La Voce del Ribelle (Novembre 2009)

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ISSN 2035-0724

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Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 2 - numero 14 - Novembre 2009

Mensile Anno 2, Numero 14 Direttore politico

Massimo Fini Direttore responsabile

Valerio Lo Monaco

Amazzonia: LA RESISTENZA DEGLI INDIOS Fini: FUKUYAMA SENZA VERGOGNA France Telecom: QUESTA “MODA DEI SUICIDI”. MODA?! Monsanto: MULTINAZIONALE TOSSICA Europa: IL COLPO DI STATO DEI POLITICI ITALIANI

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Anno 2, numero 14, Novembre 2009 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com)

Fukuyama reloaded

Art director: Alessio Di Mauro

di Massimo Fini

Hanno collaborato a questo numero: Germana Leoni, Roberto Scorcella, Marzio Pagani, Giuseppe Carlotti, Alessio Mannino, Laura D’Alessandro, Eduardo Zarelli

Peccato originale

Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602

di Germana Leoni

Progetto Grafico: Antal Nagy Mauro Tancredi

di Federico Zamboni

La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000

di Roberto Scorcella

Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008

di Valerio Lo Monaco

Navi. Rifiuti tossici. E non solo Niente di grave: giusto 25 suicidi Banche italiane e assegni strani Monsanto: i veleni nel mondo di Marzio Pagani

Moleskine Lotterie e altre ruberie di Giuseppe Carlotti

Prezzo di una copia: 5 euro

Colpo di Stato ed Europa

Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali

di Alessio Mannino

Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista

Perù, così gli indios difendono la foresta

Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma Agenzie di stampa: Adn Kronos Il Velino Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com

Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti. Chiuso in redazione il 26/10/2009

di Laura D’Alessandro

Goldsmith e il mondo surrogato di Eduardo Zarelli

Questo è il muro, e questi siamo noi

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55 La verità sepolta 58 A 200.000 morti è pronto il premio 63 di Federico Zamboni

di Ferdinando Menconi


Leggo al minimo. Il Tempo divora gli occhi e il resto. Ma “La Voce del Ribelle” merita di vivere. Qualcuno... chissà... Guido Ceronetti


FINI

Fukuyama

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reloaded

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di Massimo Fini

opo il crollo dell'Unione Sovietica, nel 1989, il politologo americano di origine giapponese Francis Fukuyama in un libro intitolato "The End of the History and the Last Man" decretò perentoriamente che la Storia era finita. Poiché le democrazie avevano sconfitto, dopo i nazifascismi, anche il loro ultimo avversario, il comunismo, non c'era più nulla da fare né obbiettivo da perseguire e l'Occidente poteva godersi serenamente il suo trionfo per l'eternità. La tesi di Fukuyama si basava sulla convinzione che esisterebbe una Storia generale dell'umanità valida per tutte le civiltà, per tutte le culture, per tutti i popoli del mondo che sarebbero inevitabilmente e inesorabilmente condotti dalla logica di un ferreo disegno finalistico verso "la Terra Promessa della Democrazia, della diffusione di una cultura generale del consumo, del capitalismo su base tecnologica". Come si è visto la Storia non è affatto finita col 1989, sotto certi aspetti si potrebbe anzi dire che era appena cominciata. E uno che ha scritto le castronerie cosmiche che ha scritto Fukuyama avrebbe dovuto andare a nascondersi in Nuova Zelanda sotto una pecora merinos, quelle col pelo lunghissimo, nutrito con bacche e licheni da qualche pietoso e inconsa-

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“...avrebbe dovuto andare a nascondersi in Nuova Zelanda sotto una pecora merinos, quelle col pelo lunghissimo, nutrito con bacche e licheni da qualche pietoso e inconsapevole Maori...” Anche la democrazia liberale, nonostante i deliri di immortalità dei suoi ultrà, farà la fine che si merita, la fine di tutte le costruzioni umane che sono per loro natura caduche. In particolare quelle politiche che si sono dimostrate assai più fragili e transeunti delle religiose, proprio perché, a differenza di queste, devono misurarsi con la dura realtà e non con la metafisica. Scriveva Lord Halifax nel 1684, quando gli uomini, non avendo la Tv, erano più intelligenti: «Niente di più certo del fatto che tutte le istituzioni umane cambieranno e con esse le cosiddette basi del governo». Quindi, tranquilli, non moriremo democratici.

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pevole Maori. Invece in questi anni Fukuyama ha continuato a pontificare, è stato consigliere di George W. Bush, con le conseguenze che abbiamo visto, e adesso riappare bel bello, come se nulla fosse, sul Corriere della Sera (23/10/09). Ammette che beh, sì, effettivamente, la Storia non è finita nel 1989, ma si tratta semplicemente di aspettare ancora un po' e di aiutare, magari con qualche bombetta all'uranio impoverito, le popolazioni che, per pura maleducazione, non sono ancora democratiche a diventarlo. È insito in ogni progressismo e storicismo, di destra e di sinistra, la convinzione che la Storia umana abbia un fine e quindi, dovendo questo fine essere prima o poi raggiunto, anche una fine. Tesi paranoica perché la Storia finirà solo quando anche l'ultimo uomo avrà esalato l'ultimo respiro, che ha come unico sostegno la nostra disperazione perché che la Storia non abbia un fine e quindi l'umanità un senso è un boccone troppo amaro da mandar giù, ma particolarmente ridicola e infantile se applicata alle istituzioni politiche e proprio alla luce della Storia. Quasi tutti i regimi politici si sono pensati come eterni in quanto migliori degli altri. Anche Hitler profetizzava un "Reich dei mille anni" e abbiamo visto come è andata a finire. Sembra rendersene conto persino Fukuyama che in quel libro scriveva: «Anche altre epoche, meno riflessive della nostra, hanno pensato di essere le migliori». Poi però lo sciagurato aggiungeva: «Ma noi siamo arrivati a questa conclusione stanchi, per così dire, dell'aver cercato alternative che secondo noi dovevano essere migliori della democrazia liberale» (Devo dire che l'ingenuità di questo Fukuyama è quasi commovente. Mi ricorda un mio amichetto d'infanzia, Paolo Mosca, il quale una volta che, tredicenni, assistevamo alla messa mi disse: «Lo sai che ci sono anche tante altre religioni oltre la nostra e che ognuna crede di essere l'unica vera? Pensa come siamo stati fortunati noi a nascere in quella davvero vera»).


frega niente di...: il figlio di Sarkozy *** il tour postumo di Michael Jackson *** i calzini turchesi ***** Rutelli * il Grande Fratello ** Pannella und Bonino *****1/2

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Non ce ne

Ma quello della democrazia è in fondo un problema di secondo grado. La democrazia rappresentativa è solo l'involucro legittimante della vera polpa, "la diffusione di una cultura generale del consumo, del capitalismo su base tecnologica", vale a dire il modello di sviluppo che a partire dalla Rivoluzione industriale si è affermato in Occidente, e che sta cercando di costringere a sé anche tutti gli altri popoli, basato sul meccanismo produci-consuma-produci che ci ha ridotti a tubi digerenti, a lavandini, a water che devono ingurgitare il più velocemente possibile ciò che altrettanto velocemente producono. Molta gente, molta di più di quanto si pensi e di quanto traspaia da una pubblicistica interamente asservita al pensiero che sembra dominante, comincia a rendersi conto che questo modello, invece di darci non dico la felicità (parola proibita che non dovrebbe mai essere pronunciata) che stolidamente ci aveva promesso, ma almeno un poco di serenità, provoca un disagio acutissimo, suicidi (decuplicati, in Europa, rispetto al XVII secolo) stress, nevrosi, depressione, alcolismo di massa, droga, che sono tutte malattie della Modernità, e poiché si fonda su mete che vengono continuamente spostate in avanti, e quindi di fatto irraggiungibili, determina in tutti, ricchi o poveri che si sia, ad un certo momento della vita un senso di intollerabile scacco esistenziale. È a queste persone che la nostra Voce vuole dar voce.


Peccato U originale

no dei metodi da utilizzare per salvaguardare la propria sanità mentale malgrado gli impulsi dannosi del nostro sistema informativo - così come, più in generale, di alcuni fenomeni della società che abbiamo intorno - risiede nel cercare di non dimenticare. Che oggi, in altre parole, molto spesso vuol dire capacità di risalire. Vediamo di cosa si tratta e soprattutto come metterlo in pratica. Ma in primo luogo dobbiamo mettere a fuoco uno dei fenomeni più dannosi della nostra informazione. Proprio in virtù della loro stessa natura di quotidiani (intendendo sia i giornali sia i telegiornali, i talk show e alcuni siti internet di informazione) una delle caratteristiche dannose più evidenti è quella dell'oblio. A una notizia segue un'altra, poi un'altra ancora e così via. Con poche o nulle possibilità di tornare sui propri passi. Spazio in pagina e in palinsesto, e cronologia degli eventi, impongono per propria stessa natura a media di un certo tipo di andare sempre avanti. Di voltare pagina, in altre parole. Senonché molto spesso, per comprendere appieno la caratura e la natura stessa di una singola notizia, sempre che l'obiettivo sia la conoscenza più che la informazione spiccia, sarebbe molto più utile non perdere di vista la trama dell'intera vicenda che si sta seguendo. In modo ancora più particolare, sarebbe utile - meglio: decisivo - non perdere di vista alcuni punti di snodo dell'intera storia. In altre parole, i dettagli. Beninteso, anche i particolari sono importanti. Ma se si perdono di vista alcuni particolari la comprensione può anche non risentirne molto. Un dettaglio, invece, è fondamentale. Ancora di più, un dettaglio è - e resta - fondamentale soprattutto se si situa all'inizio della vicenda in oggetto.

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Lo Monaco

di Valerio Lo Monaco


Lo Monaco

Siccome molto spesso alcune notizie, alcune storie vanno avanti per mesi e mesi in una folla di nuovi particolari e avvenimenti, resta difficile a un certo punto riuscire a comprendere il tutto, il contenuto stesso dell'evento, se nel frattempo si è perso di vista il punto principale originario. Come accennato, i nostri media ufficiali in tal senso sono quanto di peggio si possa utilizzare allo scopo. In modo ancora più preciso, soprattutto nella nostra società attuale (dove nella maggior parte dei casi le vicende che assurgono a ruolo di cronaca magari occupano prime pagine e titoli di testa per più di qualche giorno, se non per mesi) i fatti sono identificabili - e giudicabili - unicamente se non si perde di vista l'origine, che quasi sempre, per giunta, contempla la presenza di un "peccato originale" della vicenda stessa. Facciamo un esempio pratico, utile appunto a capire il metodo e poi a metterlo in pratica per quasi ogni altro argomento. Una delle notizie più seguite dai media ultimamente, più raccontate fin nei minimi particolari e dando spazio a ogni singola dichiarazione di chiunque (con tanto di par condicio), tra gli attori protagonisti, i co-protagaonisti e fino anche le comparse più lontane, è riguardo le Primarie del Partito Democratico che si sono svolte lo scorso 25 ottobre. Sia chiaro, l'argomento in sé non ci interessa granché (tano meno il vincitore delle primarie stesse) ma torna utile a capire il fenomeno. Ebbene, per settimane e settimane non è mancato giorno in cui quotidiani, Tg e trasmissioni di cosiddetto approfondimento non abbiamo lasciato cadere la possibilità di aggiornarci sull'argomento. Alla dichiarazione di un politico ne seguiva una di un altro, a quella di una fondazione che si spendeva per un candidato seguiva quella di un altro personaggio che appoggiava l'altro. A una discussione sui temi interni ne seguiva una sui metodi di voto, e giù a piovere a dirotto in merito a previsioni, spostamenti, percentuali e significati altri del voto. Ora, il punto centrale delle primarie del Partito Democratico è (doveva essere) nella assoluta trasparenza e possibilità da parte di tutti a candidarsi alla guida del partito, così come la grande manifestazione di democrazia diretta con la quale il più grande partito di opposizione (si fa per dire) del nostro paese si approssimava a svolgere quello che è stato voluto passasse nell'opinione pubblica come grande "evento democratico". Al di là del risultato e delle possibilità in campo, soprattutto Bersani (rappresentante della più vecchia oligarchia del Pci, Pds, Ds e via dicendo) e Franceschini (in quota ex Margherita eccetera) - dunque al di là del fatto sostanziale della assoluta ininfluenza del risultato, viste le possibilità di scelta tutte all'interno della più vecchia e logica retorica partitocratica - ciò che è stato dimenticato presto è proprio il peccato originale che è stato alla base e alla partenza dell'evento stesso.

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Valerio Lo Monaco

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Contrariamente a quanto sbandierato ai quattro venti e urlato in ogni pagina di giornale e trasmissione televisiva, il "grande evento democratico delle candidature e delle votazioni secondo la democrazia diretta" è stato viziato all'origine da un evento che ne ha inficiato tutto il proseguimento. E l'epilogo. Ecco il dettaglio, presto dimenticato, ma fondamentale: parliamo del divieto, e di fatto della radiazione, a Beppe Grillo di poter partecipare democraticamente alla votazione, candidandosi alle primarie stesse. Sia chiaro, ribadiamo, la cosa non è interessante in sé, ma è paradigmatica di tutto l'evento. A Grillo è stato vietato - in perfetto stile soviet - di iscriversi al Partito Democratico e di concorrere alle elezioni. Inutile spiegare i motivi che hanno spinto gli apparati del Pd - tutti - a fare blocco contro l'ingresso del comico genovese nel partito, chiunque può ben intuirli. Ma il punto è che un partito che si chiama democratico e che ha portato avanti per mesi una campagna mediatica a favore della democrazia diretta, del cambiamento delle regole, della partecipazione dal basso, della condivisione di un progetto (almeno a parole) sia stato viziato - irrimediabilmente - da un peccato originale tanto potente da eliminarne gli intenti. Tolta la possibilità di iscriversi e di partecipare alle primarie, qualunque discorso successivo è inutile: tutto è avvenuto nel solco anti-democratico, per nulla riformatore e in perfetta continuità come era prima. In altre parole, ed ecco il punto, distrutta nei fatti la ragione stessa dell'evento stesso, qualunque cosa venuta dopo è stata falsata e ha poggiato su un impianto marcio nelle sue stesse fondamenta. Con buona pace di tutti gli iscritti e i votanti (attenzione: solo “interni” al partito, di fatto, potevano candidarsi ma allo stesso tempo anche “esterni”, ovvero non iscritti, potevano votare versando due Euro...) con sperpero di minuti di attenzione televisiva e fiumi di inchiostro sui quotidiani. Soprattutto, con dispersione di attenzione e lucidità di chi è stato costretto (o non è riuscito a sottrarsi) a mesi e mesi di notizie inutili su un evento viziato in partenza. Allo stesso modo, la maggior parte degli argomenti posti all'attenzione pubblica (esempi: Afghanistan, crisi della finanza e dell’economia, Europa...) possono essere decifrati, interpretati e giudicati, solo cercando di tornare al cuore del fatto. All'origine delle notizie. Alle motivazioni principali dei problemi stessi. E, molto spesso, al peccato originale che ne permette di individuare i punti cardine. Per epurare il resto (inutile e dannoso) dalla propria attenzione quotidiana. Per non farsi ipnotizzare in modo sterile dal frastuono che continuano a dare notizie e argomenti che lo riguardano, e per leggere chiaramente e senza particolare sforzo l'argomento nel suo insieme. Tutto il resto, è rumore di fondo al quale sottrarsi.


INCHIESTA

Navi

Rifiuti tossici. E non solo

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Quella scoperta recentemente è solo la punta di un iceberg devastante. Che collega società, mafie e pentiti. E ambienti governativi. I mari sono pieni di scorie nocive. (prima parte)

di Germana Leoni

dalla seconda metà degli anni Ottanta che facciamo del Mare Nostrum, e di quello altrui, un pericoloso immondezzaio: una bomba a orologeria per un disastro ambientale annunciato. Stiamo parlando del delittuoso fenomeno dello smaltimento in mare di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi: un affare colossale che ha visto la mafia, e più specificatamente la 'Ndrangheta, proporsi come soggetto operativo di facciata in ciò che è in realtà un connubio della stessa con servizi segreti più o meno deviati, politici disinibiti, imprenditori senza scrupoli e centri vari di poteri occulti, italiani e non. Un intreccio inquietante, nel cui contesto la 'Ndrangheta, pur avendo fatto un salto di qualità con l'ingresso nel business dei rifiuti, mantiene pur sempre un ruolo di mera manovalanza. La regia, infatti, è sempre e comunque altrove. E la regia riteneva che fosse meno dispendioso trasportare in paesi terzi o scaricare in mare sostanze altamente tossiche, che avrebbero diversamente dovuto essere inertizzate a dovere, con relativi costi. E così scarti industriali, prodotti chimici, diossine, rifiuti tossiconocivi, sostanze velenose di ogni genere e scorie nucleari venivano inabissate nei fondali marini, con una procedura di cui in seguito parleremo, o caricate su navi a perdere, le così dette carrette dei mari, destinate a essere affondate nel Mediterraneo, prevalentemente al largo delle coste ioniche. Fra gli anni Ottanta e Novanta almeno una trentina di navi sarebbero state affondate con carichi di dinamite in circostanze quanto meno bizzarre: non era mai stato lanciato un s.o.s., non erano mai

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stati rinvenuti gli equipaggi ed era sempre passato casualmente dalla zona un natante amico, pronto a prendere a bordo i membri dell'equipaggio. Una prassi che si sarebbe protratta impunemente per decenni, a dispetto delle denunce degli ambientalisti e delle inchieste di coraggiosi magistrati, che finivano puntualmente con l'essere delegittimati, rimossi o promossi, e cioè destinati ad altre sedi con conseguente stagnazione o archiviazione delle inchieste per 'assenza del corpo di reato'.

Le prime rivelazioni Poi, nel 2005, un apparente squarcio nel buio con le rivelazioni di Francesco Fonti, un pentito della 'Ndrangheta già condannato a 30 anni di reclusione per traffico di droga. Trasfomatosi in collaboratore di giustizia, Fonti inviava alla Direzione Nazionale Antimafia un memoriale col quale, oltre a svelare alcuni retroscena dei traffici di rifiuti, si autodenunciava per l'affondamento di tre navi, indicando il luogo preciso dove una di esse, presumibilmente la Cunsky, sarebbe stata inabissata. Recita al riguardo il memoriale, peraltro pubblicato dall'Espresso il 9 giugno 2005: “Io stesso mi sono occupato di affondare navi cariche di rifiuti radioattivi, per la precisione nel 1992, quando nell'arco di due settimane abbiamo affondato tre navi indicate dalla società Messina: la Yvonne A, la Cunsky e la Voriais Spordais.... La società Ignazio Messina ci disse che la Cunsky trasportava 120 bidoni di scorie radioattive.... Poi facemmo partire tre pescherecci e ognuno di questi raggiunse le tre navi per piazzare candelotti di dinamite e farle affondare, caricando gli equipaggi per portarli via...”. Quattro anni dopo, nel settembre 2009, un piccolo robot sottomarino telecomandato individuava, adagiata sul fondale antistante Cetraro a 480 metri di profondità, una nave mercantile lunga 120 metri che presentava a prua un profondo squarcio, dal quale si potevano scorgere dei fusti. Visibili erano anche due contenitori all'esterno della nave. Grazie dunque alla tenacia della procura di Paola, oggi presumibilmente il 'corpo del reato' c'è. Che si tratti o meno della Cunsky. Nel suo memoriale il pentito rivelava che la partecipazione attiva della 'Ndrangheta nel business di rifiuti era iniziato nel 1987, quando un esponente della cosca di San Luca veniva avvicinato da un dirigente dell'Enea di Rotondella, che voleva far sparire 600 fusti di rifiuti tossici e radioattivi depositati in due capannoni dell'Enea stesso. Dei seicento fusti da far sparire, cento sarebbero stati interrati in Basilicata, località Pisticci, e i restanti cinquecento sarebbero stati trasportati a Livorno, a inizio gennaio 1987, per essere imbarcati sulla motonave Lynx


a destinazione ufficiale Gibuti, in realtà scalo di triangolazione per l'invio della spedizione in Somalia. La nave, di proprietà della Fjord Tankers Shipping di Malta, era stata noleggiata dalla Jelly Wax, una società di Opera, nel milanese, il cui titolare era Renato Pent. Broker era stata la società romana Fin Chart. Quanto alle fatture con le descrizioni false per imbarcare le scorie tossiche e radioattive, erano state intestate al International Consulting Office (Ico) di Gibuti, scalo dove non era previsto l'attracco, essendo la nave in realtà destinata a Mogadiscio. Fin qui la denuncia del pentito, che non abbiamo modo di verificare, salvo cercare riscontri in quanto già precedentemente e autonomamente appurato dalla magistratura.

