Il Ribelle (Ottobre 2008)

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Spedizione in abbonamento postale, Testata registrata al Tribunale di Roma n° 316 del 18 Settembre 2008

Mensile Anno 1, Numero 1

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Direttore politico

Massimo Fini Direttore responsabile

Valerio Lo Monaco

Banche AMERICRACK Intervista ELIO LANNUTTI: “DRAGHI? IN TRIBUNALE!” Chiave di Lettura TRA USA E RUSSIA MANCA L’EUROPA Ultras TUTTA UNA MONTATURA? Culture LA TIGRE CELTICA DICE NO


Anno I, numero 1, Ottobre 2008 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com)

Io, Talebano

Parte Tecnica Elisa Palmieri, Alessandro Maganuco

di Massimo Fini

Hanno collaborato a questo numero: Carlo Gambescia, Alessio Mannino, Alessio di Mauro, Tommaso Della Longa

Banca Rotta

Segreteria e comunicazione: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Progetto Grafico: Antal Nagy Impaginazione: Mauro Tancredi

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di Federico Zamboni

Gli Stati Uniti e il Keynesismo militare di Carlo Gambescia

“I governi fanno i camerieri dei banchieri”

La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000

intervista a Elio Lannutti

Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com

di Valerio Lo Monaco

Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008 Prezzo di una copia: 5 euro

Usa-Russia atto II (e l’Europa?)

L’ossessione Berlusconi di Alessio Mannino

Ultras: tutta una montatura? di Tommaso Della Longa

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Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista

“Il vento che accarezza l’erba” di Ferdinando Menconi

Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbreggiato, 71 - Roma

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Io,

Talebano di Massimo Fini

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erché ci interessa tanto l'Afghanistan? Perché là si combatte una battaglia decisiva. Che non è geopolitica come sostengono tutti coloro che, in Occidente, sono abituati a pensare solo in termini di potere militare e quindi economico. Si tratta di una battaglia che, una volta tanto, è davvero lecito definire epocale, fra le ragioni della Modernità e quelle del Medioevo. E noi siamo contro la modernità e a favore delle ragioni del Medioevo. Un Medioevo, ovviamente, riveduto e corretto, collocato nel Terzo Millennio. L'Afghanistan è stato invaso e occupato per vari motivi (la presenza di Bin Laden era solo un pretesto) perché poteva costituire un nuovo mercato, sia pur debole e destinato a rimanere tale nonostante tutti gli stravolgimenti che stiamo tentando di imporre a quella popolazione e quella cultura. E di nuovi mercati, per quanto poveri, l'Occidente ha estremo bisogno perché i suoi sono saturi. Perché il mullah Omar si era rifiutato di affidare all'americana Unocal la costruzione del colossale gasdotto che partendo dal Turkmenistan e attraversando l'intero Afghanistan doveva raggiungere il Pakistan e quindi il mare (un affare plurimiliardario cui era interessata mezza amministrazione Usa, da Dick Cheney a Condoleeza Rice) preferendole l'argentina Bridas diretta dall'italiano Carlo Bulgheroni. Perché il mullah Omar si era permesso, nel 2000, di bloccare in Afghanistan la coltivazione del papavero e quindi la produzione dell'oppio mandando in tilt il mercato degli stupefacenti e mettendo in crisi le grandi organizzazioni criminali legate, anche, a insospettabili classi dirigenti di altrettanto insospettabili Paesi Occidentali. Tuttavia le motivazioni economiche non erano, una volta tanto, le più

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importanti nell'aggressione all'Afghanistan. La ragione principale era un'altra. Il mullah Omar rappresentava per l'America e per l'Occidente l'Orrore allo stato puro, l'altro da sé, l'alieno, il mostro, perché alla Modernità trionfante, avanzante e conquistante osava proporre un modello del tutto antitetico, una sorta di "Medioevo Sostenibile", cioè una società regolata sul piano del costume da leggi arcaiche, risalenti al VII secolo arabo-musulmano, non alieno però dal far proprie alcune, mirate e limitate conquiste tecnologiche. Il progetto, e il sogno, di Omar, è ben simboleggiato dal dipinto con cui aveva fatto decorare una parete della camera da letto della sua cosiddetta villa (sette stanze in tutto, per lui, le quattro mogli e i figli): un immenso prato verde attraversato da un'autostrada, con qualche rada ciminiera sullo sfondo. Un'Arcadia appena un po' ritoccata. Perché una cosa il mullah l'aveva capita o intuita: che come certi elementi del mondo occidentale penetrano in una società tradizionale, come quella afgana, questa ne viene inesorabilmente disgregata e ridotta alla miseria più nera, materiale e morale: come è regolarmente avvenuto in tutti i Paesi del Terzo Mondo. In quest'ottica va vista la distruzione materiale degli apparecchi televisivi e il no alla musica rock o pop che tanto hanno scandalizzato gli occidentali (i quali peraltro, almeno sul secondo punto, avevano poco da far le verginelle: quarant'anni fa il governo di Israele, che dell'Occidente fa parte a tutti gli effetti, aveva proibito un concerto di Beatles proprio per la stessa ragione: temeva che quella musica avesse effetto negativo sui giovani di quel Paese). Va da sé che, utopico o meno che fosse, l'esperimento talebano, cioè afgano, perché il regime del mullah Omar contava sull'appoggio della stragrande maggioranza della popolazione, aveva pieno diritto di esprimersi in base al sacrosanto principio dell'autodeterminazione dei popoli che è anche uno dei punti fondanti del "decalogo" di Movimento Zero. Questo esperimento era ideologicamente intollerabile per gli occidentali, e poteva diventare anche estremamente pericoloso se quella visione pauperistica del mondo, basata sui valori e non sul dominio dell'Economia, del Denaro, della Tecnologia, avesse contagiato altri popoli, altre menti, altri cuori. Ma proprio per questo dico che la guerra all'Afghanistan (e non "in Afghanistan" come ipocritamente la si chiama) è decisiva, poiché è la lotta fra due visioni del mondo e del vivere contrapposte e inconciliabili. Non c'è dubbio che il modello di sviluppo occidentale, nato a metà del XVIII secolo in Inghilterra con la Rivoluzione industriale, abbia creato la società più efficiente che si sia mai conosciuta (anche sotto questo aspetto sta scricchiolando, vedi la recente crisi finanziaria di Wall Street, tamponata, come quella del Messico del 1996 e delle "piccole tigri" del 1997, con l'ulteriore immissione nel sistema di altro denaro inesistente: un processo che non può durare all'infinito). Ma non è affatto detto che sia la più armonica, la più serena, la più vivibile. Al contrario. Qualche dato. I suicidi a metà del 1600 erano, in Europa, 2.6 per 100 mila abitanti, nel 1850, un secolo dopo il "take off" industriale, erano diventati 6.9: triplicati. Oggi, sempre in Europa, sono 20 per 100 mila abitanti: decuplicati, con punte di gran lunga superiori proprio nei Paesi e nelle Regioni che conoscono il maggior benessere economico. E il suicidio, ovviamente, non è che la punta dell'iceberg di un malessere molto più ampio: sono malattie della Modernità. Si affacciano all'inizio dell'Ottocento, diventano un problema sociale per i ceti benestanti alla fine del secolo, tanto che

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nasce la psicoanalisi (Freud), e oggi coinvolgono, senza distinzione di classe e di popoli, tutti coloro che vivono nel nostro modello di sviluppo (in Cina, da quando è scoppiato il "boom" economico, cioè da quando ha aderito a questo modello, il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani e la terza per gli adulti). L'alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale. Il fenomeno inarrestabile della droga è sotto gli occhi di tutti. Lo chiamano il migliore dei mondi possibili, ma noi tutti, ricchi e poveri, lo viviamo con un disagio acutissimo e sempre crescente. Per la velocità, le accelerazioni, i ritmi sempre più forsennati e paranoici che impone, per l'alienazione che induce nell'uomo separandolo dagli altri uomini e, alla fine, anche da se stesso, per il fatto che in questo tipo di sistema l'individuo non può mai raggiungere un momento di equilibrio, di armonia, di pace. Colto un obiettivo deve inseguirne immediatamente un altro, salito un gradino farne un altro e poi un altro ancora e così via fino alla morte ("Produci, consuma, crepa") per ciò costretto all'ineludibile meccanismo ineludibile perché su questo si basa - che lo sovrasta. Questo modello di sviluppo si fonda sulla frustrazione perenne. Come ha detto a chiare lettere - ma considerandola cosa positiva perché economicamente produttiva - Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici dell'industrial-capitalismo (ma il marxismo non è che l'altra faccia della stessa medaglia industrialista). Questo sistema crollerà da solo. Perché si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura. Per cui, quando non potrà più crescere - e il momento non è più tanto lontano - collasserà su se stesso. E poiché si è posto e imposto come modello planetario la catastrofe sarà planetaria. Dice: ma allora non resta altro che attendere? Non è una prospettiva allegra. Ma non è l'unica. Noi, noi umani intendo, possiamo anche riprendere in mano il nostro destino senza aspettare passivamente l'ineluttabile. Dobbiamo fare molti passi indietro sulla strada del cosiddetto sviluppo, sfuggendo al miraggio del futuro orgiastico che ci viene continuamente agitato davanti come la Terra Promessa e che arretra costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa inesorabilità dell'orizzonte davanti a chi abbia la pretesa di raggiungerlo. Questo scherzetto atroce è durato anche troppo a lungo. Non si tratta, ovviamente, di scimmiottare il modello talebano. Sarebbe grottesco. I popoli tradizionali, quelli tribali, gli afgani come gli indigeni delle Isole Andemane e gli indios dell'Amazzonia, come, per altri versi, il mondo islamico, hanno la loro storia, che va rispettata. E noi occidentali abbiamo la nostra. Per noi si tratta di sottrarci al predominio dell'economia e della tecnologia che ci hanno messi al loro servizio, relegandole al ruolo marginale che avevano prima della Rivoluzione industriale, e di rimettere l'uomo al centro del sistema. Al centro di se stesso. L'Afghanistan, aggredito nel giro di vent'anni dai due Occidenti, prima quello sovietico (perché Marx è nato a Treviri, non a Kabul) e poi da quello propriamente detto, è il simbolo di una possibilità di resistenza al modello egemone. Per questo, oltre che per l'elementare diritto di un popolo di opporsi all'occupazione dello straniero, comunque motivato, noi, pur non essendo Talebani e nemmeno volendo diventarlo, nella battaglia decisiva che si svolge in quel Paese, stiamo con loro. Contro L'Occidente.

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Banca Rotta

“I derivati di Borsa sono un’arma di distruzione di massa” (Warren Buffett, multimiliardario Usa, 2002) di Federico Zamboni

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sunami. Terremoto. Uragano. Tutti termini fuori luogo, rispetto a ciò che sta accadendo nella finanza statunitense: nei crolli a catena di grandissime società – definitivamente fallite come Lehman Brothers o salvate in extremis dall’intervento dello Stato come Fannie Mae e Freddie Mac – non c’è nulla di imprevedibile. E tanto meno di inevitabile. Al contrario: ciò che sta scuotendo sino alle fondamenta il sistema creditizio americano è qualcosa che non solo andava avanti da tempo, nell’assoluta indifferenza (per non dire complicità) delle autorità di controllo, ma che scaturisce direttamente da determinate premesse. E, innanzitutto, dal dogma del massimo profitto, inteso non già come l’utile più elevato che si può conseguire attraverso una sana gestione aziendale, ma come un guadagno esorbitante che si deve perseguire in ogni istante e con qualsiasi mezzo. Lecito e illecito. Produttivo o improduttivo. Che certi comportamenti fossero non solo azzardati ma intrinsecamente scorretti, e destinati perciò, o prima o dopo, ad attorcigliarsi sulle loro stesse contraddizioni, lo poteva capire qualsiasi professionista del settore. I famigerati “mutui subprime” sarebbero crollati. La corsa al rialzo dei “derivati” si sarebbe arrestata. La carta straccia travestita da denaro sarebbe tornata, o prima o dopo, a essere carta straccia. Non è un fenomeno inedito: si chiama “bolla speculativa”. Ed è tipico dell’economia finanziaria. Quel’economia finanziaria che, basandosi solo o prevalentemente sulle quotazioni di Borsa, finisce con l’essere sempre più slegata da qualsiasi valutazione obiettiva di ciò che si compra o si vende. Mentre all’origine, infatti, le azioni sono quote della proprietà di un’azienda, il cui valore si può determinare con sufficiente approssimazione e con precisi metodi ragionieristici alla luce del patrimonio e delle aspettative di reddito, quelle stesse azioni diventano qualcosa di profondamente diverso nelle mani degli operatori professionali. Lo scopo di questi ultimi, infatti, non è detenere stabilmente i pacchetti azionari per partecipare agli eventuali dividendi, né tanto meno per acquisire il controllo della società e gestirne direttamente l’attività; il loro scopo è ottenere un lucro sfruttando a proprio vantaggio le oscillazioni del listino. Il problema è tutto qui: i prezzi dei titoli, dalle azioni alle obbligazioni fino a ogni sorta di ulteriore strumento ideato dalla fervida quanto improvvida

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inventiva degli specialisti, si alzano e si abbassano per motivi che, di regola, hanno ben poco a che fare con le vicende economiche delle aziende cui si riferiscono. L’ascesa e il declino delle quotazioni dipendono invece dai continui tentativi di speculazione di chi investe: e questo, va da sé, sfocia in uno stato di permanente instabilità, che trasforma gli scambi in altrettante scommesse su ciò che accadrà di lì a qualche giorno. O, persino, di lì a qualche ora.

