizzato come terreno agricolo, non come edificabile? E poi: come ricostruito da Claudia Fusani su l’Unità del 17 giugno scorso, il cronoprogramma, cioè la tabella di marcia dei lavori per la realizzazione dei Complessi Anti Sismici Ecocompatibili, è già in ritardo di 20 giorni. Il che, per un effetto a catena, potrebbe davvero comportare uno slittamento della consegna addirittura a novembre-dicembre. Sulla consegna delle C.A.S.E. Berlusconi si gioca davvero la faccia. Intanto, ultimamente la sua non ce la mette più, e nella quattordicesima visita ai luoghi del terremoto ha, per la prima volta, evitato il bagno di folla. È comprensibile. Alla quattordicesima visita voi bacereste altri bambini e regalereste altre dentiere, se aveste già vinto le elezioni?

Il futuro secondo Rossella Rossella è pessimista. Le casette saranno i nostri loculi, dice. Se la ricostruzione del centro storico non parte subito la gente se ne andrà. Se ne andranno gli studenti, gli aquilani e i fuorisede, che non hanno, letteralmente, un posto per dormire. Non ci saranno matricole, il prossimo anno. Gli aquilani sfollati sulla costa, quelli con le case da abbattere o molto danneggiate, resteranno ad abitare lì. A settembre iscriveranno i figli a scuola a Roseto o Pescara. Faranno i pendolari, ma almeno la sera torneranno fra quattro mura sicure, senza l’angoscia delle scosse. Sarà un esodo di massa. Resterà solo il fantasma di quello che eravamo. Al posto del cuore, una placca antisismica.

Lucrezia Carlini

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ANALISI

In dollar we don’t trust

La valuta statunitense domina il mondo dal Secondo Dopoguerra. Non solo non c’era modo di sfuggirle, ma la sola idea era una specie di tabù. Adesso, però, sono gli Usa a essere deboli. E c’è chi si prepara ad agire

P

di Marco Lambertini

arte molto da lontano, la storia del dominio del dollaro sulla scena valutaria mondiale. Parte dagli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, che prefigurando organismi quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale gettarono le basi della trasformazione dell’economia planetaria in senso liberista, situando al centro del sistema gli Stati Uniti d’America. Per arrivare all’accelerazione decisiva, però, bisogna attendere la storica decisione, annunciata il 15 agosto 1971 da Richard Nixon, di affrancare il dollaro dalla convertibilità in oro. Se fino ad allora il valore della moneta statunitense aveva dovuto fare i conti con le riserve auree detenute da Washington (o meglio: dalla Federal Reserve, che in realtà non è affatto un ente pubblico ma una società privata, la cui capofila newyorchese ha tra i suoi membri l’onnipresente Goldman Sachs), dopo quella data non c’era più nessun vincolo. Il dollaro diventava l’unità di misura di se stesso. Il dollaro, per dirla in termini cinematografici, veniva ad essere, simultaneamente, il produttore del film, il regista-sceneggiatore e l’attore principale. Agli altri, a tutti gli altri, rimanevano le briciole dei ruoli di contorno. E, quel che è peggio, nessun potere decisionale, fin tanto che i rapporti di forza non fossero cambiati. Inoltre, proprio perché costituiva la valuta di riferimento degli scambi internazionali, il dollaro si poneva come l’irrinunciabile architrave

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dell’intero edificio: l’unico elemento che non doveva crollare in nessun caso; la struttura fondamentale che andava difesa, paradossalmente, anche da chi ne subiva i condizionamenti. Per quanto la dipendenza dal dollaro fosse scomoda, e almeno a tratti assomigliasse terribilmente a una vera e propria schiavitù, l’alternativa appariva insostenibile: una ribellione individuale avrebbe significato precipitare nell’isolamento; una ribellione di massa presupponeva l’abbattimento di tutto quanto l’edificio. Il motto “muoia Sansone con tutti i Filistei” non trovava alcun seguace. Sansone non aveva nessuna voglia di morire. Sansone preferiva venire ai patti coi Filistei, dal momento che i Filistei erano tanto più forti di lui.

Attenti al Bric Finora è andata così, ma il perdurare di questo strapotere non significa affatto che nel frattempo le condizioni generali siano rimaste inalterate. La globalizzazione ha aperto nuovi mercati, permettendo agli imprenditori/speculatori occidentali di conseguire ulteriori e immensi profitti, ma allo stesso tempo ha avviato un massiccio processo di crescita, e di rafforzamento, in zone del pianeta che precedentemente erano rimaste ai margini dello sviluppo economico. Grandi Paesi come la Cina, l’India e il Brasile, nonché la Russia post-comunista, si sono alzati in piedi e hanno cominciato a ripensare il proprio ruolo nello scenario mondiale: dal momento che non potevano sottrarsi alla gara, tanto valeva darci dentro e fare sul serio. Se era vero che le regole della competizione non le avevano scelte loro, né tantomeno potevano cambiarle, rimaneva comunque la possibilità di battersi efficacemente. Di ottenere qualche buon risultato. Di accumulare punti. Cioè ricchezza. Cioè, specie nel caso della Russia e, più che mai, della Cina, un cospicuo surplus valutario da spendere a piacimento. Non solo sul versante interno, incrementando gli investimenti pubblici e le importazioni, ma in qualsiasi altro posto del mondo. E anche negli Usa, why not? Oggi, per passare dalle parole alle cifre, Pechino detiene titoli del Tesoro statunitense per un ammontare pari a 763 miliardi di dollari e, come riportato dal Sole 24 Ore il 18 giugno,“supera nelle sole riserve, secondo stime attendibili, i mille miliardi”. Mosca, a sua volta, ne possiede per circa 120 miliardi, anche se recentemente il vicepresidente della banca centrale russa,Alerei Ulyukayev, ha dichiarato che in avvenire verrà ridotta la percentuale delle riserve, in valuta straniera e in oro, investite nei titoli Usa. Negli ultimi mesi sia Hillary Clinton che Tim Geithner, rispettivamente ministro degli Esteri e del Tesoro, si sono recati a Pechino per caldeggiare un ulteriore sostegno cinese al debito pubblico americano. Eppure, l’aspetto più rilevante non è nemmeno questo. Non è quello che è accaduto fino ad oggi. La questione cruciale è ciò che avverrà in futuro. Da un lato la scelta di continuare oppure no a finanziare il disavanzo federale statunitense, sottoscrivendo le nuove emissio-

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ni di bond con cui la Casa Bianca deve reperire le immani risorse necessarie a sopravvivere alla crisi innescata dal crollo dei subprime e dei derivati di Borsa. Dall’altro, e siamo al nodo essenziale, il permanere o meno dell’attuale avallo alla supremazia del dollaro nelle transazioni internazionali. Che i Paesi del Bric (Brasile, Russia, India e Cina) accarezzino l’idea di affrancarsi dal dollaro, almeno in parte, è ormai risaputo, anche se nell’ultima riunione, svoltasi a Ekaterinburg il 16 giugno, hanno preferito non lanciare un attacco troppo esplicito, limitandosi ad auspicare l’avvento di “un sistema monetario internazionale stabile, prevedibile e più diversificato”. Il problema, ovviamente, non è di carattere teorico ma pratico. Decenni e decenni di subordinazione agli Usa, e alla loro valuta, hanno determinato legami reciproci di tale rilevanza che non si possono certo recidere in un sol colpo, e senza andare incontro a ripercussioni del medesimo rilievo. Il caso della Cina, in questo senso, è esemplare: come abbiamo visto, Pechino è creditore di Washington per cifre ingentissime, che aumentano ulteriormente se alle obbligazioni di Stato si aggiungono gli asset denominati in dollari. Se la moneta americana crolla, o si svaluta fortemente, la Cina si trova immediatamente a subire un drastico ridimensionamento del proprio credito. Nonché, elemento tutt’altro che trascurabile, una forte o fortissima riduzione delle esportazioni verso gli stessi Stati Uniti. Infatti, laddove il crollo valutario si estendesse, com’è logico, all’economia statunitense nel suo complesso, a essere falcidiata non sarebbe soltanto la capacità di spesa del Governo centrale ma anche quella dei cittadini, con un tracollo dei consumi interni e, va da sé, delle importazioni. Tutto questo, se c’è bisogno di sottolinearlo, è perfettamente chiaro a entrambe le parti. E, più in generale, ai vertici della politica e della finanza mondiale. La supremazia del dollaro non è solo una spada di Damocle. È una lama più che mai a doppio taglio, affilata come un rasoio e, pertanto, da maneggiare con estrema cautela. Chiunque la afferri, e cominci a mulinarla, è fuori di dubbio che scorrerà del sangue. Molto, moltissimo sangue. Le domande che ci si stanno ponendo, dunque, non vertono sulla (im)possibilità di uscire illesi da questo duello che equivale a una battaglia campale

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da cui dipenderanno le sorti della guerra, ma riguardano il dopo: chi subirà le ferite peggiori? Chi sarà in grado di sopravvivere?

Se il modello è sbagliato... Un’indicazione di estremo interesse, a questo riguardo, è arrivata da una breve riflessione pubblicata dal Sole 24 Ore il 19 giugno. E puntualmente ripresa, sul nostro sito “ilribelle.com”, nella rubrica dedicata all’economia e firmata The Advisor. In un colonnino a pagina 2, intitolato “L’occidente vive troppo sopra le righe”, Luca Garavoglia, presidente del comitato tecnico per il fisco di Confindustria, propone una lettura alternativa della crisi in corso. A partire dalla domanda “ma è davvero tutta colpa di Wall Street?”, l’autore ribalta l’ottica corrente ed evidenzia l’intima connessione tra la speculazione di Borsa – generatrice di molteplici “bolle” che sono servite, tra l’altro, a immettere nel sistema quantità esorbitanti di denaro fittizio – e lo stile di vita delle popolazioni occidentali, statunitensi in testa. La chiave di volta di ciò che sta accadendo non è (solo) nella smania di profitto delle banche e degli altri operatori professionali del settore finanziario. Non è vero, come si è cercato in tutti i modi di far credere allo scopo di non mettere in discussione l’architettura complessiva del sistema, che vi sia un’intrinseca diversità tra un’economia patologica, identificata in Wall Street, e un’economia sana, identificata nella produzione e nel consumo della cosiddetta “Main Street”. Assolutamente no. Tra l’una e l’altra vi è un rapporto di dipendenza strutturale, la cui ragion d’essere si riassume in una sola parola: credito. Scrive Garavoglia: “Chi di noi non ha acquistato automobili, abitazioni, televisori, vacanze, materassi, mobili e ogni sorta di bene a debito usufruendo di quegli strumenti che l’occhiuta finanza ha via via escogitato (carte di credito e debito, leasing, factoring, mortgage più o meno subprime, credito al consumo, prestiti personali, pagamenti rateali, cessioni del quinto e via discorrendo)? Ebbene, ora che quella finanza che ci ha consentito di prosperare crolla, noi la additiamo come la causa di tutti i mali? Troppo comodo.” Ammesso che l’intenzione non sia quella di giustificare la finanza, confondendone le gigantesche responsabilità nel calderone onnicomprensivo di una società che vive al di sopra dei propri mezzi, la