E ora i (primi) documenti Possiamo, ad esempio, documentare che solo un mese dopo la Lynx avrebbe fatto parlare di sé in un contesto analogo a quello descritto da Francesco Fonti. Nel febbraio del 1987 era infatti partita da Marina di Carrara con un carico di morte nuovamente a destinazione Gibuti, dove la polizia francese le aveva negato il permesso di attracco. Rimasta in prossimità delle coste somale nella zona di Berbera, il 18 marzo veniva stipulato un nuovo contratto che le dava una nuova rotta: da Berbera a Puerto Cabello, in Venezuela, dove la Lynx sarebbe arrivata il 25 aprile. Broker naturalmente la Fin Chart, noleggiatore sempre la Jelly Wax di Renato Pent, mediatore marittimo Miri de Dominis1 e armatore la Fjord Tankers Shipping. Curioso è constatare che fra la documentazione sequestrata alla Fin Chart era stata rinvenuta una dichiarazione rilasciata all'International Consulting Office (Ico) di Gibuti, lo stesso ente menzionato nella deposizione di Francesco Fonti relativamente al viaggio precedente della Lynx. Corredata da timbri doganali, la dichiarazione attestava l'invio della merce all'inertizzazione in loco2. Tutto documentalmente in regola insomma... La nave invece non era mai nemmeno entrata in porto. Scaricata comunque la merce in Venezuela, ci scappava subito il primo morto: un bambino rimasto praticamente fulminato per aver giocato sulla spiaggia in prossimità di uno dei fusti scaricati

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dalla Lynx. Per avere un'idea delle condizioni di sicurezza in cui venivano smaltiti i rifiuti, basta leggere un telex inviato dalla Jelly Wax alla Inversiones Ileadil, la società preposta all'inertizzazione in Venezuela: “In risposta ai vostri quesiti telefonici rispetto alla composizione dei prodotti inviati, vi comunichiamo che per una procedura di confezionamento sono stati mescolati fra loro. I fusti originali si stavano deteriorando, pertanto sono stati triturati con tutto il contenuto e travasati in altri fusti. I cinque prodotti sono quindi intimamente mescolati fra di loro. Se questo può creare difficoltà, fatecelo sapere.” Ma ancora più interessante, a dimostrazione delle coperture eccellenti di cui godevano questi traffici, è il telex inviato in data 10 febbraio dal questore di Marina di Carrara ai carabinieri, commissariato di polizia e prefetto. Testuale: “Attenzione presenza in porto di Marina di Carrara motonave Lynx battente bandiera maltese su cui dovranno essere imbarcati i fusti contenenti rifiuti industriali classificati come sostanze nocive et considerazione notevole rilievo dato da organi di stampa locali et nazionali at interesse da parte di gruppi ecologisti et verdi at suindicata presenza sostanze tossico-nocive, pregasi ciascuno ambito proprie competenze voler attuare attente misure vigilanza al fine di prevenire eventuali clamorose azioni protesta da parte suindicati gruppi. Comando Arma et circomare sunt pregati estendere vigilanza... Pregasi assicurare avvenuta partenza. Firmato ...” In Venezuela la stampa avrebbe scatenato un putiferio. E questo sia perché aveva scoperto la vera natura della merce e sia perché, nel frattempo, dall'Italia era arrivata una seconda nave carica di rifiuti tossici, la Radhost, che era stata inizialmente bloccata in porto nientemeno che da una nave da guerra della marina venezuelana.

Ritorno a casa: dei rifiuti L'Italia sarebbe stata costretta a riprendersi tanto il carico della Lynx quanto quello della Radhost. Il primo veniva caricato il 24 settembre sulla motonave Makiri, broker Fin Charte noleggiatore la Fjord Tanker Shipping, e partiva alla volta di Tartous, in Siria, paese che sembrava disposto ad accettarlo. Scaricato, veniva però ricaricato a razzo sulla Zanoobia, motonave battente bandiera siriana che

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lo avrebbe riportato in Italia. In pratica letteralmente rispedito al mittente. Il comandante della nave aveva motivato il cambio di decisione spiegando che il contenuto della lettera, col quale la Jelly Wax garantiva che il carico non era radioattivo, era falso3. Quanto alla Radhost, broker ancora Miri De Dominis, veniva spedita a Beirut, città già dilaniata dalla guerra civile dove arrivava il 21 settembre. In porto scaricava 15.800 fusti e 20 containers al cui interno, fra l'altro, vi erano isocianuri simili a quelli che avevano causato il disastro di Bhopal, India, e sabbia contaminata con diossina, molto simile a quella che era stata rimossa da Seveso dopo l'incidente4. Era un disastro ambientale. La stampa gridava allo scandalo e i politici invitavano ripetutamente Roma a riprendersi i suoi veleni. Invano. Poi, nel giugno del 1988, un gruppo clandestino presentatosi come 'Organizzazione per la Preservazione dei Diritti Libanesi', minacciava pesanti ritorsioni contro gli italiani e i loro interessi se Roma non si fosse ripresa entro una settimana tutti i suoi rifiuti. E tanto finalmente bastava. L'Italia ora prometteva che, per 'ragioni umanitarie', avrebbe riportato in patria 'tutto' il carico della Radhost. Tutto. Ma, secondo Greenpeace Libano, dei 15.800 fusti arrivati solo 5.500 sarebbero stati rimossi dal porto di Beirut, il loro contenuto mischiato a sabbia e il composto derivato piazzato in 9.500 fusti, pare arrivati dall'Italia per l'occasione. Gli altri 10.300 fusti sarebbero rimasti a Beirut, avrebbero impestato l'intera zona e fatto parlare di sé negli anni a venire. L'estate 1988 è ancora ricordata in Libano come la stagione in cui era proibito bagnarsi in mare5.

Arriviamo, appunto, alla Cunsky Quanto ai 9500 fusti da rimpatriare, che già pare fossero meno di un terzo del carico originale, sarebbero stati caricati sulla Yvonne A, sulla Cunsky, sulla Voriais Spordais e sulla Jolly Rosso. Secondo Greenpeace Libano, solo una delle quattro navi avrebbe raggiunto l'Italia con parte del carico originale ancora a bordo: la Jolly Rosso. Per le altre tre, Roma non avrebbe mai ufficializzato il loro arrivo in Italia con i rifiuti caricati a Beirut. E il 7 luglio 1988 il Middle East Economic Digest ipotizzava che tali rifiuti fossero stati parzialmente scaricati in mare. Nel 1992 infine, come dichiarato da Francesco Fonti, le tre navi sarebbero state affondate dalla 'Ndrangheta con il loro carico radioattivo al largo delle coste ioniche calabresi. Quanto alla Jolly Rosso, società armatrice sempre la Messina, aveva lasciato Beirut l'11 gennaio 1989 con destinazione La Spezia, dove sarebbe rimasta in disarmo in

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porto per quasi due anni. Cambiato nome in Rosso, avrebbe infine terminato la sua poco gloriosa carriera il 14 dicembre 1990 spiaggiandosi sul litorale cosentino nei pressi di Amantea. Un tentativo di affondamento non riuscito? Subito dopo l'incidente la Messina aveva richiesto l'intervento della società Smit Tak, un colosso olandese specializzato in bonifiche di aree contaminate da radiazioni, che avrebbe dovuto procedere al recupero della nave. Invece, evidenziava il rapporto del nucleo operativo dei carabinieri di Reggio Calabria: “La ditta, pur avendo operato per circa trenta giorni, non aveva effettuato alcuna attività di recupero, nonostante avesse operato con dei subacquei, dei gommoni e un grosso tir.” Consulente tecnico del procuratore reggino Francesco Neri, il 13 dicembre 1995 il trentanovenne capitano di corvetta Natale de Grazia era partito da Reggio Calabria per La Spezia dove, nel contesto dell'indagine in corso, avrebbe dovuto interrogare l'equipaggio della Rosso. Non sarebbe mai arrivato: colto da malore dopo una sosta in autostrada, si era accasciato in macchina. “Arresto cardio-circolatorio” era stato il vago verdetto dell'autopsia. In pochi credono alle cause naturali della sua morte. Le navi sopracitate naturalmente non erano le sole con le quali abbiamo appestato i mari e le popolazioni di mezzo mondo. Erano solo quelle direttamente coinvolte nelle vicende relative alle dichiarazioni di Francesco Fonti. Quanto ai personaggi citati, tanto il titolare della Jelly Wax Renato Pent quanto il broker marittimo Miri de Dominis erano strettamente legati a Giorgio Comerio, un ingegnere italiano di Busto Arsizio all'epoca residente a Guernsey (Isole del canale). Era sospettato dal nucleo dei Carabinieri di Reggio Calabria di essere il Deus ex Machina di tutta l'attività di smaltimento illecito di materiale radioattivo sia a livello nazionale che internazionale. E' lo stesso uomo col quale Francesco Fonti ha dichiarato di essere entrato in contatto nel 1993. L'ingegnere Comerio è passato alla storia come il padre del progetto Odm, dal nome dalla Oceanic Disposal Management (Odm), società registrata il 15 luglio 1993 alle British Virgin Islands dall'Arias & Fabrega Trust, una fiduciaria di Tortola. Sede anche a Lugano, Mosca e Lussemburgo, l'Odm aveva subito iniziato a cercare nei mari africani dei potenziali siti ove smaltire scorie nucleari: un progetto che prevedeva la loro incapsulazione in contenitori a forma di siluri destinati a essere inabissati nei fondali marini. In realtà Comerio aveva iniziato a occuparsi del progetto

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molto prima, e cioè quando partecipava, in qualità di membro esterno, ai lavori di un gruppo di studio dell'Agenzia per l'Energia Nucleare (Nea) dell'Ocse. Il gruppo, che doveva valutare la possibilità di seppellire rifiuti radioattivi in mare per conto della Comunità Europea, aveva operato dal 1978 al 1987 presso il Joint Researh Centre di Ispra, ma si era poi sciolto causa opposizione dell'opinione pubblica internazionale. Comerio aveva invece proseguito indisturbato, nonostante tale attività fosse stata messa al bando dalla Convenzione di Londra del 1993.

Il progetto criminale Ma vediamo il progetto Odm nei dettagli. Il penetratore altro non era che un siluro al cui interno venivano rinchiusi altri più piccoli contenitori, a loro volta riempiti di scorie radioattive. Lanciato da una nave in caduta libera, si riteneva che per effetto della velocità potesse inabissarsi fino a quaranta metri sotto il fondale marino, a una profondità di circa quattromila metri. Al siluro era collegato, tramite cavo, un trasponder, cui compito era quello di trasmettere alle navi i dati di caduta, penetrazione e posizionamento finale del siluro stesso. Tornato in superficie, il trasponder poteva essere usato per ulteriori lanci. Pare che tale progetto sia già stato realizzato nei mari africani e in quelli del Nord Europa. Comerio stesso, nella deposizione rilasciata al nucleo operativo dei carabinieri di Reggio Calabria, aveva peraltro ammesso di essersi recato in Sierra Leone per reperire un sito ove affondare i suoi penetratori. E non solo in Sierra Leone, pare. Ma Giorgio Comerio ha sostenuto di aver agito solo a livelli governativi, come peraltro confermato da Renato Pent in una deposizione resa il 12 maggio 1995 presso la Procura di Reggio Calabria: “Per effettuare i primi ordini mi recai col Comerio a Vienna, dove fummo ricevuti al Ministero dell'Ambiente dal ministro in persona, accompagnato da altri quattro ministri. All'incontro era presente Miri de Dominis, broker marittimo che fungeva anche da interprete... Non se ne fece nulla in quanto la notizia era trapelata sulla stampa.... Dopo quell'incontro ve ne fu uno da me promosso con i governanti della Svizzera...”. E nel corso della stessa deposizione, a riscontro della testimonianza del pentito Francesco Fonti, Renato Pent aveva aggiunto che al progetto Odm aveva partecipato anche l'Enea. Comerio, dal canto suo, ha dichiarato che il progetto

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Odm era stato finanziato dalla Cee e, se mai è possibile, ha aggiunto anche qualcosa di più inquietante: “Il mio progetto è moralmente e scientificamente valido rispetto a ciò che molti governi fanno buttando in mare rifiuti radioattivi senza le cautele che io propongo. La quantità dei rifiuti smaltiti in mare dai singoli governi risulta ufficialmente dai documenti della Cee che io ho acquisito e che sono in sequestro...”. Ma dalla documentazione sequestratagli erano emersi anche atti relativi all'acquisto, riparazione e cambio di bandiera di navi di scarso valore commerciale e in condizioni di degrado strutturale tale da far pensare che le stesse potessero essere destinate solo all'affondamento. Inoltre subito dopo lo spiaggiamento della Rosso, il comandante del porto aveva riferito alla Capitaneria di aver rinvenuto a bordo della nave delle strane carte, che a prima vista gli erano sembrate i piani di una battaglia navale. Avrebbe in seguito riconosciuto in detti piani le mappe del progetto Odm, sulle quali erano evidenziati i punti di inabissamento di diverse navi6. Comerio, nonostante abbia sempre negato, sembrava dunque essere in qualche modo coinvolto anche nel progetto delle navi a perdere, come peraltro emerge anche dal memoriale di Francesco Fonti. Il pentito riferisce infatti che Comerio aveva chiesto al boss Natale Iamonte di fornirgli il personale di bordo per l'affondamento della Rigel, altra nave inabissatasi il 19 settembre al largo di Capo Spartivento. E in una delle agende sequestrate al Comerio, alla data che corrispondeva all'affondamento della Rigel, era stata trovata l'annotazione Lost the ship: nave persa.

Una “personcina perbene” Giorgio Comerio era anche coinvolto in singolari traffici d'armi, leggi le 'telemine', ordigni bellici subacquei a forma di siluro dotati, nella parte superiore, di strumentazioni per telecomandi e telecamere. Depositate sui fondali marini da navi o sommergibili, le telemine potevano essere attivate da natanti di qualunque tipo, aerei o satelliti in grado di teleguidarle contro il bersaglio prescelto. Nella deposizione del 12 luglio 1995 alla Procura di Reggio Calabria, Comerio aveva precisato essersi trattato di un progetto commissionato dal governo argentino durante la guerra delle Falkland. Sicuramente anche. Ma dalla deposizione di un altro teste (M.N.) alla stessa procura, era emerso che nel febbraio del 1992 il Comerio aveva avuto contatti col governo irania-

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no per la vendita delle telemine. E infatti il rapporto del nucleo operativo dei carabinieri di Reggio Calabria precisava: “Dalla documentazione relativa emergono contatti con paesi arabi e transazioni bancarie in dollari su banche svizzere, che fanno ritenere avvenuta la vendita di tali ordigni”. Va da sè che una simile attività implicasse movimenti di ingenti quantità di denaro. Inquietante però è che questo provenisse parzialmente, secondo il rapporto dei Carabinieri di Reggio Calabria, da “finanziamenti pubblici da parte di organi elettivi europei e internazionali”.

I primi soci (e presto tutti gli altri) Quanto ai soci di Giorgio Comerio, qui ci limitiamo a citare Gabriele Molaschi, individuo con contatti a livelli governativi che muoveva ingenti somme di denaro, il cui campo spaziava dallo smaltimento illecito di rifiuti radioattivi al traffico d'armi pesanti7. Fra la documentazione sequestratagli era emersa anche traccia di una trattativa riguardante l'armamento e l'equipaggiamento di centomila uomini in alcuni paesi africani: qualcosa in grado di spostare gli equilibri geopolitici di un continente... Da qui il rapporto del nucleo operativo dei carabinieri di Reggio Calabria: “Da un primo esame della documentazione è emerso un imponente traffico illecito per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi... e un colossale traffico d’armi. La mente operativa è stata individuata in Giorgio Comerio, nella cui abitazione di Garlasco è stata sequestrata documentazione così rilevante che il suo contenuto supera l'umana immaginazione”. Germana Leoni

1/continua

Note:

1 Da polizza di carico – Roma, 18 marzo 1987 2 Rapporto Nucleo Regionale Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Trieste – 27 maggio 1989 3 Ibid 4 Toxic Attack against Lebanon' – Fouad Hamdan – Greenpeace Mediterranean – Malta, agosto 1996 5 Ibid 6 Rapporto Nucleo Operativo Carabinieri di Reggio Calabria – 26 maggio 1995 7 Rapporto Nucleo Operativo dei Carabinieri di Reggio Calabria – maggio 1995

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ANALISI

Niente di grave:

F

giusto 25 suicidi

L’impresa si ristruttura e le persone si devono adattare a ogni nuovo ordine. Chi non se la sente è fuori. Chi non ce la fa sta male. E a volte si ammazza

di Federico Zamboni

rance Telecom era un’azienda di Stato, fino al 1998. Poi, secondo quella che è ormai la regola, è stata privatizzata. Apparentemente, come credono gli ingenui e come raccontano i furbi, era solo un cambio di proprietà, che portava nuovi capitali e sollevava la macchina pubblica, già così oberata da mille problemi e da mille incombenze, dal doversi occupare anche di vendere servizi telefonici ai cittadini. In realtà, sorvolando sull’opportunità o meno che certi settori strategici vengano ceduti a chi li gestirà nel suo esclusivo interesse, il mutamento di titolarità era il preludio di trasformazioni assai più profonde. Nella nuova veste, infatti, l’obiettivo dei manager ha smesso di essere la semplice correttezza amministrativa, come accade in un’azienda pubblica, ed è diventato il profitto. Anzi, il massimo profitto. I requisiti da soddisfare non erano più la bontà dei servizi erogati e il buon uso delle risorse a disposizione. Fare bene il proprio lavoro e non sprecare soldi non era più sufficiente. Essendo cambiata l’ottica, dall’utilità collettiva agli utili degli azionisti, era l’intera impostazione a dover essere riconsiderata. E persino stravolta, se necessario. Quello che bisognava chiedersi, d’ora in avanti, era se si poteva guadagnare di più nello stesso periodo di tempo. Il che portava dritto a due domande cruciali: quali sono i settori della nostra attività che sono più remunerativi? Ci conviene fare tutto all’interno, o è più conveniente appaltare alcune cose all’esterno? Le risposte, ampiamente prevedibili, sono state che si fanno più soldi con la vendita dei servizi che non con la manutenzione degli

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impianti e che, quindi, era molto meglio concentrarsi sul marketing e affidare a terzi tutto quello che si poteva. Col cospicuo vantaggio, tra l’altro, di scaricare sulle ditte esterne l’onere della riduzione dei costi, a cominciare da quelli del lavoro subordinato: ridurre gli stipendi e imporre aumenti di produttività è complicato, quando sei un colosso da centomila dipendenti e devi fare i conti coi grandi sindacati, operando per di più sotto i riflettori dei media che, bene o male, ingigantiscono i conflitti e limitano le possibilità di spadroneggiare nell’ombra; con gli appalti ti sei levato l’impiccio: tu fissi il prezzo che ti fa comodo ed è il fornitore a doversi preoccupare di renderlo lucrativo per la propria impresa; tu non hai obbligato nessuno ad accettare paghe ribassate, contratti precari e turni massacranti: quelle sono decisioni autonome di chi si è assicurato l’appalto; decisioni che restano fuori dal tuo controllo e, quel che più conta, dalla tua responsabilità giuridica.