Da 66 dollari a 24 cents Il caso Lehman Brothers è esemplare, in questo senso. A marzo 2007 poteva vantare una capitalizzazione intorno ai cinquanta miliardi dollari. Poi, com’è noto, è scoppiata la crisi dei subprime e Lehman ha cominciato a subirne i contraccolpi. I venti di tempesta hanno ispirato nuove rotte alla speculazione Si poteva guadagnare sulle difficoltà altrui? Certo che si poteva. E perché non farlo, allora? I predatori si sono trasformati in prede. L’inversione di tendenza si è consolidata. Ha preso velocità. È diventata precipitosa, massiccia, inarrestabile. Lehman Brothers è venuta giù come un castello di carte. Nel volgere di due sole sedute ha perso l’80% del suo valore. Le stesse azioni che un tempo erano scambiate a 66 dollari sono precipitate a 24 centesimi. E finalmente, di fronte all’incombere del crac, le magagne della gestione e quelle dei bilanci non hanno più goduto di alcun paravento. Ovvio. Quando tutto va bene, e i profitti fioccano, nessuno avverte il bisogno di andare a verificare se i conti sono davvero in ordine; quando la pacchia finisce, e si rischia di perdere sempre di più a ogni giorno che passa, si accendono i riflettori e si vorrebbe che tutto fosse a posto. Lehman, in realtà, non aveva fatto nulla di diverso da quello che stavano facendo tutti: aveva acquistato enormi quantità di titoli che promettevano rendimenti straordinari ma che non poggiavano su garanzie adeguate; poi, dopo averli acquistati, aveva considerato i guadagni futuri, che esistevano solo sulla carta, come introiti sicuri, che autorizzavano a distribuire a piene mani profitti alla clientela e bonus ai dipendenti, grandi manager in testa. Inoltre, nel falso e quasi delirante presupposto che quei crediti fossero solidi, si era indebitata a sua volta per centinaia di miliardi. Tutto bene, finché il giochino è proseguito senza intoppi. Un disastro quando si è posto il problema di verificare se, sotto quella superficie entusiasmante, ci fosse qualcosa di meglio della sicurezza (sicumera) di cui tutti facevano sfoggio. La credibilità di Lehman, che era stata costruita su oltre 150 anni di storia e che era sopravvissuta alla stessa Crisi del ’29, si è dissolta come neve al sole. I suoi crediti erano fittizi e i suoi debiti erano reali. Reali e immensi. Significava insolvenza. Significava impossibilità di avviare nuove operazioni. O si trovava al più presto il denaro (il fiume di denaro) necessario a uscire dalla palude, oppure il destino della banca era segnato. Sappiamo come è andata. La Korea Development Bank, il “fondo sovrano” che stava trattando l’acquisto di una quota, si è ritirata e i soldi non si sono trovati. Lehman ha dovuto alzare bandiera bianca e riconoscere di essere arrivata al capolinea. Fine della corsa. Miliardi di dollari in fumo e migliaia di dipendenti a casa. La malinconica agonia della liquidazione coatta. Con la beffa aggiuntiva, per di più, di rimanere fuori dall’epocale piano di salvataggio deciso di lì a poco da George W. Bush. Lehman Brothers era troppo indebitata per salvarsi da sé. Ma essendo “solo” la quarta banca d’affari americana non lo era abbastanza per minacciare col proprio crollo la sopravvivenza dell’intero sistema e, quindi, per essere salvata

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anch’essa dal colossale intervento di Washington. Eppure, la crisi americana (più che mai “made in USA”...) un merito ce l’ha. Quello di aver accelerato determinate dinamiche fino a renderle macroscopiche. Lampanti. Inequivocabili. All’origine di tutto, infatti, non c’è solo lo scriteriato avventurismo di broker insaziabili che, per quanto numerosi, potrebbero comunque essere considerati una minoranza impazzita da contrapporre a una maggioranza avveduta. Nient’affatto. La chiave di volta è una cultura dell’egoismo illimitato, della competizione sfrenata, dell’apoteosi degli individui (e delle lobby) che si dimostrano in grado di affermare se stessi a danno degli altri. La vera lezione che si dovrebbe trarre dal disastro statunitense, quindi, è che l’intero edificio del liberismo poggia su premesse sbagliate.Tanto illogiche quanto immorali. A differenza di quello che si afferma di solito, non è

“Nei tempi di vacche grasse il top management incassa stock option e bonus stratosferici. Quando le aziende sono rovinate il conto passa alla collettività” vero che il libero mercato si regola da sé: il libero mercato, da sé, può solo condurre alle metastasi autodistruttive cui stiamo assistendo in questi giorni. Non è vero che la somma di innumerevoli egoismi si ricompone fatalmente – chissà poi perché – in un beneficio collettivo generalizzato: la somma di innumerevoli egoismi conduce fatalmente a società dilaniate dalla lotta fratricida tra i suoi stessi membri, che nell’ansia di arricchirsi disconoscono ogni altro valore e si preoccupano solo che dalla loro condotta scaturisca un profitto. Anzi: il massimo profitto possibile. E non è vero, infine, che il “libero mercato” cresce tanto più forte e rigoglioso quanto più lo si affranca da qualsiasi regola. L’abusato slogan di epoca reaganiana secondo cui “lo Stato non è la soluzione del problema, lo Stato è il problema” si è rivelato, appunto, solo uno slogan. Che si spegne di fronte a un’osservazione tanto elementare da poter essere assunta come un assioma: non esiste attività di grande rilievo che possa essere sottratta al controllo collettivo. Cioè pubblico. Cioè statale. Ogni fenomeno che investa la società nel suo complesso, coinvolgendo la generalità dei cittadini, non può non essere subordinato al superiore interesse dell’intera popolazione, con tutto quello che ne consegue in termine di vincoli e di verifiche.

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Oltretutto, come dimostrano gli ultimi sviluppi della crisi statunitense, col governo federale che corre in soccorso delle finanziarie a un passo dal fallimento e non esita a scaricare sui contribuenti l’immane peso dei loro debiti, i capitalisti d’assalto rivendicano la più assoluta autonomia fin tanto che i loro traffici procedono a gonfie vele. Ma anche i più spietati di loro non disdegnano di esseri tratti d’impaccio, quando non sanno più uscire dai labirinti che essi stessi hanno creato. L’otto settembre, all’indomani della decisione del Tesoro Usa di acquisire il controllo di Fannie Mae e Freddie Mac, accollandosene i debiti, un commentatore riassumeva così l’essenza di quanto stava avvenendo: “È un nuovo scandalo Enron, un altro colpo alla credibilità del sistema finanziario americano. Da un crac all’altro, la costante è la socializzazione delle perdite provocate da manager incompetenti e disonesti. Nei tempi di vacche grasse il top management incassa stock option e bonus stratosferici. Quando le aziende sono rovinate, il conto passa alla collettività. Si stravolge così tutto il sistema di incentivi e deterrenti che è l’abc dell’economia di mercato”. Un anonimo blogger di dubbia competenza? Un marginale, irrilevante sopravvissuto alla morte delle ideologie, tuttora pervaso di massimalismo anticapitalista e di pregiudizi antiamericani? Macché. Federico Rampini di Repubblica.

E adesso? Sono i giorni del ripensamento. Si contempla il disastro – augurandosi con malcelato nervosismo che l’infezione esplosa oltreoceano sia realmente stroncata dalla cura shock decisa da Washington, e non degeneri perciò in quella pandemia che non lascerebbe scampo alle fragili economie europee – e si auspica una stagione di maggiori tutele e di ritrovato equilibrio. Ancora una volta, si confida che la chiave di volta consista nella rettifica di alcuni aspetti secondari, che ci sollevi dalle spiacevoli turbolenze nelle quali siamo incappati ma che lasci inalterato tutto il resto. E nessuno, proprio nessuno, si azzarda a dire che il problema è nella radice stessa del capitalismo, nella sua pretesa di moltiplicare il denaro rapidamente e all’infinito. Nessuno si azzarda a indicare il nemico pubblico numero uno nella finanziarizzazione dell’economia, che nulla produce e tutto prosciuga. Nessuno chiede, non foss’altro che come provocazione, una moratoria internazionale sulla causa principe della crisi: quei derivati di Borsa che servono solo a facilitare le scorribande degli speculatori senza scrupoli, trasformando gli investimenti in puro gioco d’azzardo e mettendo a repentaglio il futuro di tutti noi.

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Gli Stati Uniti e il keynesismo militare di Carlo Gambescia

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on c’è che dire, la decisione del governo federale americano di nazionalizzare Freddie Mac e Fannie Mae (le due istituzioni semi-pubbliche incaricate di assegnare mutui a buon mercato) è di grandissima importanza. E le conseguenze potrebbero addirittura essere superiori a quelle derivanti dai provvedimenti presi in materia da Franklin Delano Roosevelt durante la Grande Depressione degli anni Trenta. E nel frattempo è crollata pure la Lehman Brothers, la superbanca Usa. Ne vedremo perciò delle belle. Citare è da pedanti, ma va qui ricordata una pagina del grande storico americano,Arthur M. Schlesinger. Il quale scrisse che “nel 1933 la regolamentazione finanziaria sembrava essere solo una parte marginale del New Deal” (A.M. Schlesinger, L’età di Roosevelt. L’avvento del New Deal, il Mulino 1963, p. 442). Pertanto il “liberista” Bush pare essere andato ben oltre lo statalista, se non “socialista” Roosevelt, come lo si definiva crudamente negli anni Trenta, nei corridoi delle Camere di Commercio. Il provvedimento è importante per almeno tre ragioni. In primo luogo, come detto, perché non ha precedenti. E questo in una nazione dove, da sempre, democratici e repubblicani scorgono in qualsiasi intervento pubblico, anche minimo, un attentato alla libertà economica individuale. In secondo luogo, l’inflazione americana, di conseguenza, continuerà a crescere, espandendosi a macchia d’olio anche all’estero. Certo, potrebbe essere sterilizzato il dollaro come moneta di pagamento internazionale. Cosa che difficilmente accadrà, perché una misura del genere rischia di compromettere i rapporti tra gli Stati Uniti e Ue. Infatti - e non esageriamo - un solo accenno da parte europea di possibile rifiuto del dollaro in favore dell'euro nelle transazioni internazionali, potrebbe addirittura scatenare una guerra con gli Usa, prima economica e poi in senso letterale. Pertanto, vista la mancanza di coraggio delle classi dirigenti europee, pacifiste per partito preso, la crisi economica rischia di farsi più pesante anche in Europa. E senza alcuna concreta contropartita positiva per noi. Se non quella pseudomorale della solidarietà atlantica... Chi si contenta gode. In terzo luogo, gli Stati Uniti, stretti nella morsa dell'inflazione crescente e alle prese con una crisi sociale sempre più grave, potrebbero puntare sul nemico esterno. Nel senso di accentuare l’impegno militare nel mondo, come gradita valvola di sfogo economico per il complesso militare-industriale, nonché come risposta ai crescenti problemi occupazionali e di tipo debitorio

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che attanagliano il popolo americano:“arruolarsi” anche nelle industrie e nei servizi, indirettamente collegati alle forze armate, potrebbe costituire una “ciambella di salvataggio” per molti americani “falliti”, a causa delle crisi bancaria. Non va dimenticato, tra l’altro, che per coloro che vanno in guerra - come già avvenne nel 1941 - la legge americana prevede ancora la sospensione dell’esazione coattiva degli eventuali debiti contratti nella vita civile. Si tratta di un'astuta “metodologia” parabellica che risale a Roma antica, e tuttora in uso anche in altre nazioni.

Le intuizioni di Sombart Ma sotto l’aspetto dei rapporti tra capitalismo americano e istituzioni statali può essere utile andarsi a rileggere un vecchio ma non superato libro di Werner Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo? ( Bruno Mondadori 2006): socialismo, attenzione, anche come statalismo arrogante. Un questione che aveva così incuriosito Sombart, reduce nel 1905 da un viaggio negli Stati Uniti, fino al punto di scrivervi sopra un libro, uscito nel 1906. Per Sombart il capitalismo americano era già all’epoca una specie di spugna, capace di assorbire le menti di uomini e

“In ogni americano cogliamo un’irrequietezza, una brama e una smaniosa proiezione verso l’alto e al di sopra degli altri” donne di ogni razza e cultura. In che modo? Dando a tutti, ma solo sulla carta, la possibilità di arricchirsi. Ma ascoltiamo Sombart: “Se il successo è il dio davanti al quale l’americano recita le sue preghiere, allora la sua massima aspirazione sarà quella di condurre una vita gradita al suo dio. Così, in ogni americano - a cominciare dallo strillone che vende i giornali per strada - cogliamo un’irrequietezza, una brama e una smaniosa proiezione verso l’alto e al di sopra degli altri. Non è il piacere di godere appieno della vita, non è la bella armonia di una personalità equilibrata possono dunque essere l’ideale di vita dell’americano, piuttosto questo continuo ‘andare avanti’. E di conseguenza la foga, l’incessante aspirazione, la sfrenata concorrenza in ogni campo. Infatti, quando un individuo insegue il successo deve costantemente tendere al superamento degli altri; inizia così una steeple chase, una corsa a ostacoli (…). Questa psicologia agonistica genera al suo interno il bisogno di totale libertà di movimento. Non si può individuare nella gara il proprio ideale di vita e desiderare di avere mani e piedi legati: L’esigenza del laissez faire fa parte perciò di quei dogmi o massime che (…) si incontrano inevitabilmente ‘quando si scava in profondità nello spirito del popolo americano’ ” (p. 17).

