Il Ribelle (Marzo 2009)

Page 1

w ISSN 2035-0724

w

w

.i

l

ri b e

e ll

Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 2 - numero 6 - Marzo 2009

om .c Mensile Anno 2, Numero 6 Direttore politico

€5

Massimo Fini Direttore responsabile

Valerio Lo Monaco

Zamboni: A PUGNI CON LA CRISI Fini: DISTRUGGIAMO I MEDIA DI MASSA Cuba: ˜ E DOPO FIDEL, COMPANEROS? Emergenza casa: AFFITTI, MUTUI E ALTRE RUBERIE Centenario Futurista: C’È DEL CUORE IN QUELLE MACCHINE


Anno 2, numero 6, Marzo 2009 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com) Art director: Alessio Di Mauro Hanno collaborato a questo numero: Carlo Gambescia, Alessio Mannino, Giuseppe Carlotti, Francesco Cappuccio, Lucrezia Carlini, Alessia Lai, Massimo Mazzucco Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Lucia Casellato Agenzia Stampa e comunicazione: Agenzia Inedita tel. 06/98.26.24.96 Progetto Grafico: Antal Nagy Impaginazione: Mauro Tancredi La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000 Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008 Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali

Distruggiamo i media di massa di Massimo Fini

Ribelli e operativi di Federico Zamboni

Mutui e libero mercato di Valerio Lo Monaco

Milano: casa dolce casa di Francesco Cappuccio

Roma: il tetto che non c’è di Giuseppe Carlotti

Bye bye illusi del No Dal Molin di Alessio Mannino

Hamas: causa o effetto? di Lucrezia Carlini

Cuba: il passaggio del testimone di Alessia Lai

Democrazia: capovolgere prima dell’uso di Massimo Mazzucco

C’è un cuore in quelle macchine

Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista

di Alessio Di Mauro

Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma

Usciti ieri: Il signore delle Mosche

Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com

di Carlo Gambescia

Musica: Gay a caccia di streghe di Federico Zamboni

Festa di quasi addio Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti.

di Ferdinando Menconi

1 3 6 12 17 21 26 33 39 45 49 53 56


FINI

Distruggiamo I i media

o credo che se si farà ancora una Rivoluzione in Occidente non sarà contro le classi politiche, i governi, la finanza, le Banche. Sarà contro i Media. Contro i mezzi di informazione di massa. Non intendo qui la cattiva informazione, ma l'informazione "tout court", l'informazione in quanto tale. La parola (e ancor più l'immagine) è diventata una barriera fra noi e la vita. L'occhio che doveva aprirci il mondo ci ha, in realtà, rinchiusi in casa ridotti in cattività. E questo vale per tutto il sistema dei media, nelle dimensioni gigantesche che è venuto via via assumendo, per la TV, per Internet, per le e-mail, per gli sms, per i cellulari, per l'i-pod, per la radio, per la carta stampata. Noi viviamo sempre più di resoconti e sempre meno in prima persona. Sempre più nel virtuale e sempre meno nel reale. L'informazione non fa solo da incessante e intollerabile sottofondo alle nostre vite, se ne è impossessata. Il mondo virtuale che ci siamo costruiti ha un grande, anche se apparente, vantaggio su quello reale. Esclude, proprio perché tale, la sofferenza e il dolore. Le emozioni, i sentimenti e anche le passioni che può suscitare sono pure esse virtuali. Le lacrime che versiamo nel virtuale pur essendo vere sono finte. Perché non ci implicano realmente. Sono quel tipo di lacrime che generazioni di donne hanno versato vedendo Via col Vento e immedesimandosi in Rossella O'Hara ma guardandosi bene dal diventare Rossella O'Hara. L'eliminazione del dolore e della sofferenza dalla vita la facilitano, annullandola. Non è più la vita ma la sua parodia. Il problema, dicevo, è nell'informazione in quanto tale. Non però nella sua essenza, ma nella quantità, nelle dimensioni che è venuta assumendo fino a schiacciare, soffocare la vita reale che, certo, c'è ancora ma ha un posto sempre più marginale di fronte alla sproporzione dei media. "Ciò che non fa notizia non esiste" lo si è detto tante volte. Nel mondo delle comunicazioni di massa, nel mondo della rappresentazione è la realtà ad essere diventata irreale.

1 - WWW.ILRIBELLE.COM

MASSIMO

di Massimo Fini


MASSIMO FINI

Come sempre, come in tutta la storia della tecnica quando si fa di massa, siamo vittime di un meccanismo che noi stessi abbiamo creato. Sicuramente c'è stata una fase iniziale in cui l'uomo era in grado di controllare i media e di utilizzarli ai propri fini. Ma poi impercettibilmente il rapporto ha cominciato a invertirsi, i mezzi di comunicazione a rafforzarsi nella misura in cui l'uomo abbassava di fronte ad essi (e a causa di essi, qui sta l'infernalità del meccanismo) le proprie difese in un sinistro processo sinergico che, lento all'inizio, è diventato sempre più vorticoso. Come la palla di neve, innocua e graziosa in partenza, prende forza man mano che scende verso valle fino a diventare valanga inarrestabile, così il potere dei media, e in generale della tecnica, di cui l'informazione è un prodotto, forse il più raffinato, certamente il più insidioso, nutrendosi lungo il suo percorso di menti sempre più indebolite e incapaci di resistergli, ha preso dimensioni sempre più mostruose ed è diventato totalitario e assoluto. Il mezzo si è fatto fine, il servo padrone (è quello che è successo anche con un'altra raffinata invenzione umana, il denaro). E tutto questo è avvenuto in modo naturale, com'è naturale una valanga. Nessuna diabolica mente, nessuna Spectre, ha pianificato di sottomettere, attraverso il gigantismo dei media, l'uomo per meglio servirsene. È stato l'uomo a mettersi in trappola da solo.Ad assoggettare l'uomo sono stati proprio gli strumenti che aveva creato per emanciparsi, per potenziarsi, per liberarsi. La ricerca della conoscenza, per un estremo paradosso che sempre segue le vicende umane, ha alla fine ucciso la conoscenza, mentre, in contemporanea, la razio“...ma internet nalità della tecnica snervava e indeboliva l'uomo, ci deve servire ne annullava il carattere, gli istinti, la vitalità riducendolo a una poltiglia indistinta. Media e tecniper cominciare ca, insieme, ci hanno sottratto la vita. ad intaccare Il primo passo per invertire il percorso è la distruziola filiera ne del potere dei media. Non sarà una rivolta di classe, ma una rivolta della poltiglia appena avrà dei media sino ripreso un minimo di coscienza di sé. a distruggerla, Qualcuno, soprattutto fra i lettori de La Voce del Ribelle, che sono prevalentemente giovani, obiettedistruggendo, rà che proprio Internet, uno dei più sofisticati strua processo menti della tecnologia dell'informazione, è un mezzo indispensabile per questa presa di coscienconcluso, za e quindi per la ribellione. È vero. Il movimento No anche Global è nato proprio grazie a Internet (anche se Internet.” si è trasformato quasi subito, a causa della grancassa del sistema complessivo dei media, in New Global, cioè nella solita esportazione nell'universo mondo del modello di sviluppo occidentale, informazione compresa, solo un poco più umanizzato). Ma internet ci deve servire per cominciare ad intaccare la filiera dei media sino a distruggerla, distruggendo, a processo concluso, anche Internet. Per ritornare ad essere uomini e non spettatori. Finalmente liberi. Di nuovo vivi. Massimo Fini

2 LA VOCE DEL RIBELLE


Ribelli N e operativi

on li avevamo autorizzati, a fare quello che hanno fatto. Non li avevamo autorizzati a trasformare le Borse in casinò dove giocano loro e paghiamo noi, in templi della speculazione in cui l’unico obiettivo è arricchirsi con qualsiasi mezzo. Con qualsiasi trucco. Non li avevamo autorizzati a mettere a repentaglio la vita di noi tutti in nome della loro smania di profitto. Ma facciamo finta di sì: facciamo finta che, invece di un inganno deliberato, e dunque di una vera e propria truffa, si sia trattato solo di un gigantesco equivoco. Loro non ne hanno mai parlato in maniera esplicita – così esplicita da essere certi che la generalità di noialtri cittadini capisse fino in fondo in che razza d’avventura ci stavano gettando – e noi non abbiamo avuto il tempo e la voglia di approfondire. Li abbiamo lasciati fare. Poiché certe cose c’erano sempre state, quanto meno dal secondo dopoguerra in avanti, le abbiamo considerate, quasi sempre inconsciamente, come dei dati di fatto. Esistono le case, in cui abitano le persone, ed esistono le Borse, in cui annidano gli speculatori. Esiste il lavoro che produce qualcosa di utile, un bene materiale o un servizio, ed esiste la finanza, che fa delle cose strane che capiscono bene solo i tecnici: e però, che diamine, qualcuno le deve pur fare, visto che le fanno in tutto il mondo. In tutto il mondo civile. Esiste il denaro: e chi più ne ha più è bravo. Più è potente. Più è rispettato. Avevamo il dovere di stare attenti. Di non lasciarci distrarre dalla politica e dalle sue mille contese, sempre più marginali e pretestuose. Avevamo il dovere di capire che il problema fondamentale è quello del rapporto tra economia e società. Ma anche qui hanno giocato sulle parole. Sulle assonanze. A partire dallo stesso termine,“libertà”, hanno plasmato i capisaldi della loro propaganda capziosa. Sottile. Insinuante. Seducente. Di qua il liberalismo: chiunque potrà fare ciò che più gli aggrada, nei soli limiti della legge, e nessuno glielo potrà impedire. Di là (seconda faccia della stessa moneta) il liberismo: chiunque potrà cercare di arricchirsi, nell’appassionante e turbinosa competizione del mercato, e potrà farlo a dismisura. Un singolo

3 - WWW.ILRIBELLE.COM

Zamboni

di Federico Zamboni


Zamboni

uomo, per esempio Bill Gates, possiede da solo un reddito superiore a quello di un intero Stato? Embé? Bravo lui. E scemo chi non fa altrettanto. O per lo meno ci prova. Ci siamo lasciati sedurre. Non ci sembrava vero, di poter vivere a nostro capriccio. D’accordo: la stragrande maggioranza di noi doveva lavorare, e in realtà non guadagnava un granché, e in fin dei conti non si è mai nemmeno avvicinata all’opportunità di arricchirsi, ma ad inebriarci, e a farci accettare tutto il resto, bastava la sola promessa che fosse possibile. Vero: per ora ce ne stavamo alla catena di montaggio, o in un oscuro ufficetto pubblico o privato, ma da un momento all’altro avremmo potuto rovesciare le nostre esistenze e spingerle in tutt’altra direzione. Una buona idea, un piccolo capitale per cominciare (magari a prestito: le banche servono a questo), e via verso i successi della libera impresa. Oppure – specie dagli anni Ottanta in poi – qualche speculazione fortunata in Borsa: ci riescono tanti altri, perché non io?

Voltare pagina. Subito Ci hanno istupiditi con una promessa di libertà. Dobbiamo contrattaccare con un’affermazione di responsabilità. Innanzitutto da parte nostra: la distrazione non è un alibi, la superficialità ancora meno. Se in passato potevamo cullarci nella convinzione di non aver capito cosa stava accadendo, e lasciare che tutto procedesse come al solito, adesso abbiamo tutti, ma proprio tutti, gli elementi per comprendere. E per giudicare. Il consumismo è una cattiva abitudine, non un obbligo. La ricchezza è una tentazione: non un valore assoluto. La concorrenza che diventa antagonismo, conflitto incessante, gioco al massacro in cui l’affermazione di uno si risolve inevitabilmente nell’umiliazione di un altro, è una nevrosi: da rifiutare una volta per sempre. Non siamo in stand-by. Non siamo in attesa di scoprire se la crisi arriverà alle estreme conseguenze oppure no. La crisi è comunque definitiva: ha chiarito in modo incontrovertibile cosa succede ad affidare le sorti di interi popoli a una minoranza di “specialisti” lasciati liberi di muovere capitali immensi. Quand’anche non si pervenga alla catastrofe epocale che si profila – e che all’insaputa della pubblica opinione è stata sfiorata a più riprese, con Wall Street vicina come non mai al punto di non ritorno in cui le quotazioni smettono di scendere un po’ per volta e precipitano verso l’abisso di una reazione a catena tanto rapida quanto inarrestabile – la sostanza non cambia. Chiunque non si riconosca in questo modello di sviluppo, di comportamento, di vita individuale e collettiva, deve chiamarsene fuori e cominciare a vivere in maniera diversa. Liberandosi subito di tutti i condizionamenti che non siano strettamente indispensabili. E pensando a come si potrà affrancare, in seguito, anche da questi ultimi. Il ribelle non deve più accontentarsi di coltivare un estremo residuo di libertà interiore. Il ribelle deve uscire allo scoperto e identificare i suoi simili. Per riconoscersi reciprocamente. Per affratellarsi in un impegno reciproco. L’alternativa è la connivenza.

4 LA VOCE DEL RIBELLE



INCHIESTA

Mutui

C

e libero mercato

Ovvero monopolio delle banche. Altro - fondamentale - esempio che i conti del dogma liberista non tornano. Diritto alla casa? Escluso. Tutto passa da cartelli e necessità. Anche per un bene primario. di Valerio Lo Monaco

hi segue da tempo la nostra pubblicazione, e ancora di più chi riflette sulla realtà che ci circonda senza farsi convincere dalla rappresentazione che ne viene offerta dai media di massa, già ha capito bene che la "mano invisibile " di Adam Smith la si avverte soprattutto quando il libero mercato,che libero non è,fa in modo che tale mano assalga alla gola delle persone togliendole ossigeno. Esistono innumerevoli casi dove i conti del dogma liberista su domanda e offerta non tornano. Ce ne accorgiamo giorno per giorno e soprattutto, anche per molti scettici di sempre, nella realtà che ci circonda in maniera incontrovertibile soprattutto negli ultimi anni. Uno di questi casi - emblematico - è rappresentato dal settore immobiliare.Meglio,dalla problematica relativa alle abitazioni.Che è del resto una di quelle che possiamo considerare come primarie nella vita di ognuno di noi.Ebbene,proprio il settore immobiliare è la prova evidente dell'erroneità del sistema liberista. Con tutto ciò che ne deriva sulla vita reale delle persone. Se esiste un caso, infatti, nel quale l'autoregolamentazione del mercato tanto decantata dai fedelissimi del libero commercio entra in crisi e dimostra tutta la fatiscenza dei propri principi, questo è proprio il settore di acquisto e locazione degli appartamenti. Tutta la libertà che si può esprimere decidendo di comperare o meno un oggetto, ovvero tutto il libero arbitrio che si può utilizzare nello scegliere di essere un mero esecutore del meccanismo lavora-consumacrepa oppure no, viene meno in un momento specifico: quando a

6 - WWW.ILRIBELLE.COM


Centro e periferia In una unica grande prigione. Quella dei prezzi troppo alti.

7 - WWW.ILRIBELLE.COM


essere oggetto di una (inesistente, come vedremo) scelta è un settore relativo a un’esigenza primaria. Come appunto quella della casa. Ciò che risulta evidente a tutti - e ne parliamo nelle due inchieste che seguono, centrate su Milano e Roma - è che nel momento in cui il libero mercato si estrinseca nei confronti di una esigenza primaria, vi è il rischio, quando non la certezza come in questo caso specifico, che l'unica libertà esistente sia quella delle logiche di cartello che il mercato stesso applica al settore. E al quale tutti devono piegarsi. La differenza sostanziale risiede pertanto nella natura della "merce" alla quale il cartello si applica.Nel nostro caso,l'individuo non può che soccombere alle leggi del mercato. Non può decidere di essere un consumatore o meno, ma deve sottostare ai prezzi correnti in virtù dell’esigenza stessa di sopravvivere. In questo caso ci occupiamo della casa, ma sono tanti altri aspetti a fare parte di questo stesso discorso. A ciò aggiungiamo il fatto che, soprattutto nelle grandi città, ci troviamo non solo di fronte a un vero e proprio monopolio nel quale la libertà di scelta è limitatissima, ma anche a una commistione diabolica che vede, nelle possibilità di affrontare il cartello riferito ai prezzi di acquisto, la sola possibilità di ricorrere alle banche, uniche concessionarie di mutui. Facile tirare le somme: il cittadino si trova a dover affrontare un cartello imposto per soddisfare una necessità primaria e l'unico aiuto che può chiedere gli viene eventualmente concesso proprio da chi ha tutto l'interesse di mantenere il cittadino stesso stretto al cappio della necessità, ovvero le banche. I casi sono tanto semplici quanto inconfutabili: uno studente che voglia studiare in una università lontana dal proprio luogo di residenza non ha altra scelta che adeguarsi ai prezzi degli alloggi limitrofi all'università stessa. Una famiglia i cui componenti lavorano in una grande città non ha altra scelta che affittare un appartamento o tentare di comperarlo all'interno della città stessa. La cosa è emblematica del meccanismo infernale nel quale viviamo. Mai come in questo periodo la concentrazione degli abitanti nelle città è stata così alta. La progressiva emigrazione dalle campagne verso i grandi centri,per soddisfare le necessità e le possibilità lavorative delle fabbriche e dei servizi, ha raggiunto oggi livelli altissimi, e l'unica possibilità per chi lavora è pertanto quella di abitare all'interno delle città o nelle zone immediatamente limitrofe (con i relativi problemi del pendolarismo).Facendo que-