Uno + uno + uno + uno I suicidi sono cominciati nel febbraio del 2008. Fatalmente inosservati, all’inizio. In un sistema mediatico in cui spesso è solo il numero delle vittime, a fare la differenza tra la notiziola di cronaca da liquidare in poche righe e l’avvenimento eclatante sul quale soffermarsi con dovizia di particolari e di commenti, un tizio che si ammazza è un fatterello secondario. Una vicenda individuale che, per quanto tragica, rimane confinata in un ambito del tutto specifico. Roba da pagine interne. O da informazione locale. I suicidi si sono ripetuti. Uno qua e uno là. Abbastanza diversificati, per collocazione geografica e per caratteristiche personali, da non balzare all’occhio come eventi intimamente legati, e legati allo stesso ambiente lavorativo. La connessione non è stata colta. O è stata ampiamente sottovalutata. Se i morti fossero stati in servizio nella stessa sede il dato sarebbe emerso con forza. Siccome erano occupati in sedi diverse, ancorché della medesima impresa, il collegamento non è stato colto. Abbiamo i database per i serial killer, non per i suicidi da malessere aziendale. Una strage che avviene tutta in un colpo la percepiamo come tale; lo stillicidio di un morto ogni tanto ci sfugge. Siamo fatti così. Ci hanno tarati così. Ma alla fine, per forza di cose, il velo della disattenzione è stato squarciato. Alcune delle persone che si sono uccise hanno lasciato dei biglietti d’addio in cui lo

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dicevano esplicitamente. È il lavoro, quello che mi ha spinto a farlo. Questo lavoro che non è più lo stesso per il quale ero stato assunto. E che mi piaceva, a dire il vero. Per quanto possa piacere un lavoro, certo. Un lavoro che devi fare tutti i giorni e che non è pagato un granché. Niente di straordinario, però mi piaceva. Lo sapevo fare. Mi dava soddisfazione. E se non mi dava soddisfazione mi dava sicurezza. Quando finalmente il caso è esploso, e si sono mossi i grandi giornali, e sono partite le inchieste, alle poche parole delle vittime si sono aggiunte quelle dei loro colleghi che stavano subendo le stesse cose, ma che per fortuna le sopportavano meglio. Se ne potrebbero citare a decine – e se non ci fossero problemi di spazio sarebbe la cosa più giusta, per dare fino in fondo il senso di un disagio talmente diffuso da diventare oggettivo – ma ne bastano due. Tratte entrambe dalle pagine di Le Monde. La prima è di una donna, Olivia J.:«Dieci anni fa ero fiera del mio posto a France Telecom. Il lavoro era stimolante ed ero contenta. Dopo è cambiato tutto. L’azienda si è disumanizzata, ormai siamo solo cifre. L’unica cosa che conta è quante vendite si riescono a portare a termine alla fine della giornata. Lo stress è permanente e gli smottamenti sono incessanti: sono alla sesta mansione. Ogni volta ci viene chiesto di ricominciare da zero e vendere sempre di più. La maggior parte dei miei colleghi va avanti ad antidepressivi. Quando sarà il mio turno di scoppiare?» La seconda è di un uomo, Daniel Lebrun: «Non si lavora più ma si naviga a vista, la ricerca e l’innovazione sono disorganiche. Tecnici pieni di professionalità si ritrovano al servizio marketing: da quando ci siamo trasformati in una società di servizi, abbandonando la tecnica e lo sviluppo industriale, non siamo più noi stessi.»

Suvvia, il mondo cambia Il management ha fatto muro, finché ha potuto. Ha rigettato le critiche. Ha minimizzato la portata del fenomeno. Venti suicidi tra i nostri dipendenti? Venti suicidi in più di un anno? Ma noi siamo più di centomila, in totale.Venti su centomila fa una percentuale dello 0,02 per cento. Non è poi così alta, se ci si pensa bene. Il vicepresidente, Louis Pierre Wenes è caduto dalle nuvole. Ha dichiarato di non riuscire a «comprendere come una piccola parte dei nostri dipendenti non riesca a cambiare mentalità». Wenes era a capo della

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ristrutturazione interna. Come si dice in gergo,“il tagliatore di teste”. Tu resti e tu te ne vai. Come tecnico non ci servi più. Che ne dici? Passi al commerciale o ti levi di torno? Roba così. Piglio da supermanager e brutalità da capataz. A ottobre lo hanno convinto a dimettersi, previa sollevazione sindacale e interessamento di Sarkozy. Il presidente, Didier Lombard, ha fatto di peggio. È arrivato a definire i suicidi «una moda». Letteralmente. Poi ha aspettato ottobre per ingranare la retromarcia e per scusarsi, in un’intervista messa in onda dall’emittente radiofonica Europe 1. Lombard ha riconosciuto che quella sua espressione era stata «una gaffe enorme» e la «parola più catastrofica» che si potesse pronunciare, e si è prodotto in una specie di mea culpa, riguardo al quale è inevitabile chiedersi quanto ci sia di sincero e quanto no. Quanto sia scaturito da un ripensamento autentico e quanto, invece, da una mera operazione d’immagine, nell’interesse proprio e, soprattutto, dell’azienda: «Abbiamo sottovalutato i segnali di sconforto che arrivavano dal personale. Noi... Io non ho probabilmente prestato sufficiente attenzione ad alcuni indicatori. Alcuni parametri umani sono stati sottovalutati nella nostra organizzazione. A forza di correre dietro alla prestazione, il management locale ha perso di vista le libertà». A gennaio 2009, in una riunione che doveva restare privata ma che è stata filmata e che, infine, è diventata di dominio pubblico attraverso la rete1 , aveva usato toni decisamente diversi. Arringando i propri collaboratori da un palco, Lombard aveva suonato la carica della competizione sfrenata e, già che c’era, aveva lanciato un minaccioso e sarcastico richiamo a quelli che si fossero illusi di cavarsela senza troppi danni: «Sappiamo a cosa andiamo incontro. Bisognerà adattarsi alla realtà con una rapidità ancora maggiore. E chi crede di potersi riposare sugli allori, e starsene tranquillo, si sbaglia. Quelli che non sono a Parigi, e che pensano che andare a pescare le cozze sia meraviglioso... Beh, è finita!» Il discorsetto si capisce benissimo anche così, ma accompagnato dalle immagini diventa molto più chiaro. Non il suo significato: il tipo di uomo che lo pronuncia. Lombard trasuda soddisfazione e arroganza. Il suo richiamo al massimo impegno sarà anche dettato dalle circostanze, ma è vissuto con intimo e malcelato compiacimento. Non sta spronando i suoi uomini. Sta angariando i suoi schiavi.

Suvvia, il management si cambia La testa di Wenes è caduta subito. Quella di Lombard è rimasta al suo posto, per ora. La sua sorte appare segnata – e a quanto sembra si compirà nel 2011 – ma a concedergli una momentanea salvezza è la stessa logica che ha spazzato via

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Wenes, inducendolo a rassegnare le dimissioni. I destini personali sono subordinati a quelli dell’azienda. Per dare alla pubblica opinione un segnale, o un contentino, non c’era bisogno di abbattere all’unisono sia il presidente che il suo vice. Gli avvicendamenti al vertice non dovevano tradursi in una destabilizzazione del gruppo. France Telecom andava salvaguardata, benché fosse proprio in nome dei suoi profitti, pari a oltre quattro miliardi nel solo 2008, che erano state attuate le ristrutturazioni aziendali da cui hanno avuto origine il degrado del clima lavorativo e la tragedia dei suicidi. È un escamotage già usato tante altre volte e che ha avuto la sua apoteosi in occasione della crisi mondiale tuttora in corso. Non sono le banche e le finanziarie a essere sbagliate in se stesse, e nella loro smania di moltiplicare gli utili in via esponenziale. Niente affatto. Sono i loro rampanti funzionari a caccia di bonus a non aver capito dove dovevano fermarsi. Vedrete: basterà rivedere i criteri di concessione dei bonus e tutto andrà a posto. Più o meno. Nel caso di France Telecom si sta procedendo allo stesso modo. Oggi si è sostituito Wenes e domani si sostituirà Lombard. Come se fossero solo loro, i responsabili di quello che è successo. Come se l’idea di riorganizzare il gruppo a tavolino, preoccupandosi solo dei dati di bilancio e considerando i lavoratori come pedine da spostare a piacimento, fosse nulla di più che un loro capriccio. Vedete? È stato tutto uno spiacevole equivoco. Monsieur Lombard e monsieur Wenes si erano fatti prendere la mano e sono stati fermati. Peccato che non sia affatto così. Lombard e Wenes non sono schegge impazzite. I loro atteggiamenti cinici non sono (solo) il riflesso della loro mentalità da signorotti tracotanti. La loro condotta spietata non è un malinteso causato da eccesso di zelo. È l’incarnazione dello spirito stesso di un certo modo di concepire l’impresa e, più in generale, la vita economica. France Telecom non può essere altro che quello che è, fino a quando il contesto in cui opera non si dovesse modificare accantonando per sempre determinate premesse. France Telecom è nata per essere questo. Per raggiungere il proprio obiettivo – accrescere gli utili e distribuire dividendi – con qualsiasi mezzo. La sua è una guerra. E venticinque lavoratori che si suicidano sono un evento spiacevole e persino tragico, ma pur sempre secondario. Danni collaterali, come dicono i militari. Federico Zamboni

Note: 1 Il video è reperibile, tra l’altro, all’indirizzo http://www.affaritaliani.it/mediatech/france_telecom_video051009. html

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INCHIESTA

Banche

U

italiane e assegni strani

Non solo i grandi colossi del credito hanno avuto (e hanno) condotte quanto meno criminali. Stavolta molto di strano c’è anche da “noi”. Ecco la storia di Unicredit e Nazareno Gabrielli

di Roberto Scorcella

n'azienda sull'orlo del fallimento di questi tempi non è una novità. Particolarmente inquietante, ma anche questa purtroppo inizia a diventare una consuetudine, il fatto che a spingerla verso il baratro sia stata una banca. La vicenda riguarda un marchio che a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta è stato una griffe rinomata, sui livelli di Gucci e Cartier, con negozi in ogni parte del mondo e capi ricercatissimi. Stiamo parlando della Nazareno Gabrielli, azienda del maceratese fondata nel 1907 dall'uomo che le ha dato il nome. Per entrare nella vicenda bisogna capire che cosa è stata la Nazareno Gabrielli. Specializzata nel pellettiero, sotto la direzione del manager David Passini sceglie negli anni Ottanta di introdurre il design in ogni prodotto e buttarsi a capofitto in una politica di marchio con una netta predilezione verso il settore femminile. La scelta è vincente e gli anni Novanta vedono la Nazareno Gabrielli sfiorare un fatturato di 130 miliardi con circa 600 dipendenti. Gli effetti di qualche operazione finanziaria azzardata, portano verso una parabola discendente e a un declino inesorabile. Passini vende nel 1999 l'azienda a Angelo Corona, manager abruzzese che due anni prima aveva rilevato il 100 % della fiorentina Pineider,

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dopo che Diego Della Valle aveva rinunciato all'opzione per rilevare i due stabilimenti della Gabrielli. Nel 2005 il marchio viene rilevato da un giovane torinese rampante, Filippo Tarocco, amministratore delegato di Key Group. "La società" dichiara Tarocco ai giornali dopo l'acquisizione della Gabrielli "intende sviluppare un piano di rilancio triennale, con al centro un forte sviluppo internazionale del marchio, che sarà riposizionato all'interno del segmento alto del mercato. Prevista a tale scopo anche la prossima apertura di 30 negozi monomarca in Italia e all'estero. Tra gli obiettivi c'è la salvaguardia dell'occupazione e delle competenze del settore della pelletteria, come pure la garanzia della presenza di un sito industriale a Tolentino". Dopo due anni, nel 2007, Tarocco, con la Gabrielli sull'orlo del fallimento, venderà il marchio. Nel frattempo, però, malgrado tutto si realizza come esperto di economia aziendale scrivendo un libro: "Basilea 2. Nuovi scenari del rapporto bancaimpresa". Uno dei capitoli riguarda il rapporto fra banche e imprese. Che evidentemente conosce molto bene, visto quello che succederà qualche mese dopo l'acquisizione del marchio Nazareno Gabrielli da parte dei nuovi proprietari, due imprenditori milanesi: Paolo Badile e Michele Spagna. Il passaggio di consegne ufficiale della proprietà di quella che ora si chiama Pelletterie 1907 da Tarocco a Badile e Spagna avviene il 4 ottobre 2007. Quanto successo nei giorni successivi lo racconta lo stesso Badile. “Penso sia opportuno partire dalle date. La nuova società si è formalmente insediata il 4 ottobre 2007.

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Abbiamo trattato con la precedente proprietà, preso visione dei bilanci e delle esposizioni nei confronti degli istituti di credito fino ad arrivare alla acquisizione della Nazareno Gabrielli. Magicamente, e per la nostra gestione drammaticamente, nell’estratto conto di Unicredit di fine ottobre 2007 ci siamo visti addebitare settantadue assegni per quasi un milione e trecentomila euro. Questi assegni erano stati emessi fra l’aprile e il giugno 2007 dalla precedente gestione e regolarmente pagati da Unicredit alla data dell’incasso. Una somma tanto rilevante, però, è rimasta sospesa per così dire… nell’etere per circa sei mesi fino a ricomparire improvvisamente non appena noi ci siamo insediati. Per essere ancora più precisi, tutti i settantadue assegni ci sono stati addebitati con la medesima data: 22 ottobre 2007. Curioso, no? Soldi letteralmente scomparsi per così tanto tempo di cui nulla sapevamo e che hanno provocato il dissesto finanziario di Pelletterie 1907. Infatti, a seguito dell’addebito sul conto di una cifra così cospicua, Pelletterie 1907 è entrata nella Centrale Rischi di Banca d’Italia in quanto ha sconfinato dagli affidamenti concessi per oltre un milione di euro. Una cosa simile non l’ho mai vista né sentita in tutta la mia vita. Oggi un risparmiatore che deve pagare un assegno, se entro due giorni dalla data dell’incasso non ha i fondi sul conto, il titolo viene protestato. Ho sempre creduto che gli istituti di credito potessero in qualche modo aiutare privati e aziende, confidando nella buona fede e nella buona gestione del denaro loro affidato. Questa vicenda, al contrario, mi ha aperto gli occhi su come realmente funziona il sistema”. E quando chiediamo a Badile chi abbia incassato quegli assegni la risposta è semplicemente disarmante. "I soldi sono finiti a diversi soggetti. Una parte ai fornitori, una parte è stata invece incassata da società collegate alla precedente gestione”. Evidentemente Tarocco aveva proprio studiato bene il capitolo del rapporto banche-imprese. Ma le dolenti note devono ancora arrivare. Entrare nella Centrale Rischi di Banca d'Italia oggi per un'azienda vuol dire aver chiuso con il credito. La stessa cosa che capita ai privati che non pagano la rata dell'aspirapolvere e si ritrovano nelle black list come il famigerato Crif: credito precluso per almeno un decennio, sempre che la plutocrazia bancaria sia benevola nei suoi confronti. E a Pelletterie 1907 cosa è successo dopo essere stata inserita nella Centrale Rischi? “Alcune banche" spiega Badile "ci hanno bloccato l’utilizzo delle linee di credito in essere e negato la possibilità di ricorrere a linee di credito aggiuntive. Inoltre, mi sono state chieste ulteriori garanzie personali per linee di credito già esistenti, peraltro stranamente concesse per importi rilevanti alla precedente gestione senza alcun tipo di garanzia. Un’azienda di pelletteria che lavora in un settore “stagionale” come quello del fashion deve obbligatoriamente ricorrere al finanziamento bancario per finan-

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ziare un ciclo produttivo che si chiuderà con l’incasso del cliente dopo oltre un anno. Questo comportamento di Unicredit ha fatto sì che gli aumenti di capitale versati su Pelletterie 1907, circa tre milioni e mezzo di euro, non siano stati utilizzati in maniera efficiente per poter ristrutturare il debito dell'azienda, ma per finanziare il corrente ovvero la produzione e per pagare oltre tre mesi di decine di stipendi arretrati, eredità della precedente gestione. Da qui, quindi, si è innescato un effetto domino con il sistema bancario che, con il tempo, ha portato prima alla crisi di liquidità e poi alla situazione attuale”. Insomma, piani di rilancio e di investimento azzerati ancor prima di cominciare, carenza di liquidità, ritardi nei pagamenti degli stipendi e a luglio 2009 un'istanza di fallimento promossa dai dipendenti e pendente al Tribunale di Macerata. Con il rischio che un marchio ultracentenario, segno della storia e della laboriosità di un intero territorio, finisca magari nelle mani di qualche cinese facoltoso per quattro denari. Intanto i 50 dipendenti della Gabrielli sono tutti a casa. E per loro non sembrano esserci prospettive, soprattutto nell'eventualità che l'azienda venga dichiarata fallita. Pelletterie 1907 si è rivolta al Tribunale civile di Milano chiedendo il rigetto dei decreti ingiuntivi di pagamento emessi da Unicredit ad aprile 2009, sostenendo il dolo negoziale con richiesta di risarcimento dei danni finanziari e d'immagine. Il Tribunale, dopo una prima udienza ha aperto un giudizio di merito per una valutazione tecnica. Prima, però, c'è stato un tentativo di accordo? “Certamente. Ci siamo seduti a un tavolo” dice Badile "e ho dovuto accettare fidejussioni personali per oltre 5 milioni di euro, oltre a un piano di rientro assolutamente insostenibile per un’azienda in evidente difficoltà finanziaria”. Unicredit, dal canto suo, chiarisce la propria posizione affermando che "gli assegni non furono addebitati alla data del loro ricevimento in quanto la procedura non prevede addebiti in assenza di provvista". Furono perciò "allocati a sospesi in attesa che si verificassero alcuni eventi prospettati dall'azienda (aumento di capitale e incasso crediti), in considerazione dei quali la banca aveva deciso di accordarle la sua fiducia". Ma gli assegni, in assenza di provvista, non finiscono nelle mani di un notaio per poi essere eventualmente protestati? Perlomeno questa è la regola applicata con i poveri cristi. Qui, invece, si tiene 1 milione e 300mila euro allocato chissà dove in attesa che si verifichino eventi aleatori prospettati da un'azienda in crisi! Dove saranno finiti tutti quei soldi fra il maggio e la fine di ottobre del 2007? Mistero. Così, mentre il presidente del consiglio a Tripoli cerca di ottenere da Gheddafi ossigeno (denaro fresco) per finanziare Unicredit in difficoltà e il ministro Tremonti da mesi suona una tremebonda carica contro le banche che non finanziano le imprese, cinquanta persone si trovano per strada, senza più un lavoro, senza più uno stipendio, senza più una prospettiva anche e soprattutto per un comportamento quantomeno anomalo di un istituto di credito che paga assegni senza copertura finanziaria sulla base di "promesse". E c'è da riflettere perchè se questo è capitato a una piccola azienda come Pelletterie 1907, si può immaginare cosa possa succedere quando il discorso si allarga verso le grandi industrie. Ma in tempi di plutocrazia non c'è da aspettarsi altro che storie come questa. Roberto Scorcella