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provocazione è efficace. E la conclusione è corretta. La crisi, come abbiamo già detto e ribadito a più riprese nei mesi scorsi, non è l’esito di una devianza momentanea, ancorché ad ampio raggio, ma di un vizio congenito. Per potersi legittimare il neoliberismo ha promesso alla generalità della popolazione livelli di reddito, e di consumo, che non hanno nulla di realistico. Quando i redditi hanno smesso di crescere, cominciando invece a ridursi in misura assoluta e/o in termini di potere d’acquisto, si è posta la necessità di puntellare i consumi con una serie di artifici. Da un lato le importazioni a basso costo dai Paesi più o meno sottosviluppati. Dall’altro la diffusione esponenziale degli acquisti a credito, secondo l’elencazione dettagliata, e quasi puntigliosa, dello stesso Garavoglia. La quadratura del cerchio è agevole. E per arrivarci bastano tre soli passaggi. Primo: l’ammontare del credito erogato dalle banche e da strutture consimili dipende dalle loro disponibilità di bilancio, il che significa che più queste ultime si accrescono e maggiore sarà la possibilità di concedere prestiti. Secondo: il valore complessivo dei prestiti può eccedere di parecchie volte quello delle suddette disponibilità. Terzo: il valore dei titoli posseduti non rimane quello

Il dilagare del credito non è solo una perversione finanziaria. È ciò di cui il sistema consumistico ha bisogno per poter continuare ad esistere. Sembra un vizio economico. Invece è politico. del loro importo nominale ma viene ricalcolato sulla base delle oscillazioni di Borsa, per cui l’impennarsi delle quotazioni, come avviene al massimo grado nelle bolle speculative, moltiplica di conseguenza sia il dato di partenza (le disponibilità di bilancio), sia quello finale (il credito che si può erogare). Ed eccoci al circolo vizioso. Le banche espandono il credito a dismisura, arrivando a prestare denaro anche in mancanza di garanzie. I clienti si indebitano al limite delle loro possibilità, e persino oltre, perché le condizioni appaiono talmente favorevoli da risultare irresistibili. Tutti contenti, fino a quando il meccanismo non si inceppa. Fino a quando migliaia e migliaia di clienti non ce la fanno più a rimborsare il dovuto e la loro insolvenza si propaga agli istituti di credito e ne minaccia la solidità, privandoli di liquidità e sospingendoli sulla china delle rettifiche al ribasso, presupposto delle reazioni a catena che si sono innescate nelle Borse e che hanno travolto anche i giganti del settore.

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Ma non è solo una perversione finanziaria. È ciò di cui il sistema consumistico ha bisogno per poter continuare ad esistere. È, dietro la sua facciata prettamente economica, un problema politico. “L’Occidente – conclude lucidamente Garavoglia – dovrebbe ridurre i propri consumi. Ma noi occidentali a questo non siamo disposti, non ve ne sono le condizioni politiche, né quelle sociali. E allora andiamo avanti e stiamo disperatamente (ma senza dirlo) sperando che la vituperata finanza torni presto in sella e il vortice riprenda forza. [...] Andiamo avanti imperterriti, in attesa che qualcuno in Cina e in Medio Oriente ci dica che non intende più passare al ristorante a pagare il conto dopo che noi siamo usciti sazi e ci presenti il suo - salatissimo - conto politico".

Svegliati, Europa Tornando al dollaro, quindi, la questione va ben al di là della dimensione valutaria e rinvia a scelte di portata ancora più ampia. Che ci piaccia o no, la crisi non è una tempesta passeggera, per quanto grave. Soprattutto, non è un’impasse dalla quale usciremo, se ne usciremo, per ritrovarci in un mondo identico a quello che abbiamo conosciuto, o ci siamo illusi di conoscere, finora. La condizione privilegiata di cui abbiamo goduto, dall’alto di un primato che era insieme tecnologico, economico e militare, è durata così a lungo da farci credere di essere i più bravi di tutti. Ma non è vero: più che dalla nostra abilità quella supremazia è dipesa dal fatto che abbiamo cominciato a giocare per primi, stabilendo noi le regole da seguire e assicurandoci, prima che gli altri potessero capire cosa stava accadendo, una dotazione esorbitante di fiches. A noi europei, in particolare, è sembrato che non potesse esserci di meglio che legarsi agli Stati Uniti, sia pure da soci di minoranza, nel presupposto che il loro dominio fosse destinato a non finire mai. Ne abbiamo copiato il modello. Ne abbiamo contratto le infezioni. Abbiamo rinunciato a pensare e ad agire in modo autonomo. Ci siamo dimenticati che la Storia non è mai statica e che, o prima o dopo, bisogna essere pronti a battersi per la propria sopravvivenza, smettendo di confidare nella benevolenza altrui e di illudersi che il benessere e la pace siano conquiste definitive, rendite di posizione da sfruttare all’infinito. Oggi, ammesso e non concesso che si sia ancora in tempo, la prima cosa che dovremmo fare è prendere atto che la subordinazione agli Stati Uniti non è più una garanzia di galleggiamento ma una zavorra che ci trascinerà a fondo. Il dollaro può crollare. L’intera economia americana può schiantarsi. Il mondo sta cambiando. Il mondo è già cambiato. E non è che l’inizio.

Marco Lambertini

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ANALISI

Il “miracolo”

di Alan Garcia

Le aziende straniere irrompono in Perù e si contendono le terre degli Indios per sfruttarne i giacimenti. Per il presidente è un affare da non perdere. E si scatena la repressione

G

di Alessia Lai

ran parte dell’America Latina sta riconsiderando, in modi più o meno incisivi, la presenza delle multinazionali sul proprio territorio. Dalle posizioni più intransigenti del governo venezuelano, che sta procedendo a grandi passi verso la nazionalizzazione di tutti i settori chiave dell’economia, alle importanti riappropriazioni promosse da Cristina Fernandez de Kirchner – che ha ri-nazionalizzato il sistema pensionistico e la compagnia aerea di bandiera -, si passa per l’Ecuador, la Bolivia, il Nicaragua, che si stanno orientando allo stesso modo. Restano però dei “feudi” in cui il liberismo, che in America Latina fa rima con svendita e appalto delle ricchezze nazionali ad aziende straniere, resta radicato e praticato anche da governi considerati di sinistra. Come accade in Perù, che a metà giugno è stato scosso dalla dura repressione delle proteste indigene. Eventi che ha hanno riportato alla mente gli anni più bui del continente, con le forze dell’ordine braccio armato di amministrazioni corrotte e tenute in piedi dalla fedeltà al “Plan Condor”. Il passato nove di aprile più di 60 comunità originarie che abitano l’Amazzonia peruviana hanno cominciato una protesta per esigere la deroga di un pacchetto di nove decreti dettati dal presidente Alan García. Secondo gli indigeni, quelle leggi non rispettavano i loro diritti sui territori ancestrali e le loro risorse naturali ed erano stati stilati e varati senza rispettare i trattati internazionali riconosciuti

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dalla Costituzione di Lima. Il Perù è infatti una nazione firmataria della Convenzione Internazionale dei Diritti umani e dell’accordo numero 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), ragione per la quale si dovrebbe adeguare al rispetto assoluto dei diritti umani, come al diritto di consultazione quando deve intervenire in zone abitate dalle comunità originarie. Le leggi incriminate, invece, sono state redatte e approvate senza consultazione alcuna degli indigeni. In particolare il decreto 1090 è forse il più grave fra tutti perché intende modificare la legislazione sulle foreste, privando della definizione di “patrimonio forestale” circa 45 milioni di ettari di terra, ossia il 60% delle terre dell’Amazzonia peruviana. In questo modo sarebbe possibile sfruttare territori che prima erano in un certo modo protetti dalle speculazioni. Contro questo colpo di mano le comunità indigene peruviane hanno organizzato blocchi stradali, occupazioni di raffinerie e industrie petrolifere. Misure di forza, ma pacifiche, in seguito alle quali il governo García ha fatto ricorso, a maggio, ad un tavolo di dialogo con rappresentanti dell’Associazione Interetnica della Selva Peruviana (Aidesep), riunione che però non ha dato risposta alle richieste indigene. Il 20 maggio, lo stesso giorno nel quale veniva firmato il decreto che sanciva nascita del tavolo di dialogo, la nuova Legge Forestale veniva dichiarata incostituzionale da una Commissione parlamentare multipartitica in considerazione del fatto che metteva in pericolo il 60% delle foreste originarie del Paese e per essere stata redatta senza la consultazione dei nativi. Ma niente ha potuto fermare la volontà del mandatario. Il ministro dell’Ambiente del Perù, Antonio Brack, in alcune dichiarazioni alla stampa, ha fatto capire il perché: la principale causa che ostacolava la deroga delle leggi in questione era il Trattato di Libero Commercio (Tlc) con gli Stati Uniti, firmato il 12 aprile del 2006. Soprattutto, eliminare il decreto legislativo 1090 avrebbe implicato l’inadempimento del cosiddetto “allegato forestale” del Tlc, la qual cosa sarebbe stata, per dirla con le parole dello stesso Brack, «assolutamente grave». Per questa ragione le proteste indigene non sono mai cessate, anche di fronte alla dichiarazione da parte del governo dello Stato di emergenza in quattro regioni amazzoniche, presupposto che ha permesso di sospendere i diritti costituzionali preparando misure repressive per sedare al più presto i focolai di rivolta. Con un decreto supremo della presidenza del Consiglio dei ministri lo stato di emergenza è entrato in vigore domenica 10 maggio nei dipartimenti di Cuzco, Ucayali, Loreto e Amazonas, poco prima del fallito tavolo di dialogo. Si tratta di leggi speciali che equiparano la protesta sociale a gravi reati penali, comminando pene che vanno fino ai 20 anni di carcere. Il decreto sullo stato di emergenza in base al quale Alan García ha potuto dare una cornice legale alla brutale repressione dei nativi fa invece riferimento all’articolo 137 della Costituzione, il quale recita

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che “in caso di turbamento della pace o dell’ordine interno, di catastrofi o circostanze gravi che colpiscono la vita della Nazione”, senza la necessità che il Congresso dia la sua approvazione “è possibile sospendere il libero esercizio dei diritti costituzionalmente riconosciuti relativi alla libertà e sicurezza personale, all’inviolabilità del domicilio, alla libertà di riunione e di spostamento” per un termine massimo di 60 giorni, prorogabili mediante nuovo decreto. Uno stato di polizia insomma, nel quale tutti i basilari diritti personali sono stati sospesi. Venerdì 15 maggio le organizzazioni indigene avevano proclamato lo “stato di insurgencia” in risposta ai decreti limitativi delle liberta varati del governo, ma quando il presidente García aveva autorizzato l’esercito a intervenire nei territori ribelli, gli indigeni avevano revocato l’appello per evitare gli spargimenti di sangue che poi, purtroppo, si sono verificati meno di un mese dopo. Venerdì 5 giugno, infatti, la situazione è precipitata. Il presidente García – imparata la lezione dei preziosi alleati statunitensi - ha preparato il terreno ricorrendo all’abusato termine “terrorismo”. La rivolta degli indios, così definita “di stampo terroristico” viene affogata nel sangue. Si parla di oltre 150 morti. Quelli ufficiali sono una trentina, ma in molti parlano di decine di “desaparecidos”. A nulla sono valse le proteste di numerosi Paesi di tutto il continente che hanno solidarizzato coi membri peruviani dell’Aidesep.La Commissione Interamericana dei Diritti umani, CIDH, ha condannato il massacro ed il governo del Nicaragua ha concesso asilo politico al principale dirigente indigeno del Paese, Alberto Pizango, accusato dalle autorità peruviane di sedizione e cospirazione. Sorda anche ai richiami dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), l’amministrazione García ha continuato a criminalizzare i nativi peruviani. Domenica7 giugno, due giorni dopo la strage, il mandatario ha fatto diffondere un video nel quale si evidenziavano i presunti benefici delle leggi che gli indigeni respingono e che attribuisce alle comunità originarie la responsabilità delle violenze. Ma di fronte alla strenua resistenza indigena, prima la sospensione per 90 giorni dei decreti e poi la mediazione del primo ministro Yehude Simon con le comunità locali hanno portato ad una momentanea interruzione delle proteste. Solo il tempo dirà se le leggi verranno realmente abrogate o se siamo di fronte