8 LA VOCE DEL RIBELLE


sto, l'unica possibilità di avere un’abitazione è quella di accondiscendere ai prezzi di acquisto e locazione degli appartamenti ivi presenti. E dunque, nella maggior parte dei casi, di vedere il proprio stipendio finire per buona parte nel pagamento degli affitti o nella migliore delle ipotesi negli interessi che le banche applicano ai mutui. Sintesi giornalistica (ed esistenziale): le persone sono costrette a lavorare nei grandi centri, a pagare i costi altissimi di affitti e rate del mutuo per avere una casa, in pratica impegnando due terzi del proprio stipendio (quando non oltre) in un meccanismo perenne che non fa altro che bloccare all'interno del sistema (e a beneficio di locatori e banche) l'intera propria vita. O giù di lì. Viva il libero mercato,viva la libertà di vivere in catene tutta la propria vita. Viva la possibilità di scoprire, magari dopo trent’anni di mutuo (quando non di affitto a fondo perduto), di aver passato la propria unica esistenza a rincorrere le scadenze di pagamento, riuscendo a darle l'unico senso di aver lavorato per saldare l’affitto o il mutuo. A questo proposito è interessante vedere cosa i grandi partiti italiani hanno fatto e fanno per rispondere a questa esigenza, andando a capire se, in primo luogo, riescono innanzi tutto a prendere coscienza di questo. Tanto per iniziare non hanno fatto nulla di nulla per avvertire i cittadini del rischio relativo a contrarre mutui a tasso variabile quando i tassi stessi erano molto bassi. Così bassi che, per forza di cose, non avrebbero potuto fare altro che risalire, o prima o dopo. Tutti i partiti dichiarano di voler sostenere le famiglie. Eppure nessuno si è sentito in dovere, se non altro, di avvertire che dopo essere arrivati ai minimi storici i tassi variabili sarebbero puntualmente aumentati. E che dunque era forse il caso di non cadere nell'ennesima trappola del mercato e delle banche, stipulando mutui con rate che si sarebbero progressivamente gonfiate, andando a incrementare i pignoramenti (e la perdita di tutto quanto sino ad allora versato). Non una parola. Nulla. Per quanto concerne invece le eventuali - introvabili - vere politiche a sostegno del diritto alla casa, il panorama politico del nostro Paese oscilla tra la vacuità delle proposte sciorinate nei programmi alla totale assenza delle stesse. Con un’unica eccezione, peraltro velleitaria. Parlare oggi del programma elettorale del Partito Democratico è come andare a leggere una Antologia di Spoon River, però è doveroso se non altro elencare le proposte in occasione della campagna prima del voto.Il Pd si impegnava "a fare investimenti nell'edilizia residenziale pubblica per affitto sociale" (possibile immaginare propo-

9 WWW.ILRIBELLE.COM


sta meno concreta?),quindi ad "accrescere la presenza di nuovi investitori privati (attenzione: privati. N.d.R.) nel settore immobiliare, attraverso l’utilizzo di Società d’Investimento Immobiliare Quotate e la liberalizzazione del mercato".Il Pd pensava di fare questo con "politiche di regolazione del mercato che incentivino i proprietari a porre sul mercato degli affitti le case,anche riducendo progressivamente le proroghe generalizzate degli sfratti" oltre a "introdurre l’obbligo di destinare nelle convenzioni urbanistiche una quota (es. il 15%) delle nuove costruzioni agli affitti a canone concordato". O ancora: "varare anche in Italia interventi di social housing".Precisando che "non si tratta della tradizionale edilizia residenziale pubblica, destinata a fasce sociali svantaggiate.I fondi immobiliari di tipo etico costruiscono o acquisiscono unità abitative e le mettono sul mercato, senza sussidi pubblici, ad affitti sostenibili. Se i terreni delle nuove costruzioni sono conferiti dai Comuni,i fondi vanno in equi-

Quando anche un bene primario, di necessità fondamentale come la casa, diventa preda del mercato, non c’è più scelta, ma imposizione di prezzi e tassi d’interesse. librio con affitti ancora più bassi. Si possono promuovere fondi a controllo o a partecipazione pubblica; si possono coinvolgere nell’operazione la Cassa Depositi e Prestiti e le Fondazioni di origine bancaria. E si può intrecciare questa attività con la dismissione e riqualificazione di tanto patrimonio immobiliare pubblico, specie degli Enti locali". Ultime proposte, per il Pd, erano quelle di "tassare il reddito da affitto non ad aliquota marginale, ma ad aliquota fissa; consentire la detraibilità di una quota fissa dell'affitto pagato; aumento della quota fiscalmente detraibile della rata sui mutui relativi all'acquisto della casa di abitazione".Anche un cieco sarebbe in grado di leggere il fatto che queste non erano proposte politiche, ma pie illusioni, tipiche di programmi raffazzonati secondo necessità, in vista di elezioni imminenti e dunque ai fini del rastrellamento dei voti. Il Partito delle Libertà - poi vincente alle elezioni - si è battuto invece per l'abolizione dell'Ici "senza onere per i Comuni", mentre sappiamo oggi come l'unica tassa federalista, ovvero a beneficio diretto nel territorio del contribuente stesso, una volta eliminata non sia stata reintegrata in modo da dare alcun onere per i Comuni, anzi, tutt'altro. Con il risultato di un impoverimento diretto dei residenti nei rispettivi comuni. Interessante il punto due del programma: "una casa per tutti". Interessante soprattutto nel momento in cui si verifichi quanto di esso sia stato attualmente rispettato. O quanto potrà essere mantenuto in seguito. Questo punto del Pdl si riferisce a un "piano casa per costruire alloggi per i giovani e per le famiglie che ancora non dispongono di una casa in (sic!) proprietà attraverso lo scambio tra proprietà dei terreni e concessioni di edificabilità". E ancora, per punti: "ogni Regione determinerà i criteri di assegnazione su cui costruire le graduatorie; piano di riscatto concordato con le Regioni a favore degli inquilini di alloggi pubblici; riduzione del costo dei mutui bancari delle famiglie,

10 LA VOCE DEL RIBELLE


rendendone conveniente la ristrutturazione da parte delle banche". E quindi la "Legge Obiettivo per i quartieri svantaggiati e le periferie delle grandi aree metropolitane, con agevolazioni agli interventi di riqualificazione urbana e il finanziamento di progetti infrastrutturali". Altra proposta, in favore dei giovani, è relativa poi a un "bonus locazioni per aiutare le giovani coppie e i meno abbienti a sostenere l’onere degli affitti". Ne sapete qualcosa, voi? Al di là della impalpabilità di tali proposte - oltre al serio campanello d'allarme che sorge leggendone una parte, ad esempio: lo scambio tra proprietà di terreni (in favore di chi?) in cambio di edificabilità - a oggi,l'unica cosa pratica portata avanti e fatta passare dai media come misura straordinariamente efficace è stata (come ti sbagli?) a vantaggio delle banche: ovvero poter ridiscutere alcuni mutui allungandone la durata a...generazioni future.Ovvero ai figli e ai nipoti. Ottimo, si fa per dire. Rifondazione Comunista è non pervenuta. Nel senso letterale della parola. Attualmente, sul sito di questo partito, uno dei pochi link disattivati è proprio quello relativo a programmi e proposte.Accanto agli organigramma vari, e a tante altre notizie, è infatti del tutto assente la parte relativa quanto meno alle proposte.Tra le quali abbiamo sperato invano di trovare qualcosa relativo alla emergenza casa.Vi è di tutto, dal sostegno agli immigrati a quello dei gay e delle coppie di fatto. Per l'emergenza abitativa, il nulla. Unica voce fuori dal coro, come accennato e, beninteso, sempre a parole, in tempo di campagna elettorale è stata quella de La Destra di Storace, dove la volontà di "tassazione straordinaria di banche, assicurazioni, stock options di manager e utilizzazione dei proventi del cosiddetto 'signoraggio bancario'" sarebbe stata finalizzata a "finanziare il 'mutuo sociale' per l’acquisto dell’abitazione e contribuire al pagamento degli interessi dei mutui ventennali a tasso agevolato della prima casa popolare (costruita da enti pubblici) delle giovani coppie". La marginalità di questo partito probabilmente giustifica la possibilità di inserire, almeno in programma, proposte di una certa consistenza. Con la certezza, però, di non dover poi tentare di applicarle. Aspettarsi insomma risposte dalla politica è inutile - come dovrebbe essere ormai di dominio comune, almeno tra chi ci segue - soprattutto nel momento in cui la politica dei vari stati,e sicuramente quella dello Stato nel quale ci troviamo, è impotente quando non connivente riguardo agli interessi di banche e speculatori. Il settore immobiliare, così come quello di altri aspetti anche primari della vita delle persone, è dunque prettamente collegato alle storture e alle disuguaglianze generate dal modello di sviluppo che ci imprigiona. Inutile tentare di vederlo modificato dagli attori politici attuali, così come è inutile sperare di vederlo modificato attraverso il ricambio di tali attori. Non resta - almeno così appare - tentare di fuggire dai cartelli, ovvero fuggire dai luoghi nei quali tali cartelli monopolistici si concentrano (le grandi città). Il che impone però di cambiare sistema di vita. E i più, almeno così appare, sono tutt'altro che pronti a questo cambiamento radicale.

Valerio Lo Monaco

11 WWW.ILRIBELLE.COM


INCHIESTA

Casa

A

dolce casa

Milano. Per studenti o lavoratori che siano, i prezzi sono impazziti, rendendo praticamente impossibile la scelta. Con buona pace di sfruttatori e speculatori. Privati o “istituzionali”. di Francesco Cappuccio *

Milano il diritto alla proprietà immobiliare è negato ad una fascia di cittadini sempre più ampia. Le leggi del mercato hanno lasciato spazio alla regole del “cattivo gioco” dove partecipano i “buoni visi”. Sono quelli, per esempio, degli studenti universitari che incontri alla Cattolica. Dove si trova una bacheca, con le offerte e le domande di stanze o locali, da tutti consacrata come “la più aggiornata”. Ecco alcuni esempi. Zona Loreto, 2 posti letto in appartamento di 50 mq a 930 euro. Via Washington, appartamento con 2 posti letto a 1200 euro.Via Vigliani, 2 posti letto (in divano letto perché ha la sala doppia, ma niente camera) a 1000 euro. Viale Umbria, stanzetta singola a 500 euro.Via Giambellino 130, camera singola a 400 euro.“Affittare casa a Milano per noi studenti è svantaggioso, – dice Andrea Randazzo, 22 anni, originario di Catania e oggi studente alla Cattolica - i costi di agenzia sono troppo elevati, la percentuale è fissa del 15%. Molti si rivolgono direttamente ai proprietari e si accordano anche senza un regolare contratto”. “Non ci viene neppure incontro l'università, – sostiene Vincenzo Sofo, anche lui studente della Cattolica ma originario di Reggio Calabria - gli alloggi messi a disposizione per gli studenti sono un numero ridicolo, per il resto ti arrangi e ti ritrovi immerso nel mare della speculazione edilizia”. I più fortunati restano quelli che ereditano o si fanno comprare una casa dai genitori. Che, comunque, di soldi a Milano ne devono spendere. Il mercato del mattone ha infatti raggiunto cifre da “bolla immobiliare presto destinata ad esplodere”, con aumento dei prezzi delle case

12 - WWW.ILRIBELLE.COM


I canoni medi mensili a Milano (fonte Sicet) Ubicazione

monolocale

bilocale

trilocale

quadrilocale

> 4 stanze

canoni medi

Centro

789,60

1.406,41

2.008,71

2.706,53

3.763,94

1.875,07

Semicentro

654,25

1.021,16

1.216,52

1.877,70

3.487,37

1.193,81

Periferia

634,17

854,01

978,28

1.238,50

1.537,87

888,57

Canoni medi

659,25

1.000,56

1.246,11

1.929,42

3.007,30

1.167,52

Oltre a quella sul lavoro Anche la precarietà abitativa è un “regalo” del mondo moderno.

13 - WWW.ILRIBELLE.COM


dal 1998 ad oggi del quaranta per cento. (fonte: Confedilizia). Nel primo semestre del 2008, in particolare, il costo medio di un appartamento di settanta metri quadri in città è aumentato del quasi tre per cento, facendo lievitare i prezzi dai 288.750 euro dello stesso periodo del duemilasette a 296.920 euro. (fonte:Uil). Chi, comunque, una casa la possiede non pensa certamente di venderla su due piedi. A fare i conti a chi col mattone pensa di guadagnare è Borsa Immobiliare. A sentirli, nei primi sei mesi del 2008 sul mercato dell'acquisto si è registrato solo un più 0,3 per cento, contro una tendenza che da dieci anni a questa parte ha fatto registrare il più 103,5 per cento. Così che oggi, al metro quadro, una casa a Milano in media costa 4517 euro. Codici, il Centro per i diritti del cittadino, parla anche di battuta d'arresto del mercato delle vendite. Negli ultimi due anni, in media, un monolocale vale oltre il tre per cento in meno, un trilocale oltre l'uno per cento e un quadrilocale quasi l'uno per cento. Tiene solo il bilocale. Per una medaglia a due

Il rapporto tra la domanda e l’offerta di case popolari è impietoso: meno di due famiglie su cento riescono a vedersi assegnato un alloggio. facce per niente rassicuranti. Quella dei proprietari, che considerano il prezzo della seconda casa svalutato. E quella di chi, pur volendo, non riesce a vendere perché le condizioni del non-mercato non lo consentono. Qualcuno la casa però la perderà. Perché lo dispone l'autorità giudiziaria. E già nei primi sei mesi del 2008, sono stati il 18 per cento in più rispetto allo stesso periodo del precedente anno. Sono i dati forniti dal Tribunale di Milano.A rafforzare il concetto ci pensa il Sicet, il sindacato degli inquilini iscritti alla Cisl, che a proposito di sfratti fino a giugno scorso ricorda come sugli oltre 10mila in esecuzione, con la richiesta della Forza pubblica nel territorio comunale di Milano, ben 4494 sono per motivi di morosità. Ufficiali giudiziari che, oramai, programmano venticinque accessi per sfratto ogni giorno. I conti, purtroppo, tornano. Perché non solo gli studenti fuorisede devono confrontarsi con le regole del “cattivo gioco”. Pensiamo, infatti, ad una giovane coppia che, per motivi legati al lavoro, vuole prendere in affitto un appartamento a Milano. Un affare da più 76 per cento di aumento dei prezzi degli appartamenti dal 1999 ad oggi, con una

14 LA VOCE DEL RIBELLE


media annuale di crescita pari al più 6,7 per cento. (Fonte Centro per i diritti del cittadino). I conti li ha fatti anche il Comune di Milano. Per un appartamento di 75 metri quadri, parla di ottocento euro al mese se lo trovi in periferia, del doppio se lo cerchi in centro. Per il Sicet, invece, quasi 900 euro in periferia, 1200 euro in semicentro e oltre 1800 euro in centro.“Secondo i canoni attualmente proposti – commenta Leo Spinelli, segretario del Sicet – a Milano le incidenze di questi sui redditi sono del tutto incompatibili. Per le famiglie con redditi da 22500 euro annui fino ai 37500 le incidenze sono tali da rendere impossibile l'accesso ad abitazioni già con tre stanze”. La giovane coppia, a questo punto, dovrebbe ripiegare sulle case popolari. A Milano, il Comune ne possiede 71306, tremila di queste restano sfitte. 41282 di proprietà o in gestione, i restanti sono alloggi demanio. Con canoni che per una casa di 75 metri quadri si aggirano sui 20 euro al mese per inquilini valutati indigenti, da 70 a 500 per le classi intermedie in funzione del reddito e delle caratteristiche dell'alloggio. Nello scorso anno ne sono stati offerti 890, dimezzando di fatto l'offerta di residenza popolare in tre anni, visto che nel 2005 gli appartamenti disponibili erano 1500. Solo con un’ultima delibera ne sono previsti 3400 in più. Intanto, nel 2008 le famiglie in elenco per una casa sono diventate 19674. (fonte Sicet) “Il dato della disponibilità annuale – aggiunge Leo Spinelli – si è ridotto perché gli alloggi restano sfitti fino a quando si realizzano gli interventi di mobilità interna, come i contratti di quartiere, i cambi, le locazioni temporanee”. Tirando le somme emerge che il rapporto fra domande e offerte è impietoso. Meno di due famiglie su cento riesce ad avere un alloggio popolare ogni anno. C’è anche un paradosso denunciato da Scenari immobiliari. Una fascia di reddito rimane esclusa sia dall’assegnazione di case popolari perché oltre gli indici stabiliti, sia dall’affitto delle case perché troppo onerose. Va a finire così, che molte fra queste famiglie pensa di prendere casa lo stesso, aggiungendo regole al “cattivo gioco”. 5000 le case popolari già occupate abusivamente, sempre secondo il Sicet. Ma il Comune di Milano, in questo caso, non fa “buon viso”. La giunta ha già approvato il recepimento della legge regionale 27 del 2007 che, oltre a prevedere nuovi criteri di misurazione dei canoni per le case popolari, stabilisce la lotta all'abusivismo “coinvolgendo gli inquilini nel presidio indiretto degli edifici”. La guerra civile fra poveri. A loro però non sarà chiesto di vigilare sulle case popolari abitate dai finti poveri. Lo scandalo “affittopoli” verrà finalmente combattuto dalla giunta comunale

15 WWW.ILRIBELLE.COM


Le classi di onerosità, % sulle classi di reddito (fonte Sicet) Classi di reddito annuo

monolocale

bilocale

trilocale

quadrilocale

4 stanze

7.500,00

96

144

159

160

211

15.000,00

48

72

80

80

106

22.500,00

32

48

53

53

70

30.000,00

24

36

40

40

53

37.500,00

19

29

32

32

42

di Milano, sempre grazie alla legge regionale 27. Era ora. Visto che prima, nel novembre del 2007, a lanciare l'allarme “furbetti delle case popolari” fu proprio Emilio Trabucchi, presidente del Pio Albergo Trivulzio, uno dei gestori delle case popolari a Milano. Lamentava ai giornalisti le troppe difficoltà nel poter sfrattare dagli alloggi popolari nomi illustri della politica e dello spettacolo. Ancora oggi, poi, ci si chiede come sia possibile che le casse comunali non possano beneficiare delle somme dovute da chi, possedendo case o ville di lusso, palazzi storici o castelli, deve pagare l'Ici. Con la legge regionale 27 il Comune annuncia anche “una serie di controlli sulle dichiarazioni reddituali e patrimoniali prodotte dagli inquilini attraverso il meccanismo dell’anagrafe utenza”. Legge regionale che, comunque, è stata già criticata dalle associazioni degli inquilini che a febbraio scorso sono scesi in strada per denunciare l'aumento del settanta per cento dei canoni. “La legge regionale invece – risponde Giovanni Verga, assessore comunale alla Casa – permetterà soprattutto agli inquilini meno abbienti di rateizzare le somme per i canoni d’affitto fino a cinque anni”. Nel bilancio 2009 l’amministrazione comunale annuncia anche un incremento di due milioni e 650mila euro nei fondi destinati agli inquilini in difficoltà. C’è anche la volontà di promuovere un patto fra costruttori e banche. I primi, si devono impegnare a vendere ai secondi edifici a 1700 euro al metro quadro, pronti per essere venduti a basso costo agli inquilini delle case popolari. Sarebbero ricompensati dal Comune che si impegnerebbe a far loro costruire nuovi alloggi nelle zone dove verrebbero abbattuti gli edifici popolari, nel frattempo svuotatisi. C’è chi, invece, le banche preferisce escluderle. È Casa Pound Italia che sta raccogliendo le firme per trasformare in Ddl l’idea del “Mutuo sociale”.“Un ente regionale – dice Marco Arioli responsabile a Milano di Cpi - costruisce case e quartieri a misura d'uomo con soldi pubblici per venderle a prezzo di costo a famiglie non proprietarie. Queste, pagherebbero una rata di mutuo senza interesse, che non superi 1/5 delle entrate della famiglia, che verrebbe bloccata in caso di disoccupazione e, soprattutto, che non passerebbe attraverso le banche”. * Francesco Cappuccio - giornalista

16 LA VOCE DEL RIBELLE


INCHIESTA

Ilche tetto non c’è Roma. Oltre alle false promesse di Berlusconi, ecco cosa accade in merito a case e mutui. E poi vediamo una proposta interessante. (E censurata).