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EDITORIA

Monsanto

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I veleni nel mondo

Edizione italiana, finalmente, di un clamoroso libro dedicato a una delle più importanti multinazionali della Terra. Dagli Ogm al controllo dei media. Senza che nessuno lo sappia.

di Marzio Pagani

ra i grandi temi del momento, grande clamore hanno suscitato i pericoli che starebbe correndo la libertà di stampa in Italia, con tanto di frotte di giornalisti in piazza e politici in passerella. Legittimo, bisognerebbe però chiedersi come viene usato da noi questo prezioso bene, se i nostri giornalisti hanno il coraggio di attaccare frontalmente i veri gangli del potere, se hanno la voglia di imbarcarsi in duri lavori di ricerca per costruire dossier, inattaccabili da cause di risarcimento, nella tradizione del miglior giornalismo di inchiesta e denuncia, o, più ancora, se le loro testate sono disposte a lasciare loro la libertà (che ritengono in pericolo) quando il bersaglio è qualcuno che fornisce, e potrebbe togliere, pubblicità: la risposta, a parte la Gabanelli e il team di Report - e poche altre realtà - è fin troppo palese. Difficilmente vedremo presi di petto poteri economici forti, citando nome cognome e, soprattutto, marchio, se poi si tratta di una delle multinazionali più influenti. Meglio occuparsi della escort del momento, sia il giornalista che la testata rischiano meno. In Francia, invece, dove esistono canali come “Arté”1 e un’altra tradizione di libertà, il caso giornalistico è stato il rilascio de “Il mondo

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secondo Monsanto” firmato da Marie-Monique Robin, Premio Albert Londres 19952, che, naturalmente, in Italia nessuno ha mai mandato in onda. All’emissione televisiva la Robin ha fatto seguire un libro dal medesimo titolo, che si è rivelato un vero caso editoriale, con grande successo di vendite oltralpe. Il libro, che scava con rigore giornalistico e scientifico nei misfatti della Monsanto, è disponibile in Italia, com’è naturale per una pubblicazione di sicuro successo per un settore come l’editoria sempre in crisi e in caccia di sovvenzioni. Non sono, però, stati i grandi editori, che avrebbero avuto buon gioco ad accaparrarsi i diritti, garantendo poi quella diffusione e visibilità che porta ad un sicuro ritorno economico. No, ci sarebbe voluto troppo coraggio. Così a rendere disponibile al lettore italiano questo promettente titolo, c’è voluto un editore realmente non allineato e fuori dal coro come Arianna Editrice. La vera libertà di stampa la si difende rendendo di pubblico dominio cosa si cela dietro la più influente multina-

Quello impiegato in Vietnam come “diserbante” nella guerra Usa, continua tuttora a mietere vittime tra la popolazione civile. Produzione d.o.c. della Monsanto, of course. zionale del mondo: la Monsanto. Altro che i bagni di palazzo Grazioli. Il lavoro di acquisizione di informazioni della Robin sorprende per minuziosità e attendibilità, e se così non fosse stato la Monsanto, che dispone delle migliori schiere di avvocati degli Stati Uniti, non avrebbe esitato a scagliarsi contro di lei. Proprio l’assenza di azione legale, pertanto, è la miglior garanzia della veridicità di quanto la giornalista francese affermi, questo per tacere del costante lavorio di intralcio che la giornalista ha subito a tutti i livelli, sia nella fase di diffusione che in quella di acquisizione dell’informazione. Quanto emerge dal libro è da far accapponare la pelle, almeno per chi, e ahino sono molti, non ha mai sentito parlare di Monsanto. Sono molti perché la Monsanto ha sempre ben saputo manovrare l’informazione, e non solo quella mediatica, ma anche quella scientifica e istituzionale. I dati che emergono dall’indagine della Robin sono raccapriccianti, la multinazionale dei PCB, della BST, dell’Agente Arancio e degli OGM gode di ottima reputazione istituzionale, ma lo schema delle porte girevoli che il libro rivela spiega tutto.“Porte girevoli”: così viene chiamato il passaggio di persone dalla multinazionale verso le istituzioni statali e scientifiche e viceversa, garantendo così un controllo quasi completo di colui che dovrebbe, invece, controllare.

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Non solo questo: la Robin ha trovato grandi difficoltà nel raccogliere dati, perché la Monsanto è anche riuscita a gettare sistematicamente discredito su tutti gli oppositori stroncandone le carriere, e non tutti sono stati disposti a bruciarsi di nuovo parlando con la giornalista. Di tutto ciò però abbiamo solo l’eco di un documentario di Arté trasmesso in Francia, come accennato, e dal libro edito da Arianna, mentre è assordante il silenzio dei giornalisti che sono scesi in piazza strepitando per una libertà di stampa che non usano, e ancor meno dai grandi gruppi editoriali che sanno ben nascondersi quando il rischio è reale. E non c’è solo da agitare il fantasma di rigurgiti fascisti e derive autoritarie. Quando c’è il rischio di perdere un inserzionista, perché Monsanto in pubblicità di soldi ne spende eccome, la libertà di stampa passa in secondo piano. Va detto, come emerge dal libro, che la capacità di mistificazione della Monsanto è spettacolare: durante la guerra del Vietnam riuscirono addirittura a nascondere la reale portata della tossicità del prodotto anche all’esercito americano, e non stiamo parlando dei solda-

Anche l’Unione Europea, in un singulto d’etica, vieta l’ormone della crescita bovina BST prodotto da questa azienda. Ma la Fao/Oms (leggi WTO) non se ne avvede. ti, della carne da cannone, ma dei più alti gradi delle forze armate. Non è un caso che uno dei più acerrimi nemici della multinazionale sia un Ammiraglio che ha mandato il figlio a morire credendo che, invece, nell’azione bellica, il supporto del terribile diserbante avrebbe salvato vite americane. Un diserbante che in Vietnam continua a uccidere e a causare malformazioni attraverso falde irrimediabilmente inquinate, ma le reazioni di quelli che furono i fieri Vietcong ora sono marginali, la Monsanto riesce a controllare le istituzioni di un popolo che il più potente esercito del mondo non riuscì a domare. Il fattore arancio è, però, poca cosa a confronto dei PCB, impiegati su larga scala come refrigeranti, e la cui incredibile tossicità è stata tenuta a lungo nascosta e il cui divieto di impiego fu ottenuto dopo molti sforzi. Altra minaccia è l’ormone di crescita bovina BST, vietato in UE,

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che viene propagandato come assolutamente innocuo per bestie e persone, mentre vi sono evidenze in senso diametralmente opposto. Il Codex Alimentarius, però, organismo sopranazionale FAO/OMS, naturalmente senza base democratica ma vincolante ai fini WTO, non sembra riuscire a vedere queste evidenze e appoggia la visione del mondo secondo Monsanto, anche una volta che l’Europa si era mossa nel senso giusto. Sugli OGM, le acrobazie Monsanto raggiungono il culmine, facendo passare nella legislazione il concetto di equivalenza sostanziale dei suoi prodotti di ingegneria genetica, che sono sì, abbastanza diversi da potere essere brevettati, ma abbastanza uguali per non dover essere controllati prima della messa in circolazione. Essendo poi sostanzialmente equivalenti l’etichettatura non c’è perché non può interessare il consumatore e poi lo porterebbe a scelte irrazionali condizionate da ragioni emozionali e antiscientifiche. Non a caso i migliori giuristi e lobbisti sono al servizio di Monsanto. I brevetti sugli esseri viventi, infine, sono il grande colpo messo a segno dalla multinazionale della chimica che vuole dare un’immagine agricola, un colpo che, tramite le sementi ibride, sta mettendo in ginocchio molte economie del sud del mondo e colpendo a morte la biodiversità. Questo è solo un piccolo assaggio del capillare, lungo e professionale lavoro della Robin su una delle più potenti multinazionali al mondo. Un lavoro improbo e irto di difficoltà, non ultimo un rischio di querela da far impallidire le piccolezze italiane, e a cui non è stato dato giusto risalto in Italia. Ma si sa, meglio bazzicare i palazzi che fare del giornalismo d’inchiesta, sono storie molto più avvincenti per catturare il lettore. Eppure, lette le prime righe, non si riesce più a staccare gli occhi dalle pagine della Robin.

Marzio Pagani

Note: 1) Canale culturale monotematico bilingue franco-tedesco 2) Maggior premio giornalistico francofone, una sorta di Pulitzer francese « Notre métier n'est pas de faire plaisir, non plus de faire du tort, il est de porter la plume dans la plaie. » Cette maxime d’Albert Londres résume bien l'idéal de ce professionnel de l'information qui reste une référence pour de nombreux journalistes français. Depuis 1933, le Prix Albert Londres récompense les meilleurs journalistes francophones.

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MOLESKINE novembre 2009

Crisi e spunti

- La riforma del FMI e delle istituzioni della governance mondiale annunciata al G20 di Londra resta lettera morta - il G8 somiglia sempre più ad un club moribondo di cui tutti si chiedono oramai a che cosa può ben servire - la leadership americana non è più che l'ombra di se stessa la quale tenta disperatamente di conservare degli acquirenti per i suoi buoni del tesoro - il sistema monetario mondiale è in piena disintegrazione coi russi ed i cinesi che accelerano il loro gioco per posizionarsi nel dopo-dollaro - le imprese non vedono nessun miglioramento all'orizzonte ed aumentano i loro licenziamenti - gli Stati, sempre in numero maggiore, vacillano sotto il peso del loro debito accumulato per "salvare le banche". Tutto ok, tranquilli...

Il nuovo quotidiano del Ribelle (stato avanzamento lavori) Siamo a un passo dal far partire questa nuova iniziativa della quale molti lettori già sanno, perché magari ne hanno letto sul sito del Ribelle, ma che altri comprensibilmente potrebbero ancora non conoscere: Massimo Fini e tutta la redazione del mensile stanno lavorando sodo alla ideazione della versione quotidiana de La Voce del Ribelle. La piccola (e poi affatto così piccola, visto il rapporto con i numeri veri di una miriade di giornali che vivono con i contributi pubblici…) comunità di persone che si è riunita attorno al mensile - il quale ormai ha una sua stabilità confermata - ci ha dato l'idea (e suggerito la necessità) di fare in modo che le idee e le analisi non conformi alle quali ci

dedichiamo per il mensile possano avere una cadenza anche quotidiana. Con un formato e un taglio certamente diversi, s'intende, ma con la caratteristica principale di avere un flusso e una attenzione giornaliera. In altre parole, lasceremo al mensile la parte relativa all'analisi e ai reportage, alle inchieste e ai servizi speciali, mentre pubblicheremo nella versione quotidiana tutta una serie di interventi strettamente legati all'attualità. Un modo insomma per avere un contatto quotidiano oltre all'approfondimento mensile. Siamo a un passo, dicevamo, perché quello ulteriore possiamo solo compierlo insieme. Insieme ai lettori. E non stiamo parlando solo di quello - evidente relativo all'accoglienza, ovvero agli abbonamenti, all'edizione quotidiana, senza i quali naturalmente una impresa del genere è non solo inutile ma anche impossibile. Ci riferiamo invece anche al disegno vero e proprio di questo nuovo prodotto editoriale. Aspetto che vogliamo fortemente sia realizzato almeno in parte in modo condiviso con i lettori. Vediamo di cosa si tratta. Mentre studiamo il timone generale del quotidiano, ovvero la tipologia e il taglio dei vari contenuti da inserire nell'edizione di ogni giorno, vorremmo che arrivassero dei suggerimenti proprio da chi poi andrà a leggerlo. Dunque se avete delle idee, delle richieste specifiche, delle rubriche che vi appaiono utili per il nuovo progetto, non esitate a darci suggerimenti (oltre spieghiamo come contattarci a tal proposito). In una parola: chiedetevi cosa è che vorreste trovare sul "vostro" quotidiano e comunicatecelo.


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Intanto iniziamo noi a dirvi cosa abbiamo pensato per ora. Innanzi tutto non sarà un quotidiano di mera informazione. Ci sono altri quotidiani in giro che svolgono questa funzione, così come supporti televisivi. Non abbiamo neanche, e soprattutto, l'intenzione di fare l'ennesimo contenitore di news - il più delle volte inutili, se non proprio controproducenti per l'attenzione stessa - che fa invece la maggior parte degli altri media di massa sia cartacei sia on-line. Il Ribelle Quotidiano non può che essere un elemento di opinione e approfondimento. Con cultura e contro informazione: questo sì. Pubblicheremo notizie che non si trovano altrove. Ma soprattutto vogliamo fare un quotidiano destinato a far ragionare. Non a riempire la testa di informazioni. A questo proposito, Massimo Fini stesso proprio in queste ore sta sondando il terreno di una serie numerosa di suoi "sodali" ribelli per farli collaborare al giornale. Per lasciarli liberi di scrivere - qui, davvero, sì - ciò che altrove non gli hanno lasciato comunicare (e chi ha fiuto può già capire a chi ci riferiamo, almeno per alcuni giornalisti). Non solo. L'Agenda setting (chi ricorda quando ne abbiamo parlato?) stavolta la faremo in modo Ribelle, con le notizie e gli argomenti che davvero possono essere in grado di far capire il mondo. Secondo noi, naturalmente. E secondo quanto ci segnalerete di volta in volta. La natura on-line del nuovo quotidiano - che di questo stiamo parlando: di un quotidiano on-line riservato agli abbonati comporta naturalmente alcune limitazioni (legate al mezzo) ma al tempo stesso consente delle cose particolarmente interessanti. Cose che utilizzeremo in maniera intensiva. Qualche anticipazione.Tanto per iniziare ci sarà l'immediatezza della pubblicazione on-line (anche se prevediamo di crearne una versione in Pdf da scaricare e stampare ogni giorno). Quindi la possibilità di interagire sul serio proprio nel momento in cui accadono alcuni fatti. Ma soprattutto utilizzeremo dei supporti di tipo multimediale - sempre riservati agli abbonati - di tipo audio e video, per utilizzare anche questi altri metodi di comunicazione. Per esempio una trasmissione settimanale in diretta con possibilità di interagire e porre domande da parte di tutti gli ascoltatori - con la presenza di Massimo Fini stesso. O ancora, se i mezzi che riusciremo a raccogliere saranno sufficienti, una trasmissione sempre in diretta ma in questo caso con cadenza giornaliera. Ci sarà sicuramente un contenitore nelle prime ore della giornata per fare il punto della situazione generale, di quanto accade nel mondo. Senza commenti, in questo caso. Semplicemente

segnalando i fatti in una unica sezione apposita, per evitare che si debba andare altrove a reperire notizie, e perdere tempo, ma per capire in pochi minuti lo stato delle notizie del giorno. Allo stesso modo, ci sarà un contenitore serale quasi dello stesso tipo, per consentire, ancora prima della messa in onda dei telegiornali nazionali, di capire cosa è successo di importante in giornata, oltre a qualche anticipazione per il giorno successivo. Ci sarà un ampio spazio e tanta attenzione - su questo punto teniamo molto - al Medio Oriente: uno dei temi peggio affrontati nel nostro Paese così come in Occidente tutto. Una rassegna dei media provenienti da quei luoghi, per capire come ci vedono gli altri e cosa scrivono e dibattono. Soprattutto, per sapere davvero cosa accade da quelle parti: uno degli scenari più importanti della nostra quotidianità politica, geopolitica e di fatto anche pratica. Ma sopra ogni altra cosa ci saranno tutte quelle opinioni che non trovate altrove.Tutte quelle "eleganti provocazioni", come le chiamano i giornalisti e i direttori dei media allineati, per silenziare ed evitare di rispondere, di fatto, ai temi che Massimo Fini e altri come lui sollevano da anni. Insomma, gli altri vi daranno le notizie (e non tutte) mentre qui cercheremo di spiegarne i perché. Cosa è che invece non troverete sul nuovo quotidiano.Tutto l'inutile, la fuffa, il trash di cui sono pieni palinsesti e pagine di giornali cartacei e online. Non troverete la pubblicità, naturalmente, né il superfluo.Tutto ciò che possa distogliere l'attenzione dai temi più importanti e interessanti per perseguire l'obiettivo: ovvero più conoscenza invece di informazione fine a se stessa. Resta l'ultimo passo da fare insieme, ovvero verificare la possibilità di partire o meno per questa (altra) piccola impresa. Dunque contarci e vedere quanti sono interessati a un Ribelle Quotidiano (molti ci hanno già comunicato la loro adesione o il loro interessamento, del che ringraziamo vivamente: sono esattamente loro ad averci posto all'attenzione questa nuova impresa). Perché siccome - ma c'è bisogno di ribadirlo? - anche il quotidiano nascerà senza contributi pubblici di alcun tipo né interferenze di grandi gruppi editoriali o industriali, la cosa può partire e si può reggere unicamente grazie ai lettori. Un giornale può vivere senza contributi politici o pubblicità, ma non può vivere senza lettori. Ce ne servono almeno 1500. Ce la possiamo fare,


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eccome, visti i numeri del mensile e i lettori che probabilmente sono interessati (anche) a un quotidiano. Ribadiamo, siamo davvero a un passo. Prevediamo due scenari possibili. Uno certo, se raggiungeremo il tetto di abbonati necessario. Ed è quello che abbiamo appena descritto. Un altro possibile, qualora - e lo speriamo - gli abbonati fossero più di quelli strettamente necessari: in questo caso, la quantità degli interventi quotidiani aumenterebbe, e potremmo integrare ulteriormente il progetto con un numero maggiore di trasmissioni, sia in audio sia in audio video. Intanto vediamo dove arriviamo. Dunque contiamoci: chiediamo a chiunque fosse interessato alla cosa di contattarci, via telefono in redazione (06/97.27.46.99), oppure lasciandoci un messaggio in segreteria (qui: 06/99.19.69.56) oppure, ancora, via email all'indirizzo "info@ribellequotidiano.it" con i propri recapiti per prenotare l'abbonamento e/o darci suggerimenti di qualsiasi tipo. Senza costrizioni, ovviamente: non appena saremo a posto anche con il piano economico della cosa provvederemo a comunicare l'importo di abbonamento (comunque modesto e inferiore a tutti gli altri abbonamenti dei vari quotidiani on-line e

Mastella come i peperoni Cambio di prospettiva e di griglia interpretativa. Questo serve per inquadrare i fatti recenti di Mastella & Co. che nostro malgrado hanno ripreso a occupare le pagine dei quotidiani e i palinsesti televisivi. L'edizione del 22 ottobre del Corriere della Sera dedica alla vicenda addirittura dieci pagine. I fatti riguardano appalti e assunzioni pilotate, clientele e punizioni in quel del napoletano. In una parola: il sistema Udeur. C'è addirittura una lista con 665 raccomandati. Casi dei quali - così si evince dalle intercettazioni - il Ministro di allora conosceva ogni singolo particolare tanto da prodigarsi per sistemarne ogni dettaglio. Ora attenzione: speriamo vivamente che i nostri lettori non abbiano perso tempo a leggere i lun-

cartacei) a chi ci avrà comunicato il suo interesse e solo allora ad attivare l'abbonamento, previa vostra conferma, a chi sarà ancora interessato. Sapere quale possa essere una stima di massima dei lettori sui quali potremo contare ci permetterà di tarare meglio il tutto. Ovvero se poter presentare un quotidiano di un tipo, con alcuni investimenti, o un altro di tipo differente, con tutta la forza lavoro di cui saremo capaci. Dunque, fateci sapere come la pensate. Cosa vorreste trovare nel Ribelle Quotidiano e se siete interessati a un eventuale abbonamento (prevediamo, naturalmente, di fare anche abbonamenti incrociati e scontati per chi volesse abbonarsi contestualmente sia al mensile La Voce del Ribelle sia al quotidiano on-line Ribelle Quotidiano o integrare l'abbonamento già in essere).

