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ISSN 2035-0724
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Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 2 - numero 13 - Ottobre 2009
Mensile Anno 2, Numero 13 Direttore politico
Massimo Fini Direttore responsabile
Valerio Lo Monaco
Obama: OTTO MESI DI PROMESSE Fini: MISSIONE DI PACE. MORTI DI GUERRA Il punto sulla crisi: TRANQUILLI, LE BANCHE STANNO BENE Chavez-Ahmadinejad: L’UNIONE FA IL FUTURO Pub: ADESSO CI VIETANO ANCHE IL BICCHIERE
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Anno 2, numero 13, Ottobre 2009 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com)
Altro che sdegno
Art director: Alessio Di Mauro
di Massimo Fini
Hanno collaborato a questo numero: Franco Nerozzi, Francesco Bertolini, Alessio Mannino, Alessia Lai, Marzio Pagani
Non crediamogli
Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Progetto Grafico: Antal Nagy Mauro Tancredi La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000
di Valerio Lo Monaco
Reportage: I Karen non mollano mai di Franco Nerozzi
Fine della crisi. Forse, insomma, chissà di Federico Zamboni
Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com
Le sirene si vestono di verde
Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008
di Alessio Mannino
Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma Agenzia di Stampa: Adn Kronos Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com
di Francesco Bertolini
Tutte le bugie di Obama
Moleskine Intervista: Tony Capuozzo di Valerio Lo Monaco
Attenti a quei due di Alessia Lai
Musica: Lassù sulle montagne di Federico Zamboni
Last Orders for the “Nonick”! di Marzio Pagani
Film: Armenia, un viaggio negato Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti. Chiuso in redazione il 28/09/2009
di Ferdinando Menconi
Tecnologia amica
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Leggo al minimo. Il Tempo divora gli occhi e il resto. Ma “La Voce del Ribelle” merita di vivere. Qualcuno... chissà... Guido Ceronetti
FINI
Altro “S che sdegno
gomento" e "sdegno" sono stati espressi da molti uomini politici e commentatori dopo la morte dei sei soldati italiani caduti in un'imboscata talebana a Kabul. Capisco lo sgomento, non lo sdegno. Noi italiani abbiamo la curiosa pretesa di fare la guerra, di avere licenza di uccidere senza però ritenere legittimo che ci sia resa la pariglia. E invece in guerra la speciale legittimità di uccidere, che non esiste in tempo di pace, deriva proprio dal fatto che si può essere, altrettanto legittimamente, uccisi. Se solo uno può colpire e l'altro solo subire siamo fuori dal campo della guerra, ma entriamo in un ambito che, come scrive il polemologo Lewis A. Coser, "non si differenzia dall'attacco dello strangolatore contro la sua vittima" (Le funzioni del conflitto sociale, Feltrinelli). In un conflitto armato i caduti, anche se in proporzione diversa, ci sono da entrambe le parti. È la legge della guerra. Che gli inglesi conoscono bene e che noi sembriamo aver dimenticato. Solo nei mesi di luglio e agosto i britannici hanno perso 31 uomini. Hanno onorato, com'è giusto, i loro caduti, come è giusto che noi onoriamo i nostri, ma nessuno ha espresso "sdegno", e per la verità nemmeno "sgomento", per quanto era accaduto. Sdegnarsi di che? Che quelli che noi colpiamo cerchino a loro volta di colpirci, con i mezzi che hanno? Noi possediamo armi tecnologicamente sofisticatissime, i Talebani quasi solo i loro corpi. Spiace, ma è doveroso dirlo: l'attacco ai Lince italiani era perfettamente legittimo perché diretto contro un obbiettivo militare. Dobbiamo piantarla di negare a chi ci combatte (a chi combatte un esercito occupante) la legittimità del combattente, conside-
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di Massimo Fini
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randolo semplicemente un criminale (criminali sono i Talebani, criminali erano gli iracheni, criminale era Milosevic) e riservando questa legittimità solo a noi. Peraltro ci sarebbe anche un'altra considerazione da fare. I guerriglieri (non solo in Afghanistan, ma in ogni guerriglia) sono stati spesso accusati di usare i civili, fra i quali si mescolano, come "scudi umani". Ma lo stesso si potrebbe dire per i mezzi corazzati occidentali che circolano nelle ore di punta per le strade principali di Kabul, affollatissime. È quello che ha osservato un giovane afgano, Siddiquat, che ha un negozietto che si affaccia sulla strada dove è avvenuto l'agguato: "Perché le truppe Isaf devono passare proprio da questa strada? Sanno di essere obbiettivo dei Talebani e dunque perché almeno per viaggiare non evitano le ore di punta? L'Isaf dimostra di non dare alcun valore alla vita degli afgani". Evidentemente le forze occidentali si comportano in questo modo perché pensano che la presenza della popolazione possa essere un deterrente per i Talebani che non hanno alcun interesse ad inimicarsela dato che il suo appoggio è per loro vitale. Quanto è accaduto a Kabul era inevitabile. Era anzi annunciato. Fino agli inizi di quest'anno ce l'eravamo cavata con poco, grazie a un accordo con i Talebani: noi controllavamo il territorio per modo di dire e loro ci lasciavano in pace. Accordi del genere li fanno anche gli altri. In alcune aree del Paese i contingenti occidentali pagano tangenti ai Talebani in cambio di protezione. Il paradosso dei paradossi che dice quale sia la reale situazione in Afghanistan e chi controlli il territorio. Ma il 2 maggio una pattuglia di soldati italiani, con i nervi evidentemente a fior di pelle, ha sparato contro una Toyota che procedeva in senso inverso, regolarmente sulla propria corsia, scambiandola per una macchina di attentatori, e ha ucciso, decapitandola, una bambina di dodici anni. L'accordo è saltato. Da quel momento dovevamo attenderci il peggio. Lo scrissi sul Quotidiano Nazionale in un articolo intitolato: "I parà in Afghanistan in mezzo a una guerra. Aspettiamoci il morto" (2/6/2009). È iniziato così uno stillicidio di attentati molto meno "dimostrativi" di quelli che c'erano stati fino ad allora. I Lince hanno cominciato a saltare in aria, pur senza causare vittime. Il 12 giugno sono stati feriti tre alpini. A metà luglio è stato ucciso Alessandro Di Lisio. Quindi è arrivato il botto terrificante di Kabul. E il peggio deve ancora venire. È ovvio che non dobbiamo lasciare l'Afghanistan perché abbiamo avuto dei morti. Gli americani sono a oggi (18/09/2009) a quota 850, gli inglesi ne hanno persi 216, i canadesi 131, la Danimarca 26, più del 10% del suo piccolo contingente di 200 uomini. Ma la domanda "Che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan?" abbiamo pure il diritto di porla e di porla alle nostre classi dirigenti. È esclu-
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so che stiamo facendo la lotta al terrorismo internazionale perché il terrorismo internazionale non sta in Afghanistan, la componente di Al Quaeda, ammesso che ci sia, nella guerriglia talebana è del tutto marginale e non ha alcuna voce in capitolo. È escluso che vi si possa e che abbia un senso portarvi la democrazia, mentre è certo che vi abbiamo portato, rispetto al periodo talebano, instabilità, insicurezza, disoccupazione, disagio sociale, corruzione, droga e, diciamolo pure, il nostro marciume morale. E allora? Le ragioni ce le ha spiegate, senza vergognarsi, Sergio Romano sul Corriere della Sera (19/9): gli americani devono salvare la faccia, i Paesi alleati ritagliarsi una fetta di prestigio internazionale. È per la bella faccia delle nostre classi dirigenti che mandiamo a morire inutilmente i nostri "ragazzi" e continuiamo ad ammazzare a decine, a centinaia di migliaia, gente che non ci ha fatto nulla di male, che vive a cinquemila chilometri di distanza da noi e che non saprebbe nemmeno della nostra esistenza se non fossimo lì a rompergli i coglioni. Massimo Fini
Non ce ne frega niente di...: indici di ascolto di Porta a Porta e Annozero *** Briatore *** la polemica di Brunetta con la sinistra * Miss Italia * il dossier sexy su Fini (quello sbagliato) **** Pannella und Bonino *****
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fronte di quotidiani con titoli schizofrenici, per chi ha avuto lo stomaco di continuare a comperarli e leggerli anche durante il periodo estivo, e a fronte di dichiarazioni improbabili da parte di economisti e politici, è il caso evidentemente di andare giù piatti. Tali e tante sono state le storture, le mistificazioni e i tentativi di persuasione in merito alla crisi finanziaria ed economica che stiamo affrontando, che una messa a punto per grandi linee, almeno con temi in modo intuitivo ancora prima che logico e razionale, si rende necessaria per quanti vogliano epurare la mente da tante cialtronerie. Perché mantenere accesa la realtà, in un momento nel quale tutto sembra manipolato e virtualizzato, è necessario per la propria sanità mentale. Quasi tutto quello che ci arriva appare - si fa per dire - concentrato proprio per atrofizzare la nostra coscienza, oltre che per nascondere la realtà delle cose. Sentenza, per impostare subito il discorso e diradare la nebbia: se le Banche (forse) sono salve, ebbene l'economia reale non lo è per niente. Se si è salvato il sistema, lo si è fatto salvando le stanze dei bottoni e i loro manovratori. Noi altri, quaggiù, stiamo subendo - come era normale che fosse e come certamente poteva supporre sicuramente chi ci segue da tempo - tutti gli scarti.Tutti i problemi.Tutta la caduta del "migliore dei mondi possibili". Che senso ha sentire dire che il peggio è passato e che le Banche si stanno riprendendo, che l'economia seppure piano riparte mentre si preannunciano continue perdite di posti di lavoro? Allora innanzi tutto il fatto, evidente, matematico e visibile anche dal punto di vista logistico, che l'unico motivo per il quale l'economia mondiale non è ancora letteralmente scoppiata risiede in una operazione da Banda degli Onesti. Chi ricorda il film con Totò e Peppino de Filippo rammenterà la stampa di banconote da parte dei due falsari improvvisati. Ebbene, l'iniezione di liquidità da parte di Banca Centrale Europea e soprattutto Federal Reserve americana è quasi la stessa operazione che si narra proprio in quella pellicola. Serve liquidità? Non c'è problema. Stampiamo banconote e le mettiamo in circolazione. Quanti chili ne servono? E il gioco è fatto.
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I famosi salvataggi di Banche & company altro non sono stati che immissioni di denaro per coprire le voragini lasciate aperte da anni di frodi da parte di Banche & Company stesse. In altre parole, e in sostanza, gli Stati non hanno protetto i cittadini ma le istituzioni che li hanno derubati. Il costo, naturalmente, è sempre a carico nostro. Senza cambiare di un millimetro o quasi i dogmi che a tali danni hanno condotto, si sono semplicemente riempite le falle con i soldi dei contribuenti. In altre parole: gli Stati ci hanno indebitati tutti. Ognuno di noi ha oggi una parte di debito pubblico sulle spalle. Grande, sempre più grande. Per salvare banche e banchieri. Noi, i nostri figli e i nostri nipoti: indebitati fino al collo. Senza alcuna possibilità di poterlo ripagare, tale e tanta è la mole di debito che abbiamo. Banche & company salvate hanno tappato (temporaneamente, s'intende) le falle al proprio interno iniziando nuovamente a operare indisturbate sul mercato, tanto che già sono stati erogati nuovi dividendi ai supermanager.E hanno addirittura iniziato nuovamente a fare utili. Per loro stessi. Pagando con il nostro futuro. Logica avrebbe voluto spazzare via tali istituzioni che hanno fatto i danni mentre invece le abbiamo salvate con il nostro presente e il nostro futuro. Logica avrebbe voluto confiscare beni e super ricchezze accumulate negli anni da parte di chi ci ha portato al collasso e invece, tranne qualche caso clamoroso - clamoroso soprattutto dal punto di vista mediatico - proprio a tali persone sono ricominciati a essere elargiti emolumenti stratosferici per il buon lavoro svolto. Invece di azzerare il rischio, insomma - come logica avrebbe voluto almeno per i convinti di continuare con questo sistema - si è semplicemente spostato il rischio da una parte all'altra. Ovvero dai privati al pubblico. Ancora, tanto per continuare a essere piatti, al di là di chi ancora non si è reso conto di quello che è accaduto e di quello che rapidamente accadrà, la liquidità immessa in circolazione per salvare Banche & Company dovrà necessariamente essere riassorbita da parte delle banche centrali. Come? Semplice, per chiunque mastichi un po' di economia (quando non solo di matematica da quinta elementare): inflazione. E quindi rialzo dei tassi di interesse. Presto o tardi che sarà (presto, presto...) la percezione che "il peggio è passato" (complici i media che tale percezione vogliono veicolare a tutti i costi seguendo i diktat della politica e dell'economia) sortirà l'effetto di vedere un rincaro dei prezzi delle materie prime, e dunque anche al dettaglio. Si badi bene, non solo al dettaglio relativamente a oggetti di carattere superfluo, ma soprattutto di quelli indispensabili,come cibo,utenze e servizi.E quindi,come implicazione,le banche centrali saranno "costrette" ad alzare i tassi di interesse. Rastrellando tutto il possibile dalle nostre tasche. Con le conseguenze che tutti possono immaginare. In pratica sino a ora si è tentato di applicare un cerotto costosissimo (a spese di tutti noi) su una arteria recisa. Presto il cerotto salterà, come è nell'ordine delle cose, e dal punto di vista economico - visto che abbiamo già ipotecato tutto e per generazioni - non avremo altra alternativa che veder esplodere tutto con ancora più fragore. Chi per primo proverà a ipotizzare una tipologia di vita molto differente da quella di oggi, chi per primo si abituerà anche psicologicamente alla cosa, quando non proprio dal punto di vista pratico, sarà avvantaggiato. Ma la prima operazione da fare è scrollarsi di dosso la tossicità delle stronzate che ci raccontano e che ci vogliono far credere. Valerio Lo Monaco
REPORTAGE
I Karen non mollano mai
“Noi non ci battiamo di certo per portare la democrazia a Rangoon. La democrazia non ci interessa. I karen non hanno nessuna intenzione di invadere il territorio di uno stato sovrano, ne’ di intromettersi nei suoi affari; ma ci deve essere garantita l’inviolabilità della nostra terra, in cui riposano i nostri Padri. Saremo sempre disposti a morire, per ottenere il rispetto della nostra identità e per tenere la droga lontana dal nostro Paese”.
I
di Franco Nerozzi
l giovane guerrigliero che mi precede ha il passo di un velocista. Sembra impossibile che con quelle vecchie infradito di gomma ai piedi riesca ad arrampicarsi sul ripido sentiero senza la minima incertezza. Sta piovendo da almeno un’ora, e la terra rossa del camminamento si è trasformata in un viscido sapone che fa slittare verso valle i miei anfibi “original U.S.A.” impedendomi di tenere il ritmo della mia guida. Il ragazzo si gira, osserva i passi incerti dell’ospite, ne sente il respiro affannoso. Senza cambiare espressione sul suo serio volto sbarbato si ferma, finge di accusare un momento di stanchezza, si toglie il basco verde e usandolo come un ventaglio si fa aria, concedendomi qualche minuto per riprendere un po’ di fiato. La Birmania, per un visitatore clandestino, inizia così. Interminabili salite sui fianchi di montagne ricoperte da una prepotente vegetazione che avevi visto soltanto nei film sulla guerra del Vietnam. Poi discese a valle e rovinose scivolate verso torrenti ingrossati dalle piogge monsoniche. E ancora nuove scalate, con le mani che trovano insi-
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Guerra perenne. Per mantenere la propria terra e la propria cultura da tramandare ai propri figli.
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diosi appigli su tronchi coperti di affilate spine. Alle nostre spalle il confine thailandese, attraversato guadando in tutta fretta un fiume ed eludendo i controlli delle numerose guardie di frontiera che pattugliano la regione. La colonna, formata da una quindicina di guerriglieri, è diretta ad un avamposto dell’Esercito di Liberazione Karen, il gruppo armato più attivo nella guerra contro il regime birmano. Di tanto in tanto i volontari rompono il silenzio per avvisare qualche compagno della presenza di una sanguisuga sui suoi polpacci. “Metti delle sigarette sbriciolate nei calzettoni” – mi raccomanda Ba Wah, anziano infermiere militare, specializzato nelle amputazioni degli arti inferiori – “Alle sanguisughe l’odore del tabacco non piace. Si fermeranno alle caviglie e ti lasceranno in pace le zone più sensibili….” Ripongo nello zaino l’inutile repellente chimico e sfilo il pacchetto di sigarette dalla tasca. Ba Wah ha solo cinquanta anni, ma è considerato il nonno della compagnia. L’aspetto è quello di un elfo dei racconti di Tolkien. Non supera il metro e sessanta, ha due occhi neri e lucidi che ti penetrano con cordiale e straordinaria vivacità. Indossa un sarong (una gonna che fa parte dell’abbigliamento tradizionale delle genti di Birmania) il cui colore sgargiante ha ben poco a che vedere con i manuali di mimetizzazione militare. Per trent’anni infermiere personale dell’eroe della resistenza Karen, il carismatico e spietato Generale Bo Mya, ha partecipato alle più importanti battaglie attraverso le quali questa orgogliosa popolazione, insediatasi in Birmania 2.700 anni fa, ha fatto fronte al tentativo di genocidio condotto contro di essa dai diversi governi che si sono succeduti a Rangoon. Ba Wah dispensa consigli e ordini, è adorato e temuto come un padre dai numerosi ragazzi che lo interrogano per ascoltare i suoi racconti di guerra. L’esercito di liberazione è formato in gran parte da loro, giovanissimi soldati che hanno lasciato volontariamente i campi profughi in Thailandia per battersi e morire per la rivoluzione Karen, quella via di lotta e sacrificio indicata sessant’anni fa da Saw Ba U Gy, l’eroe/martire della sollevazione contro i Birmani.