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ad una semplice tregua che permetterà al governo peruviano di mettere a tacere le proteste mentre si riorganizza per portare a termine il progetto di alienazione delle risorse. Simon ha cercato di far digerire al Parlamento peruviano l’annullamento delle leggi, ma le dichiarazioni di Alan García e le annunciate dimissioni del primo ministro una volta “risolta” la questione, non lasciano ben sperare per il futuro. Il timore di perdere il treno delle grosse multinazionali pronte a spolpare le risorse peruviane in cambio dei soliti vantaggi per pochi è, infatti, troppo. Come la paura di non poter onorare il Tlc con Washington, importante alleato di Lima in un periodo storico che vede gran parte dell’America Latina ribellarsi alla sola idea di “cortile di casa”. Le enormi riserve scoperte negli ultimi anni nella regione amazzonica rischiano di decretare la morte delle ultime comunità originarie, i cui diritti ed esistenza sono, evidentemente, sacrificabili sull’altare del libero mercato. Almeno agli occhi del presidente García. Lo sfruttamento delle risorse è un’occasione che il mandatario peruviano non intende subordinare alle esigenze delle comunità locali, aprendo alla cessione delle risorse ad una lunga sequela di multinazionali straniere a caccia di vantaggiosi contratti di sfruttamento. Dove il resto dell’America Latina cerca di riprendersi il controllo delle proprie risorse, mettendo paletti allo sfruttamento straniero, García apre le porte del Perù per accogliere i delusi in fuga da Venezuela, Bolivia, Ecuador. Lo sfruttamento dell’area amazzonica sarà infatti riservato a società straniere, mentre gli indios e le loro comunità di cacciatori-raccoglitori perderanno acqua e terreni coltivabili che verranno destinati alla produzione di materia prima da cui verrà ottenuto biocarburante. Senza considerare che, oltre all’assalto dell’industria dei bio combustibili da olio di palma o di pino - disastrose per la loro monocoltura - , già ora sono più di 25 le imprese transnazionali che si trovano nella selva per fare prove di esplorazione o di estrazione di greggio. Agli occhi di Alan García un “miracolo” economico. Nelle dichiarazioni pubbliche dopo la repressione di Bagua, riferendosi ai nativi García ha affermato che «Queste persone non sono cittadini di prima classe. Che cosa possono dire 400 mila nativi a 28 milioni di peruviani: “voi non avete diritto di venire qui”? Non può accadere! È un grave errore. Chi pensa in questo modo vuole portarci all’irrazio-

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nalità e ad una situazione primitiva». Ma quella che il mandatario peruviano definisce “irrazionalità” degli indigeni è la volontà di salvaguardare le proprie terre, e con esse tradizioni, storia, fonti di sussistenza, dall’assalto di rapaci multinazionali. Una corsa all’accaparramento dei diritti di sfruttamento iniziata da tempo e che già registra effetti devastanti per le popolazioni locali. Le multinazionali sono infatti arrivate in Perù alla ricerca di risorse naturali, soprattutto di gas, all’inizio degli anni ‘90. Ma a sancire il vero e proprio assalto alle risorse è stato l’avvio del progetto di Camisea Perù LNG, un gasdotto di centinaia di chilometri capace di trasportare fino a 600 milioni di barili di gas in forma liquida e il cui finanziamento necessita di oltre 4 miliardi di dollari. I nuovi decreti legge voluti dal governo García rientrano pienamente nel quadro dello sfruttamento dei giacimenti peruviani attraverso il programma di nuove concessioni, che probabilmente spetteranno

In futuro potrebbero esserci anche delle aziende italiane, tra quelle che mirano ad arricchirsi sulla pelle dei nativi peruviani. Di sicuro, per ora, c’è la garanzia pagata dalla Sace, una SpA a capitale pubblico. anche ad aziende italiane. «Il progetto aveva bisogno di un sostegno, che è stato concesso da diverse agenzie di credito all’esportazione, inclusa l’italiana Sace, che ha dato una garanzia di oltre 250 milioni di euro, e successivamente dalla Banca Mondiale», ha infatti affermato Elena Gerebizza, della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale. La Sace è una società per azioni interamente controllata dal ministero del Tesoro nata per le attività di sostegno alle operazioni di export delle imprese italiane in ambito internazionale. Una compagnia di assicurazioni pubblica a garanzia del rischio commerciale e politico, per le imprese nazionali e per quelle straniere collegate ad aziende italiane o da queste controllate. Il governo di Roma, quindi, interviene direttamente nella predazione delle risorse peruviane, probabilmente a tutela di aziende italiane interessate a mettere le mani sulle risorse amazzoniche. Tra l’altro «il governo peruviano ha dichiarato che una parte dei proventi derivati da questo progetto sarebbero stati utilizzati per finanziare il Fondo per la difesa nazionale, con un vincolo specifico sull’acquisto di armi per la polizia peruviana», ha aggiunto Elena Gerebizza. Il “mira-

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colo” di García, insomma, nelle reali intenzioni del governo peruviano non sarà destinato, come affermato dal presidente, al progresso e al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali, ma ad un rafforzamento delle strutture repressive e di controllo. Ci sono poi la multinazionale peruviana Gruppo Romero, la anglo-francese Perenco, l’argentina PlusPetrol, la canadese Petrolifera, la spagnola Repsol e la brasiliana Petrobras, che si sono già assicurate lo sfruttamento di ampi tratti di foresta. Numerose società petrolifere già operano attivamente in Amazzonia grazie alla stipula di negoziati diretti con il governo peruviano attraverso la compagnia Petro Perù, recentemente salita agli onori delle cronache per questioni di corruzione. Petro Perù è l’impresa statale, dipendente dal ministero dell’energia, che ha il potere di dare la concessione dei lotti petroliferi negoziando direttamente con le transnazionali, tutto in piena autonomia e discrezionalità. Pochi mesi fa il governo peruviano è stato scosso dallo scandalo battezzato “Petro Audios”: alti funzionari dell’esecutivo ricevevano tangenti in cambio del rilascio di concessioni a certe imprese che avrebbero ottenuto il controllo di alcuni lotti petroliferi.Alan García, pur avendo tentato di prendere le distanze, viene chiamato in causa dalle registrazioni rese pubbliche da alcuni media. Nonostante ciò le dimissioni del ministro dell’Energia sono bastate per mettere tutto a tacere. Fatti che danno la misura di cosa si muove dietro alla tanto sbandierata necessità di andare incontro al futuro, alle promesse di prosperità per tutto il Paese, comprese le zone amazzoniche, fatte da Alan García. Il “miracolo” peruviano, che è una manna solo per i politici corrotti e le aziende che fanno affari grazie a loro, deve essere protetto e tutelato. Ad ogni costo. La strage di Bagua ne è la dimostrazione macroscopica ma gli episodi di “tutela delle risorse” sono numerosi. Ai primi di maggio, la security della compagnia petrolifera Perenco ha forzato violentemente il blocco del fiume Napo messo in atto dagli indigeni che protestavano contro la violazione dei loro territori da parte della ditta anglo-francese. E la cosa curiosa è che lo ha fatto con una cannoniera della marina militare peruviana. Ci si chiede come sia possibile che un’impresa privata possa utilizzare una cannoniera della marina per invadere le terre indigene. La risposta è nella visita, risalente a poche settimane prima di questi avvenimenti, fatta dal direttore della Perenco, Francois Perrodo, al presidente peruviano Alan García. Un incontro nel quale Perrodo aveva promesso un investimento di due miliardi di dollari nel Lotto 67, la zona data in concessione all’azienda. Due giorni dopo una legge del governo dichiarava i lavori della compagnia petrolifera “priorità nazionale”. Le cannoniere hanno parlato poco dopo. Padre Mario Bartolini, un missionario italiano da molti anni soste-

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nitore delle battaglie condotte dalle comunità indigene dell’Amazzonia, ha sollevato un altro velo su quel che già accade da tempo nelle terre dei nativi. Accusato dalla giustizia peruviana di istigazione alla rivolta per il suo appoggio alle recenti proteste indigene, accusa che potrebbe costargli la permanenza nel Paese, Padre Bartolini ha spiegato in un’intervista rilasciata ad un inviato del Corriere della Sera che «Il mondo ha scoperto il Perù in questi giorni, con la strage (di Bagua - ndr), ma i nostri fiumi sono già inquinati di petrolio, i nostri bambini hanno piombo e cadmio nel sangue e ogni giorno vedo gli animali morire e fuggire dalla selva in distruzione». Da anni il suo principale avversario è proprio il Gruppo Romero, colosso dell’industria agricola peruviana che ha ottenuto dal governo la licenza su 30 mila ettari di foresta vergine da disboscare e destinare alla coltivazione di piante oleose che diventeranno biodiesel. «Una sorta di prova generale verso la distruzione dell’Amazzonia peruviana», ha affermato il sacerdote. Pochi giorni dopo, intervistato da Radio Vaticana, Bartolini ha rincarato la dose: «Mi sembra che per questo governo l’Amazzonia non sia che un deposito: tutti possono attingere alle sue ricchezze, approfittarsi della sua gente a beneficio di altri, soprattutto le multinazionali. Secondo il governo, la presenza di queste multinazionali creerebbe benessere, toglierebbe dall’estrema povertà milioni di nostri fratelli, ma questa non è che un’altra bugia. Noi possiamo constatare che dove stanno agendo queste multinazionali, siano petrolifere o minerarie, c’è più sfruttamento, c’è più abbandono. La nostra gente viene sfruttata per lavorare a basso costo». Oltre a quelle già presenti sul territorio peruviano, le multinazionali che con i decreti varati, e per ora solo sospesi dal governo García, vedrebbero ampliarsi ancor di più i loro proventi economici sono: Pluspetro Norte, Korea National Oil Corporation, Daewoo Internacional, SK Corporation, Maple production, Burlington, Conocophillips, Repsol, Petrobras, Barret, Hunt Oil Company, Occidental, Petrolifera, Sapet, Pan Andean, CCP, Hocol, e Amerada Hess. Un elenco lunghissimo che dà l’idea, assieme a quel che già è stato appaltato allo sfruttamento esterno, di cosa possa rappresentare per Lima la concessione dei diritti di esplorazione, coltivazione e estrazione nelle aree amazzoniche. Ragion per cui, la momentanea sospensione dei decreti, assieme alle ambigue affermazioni di García, non lascia presagire nulla di buono per i futuro dei nativi peruviani, a meno che anche Lima non si avvii verso il cambiamento che già ha contagiato parte dell’America Latina e si allontani definitivamente dall’influenza nordamericana con il suo corollario di Tlc e transnazionali pronte all’assalto delle risorse locali. Alessia Lai

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METAPARLAMENTO

Il buon europeo

Urne quasi deserte. Dell’Europa, di questa Europa, importa veramente a pochi. E chi vota premia la diffidenza e la critica. Risultato: un Parlamento Europeo di euroscettici.

C

di Alessio Mannino

i siamo risparmiati la noia di compulsare dotte analisi di politologi boriosi e per afferrare il senso del voto europeo di giugno abbiamo avuto la fortuna di ascoltare il parere di un semplice consigliere comunale di una città di provincia: «A noi politici oggi la gente chiede solo una cosa: che li illudiamo di mantenere il tenore di vita a cui sono abituati». L’Europa non interessa un fico secco all’uomo della strada. La benedice, soprattutto l’italiano e i popoli con un’identità nazionale debole, poiché si è convinto che senza di essa andrebbe peggio, essendo i singoli Stati alla mercè di una globalizzazione che il poveretto non capisce e da cui non sa come difendersi. Se ne sente estraneo, tanto è vero che fa il deserto intorno alle urne: l’europarlamento è stato sputato fuori a forza da appena 4 europei su 10 (esattamente il 43%, il peggior dato dalle prime elezioni avvenute nel 1979, in cui votò il 62% degli aventi diritto). Di fatto, l’Unione Europea è un’istituzione a sovranità zoppa, e il suo unico organismo eletto un’assise delegittimata.