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Il lavoratore americano Ovviamente, Sombart colloca queste costanti psicologiche e culturali nell’alveo di una società ricca di risorse naturali, lontana anni luce dal feudalesimo europeo, e le cui élite sembravano essere, almeno formalmente, aperte a tutti. Una società, ricca e libera, dove ogni rapporto economico e politico è affrontato in termini di interessi individuali e mai di classe. Da questo punto di vista sono molto attuali le pagine dedicate alla posizione politica, sociale ed economica dell’operaio americano, il cui tenore di vita, già a quei tempi, nota Sombart, “lo rend[e] più simile al nostro ceto medio borghese, anziché al nostro ceto operaio” (p. 125). Ma altrettanto significativo è quel che viene osservato a proposito dell’appartenenza politica ai due grandi partiti “tradizionali”, il repubblicano e il democratico. Scrive Sombart: “ La natura e le caratteristiche dei grandi partiti (…), tanto la loro organizzazione esterna, quanto la loro assenza di principi, quanto ancora la loro panmixie sociale (…) influenzano nettamente le relazioni tra i partiti tradizionali e il proletariato. Innanzitutto nel senso che agevolano oltremodo l’appartenenza del proletariato a quei partiti tradizionali. Perché in essi non va vista un’organizzazione classista, un organismo che antepone specifici interessi di classe, ma un’associazione sostanzialmente indifferente che persegue fini condivisibili anche, come abbiamo potuto vedere, dai rappresentanti del proletariato (la caccia alle cariche pubbliche!)” (p. 69). E lo stesso discorso, viene esteso ai sindacati e alle associazioni professionali, dal momento, nota Sombart, che “ mentre da noi [in Germania] gli individui migliori e più dinamici finiscono in politica, in America, i migliori e più dinamici si dedicano alla sfera economica e nella stessa massa prevale, per la medesima ragione, una “supervalutazione dell’elemento economico: perché è seguendo questo principio che si pensa di poter raggiungere in forma piena l’obiettivo al quale si aspira”: il successo sociale. (p. 18).

Il keynesismo militare Insomma Sombart ci spiega le ragioni della forza del capitalismo made in Usa: ideologia del successo economico, individualismo concorrenziale, ma anche “fame” smodata di consumi sociali. Tuttavia il sociologo tedesco intuiva che il socialismo (anche in veste di statalismo, e dunque di controllo pubblico del mercato) si sarebbe prima o poi imposto anche negli Stati Uniti. E quando? Una volta spariti “gli spazi aperti”, come disponibilità di terre libere (il Grande Ovest), sui quali far sciamare, come liberi agricoltori, i “soldati-operai” dell’“esercito industriale di riserva”: il futuro ceto medio. Infatti, secondo lo studioso tedesco, la “consapevolezza di poter diventare in qualsiasi momento un libero agricoltore” riusciva a trasformare “da attiva in passiva ogni opposizione emergente a questo sistema economico”, troncando “sul nascere ogni agitazione anticapitalistica” (p.151). Tuttavia le terre libere sono state occupate da un pezzo, gli indiani massacrati, e il capitalismo Usa è ancora lì. E allora? Diciamo, andando oltre Sombart, che l’attuale “frontiera” americana si è enormemente dilatata. E che perciò la crescente espansione economica degli Stati Uniti e l’elevato tenore di vita dei suoi ceti medi (ora in discussione a causa della crisi), vengono pagati in dollari sonanti dai paesi più deboli politicamente, ma

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ricchi di risorse naturali. Si pensi all’America Latina, e alle economie “dollaro-dipendenti”. Se così fosse, i recenti provvedimenti, andrebbero a dare man forte a una specie di capitalismo armato. Che al “libero agricoltore” ha sostituito il “libero finanziere” con l’ indotto che giunge fino a coloro che hanno concesso e acquisito i prestiti subprime... E la cui nuova frontiera è non più il Far West ma il mondo intero. E i cui interessi vanno politicamente difesi a ogni costo, pena il crollo sistemico, anche attraverso le nazionalizzazioni. Perché, attenzione, si tratta di un capitalismo dominato da quel complesso militare-industriale, cui abbiamo accennato all’inizio. Un capitalismo a grandi linee keynesiano ma militarizzato, basato, almeno a far tempo dal 1945 e soprattutto dopo il 1991, sul sostegno pubblico all’economia interna e l’espansione armata esterna. E quindi capacissimo di trasporre il dogma del laissez faire - individuato da Sombart - dal piano individuale a quello collettivo dei popoli, come lotta per la sopravvivenza del più forte. Gli Stati Uniti, ovviamente. Su questa situazione non potrà influire il colore della pelle del prossimo presidente Usa. Un povero burattino nelle mani del complesso militareindustriale ( in argomento si veda dello storico Arno J. Mayer, I presidenti cambiano l’impero americano resta, in “Le Monde Diplomatique il manifesto”, agosto-settembre 2008, n.8/9, pp. 20-21). Per parlar chiaro, un oligarchia, quella Usa, che vede di buon occhio la guerra totale esterna, perché preferibile alla guerra civile interna... O comunque, che non disdegna la sua progressiva intensificazione, famelicamente memore degli altissimi profitti incamerati durante la Guerra Fredda. Altro che il soft power di Joseph Nye, politologo liberal, o il “nuovo sogno americano” a buon mercato, impersonato dal democratico Obama…

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“I governi fanno i camerieri dei banchieri” Elio Lannutti Senatore dell’Italia dei Valori Presidente dell'Adusbef, ha pubblicato recentemente presso Arianna Editrice il libro "La Repubblica delle Banche" (234 pagine, 13.50 euro), un durissimo atto d'accusa al sistema bancario e agli altri potentati che vi si collegano (politica e media in primo luogo). Le analisi e le affermazioni di Lannutti sono estremamente forti e interessanti - nonché ampiamente documentate - e passano in rassegna gli abusi e i veri e propri illeciti commessi dalle banche, tutte private anche quando sembrano pubbliche come la Banca di'Italia, la Bce e la Fed. Un vero e proprio manuale su un sistema tremendo per i Paesi e i cittadini, con la spiegazione di meccanismi che non sono stati pubblicati altrove (dell'attuale diffusione invece va dato ampio merito all'autore e all'editore). Abbiamo raccolto una sua intervista - il 23 settembre scorso puntando l'obiettivo, ovviamente, sulla crisi della finanza americana. Per prima cosa un commento su quanto sta accadendo negli Stati Uniti. Dalla lettura del suo libro, ci sembra, si tratta di un fenomeno ampiamente prevedibile. Certamente prevedibile, bastava capire realmente come funzionano tutti i prodotti astrusi che le banche hanno venduto e di cui si parla in questi giorni, che si chiamino prodotti derivati o altro. E c'è pure da dire che quanto accaduto è il fallimento di un ordine monetario che fa acqua da tutte le parti. È per questo che noi da qualche anno, attraverso l'Adusbef ma non solo, chiediamo una riforma dell'ordine monetario, una nuova Bretton Woods. E abbiamo chiesto anche al governo, al ministro dell'economia Tremonti (che ha clonato un pò alcune nostre proposte) che al prossimo G8 che organizzerà l'Italia alla Maddalena a Luglio del 2009, si inserisca almeno all'ordine del giorno dei lavori la riforma dell'ordine monetario, per azzerare quello che c'è: centinaia di miliardi di dollari solo in prodotti fuori bilancio. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che ci saranno almeno 3-4 trilioni di dollari di cui la

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Banca del regolamento internazionale fa fatica a tenere il conto. Queste sono alcune delle questioni che noi abbiamo denunciato da tempo. Ci sarà una mozione per la riforma dell'ordine monetario, al Senato, dal gruppo dell'Italia dei Valori, ma anche il PD e anche altri dell'attuale maggioranza che la condividono. Bisognerebbe che le deleghe che i governi (che bene o male sono eletti democraticamente: possono piacere o meno però hanno il suffragio del popolo) hanno dato in bianco a questi banchieri centrali, a questo Super Mario de noialtri, Mario Draghi, l'uomo della Goldman Sachs che gli ha svenduto l'Italia ricevendo in cambio la vice presidenza per l'Europa - in quella veste indagato per frode fiscale da parte della procura di Pescara nel silenzio tombale di un'informazione di regime in mano alle banche e controllata dalla Banca d'Italia - fossero spiegate. Noi un giorno vorremmo arrivare a portare questi signori davanti a un tribunale internazionale: Draghi, Trichet, Greenspan, Bernanke. Insomma questa cricca che governa gli istituti del mondo deve andare davanti al tribunale per crimini economici contro l'umanità. Di Lehman Brothers si sapeva tutto, si sapeva quello che queste banche d'affari facevano.Tra l'altro andavano a braccetto con Padoa Schioppa, come con Tremonti, a prescindere dal colore dei governi perchè come raccontiamo anche nel libro citando Ezra Pound, “i governi fanno i camerieri dei banchieri”. A livello ancora più ampio, il crollo del libero mercato, che abbiamo visto poi libero non essere, non potrebbe rappresentare un pò il crollo di tutto l'Occidente dal punto di vista economico? Questa cosa è paragonabile alla caduta del muro di Berlino e questo piano americano che ricade come sempre sui contribuenti, aumenterà il debito – e già gli americani sono indebitati con le carte di credito - e, ripeto, l'autore di queste cose si chiama Alan Greespan. Colui che dopo l'11 settembre rilanciò l'economia americana sui debiti, abbassando il costo del denaro, portando il tasso di riferimento all'1%, attirando nella trappola milioni di americani, una decina di milioni che non avrebbero mai potuto comperare una casa, con la complicità delle agenzie di rating. Moody’s , Standard & Poor’s, Fitch: le tre sorelle del rating americano che hanno analoga responsabilità e che vanno a braccetto con le banche d'affari e con i banchieri centrali. Almeno negli Stati Uniti d'America qualche volta c'è il tintinnio delle manette, in Italia neanche quello: vengono premiati i banchieri, più fanno disastri e più vengono premiati. Poi se lei mi permette questo SuperMario de noialtri che ha impiegato un anno a capire che la crisi c'era: l'ha nascosto al Presidente del Fondo di Stabilità Finanziaria del G8, quindi dei governatori delle Banche Centrali. Draghi ha affermato che l'Italia sarebbe immune dalla crisi. Così come le banche, queste grandi banche italiane (Unicredit e San Paolo Imi) le quali

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insieme al Ministero dell'Economia hanno detto che le banche italiane sono al riparo: ebbene noi gli abbiamo scovato cinque emissioni di obbligazioni, alcune che scadono a ottobre, 300 milioni di euro, altre che scadono nel 2009, fino al 2014. Obbligazioni per 3,2 miliardi che non si sa in mano a chi siano. Questi signori "alla Profumo", che sono abituati a comperarsi l'informazione, a ricattare l'informazione, che purtroppo non è libera, credono di avere tutti a libro paga. Noi non siamo al loro libro paga! Ieri abbiamo fatto una denuncia alle procure della Repubblica di Roma e di Milano perchè Lehman Brothers sapeva da un anno che avrebbe fatto fallimento eppure Unicredit ha infarcito le polizze index/unit vendute nel circuito bancario di bond Lehman Brothers. Guardi, da febbraio lo si sapeva, nella rete bancaria (e abbiamo le prove). Dunque confermo: l'Italia non è immune. Draghi non raccontasse frottole, e Tremonti, che pure lui quando è stato Ministro dell'Economia ha fatto cartolarizzare alcuni titoli dalla Lehmann, dicesse la verità. Io ho chiesto che venisse a riferire in Parlamento al Senato e faremo anche delle interrogazioni.Vogliamo la verità, non bisogna nascondere quella che è la grandissima responsabilità di queste banche, di questi signori. Come commenta la dichiarazione di Massimo Teodori - raccolta ieri sera dal tg la7 (22/09/2008)? Il giornalista che conduceva il telegiornale gli ha chiesto un commento su quanto stava succedendo negli Stati Uniti, ovvero il salvataggio statale di banche in crisi, e Teodori gli ha risposto che questa è l'ennesima prova della grandezza dell'America, che riesce a reinventarsi anche in un momento di grande difficoltà. La grandezza dell'America? Quella che chiamano “la grandezza dell'America” è in realtà un disastro che non ha paragoni e che aumenterà il debito degli Stati Uniti d'America e lo farà pagare a tutti gli altri. Una volta con la forza del dollaro, quindi con la leva monetaria, una volta con la debolezza del dollaro, a seconda di come vogliono indirizzare le importazioni e le esportazioni. Ma quale grandezza dell’America! Il fallimento degli Stati Uniti d'America, della finanza allegra, è il fallimento di un regime. Un consumatore italiano come può difendersi e in quale modo può fare a meno delle banche? E che difesa può attuare? Oltre al fatto che questi signori, come noi diciamo, sono il concentrato di mafia, camorra e ndrangheta messi insieme anzi, il sistema mafioso ha delle regole che rispetta, questi neanche le rispettano: Bertolt Brecht scrive che non c'è differenza tra chi fonda una banca e chi la svaligia - bisogna anche aggiungere che quando un mutuatario che non ce la fa più a pagare fa una rapina in banca, per pagare la rata di mutuo, ebbene è giustificato. I banchieri invece non hanno neanche questa giustificazione, perché alleggeriscono le tasche degli italiani, dei consumatori, non rispettano le leggi, dettano le loro condizioni - per esempio l'azione di classe che doveva entrare in vigore dal primo luglio, è stata rimandata alle calende greche per l'intervento diretto della Banca d'Italia, di Draghi, dell'Abi di Faissola, dell'Ania. Ania e Abi sono un concentrato di mafiosità allo stato puro per intendere quello che le ho detto prima, questi fanno quello che vogliono, le polizze non scendo-