Nessuna resa. Mai “Per noi l’ipotesi di una resa è fuori discussione” - ci dice il Colonnello Nerdah Mya, comandante operativo di tre battaglioni del Karen National Liberation Army (KNLA) – “e finchè non verrà riconosciuto pienamente il nostro stato noi resteremo a batterci in questa giungla”. Nerdah ci accoglie nell’avamposto, cinque capanne di bambù coperte da teli di nylon bucherellato sotto i quali una quarantina di volontari si riparano dai frequenti scrosci
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di pioggia. Il campo è una installazione provvisoria. La guerriglia è in costante movimento. Si resta una, due, tre settimane, a volte un mese. Poi ci si sposta su un’altra collina, invisibili al nemico, ma sempre a ridosso di esso. Lo si colpisce con un colpo di cecchino. Con una imboscata. Con delle mine fatte in casa. L’intento è quello di far capire agli invasori che non hanno un vero controllo sul territorio di cui si sono impossessati. Questo avamposto è un mare di fango. I giovani dormono su delle amache, per proteggersi da melma e sanguisughe. Raccolgono l’acqua piovana per bere e lavarsi. Trascorrono la giornata tra pattugliamenti e snervanti attese. L’orecchio incollato ai walkye talkye per intercettare le conversazioni dei reparti birmani. La nostra visita risulta così un piacevole diversivo dopo quattro mesi di isolamento nella giungla. C’è da credere alle parole di Nerdah quando dice che i Karen non si arrenderanno: il K.N.L.A. resiste infatti dal 1949 alle offensive che i birmani sferrano con regolarità ad ogni stagione secca (novembre – marzo) e che tutte le volte il regime di Rangoon descrive come “il colpo finale contro i terroristi”. Male armati (buona parte dei fucili in uso sono reperti dei conflitti di Vietnam e Cambogia), schiacciati in una lunga ma stretta lingua di terra a ridosso del confine thailandese, colpiti da malaria, tubercolosi e infezioni gastrointestinali, incalzati dai reparti speciali birmani, i combattenti Karen non mollano. Dalla loro parte la forza della causa, la conoscenza capillare di ogni angolo di giungla, la straordinaria capacità di combattere per settimane senza quasi cibarsi, l’attaccamento alla propria terra. Sono uomini della foresta, e dalla foresta e dai suoi Spiriti traggono riparo e aiuto. Di fronte a loro, uno degli eserciti più equipaggiati del Sud – Est Asiatico, che riceve armamenti da Cina, India, Pakistan, Singapore e Israele, che ottiene da Tel Aviv sofisticati sistemi di rilevazione ed intercettazione delle comunicazioni radio, che manda in Australia i membri della propria polizia ad imparare le nuove tecniche antiterrorismo. Una forza armata al servizio di un regime che pur governando un paese con il reddito pro capite tra i più bassi al mondo, garantisce un tenore di vita da sultani ai suoi gerarchi, unici beneficiari di contratti miliardari con le multinazionali occidentali e di accordi criminali con i produttori e i trafficanti di stupefacenti. “A noi non interessa la politica interna della Birmania” – prosegue Nerdah mentre col machete ci pulisce una grossa noce di cocco – “Noi non ci battiamo di certo per portare la democrazia a Rangoon. La democrazia non ci interessa. I karen non hanno nessuna intenzione di invadere il territorio
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di uno stato sovrano, ne’ di intromettersi nei suoi affari; ma ci deve essere garantita l’inviolabilità della nostra terra, in cui riposano i nostri Padri. Saremo sempre disposti a morire, per ottenere il rispetto della nostra identità e per tenere la droga lontana dal nostro Paese”. Parla un perfetto inglese il giovane ufficiale, ultimogenito dell’eroe nazionale. Per questo ragazzo dallo sguardo amichevole l’anziano guerriero Bo Mya, il combattente che i generali di Rangoon non sono mai riusciti a comprare ne’ a sconfiggere, aveva programmato una esistenza “normale”, lontana da quella giungla infestata da mine antiuomo, percorsa dalle squadre della morte birmane, teatro di esecuzioni di massa, stupri sistematici, torture. Lo aveva spedito negli Stati Uniti, pensando di non rivederlo mai più.“Studiavo in un college, frequentavo corsi di letteratura, pittura, recitazione” – dice Nerdah sorridendo, quasi vergognandosi di quel passato nella bambagia di una società occidentale - “Ma nel 1995, mentre mi trovavo qui per una breve visita alla mia famiglia, una grande offensiva sgretolò il fronte, l’esercito Karen fu costretto alla fuga, decine di migliaia di profughi si riversarono in Thailandia per cercare una via di salvezza. Anche molti combattenti si rifugiarono nei campi di accoglienza. Sembrava l’epilogo della rivoluzione Karen”. In quelle drammatiche giornate,il giovane studente di letteratura prende la sua decisione: non partirà più per tornare alla comoda vita del college americano. Rimane tra la sua gente, e affianca il padre e i fratelli nella proibitiva impresa di riorganizzare la resistenza. “Sarebbe stato come tradire il mio popolo, mi sarei vergognato per tutta la vita se me ne fossi andato” – prosegue – “Riprendemmo la lotta con trenta soldati, che erano stati le guardie del corpo di mio padre. Ottenemmo clamorosi successi con operazioni temerarie e lanciammo così il segnale che i Karen erano ancora decisi a battersi come prima. Ben presto, incoraggiati da queste notizie, molti giovani si unirono a noi. Oggi possiamo contare su cinquemila combattenti, tutti volontari, tutti profondamente motivati”. La questione birmana inizia con la concessione dell’indipendenza da parte della Gran Bretagna al termine del secondo conflitto mondiale. Il Paese è un mosaico di antichissime etnie che parlano
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lingue diverse, che si rifanno a differenti Tradizioni, che si guardano con sospetto. È logico quindi ipotizzare che la fine del dominio coloniale porterà alla formazione di un certo numero di stati, magari collegati in una forma federale, ma dotati di ampia autonomia. Il trattato di Panglong, firmato dal capo del primo governo, Aung San, (padre dell’attuale icona della lotta per la democrazia in Birmania) stabilisce sensatamente che i principali gruppi etnici potranno rendersi indipendenti entro dieci anni dall’entrata in vigore dell’accordo. Ma poco dopo la firma, Aung San viene ucciso, il suo governo rovesciato, e i golpisti fanno carta straccia del trattato.
Autonomia e bando alle droghe Da allora i Karen si battono per la propria autonomia, come almeno altri sei o sette gruppi etnici maggiori. Con un grande tratto caratteristico, che li rende unici nella vicenda: per ragioni etiche si rifiutano di farsi coinvolgere nella produzione o nel traffico di stupefacenti, “carburante” della giunta militare ma anche delle formazioni armate che la combattono. “La droga non è soltanto un male accidentale per la società che la usa” – spiega il Colonnello Nerdah Mya – “La droga è anche una vera e propria arma utilizzata per distruggere la resistenza di un popolo e per annientare la dignità degli uomini che lo compongono. Per questo siamo costretti ad essere molto severi, quasi brutali nel punire chi la usa e chi la vende”. La gerontocrazia birmana trae buona parte dei suoi guadagni dal traffico di stupefacenti, ma una voce importante del suo bilancio è legata a due colossi occidentali della produzione di carburante, la francese Total e l’americana Chevron. Le due compagnie fanno parte del consorzio che ha costruito il gasdotto di Yadana, una pipeline che porta il gas birmano dai ricchi giacimenti del Mar delle Andamane fino in Thailandia, procurando al governo introiti da centinaia di milioni di dollari ogni anno. Alla costruzione del gasdotto e delle infrastrutture militari che lo proteggono hanno lavorato in condizioni di schiavitù uomini, donne e bambini di etnia Mon e Karen. I battaglioni del “Tatmadaw” (l’esercito birmano) si sono lasciati andare a violenze gratuite sugli abitanti dei villaggi che man
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mano venivano incendiati per far posto al gasdotto. Nonostante decine di migliaia di persone siano state deportate forzatamente dalle loro terre per essere rinchiuse in “insediamenti modello” sotto il diretto controllo delle forze armate di Rangoon, i colletti bianchi delle multinazionali coinvolte, gli esperti di marketing e di immagine, cercano di far passare agli occhi della pubblica opinione i remunerativi contratti firmati con i Generali come “imprese dalle positive ricadute sulle popolazioni locali”. Un portavoce della Chevron, recentemente interrogato sulla opportunità di ritirare dal consorzio di Yadana l’azienda statunitense, ha risposto che di fronte all’uscita di scena del suo gruppo assisteremmo all’immediato arrivo di una compagnia cinese, pronta a proseguire gli investimenti nel settore energetico. Una verità, che chiarisce ancora una volta l’essenza del problema birmano, copia di altre situazioni internazionali in cui il fattore economico-finanziario resta in primo piano nelle decisioni riguardanti la vita di popoli e comunità. Thailandia, Cina e Birmania, ma come abbiamo visto anche numerosi paesi occidentali, sono legati tra di essi da contratti miliardari legati allo sfruttamento delle risorse naturali della regione. “I Cinesi stanno per costruire un’altra diga sul fiume Salween” – dice Ba Wah mentre pulisce il suo AK 47 arrugginito – “La diga farà scomparire sotto l’acqua le terre dei Karen. I Cinesi hanno un accordo con Birmani e Thailandesi per rendere sicura la zona contro eventuali attacchi da parte nostra. Così l’esercito birmano ci darà la caccia, e la polizia di frontiera thailandese ci bloccherà il passaggio di cibo, medicinali e rifornimenti per compiacere i potenti partner commerciali. Ma non abbiamo scelta, dovremo impedire che si faccia quella diga” “Non vogliamo essere fraintesi” – ha dichiarato Li Ruogu, presidente della Export-Import Bank of China, principale finanziatrice delle numerose opere di costruzione di dighe sui fiumi della regione Karen – “Vogliamo che la gente capisca che non stiamo distruggendo l’ambiente. Stiamo aiutando la nazione a progredire”.
Altro che progresso A pagare il prezzo più alto di questo “progresso” è la popolazione civile. In queste aree di confine sono almeno 500.000 i profughi interni, persone che hanno dovuto abbandonare i loro villaggi per l’arrivo delle truppe birmane e che ora sopravvivono in condizioni miserevoli in rifugi di fortuna sotto la precaria protezione del KNLA. Incontriamo intere famiglie, reduci da fughe da incubo, inseguite dai soldati birmani e dalle milizie di collaborazio-
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nisti Karen, partigiani, o meglio banditi filo birmani, passati al nemico quindici anni fa, in cambio di una partecipazione ai lucrosi affari legati all’eroina e al taglio di legname pregiato. Le storie di questi uomini scalzi, di queste donne dallo sguardo vuoto che tengono in braccio bambini febbricitanti descrivono scenari da film dell’orrore. “Sono arrivati all’imbrunire” – racconta allattando al seno la sua bambina Naw Paw Leh – “Hanno preso il capo villaggio accusandolo di avere legami con i guerriglieri. Gli hanno versato addosso una pentola di acqua bollente per farsi dire dove erano accampati gli uomini del KNLA. Lui non sapeva nulla. Allora l’ufficiale ha ordinato ai suoi soldati di violentare la figlia. Aveva undici anni…..” Il “mondo libero” si straccia le vesti per la mancanza di democrazia a Rangoon, ma le sue aziende fanno affari con gli aguzzini, a spese delle minoranze etniche. La logica mondialista prevede che in Birmania il regime cambi, prima o poi, e che al governo vada qualche volto rassicurante, presentabile. Sarà un cambiamento curato dagli esperti di marketing politico. L’importante è che gli affari non crollino. Il problema dei popoli della foresta allora non muterà volto. Chi si batte per preservare la propria specificità culturale, per difendere la sua terra dallo stupro delle “grandi opere”, per continuare a parlare la propria lingua e adorare le proprie divinità, lontano dalle sirene del supermarket globale, rappresenterà sempre un seccante problema per i fautori del nuovo ordine mondiale. Il “selvaggio” Ba Wah, l’uomo che senza aver mai studiato medicina viene chiamato dottore dai suoi pazienti, il piccolo elfo che legge la Bibbia ma ascolta la voce degli Dei nel vento che scuote i bambù ha compreso più di ogni altro l’essenza del problema. “Sono infuriato” – mi dice mentre mi allunga un piatto di riso salato, unico pasto per i soldati al fronte – “Nei campi profughi gli americani stanno distribuendo ai giovani Karen i permessi per andare negli Stati Uniti.Ti rendi conto? Noi siamo qui a batterci per costruire una nazione, abbiamo bisogno della nostra gente, dei nostri ragazzi. Dobbiamo ripopolare la regione Karen, se vogliamo avere una speranza di sopravvivenza. Non si rendono conto che incoraggiando l’emigrazione faranno scomparire il nostro popolo?”. Sì, caro Ba Wah. Se ne rendono perfettamente conto.
testo e fotografie di Franco Nerozzi
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”Popoli”
Solidarietà per l’Identità.
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ello stato Karen agiscono pochissime organizzazioni umanitarie. L’ingresso nelle zone abitate dai Karen è infatti proibito dalle autorità birmane, quindi l’unico intervento possibile è quello clandestino. Le grandi ONG si fermano in Thailandia, operando nei campi profughi ufficiali, che ospitano circa 120.000 persone. Ma oltre confine, dove 500.000 profughi interni rischiano di morire per mancanza di cibo e di medicinali, solo piccoli gruppi di volontari si avventurano rischiando l’arresto da parte delle guardie di frontiera thailandesi o la cattura da parte delle truppe birmane. Una di queste organizzazioni è “Popoli”. (www.comunitapopoli.org) La Comunità Solidarista Popoli è nata nel febbraio del 2001 allo scopo di portare sostegno concreto a persone in grave difficoltà a causa di guerre, epidemie, povertà, calamità naturali. L’organizzazione indirizza i suoi interventi verso popolazioni che ritiene particolarmente meritevoli di aiuto sulla base di caratteristiche etiche, morali e spirituali, privilegiando quei gruppi umani costretti a lottare per difendere la propria libertà, i propri valori tradizionali, la propria identità. In contrasto con la tendenza all’omologazione culturale dei popoli, incoraggiata da lusinghe o ricatti economici quando non imposta con la forza delle armi, la Comunità Solidarista si riconosce nel principio della preservazione delle diversità, condizione indispensabile al contenimento degli evidenti squilibri e delle profonde ingiustizie provocate dal nuovo ordine mondiale. Dal febbraio 2001 ad oggi grazie all’intervento di “Popoli” sono state realizzate quattro cliniche mobili e tre scuole elementari nella regione Karen. I medici della Comunità hanno compiuto diverse rischiose missioni per curare pazienti che non vedevano un farmaco da molti anni. Le cliniche servono un bacino di utenza di circa 15.000 persone. Le scuole elementari consentono ai bambini Karen di mantenere la propria lingua e di apprendere la storia del popolo a cui appartengono, contribuendo così alla preservazione della loro identità. Da qualche anno “Popoli” collabora con altre Onlus italiane, come “L’Uomo Libero” e “Navigare Necesse Est”, grazie alle quali, con la partecipazione della Regione Trentino Alto Adige e del Comune di Roma, sono stati realizzati dei villaggi agricoli nello stato Karen, allo scopo di favorire il ripopolamento della regione e l’autosufficienza alimentare dei suoi abitanti. Gli aderenti a “Popoli” fanno opera di volontariato puro: nessuno di loro percepisce un compenso per il lavoro che svolge.
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ANALISI
Fine della crisi.