I

di Giuseppe Carlotti *

l 27 febbraio 2008, durante un’intervista a Radio Uno, Silvio Berlusoni annunciava un grande piano di edilizia popolare. In tale occasione, il Cavaliere parlò di “Un piano che sarà sostenibile per le finanze pubbliche, in quanto i proprietari di terreni che saranno requisiti saranno risarciti e avranno la possibilità di edificare. Chiameremo le banche per dar vita a mutui trentennali”. Per i giovani in procinto di sposarsi, sarebbe stata addirittura messa a disposizione “una casa di proprietà, con una spesa anche inferiore agli affitti che oggi si pagano nelle città italiane”. All’intervistatore, che mostrava un certo scetticismo, Berlusconi replicava prontamente che “Il piano per un’edilizia rivolta ai giovani è già stato preparato nei dettagli”. Ad un anno di distanza, le parole sono ancora lì registrate in digitale e disponibili su internet, ma di fatti neanche l’ombra. Gran Bretagna e USA, nel frattempo, hanno varato un piano straordinario di aiuti alle famiglie per quasi tre miliardi di euro. Invece in Italia si è avuta la presunzione di tamponare la falla allungando la durata dei mutui. Una pratica che si può consigliare soltanto a chi è preso letteralmente per la gola dai debiti. A fine agosto 2008 i tribunali italiani registravano in media un aumento del 30 per cento dei pignoramenti immobiliari rispetto a un anno prima. E l’aspetto sconvolgente è che generalmente i pignoramenti arrivano in tribunale dopo uno o due anni dall’effettiva sospensione dei pagamenti delle rate. Un periodo durante il quale il “legittimo proprietario” è di fatto “pignorato in casa”, nell’attesa che arrivi da un giorno all’altro lo sfratto esecutivo. Attenzione, non stiamo parlando di famiglie disagiate ma di chi ha acquistato casa con il mutuo della banca, ma non ce la fa più a pagare la rata, neppure allungando il mutuo per ottenere qualche decina di euro di riduzione, che poi pagherà in maniera salata a fine corsa, supposto che ci arrivi.A Milano, sono state ben 1974 le esecuzioni immobiliari dal 1°gennaio 2008 al 31 agosto, mentre nel 2007 erano state 1675. Sul fronte affitti, sempre a Milano, il prezzo è attorno ai 15 Euro al metro quadro: per un monolocale da 40

17 - WWW.ILRIBELLE.COM


metri quadri servono mediamente 600 Euro al mese. In Italia, il prezzo degli affitti, dal 1998 al 2008 è più che raddoppiato. Nella sola Capitale, secondo gli ultimi dati disponibili, sono oltre 5 mila gli sfratti esecutivi e di questi il 40 per cento riguarda persone che hanno compiuto 65 anni. Un dramma, quello degli sfratti, che rientra in un’emergenza abitativa che sembra inarrestabile. I dati, parziali, indicano una graduatoria per un alloggio comunale di circa 11 mila famiglie pari a un’esigenza stimata nel piano casa straordianario siglato da Comune, Provincia, Regione e Ministero delle Infrastrutture nel 2006, in 10.150 alloggi. I senza fissa dimora sarebbero il 4 per cento, vale a dire centinaia di persone che non hanno lo sfratto perché una casa non l’hanno più da anni. Il sindaco Alemanno, appena eletto, promise la costruzione di 30 mila nuovi alloggi popolari. A ben guardare, a Roma, le grandi imprese edilizie non hanno mai smesso di costruire immobili. Per l’edili-

“utilizzare (...) i terreni gratuiti del pubblico demanio, senza pagare famosi e costosi architetti, ma bandendo concorsi fra giovani architetti e istituti universitari” zia romana gli ultimi 15 anni sono stati economicamente importanti: 7.288 abitazioni completate tra il 1998 e il 2002, una media di 1.500 alloggi l’anno (dati dell’ufficio statistica del Comune). Il settore delle costruzioni è cresciuto del 4,1% nel 2001, del 2,5% nel 2003 e del 4,7% nel 2004, quest’ultimo dato è quasi quattro volte quello del prodotto interno lordo (dati regionali Ance). Dal 1999 al 2003 si è registrata una crescita costante in tutti i comparti produttivi: edilizia abitativa, non residenziale, opere pubbliche. Anni di vera e propria espansione del settore. Il mercato delle costruzioni ha funzionato bene, tanto da sostenere l’economia della capitale, che si è diversificata ma che trova ancora le sue fonti di finanziamento principali nel settore tradizionalmente forte della città: quello immobiliare. In questa enorme guerra di cifre, l’unico argomento completamente tralasciato è proprio quello dell’edilizia popolare: i prezzi per un alloggio, nella capitale, partono invariabilmente da 4.000 Euro al metro quadro in su. Mutuabili, certo, ma ai tassi d'interesse più alti del mondo. Come se non

18 LA VOCE DEL RIBELLE


bastasse, molte delle palazzine edificate non sempre godono delle necessarie autorizzazioni e sono, di fatto, abusive. Ad Acilia, periferia di Roma, un appartamento di 70 metri quadri nel complesso Le Terrazze del Presidente, un gigantesco colosso di cemento, veniva messo in vendita appena il 4 dicembre scorso alla modica cifra di 370 mila Euro. Peccato che già nel maggio scorso la trasmissione Report avesse indicato come abusivo il complesso delle Terrazze del Presidente realizzato dalla Puccini Group, risultando poco chiara la modalità di rilascio dei condoni. In proposito intervenne l’ex assessore all’urbanistica della giunta Veltroni Roberto Morassut, imputandone le relative responsabilità ai criteri fissati in merito dalla legge varata dal governo Berlusconi nel’94. Fatto sta che dalle indagini svolte le irregolarità sono emerse in tutta la loro chiarezza ed il complesso è attualmente sotto sequestro. Nel frattempo, sempre nella Capitale, l'Ater –ente che gestisce gli alloggi popolari per il Comune di Roma- che al termine del 2005 era in rosso per oltre 35 milioni di euro, e nel 2006 di quasi 20 milioni, chiuderà il bilancio 2007 (spesa corrente) in attivo di 7.600.895,84 euro. Soldi che, in teoria, andrebbero destinati quantomeno al restauro degli appartamenti esistenti, molti dei quali versano in condizioni a dir poco catastrofiche. Ma andiamo ad esaminare nel dettaglio il “grande piano di ediliza popolare” promesso in campagna elettorale da Berlusconi ed elaborato da Giulio Tremonti. Il progetto, al momento più politico che pratico, parla di 20 mila alloggi entro il 2009. Le risorse pare provengano dalla Cassa Depositi e Prestiti e anche dalle fondazioni bancarie, oltre che da imprese statali e parastatali. Non una singola pietra, ad oggi, è stata posata: la copertura finanziaria, in effetti, non c'è. Eppure l’idea di fondo parrebbe quella di far costruire alle “solite” imprese edilizie i “soliti” casermoni riservati ai derelitti della società, il tutto a spese dello stato. E sì che, sulla questione case popolari, ci sarebbe molto da discutere. L’esperienza italiana in merito rappresenta un fallimento su più versanti. In primo luogo perché, in linea teorica, il problema della casa può essere risolto solo quando tutti diventano proprietari di un’abitazione e non tramite lo strumento della locazione, per quanto agevolata. In secondo luogo perché gli attuali agglomerati di edilizia popolare sono autentici ghetti generati dal fatto che, per ottenere un'abitazione, viene comprensibilmente data la preferenza a chi ha seri problemi e così si finisce per concentrare nel medesimo quartiere tossicodipendenti,

19 WWW.ILRIBELLE.COM


persone con gravi malattie, criminali, immigrati e via dicendo. Inoltre, il meccanismo dell’edilizia popolare non aiuta chi veramente ha bisogno, perché spesso chi perde il diritto a godere di tale beneficio non viene sfrattato ma continua ad occupare l’alloggio come se si trattasse di un “diritto acquisito” ed ereditabile di padre in figlio. Inoltre, il business dell’edilizia popolare in Italia è spesso in mano alle organizzazioni criminali che lucrano due volte: sulla costruzione degli edifici in prima battuta e sull’assegnazione degli alloggi in seconda. Per non parlare degli abusivi, che sfondano le porte degli alloggi e vi si insediano con violenza, sbattendo fuori di casa i legittimi assegnatari, scatenando così una sorta di guerra della disperazione. Sbagliato appare anche il metodo cosiddetto “progressista spagnolo”, che sostituisce i piani di edilizia popolare ad un semplice contributo in denaro (in Spagna è attualmente in vigore una legge che concede un bonus casa –o sarebbe meglio dire “elemosina”- di 200 Euro per i giovani sotto i 30 anni). Ma di tutto questo, ovviamente, non si parla. Come non si parla di un’interessante proposta che da anni viene avanzata da Casapound Italia: il Mutuo Sociale. Tale proposta prevede la costituzione di un ente (l’Istituto per il Mutuio Sociale) che si occupi di costruire nuovi quartieri “con modelli di bioarchitettura tradizionale, a bassa densità abitativa e con tecniche innovative in materia di fonti energetiche rinnovabili”. . L'Istituto Regionale per il Mutuo Sociale dovrebbe “utilizzare per la costruzione dei nuovi quartieri i terreni gratuiti del pubblico demanio, senza pagare famosi e costosi architetti, ma bandendo concorsi fra giovani architetti e istituti universitari di architettura e urbanistica”. In questo modo sarebbe possibile non pagare terreni, concessioni urbanistiche, tasse e progetti archiettonici, permettendo di vendere le case costruite a reale prezzo di costo, calcolando esclusivamente materiali edili e manodopera. Il prezzo finale per una casa di 100m2 costruita a queste condizioni è stimato, secondo Casapound, in circa 80.000 Euro. Tale cifra verrebbe fatta oggetto di un mutuo senza interessi, riservato a quei nuclei familiari realmente bisognosi di un appartamento ed identificabili in base a precise regole che vengono elencate sul sito www.mutuosociale.org, sul quale sono persino previste le forme di copertura finanziaria di questa ambiziosa operazione. E se molti si sono affrettati a definire il “mutuo sociale” come un’utopistica operazione di propaganda, non si intravedono all’orizzonte proposte migliori, ne azioni concrete per risolvere l’emergenza abitativa: forse il primo problema in ordine d’importanza, che continua a gettare oscure ombre sul futuro del paese.

*Giuseppe Carlotti - scrittore

20 LA VOCE DEL RIBELLE


ANALISI

Bye bye illusi del No Dal Molin Manipolati dai politici. Ma anche incapaci di passare dal caso specifico alla questione cruciale: la grande battaglia del localismo

S

di Alessio Mannino*

e una rivolta non produce un pensiero che va al di là della rivolta stessa, come una crisalide malnata resta imbozzolata e muore. È questa la lezione che viene dal caso Dal Molin. L’opposizione popolare alla seconda base Usa di Vicenza non ha saputo e non ha voluto compiere il salto di qualità politico e culturale che le avrebbe permesso di assurgere a faro delle tante proteste vigorosamente localiste sparse per la penisola. Aveva tutte le premesse per farlo, dalla natura sovranazionale del diktat imposto da Washington al comune servilismo filo-americano dei governi di destra e sinistra. Tutte le premesse tranne una: gli attributi intellettuali per capire che con la riunificazione della 173sima brigata di parà statunitensi in un’area di 587 mila metri quadrati dell’ex aeroporto Tommaso Dal Molin, non era in gioco l’integrità urbanistica della città palladiana. Né l’araba fenice della pace universale. La posta era molto più alta: la libertà della popolazione vicentina e la dignità del nostro Paese. Che non merita più, se mai l’ha meritato, il blasone di Stato o di Nazione. Ma solo la qualifica di un punto geografico nella mappa imperiale americana.

L’insurrezione Non tedieremo il lettore con una scheda tecnica sul raddoppio militare yankee in una città di 115 mila anime. Basterà fargli presente alcuni dati. Assieme alla caserma Ederle presente da quarant’anni nel capoluogo veneto, si arriverebbe all’incirca a 10 mila soldati addestrati al pronto intervento nelle zone calde del pianeta, inclusi Irak e Afghanistan (teatri di guerra con cui già da anni le truppe di stanza a Vicenza fanno la spola). L’attuale governo ha licenziato un progetto che prevede un appalto per la costruzione degli edifici del valore di 245 milioni di euro, andato alla Cmc di Ravenna e alla Cmc di Bologna, due delle più grosse cooperative (ex) rosse legate a doppio filo col Partito Democratico. L’insediamento, pronto nel 2012, ospiterà la sede dell’Africom, il

21 - WWW.ILRIBELLE.COM


comando dell’US Army per la zona europeo-africana dello scacchiere mondiale. La placida cittadina famosa per il Palladio, il baccalà e il doroteismo democristiano, è destinata a diventare un centro nevralgico per gli ordini diramati dal Pentagono. Un epilogo scontato, se si considera che fin dall’inizio del tortuoso iter decisionale la politica romana ha gestito la faccenda come un banale affare di servitù militari. Gli Americani, mettendoci il marchio del proprio esercito o quello della Nato, sono accampati in decine di basi operative e installazioni logistiche lungo tutto lo Stivale. Quando, nell’ormai lontano biennio 2003-2004, sono cominciati i primi abboccamenti segreti fra gli ufficiali statunitensi e il Comune berico (allora retto da una giunta di centrodestra alle prese coi debiti della società aeroportuale), l’esecutivo in carica, il Berlusconi bis, aveva dato il suo benestare nel silenzio più assoluto. Venuto alla luce il piano nel mag-

Siamo fuori strada. Non è necessario essere pacifisti per essere contrari alla Dal Molin. Basta avere amor proprio e riconoscere che il modello Usa ci ha portato a una schiavitù di fatto. gio 2006, la protesta è sorta spontanea dai comitati cittadini che lottavano da anni contro gli scempi e le speculazioni che affogano Vicenza nel cemento. Nel primo anno l’insurrezione si diresse contro l’ingiustizia di un’invasione a stelle e strisce servita su un piatto d’argento dai berluscones ai cowboy di Bush. Ciò che chiedevano i No Dal Molin era anzitutto che la gente venisse informata, com’era suo diritto. E che venisse per lo meno consultata. Dal canto suo, alla sinistra non parve vero di inzupparci il pane e cavalcare quel genuino moto di ribellione. Così, dagli alti papaveri in parlamento fino ai luogotenenti locali, fu tutta una corsa a strumentalizzare le agguerrite manifestazioni che, forse per la prima volta nella sua storia, infiammavano lo spento popolo berico, tutto chiesa e schei. In seguito a un’escalation di marce, fiaccolate, sit-in, dimostrazioni, dirette televisive e infuocate polemiche, il culmine si toccò con il corteo del 17 febbraio 2007, a un mese dall’ipocrita “nulla osta” del premier Romano Prodi, che graziosamente rese pubblico l’assenso del

22 LA VOCE DEL RIBELLE


governo di centrosinistra in una conferenza stampa a Bucarest. Messa in campo da un variegato movimento di pacifisti, ex leghisti, ambientalisti, disobbedienti, disillusi di destra, cattolici, studenti, famiglie e soprattutto semplici cittadini a cui l’imposizione dall’alto aveva aperto gli occhi sulla continuità fra destra e sinistra, la sfilata dei 100 mila per le vie di Vicenza sembrò quasi sul punto di far vacillare il debole governo prodiano. In realtà, i rossi compari del Professore che a parole sbraitavano contro la supinità ai voleri d’oltreoceano armarono una gran sceneggiata per sistemare gli equilibri interni alla coalizione. Non avevano alcuna intenzione di far cadere il travicello Prodi su Vicenza, per quanto blaterassero dei sacri principi della Pace, del no all’occupazione afghana e irakena e di democrazia calpestata. E infatti non lo fecero, limitandosi a marciare e a una tiepida raccolta di firme tra i parlamentari.

Allo sbando L’ultimo anno ha visto il fronte No Base ripiegare, lacerato e impotente, verso un no happy end. Raggirati per bene da quella vecchia volpe diccì di Achille Variati, figlioccio di Rumor ed esponente di spicco del Pd veneto, alle elezioni comunali del 2008 i No Dal Molin l’hanno portato in trionfo. Con l’impegno – garante la casalinga pasionaria Cinzia Bóttene, entrata in consiglio - di indire quel referendum locale fino ad allora sempre negato. Con Roma che aveva magicamente prodotto le carte attestanti il via libera alle Ederle 2, il furbacchione aveva compreso che convogliando energie e speranze in un voto popolare fuori tempo massimo avrebbe ricondotto la folla nei binari istituzionali. Due piccioni con una fava: lui sindaco, e la jacquerie neutralizzata (per la gioia del partito unico destra-sinistra). Messi i panni posticci del masaniello dai modi curiali,Variati si riempì la bocca d’indignazione allorquando il Consiglio di Stato, il 1 ottobre scorso, non riconobbe la legittimità del referendum. Per tutta risposta, quattro giorni dopo, i No Dal Molin lo fecero lo stesso. Una piccola ma significativa prova di democrazia diretta in sfida a uno Stato nemico, ma organizzata a tempo scaduto e con un commissario governativo, Paolo Costa (eurodeputato Pd), che non si stancava di confermare che la base si farà, punto e basta. Il resto è storia di questi giorni. La demolizione della pista di volo già ultimata, i primi tentativi di blocco del cantiere clamorosamente falliti, l’approvazione definitiva da parte della Difesa (20 febbraio). E la rassegna-

23 WWW.ILRIBELLE.COM


zione che si respira in una città che ha ripreso a sgobbare, contar soldi e farsi i fatti propri: nessuna parentela coi duri e fieri montanari della Val di Susa. Il movimento? Spaccato. Da una parte un Presidio di irriducibili, che da riferimento trasversale per la resistenza si è ridotto a un centinaio di attivisti egemonizzati dai centri sociali del Nordest, in torta con certa sinistra moderata (Verdi, Cacciari, ecc). Dall’altra una galassia di sigle che si perde dietro ad inutili petizioni a Bruxelles sui formalismi ambientali o disquisisce di veterocomunisti lavoratori contro la guerra. E tutti che si danno addosso per il primato della protesta, in un desolante spettacolo di rivalità e gelosie da primedonne. E con ciò veniamo alla morale della favola.