PS Ultima cosa: è nostra intenzione, una volta che il Quotidiano sarà partito, di comunicare a tutti gli abbonati come e perché vengono spesi, punto per punto, i canoni di abbonamento che riceviamo. Di più: faremo dei sondaggi periodici tra i lettori per scegliere l'evento da far seguire a uno dei nostri inviati. Così, una volta scelto il luogo e l'evento da seguire, il giornalista sul campo sarà il "vostro" inviato speciale. ghi reportage dei giorni scorsi né a seguire le trasmissioni televisive che si sono occupate del caso. Perché in caso contrario sarebbe stato non solo una perdita di tempo (ognuno del proprio tempo libero fa ciò che vuole, s'intende) quanto piuttosto, e soprattutto, di uno sperpero di attenzione e lucidità rispetto al punto fondamentale sul quale è invece necessario porre (almeno un po') attenzione. Questo punto non riguarda i sistemi utilizzati dall'Udeur, da Mastella e dalla sua Signora, non riguarda gli illeciti e i danni a carico dello Stato e di tutti i cittadini del nostro paese, non riguarda anche assetti politici collegati alle raccomandazioni e al gestire comune della cosa pubblica di allora (e di sempre) e tanto meno l'aspetto morale di una conduzione della propria vita privata e della funzione pubblica, sulle quali pure ci sarebbe molto da dire se non fosse inutile e superfluo farlo. Il punto è indignarsi del fatto che di un personaggio come Mastella si torni ancora oggi a parlare. Di più, e in modo decisivo, è indignarsi del fatto che Mastella, ancora oggi, dopo decenni di politica (si fa per dire) i fatti della caduta del Governo Prodi e un "passaggio" di relativo silenzio mediatico durato alcuni mesi sia tornato, con basso profilo, a far parte dei politici del nostro Paese e a rappresentarci in Europa. Per la precisione, il 6 e 7 giugno scorsi, Clemente Mastella è stato eletto Europarlamentare. In questo, e solo in questo, in quanto elemento fondamentale, deve a nostro avviso risiedere ogni considerazione ulteriore in merito alla natura della politica italiana, dei parlamentari e degli europarlamentari attuali. E sui 110 mila cittadini del nostro paese che gli hanno permesso di ritornare in attività politica con uno scranno in Europa. Il resto è rumore inutile. Tappiamoci le orecchie.


La “dignità” della D'Addario. E quella dei nostri intellettuali Puttane. Si chiamano puttane. Non escort. Siccome non siamo in conflitto con le parole - e siamo in Italia - chiamiamo le cose con il loro nome anche quando questo voglia dire usare dei termini non proprio gentili. Che di gentile, del resto, questo argomento non ha proprio nulla. Una donna si prostituisce per denaro, o per altro, e concede il proprio corpo a un uomo al quale, se non vi fosse contropartita, non vi si concederebbe affatto. Fa insomma una cosa controvoglia, alienando una parte importante di sé, in questo caso il corpo, unicamente per ottenerne benefici. Economici o di altro tipo che siano. Naturalmente ci si concede al nostro Presidente del Consiglio non perché sia alto, giovane e bello. Ma per altro. Materia sulla quale è inutile andare oltre. Dunque la D'Addario è andata a letto con il Premier perché ha ricevuto denaro e perché sperava di ricevere qualcos'altro in cambio. Da chi non è poi così importante, per questo discorso. Usciamo ora dalla camera da letto e diciamo, tanto per iniziare, che tra le puttane che si possano incontrare in circolazione, la D'Addario almeno una dignità la ha. Una sola, per essere precisi: quella di avere ammesso la cosa. Qui il discorso entra nel vivo. Perché di puttane, nella nostra società, è pieno. Ora, quando si parla di dignità in questo campo bisogna naturalmente abbassare il livello sotto le scarpe. Quasi che i due termini non possano coesistere. Chi si vende certo non ha nulla di dignitoso. Ma proprio in questo è il paradosso. Proprio in questo svetta la “dignità” di chi dichiara la cosa rispetto ai milioni di persone uomini e donne - che pur non dichiarandolo, fanno la medesima operazione. Il che dovrebbe far rendere conto di una cosa in primo luogo: la grande maggioranza delle persone che compongono la nostra società non ha dignità. Perché di donne (e di uomini) che si vendono è pieno il mondo. Anche dentro a un matrimonio, di fatto, chi si concede senza volerlo lo fa per altri motivi. Che siano quelli di voler ostinatamente tenere in piedi una relazione della quale pure vorrebbe poter fare a meno. Che sia quella di chi nel mondo dello spettacolo vuole lavorare, o una starletta, un conduttore, o una impiegata o un dirigente che vuole fare un salto di grado. O chi studia e vuole diventare portaborse di un barone universitario. Donna o uomo che sia, beninteso. Ma c'è una cosa ancora peggiore, in merito a dignità e puttane. Ed è la figura dell'intellettuale che si vende. Più del politico che vuole essere inserito in lista, più del giornalista che vuole mantenere il proprio posto di lavoro e si autocensura, più di ogni altra cosa, l'intellettuale che si vende, che scrive cose in cui non crede, commette l'atto supremo di prostituzione. Perché mentre altre persone sono giornalisti, impiegati e politici ma possono essere anche altro, e dunque possono decidere di vendere una parte sola di sé, un intellettuale è tale unicamente - e per tutto se stesso - per quanto pensa e scrive. Vendere il proprio pensiero per assicurarsi onore (fittizio), denaro e visibilità, è la mercificazione di sé più indegna che ci possa essere. Un intellettuale che non scrive e dice cosa pensa, è un arrampicatore. Chi arrampica rampica, ovvero striscia verso l'alto.


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Israele sotto accusa (inutilmente) I nostr i lettor i più attenti avranno certamente apprezzato, mesi addietro, il nostro repor tage speciale dalla Palestina in seguito (e in concomitanza) al micidiale attacco sferrato dalle truppe Israeliane nella striscia di Gaza. Ci sono nuovi sviluppi. Che la stampa nostrana ha naturalmente cercato di nascondere nelle pagine interne dei propri fogli evidenziando invece, negli stessi giorni, l'imprescindibile problema dei calzini turchesi di Mesiano, il magistrato che sta indagando (tra le altre cose) su Fininvest... Ebbene, gli sviluppi sono questi: la commissione ONU per i diritti umani ha approvato il rapporto Goldstone sui crimini di guerra compiuti da Israele a Gaza. Nello specifico, si tratta delle bombe al fosforo bianco, ma non solo, anche del deliberato attacco a un mulino di Gaza, volto intenzionalmente a togliere l'alimento base alla popolazione civile palestinese. Nel rapporto Goldstone si evidenzia, tra le altre cose, che "Israele ha colpito una popolazione civile che era sotto il suo controllo", e pertanto responsabilità. E ancora, che "ha usato forza sproporzionata in confronto alle concrete minacce ai propri civili". Che "i soldati hanno ricevuto ordine di sparare sulle ambulanze e i gruppi di soccorso (...) su gente che avanzava con una bandiera bianca (...) e che hanno ucciso persone nelle loro case e nelle vicinanze, usando gente di Gaza come scudi umani". E inoltre, che "prima di r itirarsi hanno distr utto deliberatamente vaste aree residenziali, industriali e agricole". In altre parole, e complessivamente, l'operazione Piobo Fuso viene definita dal rappor to una "aggressione deliberatamente sproporzionata che ha avuto lo scopo di punire, umiliare e terrorizzare una popolazione, stroncare la sua capacità economica di provvedere a se stessa e instaurare in

essa un senso ogni giorno maggiore di dipendenza e vulnerabilità". A questo punto, ci sono sei mesi di tempo, per Israele e Gaza, per presentare una analisi di parte sulla situazione, ovviamente da valutare. In caso contrar io, o in mancanza di risposte esaurienti, i dirigenti di allora impegnati nell'operazione Piombo Fuso potrebbero finire alla sbarra del Tribunale dell'Aja. Ora, non è questo il caso di affrontare i temi di ONU, dir itti inter nazionali e tribunali di vario tipo dal punto di vista del diritto, ma vi è una considerazione necessar ia da fare. Al di là, naturalmente, di quella - ovvia - relativa alla crudeltà gratuita che Israele (tra le tante volte) ha messo anche in questa operazione specifica. La considerazione da fare è sul fatto che in Israele questa ingiunzione dell'ONU è stata accolta con freddezza, meglio, con indifferenza. In pratica, per Israele, finire davanti al tr ibunale penale internazionale non è un problema. E il motivo è presto spiegato. Per una incriminazione formale e il passaggio delle car te al tr ibunale penale internazionale servirà, nel caso, una


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delibera specifica dell'ONU. Delibera che non arriverà mai: basterà il diritto di veto degli USA, come in tante altre circostanze analoghe che riguardano proprio Israele. L'amicizia di Washington non è in discussione, evidentemente. Qualche dato, interessante, prima di lasciare la giusta riflessione a ognuno. A favore della risoluzione hanno votato: Arabia saudita, Argentina, Bahrain, Bangladesh, Bolivia, Brasile, Cile, Cina, Cuba, Egitto, Ghana, Gibuti, Giordania, India, Indonesia, Mauritius, Nicaragua, Nigeria, Pakistan, Filippine, Qatar, Russia, Senegal, Sudafrica, Zambia. Contro: Italia, Olanda, Ungheria, Slovacchia, Ucraina, Usa (ovviamente). Non hanno invece votato: Angola, Francia, Gran Bretagna, Kirghizistan, Madagascar. Rammentiamo infine che, nell'operazione Piombo Fuso, secondo diverse organizzazioni umanitarie che divergono nelle loro analisi solo per qualche decimale, vi sono stati 1400 palestinesi uccisi, in grande maggioranza civili e bambini. I morti israeliani sono stati 3 civili e 10 militari.

T.V.A.“trasparenza valore aggiunto”

Capitando in Francia e fermandosi in un bistrot può accadere di vedere sul menu riportati due prezzi, uno più elevato barrato e, di fianco, uno più basso. Non è, però, una promozione limitata nel tempo del ristorante che abbassa i prezzi per fronteggiare la crisi. È stata la Francia ad abbassare la TVA (tassa sul valore aggiunto, la nostra IVA) sulla ristorazione per fronteggiare la crisi di un settore con ricadute dirette sui consumatori, altrettanto colpiti dalla crisi. Cambiando ristorante si noterà che anche lì c'è il doppio prezzo, come in quasi ogni ristorante. L'operazione è stata compiuta in piena trasparenza: il consumatore può verificare direttamente se all'agevolazione fiscale è corrisposta la relativa diminuzione del prezzo, non c'è stato bisogno di scomodare autorità di controllo che poco possono e ancor meno fanno: è il cittadino stesso a vigilare e scegliere. Doppio prezzo, quello che sarebbe dovuto avvenire con l'Euro, per impedire che una manovra fiscale, intesa a vantaggio di tutti, vada a profitto solo di alcuni, come malignamente, ma legittimamente, possiamo supporre andrebbe se la stessa iniziativa fosse presa in Italia. È ancora presto per tirare bilanci, la riduzione TVA è solo di luglio, ma i primi indicatori sono positivi: anche se non c'è stato l'aumento occupazionale almeno si è fermata l'emorragia che aveva colpito il settore, fra licenziamenti e chiusure, e le sere di Parigi continuano ad essere uniche. Molto differenti da quelle italiane…


ANALISI

Lotterie

e altre ruberie

Business. Di Stato. Ai danni della creduloneria e dell’indigenza dell’italiano medio. “Gratta gratta”, alla fine vengono fuori davvero grosse somme. Per l’erario. E poi c’è il caso Sicilia.

S

di Giuseppe Carlotti

eicentoventiduemilioniseicentoquattordicimilaseicentotrenta. Non è il numero delle stelle che brillano ogni notte sopra la nostra testa, ma le possibili combinazioni giocabili in una schedina del Superenalotto. Soltanto una di esse è quella vincente. Per fare un paragone matematico, restando in tema di stelle, le possibilità che un asteroide colpisca il pianeta Terra entro l'anno 2036 sono "soltanto" una su quarantamila. In buona sostanza, rispetto all'ipotesi di giocare una schedina del superenalotto e diventare milionario, è 15.000 volte più probabile che ciascuno di noi passi a miglior vita a causa di una sorta di catastrofe di portata biblica. Guardando la statistica, non c'è in effetti alcuna regione logica in base alla quale un cittadino dovrebbe investire i propri risparmi su quello che - invece - è di fatto il gioco più popolare che esista in Italia. Ma gli ultimi 25 anni di politica italiana ci hanno insegnato che una buona campagna di marketing può oltrepassare anche il ragionamento più razionale ed incontrovertibile che esista, quindi non c'è da sorprendersi se, "alla fine dei giochi", il vero ed unico vincitore dei vari lotti e lotterie autorizzati si chiami Stato. Il Superenalotto, infatti, fra tutti i giochi pubblici, è quello su cui lo Stato guadagna di più: su 100 euro incassati, infatti, la SISAL (società che gestisce il gioco), ne riversa 49,5 allo Stato. Molto al di sotto degli altri giochi, che in generale si attestano fra il 20 e il 30%, per non parlare delle scommesse sportive, la cui tassazione non supera il 5%. Nel 2007, il

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Superenalotto ha raccolto in Italia 1 miliardo e 940 milioni: di questi, 960 milioni sono confluiti nelle casse statali. Simile l'andamento per il 2008: nei primi nove mesi la raccolta ha raggiunto il miliardo e 460 milioni, di cui 723 destinati allo Stato. Tolto il prelievo erariale, il restante 50,5% viene così distribuito: 38,1% al montepremi, 8% al punto vendita, 4,4% a Sisal. Un business enorme, dunque, ma non privo di qualche punto oscuro. Lo scorso luglio, ad esempio, l'Antitrust ha deciso di aprire un'istruttoria nei confronti di Sisal riguardo l'accesso alla rete telematica dei giochi numerici online. In seguito alla segnalazione di una società autorizzata dall'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato che si era vista negare dalla Sisal stessa il Protocollo di Comunicazione necessario per l'avvio dell'attività, l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sta valutando se esistono le condizioni per cui Sisal abbia abusato della propria posizione dominante detenuta nel mercato dell'accesso alla rete telematica per la raccolta online dei giochi numerici a totalizzatore nazionale, tra cui "Superenalotto" ed il nuovissimo "Win for life" (che promette una sorta di vitalizio da 4.000 Euro al mese a chiunque indovini una combinazione di 10 numeri). Ma anche quest'ultimo gioco non appare completamente chiaro. La rivista "Il Salvagente", ad esempio, ha deciso di passare dalle parole ai fatti annunciando una denuncia del gioco "Win for life" all'Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato, proprio in virtù del fatto che il gioco sarebbe ingannevole. La questione riguarda il fatto che il primo premio di 4.000 euro al mese per 20 anni viene diviso tra tutti i possibili vincitori, mentre nelle locandine pubblicitarie questa regola non viene spiegata: solamente nella schedina, in piccolo, e sul retro, ci sono scritti i dovuti chiarimenti. Inoltre, le critiche montano anche riguardo all'oggetto del contratto quando si gioca una schedina, visto che il giocatore, se non dopo l'avvenuta estrazione, non è in grado di capire quanto può vincere proprio in virtù del fatto che l'ammontare dei premi è indicativo. Un esempio lampante dall'estrazione di mercoledì 7 ottobre 2009: alla settima estrazione l'unico vincitore ha vinto ben 66.386,53 euro; mentre nell'estrazione successiva, l'ottava, ha preso solo 2.246,10 euro. Ma - nel grande contenitore denominato "Lotti e lotterie" - non esistono solamente i giochi gestiti dalla Sisal. "Non è mai esistita, e mai esisterà al mondo, una lotteria perfettamente equa", amava ripetere Adam Smith. E non aveva mai visto i numeri del "Gratta e vinci": trenta milioni di italiani che spendono circa 8 miliardi di euro all'anno. Una somma equivalente al prodotto interno lordo dell'Etiopia. Lo Stato ha affidato l'appalto di questo gioco a Lottomatica, di proprietà del gruppo De Agostini. I biglietti vengono stampati ad Atlanta, negli Stati Uniti. Di "Gratta

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e vinci" ne esistono differenti variabili: cambiano i nomi, l'aspetto, ed i prezzi. Esiste anche un gratta e vinci che costa ben 20 Euro. Tra un "Gratta e vinci" di un tipo ed un "Gratta e vinci" di un altro tipo cambiano anche le probabilità di vittoria, che sono ben note a Lottomatica e ai Monopoli di Stato, ma che - ovviamente - non vengono messe a conoscenza dei giocatori. Un altro enorme problema connesso ai "Gratta e vinci" sono i falsi: in Italia ogni anno vengono sequestrati centinaia di migliaia di biglietti falsi. Stampati a Napoli o addirittura all'estero, questi tagliandi sono perfettamente identici agli originali, ma consentono ad organizzazioni criminali e tabaccai compiacenti di incassare tutto il malloppo, togliendo di mezzo la possibilità di vincite nonché il socio in affari più scomodo di tutti: lo Stato. In Italia tutto il business dei giochi d'azzardo "legali" è gestito in concessione da veri e propri colossi del settore: le procedure di affidamento delle licenze e delle concessioni (e qui parliamo anche di slot machines elettroniche e di agenzie di scommesse sportive) seguono procedure teoricamente blindatissime, ma la quantità di denaro che queste sono in grado di muovere, se non dovesse lasciare spazio al "sospetto preventivo" nei confronti di possibili infiltrazioni da parte di organizzazioni criminali, autorizza comunque ad una serie di domande dai risvolti piuttosto sconcertanti. Tra le molte possibili, ne citiamo quella forse più divertente (o drammatica, al lettore la possibilità di scegliere): "perché mai alla Regione Sicilia (solo e soltanto alla Regione Sicilia) va un ottavo di tutti gli incassi delle giocate al Superenalotto fatte nell'isola?" Proprio così: lo Stato - come già detto in precedenza - incassa il 49,5% di tutte le somme giocate agli sportelli Sisal di tutta l'Italia tranne al di là dello Stretto di Messina, dove questa sua percentuale scende a poco più del 37% dato che in base all'articolo 6 della legge 599 del 1993 e del successivo decreto 11 giugno 2009 («Misure per la regolamentazione dei flussi finanziari connessi all'Enalotto») deve lasciare il 12,25% delle somme giocate nell'isola alla Regione. Quella legge del 1993, in realtà, non riguarda solo il Superenalotto, ma tutte «le riscossioni dei giochi di abilità e dei concorsi pronostici riservati allo Stato a norma dell'articolo 1 del decreto legislativo 14 aprile 1948, n. 496». Ne deriva un enorme surplus di capitali che affluiscono con cadenza giornaliera esclusivamente nelle casse della Regione Sicilia. E questa è solo una delle tante regole bizzarre che governano il business dei giochi a premi in Italia. Insomma, sulla questione lotto e lotterie sarà anche tutto legale, ma le stranezze davvero non mancano. Giuseppe Carlotti

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METAPARLAMENTO

Colpo Titoòo

di Stato ed Europa

Mentre eravamo (quasi) tutti al mare, i nostri politici c’imponevano l’approvazione del Trattato di Lisbona. Da lì è cambiato molto, ma ancora oggi, molti non hanno idea della portata dell’evento.