Forse, insomma, chissà
I banchieri continuano a ragionare solo da banchieri: evitato il crac dicono che il peggio è passato. Forse per loro. Non certo per noi
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di Federico Zamboni
ice Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve statunitense dal 2006 e riconfermato da Obama fino al 2014 per aver “allontanato l’economia da una depressione”: «Da un punto di vista tecnico, la recessione è molto probabilmente terminata». E aggiunge: «Ho visto un certo consenso tra i previsori riguardo il fatto che siamo in ripresa, ma il punto di vista prevalente tra loro è che il ritmo della crescita nel 2010 sarà moderato». Purtroppo, però, «si avvertirà un’economia molto debole per un certo tempo in quanto molte persone sentiranno ancora che la loro sicurezza lavorativa e il loro status occupazionale non sarà quello desiderato». Incredibilmente, queste dichiarazioni di metà settembre sono state accolte come se fossero positive. Positive non soltanto per il sistema finanziario, che era destinato al tracollo e si è salvato grazie agli sterminati finanziamenti da parte dei governi, ma anche per l’economia nel suo complesso. La menzogna sottintesa è proprio questa: che quello che va bene per le banche vada bene, o prima o dopo, anche per il resto della società. Imprese, lavoratori, cittadini. L’altro aspetto interessante, che i grandi media si sono ben guardati dall’evidenziare, è che le parole di Bernanke riescono a essere simultaneamente vaghe, ipocrite e capziose. Espressioni come “da un punto di vista tecnico”,“un certo consenso tra i previsori”, “si avvertirà un’economia molto debole” e “molte persone sentiranno ancora che la loro sicurezza lavorativa e il loro status occupazionale non sarà quello desiderato”, sono in parte impressioni spacciate per analisi e in parte eufemismi. Eufemismi rivoltanti, bisogna aggiungere. I milioni di uomini e donne che hanno perso il posto di lavoro e non riescono, e non riusciranno, a trovarne un
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altro non sono “persone che sentiranno ancora eccetera eccetera”. Sono individui che hanno perso la loro fonte di reddito e, insieme ad essa, l’architrave della loro identità sociale e del loro avvenire come singoli e come membri di una famiglia serena, già costituita o di là da venire. Non stiamo aleggiando nel mondo delicato delle sensazioni. Annaspiamo, o sprofondiamo, nel mondo concreto e doloroso, per non dire tragico, della vita reale. Che va a rotoli. Che va a puttane.
Silence, please La verità sarebbe semplicissima, solo che è un tabù: nessuno sa con certezza che cosa accadrà nei prossimi mesi e, a maggior ragione, nei prossimi anni. Troppe variabili. Troppe incognite. Troppe esigenze contrastanti che collidono tra loro in una tensione permanente che non si può eliminare e che, per questo e per le sue potenzialità distruttive, ricorda l’attrito delle faglie tettoniche. Che ci sono anche se non si vedono. Che si muovono, pericolosamente, all’insaputa dei più. Quello che sta accadendo davvero, vedi anche quest’ultima farsa del G20 di Pittsburgh che spaccia come massimo allarme planetario la “minaccia” atomica iraniana, è che i potentati economici e politici occidentali stanno cercando di capire come riformulare l’equazione del loro dominio. Come farcela a restarsene tranquillamente al comando anche dopo aver dimostrato di non esserne degni e, quel che forse è ancora peggio, apprestandosi a trasformare le difficoltà sociali causate dalla crisi in un peggioramento permanente delle condizioni di vita. Il dato di fatto da cui bisognerebbe partire è che i problemi strutturali dell’economia occidentale, e in particolare di quella statunitense, sono tutt’altro che superati. Essendo appunto strutturali, a cominciare dalla carenza di liquidità, sono impossibili da rimuovere. Hanno portato al crollo dei mercati e lasceranno dietro di sé guasti enormi, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione. A meno che non si creino ulteriori bolle speculative – e vale la pena di ricordare che nella medesima conferenza stampa citata in apertura l’ineffabile Bernanke ha anche detto che il fenomeno dei derivati di Borsa «almeno nel medio termine non tornerà alle dimensioni che aveva in precedenza», dove l’espressione chiave è ovviamente “almeno nel medio termine” e prelude a un successivo recupero di questa pratica abietta e velenosa, non appena le acque si saranno calmate e la memoria del disastro si sarà attenuata quanto basta a far sì che la cosa venga accettata pacificamente – bisognerà abituarsi a vivere in una società in cui circola meno denaro. E in cui le conseguenze negative di questa diminuzione le sconta, manco a dirlo, la gente qualsiasi, non certo le oligarchie che detengono il potere finanziario. Comunque vada a finire, la preesistente illusione di una crescita continua e illimitata – da una parte del Pil, dall’altra dei redditi e dei consumi della generalità della popolazione – dovrà essere abbandonata. Quello che gli esperti sanno benissimo è che c’è un vizio d’origine, una sorta di inganno a priori, che è stato utilizzato per decenni e decenni
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come leva propagandistica dell’attuale modello di produzione e consumo. Per tutto questo tempo l’Occidente ha vissuto ampiamente al di sopra dei suoi mezzi. Il problema, che ora è assai più difficile nascondere ma che per gli osservatori consapevoli non è certo una novità, è che questa “cattiva abitudine” è diventata insostenibile. L’Occidente del nuovo millennio è come un’immensa azienda che ha perduto il privilegio del monopolio: prima poteva pagare i suoi dipendenti quanto voleva, scaricandone il costo sul prezzo finale dei suoi “prodotti”. Adesso che non gode più dell’assoluta supremazia tecnologica, economica e militare sul resto del mondo, è costretta a fare i conti con un numero crescente di Paesi che sono pronti e determinati a competere, e che sono in grado di farlo in condizioni vantaggiose. Sia sul piano produttivo, grazie a lavoratori che accettano retribuzioni e tutele normative di gran lunga inferiori, sia su quello politico, grazie a cittadini abituati a livelli di consumo e di libertà individuale incomparabilmente più bassi. Per continuare nella stessa direzione di prima, quella che pretendeva di far coesistere lo smodato arricchimento di una minoranza e il benessere di (quasi) tutti gli altri, non ci sono abbastanza soldi. In realtà, del resto, non ci sarebbero stati neanche prima: ed è il motivo per cui sono state create tutta una serie di bolle speculative, con una “finanziarizzazione” dell’economia che di fatto ha privato il denaro, che già nasce astratto di per sé, di qualsiasi elemento oggettivo. Cioè di qualunque, residuo ancoraggio alla realtà produttiva. Oggi, per tutta una serie di motivi che non staremo a elencare ma che si riducono alla consueta difesa a oltranza dello statu quo, la parola d’ordine è gettare acqua sul fuoco. Il messaggio che si vuole lanciare è che il peggio è passato e che (pregasi applaudire o, almeno, tirare un vistoso sospiro di sollevo) il sistema non si è disintegrato. La riduzione obbligatoria dei consumi, determinata dal crollo della produzione e dai licenziamenti di massa, viene spacciata per una scelta etica di ritrovata sobrietà. Gli eccessi della speculazione vengono addossati a manager troppo famelici che, nell’ansia di spuntare bonus sempre più alti, gonfiavano a dismisura gli utili delle banche e delle finanziarie per le quali operavano. Se solo si volessero riscrivere davvero, le regole della finanza mondiale, basterebbero poche frasi: e la prima è che le Borse si aprono solo una volta al mese e che nessuno può vendere nel corso della stessa seduta ciò che ha appena comprato. Cancellato il tourbillon dei continui cambi di mano, e quindi delle scommesse rialziste e ribassiste, e quindi lo scandalo degli acquisti senza denaro, il problema della speculazione sarebbe in gran parte risolto. Ma siccome non se ne ha nessuna intenzione, vai con i vertici “globali” in cui molto si auspica e niente si migliora. Il G8 diventerà G20 e forse, in seguito, G32 o G48. Il consiglio d’amministrazione si allarga. L’oggetto sociale, ovverosia lo sfruttamento del pianeta e dei popoli, rimane lo stesso. Federico Zamboni
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ANALISI
Le Sirene
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si vestono di verde
Ecco pronta la nuova grande illusione per chi è abituato ad abboccare all’amo. L’economia “verde” altro non è che la vecchia economia con vicino un aggettivo. Con buona pace di speculatori e parco buoi. di Francesco Bertolini
lisse, per salvarsi dalle sirene ordinò ai suoi uomini di tapparsi le orecchie con la cera; lui stesso si fece legare a un albero della nave, vietando ai compagni di slegarlo, qualunque supplica avesse loro rivolto. Le Sirene sono una personificazione dei pericoli del mare. Secondo la leggenda, con il fascino della loro musica attiravano i marinai che passavano nelle vicinanze; le navi si avvicinavano allora pericolosamente alla costa rocciosa e si fracassavano, e le Sirene divoravano gli imprudenti. Non ci sono più le Sirene nell’immaginario collettivo; il loro canto armonioso è stato rimosso e sostituito dal progresso tecnico, unica conseguenza della centralità razionale del nostro tempo, con la conseguente aridità di pensiero che la accompagna. Dopo lo spavento di un armageddon finanziario, mai stato così vicino, la crisi rallenta e l’economia si sta riprendendo; brindiamo, è stato solo un brutto incubo. Si può ripartire; mentre il G8 indica al 2050 un obiettivo di riduzione delle emissioni di anidride carbonica pari all’80% rispetto al livello di emissioni del 1990, il governo italiano annuncia il rilancio del nucleare e il piano casa, mentre per interessi nazionali concede permessi di trivellazione negli ultimi lembi di territorio protetto e posiziona l’Italia in coda nel mondo per quanto concerne la tutela ambientale.
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Ma a qualcuno interessa realmente tutto ciò? I grandi organi di informazione sono controllati dai grandi gruppi economici, in un sistema fondato sul debito, un sistema quindi che non ha nessuna intenzione di modificare alla radice le cause del possibile disastro che ci ha sfiorato; per questa ragione l’informazione, nel suo insieme, ci propina la ripresa economica come un bene, come un rimettere le cose in ordine, magari in un armadio realizzato con legno riciclato, a testimonianza che l’ambiente è una reale preoccupazione e un impegno da prendere per le generazioni future. Sicuramente i grandi del mondo, definendo obiettivi al 2050, si preoccupano del futuro, forse un po’ troppo lontano, visto che ogni qualvolta si siano definiti obiettivi così ambiziosi da parte di organi transnazionali non si è fatto altro che una pessima figura, basti pensare alla banca mondiale che si è posta l’obiettivo di dimezzare la povertà nel mondo al 2015 o gli obiettivi del millennio delle Nazioni Unite.
Tutti obiettivi irraggiungibili, e sempre spostati nel tempo, per posticipare all’infinito il momento di fare i conti con la realtà. Che però ci raggiunge alle spalle. Inesorabilmente. Sono obiettivi irraggiungibili, in quanto non ci sono risorse sufficienti per garantire un aumento del livello di consumi per l’80% degli abitanti del pianeta, non ci sono nemmeno se l’economia si tingerà di verde. Ma proprio l’innovazione tecnologica in chiave ambientale è presentata come la chiave per coniugare il rilancio dell’economia e la tutela dell’ambiente: una sostanziale e colossale barzelletta. Stiamo condannando a morte il pianeta, ma l’esecuzione sarà con una iniezione letale, non con la crudele e inquietante sedia elettrica, poco etica e con scarsa efficienza energetica. A volte si pensa di caratterizzare il progresso tecnico, per renderlo più attraente; si è assistito così a fasi focalizzate dalla rivoluzione industriale piuttosto che dalla rivoluzione informatica. Oggi si preannuncia la rivoluzione verde. Strano che fino a poco tempo fa investire in tecnologie ambientali non fosse così conveniente; la bacchetta magica del cambio di amministrazione americana ha trasformato il mondo e il sistema industriale in chiave ambientalista. Come spesso succede, le bolle economiche nascono proprio in questo modo; si lancia sul mercato una grande illusione, su cui si riversano investimenti e aspettative che si autoalimentano a vicenda fino all’esplosione della bolla stessa; è capitato così dai
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tempi dei tulipani olandesi, fino a internet e al settore immobiliare negli Stati Uniti. Sarà forse perché si crede sempre meno alle illusioni che ogni giorno 5 milioni di italiani fanno uso di psicofarmaci; l’Italia risulta essere, secondo l’International narcotis control board delle Nazioni Unite, il sesto paese al mondo per quanto concerne il consumo per abitanti di sedativi e il trend continua a crescere, così come in tutto il mondo cosiddetto sviluppato; si cerca la scorciatoia della felicità, e ogni volta che l’uomo si muove alla ricerca della felicità finisce per perderne anche quel poco che ha, come colui che, intrappolato nelle sabbie mobili, si
Tutto a posto: ora c’è l’economia verde. E se non credete a questa ennesima bolla niente paura: basta prendere un sedativo e uno psicofarmaco, e la felicità sarà a un passo... dibatte disperatamente e questo suo agitarsi è la causa del suo lento e continuo sprofondare. È l’ultimo tentativo di uscire dalle sabbie mobili sembra essere l’economia verde, un aggettivo aggiunto che non modifica la questione di fondo. È anche vero che negli ultimi anni si assiste a una crescita di consumi e stili di vita che vedono in un ritorno alla natura l’unica possibile via di uscita, ma le forze in campo sono purtroppo impari, come ormai accade spesso nelle guerre moderne, dove chi non si adegua al modello globale combatte con i sassi contro aerei telecomandati a distanza. È proprio così; la cultura ambientalista nel nostro paese mi ricorda i bambini palestinesi che usano la fionda contro i carri armati israeliani, che, pressati dalla comunità internazionale politically correct sanno di non poterli eliminare, ma di dover trovare una soluzione condivisa, intorno a un tavolo. È lo stesso percorso della rivoluzione sostenibile; si subisce senza sussulti l’avvio dei lavori della Brescia-Bergamo-Milano, ennesima colata di cemento per una autostrada che non farà altro che accelerare il degrado di quel territorio. È paradossale integrare l’aggettivo ambiente in un sistema che con l’ambiente non ha niente a che fare; è utopia contrastare questo sviluppo, ma forse la complicità è molto peggio. Ulisse aveva fatto tappare le orecchie ai suoi uomini per non fargli ascoltare il canto delle sirene; oggi evitare l’informazione, pervasiva, invadente e virale, è purtroppo molto più complicato.
Francesco Bertolini francesco.bertolini@unibocconi.it
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ANALISI
Tutte
le bugie di Obama
Facciamo il punto su Obama. Cosa ha detto. Cosa non ha fatto. Cosa dice l’America. E cosa è che la gente poco informata ancora stenta a sapere di lui.
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di Alessio Mannino
li Stati Uniti stanno davvero cambiando, con Barack Hussein Obama? La risposta è semplice: no. Anzi, oggi è addirittura peggio. A differenza del predecessore George W. Bush, figura divenuta odiosa per la sequela di errori ed orrori commessi in un decennio di guerre neocon e selvaggia derelugation economica, Obama inganna il mondo più subdolamente. La sua vittoria è la favola dell’americano figlio di pastori africani che riesce a diventare il primo presidente nero della storia Usa. E che per il solo fatto di esserlo, lui così giovane, bello e simpatico, porta la luce della speranza in una nazione fiaccata dalla crisi economica più devastante dal ’29 e dal risentimento anti-americano diffuso in tutto il pianeta. Ma la favoletta sta già mostrando il suo vero volto: la menzogna. Così si intitola infatti un documentario realizzato da un giornalista indipendente statunitense, Alex Jones: “The Obama Deception” (L’inganno di Obama). Scordatevi Michael Moore e i suoi film, per altro interessanti, ma inchiodati all’obbligata chiave di lettura di sinistra. Jones è un cane sciolto che nello smascherare il potere politico di Washington, sia esso nelle mani dei Democratici o in quelle dei Repubblicani, scopre la gigantesca foglia di fico della democrazia d’oltreoceano: presidenti eletti a furor di popolo che al popolo nascondono chi comanda davvero. E che ora, per gestire il panico collettivo causato dal collasso finanziario, hanno puntato tutto sul “buono” Obama dopo che il “cattivo” Bush è scivolato nella polvere Stiamo parlando, com’è ovvio, delle banche padrone di Wall Street e, tramite la banca centrale (Federal Reserve), dell’intero Paese.
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Burattino «La Federal Reserve è un ente indipendente, e non c’è altro ente che può invalidare le decisioni che prendiamo», ebbe a dire in una trasmissione della Pbs l’ex capo della banca centrale americana Alan Greenspan. Jones racconta le origini dello strapotere, del tutto incontrollato, dell’istituto privato che decide la politica monetaria negli Usa: a partire dal 1913, quando col Federal Reserve Act venne creato e ad esso fu attribuito l’esclusivo onere di battere moneta, fino al 1936, allorché, spiega Wayne Paul, fratello del parlamentare Ron, «col Sistema di Sicurezza Sociale fummo dati in pegno, come garanzia sul debito dello Stato, alla Federal Reserve». Jones, armato di megafono sotto la sede della banca nazionale, urla: «La nostra economia,invece di essere basata su beni e prodotti reali, è tutta basata sulla privata Federal Reserve, che controlla l’emissione della moneta e del debito. Ci hanno imposto un’economia basata sul debito, poi una volta che hanno tagliato la liquidità ci tengono sotto il loro pollice, e fanno implodere l’economia in modo da poterla unificare.“Noi faremo ripartire l’economia”: ma si accaparrano il denaro e acquistano altre banche che non sono parte della Federal Reserve. Ci demoliscono e ricostruiscono, ricostruiscono e demoliscono». Che è esattamente quanto sta avvenendo: la Federal Reserve, cartello di banche private, sta facendo man bassa di istituti falliti o in sofferenza, estendendo il proprio dominio sul mercato del credito. «Quello che fanno», continua Jones, «è fare in modo che si pensi che Clinton o Bush sia il male, che sia lui a gestire la situazione. Ora saremo salvati da Barack Obama, ma lui è solo un burattino».