Autodeterminazione Il No Dal Molin si è finora sviluppato secondo due direttrici: quella dell’insorgenza localista, che lambisce motivazioni di tipo federale (la ripresa del motto paròni a casa nostra, dimenticato da una Lega ormai romanizzata); e quella della contestazione pacifista, derivata da un’impostazione cattolica o di sinistra estrema (no alla “base di guerra”). Le argomentazioni “di destra”, ad esempio di un Sergio Romano che stigmatizza la colonizzazione militare americana perché antistorica e contraria agli interessi nazionali, sono state acquisite ma lasciate ai margini. Ma andiamo con ordine. Il localismo viene tradotto dalle vestali del pensiero unico con l’effetto nimby: “not in my back yard, non nel mio giardino”. Basi militari, alta velocità ferroviaria, rigassificatori, autostrade, tutte le infrastrutture volute dai giganti della politica e dell’economia si scontrerebbero col rifiuto delle popolazioni interessate perché queste sarebbero egoiste e affette dalla sindrome del particulare. Fesserie. “Localismo” è tutt’altro che una parolaccia. È la sana presa di coscienza della gente in carne e ossa (non quella dei sondaggi) dei guasti della globalizzazione, un leviatano obbediente ai bisogni artificiali di crescita infinita e, in questo caso, della volontà di potenza di Washington. Ed è la riscoperta del diritto all’autodeterminazione a partire dai bisogni veri, tanto più veri, reali e sentiti quanto più vicini e calati nel proprio vissuto. Cioè bisogni eminentemente locali. È democratica una democrazia che non tiene conto della volontà dei territori? Fa l’interesse del popolo un regime, governato dai berlusconi o dai veltroni fa lo stesso, assuefatto ai dogmi della Nato (a che serve, se il Patto di Varsavia non esiste più?), dell’alleanza-sudditanza con gli Usa (a quando un’Europa indipendente?), dell’occupazione da parte di un esercito straniero (quando scade il mutuo per averci liberato dai nazisti)? Queste sono le domande che un intelligente No

24 LA VOCE DEL RIBELLE


Dal Molin dovrebbe porsi. Appuntandosi al petto con orgoglio la medaglia localista.

No Base? No Sistema Invece no. Siccome amare la propria terra non fa fino, si tira fuori l’armamentario ideologico del pacifismo. Buono per tutte le stagioni, pio quanto basta per assolversi da ogni altro peccato, l’argomento della pace è il secondo, più incisivo filone atto a smuovere le coscienze. Magari condito con i vecchi fumi dell’ideologia marxista, fa breccia perchè essere per la pace è come dire “viva la mamma”, e in più offre il vantaggio rassicurante del dejà vu: ah, com’erano belle le marce contro l’invasione del Vietnam! Ma anche qui: siamo fuori strada. Non bisogna essere pacifisti per essere contrari alla base di Vicenza. Bisogna solo conservare l’amor proprio e riconoscere che il modello di società importato e dominato dall’America ci ha portato ad una schiavitù di fatto. Altro che balle, altro che democrazia. Perché per mantenere il po’ po’ di profitti e consumi su cui si mal regge l’Impero Usa, Obama deve provvedere a controllare il mondo come fosse, questo sì, il giardino di casa sua. È nel nostro interesse, qui e ora, di cittadini e di uomini, ribellarsi all’imperialismo statunitense, essendo questo il cavallo di troia di uno Sviluppo che ci si ritorce contro e che si arroga il diritto di “liberare” a furia di bombe quelle restanti parti di mondo che ancora gli resistono. Per dirla chiara: ai No Base, come purtroppo a tutti i No d’Italia, fa difetto il pensiero, quello che una volta si sarebbe chiamata “elaborazione culturale”. Quando la battaglia contro la Ederle 2 sarà finita, cosa sarà rimasto? Solo il triste autocompiacimento dei reduci. Poi tutto ricomincerà come prima: il teatrino destra-sinistra, le marcette pacifinte, ecc. Senza che ci si sia smossi di un millimetro dalle spiegazioni che non spiegano più niente. Senza aver fatto quel necessario, ormai obbligatorio sforzo di mettersi in discussione e ripensare tutto. Perché il problema non è la base qui o la base là. Il problema è che non ci si mobilita contro il sistema, globalizzante e anti-democratico, che la fa piovere dall’alto. Affinchè questa battaglia agli sgoccioli sia servita a qualcosa bisognerebbe che i vicentini, e con loro gli italiani, imparassero che solo avendo come obbiettivo una democrazia diretta e locale inquadrata in un’Europa forte e ripulita dalle basi americane si può pensare a combattere la guerra più importante: quella delle idee. Ma c’è ancora qualcuno che ha le palle per pensare, in questa Italietta di molluschi?

* Alessio Mannino - giornalista

25 WWW.ILRIBELLE.COM


CHIAVE DI LETTURA

Hamas

causa o effetto?

Per Israele è solo un gruppo di terroristi fanatici. Che a forza di attentati ha costretto Tel Aviv alla guerra. Ma la questione è molto più complessa

I

di Lucrezia Carlini*

l conduttore televisivo ha un momento di esitazione. Il suo talk show sul conflitto israelo-palestinese si sta avvitando su se stesso. Il casting è inattaccabile: c’è il rappresentante della comunità ebraica, il giornalista di esteri, la pacifista israeliana, l’ospite filo-palestinese. Ma il rappresentante della comunità ebraica dà segni di nervosismo. Qualcuno ha già nominato gli accordi di Camp David. Il conduttore ha un sussulto di coscienza, e la sua coscienza gli dice che l’audience sta precipitando. Naturalmente ha un asso nella manica. Sempre lo stesso, infallibile. Alza la voce per sovrastare quella dei due ospiti-nemici. Quando ottiene un rancoroso silenzio fa una pausa studiata e poi chiede al filo-palestinese, guardandolo negli occhi perché non possa mentire: «Ma Lei riconosce il diritto a esistere dello Stato di Israele?». È una domanda senza appello. Una domanda retorica con risposta affermativa. Non ammette dubbi. Oltre il sì c’è il consesso degli esseri umani civilizzati, democratici, ammessi in società. Un’esitazione equivale a un’ammissione di naziterrorismo, bestialità, antisemitismo. Un no è semplicemente inconcepibile. In Italia questo ricatto si sente ripetere centinaia di volte. Accade molto meno spesso che un giornalista ponga come dirimente la domanda speculare: «Lei riconosce il diritto dei palestinesi ad avere un proprio stato?». È di questa sproporzione, prima ancora che del recente attacco israeliano a Gaza e della storia intricatissima di questo conflitto, che dovremmo parlare. La ragione profonda per cui in Occidente non si può che rispondere sì alla domanda sul diritto all’esistenza dello Stato di Israele è il senso di colpa occidentale per la Shoa, condiviso fra i paesi che la perpetrarono e quelli che, pur essendone a conoscenza, non fecero nulla

26 - WWW.ILRIBELLE.COM


La guerra di Gaza: il potente esercito di Tsahal contro gli “straccioni” palestinesi

27 - WWW.ILRIBELLE.COM


per fermarla. Quando, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, cominciò ad essere nota la vera entità dello sterminio, quella cattiva coscienza divenne ineludibile. Fu un elemento determinante per la risoluzione delle Nazioni Unite che (il 29 novembre 1947) decise la spartizione della Palestina fra arabi ed ebrei ma si tradusse, il 14 maggio del 1948, nella costituzione del solo Stato di Israele. Lo sterminio pianificato di milioni di ebrei è un abisso di orrore senza ritorno,perché non può contemplare altra spiegazione che il male assoluto. Nessun essere umano che non sia pazzo o malvagio al 51% può farsene una ragione ed è per questo che la Shoa rimane, per l’umanità tutta, una ferita che nessuna riconciliazione, nessuna terapia, nessun oblio potranno mai cicatrizzare. Né si può condividere il folle parallelo fra quell’orrore e le sofferenze, per quanto crudeli, subite dai palestinesi. Per quanto mi riguarda, Auschwitz è una testa di Medusa capace di pietrificare a distanza di sessanta anni. Nel campo gelato ho visto quindicenni giocare a tirarsi palle

La Shoa non può essere eternamente lo scudo morale e politico dello Stato di Israele. E la popolazione araba della Palestina non deve pagare sulla sua pelle il prezzo delle colpe occidentali. di neve, e in quel momento ho compreso quanto sia indispensabile che la Memoria della Shoa resti viva nelle coscienze di tutti, e quanto sia legittimo, da parte della comunità ebraica in tutto il mondo, il timore che il trascorrere del tempo possa cancellare fatti così spaventosi. E tuttavia, la Shoa non può essere eternamente lo scudo morale e politico dello Stato di Israele. Anche perché, come pochissimi ricordano, il progetto di de-arabizzazione della Palestina da parte dei coloni ebrei risale a molto prima della Seconda Guerra Mondiale. L’ideale sionista di uno stato puramente ebraico, maturato alla fine dell’Ottocento, era fondato sull’eliminazione, espulsione o sottomissione delle popolazioni residenti in Palestina. Come documenta fra gli altri il lavoro dello storico israeliano Benny Morris, questo obiettivo venne raggiunto in parte con mezzi legali, come l’acquisto di terreni o la fondazione di colonie, in gran parte con mezzi più controversi, come l’immigrazione illegale, e in massima parte con mezzi violenti, come l’espropriazione di terre e villaggi e la pianificazione e realizzazione di azioni terroristiche fin dal

28 LA VOCE DEL RIBELLE


1937. Gli arabi reagirono con la costituzione di gruppi di resistenza e, nel corso degli anni Dieci,Venti e Trenta dello scorso secolo, le frizioni fra i due popoli si fecero sempre più violente, fino alla rivolta araba del 1935-39. A partire dal 1947, secondo la ricostruzione di un altro, molto controverso storico israeliano, Ilan Pappe, Israele, ormai divenuto uno stato, condusse una vera e propria pulizia etnica mirata all’espulsione della popolazione araba, a cui diede il nome di Piano Dalet. In ogni caso, nonostante il suo crescente e, dato il contesto, comprensibile sentimento antiebraico di quegli anni, la popolazione araba della Palestina non è responsabile della Shoa. È stata deportata, spossessata delle proprie terre, dei propri beni, della propria libertà, della propria dignità e delle proprie speranze per compensare colpe occidentali.

GAZA, l’ultimo atto L’attacco israeliano a Gaza è solo il più recente, ma di certo non l’ultimo atto di questo conflitto. Inutile qui entrare nel merito della guerra, perché la natura e le modalità di questo scontro, come il numero delle vittime e il tipo di armi utilizzate, in attesa di riscontri ufficiali e terzi, sono ancora da verificare.

Ma è necessario sottolineare due aspetti. Il primo: ci è stato ripetuto fino a farcelo credere che l’invasione della Striscia sia stata una legittima rappresaglia israeliana per il lancio di razzi Qassam da parte di Hamas contro le più vicine città israeliane. Sulla base di questa informazione, il mondo non ha potuto che simpatizzare con gli abitanti israeliani vittime dei lanci e riconoscere a Israele il diritto di fermarli. Molto meno divulgata è la notizia che i primi a rompere la tregua sono stati proprio gli israeliani, che il 4 e il 17 novembre 2008, con due bombardamenti nella Striscia, hanno ucciso rispettivamente 6 e 4 palestinesi. Non solo: nei 18 mesi precedenti l’attacco, e quindi anche nel corso della suddetta tregua, Israele ha imposto un devastante embargo alla Striscia di Gaza né ha mai preso in considerazione le richieste di Hamas: ritiro entro i confini del 1967, apertura dei valichi, cessazione della costruzione del muro e degli insediamenti illegali dei coloni, sospensione dell’embargo alimentare, energetico, idrico e finanziario, liberazione di tutti i prigionieri politici, compresi circa 12.000 fra donne e bambini. Il secondo: l’assenza di osservatori “imparziali” è imputabile a Israele. Fin dall’inizio dell’attacco a Gaza, lo stato

29 WWW.ILRIBELLE.COM


ebraico ha negato ai corrispondenti stranieri l’accesso alla Striscia. Come si può accettare che uno stato confinante decida cosa e chi può avere accesso a un’entità territoriale formalmente autonoma? E come si può accettare una così grave limitazione della libertà di stampa e di movimento, con le sue prevedibili, pesanti e durature ripercussioni? Mentre noi ci accontentavamo supinamente, e senza proteste ufficiali, di corrispondenze parziali, ridicolmente accampate in fila sulle colline intorno alla Striscia (cioè, fisicamente e simbolicamente, al margine degli eventi), milioni di musulmani in tutto il mondo, e pochi possessori di abbonamento satellitare in Italia, vedevano l’altra verità, diffusa da canali come Al Jazeera o Al Arabiya.Tremavano di dolore per i loro – perché non anche i nostri - fratelli sotto le bombe, vibravano di indignazione per la brutalità di Israele e la parzialità dei media occidentali. Si formavano un’opinione radicalmente alternativa a quella degli spettatori tenuti all’oscuro dall’inaccettabile veto di Israele. Si esponevano, anche, alla propaganda di Hamas. L’unico programma di informazione italiano che si è posto questo problema e ha mostrato le immagini di fatto censurate da Israele, Anno Zero, è stato per questo accusato di faziosità e sottoposto a una sorta di processo da parte del consiglio di amministrazione della stessa televisione pubblica che non ha contrastato in nessun modo quella prima censura. A seguire, il ministro degli Esteri italiano, nell’esercizio delle proprie funzioni, ha accusato la trasmissione di antisemitismo. È un’altra consuetudine. Qualsiasi critica all’operato dello Stato di Israele viene bollata con il peggior marchio d’infamia. Non è più la critica a sfociare nell’antisemitismo. È la facile accusa di antisemitismo che, con la complicità di molti organi di stampa, invade e stigmatizza ogni accenno critico. È qui il vero pericolo, e una possibile causa scatenante di antisemitismo. Quanto al ruolo di Hamas, nel suo statuto è prevista la distruzione dello stato di Israele. Ci è stato ripetuto fino a farcelo credere che questo la renda ipso facto un’organizzazione terroristica. Ovviamente, la definizione di “organizzazione terroristica” non è assoluta ma arbitraria: Hamas è nella lista delle organizzazioni terroristiche di Stati Uniti, (principali finanziatori, alleati e fornitori di armi di Israele) Israele, Canada, Unione Europea. Australia e Regno Unito definiscono terrorista solo il suo braccio armato, le brigate Iz- a Din- al Qassam, e di Hamas ricordano anche il determinante ruolo organizzativo e umanitario, causa principale del consenso di cui gode. Ora: è provato come Hamas – o il suo braccio armato – adotti strategie terroristiche, che verosimilmente usi bambini come scudi umani, che fomenti e indottrini adolescenti al martirio e ne faccia dei kamikaze.Tuttavia,

30 LA VOCE DEL RIBELLE


a) Hamas si è detta disposta a riconoscere lo Stato di Israele entro i confini del 1967 b) nel corso di regolari elezioni democratiche, è stata preferita dalla maggioranza dei palestinesi ad Al Fatah, non per la sua manifesta volontà di distruggere il nemico, ma per l’attività di assistenza ai civili e perché considerata meno corrotta della dirigenza dell’Autonomia palestinese. Il verdetto di queste regolari elezioni non è mai stato accettato da Israele, che rifiuta ogni negoziato con Hamas. Perché? Perché, tautologicamente, Hamas è considerata un’organizzazione terroristica. E così il cerchio si chiude. La guerra di Gaza si è conclusa con la decisione unilaterale di Israele di ritirarsi dalla Striscia. Il giorno dopo, su alcuni siti di quotidiani italiani si leggeva la seguente strabiliante manipolazione della realtà: Hamas viola la tregua. Una tregua che non aveva mai sottoscritto. L’equivalente politico di una vasta riprovazione sociale per non essere andati a una festa a cui non siamo ritenuti degni di essere invitati. Resta aperta un’altra questione: quale vantaggio strategico e politico ha ottenuto Israele da questa operazione? Quanto è stato rafforzato e quanto indebolito dalla strage di civili? E come può pensare di procedere nella linea del no alla trattativa con Hamas, che da questa guerra è, politicamente, uscito vincitore? Come potrà la leadership israeliana, in futuro, far accettare ai suoi elettori l’inevitabile negoziato con un interlocutore tanto delegittimato? Ci è stato ripetuto fino a farcelo credere che Israele è uno stato democratico: di più, è l’unico baluardo della democrazia in Medio Oriente. È vero: è l’unico STATO – la Palestina non è costituita in stato, e comunque il risultato di eventuali elezioni democratiche fra i palestinesi non “merita” di essere accettato – dove si tengano elezioni libere. Eppure, i suoi cittadini non sono uguali: lo stato democratico li obbliga a dichiarare la propria appartenenza etnica e religiosa, che fino al 2005 erano riportate sulla carta d’identità. È sulla base di questa discriminazione che vengono differenziati anche i loro diritti. Ci è stato ripetuto fino a farcelo credere che i dirigenti palestinesi sono un manipolo di terroristi. È la definizione che ha accompagnato più di frequente le apparizioni di Arafat, con un’imbarazzata parentesi in occasione del conferimento del premio Nobel per la Pace a lui e a Yitzhak Rabin. Eppure, Rabin aveva militato nel Palmach, le squadri speciali dell’Haganah, protagoniste di azioni “terroristiche” contro truppe e simboli del Mandato britannico. Prima di lui, il padre della patria ed eroe nazionale Menachem Begin aveva comandato l’Irgun, una sanguinaria formazione terroristica ebraica, e avallato il Piano Dalet. Durante la Prima guerra del Libano l’esercito israeliano si rese complice dei falangisti drusi nel massacro di Sabra e Chatila. Il

31 WWW.ILRIBELLE.COM


Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condannò il massacro e, il 16 dicembre 1982, l'Assemblea Generale lo qualificò come "atto di genocidio". Il generale Ariel Sharon era allora ministro della Difesa. Una commissione della Knesset lo riconobbe responsabile dell’eccidio. Ehud Barak, invece, attuale ministro della Difesa dello Stato di Israele, già primo ministro e controparte israeliana dei fallimentari accordi di Camp David, è fiero di aver portato a termine, mentre era nel Mossad, diverse azioni terroristiche di Stato, fra cui l’eliminazione dei militanti della causa palestinese ritenuti – sempre dai servizi segreti israeliani, e senza alcuna inchiesta ufficiale - membri di Settembre Nero coinvolti nel massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Della vendetta israeliana rimasero vittime 20 persone, almeno nove delle quali estranee alla strage di Monaco. A coordinare l’operazione, una commissione supersegreta presieduta dall’allora primo ministro israeliano Golda Meir. Coerentemente, nel marzo 1988, all’editorialista di Ha’areetz Gideon Levy che gli chiedeva: cosa farebbe se fosse palestinese? Barak rispose: «Probabilmente entrerei in una organizzazione terroristica». Se ne deve dedurre che, per la comunità e l’opinione pubblica internazionale, un terrorista è un combattente che non milita al servizio di uno stato sovrano? O che i terroristi sono i combattenti della causa che perde? E se dovesse nascere uno stato Palestinese, gli attuali leader di Hamas diventerebbero improvvisamente rispettati interlocutori delle cancellerie del mondo? Ci è stato ripetuto fino a farcelo credere che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere. Io credo che lo abbia, e che debba essere riconosciuto come Stato sovrano. Tuttavia, la risoluzione delle Nazioni Unite che gli conferiva questo riconoscimento, nel lontano 1947, è forse l’unica che lo Stato di Israele abbia mai rispettato. Se Israele è uno Stato Sovrano e membro delle Nazioni Unite, come può impunemente sottrarsi alle leggi che governano la comunità internazionale degli Stati sovrani? Come può riconoscerne l’autorità solo quando le decisioni delle Nazioni Unite, spesso grazie al veto degli alleati statunitensi, lo favoriscono? Come può sottrarsi a ogni inchiesta internazionale sull’operato del proprio esercito in virtù delle proprie, autodeterminate esigenze di sicurezza? L’unica amara verità è che la causa palestinese ha perso, perché è stata tradita dai suoi leader più corrotti, abbandonata dai paesi arabi, emarginata dalla politica estera statunitense, schiacciata dalla supremazia militare israeliana. Che esista una superiorità morale dello Stato di Israele, in questo orribile conflitto, è invece solo una menzogna ripetuta tante volte da sembrare vera. Lucrezia Carlini - giornalista

32 LA VOCE DEL RIBELLE


PROSPETTIVA

Cuba: il passaggio del testimone È riuscita a sopravvivere sia a cinquant’anni di embargo Usa che al crollo dell’Urss nel 1991. Ma sopravviverà alla morte di Fidel?