A

di Alessio Mannino

ettenzione: stiamo perdendo praticamente in modo assoluto la sovranità nazionale. In Europa, se passasse del tutto il Trattato di Lisbona, si deciderebbe della nostra vita in tutto e per tutto. E le decisioni verrebbero prese da persone che siedono sugli scanni europei senza il diritto di farlo. Senza che gli italiani li abbiano scelti e mandati lì. Per ora, ad opporsi con forza alla cosa, c’è solo la Corte Costituzionale tedesca. E noi?

Eurocrazia Segnatevi la data: il 31 luglio 2008, fra gli applausi scroscianti dei parlamentari e del governo, in Italia è avvenuto un colpo di stato: anche noi abbiamo rinunciato ad essere un paese a tutti gli effetti sovrano. Era in estate, la gente al mare, e dopo il Senato che lo aveva approvato il 23 di quel mese, anche la Camera adottava «all’unanimità»1 il Trattato di Lisbona, depositato ufficialmente il successivo 8 agosto. Un referendum, da noi, non è possibile perché la Costituzione lo vieta su materie come la politica estera. Piccolo particolare: qui non stiamo parlando di affari esteri, ma di affari nostri, perché Lisbona rappresenta il più grande attacco sferrato alla libertà dei popoli e degli individui dall’eurocrazia, al potere per diritto divino e non per volontà popolare. Dal golpe bianco di quei giorni, nessuno ha sentito più nulla fino al 2 ottobre scorso, quando l’Irlanda, impaurita dalla crisi e rassicurata dalle promesse degli euro-burocrati (non verrà obbligata a legalizzare l'aborto, non perderà controllo sulla fiscalità, non vedrà

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minacciata la propria neutralità) è andata alle urne per la seconda volta in due anni ribaltando il fiero no all’Europa del giugno 2008 in un netto sì (67% con un’affluenza del 58% degli aventi diritto). Prima osservazione: non bastava il primo no? Oppure quando il risultato è contrario a ciò che vuole il governo si deve tornare a votare ad oltranza fino a ribaltare la volontà popolare? Con l’adesione irlandese, invece, e il recente superamento delle diffidenze polacche, a frapporre ostacoli al cammino di ratifica di ciò che di fatto sarà la Carta costituzionale dell’Unione Europea oggi è solo la Repubblica Ceca guidata dal suo recalcitrante presidente, il poeta Vaclav Klaus.

Segretezza

E ne ha ben donde. Il testo2 noto come “Trattato di Lisbona” vuole essere il cemento legislativo con cui dare vita agli Stati Uniti d’Europa: un Superstato nel quale l’indipendenza delle singole nazioni verrà requisita da uomini e istituzioni con sede a Strasburgo e Bruxelles. Dalle cui decisioni il cittadino comune, com’è logico, rimarrà rigorosamente escluso. Inaugurato con la conferenza di Laeken in Belgio nel 2001, il processo che ha portato a Lisbona è l’opera di una Convenzione di saggi, presieduti dall’ex presidente francese Valery Giscard d’Estaing e da Giuliano Amato, il quale candidamente rivendicò3 la scelta di produrre un ammasso informe e illeggibile di 2800 pagine fitte di rimandi, note e modifiche per evitare che qualcuno, a parte loro, ci capisse qualcosa. Dopo la sonora bocciatura dei referendum francesi e olandesi nel 2005, fu infatti a Lisbona nel 2007 che i capi dei ventisette stati europei decisero di dare alla nuova magna charta la veste definitiva: scritta in segreto, firmata in segreto, dai contenuti segreti perché impossibili da decifrare da un essere umano di media intelligenza, e da lasciare segreta grazie ai media compiacenti che non hanno mai spiegato quali epocali mutamenti esso comporti. Ad averlo fatto proprio sono stati per primi gli europeisti dell’ultim’ora, ovvero gli stati ex comunisti dell’Est (Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovenia, Slovacchia, Lettonia, Lituania), ma anche Austria, Danimarca, Malta e Portogallo. Tuttavia, Cechia a parte, l’incognita a cui si aggrappano coloro che hanno a cuore l’autodeterminazione dal basso è rappresentata dalla Gran Bretagna, che pare avviarsi al cambio della

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guardia a Downing Street fra l’attuale premier, il laburista Gordon Brown, e il conservatore Davide Cameron, i cui sostenitori vorrebbero addirittura l’uscita dal sistema europeo.

Potere assoluto Ma entriamo nel dettaglio. Il Trattato non è un corpo unico e lineare, ma una monumentale serie di cambiamenti ai due trattati fondamentali dell’Unione: il Trattato dell’Unione Europea (TEU) e il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFEU), ai quali viene aggiunto il Trattato di Nizza del 2003. Sancisce il principio secondo il quale le leggi emanate dallo Stato unico europeo saranno superiori alle leggi nazionali (dichiarazione 17 e 27). I parlamenti dovranno sottostare alla fondamentale regola di fare gli interessi dell’Europa prima di quelli dei propri rappresentati (Art. 8c, TEU). Il potere di veto dei singoli Stati decadrà su 68 nuovi settori di competenza sovranazionale. Uno di questi sarà il controllo delle frontiere, sulle quali l’Unione deciderà a maggioranza i flussi d’entrata e d’uscita. Nel Consiglio Europeo, luogo istituzionale della presidenza, i membri di ciascun paese dovranno rappresentare l’Unione presso i paesi d’appartenenza, e non il contrario come è stato fino ad ora. La Commissione, sorta di esecutivo, vedrà aumentare i propri poteri in quasi tutti gli aspetti della vita dei cittadini, acquisendo quello, mostruosamente antidemocratico, di legiferare per decreto. I commissari suoi componenti, infatti, “proporranno” le leggi. A votarle sarà il Consiglio dei Ministri. Entrambi gli organi non sono elettivi, ma nominati dai governi. Il Consiglio, inoltre, potrà discutere solo il 15% delle proposte della Commissione, su tutto il resto non potrà fare altro che passivamente vidimare. Quest’ultima non avrà più un commissario per ciascun paese membro, ma ad ogni mandato vi parteciperanno a turno solo due terzi dei paesi, «per cui potrà accadere che una legge sovranazionale e vincolante cancellerà di fatto una legge italiana senza che neppure un italiano l’abbia discussa o pensata»4. Il Parlamento sarà esautorato: non avrà diritto né di proposta né di adozione o respingimento autonomo ma solo di co-decisione (proprio così!) assieme al Consiglio dei Ministri, e, tanto per dirne una, non potrà votare neppure sulle tasse, fulcro storico della legittimità popolare di uno Stato. Esempio: se i parlamentari volessero bocciare una legge presentata dalla

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Commissione, dovranno o strappare il 55% dei voti nel Consiglio dei Ministri, o arrivare alla maggioranza assoluta nelle proprie file. Il che, come si sa, è alquanto faticoso visto che comprensibilmente le divisioni europee, a dispetto dei gruppi “popolari”,“socialisti” e “liberali”, rimangono sul crinale degli interessi nazionali, non ideologici.

Stato di polizia Andiamo avanti. In politica internazionale il Superstato si comporterà in tutto e per tutto come gli Usa si comportano rispetto ai propri stati federati: firmerà accordi vincolanti per tutti i suoi membri anche se ce ne fosse qualcuno contrario, dichiarerà guerra anche senza il consenso dell’Onu lasciando ai singoli stati una misera «astensione costruttiva» (ovvero la non belligeranza, vietato sfilarsi dal patto d’acciaio continentale) e il Presidente dell’Unione fungerà da ministro degli esteri, al quale gli omologhi nazionali dovranno cedere il passo nei rapporti con Washington, Pechino o Mosca. In politica interna, è rafforzato il nucleo d’origine dell’Unione, cioè il mercato unico basato sulla «libera concorrenza senza distorsioni» (Protocollo 6). Senza distorsioni significa, per esempio, che uno Stato non potrà più favorire un certo settore della propria economia se in difficoltà. Misure di impulso statale sul modello neo-keynesiano saranno sanzionate. Su tutto, la Banca Centrale Europea situata a Francoforte sarà, nei fatti, legibus soluta: sarà rafforzato il suo ruolo di padrona incontrastata della politica monetaria, senza render conto a niente e a nessuno delle sue decisioni. Non c’è traccia di un indirizzo preciso sul sociale e sul fisco, nessuna parola su come finanziare il magro Capitolo Sociale. In materia giudiziaria punto di riferimento sarà la Corte di Giustizia Europa ospitata in Lussemburgo. Ciò che essa deciderà sarà più forte di qualsiasi norma di uno Stato (Art. 344). Il che vuol dire che potrà annullare leggi o sentenze regolarmente assunte entro i confini di una nazione scardinandone completamente l’autonomia. Anche i suoi giudici vengono nominati dai governi, e quindi avranno cucita addosso l’impronta politica di chi li ha scelti. Infine, la questione per eccellenza: la cittadinanza. Nell’Europa di Lisbona saremo italiani, tedeschi o francesi, ma «in aggiunta» anche cittadini del Superstato (Art. 17b.1 TEC/TFU). Prima, essere europei era considerato un «corredo» all’essere cittadini del proprio Paese. D’ora in poi avremo una doppia nazionalità, con due cittadinanze. Ma non paritarie: se diritti e doveri stabiliti, poniamo, in Italia dovessero entrare in conflitto con quelli dell’Europa, saranno questi ultimi a prevalere. Per capire la gravità della cosa, basterà dire che fra le pagine del Trattato, insinuata nella Dichiarazione riguardante le

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Spiegazioni della Carta dei Diritti Fondamentali, è ammessa la pena di morte «per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un'insurrezione». Chiaro il concetto? Siamo alla giustificazione della repressione poliziesca.

Speranza tedesca Fortunatamente c’è un giudice a Berlino, anzi a Karlsruhe. Un barlume di speranza contro la tirannia eurocratica arriva proprio dalla Germania, cuore e motore dell’Unione. Il 30 giugno di quest’anno la Corte Costituzionale tedesca ha fatto rilievi molto pesanti all’esproprio di sovranità prospettato dal Trattato di Lisbona. Primo: le istituzioni europee hanno poteri solo in quanto delegate ad esercitarli su determinate aree di competenza dagli Stati. Secondo: il sommo tribunale avoca a sé, in quanto suprema corte tedesca, l’ultima parola su eventuali travalicazioni europee di leggi tedesche. Viene opposto così un deciso altolà alla Corte Europea. Terzo: la consulta di Karlsruhe invita gli Stati a tenersi stretti i campi d’azione e deliberazione più importanti, e insiste perché i parlamenti nazionali vengano coinvolti in tutti i casi in cui i singoli Stati perdano il potere di veto. Quarto: se i governi non troveranno spazio per una significativa democrazia nazionale nell’ambito dell’Unione, il Trattato diverrà incostituzionale, perché la Corte non riconosce che il Parlamento di Strasburgo, così come configurato nel Trattato, infondi una piena legittimità democratica alle leggi dell’Unione. Quinto: la cittadinanza “aggiuntiva” deve rimanere supplementare a quella nazionale, e non superiore ad essa. Perciò, per salvaguardare la sovranità della Repubblica Federale, la Corte ha proibito al Presidente tedesco di firmare il Trattato fino a quando il parlamento di Berlino non avrà legiferato in merito al proprio incoercibile diritto a dire la propria su tutto quanto viene deliberato nei palazzi di Eurolandia. Si chiede il danese Jens-Peter Bonde, ex deputato europeo: «Se… la ratifica del Trattato di Lisbona da parte della Germania viene giudicata illegale e in contraddizione con i principi democratici di base, lo stesso principio non dovrebbe trovare applicazione in tutti gli altri Stati membri che si fregiano della qualifica di democrazie?»5. Un’Europa che voglia dirsi dei cittadini e non di banchieri, multinazionali, dei loro burocrati e dei loro burattini politici dovrebbe fare come suggerisce un blogger sul sito OpenEurope: «Volete fare come gli Stati Uniti d'America? La loro Costituzione era comprensibile a tutti. Fate allora di dieci pagine massimo, questo trattato. Poi fatelo votare agli elettori nazionali. Solo così, con una Costituzione che contenga le disposizioni essenziali si potrà creare un'entità capace di sopravvivere alla prossima crisi, e soprattutto otterrà il bene-

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stare dei cittadini.Tutti i governi si reggono sul consenso, tacito o esplicito, dei governati. E rinunciare a tale consenso nella creazione dell'Unione Europea vuol dire andare in cerca di grane»6. Postilla finale: tale anonimo blogger non si è accorto che non tutti, bensì nessun governo europeo è in realtà retto sul consenso dei governati. E questo perché le democrazie rappresentative nazionali sono già di loro delle tirannidi mascherate. Tanto è vero che la nostra, per aver accettato entusiasticamente il monstrum di Lisbona, ha già violato come minimo due articoli fondamentali della Costituzione su cui si regge: l’1, secondo cui “la sovranità appartiene al popolo”, e l’11, che condanna la guerra come “strumento di offesa” e consente “limitazioni di sovranità”, ma solo se necessarie per “la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Non per decretarne l’abolizione nel silenzio-stampa generale.

Alessio Mannino

Note: 1) «Un lungo applauso bipartisan ha accompagnato il sì della Camera che, come il Senato, ha approvato all'unanimità il Trattato», La Repubblica, 31 luglio 2008 2)LINK"http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cmsUpload/cg000 14.it07.pdf" 3) «Fu deciso che il documento fosse illeggibile… Fosse invece stato comprensibile, vi sarebbero state ragioni per sottoporlo a referendum, perché avrebbe significato che c’era qualcosa di nuovo», Giuliano Amato, discorso tenuto al Centro per la Riforma Europea di Londra, 27 luglio 2007, HYPERLINK "http://www.euobserver.com" www.euobserver.com 4) Paolo Barnard, “Il Trattato di Lisbona. Altro che Cavaliere.”, 25 settembre 2009, HYPERLINK "http://www.paolobarnard.info" http://www.paolobarnard.info 5) Jens-Peter Bonde “La sentenza della Corte costituzionale tedesca chiama tutti ad agire contro il deficit di democrazia dell'UE”, 24 luglio 2009 HYPERLINK "http://www.euobserver.com" www.euobserver.com 6) Cit. in Luca Galassi, “Europa, il Trattato dei burocrati”, 5 ottobre 2009, HYPERLINK "http://it.peacereporter.net" http://it.peacereporter.net

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INTERVISTE

Perù,

così gli indios difendono la foresta

Paul McAuley, missionario inglese da vent’anni in Amazzonia, racconta il dopo-Bagua e la lotta quotidiana dei nativi contro le multinazionali straniere

I

di Laura D’Alessandro

riflettori si sono accesi per un po’ e poi si sono di nuovo spenti. Come era prevedibile, i media che nel giugno scorso hanno mostrato le violente repressioni subite dagli indios dell’Amazzonia peruviana, intenti a protestare pacificamente per proteggere le loro terre dall’assalto delle compagnie petrolifere, hanno presto dimenticato quella parte sperduta di mondo e le luci si sono nuovamente spente. Nessun organo di informazione, almeno fra quelli mainstream, ci ha raccontato il seguito della storia. Un’omissione grave, visto che il futuro della foresta amazzonica non riguarda solo i popoli che vi abitano bensì tutti noi. Le leggi contestate dalle popolazioni native sono state formalmente ritirate dal Parlamento di Lima, ma la svendita della foresta da parte del governo di Alan Garcia si è fermata? Oppure le trattative con le multinazionali del petrolio e dei biocombustibili vanno avanti, nonostante l’opposizione delle popolazioni che in base alle leggi internazionali dovrebbero essere preventivamente consultate? La risposta, purtroppo, appare scontata. “La situazione non è cambiata. Il governo ha insediato una commissione per il dialogo in cui in realtà gli indigeni hanno ben poca speranza di far valere le loro ragioni e forse non vi parteciperanno affatto. Anche perché i loro leader continuano a essere di fatto perseguitati e minacciati dalle autorità peruviane”. Paul McAuley, classe 1947, è un missionario cattolico inglese, membro della Congregazione di San Giovanni Battista de La Salle.Vive in Perù dal 1990 e nove anni fa è arrivato a Iquitos, capitale del dipartimento di

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Loreto e principale città dell’Amazzonia peruviana. Lì ha conosciuto la realtà quotidiana degli indios, fatta di trivelle, acque inquinate, terre sempre più invase dall’uomo bianco, e ha fondato assieme a un gruppo di volontari e abitanti locali l’associazione Red Ambiental Loretana. Con quali scopi è nata la vostra organizzazione? Abbiamo cominciato cinque anni fa per reagire a due grandi ingiustizie. Da un lato, le concessioni forestali alle multinazionali straniere, che qui sono del tutto illegali: il governo ha ceduto più di 2 milioni e 500mila ettari di foresta al prezzo ridicolo di 0,30 dollari l’anno per ettaro. In secondo luogo, il grave inquinamento dei fiumi Tigre, Pastaia e Corrientes a opera delle compagnie petrolifere. Il nostro gruppo è nato come watch-dog, per controllare la gestione delle risorse naturali nell’area loretana dell’Amazzonia e i diritti della popolazione che vive di quelle risorse. Per questo teniamo d’occhio tutte le imprese che operano nella zona. A settembre la Commissione ONU per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali (CERD) ha richiamato il governo peruviano affinché vieti esplorazioni e sfruttamento delle risorse in quelle terre dove le popolazioni non hanno espresso preventivamente il loro consenso informato. Ma una nuova licenza è stata già concessa alla compagnia anglo-francese Perenco. Il Presidente Garcia va avanti col suo piano di privatizzazione nonostante tutto? Il 98% del territorio peruviano è già concesso in licenza alle compagnie petrolifere. Basta dare un’occhiata alla mappa ufficiale pubblicata sul sito web di PeruPetro1. Le concessioni sono state assegnate senza alcuna consultazione preventiva dei nativi o di altre comunità residenti e ciò rappresenta una violazione dell’accordo 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. La Perenco si sta installando in aree dove i nativi vivono in isolamento volontario e nega persino che tali popolazioni vi siano. Ha anche eliminato dallo studio di impatto ambientale quanto scritto da alcuni antropologi circa gli effetti degli scavi sulla popolazione locale2. Tutti sanno che Alan Garcia ha incontrato privatamente il presidente della Perenco a Lima proprio durante le proteste dei nativi, che a Kitchua avevano bloccato il passaggio sul fiume Napo. Il giorno dopo l’incontro, Garcia ha dichiarato l’attività della Perenco “di interesse nazionale” e il giorno dopo ancora la Marina peruviana è stata inviata a Kitchua per forzare il blocco e per scorta-