Uomo della Provvidenza Già, un pupo. E i pupari stanno dietro, al riparo dall’occhio dei media. Naturale che sia così: i media sono di loro proprietà. E usando la forza mediatica hanno costruito l’immagine del messia nero, il cui avvento è stata la risposta all’ansia popolare di rassicurazione sul futuro. Messa a tacere da un culto della personalità adattato ai nostri tempi televisivi, ma che non ha nulla da invidiare agli esempi dei dittatori del passato.Tale meccanismo di autoillusione lo descrive bene l’economista George Humphrey: «Voglio che quest’uomo mi piaccia. Parla in modo gentile, è intelligente, sembra un uomo di pace, è così tanto carismatico». Ed ha la pelle nera: il trionfo dell’american dream sul razzismo. «Ma quando si mettono da parte le parole fio-
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rite, la retorica e la musica festiva, quello che fa è ciò che importa».
Bugiardo E quello che Obama sta facendo è tutto il contrario di ciò che aveva promesso. «E’ un notorio bugiardo», attacca Webster Tarpley, storico e analista geopolitico, biografo di Obama e di Bush Senior. «Aveva promesso che sarebbe uscito dall’Irak, e invece ci siamo e ci resteremo». Prima bugia. Il democratico pacifista aveva detto che una volta eletto si sarebbero levate le tende dal pantano irakeno «immediatamente»; poi «entro 6 mesi»; poi ha ritrattato dicendo che avrebbe «considerato» di riportare a casa «alcune» delle truppe «in 16 mesi»; infine che avrebbe valutato il rientro nel giro di 23 mesi. La continuità nella guerra infinita contro il terrorismo islamico inaugurata da Bush è proclamata e rivendicata, facendo del teatro afghano la “sua” guerra, combattuta inviandovi altri 30 mila soldati d’occupazione. Seconda bugia. Aveva giurato di abolire il Patrioct Act, il pacchetto di leggi varato da Bush che limitano le libertà personali per il superiore interesse della sicurezza nazionale. Invece lo ha fatto rivotare. Lo stesso con le intercettazioni illegali, che ha legalizzato fornendo l’immunità alle compagnie telefoniche che materialmente le effettuano. Terza bugia. Ha sbandierato ai quattro venti la chiusura del campo di torture di Guantanamo, mentre l’ordine esecutivo da lui emanato dichiara letteralmente di «considerare la possibilità di chiudere Guantanamo in un anno», ma soprattutto decreta la continuazione della pratica barbara dei rapimenti segreti e delle detenzioni a tempo indefinito senza processo, spedendo i prigionieri nelle carceri di paesi stranieri compiacenti.
Schiavo delle lobby Quarta bugia. La pietra angolare della sua campagna elettorale è stata il no alle lobby che condizionano il governo. Giunto alla Casa Bianca, ha riempito di lobbisti l’amministrazione. A capo del servizio segreto, la Cia, ha messo Leon Panetta,“re dei lobbisti di Wall Street”. Come numero due della Difesa ha scelto William Lynn, il più importante lobbista della Raytheon, la più grande azienda produttrice di missili guidati al mondo. Inviato speciale per il Medio Oriente è George Mitchell, rappresentante degli interessi della famiglia reale saudita. Ma questi nomi sono ancora niente, se confrontati con quelli dei personaggi provenienti dai consolidati gruppi di pressione formati da multimiliardari, alti gradi dell’esercito, diplomatici e finanzieri. Tali gruppi sono il Bildenberg Group, il suo braccio esecutivo
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conosciuto come Commissione Trilaterale e, ramo americano di quest’ultima, il Consiglio di Relazioni Estere (CFR). Secondo Jones, e molti altri con lui, questi tavoli di esponenti dell’alta finanza e del complesso militar-industriale sono gli interlocutori privilegiati, se non i manovratori occulti, di tutti i governi americani almeno da Eisenhower in poi. Jones testimonia col video la sua “caccia” ad una delle loro riunioni, nell’albergo Westfields Marriot nei pressi di Washington. Riunioni frequentate sia da Obama sia dallo sfidante John McCain. Ma scorriamoli, i nomi di questi agenti del potere invisibile (ma neanche tanto). Timothy Geithner era presidente della Federal Reserve di New York nel periodo che ha condotto alla crisi dei derivati, e fa parte del Bildenberg e della Trilaterale: è stato promosso ministro del Tesoro.Hillary Clinton (Bildenberg,CFR) è Segretario di Stato, ed è sposata con l’ex presidente Bill membro della Trilaterale. Paul Volcker, presidente del comitato per il recupero economico, fa parte di tutte e tre le organizzazioni. Idem l’ammiraglio Denis C. Blair, nominato direttore della Sicurezza Nazionale. Obama ha riesumato persino Henry Kissinger, il ministro degli esteri di Nixon, anche lui presente nelle tre cupole. Così come s’è tenuto stretto Alan Greenspan, un altro componente dell’inquietante tris. E la lista continua.
Golpista finanziario Quinta bugia. Il mite candidato col cuore infranto per l’indigenza in cui sono piombati milioni di americani travolti dalla crisi finanziaria era l’alfiere dalla rinascita sotto il segno della giustizia sociale. Il cui primo banco di prova doveva essere un piano per dare una regolata alla banche, voraci e sciolte da ogni vincolo e scrupolo. Il risultato è stato un piano salva-banche. «Il Congresso è stato minacciato con la Legge Marziale se non fosse stato approvato il Banker Bailant Bill (il piano, ndr)», hanno pubblicamente rivelato il senatore Inhofe dell’Oklahoma e il deputato Sherman della California. Il voto finale del 3 ottobre 2008 è stato «un colpo di stato finanziario di Wall Street», semplifica con efficacia Tarpley. «Non solo sono stati dati 700 miliardi di dollari alle banche, ma è stato concesso loro un assegno in bianco». Senza contare il fatto, politicamente assai significativo, che agli inizi del suo mandato Obama lavorò di comune accordo con Bush per far approvare il piano senza nemmeno sapere cosa contenesse, e nonostante il 98% degli americani si dicesse contrario. Quei 700 miliardi sono un prestito della Federal Reserve (con gli interessi) all’amministrazione, che per far passare il “pacchetto di stimolo” alimentò un’atmosfera di paura: «O lo approvate o sarà la catastrofe», era il mantra di Obama.
Globalista Il filmato di Jones si conclude con quella che secondo lui sarebbe la “vera” agenda obamiana. Un elenco di obbiettivi dettatogli
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dai gruppi di potere “globalisti”, il cui unico credo e scopo è il denaro. Sono un insieme di proposte ancora in itinere o fatti già stabiliti che gettano un’ombra fosca sul “democratico” Obama. 1) Istituzione di una Banca del Mondo a cui girare le tasse di interi paesi (compresi gli Usa, naturalmente) col pretesto del riscaldamento globale da carbonio. Inclusa l’installazione di scatole di tracciamento satellitare su ogni auto. 2) Esercito regolare nelle strade. Costruzione di campi di detenzione privati. Creazione di una Forza di Difesa Civile per giovani dai 18 ai 25 anni con un addestramento di tre mesi posto sotto il diretto controllo del governo (direttiva DOD 1404.10). 3) Disarmo del popolo americano. La legge HR1022 permetterà al nuovo Procuratore Generale, Heric Holden, di vietare a sua discrezione l’uso di armi da fuoco, diritto sancito dal 2° Emendamento della Costituzione. Aumento del numero di persone inserite nella Lista di divieto di volo: 25 mila americani aggiunti ogni mese da quando Obama è alla Casa Bianca. Finora sono un milione, e fra di essi molti sono incensurati. 4) Restrizioni alla libertà d’espressione (1° Emendamento) anche su internet secondo la “dottrina della lealtà”. 5) Federalizzazione della sanità, in modo che il governo possa decidere di quali cure possano usufruire i cittadini. Qui apriamo una parentesi. La riforma sanitaria, che non è destinata ai più poveri (protetti dal sistema pubblico Medicaid) né agli anziani (Medicare), è il cavallo di battaglia dei sostenitori di Obama per dimostrare il netto stacco con l’arcigno liberismo di Bush. Si tratta invece di una colossale voce di spesa in più (900 miliardi in 10 anni) per il bilancio già oberato da un debito che, come abbiamo visto, è fonte di lucro per i banchieri della Federal Reserve (e aggiungiamo noi, per i cinesi e arabi depositari della maggior parte dei titoli di stato con cui il debito viene finanziato). Noi crediamo sia un sostanzioso contentino per far accettare al popolo bue il fatto che la finanza, vera padrona di tutto, seguirà a condurre le sue macabre danze. Una specie di tacito do ut des fra gli schiavi e i loro schiavizzatori. Nota a margine: a capo del Dipartimento della Salute c’è Tom Daschle, vicino alle case farmaceutiche. Le assicurazioni private dalla riforma ci perderebbero, ma l’industria dei farmaci farebbe affaroni. 5) Espansione della spesa militare. Più truppe nello scacchiere asiatico per circondare Russia, Cina e Iran, ospitate da paesi satelliti come l’Ucraina e le ex repubbliche sovietiche del Caucaso e dell’Asia Centrale. Rafforzare la debole egemonia sull’Africa attraverso il comando Africom (di stanza alla base Dal Molin di Vicenza) scontrandosi con la Cina, che nel continente nero sta procedendo ad una veloce e capillare intromissione. E via così, proseguendo nella “missione” che gli Stati Uniti d’America si sono dati da Woodrow Wilson in poi: l’imperialismo democratico. Una finzione che sta per globalismo della finanza americana.
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Cavaliere del Nuovo Ordine Gerald Celente, analista del Trends Research Institute, per riassumere il senso di questa horror list cita Abraham Lincoln: «Il potere del denaro depreda le nazioni in tempo di pace e cospira contro di esse in tempi di avversità. È più dispotico della monarchia, più insolente dell’autocrazia, più egoista della burocrazia. Le grandi aziende sono salite al trono e… il potere monetario s’impegnerà a prolungarne il regno lavorando sui pregiudizi del popolo, finché il benessere sarà aggregato nelle mani di pochi e la Repubblica distrutta». Parole che oggi suonano profetiche. «Destra e sinistra non significano nulla, l’unica cosa che conta è: stai lavorando per Wall Street o per difendere la gente contro i finanzieri?», aggiunge Tarpley. Il concetto chiave è lo slogan pronunciato per la prima volta all’assemblea delle Nazioni Unite nel 1991 da George Bush Senior: New World Order, Nuovo Ordine Mondiale. Secondo Tarpley, una formula digeribile per dire «Impero AngloAmericano, perché gli Usa hanno ricevuto l’eredità di dominio globale dell’Impero britannico». Gli Stati Uniti erano e sono ancor oggi sotto Obama uno Stato imperiale che segue una logica imperiale. L’astuzia di Wall Street è stata quella di mettere, per dirla col rapper di colore KRS-One, «un viso nero sul Nuovo Ordine Mondiale, ed ora siamo tutti contenti». Ora l’élite, come la chiama Jones, può persino avere la faccia tosta di scoprirsi. Basta ascoltare il vecchio Kissinger, colui che diede ad Obama il suo primo lavoro dopo la laurea, che intervistato in televisione lo ha detto papale papale: «Lui può dare nuovo impeto alla politica estera americana, in parte perché la percezione della sua persona è così straordinaria. In questo periodo storico può essere davvero creato un Nuovo Ordine Mondiale». Un assetto in cui l’autodeterminazione dei popoli e degli stati nazionali dovrà lasciare il passo, in prospettiva, ad un’unica superbanca mondiale, e di fatto ad un solo governo globale. Professor Griff, fondatore del gruppo rap Public Enemy, anche lui di colore, punta il dito sull’Africa, paese d’origine di Obama: «Lui è solo un lifting facciale nero fatto al potere. La verità è che vogliono controllare completamente le risorse naturali dell’Africa. È tutta una triste montatura, [peggiorata dal] senso di gratificazione perché è nero». Alex Jones, tuttavia, non è un pessimista rassegnato a rintanarsi in montagna. Incita a combattere. Ma per farlo, sostiene, bisogna prendere consapevolezza delle mistificazioni messe in atto dagli oligarchi. Obama è una di queste. «Se state cercando la soluzione, guardatevi allo specchio. (…) Dobbiamo muoverci per dire NO. Ti solleverai insieme agli amanti della libertà, ovunque, per fermare il completamento della dittatura mondiale?». È la domanda cruciale che vi facciamo. E che dobbiamo farci tutti. Alessio Mannino
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L’inganno di sant’Obama La farsa delle elezioni pilotate in Afghanistan aprirebbe gli occhi sul vero Barack Obama anche a un cieco. Gli obamiani italiani, invece, pare siano immuni ad ogni evidenza. Obama sta chiudendo Guantanamo, pare. Ha iniziato la procedura di ritorno dall’Irak, d’accordo. Ma questi sono tutti rassicuranti aggiustamenti di una politica estera che era, e resta, imperiale. Il presidente nero non smobiliterà dalle valli afghane, anzi stringerà la morsa dell’occupazione. Né tanto meno si sogna di tagliare le spese militari, ossessione delle bandierine arcobaleno. Soprattutto, non rivedrà di una virgola il principio cardine del ruolo di unica potenza egemone che gli Stati Uniti avocano a sé per il mondo. Non smantelle-
rà le migliaia di basi sparpagliate nei cinque continenti, né allenterà il guinzaglio Nato con cui Washington tiene imbrigliata l’Europa. La sua è una declinazione meno guerrafondaia e più diplomatica, ossia più digeribile, della funzione che ogni amministrazione a stelle e strisce considera l’unica possibile: il dominio del globo. I pacifisti si mettano il cuore in pace: il loro santino è solo la versione charmant dell’incoercibile imperialismo americano. E le ragioni sono strutturali. Barack Obama fa riferimento – e come potrebbe non esserlo, se è arrivato lì – alla più potente lobby che esista: la finanza di Wall Street. Per farvi un’idea, basta che andiate sul canale internet Youtube e vi guardiate l’istruttivo documentario “L’inganno di Obama”. Apriamo gli occhi, invece di foderarli con l’immagine propagandistica di sant’Obama il Nero.
Moleskine ottobre 2009
Crisi e spunti - Prima volta nella storia: la Svezia applica il tasso negativo sui depositi bancari. Ovvero -0.25%. La banca svedese è la prima al mondo a entrare in questo territorio inesplorato. Non solo tassi vicini allo zero, ma addirittura negativi. Disoccupazione: negli Stati Uniti il reale tasso di crescita della disoccupazione si attesta tra 600.000 e 1.000.000 di nuovi disoccupati ogni mese. Debito: sempre in Usa, sta per essere raggiunto il tetto dei 12.000 miliardi di dollari. Conseguenza: il resto del mondo si sta rapidamente allontanando dalla sfera di influenza del dollaro. “Ripresa delle banche”: il fatto di parlare in punti percentuali è parte di un'operazione mirata. Molte banche, il cui prezzo delle azioni è stato pressoché nullo, hanno potuto fingere «rimbalzi» del +200, +300 o +500%. Ecco la trappola: riconquistare il 500% quando l'azione è scesa fino a 1 alza il valore fino a 5, valore che però, realmente, lascia un perdita di 40 se si ha acquistato 2 anni prima.
Chi vuol essere Berlusconi? Un illuminante e “utile” sondaggio di Sky Tg 24 dell'8 settembre 2009, chiede ai telespettatori se vogliono assomigliare a Berlusconi. Il 48 % dei votanti risponde affermativamente. Dunque secondo il sondaggio e facendo una proiezione nazionale, circa la metà della nostra popolazione vorrebbe una vita simile a quella del Presidente del Consiglio. O meglio, la metà delle persone che usano partecipare a sondaggi del genere. Eppure la cosa è indicativa. Almeno per tutti quanti si chiedono - o non si capacitano - il motivo per il quale nel nostro paese sia arrivato al governo un personaggio del genere. Denaro, successo mediatico, prostitute, festini e stuoli di servi in tutti i campi dello scibile umano, sono dunque le cose che circa la metà di chi ha partecipato al sondaggio vorrebbe avere identificandosi con la figura di Berlusconi. La cosa è anche un monito, evidentemente, per quanti combattono battaglie culturali, ancora prima che politiche, nel non riporre speranze, almeno nel breve periodo, in un cambiamento di mentalità per buona parte delle coscienze (almeno) dei nostri connazionali. Così come è uno stimolo ulteriore - un imperativo morale - cercare invece di incidere proprio su tali menti e non arretrare nelle proprie battaglie quotidiane in tal senso.
MOLESKINE
Mike: imbonitore in servizio permanente effettivo
Buonanotte Bongiorno & Co.