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no, dettano le loro regole. Gli italiani che possono fare? Hanno subito mutui a tasso variabile - io lo racconto - loro hanno messo le mani sui tribunali, con Asteimmobili (società che gestisce le aste immobiliari delle case pignorate posseduta dalla banche stesse N.d.R.), dettano le loro condizioni ai governi. I mutuatari devono pagare il 60% più caro: 3 milioni e 200 mila famiglie su 3 milioni e mezzo sono in crisi: che si può fare? Bisogna informarsi, bisogna battere i pugni sul tavolo, bisogna ribellarsi alla repubblica delle banche. Adesso i correntisti sfruttati devono imparare a ribellarsi, a essere consapevoli, a unirsi, a battere i pugni sl tavolo, ad andare dal direttore, non dico a prenderlo al cravattino, ma a informarsi, a non subire passivamente le angherie di un sistema paramafioso come quello bancario. L'ultimo consiglio, non so se lei è d'accordo ma suppongo di sì, visto che è nella prefazione al suo libro firmata da Beppe Grillo, è sostanzialmente quello di non indebitarsi. Come si può fare al giorno d'oggi? E questa è l'altra cosa. Perchè a fare debiti si fa un favore agli usurai e gli usurai sappiamo chi sono. Io quando lavoravo in banca mi ricordo che c'erano signori che erano funzionali alle banche stesse e lavoravano nel cuore di una grande banca di una grande filiale a 200 metri da Montecitorio. Ebbene, quando, poniamo il caso, a un correntista arrivava un assegno in scadenza e non c'era la copertura, o la cambiale da pagare, ebbene allora c'era lo strozzino pronto, che era funzionale, che faceva il prestito. Oppure, il malcapitato, veniva consigliato, magari, di andare da alcune agenzie sopra le banche stesse a rivolgersi a questi cravattari. Allora non indebitiamoci. È una cosa difficile dopo quello che è accaduto, me ne rendo conto. Io ho scritto un altro libro, “La rapina del secolo”, dove ho documentato quello che è accaduto con il pretesto dell'euro: 140 miliardi di euro scippati dalle tasche dei consumatori da coloro che hanno avuto la possibilità di fare prezzi e tariffe, comprese le banche, le assicurazioni ecc. Quindi bisogna evitare i debiti. Non ascoltiamo queste Cassandre, questi consigli interessati che dicono “compra oggi pagherai fra due anni”: i tassi d'interesse in Italia sono altissimi. Un credito, il più garantito, la cessione del quinto dello stipendio, è a tasso di interesse del 20%, un tasso da usuraio. Tassi da vero e proprio strozzo. E quindi bisogna ribellarsi a questi signori, cercare di non indebitarsi e magari evitare di mettere i soldi in banca. Che cosa intende per evitare di mettere i soldi in banca? Piuttosto che depositare in banca i mille euro, che ti danno un tasso di interesse uguale a zero, prestateli agli amici quando serve. Si può ritornare a quelli che eravamo una volta, a quello che si faceva una volta: quando una famiglia aveva bisogno c'era la solidarietà. Ebbene, se abbiamo mille euro in più, quei mille euro magari prestiamoli ai nostri amici fidati, ai nostri parenti, più che versarli in banca e darli agli strozzini autorizzati.

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Usa-Russia atto II (e l’Europa?)

Siamo certamente in una fase di passaggio epocale, ma la Russia non è una alternativa agli Stati Uniti, sia chiaro. Il nodo rimane il nostro continente. di Valerio Lo Monaco

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entre la maggior parte delle persone era in vacanza, mentre più di qualcuno ancora si entusiasmava nel seguire il baraccone delle Olimpiadi pechinesi e qualcun altro seguiva la cronaca delle convention spettacolo d’oltre Oceano per le nomination alla guida della Casa Bianca – alcuni addirittura con una euforia ingiustificata per Barack Obama1 – gli accadimenti nel Caucaso si incaricavano di segnare una svolta epocale: smentire clamorosamente e definitivamente tutti gli adepti della fine della storia e Fukuyama (la cui capacità e il suo libro famoso possiamo definitivamente considerare come sovrastimati); rendere manifesta ancora una volta la incapacità e il declino dell’Amministrazione Bush e più in generale degli Stati Uniti d’America; evidenziare l’inconsistenza dell’Unione Europea e l’ipocrisia delle amministrazioni dei maggiori paesi che ne fanno parte; confermare che un cambiamento sensibile di rotta, nel mondo, è ancora molto al di là dal venire. A questo aggiungiamo che anche negli ambienti generalmente ostili al mondo unipolare dell’ideologia Usa, tra i reduci della caduta del muro di Berlino e in senso lato anche tra la maggior parte di quelli che in un modo o in un altro si auguravano e si augurano un cambiamento delle carte in tavola rispetto al dominio del modello liberista statunitense2, è mancata a nostro avviso la capacità di mettere in evidenza un aspetto fondamentale di ciò che è accaduto e delle prospettive che questo comporta. Sempre che, beninteso, si voglia guardare le cose da un punto di vista differente rispetto alla direzione che il mondo intero, o quasi, ha preso dalla rivoluzione industriale a oggi e in particolare modo dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri. Cercheremo di puntare l’obiettivo soprattutto su quest’ultimo argomento, che è naturalmente quello più importante ai fini della messa in prospettiva di chi vuole capire ciò che accade e in particolare si adopera, mediante attività culturale e politica, per un sensibile cambiamento del sistema nel quale stiamo vivendo.

La situazione odierna Al momento nel quale stiamo andando in stampa naturalmente le cose sono in divenire di ora in ora, e sarebbe superficiale, oltre che in fin dei conti superfluo, cercare di ipotizzare gli sviluppi imminenti della situazio-

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ne. Almeno per quanto riguarda la cronologia delle possibili mosse a breve e medio termine. Così come è difficile tuttora – e probabilmente lo resterà - sapere con esattezza ciò che realmente è accaduto il 7 Agosto, i giorni precedenti e quelli immediatamente seguenti. Quel che è certo riguarda il fatto che quel giorno, il leader Saakashvili ha mosso le sue truppe alla riconquista della provincia ribelle dell’Ossezia, dando il pretesto a Putin di intervenire e annettersi Abkhazia e Ossezia del Sud. Stabilendo – diretta conseguenza - delle teste di ponte in Georgia. Questa guerra lampo ha di fatto inflitto un colpo a tutte le volontà angloamericane di mantenere e consolidare i corridoi energetici Asia-Europa, tra Caucaso e Mar Nero, alternativi a quelli già sotto controllo russo. Cosa che di fatto ha riaperto le ostilità tra America e Russia. Ipotetiche teorie riguardo lavori sotterranei americani, attestanti un sollecito a Saakashvili nel compiere l’impresa con promesse di appoggio da parte delle forze statunitensi (che poi non ci sono state), così come quelle che si sostengono da più parti indicando il beneficio che la campagna attuale di McCain potrà avere dalla situazione che si è venuta a creare oggi, possono essere fantasiose quanto veritiere ma rientrano nel campo, appunto, delle ipotesi. Ad avallare tali ipotesi, però, si potrebbe avere conferma considerando lo scatenarsi di apocalittiche campagne mediatiche relative all’annuncio di una nuova guerra fredda. Cosa che, come sempre accade (e come abbiamo avuto modo di appurare anche nella storia americana molto recente) avvantaggia con tutta evidenza la penetrazione nell’opinione pubblica della paura, con benefici politici per chi propone una azione decisa dal punto di vista militare (e dunque con incremento di commesse per le aziende del settore…) come, appunto, il candidato Repubblicano alla guida della Casa Bianca. Se come detto è impossibile conoscere la verità e probabilmente, in merito, non la si conoscerà mai pienamente, ciò non toglie che alcuni effetti si siano verificati e possano essere messi abbastanza facilmente a fuoco. Molto più interessante e doveroso è infatti segnalare alcuni dati che sono emersi e che possono essere archiviati ormai come acquisiti, sia per focalizzare con buona approssimazione ciò a cui si sta andando incontro sia per capire – e questo è il punto – se ciò che è avvenuto e ciò che da quanto avvenuto potrà avvenire è potenzialmente in grado, o meno, di cambiare sensibilmente le cose. Capire ciò che è successo comporta l’analisi delle motivazioni di quanto fatto dalla Russia, di come hanno reagito gli Stati Uniti, i suoi paesi satelliti, l’Unione Europea e, da ultimo, citare i recentissimi sviluppi dell’America Latina: Bolivia e Venezuela in primo luogo. Ma andiamo per ordine. Nel Caucaso si evidenzia il cortocircuito di un impero frustrato e pronto alla riscossa, ovvero quello russo, quindi di quello americano in declino oltre che in questo frangente, anche per motivi di politica interna (la fine del disastroso mandato Bush) di fatto assente, e infine di quello europeo incompiuto, vuoto ed esangue.

Russia Il tentativo della Russia di sedersi nuovamente al tavolo dei grandi del mondo, di contare sul piano geopolitico ed economico e ciò che ha indotto Putin a farsi eleggere come Primo Ministro da Medvedev (dopo averne favorito l’elezione a Presidente) in quanto impossibilitato dalla legge a ricevere un terzo mandato, è evidente già da tempo. La Georgia

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e i fatti di Ossezia e Abkhazia, quindi, hanno un valore particolare per quanto riguarda il posizionamento geografico e il passaggio dei gasdotti verso l’Europa e un valore generale, simbolico ma evidentissimo, per quanto concerne invece le relazioni internazionali e più nello specifico i messaggi che tali azioni rivolgono agli Stati Uniti e al mondo intero. Insomma il dopo guerra fredda è concluso così come la volontà di espansione libera dell’Occidente all’interno dell’ex impero sovietico senza che Mosca si faccia sentire. La Nato ora sa che più in là di quanto si è già spinta non potrà fare, a meno di dover fare i conti seriamente con Putin. La Russia vuole dettare una linea dove al centro sarà posizionata Mosca e non Washington, e quanto successo in Georgia è non solo un segnale ma soprattutto un test: il vero obiettivo strategico di medio periodo, oltre a quello di voler mostrare

I corridoi americani sono ormai un lontano ricordo, e a meno di altri colpi di scena, l’unica alternativa resta Teheran, con tutto il corollario che questa operazione comporta... nuovamente la volontà di avere una sua area di influenza, è l’Ucraina, che ha un valore decuplicato rispetto alla Georgia. Test, al momento, peraltro ampiamente riuscito. Debolissima e ininfluente la risposta americana (non pervenuta affatto quella europea…), Mosca ha vinto nel Caucaso, tornando alla ribalta dal punto di vista militare e geopolitico, dimostrando che gli Usa non sono in grado di difendere realmente i propri stati satelliti e che Putin non ha affatto timore di non poter partecipare alla Organizzazione mondiale del commercio. Quest’ultima cosa, semplicemente perché, se non l’una l’altra cosa: sa perfettamente di quanto l’America abbia bisogno della Russia stessa nel braccio di ferro con l’Iran e nel posizionamento strategico delle vie per i rifornimenti alle truppe Nato in Afghanistan senza dover passare dal pericoloso Pakistan; può tranquillamente pensare a un nuovo inedito G8, o meglio, a un G4 con altri protagonisti emergenti, ovvero Cina, India e Brasile. Senza considerare, cosa ancora più determinante, l’aspetto legato agli idrocarburi: in questo caso, Mosca ha fatto strike. I corridoi strategici americani sono ormai un lontano ricordo, e a meno di altri colpi di scena, l’unica alternativa resta Teheran, con tutto il corollario che questa operazione comporta: convivere con l’Iran nucleare o annientarlo. L’errore Atlantico, dal punto di vista strategico e politico, nella gestione del dopo guerra fredda, è stato quello di pensare che l’area che va dall’Ucraina all’Azerbaijan – ovvero ciò che

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Mosca vede come un ex impero – fosse possibile stabilizzarla senza grandi problemi. Da qui - anche da qui - i fatti odierni.

Stati Uniti Impossibilitati a muoversi per evidenti ragioni di crisi economica e strutturale (e evidenti segni di crollo del sistema stesso: vedi il salvataggio delle banche e la bolla dei mutui subprime), impantanati in Iraq e in Afghanistan, con il disastroso mandato presidenziale Bush in scadenza e senza poter avere una vera guida prima della fine del gennaio 2009 (e tra insediamenti, riti e convenevoli, oltre che cautela di inizio mandato, probabilmente per tutto il prossimo anno), gli Stati Uniti d’America si troveranno di fronte la necessità di effettuare una riflessione molto profonda. Con un ulteriore problema: andare contro la propria mentalità. Non sarà affatto facile abbandonare l’idea del mondo unipolare e accettare il ripristino di una concezione di equilibrio tra più potenze. Quale che sarà il prossimo presidente americano, le alternative non sono molte. Con o contro la Russia, tanto per iniziare. Peraltro con la necessità di stabilire una road map serrata: Russia, Cina o terrorismo islamico? Se si decide che la Russia è come l’Urss la Nato riprende il suo compito originario. E a questo punto l’Europa dovrà scegliere definitivamente (relazioni economiche incluse): con o contro gli Usa. Vi sarà inoltre una possibile riabilitazione di alcuni fra quelli che oggi vengono definiti dall’amministrazione americana stati canaglia in chiave anti Russia (ma con il precedente iracheno, però, a pesare come un macigno su eventuali, sponsorizzate, armate e pagate nuove amicizie). Se si decide invece che la Russia è un partner la Nato cessa (ancora una volta) di avere ragione di esistenza, e in questo caso potremmo sentire ipotizzare da più parti (sono già pronte, queste parti) la realizzazione di una sorta di nuova organizzazione per la sicurezza di Europa e Asia, se non addirittura mondiale (possibile immaginare effetti più disastrosi?). I colloqui a distanza tra i due paesi, sino a questo momento, viaggiano lasciando aperte entrambe le possibilità. A un monito di Condoleeza Rice che parla di “Russia verso isolamento”, risponde un Medvedev secondo il quale sarebbe miopia politica (quella statunitense) parlare per mezzo di “stereotipi del passato invece di riconoscere che le due potenze hanno tutto l’interesse a stabilire una cooperazione costruttiva a lungo termine”, come si legge in un articolo del più diffuso quotidiano italiano. A un’altra dichiarazione della Rice di “rimettere in discussione la partecipazione di Mosca al Wto”, risponde un test della Difesa russa con il lancio di un missile in grado, secondo affermazioni della Difesa stessa, di “trasportare dieci testate nucleari indipendenti per oltre otto mila chilometri ed è in grado (il missile) di superare senza problemi lo scudo missilistico americano”.