Q

di Alessia Lai*

uest’anno Cuba ha festeggiato le sue “nozze d’oro” con la Rivoluzione. Cinquant’anni di storia difficili, durante i quali «Una dopo l’altra tutte le amministrazioni nordamericane non hanno mai smesso di cercare di forzare un cambio di regime», come ha detto Raul Castro nel discorso in cui, il primo gennaio scorso, a Santiago de Cuba, ha celebrato l’anniversario della vittoria contro Batista e i suoi burattinai statunitensi. Il fratello minore di Fidel, il condottiero di quella battaglia, ha ora le redini del potere nell’isola caraibica, almeno formalmente, visto che, nonostante l’età e gli acciacchi, il lider maximo continua a indirizzare la politica cubana con i suoi scritti, quasi come un “presidente ombra”. Che Raul, dopo 48 anni di presenza costante di suo fratello sulla scena politica cubana, come padre della rivoluzione e personificazione di essa, non possa aspirare a rimpiazzarlo veramente alla guida di Cuba è un fatto del quale lo stesso “comandante en jefe” attuale è ben conscio. Fidel è la rivoluzione, il simbolo vivente della resistenza che Cuba vive da cinquant’anni. Raul non può che essere un “transito”, una staffetta con l’incarico di ammorbidire il passaggio di testimone fra il vecchio condottiero e una nuova generazione di cubani che possano attualizzare la rivoluzione e portarla nel futuro, in un mondo molto cambiato dai tempi in cui Cuba ha lottato, prima per affrancarsi dal ruolo di “parco divertimenti” di Washington e poi per rimanere in piedi nonostante l’embargo, la caduta del muro di Berlino e l’isolamento internazionale che tutto ciò aveva comportato. Oggi gli Stati Uniti continuano ad essere la potenza dominante e prevaricatrice che ben conosciamo. Dove non arriva con il suo esercito, o quelli dei suoi alleati, arriva con

33 - WWW.ILRIBELLE.COM


“rivoluzioni”, ben diverse da quella cubana del 1959. Sono le “rivoluzioni colorate” alimentate da gruppi di pressione a libro paga di enti direttamente collegati al congresso Usa come la Freedom House o la Ned (National Endowment for Democracy) e che mirano a portare al potere gli schieramenti politici liberaldemocratici legati a doppio filo con la Casa Bianca e i suoi interessi economici. L’Ucraina e la Serbia ne sono esempio in Europa, ma questi gruppi di pressione lavorano anche in altre parti del mondo, anche in America Latina, in particolare in Venezuela, dove il fallimento, nel 2002, del golpe militare istigato e sostenuto dagli Usa ha fatto cambiare strategia a Washington, che ora tenta di sovvertire il governo di Hugo Chávez attraverso gruppi di pressione che agiscono soprattutto nelle università, soprattutto quelle private. Questi nuovi metodi statunitensi, l’avvicendamento alla guida di Cuba con le, seppur timide, aperture di Raul Castro ad una certa “occidentalizzazione” dell’isola e al presidente neoeletto degli Usa Barack Obama, potrebbero preannunciare un quadro di profondi cambiamenti. Per ora sembra che il successore di Fidel non intenda abbandonare il solco tracciato da suo fratello: «Oggi

Oggi Raul cita Fidel e lo celebra come artefice e guida della rivoluzione. Non può che essere così, con la figura che nel bene e nel male incarna l’essenza stessa della Cuba contemporanea. la Rivoluzione è più forte che mai – ha affermato nel discorso di commemorazione dei 50 anni - e non ha mai ceduto un millimetro dei suoi principi neanche nei momenti più difficili. (…) Quando commemoriamo questo mezzo secolo di vittorie, s’impone una riflessione sul futuro, sui prossimi cinquant’anni che saranno anche loro di lotta permanente. (…) Osservando le attuali turbolenze del mondo contemporaneo, non possiamo pensare che sarà più facile, e non lo dico per spaventare, ma perché è la pura realtà. Dobbiamo tenere ben presente quel che Fidel ci disse, sopratutto ai giovani, nell’Università de L’Avana il 17 novembre del 2005: “Questo paese si può auto distruggere, da solo. Questa rivoluzione può distruggersi. Quelli che non la possono distruggere sono loro, ma noi sì, noi la possia-

34 LA VOCE DEL RIBELLE


mo distruggere e sarà colpa nostra”». Oggi Raul cita Fidel, lo esalta, lo celebra come artefice e guida della rivoluzione. Dopotutto non potrebbe saltare a piè pari una figura che incarna, nel bene e nel male, l’essenza stessa della Cuba contemporanea.

Verso il futuro Certo, L’Avana non può nemmeno restare ferma, cristallizzata in un passato che non finisce mai. Il mondo va avanti, non certo meglio, ma avanti. E gli uomini muoiono, possono restare divenendo mito ma comunque scompaiono. Succederà anche al lider maximo, e Raul Castro potrà traghettare per poco, vista la sua età non

Ancora non si sa, chi prenderà il posto del Lider Maximo. Ma è naturale attendersi che sia proprio egli stesso a scegliere l’uomo che dovrà sostituirlo alla guida della nazione cubana. certo giovane, il destino di Cuba verso il futuro. È stato lo stesso Fidel, in una delle sue lettere scritte durante la malattia, ad affermare che Cuba sarà consegnata nella mani dei giovani, che avranno l’incarico di far sopravvivere la Rivoluzione. Per molti osservatori della realtà cubana queste nuove generazioni corrisponderebbero a Carlos Lage, Felipe Perez Roque e Ricardo Alarcon, rispettivamente ministro dell’Economia, ministro degli Esteri e presidente dell’Assemblea nazionale. Ma il vero giovane, tra Alarcon, che ha 71 anni, e Lage, che ne ha 57, è Felipe Perez Roque, che con i suoi 43 anni è un alto dirigente cubano che la Rivoluzione la ha solo sentita raccontare. Quel che è prevedibile è che un Paese che per 49 anni è stato condotto da un uomo solo, perché è questa, nel bene e nel male, la realtà di Cuba, non può che aspettarsi che il successore venga scelto da quello stesso uomo. Fidel ha deciso che suo fratello lo avrebbe sostituito, ma ben conscio della sua età non più giovane ha sicuramente dato indicazioni riguardo al presidente successivo. Non resta che aspettare, perché fare delle ipotesi sarebbe azzardato vista la ben nota riservatezza con cui Cuba gestisce le proprie politiche interne.

35 WWW.ILRIBELLE.COM


Ma oggi c’è, comunque, un dato di fatto che può far sperare che la fine, umana e politica, di Fidel Castro non significherà, un domani, la capitolazione di Cuba di fronte alle sirene liberaldemocratiche, la fine di più di 50 anni di resistenza ferma, difficile, durissima, che ha segnato il Paese tra miseria e orgoglio, disperazione e fiducia. È la rinascita dell’America Latina. Sono i dieci anni di aria nuova che si respira nel contenente. L’ondata bolivariana, guidata dal Venezuela di Hugo Chávez, ha toccato, con mag-

Nel dicembre 2008 si è tenuto il primo vertice del Calc, che riunisce molti Paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Dice Lula: «È un uragano, un tornado politico e ideologico che propizia cambi profondi». giore o minore incisività, tutti i Paesi latinoamericani, facendo proseliti in Bolivia e in Ecuador, influenzando i governi di Argentina, Brasile, Nicaragua, Paraguay, non lasciando indifferenti i pur più rigidi al cambiamento Perù e Cile. La dimostrazione di questo nuovo corso è stata la recente riunione del Calc, il primo vertice dell'America Latina e dei Caraibi su Integrazione e Sviluppo, un summit che ha ospitato, a metà dello scorso dicembre, in Brasile, i vertici di Mercosur, Unasur, Gruppo di Rio.Tre giorni di confronto a tutto campo e interno al continente, per la prima volta senza la presenza, nemmeno in veste di osservatori, di Stati Uniti ed Europa. Una svolta epocale, che il presidente-sindacalista brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha così commentato: «È un uragano, un tornado politico e ideologico che comincia a propiziare cambi profondi nell’evoluzione politica dei nostri popoli». Un vertice che ha inteso inviare al resto del mondo un segnale di cambiamento, un avvertimento: l’America Latina vuole camminare da sola. E un gesto tangibile del cambiamento è stato, nell’occasione, proprio l’ingresso di Cuba del Gruppo di Rio, meccanismo permanente di consultazione e decisione politica della regione. In occasione del vertice L’Avana è entrata a far parte dell’organismo nato durante la guerra fredda, che di fatto rappresenta una alternativa all’OEA, l’Organizzazione degli Stati Americani, la stessa, de facto dominata dagli Stati Uniti, che nel ‘62 espulse Cuba per la sua adesione al “marxismo-leninismo”, allontanamento appoggiato allora dal resto dei Paesi latinoamericani. Oggi quegli stessi Paesi si sono uniti tra loro e con Cuba nell’inaugurare un nuovo corso. Una consapevolezza che arriva

36 LA VOCE DEL RIBELLE


in un momento storico denso di incognite : la crisi che ha travolto la finanza mondiale e che mina la stessa sopravvivenza economica di intere nazioni; la fine dell’amministrazione statunitense a guida del repubblicano George W. Bush. La scelta del democratico afroamericano Barack Obama è stata accolta da più parti come una svolta epocale, con entusiasmi fin troppo facili e speranze che rischiano di essere deluse al primo bombardamento “umanitario”. I prossimi mesi e anni ci diranno se le aspettative saranno tradite o meno. Certo, la terrificante gestione Bush avrebbe fatto salutare qualunque successore, anche un altro repubblicano, come un cambiamento in meglio. Dopo aver sottolineato che il nuovo presidente statunitense ha suscitato speranze «eccessive, troppo elevate», a dicembre Raul Castro aveva definito Obama un uomo onesto e sincero ma che, da solo, «non è in grado di cambiare i destini di un Paese, e tanto meno degli Stati Uniti». «Mi auguro però di sbagliarmi, spero che ce la faccia», aveva continuato il successore di Fidel facendo poi la promessa di «Un gesto in cambio di un gesto». «Noi siamo pronti a compierlo in qualsiasi momento sia possibile, non appena loro lo decidano, e senza

Le recenti aperture verso Obama non sono affatto un primo passo verso la resa. Le parole di Raul Castro riecheggiano quelle degli altri presidenti dell’America Latina. Sì a un eventuale dialogo, ma salvo verifica. intermediari, direttamente». «Però», aveva puntualizzato il nuovo “comandante en jefe”, «senza che vi sia la minima ombra sulla nostra sovranità». Affermazioni nelle quali in molti hanno visto un segnale di cambiamento nella politica isolazionista di Cuba, se non la premessa della capitolazione definitiva dell’isola caraibica. Ma le dichiarazioni di Raul Castro andrebbero inquadrate nel clima generale di positività nei confronti della nuova presidenza Usa (anche l’Iran ha avuto parole di speranza), nella recente rinascita della consapevolezza latinoamericana con le parole positive su Obama espresse da tutti i presidenti dell’America Latina fin dal vertice brasiliano di dicembre e, in precedenza e singolarmente, anche da Chávez e Morales, per citare i più “radicali” tra i presidenti latinoamericani. Non sono un primo passo verso la resa, insomma. Sono parole che oggi il successore di Fidel Castro si può permettere, perché come lui stesso ha sottolineato nel discorso pronunciato in occasione dell’anniversa-

37 WWW.ILRIBELLE.COM


rio della rivoluzione, «Oggi non siamo soli di fronte all’impero, da questo lato dell’Oceano, com’era negli anni ’60». Allora Cuba era sola nel continente latinoamericano, ma aveva un saldo appoggio nell’Unione Sovietica. Un legame forte, vitale,

Cuba non è più sola. Oggi ci sono gli altri Paesi dell’America Latina che sono stati risvegliati dalla rivoluzione bolivariana di Chávez e che, perciò, non accettano più di essere il “cortile di casa” di Washington. che nel 1989, con la caduta del muro di Berlino, precipitò l’isola in una crisi economica profonda. Ma Cuba non ha mai ceduto, anche dopo quel tracollo, e oggi grazie alla nuova dimensione politica di alcuni Paesi latinoamericani, tra i quali è sempre il Venezuela a fare da traino, Cuba può celebrare anche la rinascita del legame, politico ed economico, con Mosca. Nel suo recente viaggio in America Latina, infatti, il presidente russo Medvedev ha fatto tappa a L’Avana per siglare accordi economici a tutto campo e rinsaldare l’antica amicizia. Cuba non è più sola. Oggi ci sono gli altri Paesi dell’America Latina che non accettano più di essere il “cortile di casa” di Washington, risvegliati dalla rivoluzione bolivariana capeggiata dal Venezuela ma ispirata continuamente, come ripete spesso lo stesso leader di Caracas, dall’esperienza di Cuba. L’Avana è sempre stata il simbolo della lotta latinoamericana contro Washington, un ruolo quasi “romantico”, un piccolo “mondo contro” che, pagando in prima persona un embargo criminale, non è però mai riuscito a capeggiare un cambiamento più vasto del continente latinoamericano. Lo ha però coltivato, ispirato e alimentato con gli anni di resistenza e oggi questo cambiamento sembra essere finalmente arrivato, anche se coincide, purtroppo, con la fine della sua guida Fidel Castro. Una fine che però, proprio grazie alla nuova consapevolezza latinoamericana, non significherà la sconfitta della resistenza cubana ma, probabilmente, la sua trasformazione in qualcosa di nuovo: è come un cerchio che si chiude a 50 anni di distanza. Perché l’ “autorità morale” de L’Avana, che resiste dal ‘59, è alla base del cambiamento odierno dell’America Latina, un cambiamento che potrà permettere alla stessa Cuba di non perdere la propria identità anche dopo la definitiva uscita di scena di Fidel.