Ah, com’era simpatico Mike Bongiorno! Che grande uomo di comunicazione! Che maestro dell’intrattenimento televisivo! Siccome ce lo siamo sentiti dire in tutte le salse, nelle inevitabili commemorazioni post mortem, replichiamo senza esitazione ristabilendo la verità dei fatti. Mike Bongiorno, il cosiddetto “re dei quiz”, era nulla di più che l’ennesimo imbonitore in servizio permanente effettivo. Un ciarlatano di lunghissimo corso. Uno dei più incrollabili artefici di una televisione insopportabile, stupida nella forma e cinica nella sostanza, che non ha niente da dare se non un po’ di distrazione spicciola. L’inesausto, e strapagato, dispensatore di quella rassicurante mediocrità di cui tanta gente (ahinoi) ha bisogno, per allontanarsi dai problemi reali – e dalla consapevolezza di valere poco e di non fare nulla per migliorarsi. D’altra parte, se qualcuno l’avesse dimenticato, Bongiorno era nato a New York ed era impregnato della peggiore “cultura” americana. Stabilitosi in Italia nel 1953 aveva trovato nella neonata Rai-Tv lo spazio ideale per la sua giuliva nullità. Dopo di che, tra un Lascia o Raddoppia e un Rischiatutto, una Ruota della Fortuna e una campagna pubblicitaria, non c’è stato più verso di liberarsene. Alla notizia della sua morte, riferisce l’Ansa, un Silvio Berlusconi “visibilmente provato (...) ha sottolineato la sua amicizia con il presentatore televisivo”. Poi, sorvolando sul fatto che, non più tardi di un anno fa, non aveva mosso un dito per evitare che il suddetto venisse buttato fuori da Mediaset (e Mike se ne era pubblicamente rammaricato a “Che tempo che fa”, lamentando di non aver neppure ricevuto uno straccio di risposta alle sue telefonate), non ha mancato di fare quello che fa di solito: prendere a pretesto chiunque e qualsiasi cosa per parlare bene di se stesso. "Mi spiace molto, anche perché aveva un grande sogno, che era quello di diventare senatore della Repubblica. Io mi ero attivato a questo proposito". SuperSilvio e SuperMike. Momentaneamente allontanati dal destino, speriamo che si ritrovino presto.
È in ogni caso un fatto generazionale. Meglio, antropologico-generazionale. Muore uno dei primi grandi vecchi della televisione commerciale, e della sub-cultura a essa collegata, che ha di fatto contribuito in maniera fondamentale a uno dei cambiamenti più importanti - e deleteri - del nostro Paese. Primi pezzi di quella generazione cominciano a scomparire. Autori, complici, guru del mercato e della tv spazzatura di quella che è stata una delle più grandi - e oscene variazioni antropologiche del nostro Paese, arrivano a fine corsa. Intere generazioni cresciute a televendite e pubblicità, per una an-alfabetizzazione da piccolo schermo veicolata da accidia e superficialità, con vacuo intento (dis)educativo, sono quelle che non a caso hanno contribuito all'ascesa di uno dei Presidenti del Consiglio più ignobili che la storia della nostra Repubblica abbia mai avuto. Con nani e ballerine di corte, cresciuti in batteria - nella stessa batteria - a fare da corollario per l'attuale scempio della Costituzione, della Giustizia, della morale pubblica e civile e della cultura in senso lato. Trash e spettacolo immondo per un Paese che si è lasciato abbrutire sprofondato sul divano, non più in grado di comprendere, di discernere, di scegliere. Ebbene quella generazione di attori dell'università del nulla inizia a giungere al termine. Per fortuna. Per fortuna per cause naturali. Il punto è che le generazioni successive non paiono essere meglio. Perché cresciute alla luce della tv di quel tipo, e assuefatte a tutto, non possono che subire impassibili, senza neanche un singulto di sdegno, tutto quello che la schiera dei Mike Bongiorno di allora propone e propina abitualmente nelle cose di
ogni giorno. Siano esse pubbliche ma tenute nascoste o private e dibattute sulle prime pagine dei quotidiani nazionali. Del resto, se si decide di dare funerali di Stato a chi ha fatto del telequiz e delle televisioni commerciali la propria ragione di vita e di denaro, l'implicazione più diretta che si possa avere è in merito a quale cosmo di (dis)valori e di impolitico sia alla base dello Stato nel quale viviamo. E che persone come Mike Bongiorno - e chi lo loda post mortem - lasciano in eredità a chi rimane.
Marchionne dà i numeri: e lo Stato si inginocchia È ridicolo dal punto di vista logico e ancora di più da quello prettamente esistenziale, il richiamo di Sergio Marchionne, l'Amministratore Delegato della Fiat (lo scorso 16 settembre) a far stanziare dei contributi statali, sotto forma di incentivi, per l'acquisto dell'automobile - "richiamo" si fa per dire: da che esiste la Fiat, lo Stato non ha fatto altro che avallare le sue richieste, in ginocchio. Dal punto di vista prettamente economico la cosa è ancora una volta sconcertante, e questo sempre seguendo i dettami del libero mercato che libero non è, visto che quando si trova in difficoltà piange - anzi intima- alla casse pubbliche un intervento. Come al solito, i dogmi mercatisti si stravolgono alla bisogna. Il settore delle automobili è in crisi e dunque "per non perdere posti di lavoro" (e utili agli azionisti, sia chiaro) si chiede a gran voce l'intervento statale, ovvero denaro dei cittadini. Mentre i dividendi privati sono al sicuro, naturalmente. Ma il punto è ancora un altro, e ed è più
profondo, sistemico, rispetto alla congiuntura (vera o speculativa che sia) di richiedere denaro pubblico per non far perdere posti di lavoro. Il punto è che il mercato delle automobili è al capolinea. Le automobili non si vendono più come prima perché la gente non ha denaro per acquistarle. Perché forse ha capito che è diabolicamente sciocco e delirante cambiare automobile per capriccio. Oppure lavorare di più per avere denaro per pagare le rate di una scatola su quattro ruote. Perché qualcuno - pochi, naturalmente - ha capito che una ribellione vera la si attua proprio operando in controtendenza: e dell'automobile fa a meno. Cerca di fare a meno. O almeno non la cambia fino a che non sia del tutto inutilizzabile. Perché a molti, tranne che in casi particolari, l'automobile non serve: può non servire. All'interno delle città fa prima a spostarsi con i mezzi pubblici. In bicicletta. In qualche caso anche a piedi. La maggior parte delle persone fa un tragitto casa lavoro di tre kilometri o inferiore a tre kilometri (non parliamo dei pendolari,
naturalmente, che sono dannati a vivere non meno di 2-3 ore al giorno della propria vita in automobile, immobilizzati nel traffico a litigare con altri automobilisti per andare al lavoro, a beneficio del "migliore dei mondi possibili"). Parliamo di una casistica notevole di lavoratori che in città prendono l'automobile per fare dei tragitti brevi e addirittura brevissimi. Tre kilometri a piedi a una persona del nostro tempo sembrano una distanza incolmabile. Una volta era la norma. Ora, il nostro "mondo del benessere" ha fatto passare nella percezione generale che percorrerli in automobile, quei tre kilometri, sia più agevole e comodo che farlo a piedi. Per fare tre kilometri al ritmo blando, molto blando, di una semplice passeggiata, ci si può impiegare mezz'ora. In una città, quanto si impiega a prendere l'auto, infilarsi nel traffico, un semaforo dietro l'altro e una coda dietro l'altra, arrivare a destinazione e girare intorno all'edificio per cercare parcheggio?
I subdoli attacchi a REPORT Vorrebbero chiudere Repor t ma non possono far lo. Almeno per ora. Cancellarlo dai palinsesti sarebbe una mossa troppo scoperta. Persino in un Paese semi narcotizzato come il nostro, che sembra aver perso qualsiasi capacità di reazione collettiva di fronte all’arroganza dell’establishment politico ed economico, verrebbe recepita per quello che è: un abuso di potere ai danni di professionisti ineccepibili. Una censura preventiva, e onnicomprensiva, che invece di limitarsi al singolo caso pretende di eliminare il problema alla radice, togliendo il diritto di parola a chi lo utilizza nel tentativo di far emergere la
verità. L’alternativa a questa infame “soluzione finale” è tanto ovvia quanto subdola. Consiste nel moltiplicare le azioni di disturbo. Nel mettere i bastoni tra le ruote e nell’ostacolare in tutti i modi la marcia. Sabotaggi grandi e piccoli travestiti da atti di routine. C’è solo l’imbarazzo della scelta, specialmente in una realtà come quella della Rai che è una via di mezzo tra un ministero e una holding. E che perciò ha tutti i vizi sia di un ente pubblico, dalla mentalità burocratica ai condizionamenti della politica, sia di un grande oligopolio privato, dalla elefantiasi organizzativa alla sicumera di un management abituato a spadroneggiare dall’alto della sua posizione dominante. L’attacco, per quanto riguarda Report, è or mai pianificato e potrebbe concretizzarsi da un momento all’altro. I ver tici di Viale Mazzini avrebbero intenzione di togliere alla trasmissione l’assistenza legale dell’azienda, assistenza che peraltro era già mancata in passato e che era stata conquistata solo col tempo e a prezzo di lunghe e
Spingendo la notte più in là
MOLESKINE
accese discussioni. L’attuale direttore di Rai 3, Paolo Ruffini, denuncia il pericolo dalle colonne di Repubblica: «È un programma che si basa su una squadra di freelance. A questi giornalisti la Rai ha garantito copertura legale negli anni passati. Ora l'azienda vuole rivedere la clausola, nonostante il parere contrario della rete. Report è un patrimonio e quindi è utile alla Rai». Nulla di casuale: proprio per la sua vocazione al vero giornalismo d’inchiesta, che non esita a lanciare accuse e a fare nomi e cognomi, Report ha accumulato in passato – e certamente accumulerà in futuro – una quantità di querele e di richieste di risarcimento. Per quanto non abbia mai perso una causa, a dimostrazione del fatto che le sue requisitorie non scaturiscono dal pregiudizio ma da elementi obiettivi, si tratta comunque di un onere col quale bisogna fare i conti. E che si traduce, nella migliore delle ipotesi, in un’immane perdita di tempo. Come ricordava nel febbraio dell’anno scorso Milena Gabanelli, conduttrice e responsabile del programma, «Nel 2007 le cause arrivano ad un numero talmente elevato che passo più tempo a difendere me e i miei colleghi che non a lavorare». Se sarà confermata, dunque, la mossa della Rai non avrà nessuna giustificazione né giuridica né tantomeno morale. La mancata tutela di Report è un favore che si fa a tutti quelli che hanno motivo di temere le sue inchieste. È un ulteriore tassello della strategia di chi mira a mettere il bavaglio a quel poco di informazione libera, e qualificata, che ancora esiste in Italia.
Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi Calabresi ucciso dalla Brigate Rosse nel maggio del 1972 (e ora direttore responsabile del quotidiano La Stampa), ha scritto un libro con tanti motivi di interesse. Ad iniziare dal motivo stesso della sua pubblicazione, ovvero cercare, sebbene in parte, di riequilibrare il panorama di una pubblicistica troppo spesso inclinata sul piano dell'amarcord di tanti che all'epoca decisero di imbracciare le armi e uccidere persone e ora - tra chi è ancora latitante, chi è assurto al ruolo di ideologo sui quotidiani nazionali, chi scrive romanzi e partecipa a dibattiti televisivi fino a chi addirittura siede nel nostro Parlamento vengono ancora oggi presentati al pubblico con parole quanto meno fuorvianti. Furono tanti i morti per mano dei terroristi, e l'oblio dovuto alla loro morte - e a uno Stato che perde troppo spesso la memoria - ha contribuito ad aver scavato un solco ancora più grande tra chi perse la vita per mano dei terroristi e chi, avendo scontato la pena detentiva, non sente il dovere morale quanto meno di evitare di partecipare in modo attivo alla società mediatica. Soprattutto proprio riguardo i temi legati agli Anni di piombo. Naturalmente non parlando di chi, tra di essi, vive addirittura latitante e continua imperterrito a non voler pagare per i crimini commessi quando non addirittura continua a costruire la propria medialità attraverso l'alone di romanticismo che accompagna proprio chi fu attore di tali atrocità negli anni Settanta. Questi sono
Ciclisti ubriachi
MOLES
carogne latitanti. Compito difficile, per un libro che è certamente ricordo familiare di moglie e bambini con una vita mutilata per sempre, ma anche attestato di considerazione per le tante altre vittime del terrorismo dell'epoca. Soprattutto quando, ed è il nostro caso, Calabresi figlio si trova costantemente - nel corso della propria vita e sino a oggi, ancora, su certi quotidiani - a doversi scontrare con l'ottusità (e la connivenza intellettuale?) di giornalisti che continuano imper territi ad essere velatamente (e non) acquiescenti con chi allora stroncò la vita di persone e famiglie. Qualche esempio, dalla penna dello stesso Mario Calabresi: "In un Paese che non riesce a trovare modelli, esempi, che occasione sprecata non ricordare, avere rimosso. Il rigore e lo scrupolo di Vittorio Occorsio, l'onestà intellettuale e il coraggio di Guido Rossa sono lì. Un patrimonio per tutti. Ci vorrebbe una sensibilità diffusa, manca un sentire collettivo, e tutto questo non può essere una questione privata. E ancora si fa fatica a pronunciare parole chiare di condanna della violenza politica. I terroristi non sono stati sconfessati come assassini ma troppo spesso descritti come perdenti, persone che hanno fatto una battaglia ideale ma non sono riusciti a vincere. In questo modo però sono loro a diventare dei modelli. E le inchieste sugli ultimi epigoni del brigatismo, annata 2007, dimostrano una cosa con chiarezza: che ci sono ancora messaggi capaci di passare alle nuove generazioni". Compito non certo facile, per Calabresi, riuscire a comporre un libro dai tratti delicati e mai moralisti pur incontrando spesso il tranello per potervi comprensibilmente - cadere. E allo stesso tempo scrivere di fatto un atto d'accusa contro gli stessi media che al gioco della "gioventù deviata", dei "ragazzi che hanno sbagliato", continuano in tanti casi a cadere. "In questo i mezzi di comunicazione hanno responsabilità particolari" - scrive ancora il direttore de La Stampa - "i giornali e le televisioni non si fanno troppi scrupoli ad accendere un faro sui terroristi, a dar loro la scena, anche quando ciò ha caratteri chiaramente inopportuni. Ma la cosa più fastidiosa e pericolosa sono le interviste standard: dei terroristi che parlano non vengono quasi mai ricordati i delitti e le responsabilità, e questo non è accettabile soprattutto se sono interpellati per discutere proprio sugli Anni di piombo. Sergio Segio, per fare un esempio, viene presentato come 'esponente del Gruppo Abele', quasi mai come il killer di Galli e Alessandrini; Anna Laura Braghetti, la brigatista che uccise con sette colpi Vittorio Bachelet alla Sapienza di Roma e partecipò al sequestro di Aldo Moro, si dice che 'coordina un servizio sociale rivolto ai detenuti'". Testimonianza della memoria, dunque, sia di Luigi Calabresi assassinato a Milano
Il Decreto Sicurezza, convertito in Legge 15 luglio 2009, n. 94, varato per contrastare l’immigrazione clandestina, tutelare le ronde, vietare la vendita di bombolette spray ai minorenni, oltre a questi indubbi meriti (si fa per dire) vanta anche quello di aver affrontato l’”annoso allarme sociale” causato dai ciclisti che infestano le nostre strade (sic). Non vedremo quindi più folli gare illegali come quelle fra Peppone e Don Camillo. Le sanzioni restano immutate, ma c’è un arma in più la perdita di punti patente (art.3 comma 48). Già, se il ciclista indisciplinato ha la sventura di essere patentato vedrà decurtati i suoi punti, rendendo quindi inutili alcuni sotterfugi irresponsabili, quali ad esempio inforcare la bicicletta quando si desideri bere in eccesso (tipo un paio di bicchieri di vino): la patente non è più al riparo, tanto vale prendere l’auto. Anche perché in caso di ritiro patente, si potrà sempre ricorrere alla bicicletta, per l’uso della quale non è (ancora) prevista alcuna particolare licenza. Problema cui si dovrà ovviare in tempi brevi giacché è impossibile togliere punti alla patente di chi ne è sprovvisto, con serie implicazioni di incostituzionalità, fatto comunque secondario nel paese del Lodo Alfano. A quando i provvedimenti per impedire alla gente che ha bevuto di andare a piedi e di correre sui marciapiedi?
ESKINE sia per tanti altri - e per le loro famiglie cadute vittima del terrorismo negli anni successivi. Ma anche - e qui si annida il secondo motivo di interesse del libro equilibrata, giustificata e corretta (anche quando dura) denuncia di quelli che sono ancora oggi i messaggi che certi lasciano passare in memoria di quegli anni. "La seconda cosa preoccupante è che si lascia passare un'idea romantica del terrorismo, specie nel paragone con il brigatismo degli ultimi anni, sostenendo che la lotta armata degli anni Settanta aveva dietro di sé delle idee, un progetto rivoluzionario".
Non è un saggio. Non ha la pretesa di essere esaustivo in materia, anche se mette a punto anche per chi ancora non conosce bene i fatti, come ad esempio cosa accadde la notte della morte di Pinelli - e il fatto che il Commissario Calabresi non si trovava in quella stanza al momento della caduta dalla finestra dell'esponente anarchico - o ancora quanto scritto dagli esponenti di Lotta Continua sul giornale dell'epoca e le motivazioni della morte del Commissario (alla quale seguirono, dopo molti anni, le condanne a Pietrostefani, Bompressi e Sofri). Ma non è neanche un libro di soli ricordi personali. Nella "notte" della pubblicistica attuale in materia, è però un contributo essenziale per cercare di ristabilire un equilibrio alla comprensione di quella che è stata una delle pagine più nere della nostra Repubblica.
Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo. Mario Calabresi, Mondadori 2008, 125 p., euro 14,50.