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Inoltre, come risulta evidente, la partita non è più a due. L’America è insomma alle corde2, perché oltre alle incognite Russia e Cina (e India), non le sono tardati ad arrivare altri segnali certamente non positivi dalle tante parti del mondo che, alcune da sempre altre più recentemente, per un verso o per un altro sono resistenti al modello di sviluppo americano e hanno accumulato molti conti da regolare con l’impero targato Usa. Ci riferiamo in particolare ai recentissimi fatti di Chavez e Morales, ovvero Venezuela a Bolivia, oltre che Honduras e Argentina. Il giorno successivo alla decisione di Evo Morales di cacciare dalla Bolivia l’ambasciatore statunitense (11 Settembre), convinto che fosse dietro alla violenta offensiva dell’opposizione autonomista del paese, anche Chavez ha ordinato all’ambasciatore americano in Venezuela di lasciare il paese, minacciato di chiudere i rubinetti del petrolio e stretto collaborazione militare proprio con la Russia (dopo aver impostato, in passato, un forte legame di amicizia con il governo iraniano). Chavez e Morales, peraltro, accusano apertamente gli Stati Uniti di volere adoperarsi per la loro caduta con operazioni militari alle quali gli Usa ci hanno abituato da diversi anni. Ora ci sono milioni di latino americani che stanno iniziando a rialzare le proprie bandiere. A questi fatti aggiungiamo il riconoscimento da parte di Chavez di Ossezia e Abkhazia, ovvero appoggio diplomatico a Mosca, che infatti non ha tardato ad inviare proprio in America Latina due bombardieri della propria flotta. Non solo: il presidente dell’Ecuador ha annunciato che non rinnoverà il permesso militare per la base americana di Manta, e Lula, sebbene con frasi meno colorite di quelle di Chavez3, si dichiara preoccupato per il fatto che “la Quarta flotta Usa stia muovendo proprio dove (il Brasile) ha scoperto il petrolio”. L’incognita Brasile è peraltro veramente importante: considerato un modello di democrazia e diplomazia, potrebbe svolgere la parte di sbroglio della matassa. Iniziare a parlare di nazione latinoamericana è dunque d’obbligo per chi voglia approfondire gli aspetti di geopolitica della nostra attualità. Nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, riprende insomma a tirare un vento che se non è proprio catastrofico come quelli abbattutisi sulle sue coste certamente non è bene augurante per Washington. Come si vede, il futuro è oggi, se possibile, ancora una volta molto più incerto.

E l’Europa? Non pervenuta. In un momento nel quale la Russia rialza la testa e l’America non dà segni di vita, l’Europa si trova ancora una volta ad assistere a un problema per il quale non ha non solo proposte e soluzioni, ma probabilmente anche strumenti di comprensione. In merito a quanto avvenuto nel Caucaso infatti, l’Europa, come era prevedibile aspettarsi, è mancata totalmente, se si eccettuano una serie di manifestazioni di piccolo cabotaggio mediatico, ipocrisia economica, e avvilente incapacità politica. Mentre lasciamo ad altro momento una disamina della attuale situazione europea, rammentiamo per ora le azioni di Sarkozy (e di Berlusconi tanto per osservare l'aspetto italiano): annunciare il ritiro – da perfezionare entro il 10 Ottobre – e poi sentire ribadire che 7600 soldati russi con relativo equipaggiamento rimarranno permanentemente in Ossezia del Sud e Abkhazia – parole dal Cremino – suggerisce interpretazioni che

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lasciamo volentieri al lettore. Soprattutto in considerazione delle successive dichiarazioni di Putin stesso4, dove a rassicurazioni sulla non volontà di imperialismo da parte della Russia si ribadisce il fatto di essere decisi a rispondere con forza e determinazione a eventuali posizionamenti di missili intercettori (Usa) installati in paesi europei. Ciò non ha impedito ad André Glucksmann di affermare, sulle colonne del Corriere della Sera del 15 Settembre (senza che alcuno sullo stesso giornale, nei giorni seguenti, si sia sentito in dovere di smentire e provare a correggere), che “l’Europa è stata una sorpresa per la sua fermezza”, e ancora, con lodi a Sarkozy stesso, in grado di “negoziare un delicato e ambiguo cessate il fuoco”. Le capriole diplomatiche europee di vario tipo con il minimo comune denominatore della ambiguità (questa volta sì), si sono risolte con la “grande soddisfazione” dei 27 al vertice di Bruxelles del 2 Settembre –

Sono forse risultati di una Europa forte, acuta diplomaticamente e politicamente in grado di esprimere una scelta strategica? naturalmente appellato come “inaccettabile” da parte del segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer – nel quale si è stabilito che non vi saranno sanzioni per la Russia ma che ci sarà l’invio di 200 uomini della Ue come controllori dell’avanzamento lavori. Mossa, insomma, operata nel tipico stile al quale siamo abituati da tempo. Alla riunione Ue, inoltre, si è allo stesso tempo evitato esplicitamente di parlare della iniziale aggressione Georgiana (cosa che sarebbe stata letta come sgarbo alla Nato) e teso una mano alla Russia considerando “legittimo il fatto di prendere in considerazione gli interessi di sicurezza di ciascuno”. Insomma, si è cercato di non scontentare nessuno, né la Russia che minacciava in caso di sanzioni, né Stati Uniti e Gran Bretagna, che chiedevano l’isolamento di Mosca. Come è facile verificare, di fatto si tratta della ennesima incapacità di prendere una posizione. In sostanza, i risultati sbandierati dalla Unione Europea (se così possiamo chiamarli), sono tre. Primo: il rifiuto di riconoscere Ossezia e Abkhazia, che il Cremlino ha invece conquistato e riconosciuto ufficialmente. Secondo: un ammonimento ma senza sanzioni, ovviamente improbabili e impossibili in virtù della dipendenza energetica da Mosca.Terzo: la promessa del ritiro delle truppe, che oltre a essere ininfluente – visto che la guerra lampo è stata fatta e conclusa – è anche affatto totale, visto che rimarranno nella zona circa 8000 uomini. Sono forse posizioni e risultati di una Europa forte, acuta diplomaticamente e politicamente in grado di esprimere una scelta strategica? Non scherziamo. Ne sapremo di più il 15 Ottobre, dove a Ginevra inizieranno i negoziati internazionali sulla sicurezza del Caucaso e sul ritorno dei profughi, e ancora di più il 14 Novembre, giorno chiave, dove è previsto il vertice russo-europeo nel quale si deciderà la natura dei rapporti da stabilire con il Cremlino.

Italia, si fa per dire Al solito, nel nostro Paese, in particolare modo sui media a grande diffu-

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sione, sono state presentate opzioni a senso unico da editorialisti e commentatori da una parte e posizioni politiche dal contenuto avvilente da parte di chi è alla guida del governo o alla sua (presunta) opposizione. Tra grida di allarme per la nuova presunta e imminente guerra fredda, e i miagolii diplomatici di scarso rilievo, il panorama è nella migliore delle ipotesi, imbarazzante. In un editoriale sul Corriere della Sera5, ad esempio, ci si ostina a elencare, tra le possibili opzioni di scelta della politica estera europea, la promozione dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato (in pratica un atto di guerra a Mosca) oppure la difesa della sua democrazia, non solo facendo sottigliezza di due aspetti dagli effetti simili, ma evitando ancora una volta di porre una terza opzione. Ci si chiede se è possibile, da parte dell’Unione Europea, “difendere la democrazia senza fare leva sulla Nato”, eludendo di entrare nel merito di quale democrazia si sta parlando e di dove, e nel metodo di voler interferire, ancora una volta, nelle politiche di altri paesi. Per un Berlusconi che abbracciava un soddisfatto presidente Medvedev arrogandosi i diritti della buona riuscita dell’operazione diplomatica, vi era un forzoso e improbabile ménage à trois, visto che il giorno dopo ci si stringeva attorno al numero due degli Stati Uniti, Dick Cheney, che suggeriva al nostro pease di ridurre la dipendenza energetica da Mosca… Gioco più facile, ma parimenti inconcludente, per l’opposizione che siede al Parlamento italiano: “rifiutare le dichiarazioni di indipendenza di Ossezia del Sud e Abkhazia”; richiedere “il rigoroso rispetto dei sei punti della mediazione europea, ivi compreso il ritorno delle forze armate russe alle postazioni originarie”; una non meglio precisata “promozione di Ocse e Ue per un percorso negoziale tra le parti che assicuri la piena sovranità degli stati caucasici”; infine, “il rafforzamento della strategia della Ue di cooperazione e vicinato con Mosca”6. Come si vede, sottovuoto spinto. Ovvero poter dire tutto e il contrario di tutto senza specificare come e perché ottenerlo.

Mettere tutto in prospettiva È certamente, questo, un momento molto delicato e sotto certi aspetti avvincente della storia. Per diversi motivi concomitanti che abbiamo visto. Se gli Usa devono tentare di ripensarsi – e tutto fa presagire che non ci riusciranno - la Russia inizia a ripresentarsi con decisione sullo scacchiere internazionale e l’Europa non esiste (l’Italia politica ancora meno…) possiamo certamente dire che ci troviamo in un passaggio epocale. Ma il dato più importante che emerge ai fini di una

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analisi che ci deve essere propria, risiede nel fatto che la poderosa nuova entrata in scena del colosso russo, non avviene portando con sé una idea differente di politica e di economia. Una idea, un modo di intendere le cose, siano queste le relazioni internazionali o il rapporto con il mondo, l’economia, la società e il modello di vita, sostanzialmente differenti rispetto alla ideologia liberista ed economicista di stampo Usa. Ideologia che sta dominando il mondo da decenni e che è la diretta responsabile del decadimento sociale, civile, culturale ed economico del vecchio e del nuovo continente, così come di tantissime tensioni che ci sono in tante parti della Terra. Tensioni, lo sappiamo bene, derivanti in particolar modo da due aspetti: da un lato la volontà di voler esportare, con le buone o con le cattive, sistemi di vita che in tante parti non sono né vogliono essere accettati; dall’altro lato nei paesi che tale sistema scelgono o subiscono, e che si trovano a dover fare i conti con lo squilibrio interno, soprattutto dal punto di vista economico, ma anche sociale, che proprio tale modello – per sua natura fisica e matematica insostenibile – determina. La volontà della Russia e di Putin (e delle aziende e degli interessi economici e di potere che gli sono collegati) è però quella di imporsi nuovamente all’attenzione mondiale mediante una strategia militare e soprattutto economica (speculare a quella Usa). Ci riferiamo soprattutto al fattore energetico dal quale dipende buona parte dell’Europa stessa, che si situa nello stesso solco ideologico liberista (o finto liberista), economicista e materialista dell’american way of life che, infatti, nella realtà non vuole combattere, ma semmai affiancare e compartecipare e, in una logica di forze, probabilmente superare mediante competizione. Anche le tecniche di fatto sono le medesime: così come Clinton giustificò l’attacco alla Jugoslavia – incluso il genocidio – ai fini di non meglio specificati diritti umani da difendere, oggi Putin può affermare il proprio diritto a difendere i cittadini russi in diaspora ovunque essi siano. Ucraina compresa. Mettere a fuoco questo punto comporta da una parte raffreddare gli animi di quanti vedono nel redivivo colosso asiatico la possibilità di una soluzione al fine di un cambiamento di rotta del sistema attuale; dall’altro lato però è impossibile non constatare che gli Stati Uniti stanno raccogliendo i frutti amari di cui hanno disseminato il mondo. E rapidamente, per giunta. La Russia non è insomma l’alternativa politica all'America. Può svolgere il ruolo di comprimario in un mondo non più unipolare o al massimo di co-protagonista per un modello che resta unico e vincolato all’aspetto economicista e materialista. A interessi e

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regimi capitalisti di una parte corrispondono quelli dell’altra, ad aggressioni di paesi strategici di una quelli dell’altra. Il capitalismo di Putin – che di questo si tratta – viene descritto dal quotidiano tedesco Die Welt7 come “un clientelismo protetto dallo Stato (che) ha elargito a pochi favolose ricchezze mentre per molti ha avuto l’effetto di aggravare la povertà”. Ricorda qualcosa? Qualcosa che avviene per esempio dalle nostre parti e in tutte le parti del mondo democratico, liberale, occidentale? Sia chiaro, a un cambiamento di casting e degli attori in campo, o all’affiancamento di nuovi attori a star in declino, possono conseguire delle differenze anche rilevanti, soprattutto dal punto di vista pratico e materiale, ma quando al centro dell’azione ci sono intenzioni di imperi e di influenze per imporre proprie leggi politiche votate a motivazioni di carattere economico, è difficile poter sperare da questi avvenimenti stessi cambiamenti di carattere culturale e politico necessari per evitare la catastrofe alla quale il nostro modello di sviluppo ci sta conducendo. Se da un lato è vero che gli Usa si dovranno scontrare con i tanti problemi che stanno emergendo con prepotenza - sia di carattere economico che militare, sia di tipo sociale che culturale - rendendo la propria crisi, se possibile, ancora più cronica di quanto già si vede in questi ultimi giorni, e dunque dovranno prevedere un ridimensionamento della loro influenza, ebbene il nodo cruciale diventa l’Europa, che se non saprà ripensarsi (ne parleremo nei prossimi numeri de La Voce del Ribelle) potrà sprecare una delle (ultime?) possibilità di variare il corso della storia e dell’attuale modello di sviluppo. La partita si è però, dunque riaperta, resta da capire se l’Europa sarà stavolta in grado di giocarla o meno. Nel caso in cui risultasse ancora assente, il nostro modello di sviluppo, ovvero la nave, anche in questa circostanza nuova dei fatti in Russia, pur prevedendo un cambio al timone o un affiancamento di due o più comandanti, proseguirà imperterrita la sua rotta verso la scogliera.