A-europei Non sa nulla, il nostro astensionista, sui reali poteri gestiti dalla pletora di deputati a 7.665 euro lordi al mese, sulle commissioni terra di conquista delle lobby industriali, sullo strapotere incostituzionale della banca centrale, sui lati oscuri del Trattato di Lisbona e della direttiva Bolkenstein. Ha una vaga idea che questa Europa sia schiava dell’alta finanza londinese e newyorkese, che ne dispone a piacimento tenendola in uno stato di minorità politica e militare per la felicità dei banchieri d’Oltremanica e d’Oltreatlantico. Perciò non è affatto vero quanto vanno sostenendo gli anti-europeisti militanti, e cioè che lo storico rifiuto di

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massa del 7 giugno sia stato un no all’«Europa delle banche e della burocrazia». Manco per niente. Quel 67% di europei astenuti non sono contro questa Europa. Se ne sono semplicemente fregati perché di Bruxelles non sanno che farsene, non ci si identificano. Soprattutto, il misterioso oggetto chiamato Unione Europea non è un attore della sitcom televisiva altrimenti nota come “politica”. I Barroso e i Poettering, gli Schultz e compagnia bella sono astratte figure che compaiono di quando in quando nei tiggì, surclassati di gran lunga dalle avventure di Berlusconi e dai fallimenti di Zapatero, dalla pochezza di Brown e dallo charme di Sarkozy, insomma da quello che combinano i politici nazionali di ciascun Paese. Per dirla tutta, i recalcitranti cittadini europei non la vedono proprio, questa cosa chiamata Europa. Non la scorgono all’opera nel proprio quotidiano, ad eccezione delle etichette del cioccolato o quando scoppiano i casi quote latte o prodotti ogm. Non ne sentono la presenza in ciò che sta più loro a cuore: la paura di perdere ciò che hanno o di strappare qualcosa che non hanno ancora. Non sono anti-europei. Sono a-europei.

Lupi e mastini Chi è contro, informato e consapevole, costituisce una minoranza del non-voto. Semmai, per quel meccanismo psicologico che spinge a trasformare l’impulso di protesta in un atto istantaneo, concreto, il cittadino che voleva mandare a quel paese la casta di Strasburgo, a votare ci è andato. Scegliendo formazioni di due tipi: o i lupi dichiaratamente ostili al glaciale modello europeo, o più rassicuranti mastini che gliene fornivano un’«alternativa». Di qui – i lupi - l’exploit dell’estrema destra in Inghilterra (British National Party, 6,2%), in Olanda (Partito della Libertà Pvv, 17%), in Ungheria (Jobbik, 15%), in Finlandia (Perussuomalaiset, 9,8%). In Austria l’Fpoe orfano di Jorg Haider ha ottenuto un buon 13% con un programma che prevede di «eliminare le elezioni europee»1, a cui va sommato il 5% di Bzo, partito scissionista fondato da Haider prima di morire. Il caso austriaco è interessante perché il bacino di voti euroscettico è stato spartito con la forza indipendente guidata da un ex giornalista dello Spiegel, Hans Peter Martin – mezzo lupo e mezzo mastino. Alla sua terza legislatura, questo ex socialdemocratico ha conquistato un clamoroso 18%, appena cinque punti in meno rispetto al suo

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ex partito, contestando i “poteri forti europei” con accenti alla Beppe Grillo: contro i “lobbisti e la “confisca del potere da parte delle élites”, contro gli “sprechi”, contro Lisbona e l’ingresso della Turchia nell’Ue, contro tutto e tutti2. L’altro e ben più prestigioso donchisciotte di un europeismo dal volto umano è il mastino Daniel Cohn Bendit, leader franco-tedesco del ’68 parigino, oggi a capo di Europe-Ecologie. Lasciatosi alle spalle ogni patetica nostalgia per quei “formidabili” anni (il suo ultimo libro s’intitola, significativamente, Dimenticare il Sessantotto), Bendit è stato l’artefice di uno straordinario 18% (in un Paese, la Francia, che elettoralmente parlando è sempre stata di un’avarizia spietata con gli ambientalisti). Ha abbandonato la vocazione alla «battaglia velleitaria o ideologica che non porta da nessuna parte» e si è lanciato in una campagna interamente centrata su temi europei, snobbando la politica interna francese. Ha raccolto attorno a sé anime diverse dello scontento, superando il ghetto di “sinistra” e imbarcando sia i fan legalitari del giudice Eva Joly sia i “paysans”, no-global e localisti di Josè Bovè. Il grumo d’origine resta quello, libertario e gauchiste, paragonabile al movimento italiano dei girotondi. Ma Bendit ha saputo smarcarsi dal passatismo sinistrorso. Basta citare il suo giudizio liquidatorio degli esangui Verdi al di qua delle Alpi: «Si sono ridotti ad essere una piccola forza di supporto dell’estrema sinistra comunista»3. E ora confrontatelo con un Paolo Cento, il cui commento per il 3,1% raccattato dal cartello Sinistra e Libertà in cui erano intruppati gli ecologisti italiani è stato il seguente: «Sì, forse dovremmo essere più ambientalisti-ambientalisti. Però Bovè ha distrutto i campi con coltivazioni geneticamente modificate, è andato in carcere… Noi vogliamo ricostruire l’alleanza con il centrosinistra». Capito? Lassù fanno sul serio e rimediano pure la galera, quaggiù pensano ad allearsi col Pd. I Verdi, del resto, mietono consensi anche in Belgio (18,5%) e li confermano in Germania (12,1%). Non perché, ad eccezione del caso francese, siano particolarmente rappresentativi di un malessere anti-sistema che, lo diremo fra poco, prende altre strade. Ma perché vampirizzano una socialdemocrazia europea esausta, sbandata, fiaccata dalla disillusione di un ceto piccolo e medio borghese stufo marcio delle fasulle ricette da sinistra all’acqua di rose dei vari socialismi convertiti ai dogmi della Borsa (Spd tede-

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sco, Ps francese, Pse spagnolo, Labour inglese e Pd italiano). Quando s’ingrossano, i Verdi, ci riescono per lo sfinimento dei partiti di sinistra istituzionale. Che devono rassegnarsi all’egemonia politica dei loro avversari-compari di destra: in Francia, in Italia, in Inghilterra, in Spagna, in Ungheria, in Bulgaria, in Slovenia a uscire vincitrici, benché a volte di misura o neppure sfiorando certe aspettative di gloria (è il caso del PdL in Italia, inchiodato al 35%), sono state le forze di destra.

La paura Il paradosso per cui i lavoratori europei investiti dalla crisi economica mondiale, falcidiati dalla disoccupazione e frustrati nel loro credo progressista, abbiano abbandonato i tradizionali riferimenti di sinistra rifugiandosi nell’astensione o saltando sul carro delle destre se non delle estreme destre (da noi, della Lega Nord e dell’Italia dei Valori, nessun voto per i senili tardo-fascisti), in realtà è un non-paradosso. La catastrofe finanziaria che ha destabilizzato il lavoro, i progetti, la vita di milioni di europei ha provocato l’unica reazione possibile: ha messo una gran paura. La ricca Europa è più povera, sfiduciata, alla rincorsa delle nuove potenze, Cina e India, e per mantenere il livello di vita degli ultimi sessant’anni deve sgobbare sempre di più. E perciò è terrorizzata dalla prospettiva, ormai diventata realtà di tutti i giorni, di dover rinunciare al benessere materiale goduto finora. La paura che assale il cattivo europeo – che non riconosce in Bruxelles la capitale di alcunché – è la fifa fottuta di essere privato della sicurezza economica. Quindi premia i governi di destra che senza porsi tanti dilemmi di coerenza si convertono seduta stante dal liberismo al protezionismo e agli aiuti di Stato alle banche, che individuano il capro espiatorio nei “barbari” immigrati, che dirigono il risentimento sociale sull’Islam “malvagio” e “corruttore della cultura” - in definitiva perché sembrano fornirgli un’ancora credibile di salvezza: immediata, a buon mercato, che salvaguarda, almeno così gli pare, lo status quo a lui tanto caro. E’ rimasto un individualista credulone che tiene al conto corrente, il cattivo europeo. E più è incazzato, più si sposta a destra, dando benzina ai movimenti nazionalisti liberi da ipocrite pudicizie filo-europeiste. Per le stesse ragioni boccia le sinistre, sia governative che d’opposizione: farfugliano genericamente di “solidarietà”, non sanno più essere stataliste o quando ripescano, col fiatone, il keynesismo lo fanno coi sensi di colpa per essersi prostrati ai piedi delle confindustrie e delle centrali bancarie, paiono ammutolite di fronte alla calata degli extracomunitari, si contorcono in un patetico scimmiottamento dei riva-

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li e alla fin fine risultano né carne né pesce. Sono fumosi, col passo incerto, succubi dell’agenda dettata dal pensiero unico secondo il quale questo è l’unico sistema possibile e dobbiamo tenercelo. Difatti i vecchi arnesi della sinistra paleo-comunista, dandosela da “duri e puri”, se la passano meglio: nella solita Francia resistono, senza brillare, con ben tre sigle (Front de Gauche, 6%; Neuf Partie Anti-Capitaliste, 4,8%; Lutte Ouvrière, 1,2%); in Germania la Linke agguanta, senza sfondare, un dignitoso 6,8%. In Portogallo le forze comuniste si aggiudicano in tutto il 18%. Ma per il resto il rosso è un colore bandito dal continente. In Italia, addirittura, è tracollo dei due fratelli-coltelli (Diliberto-Ferrero da una parte e Vendola-Migliore-etc dall’altra) che non raggiungono neppure la soglia di sbarramento del 4%: una figuraccia. Solo nella marginale Grecia e nell’ancor più marginale Slovacchia i socialdemocratici battono l’onda di destra: una magrissima consolazione.

Oltre l’Euro Morale. Il cattivo europeo è un uomo impaurito dallo spettro di vivere con meno comforts. Ha compreso che la megamacchina economica è un’associazione vagamente delinquenziale. Tuttavia, non sa rinunciare ai consumi a cui essa lo ha abituato. Per lui l’Europa è la pallida ombra di un potere indefinito e lontano, che non viene a soccorrerlo né lo appassiona, irretita com’è in un’immagine sfocata e oscurata dai teatrini patrii. Non ha fiducia né interesse, quindi non vota. O quando lo fa, premia chi gli pare più assertivo nel far la guardia alla sua roba (la destra neo-assistenziale) senza trastulli euro-fideistici. E se gli prudono le mani sceglie chi veicola la sua stessa, santa rabbia (l’estrema destra nazionalista). Oppure, ma sono isole, si aggrappa al sogno di un europeismo alternatif, sia pur affrancato dal sinistrume vecchio stampo, un abbozzo di ecologismo anti-globalista puro e polemico coi burosauri di Bruxelles (Bendit più Bovè, Martin). Un buon europeo ancora non c’è. Per nascere, prima deve crepare l’Europa della Bce e la sua religione monetaria, normativa, leguleia e senz’anima – bisogna andare oltre l’Euro. Nel frattempo, ogni anti-europeismo è un buon europeismo. Ogni cattivo europeo, oggi, è un buon europeo.

Alessio Mannino

Note: 1) Heinz Strache, leader Fpoe, La Repubblica, 8 giugno 2009 2) Il Giornale, 8 giugno 2009 3) La Repubblica, 9 giugno 2009

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DI LETTURA

CHIAVE

La giustizia dell’orticello

Ognuno per proprio conto, lontano da tutto e tutti. Eppure, quasi ogni singola insignificante azione si riflette in un insieme più ampio. Ritorno all’armonia e a un destino comune.