La Morsa - le vere ragioni della crisi mondiale La tesi sostenuta in questo libro scritto da Loretta Napoleoni - economista, consulente per la Bbc e la Cnn, ma anche editorialista di Le Monde, El Pais, The Guardian e, in Italia, de l'Unità, Repubblica e di Internazionale - prende le mosse dalla relazione tra terrorismo ed economia. Ovvero dai temi più dibattuti degli ultimi anni. Meglio, prende le mosse dalla relazione esistente tra i due fenomeni, in particolare modo l'attentato dell'11 settembre e le guerre all'Afghanistan e all'Iraq - e dalle cause a monte - per sostenere che esiste un filo rosso di comunicazione tra i due con la grandissima crisi economica dei nostri ultimi tempi. Leggendo i due eventi contemporaneamente, la Napoleoni sostiene la loro diretta interdipendenza (con il beneficio di una ferrea e documentata esposizione). Ma è soprattutto un altro il motivo di interesse del libro. Ovvero la focalizzazione di buona parte dello stesso sulla economia islamica. Terreno, quest'ultimo, che almeno nel nostro paese si è quasi del tutto dimenticato di affrontare nell'analisi dell'attacco alle torri gemelle prima, delle guerre poi e infine della crisi economica dell'Occidente. I cambiamenti in atto sembrano coronare il sogno di Bin Laden, che è quello di distruggere l'economia occidentale. Questa la tesi dell'autrice, che sposta l'asse del dibattito, con acutezza, dalla propaganda infima che i mezzi di comunicazione dell'Occidente hanno perpetrato nei confronti dell'esasperazione del conflitto di civiltà (Samuel P. Huntington docet). L'obiettivo di Bin Laden sarebbe quello di costringere Washington ad abbandonare le politiche di sostegno dei regimi oligarchici musulmani, Arabia Saudita prima fra tutti. Obiettivo raggiunto, secondo la Napoleoni, poiché proprio la follia della guerra al
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terrorismo ha messo in ginocchio l'economia americana e mondiale. La rilevanza di questo saggio risiede dunque innanzitutto nella prospettiva decisamente diversa da altre in materia, in particolar modo nel mettere in relazione e saper fare sintesi (documentando molto puntigliosamente punto per punto) fenomeni che per un verso appaiono molto differenti tra loro, e per un altro verso sono stati letti (fino a ora) nella percezione comune attraverso il prisma falsato della rappresentazione mediatica occidentale. "Più che uno scontro di civiltà" scrive la Napoleoni "la jihad moderna simboleggia uno scontro tra due sistemi economici: uno egemonico, l'Occidente guidato dagli Usa, e l'altro insurrezionale, il mondo musulmano". Nel libro c'è insomma materia per riflettere al di fuori degli schemi ai quali ci hanno abituato. Non solo. Oltre alla spiegazione della notevole rilevanza del potere economico e finanziario musulmano - il che porterebbe su un piano (ancora una volta!) prettamente economico tutti gli scontri in atto - e dunque oltre allo squarcio di conoscenza proferito su un terreno difficilmente conosciuto dai più (il quale apre a sua volta un filone del tutto nuovo di interpretazioni sullo stato delle cose mondiali) si arriva ai giorni nostri. Ovvero a quelli in cui la crisi economica che, secondo l'autrice, ne discende sia direttamente sia indirettamente, cade sulle spalle della popolazione americana prima, e dunque europea e infine, in un certo senso, anche a quella orientale. Tra le altre cose nel saggio vi sono due parti esilaranti, se non fossero anche drammatiche, in merito agli effetti devastanti (e inconcludenti) del Patriot Act e dello stato di quello che sino a qualche tempo fa poteva essere considerato come il ritorno del Grande Gatsby, all'interno della City di Londra, e che oggi appare piuttosto come la fine dei "favolosi anni ruggenti" (scandalo Madoff e l'interminabile catena dei derivati). Ma c'è un ulteriore punto degno di nota. Proprio arrivando a parlare dei giorni nostri, l'autrice, a differenza che nella maggior parte dei saggi in materia (di cui si iniziano a riempire le librerie) si sottopone senza reticenze, e con coraggio, all'abbozzo di un nuovo modello economico e di un sistema attraverso il quale uscire dall'impasse attuale. "Il salvataggio delle banche ci rende azionisti", scrive, "è nostro diritto vigilare sulla gestione delle società salvate. Facciamo pressione sulla classe politica affinché persegua i nostri interessi, non quelli di un gruppo ristretto di persone". Al di là del fuori fuoco, a nostro avviso, dell'ultima parte - in cui si sostiene implicitamente che il sistema sia giusto e che serva però riformarlo con alcune grandi modifiche, mentre noi (e chi ci legge lo sa) siamo convinti che sia proprio il sistema in sé a dover essere rovesciato - il libro ha comunque il pregio, non secondario, di far pensare attraverso una griglia interpretativa differente i fatti mondiali che in questo momento ci vedono attori attivi della storia.
La morsa. Le vere ragioni della crisi mondiale. - Loretta Napoleoni, Chiarelettere 2009, 186 p., 13,60 Euro.
INTERVISTA
Tony Capuozzo
Suole consumate e taccuino in tasca. Muovendosi lentamente e in silenzio tra le macerie. Moderno inviato per antonomasia, va in giro a scovare le storie che parlino da sole. Lontano dal mercato delle news.
E
di Valerio Lo Monaco
ppure esiste ancora un modo di fare giornalismo diverso. Giornalismo di racconto, sul campo. Senza agenzie di stampa, comunicati ufficiali e verità preconfezionate. Per scovarlo si deve andare a scegliere nome per nome.Non affidandosi a testate o a reti televisive, ma al giornalista, al singolo. Si deve, insomma, tornare all'origine del mestiere.Alla sensibilità e alla capacità di chi firma il pezzo, tanto per chiarirci. Ce ne siamo accorti recentemente guardando i servizi che Tony Capuozzo ha fatto per Terra,la "sua" trasmissione,in occasione del terremoto d'Abruzzo. Senza plastici e moralismi. Ce lo troviamo davanti con l'immancabile sigaretta in bocca e la faccia di chi ne ha viste tante. E ce lo ricordiamo in tenuta da combattimento - scarpe comode e pantaloni con le tasche per il taccuino quando dall'Abruzzo ci fece scoprire le storie nascoste e lontano dagli sguardi indiscreti di chi cercava le dichiarazioni delle persone che aspettavano di veder estrarre i corpi dei propri cari dalle macerie, così come lontano da chi seguiva pedissequamente le autorità - si fa per dire - in servizio permanente effettivo d'immagine. Giunti sul posto in elicottero e in elicottero tornati presto a casa. Roba vista e rivista sulle decine e decine di trasmissioni di quei giorni. Tranne che in quella condotta da Capuozzo. Che consiglio dai a un giornalista che debba partire per andare a vedere e raccontare una esperienza del genere? Consiglio lentezza. Prego? Sì. Lentezza. Consiglio di giocare una partita differente rispetto a quella che giocano per forza tutti gli altri.
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È impossibile, soprattutto inutile, seguire la notizia da prima pagina che coprono tutti. Se vai sul luogo e ti muovi lentamente, puoi andare al di là della notizia.Se hai tempo ancora meglio,ma non troppo. Non ne serve troppo. Soprattutto per un evento come il terremoto oppure se vai su un campo di guerra in un paese lontano, come l'Afghanistan. Che vuol dire “non ne serve troppo”? Quale il tempo giusto, allora? Il tempo giusto è quello che ti permette di rimanere distaccato, estraneo al luogo, come lo sei fino a un secondo prima di arrivare, ma allo stesso tempo, come un equilibrista, addentrarti nel luogo fino a un attimo prima rispetto al momento nel quale, di lì in poi, diverresti troppo interno al problema. Quando sei estraneo a qualcosa hai lo stato d’animo migliore per poterla giudicare. Se rimani in un posto una settimana puoi fare una inchiesta. Se rimani un mese puoi scrivere un libro. Ma se ci rimani un anno puoi solo stare zitto perché alla fine capisci che la realtà è molto più complessa di quello che pensi, ed è difficile a quel punto poter dire qualunque cosa, se non vuoi prendere in giro i tuoi lettori o spettatori. E come scegliere il taglio del pezzo? Ci si può svincolare dalla dinamica di schierarti se scegli argomenti altri, universali. Un giornalista di mestiere può fare qualsiasi cosa. Se ti commissionano un pezzo in cui "deve" venire fuori, che so, ad esempio, che Torino è una città morta, ebbene vai a Torino giri qualcosa e porti a casa il pezzo. Se poi ti commissionano un pezzo in cui “deve” venire fuori che invece Torino è una città che vive, che si muove, nella quale insomma c'è fermento, ebbene se ci sai fare tiri fuori anche quello. Lo stesso in Abruzzo. Se seguivi i politici e dicevi che in tenda andava tutto bene magari ti dicevano che eri filo governativo. Se invece andavi a investigare su cosa andava male finiva che ti dicevano che eri contro.Da questo non si scappa.Tranne che nel caso in cui vai, guardi, e racconti. Semplicemente. Ben sapendo che magari ti sfugge qualcosa. Ma almeno ciò che racconti è autentico. E per fare questo devi muoverti lentamente. Infatti è l'autenticità che ho trovato nei tuoi servizi dall'Abruzzo. Ma torniamo alla lentezza. Devi stare nel posto, non essendo del posto, e trovare storie che sorprendano te per primo. Per fare questo ti devi muovere nel posto senza correre.A correre sono gli altri che devono portare a casa il servizio il prima possibile. E per evitare di bucare la notizia che daranno tutti, non possono fare altro che correre dove corro-
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no tutti. Correndo, però, non puoi che perderti ciò che stai cercando. Ci fai qualche esempio? Onna l'hanno raccontata tutti, come era giusto che fosse. Come la casa dello studente e l'ospedale e altri luoghi caldi del posto. A me invece, tra le altre cose ha colpito il carcere. Sono stato nel carcere, un carcere particolare, dove ci sono anche dei nomi tanto per chiarire la Lioce, per esempio - e mi sono fatto raccontare come è stato vivere un terremoto al chiuso dietro le sbarre, senza possibilità di uscire. Poi allo stesso modo però ho parlato con i secondini, i quali non hanno potuto aprire le sbarre, senza un ordine preciso. E hanno aspettato e sperato che tutto finisse il prima possibile senza danni. A metà strada tra trasgredire la legge e fare uscire tutti oppure portarsi dietro un rimorso per la vita intera. Per completezza: i detenuti sono stati trasferiti tutti il giorno dopo. Quando le scosse più grandi, e quella principale e devastante, c'era già stata. Oppure nelle tende, certo. Gli anziani, i bambini, i senza casa. D'accordo. A me ha colpito la storia di due ragazzi, figli di un padre padrone, uno di quelli che li picchiava, li teneva rinchiusi, per essere precisi. Figli con seri problemi psicologici naturalmente. Ebbene: catapultati in tenda, insieme agli altri, con un padre impossibilitato a perpetrare la sua violenza su di loro. Ragazzi finalmente in contatto con gli altri, inseriti in questa nuovo tipo di vita. Ragazzi che ho trovato rinati alcune settimane dopo. Storia curiosa.Terremoto che uccide ma terremoto in questo caso che fa tornare a vivere. Ecco, per poter raccontare questo devi conquistarti la solitudine. La solitudine è una conquista? Sì. Perché quando sei solo, quando puoi raccontare storie di nicchia, significa che puoi prescindere dal mercato. Prescindere dal mercato oggi significa rinunciare alle grandi audience. Naturalmente prendendo questa decisione rinunci anche a tante altre cose... Però sei libero e puoi esercitare le basi del mestiere. Ovvero puoi cercare le storie. Puoi cercare meticolosamente - ed ecco la necessità della lentezza - le storie che veramente meritano qualcosa. Sono loro che devono parlare. Se conosci il tuo mestiere devi far parlare le storie.Tu sei solo un tramite. Dimentica prime pagine e prime serate e tutto quello che ne consegue - almeno nel mercato del giornalismo dei giorni nostri - però quando spegni la luce la sera sai che non hai tradito la fiducia dei tuoi lettori. E che non hai tradito te stesso e la tua professione.
Valerio Lo Monaco
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ANALISI
Attenti a quei due
Una grande alleanza geopolitica per affrancarsi dagli Usa. Non c’è bisogno di essere d’accordo su tutto. Basta aver capito che questo è il primo obiettivo
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di Alessia Lai
ono i principali esponenti di quello che lo stesso Chávez ha ironicamente e provocatoriamente definito “asse del male”. I presidenti venezuelano e iraniano sono lo spauracchio che Washington e alleati sventolano più spesso e con maggior veemenza quando vogliono descrivere i catastrofici scenari che si prospetterebbero se “i buoni” smettessero di governare il mondo. In molti parlano seriamente di un pericoloso filo diretto fra Caracas e Teheran. Un filo che lega gran parte dei Paesi latinoamericani, numerosi africani e centroasiatici fino a strizzare l’occhio all’emergente potenza cinese. Il mandatario venezuelano ha invece usato di recente il termine “asse del male” per sbeffeggiare chi ha indicato il suo tour che ha toccato Libia, Algeria, Siria, Iran, Bielorussia, Turkmenistan, Russia e Spagna come un inquietante tela nella quale rischiano di cadere numerosi Paesi non ancora totalmente assimilati alle (e dalle) “democrazie” occidentali. Ancora più drammatica è stata la descrizione delle sempre più profonde e proficue relazioni strette in particolare fra Teheran e Caracas: un nuovo “Patto d’acciaio” incombente sulle sorti del mondo “libero”. La tappa del viaggio di Chávez che più ha suscitato preoccupazione è stata infatti quella in Iran. Il legame sempre più stretto che unisce Chávez e Ahmadinejad è ciò che più crea scompiglio tra le
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La Statua della Libertà? Un’icona prefabbricata. Meglio guardare i leader in faccia.
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fila degli occidentalisti, perché è un rapporto non solo economico, tra due Paesi produttori di petrolio, ma una relazione che attraversa anche i piani ideologico e strategico. L’intesa tra la Repubblica Islamica e quella Bolivariana è stata definita dall’agenzia di stampa ufficiale iraniana Irna una “Alleanza tra due rivoluzioni” e l’impegno dei due Paesi, a “correre in aiuto alle nazioni rivoluzionarie e oppresse e sviluppare i fronti anti-imperialisti”, ufficializzato anche nell’ultimo incontro, è un obiettivo che non può certo far dormire sonni tranquilli a Washington e soci. L’entità delle intese stipulate nel recente incontro fra i due presidenti è notevole. Sono stati firmati numerosi accordi in altrettanti settori economici, da quello dell'energia al commercio, passando per la
Chávez l’ha appena ribadito: il Venezuela aiuterà l’Iran nel suo programma di energia atomica a uso civile, in quanto entrambi i Paesi hanno il diritto di dotarsene. sanità e il settore finanziario. Chávez ha inoltre sostenuto che la sua visita in Iran è servita a compiere un passo in avanti decisivo al progetto della banca bi-nazionale, avviato nello scorso mese di aprile ma che ancora non è diventato operativo. «Nei prossimi 30 giorni - ha spiegato il mandatario di Caracas - noi metteremo a disposizione 100 milioni di dollari.»
Insieme per il nucleare Chiaramente il settore chiave è quello energetico: Caracas invierà in Iran, tra i Paesi più ricchi di giacimenti di petrolio e gas ma con un’industria della raffinazione molto debole, ventimila barili di benzina al giorno; un accordo che irrobustisce quello già firmato nel 2007 e il cui scopo politico è evidentemente quello di aggirare le minacce rivolte a Teheran dalla comunità internazionale, che ha prospettato l’interruzione delle forniture di gasolio alla Repubblica islamica se questa deciderà di perseverare nel suo programma nucleare. Teheran ha inoltre ottenuto lo sfruttamento di una delle aree nella falda petrolifera dell'Orinoco
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attraverso un investimento congiunto di circa 1,4 miliardi di dollari. L'intesa energetica fra Caracas e Teheran vale, insomma, 800 milioni di dollari annui, che rimarranno depositati in un fondo in Iran e serviranno, ha spiegato il leader venezuelano, a finanziare l'acquisto di nuove tecnologie per il Paese persiano. Probabilmente tecnologie nucleari, visto che già da qualche mese il presidente Chávez ha espresso la volontà di dotare il Venezuela di un programma atomico destinato a scopi civili. Non a caso, già in passato e ancor più nell’ultimo incontro con Ahmadinejad, Chávez ha fortemente difeso il programma nucleare civile di Teheran. In una intervista a Le Figaro pubblicata il 9 settembre scorso, Chávez è tornato ad affermare che l’Iran aiuterà il Venezuela a sviluppare un programma per ottenere energia atomica per l’uso civile in quanto entrambi i Paesi hanno il diritto di dotarsene.