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re le imbarcazioni della Perenco, mentre i nativi cercavano di recuperare le loro canoe. Anche le repressioni e le intimidazioni vanno avanti nonostante i tentativi ufficiali di dialogo? Sì. Da un lato il governo avvia una iniziativa formale per il dialogo, ma dall’altro continua a perseguitare i leader indigeni. Nuovi ordini di arresto sono stati emessi per Alberto Pizango (il presidente dell’AIDESEP, l’Associazione Interetnica per lo Sviluppo della Foresta Peruviana, rifugiato politico in Nicaragua, ndr) e per altri due leader. Avete notizie di coloro che risultano ancora dispersi dal giugno scorso? Neanche la Croce Rossa riesce a fornire dati ufficiali sugli scomparsi, così come sulle persone morte. Io sono consigliere di un gruppo di studenti universitari qui a Iquitos e in quattro delle loro famiglie ci sono più di sei morti o dispersi. Quindi ci risulta molto difficile credere ai dati “ufficiali” del governo, che dopo gli scontri parlò di soli nove morti fra i civili. Una delle aziende contro cui vi siete più volte schierati è l’argentina Pluspetrol. Ce ne può parlare? La Pluspetrol è un disastro! È una delle aziende che più hanno inquinato la nostra regione. Pochi sanno che il trivellamento richiede di pompare nel terreno, a 2-3 chilometri di profondità, grandi quantità di acqua calda mista a lubrificanti e altre sostanze chimiche. Quest’acqua viene poi ripompata fuori e la Pluspetrol la versa direttamente nei torrenti e nei fiumi della zona. Quando li abbiamo denunciati nel 2005 eravamo a conoscenza del fatto che 200mila barili di acque inquinate venivano scaricati ogni giorno e loro dissero che mentivamo. Quando andammo all’udienza ufficiale a Lima scoprimmo che in effetti avevamo un dato sbagliato… in realtà si trattava di un milione e 200mila barili! In seguito alla nostra denuncia sono stati costretti ad adottare la tecnica della reiniezione, cioè le acque contaminate, dopo essere state ripompate fuori dai pozzi, vengono conservate in grandi serbatoi e poi rigettate in profondità grazie a pompe particolarmente potenti. Al momento la Pluspetrol riesce a farlo solo per metà dei barili. Quindi dobbiamo accettare che l’inquinamento vada avanti sino a che l’azienda non si metterà completamente in regola. Questa legge, inoltre, si applica solo alle nuove compagnie che si insediano, e non a quelle che hanno pozzi già attivi.

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Ci sono altri casi come quello della Pluspetrol contro cui state lottando? L’intera regione loretana è ricoperta di impianti petroliferi. Al momento, oltre alla Pluspetrol, le compagnie che vi operano sono Talisman, Conoco Phillips, Gran Tierra e Repsol, mentre Petrolifera sta facendo dei lavori di esplorazione3. Diverse compagnie hanno fatto marcia indietro quando le comunità native si sono opposte all’inizio dei lavori. Ma il vero problema è che nessuno sta conducendo uno studio sull’impatto ambientale di questa corsa all’insediamento. Dove un tempo operava una sola azienda, con le sue imbarcazioni e i suoi elicotteri, ora se ne contano quattro o cinque. L’impatto complessivo sulla fauna, sulle acque e sulla popolazione è molto pesante. Avete intrapreso anche delle azioni legali? Di recente abbiamo denunciato la Pluspetrol per l’inquinamento del torrente Pietra Negra e del fiume Tigre. Nel maggio scorso abbiamo consegnato alle autorità tutte le informazioni e un video. Qualche settimana fa sono stato convocato, ma dubito che faranno davvero qualcosa. Giorni fa ho anche testimoniato nel processo sulle violenze di Andoas del marzo 2008 e ho denunciato pubblicamente la Pluspetrol per aver permesso che i suoi impianti fossero usati per torturare più di venti persone, in maggior parte nativi, detenute dopo le proteste. Anche il responsabile laico della parrocchia cattolica della zona è stato catturato, per sbaglio, ed è stato testimone degli abusi fisici avvenuti all’interno degli impianti della compagnia petrolifera. Sia ad Andoas nel 2008 che a Bagua quest’anno, alcune aziende avrebbero utilizzato armi in dotazione all’esercito peruviano per contrastare le proteste dei nativi. È verosimile che vi siano legami “sotterranei” tra le multinazionali, il governo e le forze armate? Sì, ci sono prove evidenti di un nuovo “matrimonio” tra le forze armate e di polizia e le compagnie petrolifere, con la benedizione del governo nazionale. Le forze speciali di polizia (DINOES) sono state impiegate per reprimere le proteste nelle grandi aziende e sono state loro la causa degli scontri mortali avvenuti a Moquegua, Andoas e Bagua. Le prove filmate dei vigili del fuoco a Bagua sono chiarissime. Ad Andoas nel 2008 io stesso sono andato a filmare la polizia che usava armi automatiche per colpire le case del villaggio. Ho le prove e le ho mostrate in tribunale. Recentemente alti ufficiali della Marina, intervistati dal quotidiano locale La Region, hanno annunciato che si doteranno di nuove imbarcazioni e di piccoli aeroplani per fronteggiare le proteste dei nativi.

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Ci sono molti nativi che lavorano per le compagnie petrolifere? Come sono le loro condizioni di lavoro? Molte compagnie prendono gli indios come loro forza lavoro. Si tratta di un accordo con le comunità locali, una concessione in cambio del fatto che esse accettano l’insediamento dell’impresa. Le compagnie però hanno pochi lavoratori assunti direttamente. Molti di loro sono pagati da società di servizi che forniscono il personale alle aziende, così queste possono evitare ogni responsabilità diretta.Tra le ragioni delle proteste dell’anno scorso ad Andoas c’erano anche le mancate promesse di una di queste società, la APC. Tempo fa, in una intervista al quotidiano inglese “The Independent”4, lei affermò che l’ex presidente Alejandro Toledo sottoscrisse un patto con la Banca Mondiale e con altre istituzioni finanziarie per la privatizzazione della foresta. Ce ne può parlare? Il debito del Perù con la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale è stato usato per indurre il governo a privatizzare tutte le più importanti risorse del Paese. Telecomunicazioni, petrolio, gas, foreste, aeroporti, porti, fiumi. Bisogna considerare che, una volta conclusi i loro incarichi qui in Perù, i nostri presidenti e ministri delle Finanze vanno in pensione negli Stati Uniti o in altre terre straniere… dunque hanno una ragione in più per garantire la loro lealtà mentre sono al governo. Un recente rapporto di Greenpeace5 afferma che in Brasile il mercato della carne e della pelle contribuisce in modo pesante al tasso annuale di deforestazione. In Perù quale è la maggiore minaccia al momento? Il maggior pericolo in Perù, per quanto riguarda la deforestazione, sono le compagnie che stanno acquistando enormi aree per la produzione di biocombustibili da zucchero di canna, olio di palma, ecc. Anche il Gruppo Romero, che controlla la maggior parte delle risorse alimentari del Paese, si sta muovendo pesantemente nel mercato dei biocombustibili. Garcia ha detto che 400mila nativi non hanno il diritto di opporsi allo sviluppo e al benessere degli altri 28 milioni di cittadini peruviani. Cosa risponde a questo? Innanzitutto, il modello di “sviluppo” che ha in mente Garcia non porta – nella realtà – molti vantaggi ai 28 milioni di peruviani. Nel Paese c’è ancora tanta povertà, anche estrema. Il suo modello di “sviluppo” è quello di consegnare agli investitori stranieri le risorse naturali, perdendo ogni controllo sulla vendita del gas o del petrolio. Così il Paese acquista sul mercato internazionale il petrolio dalle compagnie straniere che operano sul suo

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territorio. All’industria mineraria va anche meglio, visto che nemmeno paga le tasse. Versa solo un contributo volontario ogni anno… cioè la somma è decisa dalle stesse aziende. Le cose sarebbero del tutto diverse se Garcia volesse davvero lo sviluppo del Paese. In secondo luogo, ogni abitante e ogni chilometro di terra può contribuire allo sviluppo sostenibile e posso assicurare a Garcia che l’Amazzonia e la sua popolazione stanno dando un contributo insostituibile al vero sviluppo. La sua attività al fianco degli indios le è valsa un riconoscimento ufficiale da parte della Regina Elisabetta, ma anche l’iscrizione nella “lista nera” del governo peruviano. Teme per la sua vita? Quali sono le motivazioni che la spingono ad andare avanti in questa battaglia? Fino a un paio di anni fa ero preoccupato per la mia sicurezza, soprattutto perché essere minacciato era una esperienza nuova per me. Nel tempo mi sono adattato e oggi le intimidazioni non mi fermano in alcun modo. La mia motivazione è cresciuta man mano che ho scoperto i grandi interessi che si celano dietro quanto sta accadendo all’Amazzonia e alla sua brava gente. Molti dei nativi ignorano chi sia o dove sia il “nemico” che attenta alla loro sopravvivenza e per questo non sono in grado di difendersi. Qualsiasi cosa io possa fare per aiutarli a essere più consapevoli e a difendere i loro diritti è per me un grande privilegio.

Laura D’Alessandro

Note: 1) LINK "http://mirror.perupetro.com.pe/exploracion01-e.asp" http://mirror.perupetro.com.pe/exploracion01-e.asp 2) È pratica comune che le stesse compagnie petrolifere ingaggino le società deputate alla stesura degli studi di impatto ambientale, obbligatori per valutare la fattibilità dei progetti di esplorazione e di sfruttamento. 3) Talisman, Gran Tierra e Petrolifera hanno i loro quartier generali in Canada, la Conoco Phillips in Texas e la Repsol in Spagna. 4) “English priest stops Amazon logging giants in their tracks”, The Independent, 25 maggio 2005. 5) “Amazzonia che macello!”, inchiesta di Greenpeace, 1 giugno 2009 ( HYPERLINK "http://www.greenpeace.org/italy/ufficiostampa/rapporti/macello-amazzonia" www.greenpeace.org/italy/ufficiostampa/rapporti/macello-amazzonia).

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BORDERLINE

Goldsmith

e il mondo surrogato

Padre dell’ecologia europea contemporanea, Edward Goldsmith è morto lo scorso agosto. Dal Tao dell’ecologia al Processo alla Globalizzazione. La sua lezione è ancora viva.

N

di Eduardo Zarelli

ella calura d’agosto, il 21, si è spento in Toscana – dove viveva oramai da anni Edward Goldsmith. È proprio lì che lo abbiamo conosciuto avendo avuto l’onore della sua amicizia, stimandone il tratto umano disinteressato, che faceva tutt’uno con la profondità del suo pensiero. Nato a Parigi da famiglia inglese nel 1928, nel 1969 aveva fondato The Ecologist ed è stato uno dei padri del pensiero ecologista contemporaneo. Nel 1991 gli fu attribuito il “Premio Nobel Alternativo. Tra i suoi libri più importanti ricordiamo La morte ecologica (1972), The Stable Society (1978), The social and environmental effects of large dams (1984), 5000 giorni per salvare il pianeta (1990), La grande inversione (1993), Il Tao dell’Ecologia (1997), Processo alla Globalizzazione (2006). Impossibile riassumere la varietà multiforme dei suoi interventi, si può tentare - con queste righe - di determinare un denominatore comune che lo ha reso uno tra i critici più anticonformisti della società industriale. Goldsmith ha colto come dogma fondamentale della civilizzazione moderna lo sviluppo economico o “progresso”, che si rivela essere, in realtà, la sistematica sostituzione della tecnosfera o mondo surrogato – la fonte dei benefici artificiali – all’ecosfera o mondo reale – fonte dei benefici naturali. Porre in dubbio l’efficacia di questo processo fatale è una eresia per la “religione” del progresso. Per la “industria dello sviluppo” è sacrilego sostenere, ad esempio, che la modernizzazione dell’agricoltura nei Paesi del Terzo Mondo è la causa principale della malnutrizione e della carestia in quei Paesi (vedi La Fao e la fame, 1993); o che la medicina moderna non è riuscita a pre-

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venire un aumento dell’incidenza globale di quasi tutte le malattie, fatta eccezione per il vaiolo. Così come nessun “credente” accetterà che la sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo sia causata da questo “sacro” processo. Essa sarà invece imputata a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione. In questo modo, la visione del mondo del “modernismo” ci impedisce di comprendere il nostro rapporto con il mondo reale, quello in cui viviamo, e di adattarci ad esso in modo da massimizzare il nostro benessere e la nostra reale ricchezza. La visione del mondo del modernismo e, in particolare, i paradigmi della scienza e dell’economia servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico o “progresso”, che ci sta portando alla distruzione del mondo naturale.

“L’obiettivo primario del modello di comportamento di una società ecologica deve essere quello di preservare l’ordine cruciale del mondo naturale o del cosmo...” Come è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice, la scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend. Una ragione per cui gli scienziati accettano il paradigma della scienza e, quindi, la visione del mondo del modernismo, è che esso razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono. È molto difficile per una persona evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta. Il circuito perverso si chiude nella considerazione di ogni problema sociale ed ecologico come malfunzionamento riconducibile ad una soluzione tecnologica che, razionalizzando, legittimerà ulteriormente il progresso. Nei termini di questo falso paradigma non si favoriranno mai le politiche necessarie per fermare la distruzione del Pianeta e sviluppare uno stile di vita sostenibile. In tali condizioni è improrogabile una “visione del

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mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza, spingendosi ben oltre l’ambientalismo, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente. L’ecologia - infatti - non ha il compito astratto di aggiungere un nuovo mondo artificiale a quelli già prodotti dalla civiltà industriale, ma più concretamente di ri/adattarci al mondo reale. Ecco allora lo studio delle antiche società tradizionali, la loro sostanziale similitudine simbolica nella diversità delle culture e degli ambienti abitati. Esse ponevano in evidenza due principi fondamentali che stanno alla base di una visione del mondo ecologica. Il primo è che il mondo vivente - o “ecosfera” - è la fonte di tutti i benefici e quindi di tutta la ricchezza, dispensati, però, solo se ne conserviamo l’ordine cruciale. Da questo primo principio ne segue il secondo: l’obiettivo primario del modello di comportamento di una società ecologica deve essere quello di preservare l’ordine cruciale del mondo naturale o del cosmo (omeostasi). In molte culture tradizionali ritroviamo una parola per tale modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano r\ta; nell’Avesta è chiamato a_a; gli antichi egiziani lo chiamavano maat; un altro termine indù, in seguito mutuato dai buddhisti, è dharma; i cinesi lo chiamavano Tao. Il Tao come “principio primo” onnicomprensivo di tutte le cose. Tutti gli esseri viventi, uomini inclusi, fanno parte di questo ordine naturale onnicomprensivo, soggetto al Tao che ne è il principio regolatore. Il Tao come ordine della natura, ne governa l’azione. Gli esseri umani seguono il Tao, o la Via, comportandosi naturalmente. In termini spirituali ciò significa attenersi al principio del Wu wei (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «quando tutte le cose obbediscono alle leggi del Tao, esse formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». Se seguire la Via significa mantenere l’ordine cruciale del cosmo, si può ritenere che una società lo faccia quando il suo modello di comportamento, o di autogoverno, sia omeotelico. L’omearchia è il concetto chiave dell’intera visione olistica di Goldsmith ed indica il controllo di sistemi naturali differenziati da parte della gerarchia di sistemi più ampi, di cui essi fanno parte. Quando, al contrario, è eterotelico (il controllo delle parti di un sistema da parte di un agente esterno/estraneo alla gerarchia), si deve ritenere che la

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società segua l’anti-Via, quella che minaccia l’ordine del cosmo e provoca inevitabilmente la rottura degli equilibri. Le unità di attività omeotelica sono le unità sociali naturali entro le quali gli esseri umani si sono evoluti: la famiglia, la comunità e la cultura che la sostanzia. Quando si disintegrano sotto l’impatto dello sviluppo economico, queste unità sono sostituite da istituzioni - politiche, economiche e sociali - il cui comportamento è sempre più eterotelico rispetto all’obiettivo di mantenere l’ordine cruciale della società e della gerarchia naturale. Così l’educazione non svolge più la sua funzione di socializzare i giovani in un contesto comunitario, i modelli d’insediamento non rispecchiano più la struttura sociale e quella del cosmo, la tecnologia e le attività economiche cessano di essere “parte” dei rapporti sociali e vanno rapidamente fuori controllo divenendo i principali fattori di disgregazione sociale e distruzione ecologica. La religiosità diventa universale e ultramondana e non sacralizza più il mondo naturale e la struttura sociale, lasciandoli esposti al disincanto e, quindi, allo sfruttamento. Alla luce dell’analisi di Goldsmith, ciò che viene comunemente inteso per “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale. Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine cruciale e quindi la stabilità dell’ecosfera, il progresso o antievoluzione può essere identificato con il comportamento eterotelico che sconvolge l’ordine cruciale pregiudicandone la stabilità. La civiltà industriale ha chiaramente deciso di scostarsi sistematicamente dalla Via. Il suo obiettivo primario è lo sviluppo economico o progresso, un’impresa altamente eterotelica che si può realizzare soltanto sconvolgendo metodicamente l’ordine cruciale dell’ecosfera per sostituirlo con un’organizzazione completamente artificiale, la tecnosfera, che trae le proprie risorse dall’ecosfera e in essa scarica i propri rifiuti, sempre più voluminosi e tossici. Attualmente, con il processo avanzato di globalizzazione, stiamo rapidamente raggiungendo un disclimax ecosferico planetario, in cui l’uomo riuscirà effettivamente a cancellare tre miliardi di anni di evoluzione per regalarsi un mondo impoverito e degradato sempre meno capace di sostenere forme di vita complesse tra cui l’uomo stesso. È ancora possibile invertire la rotta? I tempi della natura sono lenti e profondi quanto la dimensione cosmica che sottendono. All’uomo spetta solo di ritrovare la Via che prescinde da considerazioni temporali.

Eduardo Zarelli

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MUSICA

Questo è il muro, e questi siamo noi Waters crede che sia tutto e solo suo: ancora oggi pensa a “The Wall” e non lo ritiene un album dei Pink Floyd, ma la propria apoteosi. Waters si sbaglia.