Note

1 Sui fenomeni relativi a Olimpiadi e Barack Obama torneremo diffusamente nei prossimi numeri de La Voce del Ribelle. 2 Come sappiamo e come confermano i dati soprattutto in questo momento, il modello liberista americano sta crollando non solo dal punto di vista prettamente economico e matematico, ma anche per quanto riguarda l’aspetto della dottrina pura, si vedano i salvataggi statali delle banche degli ultimi giorni. 3 “Andate all’inferno, yankee di merda”. Il Corriere della Sera, 12/09/2008 4 Il Corriere della Sera del 12 Settembre. 5 Marta Dassù, La scommessa Ucraina, ne Il Corriere della Sera del 13/09/2008. 6 Piero Fassino, Russia-Ue, non rinfacciate al Pd la linea di Berlusconi, Il Corriere della Sera dell’8 Settembre, 2008. 7 Denis Macshane, Die Welt.

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L’ossessione Berlusconi

Tanto per chiarire subito (e almeno in questo primo numero) ove ce ne fosse bisogno, da che parte stiamo: nessuna delle due. C'è poco da ridere: la strada non è con lui o contro di lui. Deve essere un'altra. Per forza. di Alessio Mannino

B

erlusconismo e antiberlusconismo: a questo si è ridotta la politica italiana negli ultimi quindici anni. La cosiddetta Seconda Repubblica, nata dall’effimera tempesta di Tangentopoli, non ha portato con sé rivolgimenti istituzionali che ne giustifichino il nome, né un sistema di partiti rinnovato a fondo nel meccanismo della rappresentanza (tutt’altro: il maggioritario è molto peggio del vecchio, ma più equo, proporzionale). No, ha semplicemente marchiato il teatrino preferito dagli italiani con le insegne di uno spettacolo ripetuto sempre uguale a se stesso per la gioia del suo primo attore: Silvio Berlusconi.

Democrazia? Lui e i suoi avversari sono alleati in un gioco dal quale i veri problemi della gente comune sono rigorosamente esclusi. All’origine c’è l’operazione messa in campo nel 1994 dal magnate delle televisioni per conquistare il governo e il parlamento: importare in Italia il modello, fatto di spot e manipolazione mediatica, che negli Stati Uniti rappresenta il modo di fare politica da trent’anni. Berlusconi non ha inventato niente: ha semplicemente americanizzato l’ultimo baluardo rimasto immune da un lungo dopoguerra di asservimento agli interessi economici e agli stili di vita made in Usa. I partiti storici sorti nel 1945 – Dc, Psi, Pci, eccetera – restavano pur sempre espressioni di ideologie e culture radicate nella storia italiana, aliene dal marketing pubblicitario che di fatto è la sostanza stessa della “più grande democrazia del mondo”. Con un partito-vetrina animato dalla sua Publitalia e appoggiato dai transfughi di quella partitocrazia corrotta alla quale peraltro doveva gran parte delle sue fortune, l’ex palazzinaro dalle amicizie mafiose ha reso il mondo reale una favola. Una favola di annunci con calzamaglia sulla telecamera, di contratti con gli italiani stipulati in compiacenti studi televisivi, di rodomontate che fanno la felicità di un’audience allevata dalle sue stesse emittenti agli show di lana grossa, di balle, sparate, pettegolezzi, foto ufficiali con corna, luoghi comuni e malversazioni rivendicate con sprezzo della legalità e della dignità di quegli stessi comuni mortali che poi lo

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votano in massa. Il grande delitto berlusconiano è aver reso compiuta la parabola di una democrazia che per mantenere il consenso dei suoi sudditi, varcata la soglia del Duemila, deve mostrare la coscia e il belletto di una puttana da bordello. Mediatico, s’intende.

Destra uguale Sinistra La “Destra” che i gonzi si ostinano a identificare con i vari nomi del caratterista Silvio – Forza Italia, Polo delle Libertà, Casa della Libertà, Popolo della Libertà – non esiste. Così come non esiste la “Sinistra”. Quest’ultima è diventata né più né meno che tutto ciò che non ha a che fare con l’universo berlusconiano. Si è di sinistra perché si è contro di lui, e tanto basta. Non c’è bisogno di dire che questo antifascismo in salsa anti-Fininvest rappresenta la sicura prova del trionfo politico ma ancor prima culturale dell’odiato Berlusconi. Perché trasformata la lotta d’idee in una soap-opera alla Dallas in cui dei presunti buoni si convincono di combattere il Grande Cattivo, costui viene automaticamente innalzato a protagonista e arbitro assoluto della biografia nazionale. Ma in realtà non è neppure vero che la sedicente Sinistra si è tenuta fuori dall’immaginario incarnato in Sua Emittenza. Gli eredi del Partito Comunista, della Democrazia Cristiana più rossa e del sinistrume vario sono stati risucchiati nel format di cui lui è maestro – e proprietario, dato il suo dominio pressocchè totale del piccolo schermo. Hanno introiettato così bene l’(in)cultura televisiva da talk show e da convention che gli ultimi prodotti dell’antiberlusconismo sono dei berluschini in do minore: Walter Veltroni, cinema holliwoodiano e Pd di plastica, e Fausto Bertinotti, ex Cgil con poltrona fissa da Vespa. L’Italia degli sdegnati che sognano un “Paese serio” sono l’altra faccia della cialtronaggine della corte di Arcore, coi suoi lacchè e i suoi delinquenti definiti “eroi”. Ne alimentano il mito, ne tengono in vita l’aura di successo, ne fanno i nemici quando invece non sono che parte di una un’unica commedia.

Mamma televisione Perchè la guerra che i tifosi dei due schieramenti inscenano intorno a Berlusconi (con fanatico candore o somma ipocrisia, dipende dai casi), è finta. È il divertissement di un popolo che non sa nulla e non vuole sapere nulla dei motivi reali per cui vive vilipeso, schiacciato, ingannato. Il campo su cui si gioca la partita vera, infatti, non è il palcoscenico delle Camere, dei congressi, dei discorsi in piazza, dei Ballarò e dei Porta a Porta. Non è la Berlusconeide di cui anche e soprattutto gli avversari più onesti di Silvio, i Travaglio, le Guzzanti, i Grillo, sono utili astanti. È la mutazione antropologica imposta ai cittadini-consumatori dalla televisione commerciale, che

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nel nostro Paese porta il marchio del Biscione. È da questa constatazione più profonda della pur giusta denuncia dell’illegalità sfrontata o degli inciuci maggioranzaopposizione, è da qui che bisogna ripartire per capire meglio la deriva italiana. È dalla radiografia di un’italietta già slabbrata nel suo poco senso civico e devastata dal regime delle tessere di partito, che ci si accoda – e come poteva essere altrimenti? – all’Occidente ultima maniera. Cioè a un grande mercato dove la finanza e le banche hanno in ostaggio l’economia, che si sostiene grazie al debito di imprese e risparmiatori che devono continuamente investire e consumare per non far crollare tutto in un giovedì nero di cui abbiamo recentemente visto le prime avvisaglie (la crisi dei mutui immobiliari e il baratro delle banche d’affari americane). Un siste-

Noi figli del tubo catodico ci siamo immiseriti a consumers, come dicono gli stregoni della pubblicità. ma mostruoso tenuto artificialmente in vita proprio grazie ai media, e in particolare a quella scatola dell’imbonimento di massa che è la televisione. Ci fanno credere quello che vogliono, e lo spettacolo continua. Da uomini che fino ancora a sessant’anni fa erano in grado di appassionarsi, avere una consapevolezza civile e coltivare lo spirito di ribellione, noi figli del tubo catodico ci siamo immiseriti a consumers, come dicono gli stregoni della pubblicità. Siamo diventati consumatori, target da stordire e abbindolare, obbiettivi di campagne costruite a tavolino per inculcarci l’unica Verità: che la nostra vita è bella perché se abbiamo denaro possiamo comprare tutto ciò che vogliamo e quanto vogliamo. Trasposta questa religione da supermarket in politica, noi cittadini abbiamo acquistato la rassicurante natura di bambinoni disinformati e creduloni, col senso critico di un adolescente in perenne subbuglio ormonale. Questa è, in ultima analisi, l’essenza del berlusconismo imperante.

Informarsi, un primo passo E allora l’attualità che ogni giorno deborda dai giornali e dai tiggì assume tutt’altro significato. Perché si fa presto a capire, ad esempio, come informarsi da fonti libere per non cadere vittime dei media di Sua proprietà si risolve in una pia intenzione, un brodino caldo. Mai, nella storia dell’umanità, abbiamo avuto a disposizione tanta informazione a cui attingere per realizzare l’ideale

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democratico dell’“opinione pubblica” illuminata. Eppure mai come oggi fra la gente comune la volontà di mettere fine a plateali ingiustizie è amorfa e rinsecchita. Meglio: in standby, come quando si spegne il cervello davanti alla tv. I giornalisti liberi possono dire e scrivere per anni e decenni denunciando, facendo luce, scovando ombre e misfatti, ma non serve a niente. Perché anche chi vede e ascolta è impotente: la testa può anche ragionare, ma la mano non agisce, atrofizzata com’è dalla magia inconscia di permettersi tutto senza fatica, con un semplice scontrino. L’informazione è il presupposto per liberarsi dalla scemenza del destrasinistracentro, qualcuno ribatterà. Certo. E infatti pensiamo tutto il bene possibile di chi ci fa sapere le malefatte e gli intrighi dell’Unto del Signore e dei suoi affiatati comparinemici. Prendiamo il caso Alitalia, giusto per stare sulla notizia.Venire a

Pecunia non olet, da che mondo è mondo. E infatti proprio qui non sta lo scandalo. Il vero scandalo è che ci si scandalizzi di questo. conoscenza che la cordata dei patrioti radunata dal governo Berlusconi e capitanata dal dalemiano Roberto Colannino avrebbe messo le mani sulla compagnia di bandiera intrecciando in un viluppo di futuri affari imprenditori ricollegabili sia alla Destra che alla Sinistra, fornisce facile materia per un salutare smascheramento. I Colannino legati a doppio filo al Partito Democratico (il figlio di Roberto è “ministro ombra” di Veltroni), i Benetton, titolari degli aeroporti di Roma, notoriamente vicini al centrosinistra, Corrado Passera di Banca Intesa, che non ha mai fatto mistero di avere il cuore a sinistra: tutti allegramente a braccetto dell’ultraberlusconiano acciaiere Emilio Riva, all’altrettanto amico di Silvio Salvatore Ligresti, alla supporter governativa Emma Marcegaglia presidente di Confindustria, e agli “ecumenici” (nel senso che sono meno ipocriti e se ne fregano di propendere per chicchessia) Marcellino Gavio, signore delle autostrade, e Marco Tronchetti Provera, l’affossatore di Telecom. Dice: e che novità è che gli affari non hanno colore? Pecunia non olet, da che mondo è mondo. E infatti proprio qui non sta lo scandalo. Il vero scandalo è che ci si scandalizzi di questo. O che si gridi al conflitto d’interessi, il quale, da che capitalismo è capitalismo, è il vero segreto del libero (?) mercato. Questo esempio chiarisce la pochezza del tormentone pro o contro Berlusconi. Dietro la facciata dello spettacolo in cui lui spadroneggia, c’è soltanto la cruda realtà di interessi economici di cui i partiti e gli uomini politici sono i meri esecutori. Di

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volta in volta possono essere certe famiglie industriali (come gli Agnelli o i Benetton), possono essere le Coop, possono essere i patti di sindacato con in pugno grandi aziende editoriali (come quello che grazie a Mediobanca controlla il Corriere della Sera), può essere, ciliegina nella torta, lui stesso, il Premier che aspira all’immortalità, col suo impero fatto di media, costruzioni, commercio, finanza. Sopra a tutto, non dimentichiamolo, il ricatto dei grandi gruppi bancari, che possedendo le Banche Centrali gestiscono a loro piacimento il debito pubblico, spada di damocle sulla politica di ogni paese occidentale.