Disarmo? Sì, ma globale Commentando la sua visita a Teheran del 5 e 6 settembre, il presidente venezuelano ha ringraziato il suo omologo Ahmadinejad «per il trasferimento di tecnologia dell’Iran al Venezuela. Abbiamo sottoscritto un nuovo accordo la scorsa settimana a Teheran. L’Iran ha il diritto di sviluppare la sua energia nucleare, come fanno la Francia, numerosi altri Paesi e il Venezuela», ha detto il mandatario ribadendo la sua opposizione all’uso del nucleare per scopi militari. «Io parlo a nome del Venezuela e, per me, l’uso della bomba (atomica, ndr) sarebbe una catastrofe. Per questa ragione occorrerebbe andare verso un disarmo generalizzato.» Una dichiarazione che fa da sponda a quanto affermato da Teheran nel “pacchetto” di proposte recentemente consegnate al gruppo dei 5+1 (i Paesi membri permanenti dell’Onu più la Germania) per trovare una soluzione alle tensioni che contrappongono l’Iran alle nazioni occidentali riguardo al programma nucleare iraniano. Nel documento si parla infatti della necessità di un disarmo globale, e dell’istituzione di un “osservatorio” super partes che sovraintenda alle procedure utili ad eliminare gli arsenali atomici. «Se Europa e Usa sono inquieti, a mio avviso a torto, che siano coerenti e propongano un patto sotto
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il patrocinio dell’Onu per giungere all’eliminazione totale delle armi nucleari», ha – non a caso - aggiunto Chávez. Anche il nucleare, quindi, va ad unirsi alle numerose tematiche che accomunano i due Paesi: acerrimi nemici degli Usa e delle sue politiche imperialiste, produttori di petrolio e, altra peculiarità che li pone al centro delle critiche internazionali, fra i pochi Paesi che criticano apertamente la pulizia etnica israeliana in Palestina. Hugo Chávez lo ha fatto di recente e duramente, ritirando il proprio ambasciatore a Tel Aviv durante l’operazione “Piombo fuso” contro la Striscia di Gaza. E lo ha fatto senza che qualcuno, come invece accade per Teheran, potesse ascrivere il suo gesto al tanto sbandierato “scontro di civiltà”. Nelle già citata intervista a Le Figaro, Chávez è tornato a criticare senza mezzi termini Israele, accusando Tel Aviv di compiere un genocidio nei confronti dei palestinesi. «Non è che Israele voglia sterminare i palestinesi. Lo fa apertamente. Di che cosa si tratta, se non di un genocidio?». Ma poco prima, alla mostra del cinema di Venezia, aveva ribadito la sua posizione assolutamente non viziata da pregiudizi razziali o religiosi: «Non mi piace Israele per la sua politica, ma amo invece il popolo israeliano».
Liberarsi dall’Fmi Teheran e Caracas, la loro comune visione del mondo, la loro capacità di andare oltre le evidenti differenze di impostazione politica - una è una Repubblica confessionale, l’altra è laica e socialista – rappresentano la sfida che il mondo “democratico” non riesce a vincere. I rapporti consolidati tra Nord e Sud del mondo, le politiche di assoggettamento mascherate da “intervento umanita-
Il Sud del mondo si sta unendo al di là delle differenze etniche e religiose, per rappresentare un’alternativa al mondo unipolare dominato da Washington e dai potentati finanziari sovranazionali. rio”, da “prestiti per lo sviluppo”, presupponevano – e ancora purtroppo lo fanno – rapporti squilibrati fra Stati potenti e Stati deboli e sottomessi, e magari ricchi di materie prime e risorse energetiche. Oggi il Sud del mondo, al quale Iran e Venezuela appartengono perché lì cacciati dalle politiche ostracizzanti e dominatrici degli Stati Uniti d’America, si sta unendo al di là delle differen-
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ze etniche e religiose per rappresentare un’alternativa al mondo unipolare finora dominato da Washington. Non ci sono più solo i prestiti del Fmi o della Banca Mondiale ma banche bi-nazionali, come quella in dirittura d’arrivo iranovenezuelana, e accordi commerciali ed economici che impediscono alle grandi multinazionali di continuare a predare risorse naturali e umane. È “fisiologico” che chi si oppone ad un comune nemico trovi dei punti di contatto (Ahmadinejad, nell’ultimo incontro con Chávez ha inoltre condannato la presenza di truppe statunitensi in America Latina, riferendosi chiaramente al recente, controverso, accordo militare tra Colombia e Usa). Ma quel che è cambiato è che se fino a poco tempo fa chi si opponeva all’impero lo faceva in modo autonomo, disarticolato da un progetto globale, oggi è possibile un coordinamento fra Paesi che, tra l’altro, hanno un considerevole peso economico.
Oltre l’America Latina Fondamentale è la nuova stagione latinoamericana, l’unità d’intenti manifestata negli ultimi anni dall’America Latina ne ha fatto una vera e propria potenza ormai in gran parte affrancata dalla storica sottomissione agli Usa. Come ha fatto notare Hussein Majdoubi, in un articolo pubblicato dal quotidiano panarabo Al Quds al Arabi il 6 febbraio scorso (vedi nota a fine testo), i Paesi latinoamericani, e in particolare il Venezuela e il Brasile, desideravano creare un’alleanza politica internazionale con i Paesi arabi, ma di fronte alla loro inconcludenza, dovuta alle forti divisioni interne e alla sudditanza di molti di essi nei confronti di Washington, «ha scoperto un partner ideale nell’Iran, il quale cercava di aprire nuovi orizzonti alla sua influenza di Paese emergente, diventando così uno dei nuovi interlocutori di questa regione a livello politico, economico, e di sicurezza.» L’Iran è una potenza regionale importante, un grande Paese con una popolazione giovane e risorse considerevoli che, come l’America Latina, punta a porsi come interlocutore a livello internazionale rifiutando il ruolo sottomesso al quale gli Usa vorrebbero relegarlo. I tempi dello scià sono lontani e l’emergere di una potenza come quella latinoamericana, accanto all’ombra del colosso cinese, si uniscono agli scricchiolii che ormai si sentono alla base – economica e politica - dell’Impero nordamericano. Qualche anno fa i Paesi dell’America Latina seguivano le indicazioni statunitensi nella gestione della loro politica estera ed economica. Oggi il “cortile di casa” è diventato un edificio indipendente. Il continente latinoamericano propone un mondo multipolare in cui i rapporti tra nazioni sono simmetrici e reciproci, non più improntati al paternalismo da padre-padrone che
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Washington imponeva a più di mezzo mondo. Una nuova visione dei rapporti internazionali che l’Iran condivide pienamente. È un sodalizio all’insegna del protagonismo, quello fra Caracas e Teheran. Quanto basta a far tremare i polsi a Washington e alleati. Alessia Lai L’Iran prende il posto del mondo arabo in America Latina - di Hussein Majdoubi su Al Quds al Arabi, 6 febbraio 2009: “A seguito dell’indecisione mostrata da alcuni Paesi arabi di fronte alla possibilità di organizzare il vertice, al loro scarso entusiasmo nel promuovere la cooperazione bilaterale, e alla marginalizzazione dei rapporti con l’America Latina da parte della Lega Araba, i Paesi latinoamericani sono giunti alle seguenti conclusioni: 1) I popoli arabi aspirano a coordinarsi con l’America Latina e con tutti quei blocchi che invitano al rispetto della legalità internazionale e che si oppongono all’arroganza americana, tanto più che l’opinione pubblica araba è ammirata dagli sviluppi in atto in questa regione, e soprattutto da quelli legati alla sfida in corso con Washington. Tuttavia i leader dei Paesi arabi non sono all’altezza delle aspettative dei loro popoli. 2) I leader arabi non sono indipendenti nelle loro decisioni politiche. Dopo il vertice del maggio 2005, i giornali latinoamericani scrissero che Washington aveva esercitato pressioni nei confronti di alcuni Paesi arabi affinché il vertice non si chiudesse con un comunicato dai toni aspri nei confronti degli Stati Uniti. Secondo questi giornali, Washington aveva consigliato i Paesi arabi di evitare in futuro di rafforzare il coordinamento politico con l’America Latina. 3) Il mondo arabo manca di un Paese guida in grado di gettare le basi di un piano strategico che permetta alla regione di avere un peso nel panorama mondiale, al contrario di quanto avviene attualmente in America Latina (…) L’Iran ha compreso la delusione dell’America Latina nei confronti del mondo arabo e si è offerto come alternativa, visto che esso possiede molte caratteristiche che glielo permettono, e condivide con l’America Latina la visione strategica di un futuro caratterizzato da un mondo multipolare, da una presenza importante dei Paesi del Sud nel panorama geopolitico mondiale, e da una politica di opposizione nei confronti degli Stati Uniti d’America”.
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MUSICA
Lassù sulle montagne Si chiama “I suoni delle Dolomiti”. Va avanti dal 1994 e si rinnova ogni estate, a cavallo tra luglio e agosto. Spettacoli all’aperto, con una formula bella e insolita
P
di Federico Zamboni
uoi andarci più o meno come al solito, come se il fatto che le diverse manifestazioni si svolgano all’aperto e nello splendido contesto delle Dolomiti non sia altro che un’ambientazione inaspettata. Non ti vogliono obbligare: se proprio non puoi, o non vuoi, fare qualcosa di meglio (di più impegnativo, di più gratificante) puoi comunque raggiungere il luogo convenuto comportandoti all’incirca come se si trattasse di un qualsiasi spettacolo che si svolge in città. Arrivi con quel tanto di anticipo che serve a trovarti una buona sistemazione, sempre che gli organizzatori ti abbiano lasciato l’opportunità di scegliere e non ti abbiano vincolato a priori alla tale fila e al tale posto, e cerchi di farlo nel modo più comodo possibile. Il tragitto come un’incombenza. Una delle tante di cui è fatta la vita quotidiana, anche quando non si sta andando al lavoro o sbrigando una delle innumerevoli attività di routine alla quale ci si sottomette soltanto perché non c’è verso di evitarlo. Oppure puoi fare quello che ti consigliano loro. Puoi mettere da parte ogni residua pigrizia e ogni stramaledetta abitudine – due facce della stessa moneta, a guardare bene – e attenerti al programma completo. Prima la marcia di avvicinamento e poi il concerto. Raduno con congruo anticipo e camminata di gruppo. Artisti e pubblico che vanno su tutti insieme, come una qualsiasi comitiva di escursionisti che si inoltra lungo i sentieri e che, in questa ritrovata essenzialità, riscopre il piacere di una vicinanza reciproca che è allo stes-
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so tempo silenziosa e cordiale, sobria e generosa, concentrata sulle proprie sensazioni individuali e aperta a ogni genere di condivisione sia materiale che psicologica – o spirituale. Ogni elemento di diversità è accantonato, se non proprio superato in via definitiva. Non importa che tipo di lavoro fai giù a valle. Non importa se guadagni tanto o poco. Se sei famoso oppure no. Qui in montagna conta solo che tu abbia gambe abbastanza buone per andare e occhi abbastanza buoni per vedere. Gambe che non mollano al primo accenno di stanchezza. Occhi che vagliano, e riconoscono, il punto giusto da cui passare. Benvenuto, amico. Il solo fatto che tu sia qui, invece di impigrirti davanti a un televisore e di scansare accuratamente ogni sorta di sforzo, è il segno che non hai dimenticato, quanto meno non del tutto, che il fine ultimo dell’esistenza non è il massimo comfort e l’assenza di qualsiasi imprevisto. Al contrario: è in fondo a un po’ di sana fatica – tanto meglio se condivisa con qualcun altro della stessa tempra – che si gode appieno di quel che si è ottenuto in cambio del proprio tempo e della propria attenzione.
Altri suoni, altri ritmi Come si legge nella brochure di presentazione, che potete scaricare dal sito dell’iniziativa (innamorandovi all’istante delle immagini che affiancano, e integrano, il dettagliatissimo programma artistico),“La formula prevede un’escursione a piedi dal fondovalle fino a
Camminare non solo per spostarsi nello spazio ma per prepararsi a quello che si vivrà in seguito, quando gli artisti sprigioneranno il magico ‘sovrappiù’ della musica. radure e conche nei pressi dei rifugi, teatri naturali in cui la musica viene proposta in piena sintonia con l’ambiente circostante. Agli appuntamenti del primo pomeriggio si sono aggiunte nel tempo le suggestioni dell’alba. Quasi un festival nel festival che propone l’incontro con artisti, attori, uomini di cultura che, nelle atmosfere uniche del sorgere del sole in alta montagna, danno vita a spettacoli, recital, monologhi.” Camminare, dunque, non solo per spostarsi nello spa-
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zio ma anche per prepararsi a quello che si vivrà in seguito, quando gli artisti sprigioneranno quel loro particolare sovrappiù, misterioso e benedetto, di attrazione e di intensità. Camminare con calma e consapevolezza, al passo costante e fluido di ogni buon montanaro, per dare modo alle scorie mentali di disgregarsi e, possibilmente, di disperdersi. Fare un po’ di spazio, un po’ di pulizia, per evitare che le cose migliori finiscano accatastate su quelle peggiori. Col rischio di confondersi. Col rischio di sporcarsi. Col rischio di diventare, invece di un terreno fertile che potremo coltivare a lungo, nulla di più che uno stato superficiale di emozioni che si vanno ad aggiungere, senza riuscire a rimuoverle o a rigenerarle, alle mille incrostazioni causate dalla noia e dallo stress. «Sulle Dolomiti – afferma Mario Brunello, violoncellista di fama e habitué della manifestazione – c’è il pubblico più ricettivo al mondo. Incontrare queste persone e suonare per loro è forse la cosa più bella che mi sia capitata di fare». L’arte, evidentemente, che viene esaltata da una maggiore capacità di ascolto, attivata da ciò che si è vissuto poco prima che il concerto iniziasse. L’armonia e la bellezza dei suoni che si innalzano sulla base, solida e levigata, di percezioni rese più acute dall’armonia e dalla bellezza dei luoghi che si sono appena attraversati e di quelli nei quali si è giunti. La musica che torna a essere sorpresa e scoperta, incanto e rivelazione, dono irripetibile di un particolare momento della propria vita. «Mi piacerebbe – dice ancora Brunello – che l’ascolto della musica di Bach in questi ambienti non fosse solo suggestione, che non è quello che cerco. La cosa più interessante è che i musicisti e i fruitori hanno vissuto un’esperienza comune, che non è di suggestione ma che si può riassumere con l’amore per la montagna.»
Non solo uno show “Un’esperienza comune” è esattamente ciò che manca, di regola, tra l’artista che si esibisce e il pubblico che è venuto a vederlo. Gli spettatori, e specialmente i fan, si illudono che non sia così: pensano che la distanza che li separa dai loro beniamini dipenda soltanto, o più che altro, da ragioni pratiche. Loro, le star, vivono altrove. O comunque all’interno di mondi lontani, riservati e pressoché inaccessibili. Si sa. Si capisce. Eppure, benché quella distanza sia destinata a restare incolmabile, non viene ritenuta tale da deter-
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minare una vera e propria separatezza. I fan amano le star, anche se non hanno nessuna possibilità di frequentarle. Le star amano i fan, anche se non hanno nessuna intenzione di frequentarli. E magari c’è del vero: magari anche gli artisti, se nel frattempo non si sono trasformati in cinici sfruttatori del proprio talento, pensano in buona fede che il legame col proprio pubblico scaturisca da affinità profonde. Ma non stiamo parlando di questo.“Un’esperienza comune”
L’ammirazione per il grande artista è sacrosanta. La sua degenerazione in divismo non lo è affatto. Avvertire il fascino di un grande show è naturale. Sprofondare nella finzione è alienante. è qualcosa di molto più specifico. È uno spostamento deliberato dalla scena (dalla messinscena) alla vita reale. È un ponte gettato tra i due ambiti, che non possono mai coincidere totalmente ma che nemmeno dovrebbero essere così scissi, e persino antitetici, come accade nella nostra società contemporanea, in cui l’arte viene ridotta a merce e l’artista a venditore-imbonitore di se stesso. L’idea di fare qualcosa insieme, fosse pure una semplice camminata tra i monti per raggiungere il luogo del concerto, è un piccolo ma importante tentativo di ristabilire una linea di continuità tra due dimensioni, e tra due categorie di persone, che si sono allontanate in misura eccessiva. L’ammirazione per il grande artista è sacrosanta. La sua degenerazione in divismo non lo è affatto. Restare affascinati da un grande show è naturale. Restare imprigionati nella finzione è alienante. Quando Brunello afferma che la vera chiave di volta di questa iniziativa non è nella suggestione innescata dai concerti, e dagli splendidi scenari naturali in cui hanno luogo, ma nella condivisione di qualcosa «che si può riassumere con l’amore per la montagna», coglie benissimo il nocciolo della questione. L’esperienza artistica dovrebbe svolgersi su un piano che, per quanto distinto e in qualche modo più elevato rispetto alla vita quotidiana, rimane comunque contiguo alla realtà. Non stiamo scappando per una fuga più o meno breve. Non ci stiamo distraendo in attesa di tornare alle solite cose. Stiamo alzando gli occhi per guardare più lontano. E per serbare buona memoria di ciò che abbiamo visto. Federico Zamboni
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ANALISI
Last orders
for the “Nonick”!
Nello stesso mondo in cui vengono sbandierate e portate avanti anche con la forza le libertà individuali non siamo più padroni neanche di bere una pinta di birra in santa pace, come tradizione comanda. Ora vogliono introdurre i bicchieri di plastica. Dobbiamo dire addio al Terzo Tempo?