I

di Federico Zamboni

Pink Floyd non erano solo un gruppo. Erano un mistero. Una delle alchimie più bizzarre e sorprendenti che si siano mai prodotte all’interno della musica rock. Di band che si evolvono ce ne sono tante,e anche i casi di drastici mutamenti di rotta sono numerosi, ma non è di questo che stiamo parlando. Nei Pink Floyd c’era qualcosa di più sottile. Un’instabilità congenita che risaliva a Syd Barrett – il ragazzo geniale e visionario che aprì la strada alle sperimentazioni psichedeliche sui suoni e sulle luci, ma che quasi subito finì risucchiato nella propria follia e perciò estromesso già a partire dal secondo album – e da allora in poi non è mai venuta meno. Quella che poteva essere una debolezza fatale si è trasformata in una premessa di crescita e di scoperta, nel segno della continua ricerca di un accordo reciproco sul da farsi. Le tensioni interne hanno fatto male ai rapporti personali, fino a condurre al momentaneo allontanamento del tastierista Richard Wright e alla marginalizzazione del batterista Nick Mason, ma hanno fatto bene, e spesso benissimo, al risultato artistico. La messa a punto dei brani, e a maggior ragione degli album, è diventata un esperimento dagli esiti imprevedibili, in cui gli stessi dissidi erano i catalizzatori di risorse creative sconosciute, che trovavano espressione, e compiutezza, solo nel lavoro comune. Era come se nessuno di loro sapesse, prima di essere giunti al punto di arrivo, dove sarebbero approdati. Di solito incidere un pezzo significa costruirlo: strati di suoni che rivestono una struttura che nei suoi tratti fondamentali è definita dall’inizio. Nel loro caso significava esplorarlo: ondate di sonorità che si mescolano l’una all’altra e si placano solo a poco a poco, fino a svelare il modo in cui hanno plasmato la materia su cui si sono riversate. Di solito si sa già dall’inizio che tipo di edificio si sta innalzando, e benché le soluzioni possano essere diversificate la

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gamma delle varianti è limitata. Nel loro caso qualunque previsione è impossibile: le canzoni si espandono in suite o si contraggono in frammenti appena abbozzati. La differenza stessa tra suono e rumore è messa in discussione. L’elettronica non è un capriccio o una velleità ma un codice che non è stato ancora decifrato e che, probabilmente, non lo sarà mai. Una sorta di “quarta dimensione” che si aggiunge a quelle tipiche della musica occidentale: le sette note, l’armonia, la melodia. È questo, oltre alla sua intrinseca bellezza, a rendere così affascinante la loro discografia, fino a quando la defezione di Roger Waters non li ha privati di un elemento essenziale e insostituibile. È questa sensazione che la meta finale rimanga incerta fino all’ultimo istante e che, dietro l’apparente conclusione del viaggio, siano ancora aperte una miriade di possibilità. Il punto di arrivo è un nuovo punto di partenza. E le due estremità del percorso tendono a confondersi, in effetti.

Identikit di un capolavoro The Wall venne pubblicato il 30 novembre 1979. Uscì come album doppio, per un totale di 81 minuti, ma in realtà avrebbe potuto essere ancora più lungo. Se non fossero esistiti i vincoli tecnici dell’epoca, che limitavano a poco più di venti minuti la durata di una facciata dei long-playing, e se non ci fossero state le classiche cautele del marketing, che consideravano assai azzardato imporre al pubblico una confezione più massiccia e il relativo sovrapprezzo, la vicenda avrebbe avuto uno sviluppo maggiore. La storia di Pink, la rockstar alienata che non trova nemmeno nel successo la pace interiore che desidera, si sarebbe espansa in nuovi episodi: Roger Waters, che è l’ideatore del progetto e che ha composto la quasi totalità del materiale, era talmente coinvolto e ispirato che non avrebbe avuto eccessive difficoltà a farlo. E negli anni successivi, in realtà, sono emerse versioni ampliate delle stesure già note, rivelando ampi spezzoni di testo che in prima battuta erano stati tagliati. Mentre i tre album precedenti – Dark Side of the Moon, Wish You Were Here e Animals – sono “concept album” che ruotano intorno a un filo conduttore ma con un collegamento relativo tra i singoli brani,The Wall è una vera e propria “rock opera”, che si dipana in modo organico e che presuppone un ascolto integrale. È solo così che ci si può addentrare nel dramma del protagonista. E c’è davvero da rimanere increduli al pensiero (alla constatazione) che qualcuno si sia fermato al facile richiamo di Another Brick in the Wall. Senza capire che era appunto un richiamo, in vista di ben altre rivelazioni.

C’è qualcuno, là fuori? La vera meditazione, insegna lo yoga migliore, serve a tirare fuori l’immondizia che si è accumulata dentro di noi: in parte a nostra

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insaputa, e spesso proprio quando credevamo di divertirci; in parte con la nostra piena e fervida collaborazione, perché siamo stati noi stessi ad averla raccolta a piene mani in giro per il mondo e ad averla stipata nel nostro habitat interiore, convinti che si trattasse di qualcosa di prezioso – o comunque di necessario. All’interno di The Wall non c’è nessun accenno allo yoga, ma il problema da cui si parte è analogo. Il muro che ci “protegge” è lo stesso muro che ci imprigiona. Quella che siamo abituati a considerare la nostra personalità (irrinunciabile, vero?) non è altro che un immenso accumulo di abitudini individuali, per lo più cattive, e di regole collettive, per lo più pessime. Le abbiamo assorbite in famiglia, nascoste tra le carezze ingannevoli dell’affetto. Le abbiamo apprese a scuola, incorniciate tra le minacce della bocciatura e le lusinghe della promozione. Il risultato (non un granché, vero?) è ciò che siamo diventati. L’unica via di salvezza è cominciare a rendersene conto. «The Wall è parte del mio resoconto, la mia storia, ma io penso che i temi di base risuonino nelle altre persone. L'idea è che noi, come individui troviamo necessario evitare o negare gli aspetti dolorosi della nostra esperienza, ed infatti spesso li usi come mattoni in un muro dietro il quale qualche volta possiamo trovare rifugio, ma dietro il quale possiamo essere facilmente imprigionati emotivamente.» Roger Waters lavorò su questo. Sulla sensazione di falsità che aveva provato durante la tournée di Animals e che, ben presto, si era consolidata in una certezza: non c’era una comunicazione autentica col pubblico, e il motivo per cui non c’era – per cui non ci poteva essere – era che da una parte e dall’altra non si era squarciato definitivamente il velo dell’ipocrisia. Lo stesso rock che era nato come ribellione ai modelli imposti dalla società, da quelli minimi dell’intrattenimento fino alla concezione dell’esistenza, aveva perso la sua carica purificatrice e generato un nuovo conformismo, di cui le rockstar erano allo stesso tempo la causa e l’effetto. «In un complesso rock ti trovi in una posizione molto invidiata e privilegiata . Apparentemente è la materia con cui sono fatti i sogni. Hai molto potere, guadagni molti soldi e c’è tutto il fascino falso. Diventi facilmente assuefatto a queste cose e quando lo fai preferisci dimenticare tutti gli elementi negativi e concomitanti. Diventi piacevolmente insensibile. Per rimanere nel sogno quella è la condizione richiesta». The Wall racconta la sofferenza di Pink. E riesce a farlo in un modo lancinante dalla prima all’ultima nota,in una “full immersion”in cui è doveroso immergersi e dalla quale,presumibilmente,si uscirà più lucidi. Più consapevoli del muro che ci circonda. Più pronti a chiedersi se “Is there anybody out there?”. C’è qualcuno, là fuori? Federico Zamboni

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CINEMA

La verità sepolta

Strage della generazione d'elite della Poloniaovvero una decapitazione metodica della nazione - nella Seconda Guerra Mondiale a opera dei sovietici. Strage attribuita ai nazisti. Pellicola vietata, o quasi. Ma Katyn, la sua verità, è troppo potente e si fa strada da sola.

K

di Ferdinando Menconi

atyn, di Andrzej Wajda, dopo pochi trailer, ha avuto una fugacissima apparizione nelle sale per poi essere recuperato in qualche rassegna cinematografica, qualche proiezione estiva e vedersi proposto in edicola come dvd. Piccole soddisfazioni per chi quel film voleva vederlo, per tutti coloro che si erano indignati fosse stato immediatamente ritirato dalla circolazione con la scusa che le sale erano vuote, quando la realtà era un’altra: Wajda era andato a smuovere una verità che doveva restare sepolta, come i cadaveri degli ufficiali polacchi giustiziati dai sovietici. Una verità nota, ma non ai più, fra l’ignoranza dilagante, che non conosce i fatti, e la censura comunista che, fedele alla versione di Mosca, ha sempre preteso fossero stati i nazisti e non l’NKVD1 a uccidere e gettare nelle fosse comuni della foresta di Katyn, poco dopo l’occupazione russa del 1939 di un terzo della Polonia, migliaia di ufficiali polacchi, per la maggior parte di complemento, colpevoli di appartenere ad una classe sociale da sradicare per poter esportare la rivoluzione russa. Una rivoluzione che si era già esaurita, peraltro, caduta anch’essa sotto i colpi di Stalin. Fin dalle prime inquadrature il film disturba la vulgata sulla secon-

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Sotto, la locandina del film. Vista da pochi come la pellicola, dato che si è evitato di farla circolare.

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da guerra mondiale: 17 settembre 1939, una colonna di profughi polacchi su un ponte fugge dall’invasione nazista, per via della quale Francia e Inghilterra hanno dichiarato guerra al Reich, senza però dar seguito all’atto formale agendo militarmente e dando, invece, inizio a quella che, fino al 10 maggio del ’40, passa col nome di “Drôle de guerre”2. Fin qui nulla di strano, tutto come da copione, quante volte si sono viste e riviste queste scene. Solo che, su quello stesso ponte, in direzione opposta, si sta muovendo un’altra massa di profughi. Questi, però, sono in fuga dai russi, che hanno anch’essi invaso la Polonia, senza alcuna reazione alleata, anche perché, volendoci credere, non era ufficialmente un’azione di guerra: andavano a portare ordine vicino al loro confine, al limite andavano ad esportare un regime e quello, si sa, anche oggi non è guerra... La storia (si fa per dire) sulla seconda guerra mondiale ricorda, certo, il patto Ribbentrop-Molotov, che permise ai tedeschi di innescare il processo che porta alla seconda guerra mondiale, ma dimentica che grazie a quel patto i russi invasero la Polonia, la Litania, la Lettonia, l’Estonia ed aggredirono la Finlandia. Eventi, questi, ben noti a chi si interessa di storia contemporanea, e che quindi sono però patrimonio di pochi. La maggioranza non sa, non deve sapere, che le aggressioni russe andarono impunite, con nessuna reazione democratica. Fra le poche voci stonate, all’epoca, ricordiamo quella del giovane Indro Montanelli (ma all’epoca il regime fascista non era antisovietico, erano alleati degli alleati) e lui la pagò con l’emarginazione. Prezzo che allora, ed ancora adesso, pagano i giornalisti che cercano verità e non riconoscimenti dal potere o dai salotti buoni. Sgradite ai diffusori della vulgata sono anche le scene in cui, come in realtà fu, gli ufficiali della Wermacht e dell’Armata Rossa vanno a braccetto. Scene che, però, non possono essere negate: non si può trattare Wajda da “revisionista”? E allora meglio nascondere sotto il tappeto, far sparire di circolazione il film. La verità, adesso come allora, è la prima vittima di Katyn, ma non solo in Italia: anche in Francia il film ha avuto poca diffusione e in Cina, dove delocalizziamo ma non “esportiamo” nulla, soprattutto non democrazia, il film è stato addirittura vietato perché

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“non in linea con il punto di vista ufficiale dello stato cinese”. Solo in Polonia è stato un successo enorme, almeno lì. La verità sulle fosse di Katyn resta patrimonio di pochi, il fatto che a Katyn fu distrutta una intera generazione della classe portante polacca ad opera degli stalinisti non deve divenire di dominio pubblico diffuso, il criminale nella seconda guerra mondiale è, e deve restare, uno solo: il nazismo. Come se la presenza di altri criminali “contro la pace” o “contro l’umanità” ne sminuisse le colpe. Certo c’è chi prova ad usarli in tal senso, ma non può essere certo questa una ragione per nascondere la verità, per quanto scomoda possa risultare. La verità, ribadiamo, fu la prima vittima di Katyn, verità che invece è alla base dell’opera di narrativa, perché l’espediente su cui Wajda basa il suo racconto è l’utilizzo dei veri diari di un ufficiale morto a Katyn, una strage che i russi provarono ad addossare ai tedeschi, ma di cui solo loro potevano avere interesse. Un interesse che ha una sua crudele logica: nella, corretta, previsione di un allargamento dei confini e dell’esportazione del sistema stalinista, la distruzione del ceto intellettuale borghese era fondamentale, e lo sterminio degli ufficiali rispondeva pienamente a questa logica, anche considerato che per la legge polacca di allora ogni laureato diveniva automaticamente ufficiale della riserva. Un’operazione perfettamente riuscita dal punto di vista sovietico. Cinica, spietata, ma logica. A guerra finita i sovietici addossarono la responsabilità delle fosse ai tedeschi, che le avevano scoperte nel 43. I sovietici sostennero questa “verità” con capillare spietatezza, dalla soppressione dei testimoni alle distruzione delle lapidi che portavano date di morte diverse da quelle della verità ufficiale: primavera 40 anziché autunno 41. Non solo i russi, ma anche i nuovi dirigenti polacchi si operarono con zelo nel sostenere la verità di Stalin. Questo può forse sorprendere, anche se in Italia non dovrebbe farlo troppo: non abbiamo forse noi rimosso le foibe per un lungo periodo? Ma un motivo ulteriore lo si può, però, individuare. Una scena in cui si vede il ribaltamento delle classi sociali dominanti, visto in maniera non positiva dal regista, che una verità nel film l’ha omessa: la Polonia del ’39 era ben lungi dall’essere una democrazia.

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Una cosa veramente incomprensibile, ed inaccettabile, per la visione italiana, è inoltre, nel film, la morte del protagonista (e autore dei diari): lui di fatto la sceglie, la morte. Anche se potrebbe, nei convulsi momenti dell’invasione russa, disfarsi, come lo prega la moglie, dell’uniforme e fuggire, nascondersi, portare a casa la pelle. Ma l’ufficiale polacco le preferisce l’onore dell’uniforme, del suo essere ufficiale, fosse anche di complemento. Quello che stona nel retorico finale a effetto del film, sono gli ufficiali polacchi, che, mentre vengono giustiziati uno ad uno con un singolo colpo di pistola3, recitano il padre nostro, comprensibile per un polacco inevitabilmente cattolico, secondo Wajda, ma meno per ufficiali che hanno scelto di morire per motivazioni altre dalla religione. Avrebbero altrimenti scelto, come il protagonista, il giuramento fatto alla moglie davanti a dio e non quello fatto all’uniforme davanti all’onore e alla nazione. Di battute che possono aprire a riflessioni, decontestualizzate e attualizzate, possono esserne raccolte parecchie, ma su tutte risalta l’accusa mossa dalla vedova di un generale ad un ufficiale sopravvissuto, che ha aderito al nuovo ordine anche se cerca di mostrare maggiore umanità: “Forse lei pensa in modo diverso, ma agisce allo stesso modo. E allora che importa se lei pensa in modo diverso?”. Già, che importa se uno non agisce, ma si limita ad equilibrismi intellettuali per aderire con riserva mentale al sistema se poi non agisce contro questo? L’ufficiale proverà ad agire in quello che chiamerà “il coraggio dell’alcol”. Non aveva però, evidentemente, bevuto abbastanza, e la dignità la salverà col suicidio. Forse anche oggi ci vorrebbe più alcol, non importa da dove viene il coraggio, basta che arrivi e porti all’azione, “bere, anche a viva forza” se può portare alla morte di Mirsilo4. “Non si può cambiare la verità”, anche questo viene detto nel film. Forse è vero, ma si può sempre tentare di nasconderla, di denigrarla, magari con accuse di revisionismo5, quando invece è dovere dello storico, come dell’intellettuale, di procedere a costante revisione della storia e della sua interpretazione, soprattutto quando queste diventano verità ufficiali e le vulgate di stato sono diffuse per coprire quella verità che non può essere cambiata, ma che necessita di gente di coraggio che la renda pubblica.

Ferdinando Menconi

Note: 1) L’antenato del KGB 2) La strana guerra o la buffa guerra 3) Con assoluto rigore storico Wajda fa usare ai russi pistole tedesche Walther che furono fatte pervenire a Katyn apposta per la bisogna, pistole tedesche e tecnica di colpo alla nuca considerato tipico della Gestapo 4) Mirsilo tiranno greco, alla cui morte Alceo leva un brindisi in versi. 5) Revisionismo, non Negazionismo, che è ben altra cosa anche se i due termini vengono spesso abilmente confusi a fini strumentali.

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parole avvelenate A 200.000 morti è pronto il premio

Ci occuperemo invece di...: i compensi di Wall Street di nuovo verso il record lo scontro sul posto fisso

O

ra, storicamente, il premio Nobel è stato dato la maggior parte delle volte ai più grandi stronzi della storia. Tranne rare eccezioni, soprattutto quello della Pace, qualunque cosa voglia dire questa parola, in un mondo in cui si è passati dalla Guerra Fredda alla Pace Calda, vede nel suo palmarès la più grande sfilza di guerrafondai mai esistiti sulla scena. Passino quelli alle cariatidi e quelli per gli ambiti scientifici, anche se proprio questi ultimi sono quelli destinati a premiare i più grandi responsabili delle catastrofi tecniche della terra, passino pure quelli di letteratura, anche se le parole migliori, nel settore, le scrisse proprio chi si rifiutò di ritirarlo il premio, ovvero Jean-Paul Sartre. Ma che oggi ci si stracci le vesti, tra le suorine radical chic e gli intellettuali phonati, per il Nobel a Obama, resta un mistero. Almeno se si scorrono i grandi pacifisti che negli anni addietro si sono visti assegnare il tutto. D'accordo che mentre il presidente Usa più cool degli ultimi anni ritirava il premio firmava la disposizione per inviare altri 14 mila uomini in Afghanistan, d'accordo che mentre cerca di dare la Sanità a tutti nel suo Paese allo stesso tempo sgancia bombe da 10.000 metri di altezza sui civili innocenti in due terzi del pianeta, d'accordo anche che mentre sua moglie coltiva melanzane alla Casa Bianca lui sparge fosforo bianco sulle montagne del Medio Oriente, ma non è che in passato fosse poi tanto meglio. Il Nobel è stato dato a Kofi Annan mentre si rubava gli aiuti della Croce Rossa (Nobel anche per la Cri), a Yasser Arafat mentre sosteneva la lotta armata in Palestina ma soprattutto a Shimon Peres in uno dei periodi più bui di colonizzazione della storia mondiale da parte di Israele. E ancora di più è stato dato a Kissinger mentre sosteneva il dittatore cileno Pinochet che stava facendo la guerra a Salvador Allende. Di che ci stupiamo? Esiste invece un sito internet che fa pensare peggio: si chiama Silvio Berlusconi Nobel e appoggia la candidatura del Cavaliere. Per la pace, naturalmente. Proprio mentre sta facendo la pelle all'Italia intera. Steppenwolf

boom di chirurgia estetica sugli under 18 le pressioni internazionali sull’Iran Terra e Global Warming le sanzioni dell’Europa all’Italia




di Alessio Di Mauro


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