C

di Stefano Monterubbianesi

ome spesso accade per muovere una riflessione c’è bisogno di un episodio. Magari niente di particolarmente fragoroso, ma qualcosa che in un dato momento ti leva dallo stato di torpore e ti porta in un posto diverso. A me, qualche tempo fa, si è rotto il motorino. Così, dopo un po’ che non lo facevo, sono dovuto salire su un autobus. Niente di male e niente di straordinario. Centauro dalla nascita, alla bisogna non ho mai disdegnato di farmi scarrozzare dai giganti colorati. Così, come in un posto che non si frequenta e complice la lentezza dello spostamento, mi sono messo a fare quello che in realtà faccio sempre. Osservare. La gente, multiforme, ma fino a un certo punto (di veline e petrolieri sul 63 non ce n’è traccia). Superata la fase dell’immaginazione, quella in cui si cerca di ricostruire le storie personali partendo dalle buste tra le mani, le scritte sugli zaini, i libri pochi e i free press tanti, il tipo di sguardo e di vestiti e le scarpe (quante verità ai nostri piedi), mi sono spostato sui comportamenti. Così, ad un tratto, forse per via del cuore mio agitato, mi è sem-

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brato che ognuno in realtà vivesse e si muovesse come se accanto non ci fosse nessuno. Come se, cancellato un corridoio affollato, il carico di individui si pensasse al centro di una stanza vuota dove scegliere di ballare, sdraiarsi o fare qualunque altra cosa passasse per la mente. Legittimi perciò quindicenni seduti e nonnette in piedi in decollo ad ogni frenata, valigie sventolate come bandiere, conversazioni urlate al telefono manco fossimo agli auguri durante i botti di capodanno, suonerie a cannone lasciate squillare e iPod a palla che mixano nell’aria Gigi d’Alessio col metallo pesante. E, dimenticati i nasi altrui, odori (chiamiamoli così) che non si augurano nemmeno al peggior nemico. Ma non sono i soli i passeggeri del 63. Il problema va ben oltre il capolinea per arrivare nel centro delle nostre coscienze. Non di tutti forse. Ma di quella gran parte che, deciso di interrompere il collegamento col resto, ha pensato che fosse il tempo di andare ognuno per conto proprio, rinnegata la storia, l’inizio. Lontani dalla terra, natura, universo, pensiamo di poter fare tutto ciò che crediamo, che ci serve, nella presunzione falsa e assoluta che questo non riverberi sugli altri. Che ogni azione concluda i suoi effetti nel momento e nello spazio in cui l’abbiamo compiuta. Siamo certi che ciò che facciamo riguardi noi e soltanto noi. Coltiviamo con assoluta tranquillità un orticello in cui il conto torna sempre. In cui le regole di giustizia le scriviamo secondo le nostre esigenze, in cui tutto assume la dimensione della “giustezza” e quella giustizia si trasforma ancora e in peggio nella giustificazione del nostro operato. Non c’è bisogno di andare a scomodare chissà quali episodi. Basta aprire gli occhi o semplicemente, accesi i sensi, fermarsi un attimo a guardare. Dalla politica all’economia, per arrivare alla vita quotidiana di ognuno di noi, ovunque si può leggere in stili diversi lo stesso racconto di particolarismo. Allora, visto che la batteria della sveglia a orsacchiotto mi si è scaricata e mi fa fatica tenerla per poi buttarla nel contenitore differenziato, con gesto elegante la frullo nell’immondizia (che vuoi che sia). Io me ne scordo subito, ma intanto la nostra produrrà acido e, finita nella discarica, quegli acidi li riverserà nella terra. Che a sua volta, fatto il suo lavoro, li assorbirà regalandoli alla falda acquifera. La stessa che servirà ad irrigare i campi su cui verranno coltivati ortaggi che, una volta raccolti, verranno portati chissà dove. Morale? Io buttando una batteria a Cinisello Balsamo ho avvelenato un povero cristo a Canicattì. La storia del battito d’ali di una farfalla che provoca un uragano dall’altra parte del mondo. L’esempio è stupido, semplicistico. E insieme drammatico perché questo processo così intuitivo da com-

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prendere coinvolge ogni aspetto del vivere, dell’agire e del sentire dell’essere umano. Da vizio di fondo si è auto elevato a regola sociale. Di un uomo che nega sé stesso, il suo essere evidentemente parte di un unico, (chiamatelo terra, universo, creato o energia, non conta) e in assoluto collegamento in una specie di ragnatela fitta di intersezioni. Non è che il mondo è globalizzato solo quando ci fa comodo per vendere (e comprare) chincaglierie a diecimila chilometri di distanza. Ma è più facile fare finta di niente (la responsabilità costa fatica). Siamo così attratti dalle grandi visioni che non coltiviamo più l’etica quotidiana. Come dice Antonio Munoz Molina, abbiamo perso “l’uguaglianza dell’impegno a partire dalle piccole cose”. Perché il mondo, e io ci credo, se si vuole si cambia cominciando dal giardino di casa propria.

Armonia Ma tant’è. A un certo punto c’è stato un crack, una rottura di un filo necessario. L’uomo ha sentito il bisogno di tagliare il cordone ombelicale con la propria origine (il tutto), con la propria appartenenza, senza prima imparare a nutrirsi da solo. È partito un processo di ritrattazione in cui la natura, madre o matrigna, non è più qualcosa di cui si fa parte, da cui si viene e a cui bisogna tendere per comprendere, per comprendersi. Galileo parlava della natura come di un libro, in cui sono scritte le leggi che ne regolano l’ordine e il funzionamento. E che se la natura è un libro, l’essere umano è il lettore a cui spetta il compito di girare le pagine e capirne fino in fondo la trama. Per trovare la propria essenza, il suo senso, l’uomo quindi, deve guardare proprio nel “libro” della natura. Ma in un momento X, questo libro è diventato noioso, non è stato più sufficiente a chi ha deciso che negare la propria origine era l’unica via per diventare padrone del mondo. Senza tuttavia riuscire a valutare le conseguenze di tutto ciò. In quel momento l’uomo ha rinnegato l’armonia e ha inventato l’egoismo, ha deciso di credere che il corpo, la mente e le emozioni vivono a compartimenti stagni, incapaci di interagire, di influire gli uni sugli altri, di condizionarsi. Ha costruito muri

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per coprire il senso di appartenenza alla natura. Ma quando ci si avvicina a quel senso, a quelle forme intime ed esteriori, in quel momento si crea l’arte. Quando ne siamo lontani, distratti, perdiamo la strada e cediamo all’istinto di prevaricazione, di distruzione, di morte.

Solitudine "L'uomo moderno – scrivono Ilya Prigogine, premio Nobel per la Chimica poi virato alla filosofia e Isabelle Stengers docente e filosofa - è un uomo disincantato che si è svegliato dal suo millenario sogno per scoprire la sua solitudine completa, la sua estraneità radicale”. Una consapevolezza che ne ha fatto “uno zingaro ai margini di un universo che deve vivere". Prigogine dà però un consiglio: riconsiderare profondamente il rapporto tra uomo e natura. Non una novità, si potrebbe dire, perché questo è un concetto comune a culture, società, religioni, filosofie magari opposte tra di loro nei presupposti e nelle conclusioni: l’uomo è ed ha senso in quanto figlio della natura di cui è figlio. E forse è tutta qui, in questa sorprendente (?) concordanza, la lezione elementare su cui bisogna riflettere. Galimberti di recente su “D” ci ricorda la parole di Platone sull’impossibilità per l’uomo di allontanarsi dal suo essere natura, istinto, cosmo con cui ogni sua azione è in perenne collegamento e per cui è addirittura strumentale. Un modo per riportare le cose nel loro giusto equilibrio. Per rimediare a quel “minuto di tracotanza e di menzogna” (Nietszche lo dice) in cui l’uomo ha scoperto la conoscenza. E a quel senso di supremazia effimera che si scontra con la “fugacità e la finitezza” dell’intelletto umano all’interno della natura. Galimberti invita a relativizzare la vicenda umana nell’economia dell’universo. Un passo indietro per uscire dal delirio di onnipotenza, per trovare il coraggio di ricominciare ad ascoltare, ad ascoltarsi. Depotenziare la corsa irrefrenabile al potere, alla sopraffazione, alla violenza. Se ci guardassimo da fuori, se avessimo la capacità di farlo, ci troveremmo incredibilmente stupidi. Se solo avessimo la consapevolezza di quanto piccoli e transitori siamo rispetto all’esistente. Basta poco. Basta cercare nel silenzio di una monta-

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gna a tremila metri o nel fragore del mare in tempesta. Basta questo per sentirsi più piccoli di un sasso o di una goccia d’acqua. Basterebbe a non credere nella supremazia del nostro passaggio su ciò che c’era prima e ci sarà dopo di noi. Basterebbe per scambiare alla pari la violenza con l’amore, quello inteso nel senso più totale, dell’andare verso e non contro, del rispetto, della solidarietà, della comprensione, delle braccia aperte e non dei pugni chiusi per istinto. Ma siamo fallaci. E per colpa o convenienza tendiamo a sentirci immortali, padroni. Cadendo vittime di quella presunzione cominciamo a perdere. Creiamo distanza, da tutto, da tutti, in una corsa folle verso il dominio, sulle cose, sulla natura, sulle anime, sui cuori. Cancelliamo invece di preservare. Non sappiamo più dire grazie. E quando sbattiamo sui nostri limiti e la natura (ancora lei) presenta il conto, subentra la paura, irrazionale, cieca, di quello che intuiamo di non riuscire controllare. Così anche ciò che a volte ci viene restituito non lo vediamo più, non li vediamo più quei fili, quei barlumi d’amore, perché sono troppo in basso per i nostri occhi fissi al cielo in preghiera. Ci passano sotto il naso e arrivederci e grazie, ce li perdiamo. Amore bruciato lontano. Amore sprecato. Quanto amore sprecato. Accumuliamo ricchezza, energia, rifiuti e non siamo capaci di immagazzinare amore. Di riciclarlo l’amore, di riutilizzarlo come una materia prima preziosissima per la nostra crescita, per la nostra evoluzione, per capire. Perdiamo ancora e sempre, nell’incapacità di andare oltre il confine dell’evidenza e scavare per trovare un tesoro appena sotto uno strato sottile di terra. Dimentichiamo la bellezza. Dimentichiamo la vita. Mentre mi faccio strada si stanno per aprire le porte. Affretto il passo guardando in basso. Incrocio lo sguardo di un bambino in carrozzina. Mi sorride, d’istinto, senza conoscermi. Amore disarmato. Che in un secondo pulisce la mente e ritorna speranza. Un equilibrio che dal buio si sposta di nuovo verso il chiaro. Da un nanetto sdentato una possibilità per ripartire. Poco prima del capolinea del 63.

Stefano Monterubbianesi

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USCITI IERI

A modo mio.

O piuttosto muoio

Io sono vivo, nel senso più pieno e fremente e torrenziale del termine. Lo sono e posso dimostrarlo in ogni modo, affinché mi diate atto che è vero. Ma voi? Siete vivi, voialtri?