* Alessia Lai - giornalista

38 LA VOCE DEL RIBELLE


CHIAVE DI LETTURA

Democrazia

capovolgere prima dell’uso

Secondo la Costituzione il voto è un “dovere civico”. Ma poteva andare bene nel 1948. Oggi è il non-voto a essere un dovere. Morale

O

di Massimo Mazzucco*

ggi di italiani contenti se ne trovano pochi. Che siano di destra, di sinistra o indecisi, ormai quasi tutti sentono il fiato della crisi economica sul collo, e si lamentano sistematicamente ai quattro venti.“Paese di merda!”“Io me ne vado, qui non si può vivere”.“Siamo governati da una banda di delinquenti”. Naturalmente lo sappiamo tutti che quella “banda di delinquenti” la votiamo noi, ma se qualcuno prova solo a suggerire di smettere di votarli,si sente rispondere con disdegno che "tanto non cambia nulla". Il problema è tutto qui. Cinismo, pigrizia mentale e pochezza morale concorrono ad una situazione paradossale che si potrebbe sintetizzare in questo modo: mi faccio del male da solo, ma non ho alternative, e quindi continuo a farmelo.Apparentemente,la cosa può sembrare vera: anche se uno non vota lo fanno tutti gli altri,e quindi il problema rimane.Un pò come agli incroci cittadini, che nell’ora di punta tutti occupano disordinatamente, pur di arrivare a casa “prima dell’altro”, invece di rispettare il semaforo.Se lo facessero tutti – dice ciascuno – io sarei il primo a rispettare il semaforo.Se invece lo fai da solo,non solo non serve a niente,ma ti prendi anche del cretino da quello dietro, che ti suona per farti passare a tutti i costi, nonostante il rosso. Dall’alto del suo palazzo il potente osserva soddisfatto i suoi popolani, che si scannano fra di loro invece di organizzarsi per un vantaggio comune. Ora, finchè si tratta di intasare un incrocio “perchè tanto lo fanno tutti”, si perde al massimo un pò di tempo sulla strada di casa.Quando invece continui a votare dei delinquenti,“perchè tanto lo fanno tutti”,diventi un delinquente come loro. Il motivo è molto semplice: la nostra è una democrazia rappresentativa, nella quale tu eleggi un tuo concittadino perchè vada a rappresentare la tua volontà in parlamento.Se poi quel parlamento decide, ad esempio, di privatizzare l’acqua, lo avrà fatto in tuo nome,e quindi sarai tu a dover rispondere alla storia per aver rinunciato al libero uso di uno dei beni più essenziali di cui disponga l’umanità. E la cosa più divertente è che non solo non trarrai il minimo bene-

39 - WWW.ILRIBELLE.COM


ficio economico da questa privatizzazione, ma sarai proprio tu ad arricchire la nuova società dell’acqua, che da oggi dovrai pagare a peso d’oro. Pensa che meraviglia: hai scelto qualcuno che rappresentasse la tua volontà, e costui ha deciso di danneggiarti in modo palese, sostanziale e duraturo. E tu alla fine del mandato, invece di chiedergli conto di quello che ha fatto, torni a votarlo dicendo che “tanto non c’è alternativa”. Nemmeno il peggiore dei masochisti arriverebbe a tanto. Qualcuno potrà obiettare che in realtà lui ha votato un partito, e che è stato il partito a scegliere chi mandare in parlamento.Ma il problema non cambia: se torni a votare un partito che in passato ha mandato delinquenti in parlamento, a) lo stai autorizzando a fare la stessa cosa, e b) implicitamente approvi quello che hanno fatto in passato. E finora abbiamo parlato solo di acqua, ma quello che hanno fatto i nostri governi – sia di destra che di sinistra, indistintamente – negli ultimi 20 anni va ben oltre la privatizzazione di un bene comune.A partire dagli anni ‘90 i nostri governi hanno sistematicamente svenduto l’Italia agli stranieri, rendendoci ancora più schiavi del capitale estero, invece di liberarci una volta per tutte dalla morsa del piano Marshall. A partire dagli anni ‘90 i nostri governi hanno sistematicamente soggiaciuto al potere del Vaticano,invece di liberarci una volta per tutte da una schiavitù – psicologica, morale e materiale – che dura da millenni. A partire dagli anni ’90, invece di proseguire sulla strada indicata da Tangentopoli, i nostri politici hanno ripreso, incrementato e perfezionato il sistema di spartizione del denaro pubblico, moltiplicando il livello di corruzione fino quasi ad istituzionalizzarlo: oggi non c’è pubblico incarico che non si muova senza un equivalente movimento di denaro, come naturalmente non c’è spesa pubblica che non contenga una quota sostanziale di tangenti, per ciascuno dei livelli coinvolti. Ne risulta che da una parte il cittadino lavora per mandare soldi allo stato, e dall’altra manda al governo gente che sistematicamente glielo ruba. A partire dagli anni ‘90 i nostri governi hanno mandato più volte in guerra i nostri soldati in palese violazione della nostra Costituzione. Ogni volta che l’Italia ha partecipato ad attacchi o invasioni di nazioni sovrane, inoltre, violava i più importanti accordi internazionali, e i più fondamentali principi del rispetto della vita umana. Le chiamavano missioni di pace, ma da Aviano partivano bombardieri carichi di ordigni all’uranio impoverito, che venivano sganciati senza pietà sui civili della ex-Jugoslavia. Persino in una guerra convenzionale – per quanto legittima la si possa considerare - questo tipo di azioni sarebbe severamente proibito dalla Convenzione di Ginevra, a cui l’Italia

40 LA VOCE DEL RIBELLE


ha aderito sin dal primo giorno. Abbiamo scelto a rappresentarci delle persone che hanno violato leggi, convenzioni e costituzioni, e che hanno ucciso distrutto e devastato nel nostro nome – rendendo noi stessi degli assassini - e noi torniamo tranquillamente a votarle,perchè “tanto non c’è alternativa”. La democrazia - ti dirà il solito cinico – è solo una presa in giro. In realtà è un sistema di controllo inventato apposta per illudere le masse di gestire il potere, mentre al potere ci saranno le stesse persone di sempre, alle quali delle masse non può importare di meno. Ma siamo proprio sicuri, che non esista una alternativa? La democrazia infatti non è un obbligo, che ti impone di votare qualcuno a tutti costi, ma un privilegio, che ti permette di scegliere da chi vuoi essere rappresentato nella gestione della cosa pubblica. Se quindi vai alle urne, e non trovi nessuno degno di rappresentarti, semplicemente non voti per nessuno e torni a casa.Al massimo,avrai fatto una bella passeggiata fino alla scuola comunale. È il principio di accettare per buona la rosa dei candidati che ci viene offerta, a farci concludere che “tanto non c’è niente da fare”. Certo, con quei candidati non ci sarà mai nulla da fare, che discorsi! Sono figli di un sistema marcio alla radice,che non poteva che generare gente dello stesso spessore morale. Quando mai uno scarafaggio ha dato luce a una farfalla? Ma non sta scritto da nessuna parte che si debbano accettare per forza quei candidati, nè i partiti che poi li sceglieranno. Se nessuno ti soddisfa, trattieni il tuo voto e torni a casa. A questo punto il cinico dice:“non votare non serve a nulla, perchè tanto votano gli altri”. La prima risposta è questa: non importa se serve o non serve. Innanzitutto, non votare una classe politica criminale significa a) non approvare i loro crimini passati, e b) non autorizzarla a commetterne di nuovi. Questo già dovrebbe bastare, ad un individuo con un minimo di rettitudine morale. In secondo luogo, bisogna vedere se davvero “non serve a nulla”trattenere il nostro voto,o se sia invece questo ragionamento a nullificare l’intero concetto di rappresentatività popolare. Perchè mai credete che i politici, che ignorano sistematicamente le nostre necessità quando stanno al governo, ci corrono dietro come delle mammolette appena inizia il periodo elettorale? Come si spiega che per cinque anni rubino svendano e distruggano a piacimento, senza minimamente curarsi di noi,ma poi diventino degli angioletti, pieni di belle parole e di buone intenzioni, in campagna elettorale? Proprio perchè la nostra è una democrazia rappresentativa, e senza il nostro voto loro non possono più fare nulla. Senza il nostro voto loro non esistono più.

41 WWW.ILRIBELLE.COM


A questo punto anche un bambino capirebbe che il coltello dalla parte del manico l’abbiamo noi, e che quindi saremmo perfettamente in grado di dettare le nostre condizioni, prima di dare quel voto. Invece ci sediamo incantati ad ascoltare le loro favolette, che parlano vagamente di “riforme”, di “crescita” e di “posti di lavoro”, e poi ci torturiamo per intere settimane per decidere chi sia meglio e chi sia peggio.Alla fine regaliamo il nostro voto al “meno peggio” – pur di non rinunciare a dire la nostra - e corriamo a casa per iniziare a bestemmiare contro di lui. Certo che la democrazia è una presa in giro, se praticata in questo modo, ma siamo noi a renderla tale, usandola senza ragionare, e senza il minimo senso di responsabilità.Se il politico ha un bisogno-

Questa non è democrazia. È criminalità organizzata. E le elezioni non sono un mandato a governare, ma un’autorizzazione a delinquere. Che firmiamo noi di nostro pugno, legislatura dopo legislatura. talmente disperato del nostro voto da arrivare a rendersi ridicolo, con le sue favolette elettorali, come si può pensare che non cambi nulla nel non darglielo? Se questa gente corre su e giù per l’Italia come un criceto impazzito, pur di raggranellare mezzo voto in più, vorrà dire che quei voti le servono a qualcosa, non credete? Le servono per tornare in quel posto meraviglioso dove prendi uno stipendio esorbitante per non fare nulla di utile, mentre gestisci con grande “elasticità” milioni di miliardi di euro prodotti dal sudore della gente che lavora. Chi non vorrebbe tornarci, in un posto del genere? E chi non sarebbe disposto a calpestare persino la madre, la moglie o la sorella, pur di farlo? Cosa vuoi che sia, firmare una leggiucola che privatizza l’acqua sorgiva, quando ho la possibilità di entrare in quota nella nuova società che la venderà a peso d’oro? Tanto - ragiona il politico - fra cinque anni chi mi ha votato non se ne ricorderà più, e al massimo sto fuori un turno, che mi serve per preparare meglio la mia rete di contatti, e rientrare alla grande in quello successivo. La vera alternanza politica è questa: chi ruba, e chi sta all’asciutto. Facciamo un po’ per uno, e lasciamo che sia il popolo a decidere ogni volta a chi tocca. Ma questa non è democrazia, è criminalità organizzata, e le elezioni non sono un mandato a governare, ma una vera e propria autorizzazione a delinquere. Che firmiamo noi, di nostro pugno, legislatura dopo legislatura. D’altronde, finchè continueremo a dare il voto a questa gente,senza pretendere nulla in cambio, non potremo illuderci che costoro si sforzino di fare meglio la volta successiva. Perchè mai dovrebbero provarci? È quindi “votando

42 LA VOCE DEL RIBELLE


comunque”, casomai, che non cambia niente. La democrazia prevede una forte responsabilità in chi demanda il proprio potere decisionale, e una responsabilità ancora maggiore in chi viene incaricato di esercitarlo. È quindi naturale che fra le due parti debba esserci prima un accordo chiaro e dettagliato, in modo da poter rispondere ciascuno delle proprie responsabilità, alla fine del mandato. Non si può mandare al governo gente che dice “farò le riforme” mentre si mette annoiata le dita nel naso, senza chiedergli di specificare tempi, modalità e termini precisi di tali riforme. - Quali riforme farai, se vieni eletto? - Farò la riforma della scuola. - Bravo, ci voleva. E come la farai? - Darò più soldi agli insegnanti, e aumenterò il budget per i libri scolastici. - Benissimo, ma non mi basta.Toglierai i crocefissi dalle aule? - Beh, insomma, proprio toglierli…. mi sembra un pò troppo. - Perchè troppo? Non sei d’accordo che la loro presenza viola il diritto costituzionale delle altre religioni? - Si va beh, tecnicamente parlando… - La costituzione va rispettata, e se tu non intendi farlo io non ti voto. - E per chi voti allora? Non credo che troverai qualcuno disposto a togliere i crocefissi dalle aule, in questo momento. - Vorrà dire che aspetterò.Io non ho fretta.Sei tu che sbavi per avere il mio voto a tutti i costi, ma per me dartelo o non dartelo non cambia nulla, perchè si continuerà comunque con la stessa merda. Quindi me lo tengo,e ti faccio tanti auguri.Se fra cinque anni ci hai ripensato, fatti sentire. - Ma scusa, se hai detto che per te non cambia niente, non potresti darmelo comunque il voto? Cosa ti costa, scusa? - Mi costa che non voglio sentirmi responsabile di tutti i disastri che combinate. Saluti. A quel punto magari succede che ti allontani, e dopo un pò ti senti richiamare. - Senti, scusa…. Mi è venuta un’idea – ti dice il candidato, raggiungendoti ansimante. - Dimmi. - E se i crocefissi li facessimo spostare nei corridoi,invece che toglierli del tutto? Perchè sai,toglierli proprio la Chiesa non ci sta,e lì viene giù un casino. Se invece li convinciamo a spostarli nei corridoi, intanto abbiamo fatto un passo avanti, no? - Si può fare. Ma tu sei in grado di convincerli a spostarli? - Guarda,al 100% non te lo posso garantire,però a naso direi che la cosa è fattibile.Con la giusta delicatezza,e con i tempi giusti,credo che sia possibile. - Entro cinque anni? - Entro cinque anni. - Va bene, ti do il voto. Fra cinque anni vedremo cosa sei riuscito a fare. Se li hai fatti spostare in corridoio, ti voto di nuovo per

43 WWW.ILRIBELLE.COM


toglierli del tutto. Altrimenti comprati una canna da pesca, perchè hai finito di rappresentare la gente come me. Ecco chi comanda, in democrazia. Siamo noi ad avere il coltello dalla parte del manico. Però dobbiamo sapere con precisione cosa vogliamo, prima di scegliere qualcuno che vada a farlo per nostro conto. Per poter utilizzare quel coltello nel modo giusto, infatti, dobbiamo poter chiedere conto al candidato del suo operato con estrema precisione,alla fine del mandato,e questo è possibile solo se i suoi impegni iniziali erano stati altrettanto precisi e dettagliati.

“Sia chiaro: per non-voto non si intende affatto non andare a votare, ma recarsi regolarmente al seggio e ritirare la scheda. E poi riconsegnarla in bianco. O, ancora meglio, annullata. Così da evitare ogni rischio di “appropriamenti indebiti”. Non c’è bisogno di limitare per legge - a due, o tre legislature - la presenza in parlamento dei deputati. Saremo noi a rimandarceli se ci hanno soddisfatto in quella precedente, e a cancellarli per sempre dalla lista dei “deputabili”, se invece hanno tradito i loro impegni. (Idem per i partiti, se votassimo quelli). Invece ce ne stiamo qui seduti come degli imbecilli a farci raccontare delle favolette senza senso,durante le campagne elettorali,e poi mandiamo questa gente al governo con un impegno talmente vago che non solo loro si fanno i porci comodi, ma alla fine noi non sappiamo nemmeno più con chi prendercela.Se ciascun cittadino rispettasse il semplice principio della democrazia rappresentativa, che prevede di eleggere chi si impegni a fare per tuo conto ciò che tu ritieni giusto – e non “il meno peggio” - i non-voti sarebbero talmente tanti che i politici sarebbero immediatamente obbligati a scendere a patti con il proprio elettorato.Sia chiaro: per non-voto si intende schede bianche, o preferibilmente nulle (per evitare “appropriamenti indebiti”), non si intende assolutamente di non andare a votare. Alle urne bisogna recarsi fisicamente, per fare la propria parte. Se poi non c’è nessuno che riteniamo degno di rappresentarci (persona o partito fa poca differenza), annulliamo semplicemente la scheda e torniamo a casa. Certo, non è facile rinunciare al diritto di far sentire la propria voce, ma dobbiamo renderci conto che un non-voto di questo tipo è forse la voce più potente che si possa esprimere nella nostra attuale situazione, mentre usufruire di quel diritto senza avere una reale scelta di fronte è solo una colossale presa in giro. Inizialmente, le bianche e le nulle potranno anche finire nel calderone degli altri (si dividono persino quelle, pur di rafforzare la loro legittimazione), ma quando le quote di voti effettivi cominciassero davvero a calare, nessun politico potrebbe permettersi di andare al governo senza un reale mandato. Lo strumento per governare correttamente ce l’abbiamo, dobbiamo solo capovolgerlo prima dell’uso.

*Massimo Mazzucco - curatore del sito luogocomune.net

44 LA VOCE DEL RIBELLE


CULTURE

Cento

volte futuro

1909-2009: cento anni per una delle correnti di pensiero più moderne e attuali. Malgrado censure e appropriazioni indebite.

«A

di Alessio Di Mauro*

lzare la testa!...Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!» Parigi, 20 febbraio 1909. È passato esattamente un secolo da quando con queste parole – che chiudevano il manifesto del movimento – la “caffeina d’Europa” Filippo Tommaso Marinetti portava alla ribalta internazionale, attraverso le colonne del quotidiano Le Figaro, il primo movimento artistico d’avanguardia “globale”. Stiamo parlando del Futurismo: l’unica avanguardia italiana della cultura europea che sarà poi matrice e punto di riferimento per tutte le altre. Per la verità il manifesto era già stato pubblicato in Italia sul quotidiano Arena di Verona, ma Marinetti voleva colpire al cuore della cultura europea, immersa in un positivismo salottiero e autocelebrativo. E fu dinamite pura, per quegli anni di torpore e bon ton, fatta esplodere nella capitale della Belle Epoque di inizio secolo; sotto il naso di quella cinica borghesia che avrebbe poi visto, pochi anni più tardi, affondare definitivamente le proprie certezze al largo dell’isola di Terranova, assieme al Titanic. È il periodo della fiducia illimitata nel progresso e del consolidamento dell’economia di mercato come valore di riferimento, con tutte le dinamiche che ne conseguono. Tensioni sociali incluse. Nasce l’esigenza della produzione su larga scala, resa ora possibile dai sorprendenti progressi tecnologici, cui si accompagna l’entusiasmo dei capitalisti da una parte e dei marxisti dall’altra: i quali, sebbene da prospettive opposte, sono convinti che la sovrabbondanza produttiva si traduca automaticamente in benessere.

45 - WWW.ILRIBELLE.COM


Un entusiasmo materialistico agli antipodi dall’“ossessione lirica” della materia che anima i futuristi. Perché la passione di Marinetti e dei suoi per la “vita delle macchine” non si fonda sui benefici di carattere economico che il loro impiego nel processo produttivo comporta, ma su un disinteressato e autentico romanticismo.

“Fino alla danza e addirittura alla gastronomia. Manifesti tecnici programmatici, parole in libertà, happening, linee forza, aeropittura, sperimentazione materica...” Solo così è possibile “cogliere nella materia che si muove fuori dalle leggi dell’intelligenza un’essenza più significativa”. Per questo, paradossalmente, i futuristi – i più moderni di tutti, che disvelavano già dal nome la loro proiezione verso il nuovo, l’ignoto, il domani – disprezzavano il progresso e la modernità del loro tempo. Perché avevano intuito che quella declinazione di modernità e progresso avrebbe portato a trasformare i popoli in società di consumatori. Fino alla frantumazione e al livellamento che nella nostra società postmoderna e virtuale stiamo registrando. La rivoluzione futurista viaggiava invece nella direzione opposta, che è di un’attualità sorprendente. Nella testa e nel cuore di Marinetti, Boccioni, Balla, Carrà, Depero, Russolo, Severini e gli altri c’era la volontà di costruire una vera e propria rinnovata antropologia globale che rifletta un uomo nuovo. Capace di interpretare con la chiav0e dell’arte una nuova filosofia e nuovi valori che essenzialmente ruotano attorno ad un concetto che quest’epoca contemporanea ha dimenticato: l’importanza e la forza dell’utopia. Della volontà di trascendere i propri limiti. Della capacità di credere, lottare, immaginare il futuro e quindi in qualche modo determinarlo, attraverso un’emancipazione creativa e irrazionale. L’unica possibilità per fare arte, ma anche per vivere. Ecco il perché di quel connubio vincente di arte e vita che porterà i futuristi all’attacco dei musei e delle accademie.