La presa in giro no Parteggiare per l’uno o per l’altro schieramento, allora, sarebbe un po’ come fare il tifo per un Cavaliere o per il suo sfidante in un teatro di pupi i cui fili sono mossi da registi che badano solo al proprio tornaconto, a quanto riescono a intascarsi. Perciò non riusciamo a contenere le risa – amare – quando leggiamo un Giulio Tremonti, ministro dell’economia di un governo filosoficamente etichettabile col motto “arricchitevi facendo il cazzo che vi pare”, che in un’intervista declama la sua conversione alle tesi no global: «È dal ’95 che vedo nella globalizzazione le cause e gli effetti della crisi in atto. Alle radici del male c’è la dissociazione tra finanza e regole: la globalizzazione ha internazionalizzato la finanza, la finanza ha finanziato la globalizzazione. Se il male è stato l’assenza di regole, la cura può essere solo nella costruzione di regole. Regole che vietino i contratti speculativi, i paradisi legali, gli strumenti atipici, i bilanci opachi. In Europa… si sta accreditando l’idea che dalla crisi si esce soprattutto con politiche basate sul disegno pubblico di grandi opere. Politiche keynesiane. Questo è un governo che non ha ideologie. Non è liberista, non è statalista. Nessuna delle ideologie del Novecento funziona: non il comunismo e il fascismo, bruciati nelle loro tragedie; non il socialismo, generosamente e paradossalmente fallito nell’essere insufficiente per eccesso. Ma non avere grandi ideologie non ci impedisce di avversare le ultime ideologie marginali del Novecento: il nullismo del ’68 e il mercatismo della globalizzazione».1 Strano, in questa requisitoria contro tutti gli “ismi” Tremonti dimentica di citare l’unico più vivo e vincente che mai: il capitalismo. Rimasto quello di sempre: una rapina di beni pubblici fatta passare per etica del lavoro e del profitto. Sarà forse perché le “grandi opere” e le “politiche keynesiane” con le quali vorrebbe ridare ossigeno al mercato si riveleranno la solita, immane regalìa alla solita cerchia di banche e imprenditori pappa e ciccia coi politici? Altro che Berlusconi: è contro uno come Tremonti che andrebbe tenuta accesa una sana ossessione. Perché il suo Capo ci prende per il culo sì, ma il sottoposto lo fa due volte.

Note 1 Corriere della Sera, 19/09/2008

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Ultras:

tutta una montatura? Sono diventati il nemico pubblico di un Paese che schiera l’esercito per le strade. Colpirne uno per educarne 50 milioni? di Tommaso Della Longa

“T

reno preso in ostaggio dagli ultras”. “Guerriglia a Roma”. Questi erano i titoli all'indomani della prima giornata del campionato di calcio italiano, che aveva visto giocare la partita forse più calda della serie A: Roma-Napoli. Ecco quindi le immagini, sempre le stesse, di qualche vetro rotto su un treno e di gruppi di tifosi partenopei che corrono dentro la stazione di Roma Termini. Immagini ripetute all'infinito dai quotidiani, talk show organizzati all'uopo, telegiornali impazziti dietro alla conta di quanti pregiudicati fossero in quel treno proveniente da Napoli. Intanto, però, i leccesi a Torino provocavano una reale guerriglia urbana, dapprima tra opposte fazioni e successivamente con le forze dell'ordine. Ma lì le telecamere non c'erano e quindi era inutile parlarne. Ecco qualche domanda, allora: è reato correre in una stazione ferroviaria? Dove sono avvenuti gli scontri a Roma visto che giallorossi e biancoazzurri non si sono mai incontrati? È giusto mettere alla gogna migliaia di persone per qualche gesto isolato? Sono veramente così pericolosi i cori scanditi dai tifosi o magari vanno inquadrati solamente nella rivalità atavica tra due città? L'ultima domanda è quella che preoccupa di più: in Italia servono ancora gli ultras per riempire le prime pagine dei giornali e sfoderare un titolo a otto colonne che permetta di non parlare d'altro? L'Italia, si sa, è il paese delle strane coincidenze. Proprio a fine settembre, infatti, si è aperto il processo per l'omicidio di Gabriele Sandri, giovane dj romano e tifoso della Lazio, ucciso da una pallottola sparata dall'agente della Polizia stradale Luigi Spaccarotella. Bene, inizia il campionato, si parla solo degli ultras violenti e il caso Sandri finisce nel dimenticatoio. L'ultras è ormai disegnato dalla prima giornata di campionato come il nemico pubblico numero uno. Intanto, in un'Italia piena di emergenze, il governo immagina altre leggi speciali, chiedendo repressione e controllo, facendo sembrare che il problema principale del Belpaese siano i tifosi. Ultima notizia in ordine cronologico è l'idea della doppia identificazione con la “tessera del tifoso”: se un normale cittadino avesse intenzione di andare allo stadio prima di comprare il biglietto dovrà chiedere la tessera alla società che a sua volta chiederà il permesso alla questura. Un precedente preoccupante. Magari un domani la polizia potrebbe decidere chi far salire su un aereo o chi ha diritto a scendere in piazza. Gli interrogativi intanto sono molteplici. Forse ecco la vera coincidenza. Le

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curve infuocate e pericolose sono funzionali al dimenticare il caso Sandri e al parlare il meno possibile dell'agente “scelto” Luigi Spaccarotella. E di tutto quello che è successo dopo l'omicidio del dj romano. Era l'11 novembre 2007 quando Spaccarotella ha sparato da una parte all'altra dell'autostrada A1 colpendo una macchina che stava uscendo dall'area di servizio Badia al Pino (Arezzo). In quella autovettura c'erano cinque ragazzi della Lazio in viaggio per andare a vedere la propria squadra giocare a Milano contro l'Inter. Gabriele Sandri viene colpito alla base del collo e muore poco dopo. Sono le 9.18. Il ministro degli Interni rimane in silenzio. Non viene convocata nessuna conferenza stampa per raccontare i fatti e chiarire le responsabilità. Subito, però, tramite i media inizia a circolare una voce assolutamente falsa: si parla di fantomatici “scontri” tra tifosi della Lazio e della Juventus con un ragazzo ucciso da un colpo di pistola. I ragazzi che erano in macchina con Gabriele passano rapidamente da testimoni a imputati, l'agente della Polstrada non viene neanche interpellato e i nastri delle telecamere a circuito chiuso dell'area di servizio sono prontamente sequestrati. Nel giro di qualche ora arriva anche un'altra versione: la polizia avrebbe sparato in aria per disperdere le opposte fazioni. Si scatena il caos mediatico. Talk show, speciali televisivi, politici pronti a sparare sentenze contro gli ultras ed esprimere solidarietà alle forze del-

Intanto, in un’Italia piena di emergenze, il governo immagina altre leggi speciali, chiedendo repressione e controllo... l'ordine. Fino all'ultimo non si sa cosa dovrà succedere nei campi di calcio. Da Bergamo a Taranto scoppiano violenti scontri, ribellioni spontanee. In serata a Roma verranno addirittura assaltate le caserme dei Carabinieri e della Polizia. Nel frattempo, però, nessuno si prende alcun tipo di responsabilità per l'omicidio di Gabriele. Nel pomeriggio di quella drammatica domenica, il questore di Arezzo viene dato in pasto ai media. La conferenza stampa è paradossale. Si parla solo dei colpi in aria e non di quello che è realmente accaduto. Ai giornalisti viene impedito di fare domande. Il risultato è che il giorno dopo tutti parlano degli scontri, ma praticamente nessuno punta il dito contro le responsabilità della polizia e della politica. Ma purtroppo il peggio deve ancora arrivare. Da una parte la criminalizzazione di tutti quelli che ogni domenica affollano gli stadi italiani di ogni ordine e categoria. Dall'altra si cerca di infangare la figura di Gabriele raccontando storie a dir poco grottesche. E solo alla fine, quando ormai tutti hanno capito che c'era un assassino in divisa lasciato in libertà, ci si decide a far partire le indagini. Il 25 settembre scorso è iniziata l'udienza preliminare a carico di Spaccarotella, davanti al gup Simone Salcerini il cui compito è quello di decidere, dopo aver sentito anche i legali del poliziotto, se rinviare a giudizio il poliziotto davanti alla corte d’assise o avviare il rito abbreviato. Ci sarebbe anche una terza via da percorrere per la difesa dell'agente della Polstrada: rito abbreviato condizionato alla audizione di alcuni testi. Una via di mezzo per tentare di confutare le tesi dell'accusa con testimoni, a

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favore di Spaccarotella, che dovrebbero mettere in dubbio le dichiarazioni raccolte dal pm Ledda e alcune deduzioni delle perizie, in cui si parla di un proiettile leggermente deviato dalla rete, ma esploso comunque “dritto per dritto, ad altezza d'uomo”. La deviazione sarebbe dovuta a una rete metallica. Ma sulla pallottola non sono stati trovati residui, così da far escludere la possibilità che il colpo abbia toccato qualsiasi cosa prima di arrivare contro la macchina dove viaggiava Gabbo. La scelta del perito balistico, il catanese Domenico Compagnini, fa anch’essa discutere. Questo signore, infatti, è lo stesso che si trova in una serie di vicende controverse, come l’uccisione di Carlo Giuliani, di Marta Russo e di Nicola Calipari. Di recente, inoltre, lo troviamo anche nel processo alla brigatista Nadia Lioce. D'altra parte basta digitare il suo nome su un qualsiasi motore di ricerca per scoprire il suo curriculum. Come si legge sul sito “comedonchisciotte.org”, Compagnini risulta uno fra i soli cinque periti balistici italiani che possono fregiarsi del diploma rilasciato dalla Forensic Science Society, l’unica certificazione di questo tipo a livello europeo. A rilasciare il titolo è la Strathclyde University, socia a sua volta dell’European network of forensic science institutes, che riunisce gli istituti forensi di 18 Paesi europei. Fra i suoi soci italiani, il Servizio Polizia Scientifica ed il Racis, da cui dipendono i reparti Ris dei carabinieri che troviamo regolarmente sulla scena del crimine. Fin qui sembrerebbe un esperto dal solido background, la cui carriera non è stata compromessa neanche da un episodio imbarazzante come le dichiarazioni del superpentito Antonino Calderone, verbalizzate dalla Commissione parlamentare antimafia, presieduta all’epoca da Luciano Violante.“Una sera – ha raccontato Calderone - mi trovavo in una saletta d’aspetto dell’impresa Costanzo per parlare con uno dei nipoti (doveva affidare del lavoro alla mia impresa di movimento-terra). È venuto il dottor Domenico Compagnini che si occupa di balistica, tanto che aveva libero accesso ai documenti dei carabinieri, almeno allora, ora non lo so. (...) Mi ha detto: “Lei non sa niente?”. Ho risposto di no e lui ha aggiunto che erano stati emessi i mandati di cattura per mio cugino, Ferrera Giuseppe e tanti altri. Non gli ho detto che ce ne eravamo occupati ma mi sono chiesto come mai, dato che ci avevano assicurato di aver depennato i nomi. Di Ferrera Giuseppe non ne sapevo nulla. Ho informato De Luca di quanto mi aveva riferito il dottor Compagnini (con il quale ero in buoni rapporti, andavamo a caccia insieme e gli avevo regalato una pistola)”. Ovviamente le dichiarazioni frutto del pentitismo non possono essere considerate la verità assoluta. Quello che stupisce, però, è che su questi e altri dettagli forniti agli inquirenti da Calderone in merito al rapporto con Domenico Compagnini, l’inchiesta della magistratura non ha poi prodotto, nei confronti dell’esperto di balistica, nessuna imputazione. Ma c'è ancora altro. Ecco un'Ansa del 2 novembre 1999: “La procura

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di Catania, a metà degli anni Novanta, chiese e ottenne l'archiviazione del fascicolo del perito balistico Domenico Compagnini, indagato nell’ambito dell’inchiesta sulla cosca Santapaola. A conclusione delle indagini Compagnini ha continuato ad essere nominato come perito d’ufficio in delicati processi come quello per l’uccisione dell'avvocato Serafino Famà, per il delitto del giudice Livatino e per l'omicidio del sindaco di Firenze Lando Conti, ucciso dalle Br nel 1986”. “Della sua abilità – si legge ancora - si servì anche il boss Benedetto Santapaola che lo nominò perito di parte nel processo per la strage in cui morì Carlo Alberto Dalla Chiesa”. Vogliamo sottolinearlo nuovamente: tutto questo potrebbe ancora non significare nulla. Ma era proprio impossibile nominare un perito, come dire, meno chiacchierato? Per dovere di cronaca, poi, va anche detto che proprio all'inizio del mese di settembre nell'autogrill di Badia al Pino è stato

Dopo i clamorosi insuccessi mediatici, veramente questo signore si meritava una promozione e un compito di tale rilievo? fatto sparire il monumento spontaneo fatto di scritte, bigliettini, sciarpe e bandiere che ricordavano Gabbo. Nulla è stato consegnato alla famiglia. Nello stesso mese, inoltre, Roberto Sgalla lascia la direzione dell'Ufficio relazioni esterne del dipartimento di pubblica sicurezza per andare a assumere il comando del servizio di polizia stradale. Chi è Sgalla? Per anni braccio destro di De Gennaro e Manganelli, si dovrà occupare anche dei problemi del calcio e della violenza a causa dei molti incidenti della scorsa stagione lungo le autostrade. Sgalla fa parte infatti del Casms (Comitato di analisi per la sicurezza delle manifestazioni sportive) e anche dell'Osservatorio sulle manifestazioni sportive. Praticamente chi deve occuparsi della stradale e delle migliaia di morti sulla strada, dovrebbe anche preoccuparsi dei problemi del calcio. È bene ricordare, poi, che Sgalla ha gestito l'informazione a Genova nel 2001 dopo la morte di Carlo Giuliani e anche quella dell'omicidio di Gabriele Sandri. Dopo i clamorosi insuccessi mediatici, veramente questo signore si meritava una promozione e un compito di tale rilievo?