E

di Federico Zamboni

ra difficile immaginare una persona, un ragazzo, con qualità migliori di Martin Eden. È difficile immaginare una persona, un uomo, con qualità migliori di Jack London. Grande forza fisica, il coraggio della lotta e quello della fatica, una bella faccia pronta ad aprirsi al riso o a serrarsi nella concentrazione di fronte alle difficoltà, quando le difficoltà sono abbastanza impegnative, e imprevedibili nel loro esito, da diventare delle sfide: il mare che ingrossa rapidamente e prende a squassare la barca; un avversario temibile che ti si fa incontro per battersi in una rissa; un libro di particolare complessità che non si lascia afferrare già alla prima lettura. Martin come Jack. Jack come Martin. Quel tipo di carisma che si impone agli uomini.Quel tipo di entusiasmo che conquista le donne. Le stesse carte da giocare. Le stesse difficoltà da affrontare, in una Oakland di fine Ottocento che rispecchia i vizi dell’America più cinica e meschina, tra l’arricchimento come obiettivo supremo e il conformismo come paravento morale.Esperienze simili: una famiglia disgregata, la mancanza di un’istruzione regolare, il lavoro duro e malpagato. Le infinite zone d’ombra dei bassifondi, dove la legge delle autorità è lontana e la regola è cavarsela da soli: con le buone quando si può; con le cattive quando si deve. La povertà che a volte affratella,e più spesso incattivisce.Le ragazze che sfioriscono in fretta. I ragazzi che si accontentano. La gioventù come legna da quattro soldi da scaraventare nelle fornaci della libera impresa. Brucia bene: portatene ancora. Brucia alla svelta: portatene altra. Martin come Jack. Jack come Martin. A un certo punto, come in una grandiosa rivelazione sul proprio destino, lo stesso sogno di affrancarsi dalla miseria attraverso la scrittura.

È un viaggio talmente lungo, Martin Si scrive per avere voce. Perché si è convinti che più scriveremo bene e più verremo ascoltati. Più verremo compresi – e persino amati –

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come persone. Metà miracolo e metà scienza esatta. Il mistero di una magia. La precisione di un meccanismo perfetto. Se saremo stati davvero bravi succederà infallibilmente: le parole riconquisteranno tutto il loro potenziale di razionalità e di coinvolgimento, dopo averlo smarrito nell’uso-abuso-disuso quotidiano. Concetti illuminanti che chiariranno gli esatti termini di una questione (ehi, non ci avevo pensato!) o accenderanno emozioni così forti da diventare,nella memoria,quasi un tutt’uno con la vita reale (Non farlo, Lord Jim. Non abbandonare le nave). Martin Eden non ha dubbi. Sa da dove parte: da una vitalità dirompente e da esperienze che, non solo per ciò che erano in se stesse ma soprattutto per l’intensità con cui le ha vissute e le ricorda, meritano di essere raccontate. Ha visto come lo stanno ad ascoltare, quando ne parla. Ha visto che avvertono la forza che ha dentro e che sprigiona. Ne sono affascinati. Soggiogati, a volte. Ma scrivere non è parlare. Quando parli ti aiuti col tono, con lo sguardo,coi gesti.Quando scrivi hai solo le tue parole.Nientr’altro che quelle. Usale male, anche solo di tanto in tanto, e l’intera costruzione crollerà miseramente.Troppa enfasi: e il lettore sogghigna. Troppi dettagli: e il lettore si annoia. Un errore marchiano di grammatica o di sintassi: e il lettore si riprende quel po’ di fiducia che ti aveva accordato. Fine della corsa. Sembrava un cavallo, prometteva di essere un purosangue, o addirittura un fuoriclasse, e non era che un somaro. Bello scherzo, Martin: ti sei truccato per benino e all’inizio ci siamo cascati. Ma adesso falla finita, Martin. Sei un ragazzo pieno di fantasia, d’accordo. Però manca tutto il resto. Dovresti metterti a studiare. A lungo. Sul serio. Poi, forse, potresti riprovare. Anche se, per essere sinceri, le probabilità non sono esattamente a tuo favore. Anzi. Le probabilità sono all’incirca nulle. Meglio un bravo impiegato, di uno scrittore fallito. Vi sbagliate, pensa Martin Eden.Vi sbagliate di grosso. Ciò che ho dentro di me è troppo importante, perché io vi rinunci. Imparerò quello che c’è da imparare. Non mi stancherò di tentare e ritentare. Chi ha lavorato come me, fino a spezzarsi la schiena, non può temere nient’altro. Figuratevi i libri. Cervelli acuminati e cuori vibranti. Domande e risposte, a perdita d’occhio. Un mare, un oceano, che merita di essere solcato in lungo e in largo. E poi c’è Ruth. Che amo come non ho mai amato nessun’altra. Ruth Morse: “una creatura eterea, pallida, aureolata di capelli d’oro, dai grandi occhi immateriali”. Ruth Morse che frequenta l’università e studia letteratura. Che conosce a menadito i poeti e gli scrittori. Che appartiene a una famiglia tanto più ricca e raffinata e istruita. Ricca. Raffinata. Istruita. Soprattutto questo: istruita. Per quanto la distanza sia smisurata, la direzione è inequivocabile.

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È un’umanità talmente diversa, Jack Nel 1909 London aveva 33 anni. Il suo enorme successo non accennava a diminuire, ma certe altre cose non andavano affatto come avrebbe desiderato. La vita, che pure gli aveva dato moltissimo, lo stava costringendo a capire che su alcuni punti si era sbagliato. La maggior parte degli esseri umani non era fatta della sua stessa pasta. E non era solo questione di non possedere la medesima tempra, fisica e intellettuale. Era molto peggio. Quello che mancava, a molte più persone di quanto avesse voglia di riconoscere, era il suo stesso slancio, la sua stessa generosità. La sua stessa vitalità, in una parola. Il nuovo romanzo,che faceva seguito al fin troppo ideologico Il tallone di ferro, riflette questo disagio dall’inizio alla fine. Il giovane e vigoroso Martin Eden è a tal punto inebriato della propria energia, e della propria volontà, da proiettarne la luminosità ovunque. Non è che non veda le brutture da cui è circondato. Le vede benissimo. E se ne rammarica. E se c’è da reagire, anche violentemente, non esita. Ma il suo approccio non cambia. La sua fiducia in se stesso è illimitata: e l’essenza di questa fiducia è la peggiore delle illusioni. La più pericolosa. La più subdola. L’illusione che il proprio valore verrà infine riconosciuto e che, nella peggiore delle ipotesi, vi sarà solo da aspettare più a lungo e da impegnarsi più a fondo. Martin non si chiede mai se stia sbagliando. Il massimo cui può spingersi, sulla strada del dubbio, è di non essere un buon giudice delle proprie capacità: ma laddove non si sbagli, e le sue doti siano davvero quelle che crede, gli appare inevitabile che esse vengano comprese e acclamate. E se questo vale per la scrittura, per i suoi racconti e i suoi saggi, vale a maggior ragione per la sua anima. Le pagine migliori non possono non essere pubblicate. Un amore come quello che lo lega a Ruth non può essere spento da nessuna traversia materiale e da nessun condizionamento sociale. Scoprirà di essersi ingannato. E quando lo avrà scoperto perderà la voglia stessa di vivere, ora che la sua esistenza ha smesso di apparirgli la traversata meravigliosa che si era immaginato. Si imbarcherà per i Mari del Sud, sperando di rigenerarsi col lasciarsi alle spalle quell’apoteosi di ottusità che stava diventando la società americana. Sbagliato anche questo.“I suoi sguardi seguitarono a posarsi sull’oblò aperto. Swinburne gli aveva rivelato il segreto: la vita era malvagia,o,almeno,era diventata tale; era diventata intollerabile.” Jack potrà illudersi di aver capito l’errore di Martin, avendolo stigmatizzato in un intero romanzo, e di esserne indenne. Ancora più forte dell’altro. Ancora più integro. Predestinato e invincibile. Nonostante tutto. Morirà sette anni dopo, il 22 novembre 1916. L’ipotesi del suicidio per avvelenamento non è mai venuta meno. Federico Zamboni

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ANNIVERSARI

1969-2009. Cosa resta di Woodstock Un mito, certamente. Ma il classico “mito” sterilizzato e inoffensivo che piace tanto al potere e ai mass media. Evviva lo show. E tanti saluti alle speranze di ribellione

D

di Davide Stasi

ice Elliot Tiber, uno degli organizzatori del famoso concerto: «non credo che un’altra Woodstock sarebbe possibile oggi; ci hanno provato un sacco di volte, ma erano solo semplici concerti». È una delle tanti frasi indicative del fatto che su ciò che avvenne a Bethel, Stato di New York, quarant’anni fa, aleggia un’aura di potente unicità.Ma cosa,concretamente,spinge chi ha vissuto l’evento o chi l’ha studiato a dichiararne la assoluta non ripetibilità? Pensare allo straordinario afflusso di pubblico o alle grandi star sul palco non basta: ci sono stati concerti ugualmente oceanici anche dopo, e le parate di star del rock non si contano nell’era post Woodstock. Non sono nemmeno i corollari folcloristici a renderlo unico: l’autogestione un po’ naif che i giovani di allora fecero della loro permanenza, il mito che si sia trattato del festival del sesso e della droga libera, che pure furono elementi presenti, non sono sufficienti. In realtà Woodstock sancì una visione del rock (ma anche della vita e del rapporto col prossimo) che con quell’evento ebbe la massima celebrazione, unica perché ultima. Dopo fu una morte spedita, che consacrò quel rock e quel concerto al mito. La “visione” di Woodstock ha lasciato tracce nel DNA delle generazioni successive. Capita ancora oggi infatti di sentire l’istinto, quasi il bisogno, di accostarsi alla musica in modo diverso da come si è abituati. È una necessità che si mette a fuoco con difficoltà, perché rimane sotto pelle, si dispone come un piccolo fiume carsico sul fondo della coscienza. In alcune persone, specie nei più giovani, è una necessità ormai sopita. Sopra di essa: metri cubi di detriti depositati da anni di educazione e induzione al consumo della musica, non più al suo ascolto. Ai tempi di Woodstock erano i pochi canali radiofonici o le rare riviste di settore a portare la notizia del nuovo disco in uscita del tale gruppo. Magari capitava di riuscire a sentire un sample della nuova can-

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zone, ma niente di più. Il giorno d’uscita del disco si prendevano le ferie o si bigiava per fare il palo davanti al negozio. Si tornava a casa con il vinile in mano, lo si odorava, lo si viveva già al tatto prima ancora di farlo adagiare sul piatto del giradischi, dove era destinato a rimanere per chissà quanto tempo. Oggi la hit di un disco viene tradotta in suoneria da cellulare un giorno dopo la sua uscita, e messa in vendita con uno spot TV: basta digitare un codice, et voilà.Tre giorni dopo la suoneria è già venuta in uggia, e dunque via a scaricarne un’altra. Cosa c’entra tutto questo con Woodstock, con noi oggi e con l’adolescente medio che trangugia brani musicali come popcorn al cinema e (sempre più raramente) si sente frustrato di non riuscire a goderne in modo diverso? C’entra perché c’è chi sostiene che il celebre happening americano fu uno spartiacque nella storia della musica rock a livello planetario, dopo il quale l’industria prese il sopravvento, trasformando il rock stesso in un mero mezzo

Alla fine, contro la mercificazione del rock, reagirono anche gli artisti. Le loro performance a Woodstock stanno lì a testimoniarlo: non era solo musica, ma l’eco dei valori delle nuove generazioni. per fare utili, svilendone il messaggio, anzi strumentalizzandolo. È vero, e in realtà l’industria si era impossessata della musica popolare, tramutandola in merce, già ai tempi di In the mood di Glenn Miller. Già da allora il mercato si era attrezzato per cercare di comprendere e intercettare per tempo i cambiamenti sociali e culturali, e per far sì che i generi più diffusi (il country, il blues e il rock’n’roll che ne scaturì) andassero a rappresentare in qualche modo quei cambiamenti, garantendo vendite abbondanti e introiti crescenti. Il mercato, insomma, era intrinsecamente pronto alla manipolazione della musica giovanile,ma allo stesso tempo era quasi intimorito dalla potenza mobilitante e dalla visione del mondo veicolate dal rock. Woodstock arrivò come dimostrazione palese di quella potenza e come realizzazione mondana di quella visione. Alle spalle c’erano la cultura hippie, i figli dei fiori, il ’68, la liberazione sessuale e culturale, e tutte le note istanze per una visione “altra” della vita e del rapporto con gli altri. Si trattava, nel concreto, del genuino risveglio collettivo di alcune generazioni di giovani che esprimevano il desiderio, tra gli altri, di non essere ridotti a meri consumatori di

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un bene che per sua natura non va “consumato” ma “vissuto”. Esigevano il riconoscimento del diritto a che il rock, pur con le dovute concessioni alla remunerazione di chi lo fa e di chi lo diffonde, rimanesse un’espressione spontanea di umanità, un’ispirazione individuale capace di dare voce a una comunità e ai suoi valori alternativi e di rottura. Gli artisti di allora erano tenuti buoni dall’industria discografica, che blandiva il loro egocentrismo e narcisismo in cambio di qualche concessione al marketing, ma non riuscirono a essere idealmente distaccati da quell’ondata giovanile che chiedeva rinnovamento essendo essa stessa rinnovamento in sé. Ne furono anzi organicamente parte. Woodstock fu la vittoria di quell’ondata. Nella lotta contro la pura mercificazione del rock, gli artisti si schierarono senza remore. Le loro performance stanno lì a testimoniare l’evidenza della loro consapevolezza: non propagavano solo musica, ma anche i valori di nuove generazioni portatrici di pace, cooperazione, solidarietà, contro un contesto di conformismo, conflitto e competizione sempre più sfrenata.Anche per questo Woodstock fu la vittoria del rock come visione di un’esistenza alternativa a quella dominante. L’ultima vittoria. Che però non indusse il mercato a smettere di sfruttare la musica popolare a fini commerciali.