46 LA VOCE DEL RIBELLE


Contro benpensanti e professori che esprimono la dimensione patetica dell’uomo ottocentesco, cerebrale e immobile, la rivoluzione globale di Marinetti auspica il trasferimento dell’arte tra la gente. Nelle strade delle grandi città come nelle catene di montaggio delle fabbriche. Dentro il cuore pulsante della vita. Perché c’è più verità e più vita dentro un tram che nelle stanze polverose dei musei. Sulla base di questa consapevolezza (sensibilità) i futuristi hanno saputo costruire una nuova estetica in grado di rivoluzionare per sempre codici semantici e linguaggi, spaziando dalla pittura alla scultura, dalla poesia alla musica, dal teatro al cinema e all’architettura. Fino alla danza e addirittura alla gastronomia. Manifesti tecnici programmatici, parole in libertà, happening, linee forza, aeropittura, sperimentazione materica, musica dei rumori, i futuristi forti di una fecondità impressionante, temprata dal gusto della sfida, hanno inventato e detto praticamente tutto ciò che il panorama dell’arte a venire avrebbe ripercorso, concentrandosi su aspetti particolari (dal dadaismo all’arte materica, passando per il surrealismo e per finire con Andy Wahrol, che ha espresso una sorta di futurismo pop degenerato, approdando su sponde opposte rispetto allo spirito del movimento). “Per dipingere una figura non bisogna farla, bisogna farne l’atmosfera”. In questo concetto, estratto letteralmente dal manifesto della pittura, c’è la chiave della svolta futurista: concentrarsi sull’essenza delle cose e

“Della volontà di trascendere i propri limiti. Della capacità di credere, lottare, immaginare il futuro e quindi in qualche modo determinarlo...” non sulla coerenza formale. Balla, Severini, Depero ci insegnano che per comprendere un quadro moderno “l’anima ha bisogno di tornare pura; che l’occhio si liberi dal velo dalle convenzioni sociali e consideri come solo controllo la Natura, non il Museo”. È così che una semplice linea-forza, sintesi di velocità, può suggerirci molto di più l’essenza di un’auto in movimento di quanto non farebbe un ritratto particolareggiato, ma statico, del veicolo stesso. Ed è così

47 WWW.ILRIBELLE.COM


che dei semplici rumori prodotti dalla materia – e che quindi sanno di vita, molto più di quelli prodotti da uno strumento attraverso il controllo della ragione – possono diventare musica. La modernità concepita dai futuristi riflette una vitalità istintiva e primordiale che può essere ricondotta alla lotta eroi-

“È così che una semplice linea-forza, sintesi di velocità, può suggerirci molto di più l’essenza di un’auto in movimento di quanto non farebbe un ritratto particolareggiato...” ca dell’uomo per raggiungere un’ideale di perfezione assoluta. Un pensiero che arriva da lontano e lega Platone a Nietzsche per proiettarsi verso il futuro. Verso una modernità autentica. Perché in fondo non esiste progresso senza quel filo incessante di continuità che è la tradizione. E come scrisse Carlo Carrà, uno dei protagonisti di spicco della pittura futurista, «L’idea di modernità e di tradizione non deve formare dualismo, essendo essa stessa, per così dire, termine di due metà d’una medesima sfera». Recidere quel filo, quel legame, significa tagliare i ponti con l’origine e dunque con il mondo, perdendo ogni aggancio con il passato e quindi anche con il futuro. Significa vivere in una sorta di sospensione che contempla soltanto i frammenti del presente. Sembra la fotografia di questo 2009, che celebra il movimento di Marinetti ma lo tradisce due volte. Prima di tutto perché utilizza con finalità economicistiche e di marketing gli straordinari strumenti di comunicazione visiva forgiati dal futurismo nel nome di un’utopia. Eppoi perché quel filo di continuità ideale l’ha tranciato di netto da un pezzo. Nel nome di un “qui ed ora” senza identità e senza futuro. Proprio per questo oggi c’è bisogno di tornare ad essere ostinatamente futuristi.

*Alessio Di Mauro - Giornalista

48 LA VOCE DEL RIBELLE


USCITI IERI

Ildelle Signore Mosche Anni Cinquanta: un gruppo di ragazzini in un’isola deserta. Abbandonati a se stessi. E risucchiati quasi subito in una lotta fratricida

I

di Carlo Gambescia*

l Signore delle Mosche (Lord of the Flies) di William Golding non è un semplice romanzo. Ma qualcosa di più.Andrebbe utilizzato, da ogni buon docente di sociologia, nei corsi universitari del primo anno sulle basi socio-antropologiche dell’interazione sociale e politica. Ovviamente, non ne facciamo un mistero, lo si dovrebbe impiegare per controbattere i miti rousseauviani del buon selvaggio e del cattivo cittadino, duri a morire nei licei italiani. Perché, in realtà, selvaggio e cittadino spesso sono la stessa persona in chiaroscuro. E Golding ne spiega le ragioni in un piccolo libro di duecentosei pagine (nell’edizione italiana che abbiamo qui sott’occhio: Mondadori-Epoca 1983). La storia è nota, ma un veloce riassunto non guasta. Tanto per entrare in argomento. Un gruppo di ragazzi britannici, tra i quali numerosi bambini, secondo un’età che varia da 6 a 12 anni, a causa di un incidente aereo, probabilmente legato a un conflitto bellico generale (il libro risale al 1954, anni di Guerra Fredda), si ritrova in un’isola deserta e senza il controllo di alcun adulto.Di qui la divisione in due bande, secondo le leggi della biologia e non della cultura: i più deboli si raggruppano naturalmente intorno ai più forti. È l’inizio di una lotta sanguinosa per il controllo delle risorse. Il conflitto finisce con l’arrivo dei soccorsi e degli adulti, dopo aver fatto scorrere sangue innocente. Fin dalle prime pagine si respira quella virile atmosfera dell’uomo che caccia l’uomo per difendere il proprio territorio. Una clima che è possibile ritrovare in certi libri successivi a quello di Golding, come i testi di Robert Andrey, straordinaria figura di drammaturgo-etologo, come ad esempio L’imperativo territoriale, che in Italia Gianfranco Miglio,che di politica ne capiva,volle pubblicare nella sua bellissima collana “Arcana Imperii” per i tipi di Giuffrè Editore.

La lezione di Dumézil Grosso modo, tre sono gli insegnamenti sociologici del libro. In primo luogo, che le regole politiche difficilmente sono di natura pattizia e consensuale.O lo sono a metà,perché per l’altra metà hanno bisogno di essere sorrette con la forza. Ralph, il giovane protagonista del libro,

49 - WWW.ILRIBELLE.COM


viene eletto democraticamente, per varie ragioni (e dunque non solo per calcolo): simpatia,prestanza,carisma.Ma non riesce a consolidare il suo potere: la democrazia consensuale non basta. E così finisce per ritrovarsi isolato, con pochi altri fedeli, vittima prescelta del coetaneo, il fulvo Jack. L’altro giovane protagonista, che riesce a superarlo in carisma e soprattutto forza fisica (ma su questo aspetto torneremo più avanti). Jack è il capo di un gruppo di cacciatori-guerrieri, pronti a seguirlo ciecamente. Un elemento, questo, che conduce al secondo insegnamento sociologico del libro: il potere politico sussiste e si ricostituisce sempre anche a partire dalla società tribale, come quella dei ragazzi dispersi sull’isola. Perché? Golding spiega questo fenomeno con la spontanea divisione funzionale della società in tre articolazioni: guerrieri, sacerdoti, e produttori di beni materiali, inclusi i mercanti. Qui lo scrittore sembra rifarsi - certo, inconsapevolmente - alle tesi di Dumézil sulla triarticolazione delle funzioni sociali (si veda del grande studioso francese L’ideologia tripartita degli Indoeuropei nella bella edizione del Cerchio-Iniziative Editoriali). Forse corriamo troppo. Gli specialisti non saranno d’accordo. Ma in effetti il romanzo di Golding sembra ruotare intorno a queste tre figure. Infatti i due protagonisti-nemici, Jack e Ralph,incarnano naturalmente la funzione del Guerriero e del Comando. A sua volta Piggy, il ragazzino grasso e con gli occhiali, ma dotato di eccellenti capacità di mediazione, che però non serviranno, impersona spontaneamente il prototipo del Mercante e per estensione delle altre funzioni produttive e materiali, espletate dai restanti membri delle comunità, esclusi i guerrieri e Simone. Quest’ultimo, epilettico e visionario, incarna naturalmente la figura della guida religiosa, del Sacerdote. Simone è capace di parlare con l’Assoluto, come mostra il suo dialogo con la Bestia immaginaria: un mitico animale che, al tempo stesso,spaventa e rende aggressivi i ragazzi.Ben rappresentata dal totem (una testa di porco infilzata su un palo, con intorno gli insetti attirati dal sangue: il “Signore delle mosche”). Simone vede e capisce ciò che gli altri non vedono e capiscono. Pertanto si può scorgere anche nel micro-universo immaginato da Golding la tendenza di ogni gruppo sociale a differenziarsi per funzioni.Uno schema stabile che distingue qualsiasi società. Dove, come avviene oggi, pur essendo mutate le vesti esteriori delle funzioni-base, non è cambiata la tripartizione di fondo del Comando (anche militare), del Sapere (religioso o meno) e della Produzione.

50 LA VOCE DEL RIBELLE


… E quella di Carl Schmitt Di più – e questo è il terzo insegnamento sociologico – nella micro-società di Golding il potere sembra dividersi e ricostituirsi attraverso il conflitto e perciò grazie alla designazione del nemico. Proprio come in quelle di “normali” dimensioni e apparentemente “civili”di oggi.E qui,per fare solo un facile esempio, si pensi alla “naturale” sostituzione, avvenuta sotto gli occhi di tutti, da parte dell’Occidente “libero” e “democratico” del nemico comunista con quello islamicofondamentalista. Pertanto dopo Andrey e Dumézil scorgiamo fare capolino, probabilmente sempre a insaputa di Golding, anche il Carl Schmitt de Le categorie del “politico” (il Mulino, a cura, guarda caso, sempre di Gianfranco Miglio…). Infatti i ragazzi una volta superata l’ emergenza del ritrovarsi catapultati su un’isola deserta, mostrano di avere quasi naturalmente bisogno, non tanto della democrazia, quanto del nemico pubblico in termini schmittiani. Il democratico Ralph, nonostante la sua benevolenza, è scelto come nemico da Jack: porgere l’altra guancia,come insegna Schmitt, non serve davanti all’avversario pubblico inferocito e con la spada sguainata… E così i ragazzi si scindono in due gruppi e iniziano a guerreggiare.

Status e contratto Qual è allora la lezione de Il Signore delle Mosche? Che paradossalmente il contratto, celebrato dal pensiero politico moderno, e nel libro incarnato da Ralph, non può fare a meno dello status ascrittivo, personificato da Jack, guerriero per nascita rispetto a Ralph che invece lo è per scelta, come dire, per ragioni acquisitive. Ralph crede nel libero consenso, Jack nel ruolo moralmente legittimante della forza guerriera. Lo scindersi di contratto e status (consenso contro rispetto morale della forza guerriera) provoca la guerra civile. Intorno alla quale sostanzialmente si dipana il racconto. Si dirà che nel libro siamo di fronte a una micro-società dettata dalla logica dell’emergenza. Il che è indubbiamente vero. Ma il valore della lezione di Golding è di scorgere l’alba, non sempre radiosa, del macro(-sociale) nell’imbrunire del micro (-sociale). Prendiamo ancora ad esempio la relazione tra status e contratto, che tra l’altro certa tradizione sociologica tende a ricondurre nell’alveo di una rigida dicotomia storica di sapore evoluzionista: lo status come frutto di una condizione derivante dall’uso di una forza pregressa, poi sublimata moralmente, sarebbe l’incivile retaggio del mondo premoderno. Mentre il contratto la generosa conquista della civile ragionevolezza moderna.

51 WWW.ILRIBELLE.COM


Ora, una costituzione politica, frutto di un contratto, di solito, viene rispettata fin quando incarna la consapevolezza storica di un gruppo sociale vincitore, spesso con la forza, e perciò sicuro di mantenere uno status sociale e politico, moralmente condiviso. Di conseguenza se all’interno del gruppo sociale dirigente viene meno quella condizione di forza consapevole, non solo militare ma anche morale, rischia di essere messa in discussione anche la costituzione. Ora, l’intera storia politica dal 1789 ai nostri giorni, è una specie di cimitero delle costituzioni… E dunque di transizioni, spesso violente, dal contratto alla lotta per lo status e viceversa. Ecco allora che Golding, attraverso i ragazzi che si battono tra di loro, ci ricorda che il contratto spesso è solo un pezzo di carta. E che costitutivamente le società si fondano sul consenso ma sopratutto su un mix di forza morale e materiale. E spesso, anche se per periodi brevi, sulla forza pura e semplice. Si dirà, nulla di nuovo. Osservazione che vale per coloro che credono in una visione realistica della storia e della sociologia. E non per chiunque si illuda, come notava ironicamente Machiavelli, di poter governare gli uomini recitando il “Padre Nostro”…

Il volto tragico della politica C’è un ultimo aspetto molto importante. Quello dell’inevitabile articolazione verticale del potere politico e sociale. Nel senso che nelle ultime pagine del libro si scopre come al micro-potere sociale creato dai ragazzi nell’isola, se ne sovrapponga, con l’arrivo degli adulti, uno macro, rispetto al precedente, capace però di riportare pace e ordine. Il che illustra come sia impossibile, per Golding e anche per noi, qualsiasi visione al tempo stesso orizzontale e “pacificata” del potere. Ci spieghiamo meglio. L’orizzontalità può essere stabilita in senso relativo, solo e rispetto a un potere verticale più forte, assoluto, seppure democratico. Come appunto avviene nell’isola, dove la pace, tra i due gruppi di ragazzi, viene imposta dall’esterno da un gruppo forte, e verticalmente più in alto, e non più in basso o allo stesso livello dei ragazzi: quello degli adulti. Ma la regola,come mostra il ciclo politico degli imperi (mai terminato anche se oggi si ama benevolmente associarli alla democrazia e al mercato…) è di tipo più generale: di regola il macro-potere fagocita verticalmente il micro-potere. E ciò avviene fin quando all’interno del macro-potere non riprendano le lotte tra status e contratto,e non si formi un nuovo potere,se ci si passa l’espressione, ancora più macro… E così via. Nell’ultima pagina, Ralph, il capo democratico costretto alla guerra, all’arrivo dei soccorsi, finalmente salvo, scoppia in lacrime. Pensa all’isola messa a ferro e fuoco e al compagno morto Simone. Ecco, in quel momento, Ralph incarna la tragedia della socialità insocievole che innerva in modo costitutivo la vita sociale e politica degli uomini, costringendoli a fare cose di cui purtroppo poi si vergogneranno. E così ben “sezionata” da William Golding ne Il Signore delle Mosche. Un romanzo,in conclusione, che non consigliamo ai cuori teneri, abituati a leggere e rileggere Rousseau.

*Carlo Gambescia (sociologo)

52 LA VOCE DEL RIBELLE


MUSICA

Gay a caccia di streghe Rivendicano la massima libertà sessuale, ma davanti a una canzone sgradita gridano allo scandalo. Se non proprio alla censura

C

di Federico Zamboni

orto circuito: la minoranza gay scambia una canzoncina mediocre per un messaggio alla nazione – che avrebbe il potere, una volta lanciato dall’autorevolissimo palcoscenico di Sanremo, di rinfocolare gli antichi pregiudizi nei confronti degli omosessuali – e si comporta come la più integralista delle maggioranze.Anzi: non aspetta nemmeno di aver ascoltato la canzone.Si accontenta del titolo. Giusto il tempo di apprendere la fatale successione di quelle tre parole, Luca era gay, e la sentenza è già scritta. Nessun dubbio: l’uso dell’imperfetto implica che il suddetto Luca non è più gay. E questo, va da sé, implica a sua volta l’intenzione dell’autore di far capire che l’omosessualità non è una condizione naturale e perpetua, bensì una malattia. Un’alterazione psichica dalla quale si può guarire. Come guarisce, appunto, il protagonista del pezzo. Tra i primissimi a scatenarsi, già a dicembre, c’è l’Arcigay. Il cui presidente, Aurelio Mancuso, si lancia in un vero e proprio anatema, pubblicato sui quotidiani il giorno 23: «Se Bonolis e il suo direttore musicale, intendono mandare in scena uno spottone clerical reazionario contro la dignità delle persone omosessuali, sappiano fin d'ora che la nostra reazione sarà durissima, rumorosa e organizzata. Siamo i primi a combattere per il diritto alla libera espressione, ma altra cosa è avallare posizioni omofobe, che tra l'altro alimentano odio e pregiudizio nei confronti delle persone gay e lesbiche». Ci si potrebbe fermare già qui, perché la chiave di volta è tutta in quest’ultima frase: “siamo i primi a combattere per il diritto alla libera espressione, ma altra cosa è avallare posizioni omofobe”. Omofobe? Intanto, come abbiamo già detto, a dicembre si conosceva soltanto il titolo e il resto, quindi, erano solo ipotesi in attesa di verifica. Ma quand’anche fosse stato realmente così, quand’anche la canzone avesse voluto rappresentare l’omosessualità in maniera diversa da ciò che ne pensa Mancuso (e l’Arcigay), non c’erano comunque gli estremi per considerarla talmente aggressiva e prevenuta da risultare discrimina-

53 - WWW.ILRIBELLE.COM


toria. Esistono o non esistono persone che prima vivono una parte della loro vita da eterosessuali, arrivando a sposarsi e a generare dei figli,e poi mutano orientamento solo in seguito, quando magari sono già in età adulta o addirittura anziana? Certo che esistono. Quale che sia l’interpretazione che se ne vuole dare – dal riconoscimento tar-

Quello che sfugge a Grillini & Co. è che una canzone è una canzone. Non una teoria scientifica. Non esprime tesi universali. È una storia: non un archetipo. divo di un’omosessualità originaria a quella di un cambiamento sopravvenuto col tempo – accade e tant’è. Non si vede, allora, perché non possa accadere il contrario. Dapprima si è, o ci si ritiene, gay, e successivamente si rielabora la propria identità in altri termini. E i bisessuali? E i transgender? E le ben note teorie per le quali ognuno di noi è un miscuglio di elementi maschili e femminili, nelle più variegate combinazioni e in perenne divenire? Chi difende a spada tratta la libertà sessuale, come l’Arcigay e altre associazioni consimili, non dovrebbe battere ciglio davanti a un qualsivoglia Luca che prima era gay e adesso no e domani chissà.