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“Il vento che accarezza l’erba” Guerra civile e onore, nel film senza tempo di Ken Loach, per leggere l'Irlanda di ieri e quella di oggi. Dall'indipendenza al rifiuto del trattato europeo. di Ferdinando Menconi

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alma d’oro a Cannes contro ogni pronostico,“Il vento che accarezza l’erba” del Maestro Ken Loach è… l’ennesima arbitraria fuorviante traduzione italiana di un titolo di film. Infatti in originale il titolo del film è “The wind that shakes the barley” (Il vento che scuote l’orzo) - che è anche il titolo di una rebel song irlandese molto bella - e il vento della ribellione, giustamente, non è un vento che accarezza, semmai è un vento che scuote. Non può essere un vento delicato e gentile e romantico. Verrebbe da citare il Sergio Leone di “Giù la testa” quando ci ricorda che per Mao la rivoluzione non si può fare “con tanta grazia e cortesia”, perché la rivoluzione è “un atto di violenza” e nel film la violenza, ma non il voyeurismo della violenza alla Tarantino e altri cattivi imitatori di B movies, è ben presente, in tutta la sua crudezza ed il suo eroismo. Restando sul titolo poi, perché l’erba? Sì, nell’immaginario italiano l’Irlanda è l’isola dai grandi prati verdi, ma in realtà è più l’orzo a caratterizzare il paese. L’orzo della sua birra e dei suoi whiskey, l’orzo che quando è scosso dal vento si muove in ondate continue, come le ondate di rivolta che hanno scosso l’Irlanda per secoli, contro ogni invasore, dai vichinghi agli inglesi, con alterne fortune - sarebbe quasi più da dire sfortune, come viene ricordato nella proclamazione della Repubblica irlandese del 1916. È da quest’ultima ribellione, peraltro, che Ken Loach, inglese, trae spunto per il suo film controverso e che in Inghilterra ha dato molto fastidio. Il regista non è nuovo, peraltro, a film scomodi, che scuotono e non accarezzano, ed anche questo lo è, come lo fu, ed in maggior misura, “Terra e libertà”: forse il suo capolavoro. Anche se “Il vento che accarezza l’erba” non raggiunge le vette di quest’ultimo, ben ha meritato la sua Palma a Cannes, con buona pace di quei critici ed esteti della banalità del trasgressivo che avrebbero voluto veder vittorioso un Moretti o un Almodòvar, che invece di film veramente scomodi, a voler essere generosi, ma molto generosi, ne hanno girati ben pochi. Perché i due registi da salotto buono sono capaci solo di una trasgressione che invece è quanto ormai di più accettato e banale, e fanno sempre ben attenzione a non dispiacere mai l’intellighenzia bene, anzi la compiacciono in modo da far credere al conformista di essere trasgressivo. Loach è uno dei pochi grandi registi di film di denuncia rimasti e resta fedele al suo impegno, la sua firma non cessa mai di essere garanzia di qualità. Unico vero limite del “Vento che accarezza l’erba” non è tanto di

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non essere all’altezza di “Terra e libertà”, quanto di soffrire particolarmente il confronto, perché, pur sviluppandosi in un contesto storico e geografico differente, molti temi ed altrettanti schemi narrativi sono comuni. Entrambi sono film che percorrono la rivolta, la rivoluzione, le grandi pagine di storia approcciandole dal lato umano, raccontandole attraverso storie di gente comune, capace però di diventare eroe. Di gente che non aveva alcuna intenzione di diventare eroe e si trova ad esserlo quasi per caso, ma con piena coscienza e volontà, come il protagonista, appunto, del “Vento che accarezza l’erba”. Lui è solo un giovane medico che desidera andare a lavorare nel grande ospedale di Londra, dove ha trovato occupazione e la speranza di una brillante carriera. Sì, ha già avuto modo di vedere cosa gli inglesi stanno facendo al suo paese, però non crede nella ribellione, non crede essere quella la sua via, finché, in banchina, aspettando il treno che dovrebbe avvicinarlo a una tranquilla vita borghese, vede il coraggio dei ferrovieri irlandesi che si rifiutano di trasportare truppe inglesi sui loro treni e l’arroganza violenta di risposta dei soldati di sua maestà. Nella scena successiva presterà giuramento di fedeltà all’esercito repubblicano irlandese. Viene da riflettere sul cosa e sui perché che portano a mettersi in gioco, a fare una scelta di campo, specie riportandola a questa Italia dove ancora ci si divide sul “con chi saresti stato” dopo l’8 settembre, Salò o resistenza, quando in quei giorni di vergogna e caos molte scelte furono casuali, o quasi, magari prese d’impulso proprio su una banchina ferroviaria per l’arroganza tedesca quando, invece, come i più, si stava semplicemente scappando.

Guerra civile, sì, ma storicizzata Ken Loach affronta non solo la rivolta anti inglese, ma anche la guerra civile che ne è seguita, che ha messo fratello contro fratello. No, non è retorica, è che nel film sarà proprio fratello contro fratello, e dopo aver combattuto insieme, uno comanderà il plotone di esecuzione dell’altro. Ferite profonde, che in Irlanda, al contrario che da noi, si sono però rimarginate. Certo dei distinguo esistono ancora e i due maggiori partiti della Repubblica si fondano sulla differenza fra “repubblicani” anti trattato e “free stater” che, invece, quel trattato che separava (e separa) in due l’Irlanda, e che concedeva solo lo status di dominion e l’indipendenza, lo accettarono, sostennero e imposero. Se però in Irlanda non si scorda il passato, questo non è così pesante da soffocare il futuro. La guerra civile è stata metabolizzata. La discussione resta, ma è storiografica e non più politica. Sia sulla guerra di liberazione che sulla guerra civile, Ken Loach fa una chiara scelta di campo e non la nasconde, però riesce a far parlare le ragioni di tutti, riesce a spiegare la situazione e a raccontare la “Storia” senza perdere di ritmo, senza diventare pedante e didascalico. Quando un ufficiale inglese spiega chi

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siano e da dove vengano le squadracce mandate da Churchill - che in Irlanda tenne un comportamento da vero criminale di guerra - che i “Black and Tans” erano reduci dalle trincee di Fiandra, che avevano conosciuto guerra, fango, morte e poco altro nella vita, e dunque c’era poco da stupirsi del loro brutale modo di comportarsi (non stupirsi non significa però non condannare) la narrazione cinematografica non ne soffre affatto. Siamo, anzi, di fronte a una scena carica di tensione, talmente carica di tensione da permettere al regista di usarla per giustificare una diserzione dalle fila inglesi. Una diserzione funzionale alla narrazione e non solo al messaggio politico. Se decisa è la posizione di Loach contro l’imperialismo inglese, più sfumata, anche se palesemente pro repubblicana, è quella sulla guerra civile. Per articolarla il regista usa una seduta di un tribunale popolare rivoluzionario, sembra quasi di rivivere la scena (decisamente più forte, però) di”Terra e libertà”, in cui si dibatte sulla collettivizzazione della terra: stesso efficace escamotage narrativo e simile situazione di conflitto sociale. Loach è abilissimo nell’evitare di diventare didascalico e pedante nell’esporre la situazione di conflitto sociale che accompagnava la lotta di liberazione irlandese. L’IRA tutta combatteva contro l’Inghilterra, ma se una parte non poteva scordarsi il suo essere repubblicana e socialista (nel senso nobile del termine) l’altra si rendeva conto che senza l’appoggio della borghesia sarebbero mancati i fondi per continuare la lotta. È da questo diverso modo di sentire, peraltro, che sarebbero poi nati i due schieramenti della guerra civile. Nella scena del tribunale, inoltre, viene fatto emergere un dato importante: senza rivoluzione sociale l’Irlanda, anche se indipendente, sarebbe comunque rimasta economicamente schiava di Londra. Dipendente dalla produzione inglese e succube della sua finanza. Questo è stato vero, ahimè, per molti anni, finché l’ingresso nell’allora Mercato Comune Europeo (e che mercato è rimasto anche se gioca a farsi chiamare Unione) non ha offerto a Dublino la possibilità di affrancarsi. Possibilità che l’Irlanda ha colto in pieno, utilizzando al meglio i fondi strutturali europei, fino a diventare la tigre celtica ed avere la sterlina irlandese più apprezzata di quella inglese, ma nonostante ciò l’Irlanda fu pronta ad abbandonarla con entusiasmo per l’Euro e mettere ancor più distanza da Londra.

Irlanda oggi Irlanda spesso in prima fila nella costruzione dell’Europa ed oggi ancor di più, avendo rifiutato la farsa di Lisbona, quell’escamotage indegno che voleva imporre ai popoli d’Europa quello che già avevano rifiutato. Non è come

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vogliono farci credere, che l’Irlanda è contro l’Europa, il popolo irlandese è per l’Europa, l’Europa di una comunità di popoli liberi. L’Irlanda è contro il mercato che si fa dell’Europa. Come nel tribunale popolare del film, non si vuole essere schiavi di una economia eterodiretta e sopraffattrice delle genti. L’accusa di euroscetticismo fa pensare all’accusa di essere antipolitici: quegli stessi che accusano di euroscetticismo coloro che vogliono una Europa di popoli e rifiutano quella di Bruxelles, sono i primi a volerla solo come mercato di merci e di usura, riducendola a un semplice marchio commerciale. Allo stesso modo viene accusato di antipolitica chi rifiuta il mercato delle vacche che è diventato il governare l’Italia oggi e che vor-

La rivoluzione è una cosa seria e dura, molto dura. Ingaggiarsi in una lotta di liberazione non è cosa da prendersi alla leggera. rebbe fare politica vera e non seguire artificiosi schieramenti studiati a tavolino, o, peggio, sotto (...). La vera antipolitica è invece quella che si consuma nel Palazzo, ma la mistificazione è ben sorretta dai media ufficiali e dagli intellettuali di partito. La propaganda è un’arma fondamentale in qualsiasi battaglia. Battaglie più belle sono, invece, quelle del film. Da cineteca è la scena in cui una flying squad dell’esercito repubblicano irlandese emerge dalla nebbia e si dispone per un’imboscata da manuale. Un colpo magistrale, distruzione del nemico con perdite marginali, un po’ come si sogna debba essere sempre in una rivoluzione, ma non è così, non è sempre così, raramente è così. Anche le perdite marginali sono vite umane perdute, magari quella di un amico o, forse, la propria. La rivoluzione è una cosa seria e dura, molto dura. Ingaggiarsi in una lotta di liberazione non è cosa da prendersi alla leggera. È una via senza ritorno, ben più dura di quella che segue chi si lascia infatuare dalle fanfare di una guerra regolare, perché in una guerra rivoluzionaria bisogna anche mettere in conto di dover passare attraverso la tortura e quando nel film si vedono unghie strappate con tenaglie arrugginite viene da domandarsi “io ce l’avrei fatta a non parlare?”… meglio evitare di darsi una risposta. La rivoluzione è un gioco spietato, non solo si deve aver coraggio di uccidere il nemico a sangue freddo, nel film tocca a un ricco possidente Anglo-irish, e la scena anche in questo caso

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rimanda a “Terra e libertà”, ma si può anche dover giustiziare un amico, poco più di un ragazzino, uno che si è visto crescere fin dalla culla, perché “ha parlato” e non si può concedere spazio alla pietà finché la guerra di liberazione è in corso, bisogna premere il grilletto e basta. La rivolta non si improvvisa, non è uno scendere in piazza a fare casino per poi tornare a casa in un letto caldo e lamentarsi se la polizia ha caricato: questo è solo un gioco da adolescenti, da sinistra cachemire o fascismo da stadio, non porta a nulla, solo a qualche lutto vigliacco. In guerra, parrà impossibile, c’è anche spazio per l’amore, ed anche in questo il film irlandese di Loach richiama quello spagnolo. Lo spazio per l’amore c’è, ma è uno spazio tragico. Bello, coinvolgente, ma tragico, e non potrebbe essere altrimenti. In entrambi i film, in entrambe le rivoluzioni c’è spazio per le donne, e le donne d’Irlanda, soprattutto, ne hanno sempre avuto molto, in prima linea o di rincalzo. Le donne del film di Loach svolgono entrambi i ruoli, fino a presiedere un tribunale rivoluzionario e prendere

La rivolta non si improvvisa, non è uno scendere in piazza a fare casino per poi tornare a casa in un letto caldo e lamentarsi se la polizia ha caricato di petto i volontari dell’IRA. Non è un caso che la prima donna a essere stata eletta in un parlamento fu irlandese, anche se non vi sedette mai: avrebbe dovuto giurare fedeltà al re d’Inghilterra e l’onore di essere la prima donna a sedere in parlamento lo si lascia ad altre senza rimpianti, anzi con orgoglio. Ken Loach, ad onta delle critiche per aver osato battere a Cannes Almodòvar e Moretti, riesce ancora una volta a fare centro e a proporre un film scomodo, di quelli che trattano la storia rifiutando la storiografia ufficiale, ma al contempo senza imporre una sua verità. Lo spettatore è costretto a riflettere, a fare la sua scelta, ma non senza aver prima ascoltato e rispettato le ragioni dell’altro. Oltre a tutto ciò Ken Loach fa qualcosa di più importante: racconta una storia, perché troppo spesso ci si dimentica che questo è il primo dovere di un narratore. Che lo faccia su carta o su pellicola il suo massimo sforzo deve essere teso a raccontare una storia. Le ideologie, i messaggi, verranno dopo, e, se la storia è buona, questi avranno maggior forza. Ken Loach lo sa ed è un maestro nel metterlo in atto.

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X eduardo

23 09 2008

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Con prefazione di Beppe Grillo Fondatore di una delle più autorevoli associazioni di tutela dei consumatori, giornalista, ospite abituale di trasmissioni televisive e radiofoniche, Elio Lannutti è da oltre vent’anni tra le voci più ascoltate nella battaglia contro truffe e abusi ai danni dei risparmiatori.

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di Alessio Di Mauro


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