Battaglia vinta. Guerra persa Ci vorranno ancora quarant’anni per gustarsi il panico delle major davanti al file sharing. Ma fu attraverso il grandioso happening di Woodstock che l’industria discografica capì la vera natura del rock, un genere per sua natura radicalmente libero, non imbrigliabile, specie se sostenuto da una condivisione generazionale così potentemente schierata. Woodstock è stata (o è apparsa) l’apoteosi del rock e dei suoi valori originari, della musica e della sua natura comunitaria e ribelle più profonda, celebrata in una liturgia presieduta da grandi individualità. La sola a essere sconfitta, anche se solo per quell’attimo, fu l’industria, che da quel momento perse ogni riguardo verso il rock. Iniziò a sfruttarne i simulacri, cooptando – e così neutralizzando – le simbologie più ribelli, divulgando prodotti tutto sommato modesti e ripetitivi (salvo qualche meravigliosa eccezione), che corredava di cliché già consunti. Il mercato da un lato virò gradualmente su generi più malleabili e meno problematici, vedi la dance music, e dall’altro cominciò a ridurre le produzioni rock a meri strumenti di intrattenimento. Quel genere portatore di liberazione fisi-

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ca e sessuale (con Elvis e altri), intellettuale e filosofica (con Dylan e altri), divenne di fatto un trastullo, già vendibile per il suo naturale appeal, ma reso ancora più vendibile da un’ampia quantità di orpelli simbolici che il mercato ebbe la furbizia di attaccargli addosso. Fu così che il rock venne associato, per motivi di marketing e non più per istinto naturale, a modelli di comportamento anomali o trasgressivi. È da allora che non ci fu più rock senza capelli lunghi, musica al massimo, giubbotti di pelle, sigarette e alcol a gogo. Era essenziale che gli individui, mentre si tramutavano gradualmente in “consumatori”, omologati in ogni aspetto della loro esistenza, potessero rifugiarsi nella musica e nelle sue simbologie quando volessero dare a se stesse una parvenza di ribellione e di fuga. Fu un processo – andato a buon fine, come oggi è palese – di controllo e livellamento culturale, sociale ed economico, accompagnato da simulacri di ribellismo, allo scopo di avere “deviazioni controllate”, “ribellioni normalizzate”. Una strategia che le major furbescamente assecondarono, foraggiarono e a cui diedero voce, lucrandoci abbondantemente. Il rock, forse, è morto così. Di sicuro è morto così quello di Woodstock. E muore ancora oggi nei fraintendimenti di certi ripescaggi, nelle camicione a fiori e nei sandali improvvidamente indossati dai figli degli yuppies anni ’80, nella scelta della vita on the road da parte di comodi “alternativi” accompagnati dai loro cani, nelle occupazioni delle scuole al grido di “mio padre l’ha fatto, perché non posso farlo anch’io?”, nell’obbligo di farsi per forza una canna per sentirsi “contro”. Quando sono i simboli a prevalere sulle azioni e sui valori, allora l’addomesticamento è compiuto.Le visioni rivoluzionarie tramontano,e diventano merce da vendere e luoghi comuni da diffondere. Quegli hippie che seppero gestirsi in 400 mila, in totale libertà e fraterna solidarietà, oggi hanno epigoni che il mercato della “musica pop-corn” ha isolato e istupidito, o illuso di essere dei novelli Jack Kerouac, una rivisitazione di Janis Joplin,le reincarnazioni di Billy e Wyatt di Easy Rider, o un reload di Allen Ginsberg, solo perché ne scimmiottano il modelli, le mosse e gli slogan, mentre i valori e la visione reale sono altrove, lontani nel passato del rock. Oggi restano individualità giustapposte, “ribelli al caviale” che portano nello sguardo il vuoto o addirittura una specie di paura del mondo. Paura, forse, che qualcuno tolga loro i supermercati e i megastore dove passare la domenica pomeriggio. Nessuno, questo è certo, porta più negli occhi il fuoco della convinzione di poter cambiare il mondo tutti insieme,come accadde 40 anni fa, per tre giorni, presso una cittadina dello Stato di New York. Ed è per questo che, a ripensarci, viene una grande nostalgia di Woodstock, della sua gente, di quei valori, di quel rock.

Davide Stasi

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MUSICA

Dentro

al “Cuneo” non si muore

La provincia come stimolo a volare alto, senza lasciarsi ingabbiare da nessun luogo comune. Il successo come attestato del fatto che ti hanno capito, non come obiettivo in se stesso

A

di Francesca Roveda

nche oggi, anche in Italia, anche vivendo in un “cuneo” si può rappresentare qualcosa di diverso, qualcosa di alternativo, non in quanto etichetta, ma in quanto modus vivendi. I Marlene Kuntz, gruppo rock presente sulla scena da ormai vent’anni, sono interessanti già dal nome: affascinati dall’androgina femminilità di Marlene Dietrich, la prima parte del nome del gruppo è presto spiegata, per la seconda parte bisogna riferirsi ad un pezzo dei Butthole Surfers, Kuntz, dove il ritornello ripete “fighe fighe fighe” in slang americano. Il risultato è “le fighe di Marlene”, niente male per un gruppo che dichiaratamente subisce il fascino della bellezza1. Debuttano nell’amata Cuneo, la provincia meccanica tanto declassata da molti - perlopiù milanesi d’adozione - il 13 maggio 1989 al parco Monviso. Entrano per la prima volta in uno studio di registrazione nel luglio del 1991 con Gianni Maroccolo, loro talent scout oltre che componente storico del Consorzio Suonatori Indipendenti, e registrano uno dei loro primi cavalli di battaglia, Canzone di domani. Non senza difficoltà si giunge nel maggio del 1994 alla realizzazione di Catartica, uniformemente considerato un album di culto nell’ambito del panorama indie rock italiano, che contiene pezzi “storici” per lo zoccolo duro dei fans marleniani come Nuotando nell’aria, Lieve, Sonica. La fortuna del gruppo viene costruita giorno dopo giorno con la militanza sul territorio: i Marlene Kuntz non sono supportati dai grandi network televisivi e radiofonici, ma entusiastiche recensio-

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ni su di loro si possono leggere, oltre che su testate di nicchia o su fanzines, anche sugli altisonanti Corriere della Sera e Repubblica. Eppure il “pubblico sovrano” dei televoti non li conosceva e non li conosce tuttora, perlomeno non nella misura che meriterebbero, nonostante da quel lontano1994 di strada ne sia stata percorsa e gli album pubblicati siano ormai sette, oltre alla prima raccolta di successi dello scorso anno. La scrittura di Cristiano Godano, fascinoso leader del gruppo, fa un largo uso di figure retoriche quanto meno in disuso al giorno d’oggi: ossimori (festa mesta, bianco sporco, nuotare nell’aria), allitterazioni - (franta e rifratta, fronde fuori fuoco), assonanze (ghigna/ cagna, ostili/capogiri), sinestesie (il chiasso di una galassia magica), climax (amando, amando, amandoti ancora)2, e molte altre. Alcune sue canzoni hanno una vera e propria struttura poetica: “Un anno di narcisi e solitudine specchiandomi nella mia finitudine, sporgendomi su quella viva fissità che ad ogni respiro moriva un po’ in concentriche delucidazioni e fuggevoli illuminazioni. E in essa tu, ninfea di bianco fascino, che aprendoti sul lago delle vanità ti apristi a me, perduto in una sola immagine vibrante ad ogni sospiro. E bella e fragile...” (La lira di Narciso, da Bianco sporco, 2005) Per non parlare dell’originalità nell’affrontare tematiche anche comuni come la vita, la morte, l’amore, l’accurata scelta delle parole, la scrupolosità nella ricerca delle fonti d’ispirazione, la cura ed il rispetto per la lingua italiana. A tale proposito va sottolineato come i Marlene Kuntz amino citare i propri autori di riferimento, da Carlo

L’ultimo album, uscito nel 2007, si prende la briga di sviscerare il tema dell’amore nelle sue varie accezioni terrifiche e salvifiche, passionali e crudeli, ispiranti e indifferenti. Emilio Gadda 3 a Guido Gozzano a Nabokov. In un’epoca come la nostra in cui la musica si scarica perlopiù da internet e in cui al massimo un disco si può vendere per un paio di canzoni che fungono da traino, i Marlene scelgono l’impervia strada del “concept album”: Uno, pubblicato due anni fa, si prende la briga di sviscerare in dodici canzoni il tema dell’amo-

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re nelle sue varie accezioni terrifiche e salvifiche, passionali e crudeli, ispiranti e indifferenti. Ai Marlene non interessa affatto cavalcare onde momentanee o schierarsi per questa o quella parrocchia – nella musica funziona un po’ come per il cinema, dove se non lecchi il culo al regista “in” di turno puoi scordarti di avere anche solo una parte come comparsa. Un artista ha innanzitutto il dovere di essere un artista. E basta. Se poi intende appoggiare cause sociali, ideologiche o politiche, affari suoi. Inoltre, ostinandosi

Il leader del gruppo, Cristiano Godano, ha da poco pubblicato la sua prima raccolta di racconti, intitolata I vivi, da cui trae linfa per i suoi itineranti reading del terrore. a vivere in provincia, i Marlene hanno mantenuta inalterata la caratteristica gradevole della riservatezza, piuttosto rara nel rutilante mondo dello spettacolo dove se non appari non esisti. Ebbene, i Marlene Kuntz esistono per chi vuole comprare i loro dischi, per chi vuole assistere ad un onesto concerto rock, per chi ama letture intriganti e dalla prosa ricercata – Cristiano Godano ha da poco pubblicato la sua prima raccolta di racconti, intitolata I vivi, da cui trae linfa per i suoi itineranti reading del terrore. E soprattutto speriamo che esistano non per una nicchia, ma per una massa di persone - per la verità i loro concerti sono sempre sold out - musicalmente attenta anche a qualcosa di diverso dall’omologante panorama pop italiano. Francesca Roveda