Evviva evviva la “libera espressione” A essere ottimisti, o ingenui, si poteva pensare che la querelle si sarebbe spenta, o almeno stemperata, una volta che si fosse conosciuto il testo completo. Nemmeno per sogno.Ancora il 16 febbraio, sulle colonne di Sorrisi e canzoni Tv, l’ex parlamentare Ds e presidente onorario della stessa Arcigay, Franco Grillini, analizzava le parole di Povia con toni a metà strada tra il disprezzo e l’indignazione. Prima una rapida sintesi: il brano «ci racconta di una infanzia senza padre e con madre dominante (in Italia sono un milione e centomila) “colpevole” di non aver saputo tirar su un figlio etero. Da questa situazione, secondo Povia, un maschio non può che diventare gay e cadere tra le braccia del porco profittatore di turno molto più grande di lui che si sostituisce alla figura paterna facendone le veci». Poi la stroncatura: «Chi scrive è psicologo ed ha avuto una infanzia esattamente opposta a quella descritta da Povia: padre molto presente madre un po’ meno, come la mettiamo? E come me tantissimi altri. Moltissimi eterosessuali hanno avuto la madre presente e il padre assente. Si sa

54 LA VOCE DEL RIBELLE


che molti genitori maschi preferiscono fare altro e delegano alla moglie il compito di accudire i figli. L’orientamento sessuale non dipende quindi dal tipo di educazione e nemmeno dalla presenza o meno di uno dei due genitori. A un certo punto della vita ti accorgi di essere gay e l’unica possibilità di scelta è quella di vivere bene con la propria identità». Insomma: poiché non è vero che tutti quelli che crescono nelle medesime condizioni di Luca diventano gay, la canzone è inattendibile. Anzi: deprecabile. Anzi: impresentabile, specie in quel calderone banalotto ma seguitissimo che è Sanremo. Quello che sfugge a Grillini, e a Mancuso, e a chiunque altro si sia accodato alla crociata anti Povia, è che una canzone è una canzone. Non una teoria scientifica.Al pari di qualsiasi opera d’arte – o presunta tale – una canzone che parla di una singola storia non può essere attaccata come se esprimesse conclusioni di carattere generale. Le circostanze che vengono riferite ai personaggi non fissano automaticamente degli archetipi. Non è che Taxi Driver, siccome il protagonista si trasforma in un giustiziere psicotico, postula una correlazione oggettiva tra il guidare i taxi di notte, sia pure nella sola New York ed essendo reduci del Vietnam, e le turbe psichiche di Travis Bickle. E non è neppure, per fare un esempio legato alla sessualità, che Lolita pretenda di affermare che qualsiasi patrigno alle prese con una giovanissima figliastra attraente e maliziosa si trasformerà senza scampo in un novello Humbert Humbert. I racconti non sono parabole. Sono finzioni in cui qualcuno si ritroverà, in tutto o in parte, e qualcun altro no. Assumere i contenuti di ogni singola narrazione alla stregua di tesi fatte e finite, non è soltanto un gravissimo errore di prospettiva. È, che lo si riconosca oppure no, lo stesso atteggiamento che ha portato questo o quel potere, più o meno ottuso, più o meno autoritario, a mettere all’indice gli artisti e le opere che non si allineavano ai loro convincimenti e ai loro dettami. Aurelio Mancuso che definisce «omofoba» la canzone di Povia mira a liquidare una sensibilità diversa dalla sua tramutandola in un atto immorale e offensivo, che si vorrebbe far rientrare tra i casi di discriminazione sanzionati dalla Legge Mancino. Ma quando si ricorre all’etica o alle leggi, per rintuzzare le posizioni altrui, si ragiona da censori. Con l’aggravante dell’ipocrisia se poi, un attimo prima di agitare lo spauracchio dello scandalo o del codice penale, ci si affretta a sottolineare che «siamo i primi a combattere per il diritto alla libera espressione». .

di Federico Zamboni

55 WWW.ILRIBELLE.COM


CINEMA

Festa

di quasi addio

Quattro anni dopo la morte di Luigi XIV, il Re Sole. Settanta prima della Rivoluzione. La domenica delle Palme del 1719 il Reggente dà un grande ricevimento: la nobiltà può ignorarlo, ma la sua fine si va già preparando

D

di Ferdinando Menconi

opo tanto Hollywood, dove trovare simbologie e spunti di riflessione necessita una laboriosa opera di scavo e cercare l’arte è solo tempo perso, dedichiamoci a uno dei tanti capolavori della cinematografia francese, diretto da uno dei suoi maggiori rappresentanti, Bertand Tavernier, e recitato da un cast che neppure gli Stati Uniti si possono permettere: Philippe Noiret, Jean Rocheforte e Jean Pierre Marielle. Un tripudio di “Cesars”, altro che Oscar©, e allora “Que la fête commence ”! La festa comincia la domenica delle palme del 1719 sulle falesie di Bretagna, a quattro anni dalla morte di Luigi XIV e a 70 dalla Rivoluzione, fra le deportazioni forzate in Louisiana e un improbabile rivolta bretone, all’alba di un secolo di radicali cambiamenti durante la libertina reggenza del Duca d’Orléans, autore, peraltro, della colonna sonora del film. Sì, proprio così, autore della colonna sonora del film, perché non siamo di fronte al solito stupro storiografico tipico di Hollywood. Qui la storia è sì leggermente romanzata, ma resa nel dettaglio. La colonna sonora, tranne un solo brano che però sottolinea una delle scene più toccanti del film, è del reggente stesso, eccellente compositore, e molte frasi dei dialoghi sono storicamente accertate, magari sono fatte pronunciare da personaggi diversi da quelli storici o in circostanze differenti, ma quelle sono e per essere un film vale più di molti trattati.Anche perché spesso le opere di narrazione sanno rendere lo spirito, il “carne e sangue”, della storia molto meglio dei saggi.

56 - WWW.ILRIBELLE.COM


La locandina italiana e quella originale. Le maschere e le facce di un’aristocrazia in declino

57 - WWW.ILRIBELLE.COM


Noiret e Rochefort (rispettivamente il Reggente e l’abbé Dubois, suo primo ministro, accoppiata in cui all’epoca, 1975, si vollero vedere Giscard d’Estaing e Chirac) rendono magistralmente il rapporto fra il reggente e il suo primo ministro. Due consumati e splendidi attori che si conoscono a menadito e che si divertono a recitare

Quelli erano il clero e la nobiltà prima della Rivoluzione. Poco importava dio. Importante era il mantenimento del sistema di potere. La religione era superstizione a uso del popolo. assieme, proprio come doveva essere fra Il Duca e l’abate, che vuol diventare Vescovo ma che non sa dire messa perché è «pagano per natura e difficilmente cristiano», rassicurando così il reggente che cominciava a temere che il suo sodale avesse cominciato a credere in dio. Perché quello era il clero e la nobiltà di prima della rivoluzione, poco importava dio, importante era il mantenimento del sistema di potere. La religione era superstizione da dare in pasto al popolo per controllarlo ed i bordelli erano pieni di preti, gesuiti raramente, ma forse solo perché ci «andavano in abiti laici». A pensarci le cose forse non sono cambiate granché, c’è solo molta ipocrisia in più. Era un’epoca, forse, senza morale per alcuni, ma sicuramente senza moralismi, soprattutto per quanto riguarda la vita sessuale: solo per una casta molto ristretta, sia chiaro. Sessualità vissuta con sano erotismo, un po’ orgiastica e sicuramente dionisiaca, con quel pizzico di perversione e tanta naturalezza, al riparo degli psicanalitismi che hanno cominciato ad avvelenare il sesso a partire dal secolo di Freud. Un’epoca in cui si gustava in pieno la gioia di vivere, quasi in maniera autodistruttiva, ma così è se si vuole viverla, la vita. Decisamente migliori questi preti atei che vivevano la vita, dei nostri che la vedono sacra solo quando è ormai spenta, ma che condannano il berla, fumarla e scoparla fino in fondo quando sì è ancora in pieno vigore. Qualche accusa di quasi pornografia naturalmente il film se la prese quando uscì – accusa assolutamente ingiustificata, specie se paragonato al trash da dottoresse, infermiere e supplenti del nostro cinema dell’epoca, immotivatamente rivalutato – e Che la la festa cominci

58 LA VOCE DEL RIBELLE


sia un film pudico, come sostenne Tavernier anni dopo, è vero. La cortigiana favorita dal reggente, delicatamente tratteggiata da Christine Pascal, esce candida da tutte le orge e chiavate, ma così è: nulla è male nel sesso consensuale. Almeno finché non lo si carica del peccato o peggio ancora se non si trae la maggior parte del piacere dallo stare peccando. Ecco, questa è l’unica vera imperdonabile perversione. Se Noiret e Rochefort duettano gaiamente alla corte reale, Marielle ha solo un breve, esilarante incontro con Rochefort. Il suo è personaggio solitario, una storia parallela a quella del Marchese di Pontcallec, spiantato nobile bretone, figura guascona a capo di un’improbabile rivolta, che nel film ci permette di viaggiare attraverso l’altra faccia della medaglia dei fasti della corte. La faccia della Francia del popolo che subisce la deportazione forzata in Louisiana, ma non solo per i criminali, bastava essere plebe, a chi toccava toccava, un po’ come per gli arruolamenti forzati nella marina inglese: un colpo in testa a un ubriaco o una retata in un bordello popolare, come capita al nostro buon Marchese, rivoluzionario sì, ma uomo! La faccia della Francia che con la nuova moneta di carta vede raddoppiato il costo della vita e che, con le speculazioni sulle azioni della “Compagnia del Mississippi” e il fallimentare sistema di John Law, vive una crisi profondissima. Insomma la finanza creativa non è così nuova e sembra di vivere quanto accaduto con l’euro.

Meglio sarebbe guardare Oltremanica e ascoltare quanto viene detto nel film sulla religione del denaro: «Non è vero che il denaro non ha religione. Il denaro è protestante». La principale differenza è che la crisi di oggi appartiene a un sistema fuori controllo, mentre allora la crisi fu voluta, anche se poi sfuggì di mano, per fermare le riforme che il Reggente tentò. Prima fra tutte l’intenzione di togliere le terre alla Chiesa e ridistribuirle ai contadini, oltre all’istruzione gratuita, pericolosissima per tutte le chiese, a meno non la gestiscano direttamente e lucrosamente, e per tutti i regimi, a meno che la trasformino in esamifici distributori di pezzi di carta. La speculazione finanziaria delle oligarchie è ben prece-

59 LA VOCE DEL RIBELLE


dente alla rivoluzione francese, che alcuni vogliono colpevole di ciò mentre fu tutt’altro almeno fino al Termidoro. Meglio sarebbe guardare oltremanica e ascoltare quanto viene detto nel film sulla religione del denaro: «non è vero che il denaro non ha religione. Il denaro è protestante». Quello che non cambia dalla Compagnia del Mississippi alla Lehman Brothers, passando per Parmalat e Montedison, è che

In fondo il film non dipinge una realtà troppo dissimile dal nostro quotidiano. Salvo che l’odierno “predominio del cafone” nulla ha a che spartire con la classe e lo stile della nobiltà francese. è sempre il piccolo risparmiatore/investitore a pagarla. Allora perché solo ai nobili veniva rimborsato il controvalore oro delle azioni e della nuova moneta di carta; oggi i sistemi sono meccanismi più perversi, ma il risultato non cambia. Purtroppo il Reggente non riuscirà in nessuno dei suoi progetti innovatori, forse perché troppo in anticipo sui tempi. Il secolo dei lumi, degli enciclopedisti, è appena iniziato, si può quasi dire che fu lui ad aprirlo, ma ci vorrà una Rivoluzione per dare soddisfazione a chi non ha mai avuto quarti di nobiltà. Il suo fallimento ha, però, anche altre radici. Il Reggente il potere non lo desiderava, come ha modo di sottolineare: «incredibile le cose che avrei potuto essere se non fossi stato Reggente, cioè nulla». In effetti un uomo politico che da morto è riuscito a diventare l’autore della colonna sonora di uno splendido film chissà che avrebbe potuto fare se non fosse stato costretto in quel ruolo. Viene, di conseguenza, da pensare a quelli che oggi nella vita sarebbero stati nulla, se invece non si fossero gettati in politica. Ma torniamo al nostro Pontacallec e al suo viaggio nella Francia del popolo, in contrapposizione alla ristretta casta dei nobili che vivono delle ricadute della corte, nobiltà svuotata di senso da Luigi XIV e che vive da parassita sulle spalle del popolo. Di un popolo dal quale ha perso ogni contatto, che vive una realtà separata e che per questo nel giro di 70 anni finirà, giustamente, per pagarla cara. In fondo il film non dipinge una realtà troppo dissimile dal nostro quotidiano, con la nostra di casta, salvo che l’odierno predominio del cafone nulla ha a che spartire con la classe e lo stile della nobiltà francese. C’è solo da sperare che saranno accomunate dalla stessa fine, anche se oggi l’abile gestione delle potenti armi di distrazione di massa non lascia spazio a grandi speranze. Anche la nobiltà dell’idealista Pontcallec è, però, ancora trop-

60 LA VOCE DEL RIBELLE


po lontana dal popolo. Per quanto in miseria è in una miseria diversa, «miserie che non si mischiano», e «il popolo non si solleva per i nobili». Una rivolta impossibile e velleitaria, che ci impedisce di non amare il personaggio di Pontacallec nella sua goffaggine, nel suo quasi ridicolo ingenuo idealismo, sostenuto però una dignità di sostanza superiore a quella di forma qualsiasi altro uomo di corte. Forse, se la nobiltà fosse stata composta da soli Pontacallec, avrebbe potuto salvarsi dall’onda di marea di 70 anni dopo, e non crediate che in Bretagna gli Chouans si siano ribellati per i nobili. La rivoluzione francese ha le sue radici prime proprio là. Lo fecero perché erano state annullate le autonomie (privilèges) di Bretagna. E poi avevano un nuovo eroe: il Marchese di Pontacallec.

Il tema dell’orgia finale in maschera è la miseria. E i primi invitati ad arrivare sono, appunto, Miseria, Disperazione e Crimine: l’Orléans li accoglie come «i più fedeli sudditi che Luigi XIV mi ha lasciato». Sì, perché la sua ridicola rivolta viene gonfiata ad arte affinché il Dubois da abate possa diventare vescovo. Il solito, sempre attuale, discorso del pericolo da ingigantire e gestire al fine di acquisire potere. La testa cadrà in una scena emozionalmente e cinematograficamente splendida. Il volto di Marielle che si trasfigura mentre detta la sua ultima lettera al reggente e sotto la cella viene preparato il suo patibolo, sottolineata dalle note della canzone Marv Pontkallek** di Gilles Servat, è indimenticabile, da far passare più e più volte sul lettore Dvd. Poche parole e un breve fermo immagine che fanno sì che la maschera di Marielle renda a Pontcallec quell’impressione di dignità assoluta che gli spetta. L’Orlèans, che vive tutto il malessere di un uomo troppo in anticipo sui tempi, troppo anticipatore, e per questo incompreso e boicottato, non riuscirà a imporre quelle riforme che, forse, avrebbero potuto salvare la Monarchia, e non riuscirà a salvare Pontcallec. Ma riuscirà, almeno, a vendicarsi di chi ha mandato al macero i suoi piani, causando una terribile crisi finanziaria e gettando cinicamente la Francia nel fallimento e il popolo nella miseria. Lo farà con un atto di giustizia – con un uso politico della giustizia si direbbe oggi, così sempre si dice quando la Giustizia colpisce chi pretende di esserne al di sopra – ratificando la condanna a morte di un nobile assassino, ma soprattutto col mandarlo al supplizio della ruota, di solito riservata al popolo anche per reati minori. Un atto “rivoluzionario”, che umilia l’arroganza del potere più della morte, ma

61 LA VOCE DEL RIBELLE


come giustamente egli dice, citando Corneille, «Non è il patibolo che fa la vergogna, ma il crimine», anche se il patibolo può fare il martire e così sarà per Pontcallec, lo spiantato, velleitario, innocuo, Pontacallec che diventerà un eroe tuttora cantato nel folclore bretone. Il Reggente sembra avere piena coscienza di quel che attende la Francia e viene esplicitato nel modo in cui accoglie gli ospiti nella spettacolare, ma tutt’altro che volgare, orgia mascherata che avvia il film alla conclusione e che prelude all’orgia di libertà che verrà danzata in carmagnole intorno ad alberi della Libertà. Il tema dell’orgia è la miseria, e i primi invitati ad arrivare sono, appunto, Miseria, Disperazione e Crimine, e l’Orléans li accoglie come «i più fedeli sudditi che Luigi XIV ha lascito a me e che io lascerò al mio successore» e che questi lascerà al suo. Simbolo di una monarchia agli sgoccioli ma di terribile attualità: nell’orgiastica unione fra due maschere il Reggente commenta «La miseria e la banca, che belle nozze». Fra allora ed oggi c’è stata una Rivoluzione, e poi altre a seguire, ma a quanto pare non sono bastate! La Rivoluzione in arrivo è preconizzata, nella splendida scena finale in cui la carrozza del Reggente travolge un ragazzino uccidendolo. A nulla serve che versi nelle mani della sorella una manciata di monete d’oro e che inviti a palazzo i genitori. Un paio di generazioni prima sarebbe bastato, anzi la famiglia si sarebbe addirittura sentita onorata, nel 1719 non più. Il popolo cominciava ad assaltare e bruciare le carrozze dei nobili e così avviene per la carrozza danneggiata che il Reggente lascia sul posto insieme alla sua favorita. La sorella del ragazzo impedisce che la cortigiana gli chiuda pietosamente gli occhi e ne solleva la testa dicendogli «Regarde bien petit frère, regarde comme ça brûle bien et on va à en brûler des autres, beaucoup d’autres»***. Altre, molte altre saranno bruciate e le lanterne di Parigi daranno luce anche quando spente.

Ferdinando Menconi

* Le frasi virgolettate sono estratte dai dialoghi del film. ** Il brano citato è presente su HYPERLINK "http://www.radioalzozero.net" www.radioalzozero.net nella puntata de “Le Radici Profonde non stonano” dedicata alla Bretagna al seguente link http://www.ilribelle.com/archivi-radioalzozero/le-radici-profonde-non-stonano-1a-stagio/puntata-bretagna.html *** «Guarda fratellino, guarda come brucia bene e ne bruceremo altre, molte altre.»

62 LA VOCE DEL RIBELLE





di Alessio Di Mauro


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.