L’
di Marzio Pagani
estate scorsa il Ministero degli interni britannico ha manifestato l’intenzione di vietare nei pub la tradizionale pinta in vetro “Nonick” - a fronte di qualcosa in plastica - per contrastare l’elevato numero di aggressioni in cui viene usata come arma impropria, con la conseguente alta incidenza sulle spese per il servizio sanitario nazionale ed il sistema giudiziario. 5.500 aggressioni nell’ultimo anno non sono una cifra trascurabile, però, a fronte di 126 milioni di pinte servite nello stesso periodo il numero di quelle usate come arma è percentualmente marginale. Non trascurabile certo, ma da qui a trovarsi di fronte al solito “allarmante fenomeno sociale” da reprimere a costo di coinvolgere i bevitori tranquilli, che restano, cifre alla mano, la stragrande maggioranza nei pub, ce ne passa. Ce ne dovrebbe passare. Questo (forse) perché si possono reprimere solo i “fenomeni sociali”, non le responsabilità individuali, in coerenza con un certo retaggio degli anni 60/70 in cui nessuno è colpevole, solo la società è colpevole. Con il corolla-
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rio, evidente, che è stato sradicato il concetto di responsabilità personale. Così chi rompe un bicchiere per usarlo come arma è una vittima che va tutelata, mentre chi lo usa per bere deve essere colpevolizzato e punito. Una delle motivazioni addotte è la crisi dello stato sociale ed i suoi costi sempre meno sostenibili: le aggressioni, oltre che sul sistema giudiziario, incidono anche sulla sanità pubblica. Indubbio, però il bicchiere di plastica porterebbe una disaffezione verso i pub (immaginatevi se da noi fosse vietato il caffé in tazzina o al vetro), un settore già in
Non è tanto questione di occupazione o lobby dei produttori della plastica finché il petrolio sarà esaurito. Vietare la pinta di vetro è quasi un attentato sociale. netta crisi nel Regno Unito. Il rateo di chiusura dei pub tradizionali, infatti, nei primi sei mesi del 2009 è stato di 52 a settimana, un terzo in più che nello stesso periodo del 2008, anno in cui hanno chiuso 2377 pub con un costo occupazionale stimato in 24.000 unità. Anche, e soprattutto, la disoccupazione ha un costo economico. E questo per tacere del dramma personale, che si riflette non solo sul costo degli ammortizzatori sociali, ma, anche, sulle mancate entrate erariali che sono il primo sostegno della sanità pubblica. Non sarebbe quindi più logico sostenere i pub anziché penalizzarli, in considerazione anche del ruolo che le “public house” svolgono nella comunità? È provato, infatti, il ruolo di sostegno che rivestono sia per attività di volontariato che per il sostegno ad esempio delle associazioni sportive locali, giovanili e non. Il pub è in tante culture uno degli architrave del vivere sociale. La criminalizzazione del bere, sempre più diffusa in Europa, oltre che a colpire stili di vita e di aggregazione tradizionali, fortemente radicati nella nostra identità culturale, rischia di comportare anche serie ripercussioni economiche, più onerose, probabilmente, di quelle addotte per giustificare le iniziative intraprese per arginare il “pericoloso fenomeno”. Un pericoloso, dilagante fenomeno che affligge il nostro continente da sempre, ma che storicamente non sembra averne compromesso lo sviluppo nella sua millenaria storia. O no? L’attuale stato confusionale dell’identità europea risiede altrove. Infatti. Ma non si perde occasione di sparare a caso, tanto per fare rumore. La crociata del ministero degli interni tocca, poi, il ridicolo
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quando i consumatori e i gestori vengono rassicurati che è allo studio un nuovo oggetto di design che sostituirà il vecchio “Nonick” senza farlo rimpiangere, e che, stando alle parole del ministro Alan Campell, “il design innovativo ha svolto un ruolo importante nella diminuzione della criminalità”. Asserzione abbastanza strampalata e suffragata da non si sa quali dati. Il design è sicuramente un business da
Ministri e ministeri, come spesso accade, “aprono bocca e gli danno fiato”, smantellando pezzo a pezzo usi e tradizioni del vivere comune. È (anche) in queste piccole cose che il deserto avanza. valorizzare - vero? - il business della forma su quello della sostanza. Tanto per cambiare. Ci sarebbe da piangere se non la si prendesse a ridere bevendo una pinta. Già, perché, per quanto il design potrà essere innovativo e trendy, il gusto della birra non sarà più lo stesso, e anche se si sarà risolto il problema della criminalità da pub, che forse non è il maggior problema per l’ordine pubblico del Regno Unito, questo si trasferirà altrove. Come d’abitudine, si è colpito un sintomo di disagio sociale senza però andare ad individuarne le radici, senza verificare se altre potevano essere le soluzioni, limitandosi a concertare una buona campagna stampa capace solo di nascondere sotto il tappeto la vera essenza dei problemi. Resta ancora una domanda aperta: a fronte di un materiale ecologico e riciclabile come il vetro, quale sarà il costo ambientale di tanta plastica? Quanto costeranno gli studi, se ci saranno, sulla tossicità eventuale del nuovo materiale? Siamo certi avranno un’incidenza sulla salute pubblica inferiore ai punti di sutura che, a quando ci raccontano, rischiano di mandare in crisi il sistema sanitario inglese?
Marzio Pagani
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CINEMA
Armenia,
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un viaggio negato
Una storia che si sviluppa in una realtà specifica e lontana. Ma la sua essenza ci riguarda direttamente, perché anche noi stiamo perdendo la nostra identità
di Ferdinando Menconi
l film francese Le voyage en Armenie di Robert Guediguian, regista dalle chiare origini armene, ha avuto in Italia una brevissima apparizione nelle sale durante la prima Festa del Cinema di Roma, poi però non ha mai avuto distribuzione. Il “viaggio” è stato negato. Eppure durante la rassegna non era passato inosservato, infatti la protagonista, Ariane Ascaride, era stata proclamata migliore attrice della manifestazione. Nonostante ciò il film non ha mai potuto raggiungere il pubblico nelle nostre sale. Certo non è un blockbuster hollywoodiano destinato a sbancare al botteghino, però esistono anche spazi per prodotti destinati ad un pubblico sofisticato, o presunto tale, e il film non difetta certo di valore artistico, al contrario di molte produzioni intellettualoidi che riscuotono ampio ingiustificato credito negli ambienti sedicenti colti. Eppure il film non ha trovato spazio, neppure come prodotto di nicchia. Ad aver ostacolato il film non è stato solo il fatto di toccare il tema dell’Armenia, la terra del genocidio negato - che è indub-
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L’Ararat, simbolo della nazione armena, accompagna la sofferta riscoperta della protagonista
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biamente scomodo in questo momento in cui è in corso il tentativo di far entrare la Turchia, e le sue aziende delocalizzate, in Europa. I temi scomodi, del resto, non dovrebbero essere un freno per un film destinato ad un pubblico selezionato, anzi. Il problema consiste allora nel fatto che il film può essere interpretato non solo in chiave armena. Sono, infatti, altre le chiavi di lettura che possono disturbare i palati raffinati degli ambienti intellettuali del nostro Paese, e non solo, presenti in questa pellicola. Tre le tante, una figlia - affermato cardiochirurgo francese - che inseguendo il padre dal cuore malato, tornato a morire nella sua Armenia dopo aver rifiutato di sottoporsi al
A risultare indigesto è già come viene tratteggiata la protagonista, un’affermata professionista che appartiene a quella che oltralpe viene chiamata “gauche caviar”, necessario intervento, riscopre le sue radici e con queste la sua identità, non solo personale ma anche etnica. Riscoperta di identità, per di più in chiave etnica, oggi viene considerata quasi un sacrilegio. A risultare indigesto, infatti, è già come viene tratteggiata la protagonista, affermata professionista che appartiene a quella che oltralpe viene chiamata “gauche caviar”, di cui vive tutti i pregiudizi e le contraddizioni, che sono comuni a quella che da noi può tranquillamente essere chiamata sinistra cachemire, e che quindi non avrebbe mai potuto apprezzare di vedersi criticata senza ipocrisie. In questo senso risulta immediatamente fastidiosa la battuta di un arricchito armeno, trafficante di farmaci che, non capendo come sia lei che il marito, imprenditore, possano essere stati comunisti, dichiara: «se avessi avuto i soldi anch’io avrei voluto essere comunista». Oltre a queste critiche, disseminate qua e là, ad un certo, ipocrita, modo di essere di sinistra, c’è dunque il tema portante del film: la riscoperta dell’importanza delle radici, dell’identità. Identità
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in cui la donna non crede e che, anzi, rifiuta al punto di non rispondere al cognome armeno del padre, e suo, pretendendo di essere chiamata con quello francese del marito. Quello identitario è un tema ostico per l’intellighenzia nazionale che lo respinge acriticamente, e nel film il richiamo è incombente come l’immagine dell’Ararat, montagna simbolo dell’Armenia ed oggi entro i confini turchi, presenza costante nelle inquadrature del film. La ricerca dell’identità, non è però circoscritta alla sola protagonista. Il viaggio è attraverso un’Armenia piena di contraddizioni, forse non così dissimile dall’Italia del secondo dopoguerra: una civiltà antica in uno Stato giovane che deve uscire dal disastro causato dal postcomunismo e trovare se stessa. Questo viaggio è abilmente scandito nel rapporto fra il vecchio autista che accompagna la francese per le vie di Erevan fino a farla riscoprire armena e a far scoprire a noi l’Armenia contemporanea, sospesa fra radici e ricerca dell’occidente.
I richiami all’identità sono continui. Dal volto della protagonista, che non può nascondere le sue origini, ai luoghi simbolo dell’Armenia. Il personaggio simbolo di queste contraddizioni è rappresentato da una giovane shampista, che di notte lavora da spogliarellista per mantenere la famiglia e pagarsi la fuga in Francia, là dove il mondo è sicuramente migliore di un’Armenia che lei stessa rifiuta, al pari del medico francese. Un’Armenia che saprà riscoprire però, accompagnando la francese in una parte del viaggio, oltre Erevan, quando incontrerà gente che ha combattuto, sui confini e nel Nagorno Karabakh, per darle una nazione libera dove poter vivere. Concetti nazionalistici che è difficile accettare siano veicolati in un film, specie se la ragazza viene riconosciuta dai reduci come una “vera armena” mentre impara a sparare con il kalashnikov gridando “viva la patria!”. Anche il volontariato umanitario internazionale è
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esposto in una chiave non conforme ai canoni del pensiero buonista. Il medico, francese anche egli, che gestisce il dispensario di farmaci frutto degli aiuti internazionali, interrogato sul perché sia lì e non altrove risponde che la discriminante è stata il suo cognome, Melkonian: la sua non è quindi una scelta genericamente umanitaria, ma identitaria, e questo non è gradito al pensiero unico dominante. Interessante è poi come Guediguian, al rifiuto delle radici della protagonista, dovuto anche al complesso rapporto col padre, contrapponga il rapporto fra la figlia di
La ricerca della propria identità attraverso la musica tradizionale è un fenomeno che sta trovando nuova linfa in ampi strati delle nuove generazioni, anche da noi. lei e il nonno. Un rapporto privilegiato, come spesso è quello fra nonni e nipoti, di affetto, ma non solo, in cui alle conflittualità psicanalitiche si sostituiscono il desiderio di trasmettere la propria identità culturale e familiare da una parte e quello di riceverla dall’altra. Non è un caso che il film si apra proprio con le immagini della nipote che studia danza tradizionale all’ombra di un Ararat di scenografia. La via della ricerca (anche inconscia) della propria identità attraverso la musica tradizionale è un fenomeno che sta trovando nuova linfa in ampi strati delle nuove generazioni anche da noi, dopo il rifiuto degli anni 70/80, in contrapposizione con la musica priva di spessore stile MTV. Contrapposizione musicale che non sfugge al regista il quale, infatti, nel suo “viaggio”, usa un’alternanza fra motivi tradizionali e motivetti pop autarchici per rilevare le contraddizioni della nuova Armenia. Contraddizioni che non sono, però, una sua esclusiva peculiare. I richiami all’identità, all’inevitabilità dell’identità, sono continui. Dalle considerazioni sul volto della protagonista, che non può permetterle di nascondere le sue origini, ai luoghi simbolo dell’Armenia. Luoghi cui “non si può negare di appartenere”, luoghi che non esistono solo in Armenia, luoghi che chiunque può avere e sentire se non ha soffocato la voce dell’anima. Luoghi in cui, come la protagonista, si può dire “ho l’impressione di aver vissuto qui in un’altra vita”. E anche il “genio” che accompagna la protagonista
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nella sua riscoperta etnica è poco digeribile per l’intellighenzia italiana. Yervanth è un eroe di guerra, un patriota che viene però da Marsiglia, dove l’attenderebbe l’ergastolo, perché in Europa è stato un “terrorista” in un’epoca in cui “soprattutto non bisognava dare idee a
Il film è una ‘inaccettabile’ sinfonia di amore del regista verso la sua terra e le sue origini. A ognuno il compito di rimodulare le istanze del film in base alla propria realtà. chi non ne aveva”. Non è che i tempi siano però molto cambiati. Yervanth è colui “che decide ciò che è bene e ciò che è male”, e che quando deve insultare il trafficante di medicinali lo fa dicendogli “non tutti possono essere come te, nati in Turchia”, e l’insulto etnico per quanto motivato da un genocidio, non è accettabile nelle sale, specie se indirizzato alla Turchia. Il film è una inaccettabile sinfonia di amore del regista verso la sua terra, le sue origini, che, però ognuno può modulare pensando alle proprie. Basta sostituire all’Ararat la propria montagna o il proprio mare, e modificare le parole del toccante monologo del vecchio autista che chiude il film guardando l’Ararat oltre il confine e, fra tutti, gli “I have a dream” che ci vengono propinati, condividere quello semplice del vecchio che desidera solo sedersi, e “fumare una sigaretta su una terra ridivenuta propria”. Ferdinando Menconi
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LA VOCE DEL RIBELLE - ANNO 1: servizio arretrati BANCHE: Americrack Intervista Elio Lannutti: “Draghi? In tribunale!”
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Chiave di lettura: tra USA e Russia manca l’Europa ULTRAS: tutta una montatura? Culture: la Tigre celtica dice NO
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Altra economia: non si vive di solo pane
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Inchiesta ABRUZZO: macerie polverizzate per distruggere le prove
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Vasco: il massimo è non andare al massimo
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parol e avvel e nate Tecnologia amica
U
na delle più grandi invenzioni dell'uomo è il sifone. Il meccanismo idraulico a forma di "U" permette, una volta scaricata l'acqua dello sciacquone, non solo di rimuovere e togliere alla vista la merda, ma soprattutto di eliminare il fetore. Attraverso l'acqua che rimane a metà tra la tazza e le tubature ovvero, appunto, nel sifone - si evita che un reflusso di odore salga dalle fognature e arrivi a infestare la casa. Eliminare la cacca, infatti, servirebbe a poco se poi non si potesse eliminare anche il cattivo odore. Oggi è al sifone che dobbiamo dunque la possibilità di evitare che risalgano i fetori di ciò che si è buttato nel cesso. Ma oggi molto spesso i sifoni non funzionano troppo bene. A nulla vale scaricare Mastella se poi ce lo ritroviamo di nuovo davanti. A nulla vale buttare le pagine dei giornali che hanno parlato della D'Addario se poi ritorna su per il tappeto rosso del festival del cinema. A poco serve veder far fuori un direttore di giornale se poi lo troviamo nel giornale di fianco. Per non parlare di chi fino a ieri ci raccontava la bontà del libero mercato e oggi ritorna in giro a parlarci di protezionismo e nazionalizzazioni di banche pro-tempore. Giusto il tempo di rimetterle in sesto coi nostri soldi e poi vederle di nuovo privatizzate per riprendere a succhiarci il sangue. A nulla vale aver mandato affanculo il direttore di banca che ci aveva consigliato quell'investimento sicuro che ci ha messo sul lastrico se poi lo stesso ritorna per venderci una assicurazione contro la bancarotta. A poco o nulla serve cambiare strada se poi tutte le strade portano a Roma. Così come a poco serve aver mandato Emilio Fede sul satellite se poi per forza tutti quanti sono costretti ad andarci.A nulla serve inoltre non guardare più un programma in tv se l'ospite di prima ce lo ritroviamo dopo a reti unificate da un'altra parte.A veramente poco serve mettere sotto processo l'Impregilo da una parte se poi gli si lascia costruire da un'altra parte. Così come a nulla serve mandare a casa chi governa oggi se poi torna a governare quello che avevamo mandato via ieri. A nulla serve fare nulla, insomma, se non ci assicuriamo che il sifoni funzioni, che le scelte siano definitive e che in altre parole ci abituiamo a camminare davvero e sempre rasente i muri. Un sifone difettoso va pertanto tempestivamente riparato. Oppure si dovrà cambiare tazza, chi può. In ogni caso, chi esce per ultimo, per favore si ricordi di tirare la catena. Steppenwolf
Ci occuperemo invece di...: il business dei rifiuti tossici il Nuovo Ordine Mondiale per sostituire il Dollaro la ripresa impossibile: i perché il ritorno del comunitarismo e del bioregionalismo gli Ogm: problema “quasi” dimenticato cosa è importante cercare per la propria informazione
di Alessio Di Mauro