Note: 1 Bellezza è il titolo di una canzone dell’album Bianco sporco 2 cfr. Chiara Ferrari, Visione distorta, biografia autorizzata, Giunti, Firenze/Milano, 2005 3 in Bianco sporco è presente una canzone-tributo allo scrittore e al suo romanzo incompiuto La cognizione del dolore. Nel medesimo album la canzone Poeti è dedicata a Guido Gozzano

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CINEMA

Non ronde

“I

ma bande nere

Come le nuove armi da fuoco hanno cambiato la guerra. E come un nuovo modo di fare la guerra può cambiare gli uomini. Oppure no

di Ferdinando Menconi

mestiere delle armi”, insieme all’“Albero degli zoccoli”, è uno dei film più significativi del Maestro Ermanno Olmi, un capolavoro in cui egli ci trasporta in un mondo in profondo cambiamento: l’irreversibile passaggio dal Medio Evo all’Età Moderna. Il simbolo impiegato dal regista per registrare questo momento storico sono gli ultimi giorni di Giovanni dalle Bande Nere: la Cavalleria medievale ferita a morte dalle armi da fuoco e accoltellata alle spalle dal cinismo della politica. Giovanni de’ Medici, ultimo vero Capitano di Ventura, è uomo in contrasto col suo tempo, inesorabilmente superato, insieme al suo ormai anacronistico senso dell’onore. Siamo trasportati dal regista nell’Italia del 1526 in cui, come dice Pietro Aretino, nato non a caso nel primo anno moderno il1492, è usanza procedere più di tutto con intrighi e inganni della politica, frase che un contemporaneo potrebbe tranquillamente pronunciare senza per questo sentirsi vecchio di mezzo millennio. Frase estremamente attuale perché questa Italia è figlia di quella. Una nazione in cui il particolarismo dei liberi comuni è divenuto l’interesse particolaristico del Signore. Si è definitivamente consumata la separazione fra il palazzo e il popolo. Lo sfarzo rinascimentale è solo apparenza di potenza, in netto stridente contrasto con la condi-

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Il nome di “Bande Nere” era dovuto al colore delle bandiere che Giovanni de’ Medici aveva cambiato in nero in segno di lutto per la morte di Leone X

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zione contadina. Siamo in un’epoca solo superficialmente luminosa. È vero che sono gli anni di Michelangelo (uno per tutti), ma sono anche gli anni in cui gli eserciti stranieri scorazzano liberamente per la penisola, Alemannia Francia, Spagna... Non ci sono più libere leghe di liberi comuni, primo abortito embrione d’Italia, a opporsi all’Imperatore, ma Signori che all’Imperatore chiedono conferma del loro potere, se poi il prezzo è il tradimento, poco importa. Solo un uomo, violento gigante morale fra raffinati nani, sembra ergersi contro i lanzichenecchi del Frundsberg, il Bande Nere. Poche centinaia di cavalleggeri contro 18.000 soldati. Non grande armata vero, ma abbastanza per le raffazzonate milizie italiane del Della Rovere. Siamo di fronte a un disperato tentativo, sgradito a tutti, di poche truppe scelte e motivate di salvare Roma con tattiche di guerriglia. Giovanni è al soldo del Papa, ma non sembra combattere né per lui né per i suoi alleati, Este e Gonzaga: il de’ Medici combatte piuttosto per se stesso, ma non per interesse (quello appartiene all’Este e al Gonzaga) bensì per un anacronistico senso dell’onore, per una fedeltà ad antichi, eterni valori cui sembra non voler sopravvivere. L’integrità morale in quell’Italia, ma il tempo non sembra essere affatto trascorso, ha un prezzo caro da pagare: né ricchezze né onori. Il Bande Nere è, anzi, uomo che sparge infelicità intorno a sé, soprattutto sulle donne che hanno deciso di condividerne l’esistenza. Ben diverso è il destino delle cortigiane, che copulano fra agi e rispetto, come quella con cui si sollazza il Gonzaga quando, dopo aver aperto le porte di Mantova ai lanzichenecchi, consuma il suo tradimento negando il passaggio alle Bande Nere di Giovanni che incalza i Lanz. Anche in questo l’Italia non sembra essere cambiata di molto, o, anzi, forse lo è, ma in peggio: le favorite dei Signori, quando governavano lo Stato, lo facevano da dietro le quinte. Zoccole e puttanieri che un minimo di decoro riuscivano a conservarlo, lo classe e lo stile almeno erano salvi. Per il Bande Nere, non solo sono pochi gli onori, ma, anzi, c’è il disprezzo condiviso: è un violento, è un mercenario! L’etica buonista moderna non gli riserverebbe, oggi, miglior trattamento. Non è forse vero che si celebrano in infinite mostre ed esposizioni più gli splendori di mecenati che hanno portato una

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nazione allo sbando, che non la vita di quell’uomo che difese la Terra? Rispetto e comprensione sembra trovarne solo nel suo nemico. Splendido è come Olmi tratteggi l’incrocio di sguardi fra Giovanni e il Frundsberg prima dell’ultima esiziale battaglia. Uomini d’arme entrambi, essi sanno di non essere volgari mercenari al comando di truppe che hanno come unico onore il denaro: quelli sono coloro che li hanno ingaggiati. Soldati di ventura, certo, ma non mercenari, sono gente con un codice d’onore. Possono anche cambiare bandiera ma non la tradiscono in battaglia, anzi il più delle volte sono loro ad essere traditi dalle bandiere che servono. Anche gli spietati lanzichenecchi, i mercenari per eccellenza nella visione comune, mai hanno tradito il loro nome1, sono liberi guerrieri che contrattano alla pari con i loro comandanti2, retaggio di antiche confraternite3. Zorzo e Ioanni4 sono due uomini accomunati dalla stessa visione della vita e anche dalla sconfitta: uno cadrà vittima delle nuove armi; l’altro non riuscirà a partecipare al sacco di Roma, l’anno successivo, e a usare la corda d’oro che teneva appesa alla sella per potervi impiccare il Papa.

Nuove armi I cambiamenti non sono solo nella società ma anche nelle armi e, come viene detto nel film: le nuove armi da fuoco cambiano le guerre, ma sono le guerre che cambiano il mondo. Affermazione ineccepibile: le nuove armi saranno non solo la fine del Bande Nere, la cui armatura nulla potrà contro la Falconetta5, ma anche rinnovamento di tutto il mondo militare e della società. Il ricco cavaliere addestrato perderà la sua superiorità sulle masse di fanteria male addestrate e, a lunga portata, partendo dalle prime avvisaglie della rivolta Hussita6, si potrà arrivare alle grandi rivoluzioni popolari dei secoli XVIII-XX. La democrazia è strettamente legata alla polvere da sparo: si può quasi dire che la libertà sa di zolfo. La cavalleria sopravviverà ancora a lungo, anche se con diversi termini di impiego, più simili a quelli del mondo antico, ma non meno eroici. Questa soccomberà solo grazie all’azione incrociata della mitragliatrice e del motore a combustione interna. Anche il coraggio sopravvivrà sul campo di battaglia, sarà un coraggio diverso, ma non minore, anzi!

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Ma è nella vita civile che scarseggerà, oggi come allora. Il vantato italico ingegno era all’avanguardia nell’arte come nella tecnica: è l’Este ad avere la Falconetta, ma la mette al servizio dell’Imperatore. Allora come oggi va al servizio dello straniero. Ingegno italico, forse mai come in quel periodo l’Italia fu così all’avanguardia, mai più così tanta bellezza e tecnica, eppure fu la fine della penisola come entità politica significativa. Anche ora si pensa all’eccellenza del made in Italy in termini di estetica e gusto, ma non è col design e la moda che un paese si rende libero o si afferma sul piano politico internazionale: al massimo la reggia o la villa del suo Satrapo saranno le più belle dell’Impero, ma l’Impero risiederà altrove. L’agonia di Giovanni è allegoria splendidamente dipinta… Andrebbe detto filmata, ma siamo nel Rinascimento. Mentre la cancrena lo rode sul suo lettuccio da campo il suo delirio è circondato dal meglio dell’arte rinascimentale, tanta bellezza figlia di intrigo e tradimento circonda la fine dell’uomo che il Machiavelli vedeva come capace di unificare l’Italia e ridarle quella dignità perduta alla caduta di Roma, alla fine del mondo antico, e mai più ritrovata. Pochi mesi dopo la morte di Ioanni Roma cadrà di nuovo, per mai più rialzarsi. Poche città al mondo (anzi nessuna) sono più belle per un turista, ma non è più Capitale e oggi, perso anche il senso di bellezza, l’unica cosa che le resta è la straordinaria capacità all’intrigo e al servilismo, con cui corrompe anche chi viene da fuori millantando di volerla moralizzare. La morte del de’ Medici - e dell’Italia - è dovuta a cancrena. Una devastante ferita a una gamba. Devastante, ma pur sempre solo a una gamba: è che l’arte medica non era all’altezza dell’arte di corte, anche se qualcosa cominciava a cambiare. La Chiesa riusciva sempre meno a soffocare la scienza, che cominciava il suo sviluppo autonomo. Non è un caso che il medico chiamato, con colpevole ritardo, al capezzale di Giovanni, sia ebreo. Il Bande Nere muore nel 1526 e, secondo Bertrand Russell, nel 1527 muore il Rinascimento, schiacciato dalla riforma, dalle prime avvisaglie dello scisma inglese e dalla crescente minaccia turca all’Europa.

La morte della bellezza Anche la bellezza comincia ad abbandonare l’Italia e la controriforma metterà una pietra tombale sull’uscita di scena del nostro Paese come protagonista dalla vita culturale oltre che da quella politica. Solo Genova e Venezia, Repubbliche aristocratiche, ma comunque ancora Repubbliche, riusciranno a sopravvivere, come potenze locali e finanziarie, ancora per qualche secolo, in un’Italia

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spezzettata. Spezzettata come la Germania, campo di battaglia delle guerre di religione e di successione, ma con una fondamentale differenza: al contrario delle signorie italiane l’elite tedesca non si vendette mai allo straniero. Oltre il Brennero Signorie e Principati rimasero sempre in mano tedesca al contrario che in Italia, divenuta terra per volontà straniere, scavando ancora di più il solco fra palazzo e società. L’Italia come proprietà del Potente: così vista allora, così vissuta adesso. Contrasto fra popolo e potere che nel film può essere anche visto nel forbito, artificiale, italiano parlato dalle corti e dagli intellettuali (allora almeno ci riuscivano) cui si contrappone il dialetto del popolo e della soldataglia. Dialetti diversi parlati da genti che, però, si capiscono fra loro, l’incomprensione è con la lingua di corte e degli intellettuali del Signore, più puttane delle cortigiane, allora come oggi… Solo Giovanni sapeva capire il dialetto e far capire l’Italiano, ma la sua morte ha impedito che ciò potesse perpetrarsi.

Ci occuperemo invece di...: i telegiornali e le notizie scomparse Ahmadinejad e le verità sull’Iran il “patto” saltato tra Talebani e truppe italiane come salvarsi dalla “information overload”

Ferdinando Menconi

Note: 1 Lanzichenecco: Servitore della Terra, della Patria 2 Il Frundsberg stesso fu costretto ad abbandonare il comando a seguito di un colpo apoplettico di cui fu vittima durante le concitate contrattazioni con truppe. I Lanz evidentemente avevano sindacati più efficaci dei nostri, o forse, più semplicemente, il popolo armato ha vera forza contrattuale. 3 Simili per certi versi ai Gaesati e alla Fianna 4 Zondberg e de’ Medici 5 Cannone di piccolo calibro, impropriamente definito a retrocarica come il fucile Hall della guerra Usa-Messico del secolo scorso. 6 Rivolte dei cechi legate alla riforma di Jan Hus. Citato anche nella bella canzone di Guccini dedicata a Jan Palach

la fine del Dollaro e “la caduta degli dei” editoria e informazione: qualcosa si muove




di Alessio Di Mauro


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